Introduzione

PRESENTAZIONE

La Rassegna della giurisprudenza civile della Corte di cassazione, redatta dai magistrati da ultimo assegnati all'Ufficio del Massimario e del Ruolo a seguito della recente modifica dell'art. 115 dell'ordinamento giudiziario con la previsione di magistrati destinati a questo Ufficio con compiti di assistenti di studio, ha ad oggetto la produzione giurisprudenziale della Corte nello scorso anno (2014) .

La Rassegna si compone di due parti, come già quella per il 2013, dedicate rispettivamente ai profili sostanziali e a quelli processuali; l'architettura in capitoli e sommari è rimasta la stessa.

Parimenti la stessa non può che essere la premessa concettuale quanto alla sinergia tra "principi di diritto" espressi dalla giurisprudenza di legittimità e "massime" elaborate dall'Ufficio del Massimario: "principi di diritto" sono quelli enunciati dalla Corte nei suoi provvedimenti e che si nutrono del contesto motivazionale del provvedimento sia quando sono enunciati in chiusura della motivazione (ex art. 384 c.p .c .), sia quando si desumono dai passaggi argomentativi della stessa; "massime" di giurisprudenza invece sono quelle elaborate dall'Ufficio del Massimario come registrazione di tali principi in una forma enunciativa autosufficiente, tendenzialmente a modo di sillogismo .

È noto che i "principi di diritto" - e a maggior ragione le "massime" di giurisprudenza che li esprimono - non sono vincolanti per il giudice, come si desume in modo inequivocabile dal precetto costituzionale dell'art. 101, secondo comma, Cost . che afferma solennemente che i giudici sono soggetti soltanto alla legge; disposizione questa che va letta unitamente all'art. 107, terzo comma, Cost . che vuole che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Il principio dello stare decisis tipico degli ordinamenti di common law, nella misura in cui predica l'efficacia vincolante del precedente sulla base di una differenziazione gerarchica delle pronunce dei giudici, trova una preclusione insuperabile nei suddetti parametri costituzionali. I principi di diritto, nel nostro sistema ordinamentale, hanno invece una valenza persuasiva, in ragione dell'impianto argomentativo contenuto nella motivazione che li esprime.

A fronte della non vincolatività dei principi di diritto si pone però un'altra esigenza che pure ha rilievo costituzionale, quella della certezza del diritto quale proiezione del principio di eguaglianza posto dall'art . 3, primo comma, Cost . (Tutti i cittadini [...] sono uguali davanti alla legge [...]") .

La "legge" davanti alla quale i cittadini sono eguali si atteggia come insieme di norme di legge e di principi di diritto: le une e gli altri sono idonei a fornire al giudice la regola di giudizio per decidere il caso portato alla sua cognizione. Un'accentuata mutevolezza o relativizzazione dei principi di diritto, seppur rispettosa del principio di cui all'art. 101, secondo comma, Cost ., non realizzerebbe il principio di eguaglianza (art . 3, primo comma, Cost .), con il quale mal si concilia l'evenienza che due fattispecie analoghe siano decise in termini diversi .

Pur in un sistema in cui non opera il principio dello stare decisis, non di meno la circostanza che un principio di diritto risulti nel tempo ripetutamente espresso da massime di diritto vivente non è senza effetti. Un indirizzo costante e ripetuto negli anni comporta infatti la formazione di una situazione qualificata come di "diritto vivente", che esprime la norma di legge contestualizzata dai principi di diritto che ad essa afferiscono; situazione questa che crea affidamento nella stabilità del quadro normativo e nella certezza dei rapporti giuridici.

Sul piano generale dei principi regolatori dell'ordinamento, la tendenziale fedeltà ai precedenti giurisprudenziali che per la loro costante riaffermazione formano il "diritto vivente" rappresenta una proiezione del principio di eguaglianza e di certezza dei rapporti giuridici. Al contrario la mutevolezza ed imprevedibilità della giurisprudenza creano situazioni di diseguaglianza e ingenerano incertezza nei rapporti giuridici.

L'attività di massimazione delle pronunce della Corte di cassazione ad opera dell'Ufficio del Massimario si colloca in questo circuito virtuoso diretto a realizzare l'esigenza di certezza del diritto; attività complessa e delicata anche per il numero di pronunce da esaminare.

Nel 2014 le pronunce civili della Corte sono state 27 .567, da cui sono state estratte oltre 4 .000 massime, elaborate dai magistrati dell'Ufficio del Massimario.

Di un gran numero di esse si dà conto in questa Rassegna, con un rilievo particolare per la giurisprudenza delle Sezioni Unite, il cui ruolo è stato accentuato dalla riforma dell'art. 374 c.p .c . .

Questa breve presentazione non può non concludersi con doverosi ringraziamenti.

La Rassegna è opera dei magistrati dell'Ufficio del Massimario. È stata egregiamente coordinata dal collega dott . Giuseppe Fuochi Tinarelli. Ne sono autori i colleghi: Irene Ambrosi, Paolo Bernazzani, Dario Cavallari, Aldo Ceniccola, Paolo Di Marzio, Luigi Di Paola, Ileana Fedele, Giuseppe Fichera, Paolo Fraulini, Bruno Giordano, Luigi Giordano, Salvatore Leuzzi, Francesca Miglio, Roberto Mucci, Giuseppe Nicastro, Andrea Nocera, Andrea Penta, Renato Perinu, Raffaele Rossi, Salvatore Saija, Donatella Salari, Andrea Antonio Salemme, Paolo Spaziani, Cesare Trapuzzano .

Ha collaborato alla rifinitura dell'editing il personale addetto alla Cancelleria dell'Ufficio del Massimario.

A tutti va il più vivo ringraziamento per il loro contributo che ha reso possibile la realizzazione di un'opera collettanea qual è questa Rassegna della giurisprudenza civile della Corte di cassazione per l'anno 2014.

GIUSEPPE MARIA BERRUTI- GIOVANNI AMOROSO

PARTE PRIMA IL DIRITTO DELLE PERSONE, DELLA FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI

  • libertà di riunione
  • ordine pubblico
  • diritti sindacali
  • reddito
  • libertà sessuale
  • crimine contro l'Umanità
  • diritto all'istruzione
  • diritto dell'individuo
  • dati personali
  • integrazione dei disabili
  • diritto alla salute
  • diritto all'immagine

CAPITOLO I

PERSONE E ASSOCIAZIONI

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Principio di solidarietà e tutela della salute. - 3 La perdita del diritto alla vita come bene supremo della persona: la questione della risarcibilità iure haereditario del danno da morte immediata. - 4 Principio di ragionevolezza, interpretazione autentica e reddito di cittadinanza. - 5 L'ordine pubblico come principio di garanzia dei diritti inviolabili. - 6 Il diritto alla riservatezza e il trattamento dei dati personali. - 6.1 Dati cosiddetti "supersensibili" idonei a rivelare lo stato di salute e l'orientamento sessuale della persona. - 6.2 La risarcibilità del danno in caso di illegittimo trattamento di dati sensibili. - 6.3 Diritto alla riservatezza, tutela dell'immagine e diritto di cronaca. - 7 Attività iure imperii lesive di valori fondamentali della persona e crimini contro l'umanità. - 8 Disabili e diritto all'istruzione. - 9 Necessità della nomina di un amministratore di sostegno per la persona priva in tutto o in parte di autonomia. - 10 La libertà sindacale e il diritto di riunione. - 11 Il diritto alla reputazione come diritto inviolabile (anche) degli enti collettivi.

1. Premessa.

La tutela dei diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali continua a guidare l'opera nomofilattica della Corte di cassazione che, nel corso del 2014, ha fornito indicazioni rilevanti in diversi ambiti.

2. Principio di solidarietà e tutela della salute.

Il principio solidaristico sancito dall'art. 2 Cost. ha ispirato la pronuncia, Sez. L, n. 10876, Rv. 630921, est. Lorito, che in tema di menomazioni permanenti causate da vaccinazioni obbligatorie o da trasfusione di emoderivati, ha giudicato corretta la decisione dei giudici di merito i quali hanno ritenuto, alla luce dell'orientamento affermatosi a seguito della pronuncia della Corte cost. 6 febbraio 2009, n. 28, che l'indennizzo aggiuntivo di cui all'art. 1, comma 7, della legge 25 luglio 1997, n. 238, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, trova fondamento negli artt. 2 e 38 Cost. consistendo in una misura di sostegno economico fondata sulla solidarietà collettiva garantita ai cittadini, a fronte di eventi generanti una situazione di bisogno. In tal caso, la Corte ha chiarito che una pluralità di menomazioni, rendendo più penose le condizioni di vita del soggetto, ragionevolmente può giustificare un indennizzo ulteriore quale forma di adeguamento del maggior danno rispetto al soggetto colpito da una singola menomazione irreversibile.

3. La perdita del diritto alla vita come bene supremo della persona: la questione della risarcibilità iure haereditario del danno da morte immediata.

Con ordinanza, Sez. 3, n. 5056, est. Travaglino, è stata rimessa all'esame delle Sezioni Unite della Corte la soluzione di un contrasto di giurisprudenza insorto sul tema della "risarcibilità iure haereditario del danno da morte immediata".

L'ordinanza interlocutoria richiama la pronuncia Sez. 3, n. 1361, Rv. 629366, est. Scarano che, ponendosi in consapevole contrasto con l'orientamento consolidato della Corte, ha affermato che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita - bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile - è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno "biologico terminale" e di danno "catastrofale". Esso, pertanto, rileva ex se, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta "immediata" o "istantanea", senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l'intensità della sofferenza dalla stessa subita per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine.

La conclusione cui perviene la pronuncia in esame è nel senso che la "perdita della vita va ristorata a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte c.d. immediata o istantanea, senza che assumano pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento né il criterio dell'intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine"

Tale conclusione, tuttavia, si pone in consapevole contrasto con il pressoché unanime indirizzo della giurisprudenza di questa Corte. Essa ha, infatti, affermato - per un verso - che in "caso di morte della vittima a poche ore di distanza dal verificarsi di un sinistro stradale (nella specie, sei o sette ore), il risarcimento del c.d. danno "catastrofale" - ossia del danno conseguente alla sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita - può essere riconosciuto agli eredi, a titolo di danno morale, solo a condizione che sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della morte. Pertanto, in assenza di prova della sussistenza di uno stato di coscienza della persona nel breve intervallo tra il sinistro e la morte, la lesione del diritto alla vita non è suscettibile di risarcimento, neppure sotto il profilo del danno biologico, a favore del soggetto che è morto, essendo inconcepibile l'acquisizione in capo a lui di un diritto che deriva dal fatto stesso della morte; e, d'altra parte, in considerazione della natura non sanzionatoria, ma solo riparatoria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai congiunti spetta in questo caso il solo risarcimento conseguente alla lesione della possibilità di "godere del rapporto parentale con la persona defunta" (Sez. 3, n. 6754 del 2011, Rv. 616517).

Conformemente, si è ritenuto che in "caso di illecito civile che abbia determinato la morte della vittima, il danno cosiddetto "catastrofale", conseguente alla sofferenza dalla stessa patita - a causa delle lesioni riportate - nell'assistere, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, alla perdita della propria vita (danno diverso sia da quello cosiddetto "tanatologico", ovvero connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, sia da quello rivendicabile "iure hereditatis" dagli eredi della vittima dell'illecito, poi rivelatosi mortale, per avere il medesimo sofferto, per un considerevole lasso di tempo, una lesione della propria integrità psico-fisica costituente un autonomo danno "biologico", accertabile con valutazione medico legale) deve comunque includersi, al pari di essi, nella categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., ed è autonomamente risarcibile in favore degli eredi del defunto" (Sez. 3, n. 6754 del 2011, Rv. 616517; Sez. L., n. 13672 del 2010, Rv. 613653).

Va, infine, evidenziato che Sez. L, n. 26590, in corso di massimazione, est. Napoletano, ha mostrato di condividere la soluzione adottata dalla pronunzia Sez. 3, n. 1361, sopra meglio citata.

4. Principio di ragionevolezza, interpretazione autentica e reddito di cittadinanza.

La questione del reddito di cittadinanza è stata oggetto di specifica disamina da parte di Sez. U, n. 12644, Rv. 631277, est. Piccialli.

Nella vicenda giunta all'esame delle Sezioni Unite, la legge reg. Campania 15 marzo 2011, n. 4, di interpretazione autentica degli artt. 2 e 3 della legge reg. Campania 19 febbraio 2004, n. 2, aveva mutato il quadro normativo riconoscendo il reddito di cittadinanza ai soli richiedenti utilmente collocati in graduatoria e nei limiti dello stanziamento per il relativo ambito, prevedendo una determinazione in misura fissa e non variabile della prestazione.

La Corte ha evidenziato che l'intervento del legislatore regionale si era limitato ad accogliere una delle possibili esegesi delle norme interpretate, a nulla rilevando la pregressa diversa interpretazione della stessa normativa data dalle stesse Sezioni Unite, sicché non poteva ritenersi che la disposizione interpretativa fosse elusiva dell'obbligo di osservanza delle norme sovranazionali in violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6, par. 1, della CEDU e all'art. 34, comma 3, della "Carta di Nizza".

Né, in tal modo, si veniva a realizzare un'ingiustificata interferenza nell'amministrazione della giustizia in quanto l'efficacia retroattiva della norma - comunque insuscettibile di incidere su diritti retributivi e previdenziali definitivamente acquisiti - è giustificata dalla preminenza della tutela di interessi costituzionalmente protetti, quali la concretezza degli interventi assistenziali e il rispetto delle esigenze di bilancio dell'ente erogatore.

5. L'ordine pubblico come principio di garanzia dei diritti inviolabili.

La Corte, con una importante pronuncia in tema di maternità surrogata, Sez. 1, n. 24001, in corso di massimazione, est. De Chiara, ha ribadito che la garanzia dei diritti inviolabili è posta a fondamento del concetto di ordine pubblico.

La vicenda posta all'esame della Corte attiene ad una fattispecie, assai delicata, nella quale i giudici di merito avevano dichiarato lo stato di adottabilità di un minore, generato da una donna ucraina su commissione di una coppia italiana, per aver accertato che tale contratto di surrogazione di maternità era nullo anche secondo la legge ucraina per l'assenza di un legame biologico del nato con il padre e che la coppia italiana era sottoposta a procedimento penale per il delitto di alterazione di stato.

Nel giudicare corretta la decisione di merito, la pronuncia ha richiamato la sussistenza nell'ordinamento italiano dell'espresso divieto della surrogazione di maternità, rafforzato da sanzione penale, contenuto nell'art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in quanto attività contraria all'ordine pubblico interno e ha sottolineato come tale divieto costituisca "presidio di beni giuridici fondamentali" in ragione della tutela costituzionalmente garantita alla dignità umana della gestante e tenuto conto che, nel superiore interesse del minore, l'ordinamento giuridico affida la realizzazione di un progetto di genitorialità privo di legame biologico con il nato solo all'istituto dell'adozione - che gode delle garanzie del procedimento giurisdizionale - e non al mero accordo fra le parti.

6. Il diritto alla riservatezza e il trattamento dei dati personali.

Diverse le pronunce della Corte ad essersi occupate della questione della tutela del diritto alla riservatezza o all'intimità della sfera privata dell'individuo.

6.1. Dati cosiddetti "supersensibili" idonei a rivelare lo stato di salute e l'orientamento sessuale della persona.

La Corte - Sez. 1, n. 10947, Rv. 631481, est. Dogliotti - con riferimento ai dati sensibili idonei a rivelare lo stato di salute ai sensi dell'art. 4 del 30 giugno 2003, n. 196 (cosiddetto codice della privacy), ha, in via generale, osservato che la protezione dei diritti fondamentali alla salute e alla riservatezza, rispetto agli altri beni posti a tutela della personalità, è quello che risulta essere più strettamente collegato alle profonde trasformazioni operate dalla società post-industriale e dall'incessante progresso tecnologico che, con il perfezionamento dei mezzi di comunicazione di massa e degli strumenti di raccolta di dati e notizie, può determinare gravissime aggressioni agli aspetti più intimi della personalità e impone l'individuazione di efficaci ed adeguati strumenti di difesa.

La pronuncia ha proseguito affermando che i dati sensibili possono essere diffusi e conservati solo mediante l'uso di cifrature o numeri di codici non identificabili e che tale accorgimento costituisce la misura minima idonea ad impedire il danno e, qualora non sia attuato, obbliga chi compie l'attività di trattamento di tali dati, da considerarsi pericolosa ai sensi dell'art. 2050 cod. civ., al relativo risarcimento.

In particolare, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l'illegittimità del comportamento tenuto dalla regione e dalla banca, che avevano entrambe contribuito alla diffusione di un dato sensibile del ricorrente, costituito dal riferimento alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, che riconosce un indennizzo a chi abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie, una menomazione permanente all'integrità psicofisica o a chi risulti contagiato da infezioni HIV a seguito di somministrazione di sangue o derivati: la prima trasmettendolo e la seconda riportandolo nell'estratto conto quale causale del bonifico disposto in suo favore.

Si è poi precisato - Sez. 3, n. 24986, in corso di massimazione, est. Scrima - che, seppure la condizione di disabilità del minore sia percepibile immediatamente dai terzi, ciò non equivale ad integrare l'ipotesi derogatoria prevista dall'art. 137, ultimo comma, del d.lgs. 30 giugno 2006, n. 196 che consente il trattamento dei dati personali "relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico". Si noti che la pronuncia pone in evidenza come la violazione del diritto alla riservatezza del minore, per essere stati pubblicati elementi di identificazione e dati sensibili attinenti alla sua salute, sarebbe stata perpetrata senza, peraltro, che tali elementi fossero di interesse pubblico e essenziali all'informazione.

Nell'enunciare il principio, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non divulgabile la delibera comunale di assistenza del minore perché diversamente abile, così come aveva ritenuto non divulgabile l'indicazione del nome e del cognome dello stesso.

Di sicuro rilievo, infine, le considerazioni contenute nella Sez. 1, n. 21107, Rv. 632685, est. Mercolino, che in tema di trattamento dei dati personali da parte di un soggetto pubblico per l'accertamento, nell'ambito di un rapporto di lavoro, di responsabilità disciplinari di un dipendente, hanno ribadito quanto già affermato dalla Corte in tema di dati cosiddetti "supersensibili" ovvero quelli che vengono a toccare la parte più intima della persona, nella sua corporeità e nelle sue convinzioni psicologiche più riservate e che esigono, in ragione dei valori costituzionali posti a loro presidio, sanciti dagli artt. 2 e 3 Cost. (Sez. 2, n. 14390 del 2005, Rv. 584966), una protezione rafforzata come quella prevista per il trattamento dei dati effettuato da soggetti pubblici che può avere luogo soltanto nel rispetto del modulo procedimentale previsto dall'art. 18 del d. lgs. n. 196 del 2003.

In ragione della necessità di una protezione rafforzata, la Corte, ha affermato che l'espressa inclusione della finalità di accertamento della responsabilità disciplinare nell'ambito di un rapporto di lavoro fra quelle di pubblico interesse non è, di per sé, sufficiente ad escludere la necessità del consenso scritto dell'interessato e dell'autorizzazione del Garante attesa la necessità che vengano indicati i tipi di dati sensibili che possono essere trattati e delle operazioni eseguibili sugli stessi, da parte del medesimo soggetto pubblico o, su sua richiesta, dall'Autorità Garante.

La fattispecie all'esame riguardava la legittimità o meno di un'attività di raccolta di dati posta in essere da un'amministrazione nei confronti di un dipendente al fine di verificare l'avvenuta pubblicizzazione dell'attività di meretricio da quest'ultimo svolta, attraverso l'acquisizione dei documenti informatici attestanti gli annunci da lui pubblicati sul web per l'offerta di prestazioni sessuali a pagamento.

La Corte, sulla base dei sopra enunciati principi, ha cassato la sentenza di merito, che, attese le finalità del provvedimento disciplinare, aveva escluso che potesse trovare applicazione la normativa in materia di tutela della privacy, in quanto la raccolta dei dati sui siti web per escort era volta ad acquisire non già elementi relativi all'orientamento sessuale del dipendente, ma la prova della pubblicizzazione - ritenuta lesiva, per le modalità prescelte - dell'attività di meretricio di quest'ultimo.

6.2. La risarcibilità del danno in caso di illegittimo trattamento di dati sensibili.

In tema di risarcibilità del danno in caso di illegittimo trattamento di dati sensibili, Sez. 3, n. 15240, Rv. 631712, est. Cirillo, ha ribadito l'orientamento già affermato da Sez. 1, n. 4366 del 2003, Rv. 561389, secondo cui tale condotta, configurabile come illecito ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., non determina un'automatica risarcibilità del danno poiché il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) deve essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l'entità e la difficoltà di assolvere l'onere probatorio, trattandosi di un danno-conseguenza e non di un danno-evento, senza che rilevi in senso contrario il suo eventuale inquadramento quale pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti.

Si è poi ribadito - Sez. 3, n. 16133, Rv. 632536, est. Vincenti - l'impianto motivazionale della pronuncia Sez. U, n. 26972 del 2008, Rv. 605493. La Corte, in particolare, ha chiarito, in tema di danno non patrimoniale, che l'art. 2059 cod. civ., secondo una lettura costituzionalmente orientata, non disciplina un'autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella prevista dall'art. 2043 cod. civ., ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto dell'esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 cod. civ., con la peculiarità della tipicità di tale danno, attesa la natura dell'art. 2059 cod. civ., che opera quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, e con la precisazione, in tale ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l'interesse leso e non il pregiudizio in conseguenza sofferto, e che la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave e il danno non futile.

In coerenza con questi principi, la pronuncia ha aggiunto che anche il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno" - quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato -, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è l'intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del citato codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, fermo restando che il relativo accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale.

In applicazione di tale principio, pertanto, la Corte ha ritenuto non risarcibile il danno alla privacy consistente nella possibilità, per gli utenti del web, di rinvenire agevolmente su internet - attraverso l'uso di un comune motore di ricerca - generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva del ricorrente.

In questa prospettiva, si è ulteriormente precisato - Sez. 6-3, n. 18812, Rv. 632941, est. Frasca - che l'illecito trattamento di dati personali giustifica l'accoglimento della pretesa risarcitoria azionata ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, solo a condizione che sia dimostrata dall'interessato l'esistenza di un conseguente pregiudizio di natura non patrimoniale sofferto dall'interessato, sicché correttamente il giudice di merito aveva disatteso la domanda poiché, pur essendosi accertata l'illecita propalazione di circostanze idonee a rivelare le abitudini sessuali del soggetto interessato, questi non si era neppure preoccupato di dimostrare l'incidenza negativa che tale evento aveva prodotto nella sfera delle proprie relazioni parentali e sociali, ovvero eventuali riflessi sul diritto di visita del figlio riconosciutogli nel procedimento di separazione personale, ancora pendente all'epoca del fatto.

6.3. Diritto alla riservatezza, tutela dell'immagine e diritto di cronaca.

In materia di tutela dell'immagine, secondo Sez. 3, n. 194, Rv. 629760, est. Carluccio, la pubblicazione su un quotidiano di una foto di persona arrestata, estratta dalle foto segnaletiche effettuate dalle forze dell'ordine, ma priva dei numeri identificativi propri di queste, non costituisce immagine di persona in "stato di detenzione", con la conseguenza che per la liceità della pubblicazione della stessa non valgono le disposizioni previste dall'art. 8, commi 1 e 2, del codice deontologico dei giornalisti richiamate dall'art. 12 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. La pronuncia ha proseguito ribadendo un principio già espresso in passato in ordine alla liceità della pubblicazione delle immagini di una persona privata della libertà personale (Sez. 1, n. 7261 del 2008, Rv. 602624) e ha sottolineato che la diffusione per finalità giornalistiche dell'immagine di persona cui è attribuito un reato, quale dato personale sottoposto allo stesso trattamento dei dati identificativi anagrafici, è essenziale per l'esercizio del diritto di cronaca, in relazione all'interesse pubblico alla identificazione del soggetto, purché sia rispettosa degli ulteriori limiti della pertinenza e della continenza.

Analogamente, la sentenza Sez. 3, n. 12834, Rv. 631584, est. Rubino, ha ritenuto legittima la pubblicazione su un quotidiano della foto di una persona ritratta al momento del suo arresto ove rispettosa sia dei limiti di essenzialità per illustrare il contenuto della notizia (come fissati dagli artt. 20 e 25 della legge 31 dicembre 1996, n. 675 - ratione temporis applicabili - e, comunque, riprodotti nell'art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003) sia di quelli dell'esercizio del diritto di cronaca, con le particolari cautele imposte a tutela della persona ritratta dal codice deontologico dei giornalisti che costituisce fonte normativa integrativa. La pronuncia ha spiegato inoltre che l'osservanza dei suddetti limiti va accertata con maggior rigore rispetto alla semplice pubblicazione della notizia, per la maggiore potenzialità lesiva dello strumento visivo e la maggiore idoneità ad una diffusione decontestualizzata e insuscettibile di controllo da parte della persona ritratta.

7. Attività iure imperii lesive di valori fondamentali della persona e crimini contro l'umanità.

Prima che si pronunciasse la Corte Costituzionale con sentenza 22 ottobre 2014, n. 238 e dichiarasse l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 14 gennaio 2013, n. 5 (recante l'Adesione della Repubblica Italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento dell'ordinamento interno) in relazione agli artt. 2 e 24 Cost., le Sezioni Unite - Sez. U, n. 1136, Rv. 629069, est. Spirito - avevano affrontato la delicata questione dell'azionabilità diretta delle pretese risarcitorie rivolte contro Stati stranieri e fondate sulla violazione di diritti fondamentali.

In particolare, la vicenda atteneva alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta nei confronti della Repubblica Federale di Germania da un cittadino italiano, fondata sui maltrattamenti e le sevizie subiti durante la prigionia ed il lavoro coatto patiti in seguito alla deportazione in Germania avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale.

In motivazione, la Corte, dopo aver ricordato di aver inaugurato con la sentenza Sez. U, n. 5044 del 2004, Rv. 571033, un percorso giurisprudenziale teso all'affermazione dell'insussistenza dell'immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione civile in presenza di comportamenti di tale gravità da configurare crimini internazionali, attesa la valenza lesiva dei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali, ha ritenuto l'art. 3, della legge n. 5 del 2013, emanato in attuazione della sentenza della Corte internazionale di giustizia dell'Aja del 3 febbraio 2012, che aveva imposto, in tale evenienza, la declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice italiano, in qualunque stato e grado del processo, norma di adeguamento dell'ordinamento interno a quello internazionale, ai sensi dell'art. 11, secondo periodo, Cost., sicché ha escluso la sussistenza della giurisdizione civile italiana in materia.

8. Disabili e diritto all'istruzione.

Le Sezioni Unite, con la pronuncia Sez. U, n. 25011, Rv. 633145, est. Giusti, hanno ridefinito, con una prospettiva di ampio respiro, l'indirizzo giurisdizionale che riteneva le controversie aventi ad oggetto il servizio di sostegno scolastico con insegnanti specializzati in favore di minori portatori di handicap di esclusiva spettanza del giudice amministrativo (Sez. U, n. 1144 del 2007, Rv. 594331; Sez. U, n. 7103 del 2009, Rv. 607481; Sez. U, n. 17664 del 2013, Rv. 627557) e hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario.

La motivazione prende le mosse dall'esame del quadro normativo di riferimento internazionale, europeo ed interno in materia e sottolinea come il diritto all'istruzione sia parte integrante del riconoscimento e della garanzia dei diritti dei disabili "per il conseguimento di quella pari dignità sociale che consente il pieno sviluppo e l'inclusione della persona umana con disabilità".

Ciò, dunque, comporta che in materia di sostegno all'alunno, ove sia stato adottato compiutamente il "piano educativo individualizzato", definito ai sensi dell'art. 12 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, l'amministrazione scolastica è obbligata a garantire il supporto per il numero di ore programmato, senza che essa sia titolare di alcun potere discrezionale inteso a ridurne l'entità in ragione delle risorse disponibili, e ciò anche nella scuola dell'infanzia, pur non facente parte della scuola dell'obbligo, sicché la condotta dell'amministrazione, la quale non appresti il sostegno pianificato si risolve nella contrazione del diritto del disabile alla pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico, che, ove non si accompagni ad una corrispondente riduzione dell'offerta formativa per gli alunni normodotati, costituisce una discriminazione indiretta, la cui repressione spetta al giudice ordinario.

9. Necessità della nomina di un amministratore di sostegno per la persona priva in tutto o in parte di autonomia.

La giurisprudenza della Corte è ormai consolidata nell'affermare che l'istituto dell'amministrazione di sostegno, introdotto nell'art. 404 cod. civ. dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali la interdizione e la inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla citata legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 417 cod. civ. (Sez. 1, n. 22332 del 2011, Rv. 619848).

Nel solco di tale orientamento, appare interessante la pronuncia, Sez. 6-1, n. 13929, Rv. 631513, est. Dogliotti, che ha precisato come in caso di persona priva, in tutto o in parte, di autonomia, il giudice, ai sensi dell'art. 404 cod. civ., è tenuto, in ogni caso, a nominare un amministratore di sostegno poiché la discrezionalità attribuita dalla norma ha ad oggetto solo la scelta della misura più idonea (amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione), e non anche la possibilità di non adottare alcuna misura, che comporterebbe la privazione, per il soggetto incapace, di ogni forma di protezione dei suoi interessi, ivi compresa quella meno invasiva.

10. La libertà sindacale e il diritto di riunione.

In tema di condotta antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, Sez. L, n. 24670, in corso di massimazione, est. Ghinoy, ha affermato che il diritto di riunione di cui all'art. 20 dello Statuto, può esercitarsi "in piena libertà di luogo" sia all'interno che all'esterno del posto di lavoro, con i soli limiti prescritti dalla legge e dalla eventuale contrattazione collettiva "(e con l'ulteriore, implicito limite del divieto di atti emulativi)".

La pronuncia ha sottolineato inoltre la non ravvisabilità, in linea generale, di alcun interesse datoriale allo svolgimento dell'assemblea all'interno dell'unità produttiva; interesse che può, viceversa, riguardare soltanto la salvaguardia della sicurezza degli impianti e della possibilità di continuazione dell'attività lavorativa da parte dei lavoratori non partecipanti all'assemblea.

11. Il diritto alla reputazione come diritto inviolabile (anche) degli enti collettivi.

La Corte - Sez. 1, n. 15609, Rv. 631843, est. Nazzicone - ha ribadito il consolidato orientamento che riconosce la configurabilità del danno non patrimoniale alla persona, anche giuridica, con riguardo ai valori della reputazione e dell'onore poichè anche i soggetti collettivi sono titolari dei diritti della personalità a tutela costituzionale ex art. 2 Cost. (in precedenza, tra le ultime, Sez. L., n. 22396 del 2013, Rv. 627860).

La Corte ha giudicato corretta la decisione di merito che aveva ritenuto illegittima la segnalazione da parte di un istituto bancario di una posizione "in sofferenza" di una società presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia, con conseguente condanna al risarcimento del pregiudizio alla reputazione del cliente.

La pronuncia ha osservato, in conformità del costante orientamento giurisprudenziale espresso in tema sin dalla pronuncia Sez. 1, n. 21428 del 2007, Rv. 600223, che la segnalazione richiede una valutazione, da parte dell'intermediario, riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente, e non può quindi scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d'insolvenza.

In una vicenda relativa alla gestione di un'azienda sanitaria, con il relativo trattamento dei dati sensibili dei pazienti, alla quale era subentrata, a titolo di affitto, una società con personalità giuridica, la Corte ha poi curato di precisare che il titolare del trattamento va individuato non nel legale rappresentante o nell'amministratore ma nella sicetà come tale, a cui va effettuata la notificazione ai sensi dell'art. 37 del codice citato, senza che assuma rilievo che l'amministratore della società affittuaria sia la medesima persona fisica legale rappresentante della società affittante, né che quest'ultima abbia già provveduto alla notifica di trattamento quando esercitava direttamente l'attività sanitaria (Sez. 6-2, n. 8184, est. Giusti).

  • indennizzo
  • giurisdizione amministrativa
  • giurisdizione arbitrale
  • giurisdizione tributaria
  • danno
  • giustizia riparatrice

CAPITOLO II

L'EQUA RIPARAZIONE

(di Bruno Giordano )

Sommario

1 Il diritto all'equa riparazione e la valutazione del danno. - 2 I profili processuali. - 2.1 La legittimazione attiva e passiva. - 2.2 La condizione di proponibilità ex art. 4 della legge n. 89 del 2001. - 2.3 La domanda di riparazione in pendenza del giudizio. - 2.4 L'individuazione del dies a quo per la proponibilità dell'azione. - 2.5 Il carattere definitivo della decisione. - 2.6 L'incidenza sulla durata dell'incidente di legittimità. - 2.7 Altri aspetti procedurali. - 3 Il giudizio tributario. - 4 Il lodo arbitrale. - 5 Il giudizio amministrativo. - 6 La congruità della misura dell'indennizzo.

1. Il diritto all'equa riparazione e la valutazione del danno.

La Suprema Corte nell'anno 2014 è più volte intervenuta su specifiche questioni relative all'applicazione della legge Pinto.

Numerose decisioni, in particolare, sono incentrate sulla determinazione, quantificazione e definizione del danno conseguente alla sofferenza per aver sostenuto il ruolo di parte processuale in un giudizio protrattosi oltre un termine ragionevole.

Tra queste si segnala Sez. 6-2, n. 18966, Rv. 632579, est. Petitti, sul nesso eziologico tra giudizio sofferto pregiudizio subito, che si sofferma sulle poste risarcitorie accessorie a quella oggetto del giudizio presupposto, precisando che il danno risarcibile è solo quello in rapporto causale tra il ritardo nella definizione del giudizio e il pregiudizio sofferto. Ne consegue che ad esso non sono riconducibili le poste economiche che avrebbero dovuto essere dedotte nel giudizio presupposto, nel cui solo ambito era consentito l'accertamento.

Sul mancato rispetto del termine ragionevole di un processo fallimentare Sez. 6-2, n. 16311, Rv. 632010, est. Petitti, in relazione all'ipotesi in cui il creditore non abbia neppure dimostrato di aver manifestato nei confronti degli organi della procedura uno specifico interesse alla definizione della stessa, ritiene congrua la liquidazione dell'indennizzo nella misura solitamente riconosciuta per i giudizi amministrativi protrattisi oltre dieci anni, rapportata su base annua a circa euro 500,00. È importante sottolineare che la decisione riconosce al giudice il potere, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, di discostarsi dagli ordinari criteri di liquidazione dei quali deve dar conto in motivazione.

2. I profili processuali.

2.1. La legittimazione attiva e passiva.

In tema di legittimazione attiva particolarmente importante è la decisione di Sez. U, n. 585, Rv. 628869, est. Bucciante, con riguardo alla parte rimasta contumace nel giudizio presupposto.

La Corte, sul rilievo che tutte le parti coinvolte nel procedimento giurisdizionale hanno diritto all'indennizzo, ritiene che tale esito includa anche la parte rimasta contumace, nei cui confronti - non assumendo rilievo né l'esito della causa, né le ragioni della scelta di non costituirsi - la decisione è comunque destinata ad esplicare i suoi effetti e a cagionare, nel caso di ritardo eccessivo nella definizione del giudizio, un disagio psicologico. Si noti che la Suprema Corte giunge a tale conclusione tenendo fermo che la contumacia costituisce comportamento idoneo ad influire - implicando od escludendo specifiche attività processuali - sui tempi del procedimento e, pertanto, è valutabile agli effetti dell'art. 2, comma 2, della legge 24 marzo 2001, n. 89, cioè del comportamento delle parti nel corso del procedimento e del loro contributo alla definizione della regiudicanda.

Le Sezioni Unite - Sez. U, n. 19663, Rv. 632218, est. San Giorgio - hanno anche precisato che nel caso in cui il giudizio presupposto sia stato promosso da un condominio, ove i singoli condomini non siano stati parte in causa e sebbene il processo sia a tutela di diritti connessi alla loro partecipazione, la legittimazione ad agire per ottenere l'equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, quale autonomo soggetto giuridico, in persona dell'amministratore, autorizzato dall'assemblea dei condomini.

Si occupa della morte della parte del giudizio presupposto e del diritto dell'erede all'indennizzo iure proprio Sez. 2, n. 4003, Rv. 629631, est. Bianchini, stabilendo che, in tal caso, l'erede ha diritto all'indennizzo iure proprio solo per l'irragionevole durata del giudizio successiva alla propria costituzione, che - come confermato dalla CEDU, con sentenza del 18 giugno 2013, Fazio ed altri c. Italia - è condizione essenziale per far valere la sofferenza morale da ingiustificata durata del processo.

Con riguardo alla legittimazione attiva degli enti pubblici (nella specie, si trattava di una Provincia), Sez. 2, n. 4008, Rv. 629633, est Petitti, si è espressa in senso negativo poiché il procedimento di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non può essere promosso dagli enti che, ai sensi dell'art. 34 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, non sono qualificabili come "organizzazioni non governative", trattandosi di soggetti che detengono o esercitano un pubblico potere.

In tema di legittimazione passiva, secondo Sez. 6-2, n. 8417, Rv. 630159, est. Giusti, in caso di declinatoria della giurisdizione ordinaria e translatio iudicii al giudice amministrativo il giudizio è unico, sicché la legittimazione passiva ex art. 3 della legge n. 89 del 2001 spetta sia al Ministro della Giustizia che al Ministro dell'economia e delle finanze, mentre il termine di decadenza ex art. 4 della stessa legge decorre dal momento in cui è divenuta definitiva la sentenza resa dal giudice munito di giurisdizione.

2.2. La condizione di proponibilità ex art. 4 della legge n. 89 del 2001.

Centrali anche nel corso del 2014 sono gli arresti giurisprudenziali circa la condizione di proponibilità della domanda di riparazione.

Secondo Sez. 6-2, n. 22729, Rv. 632969, est. Manna, la domanda tempestivamente proposta davanti a giudice incompetente è idonea della stessa ad impedire la decadenza di cui all'art. 4 della legge n. 89 del 2001, purché la riassunzione della causa innanzi al giudice dichiarato competente avvenga in presenza dei presupposti e delle condizioni occorrenti per la prosecuzione del giudizio, ai sensi dell'art. 50 cod. proc. civ., il quale mantiene una struttura unitaria, con conservazione degli effetti processuali e sostanziali del procedimento svoltosi davanti al giudice incompetente.

Con riguardo al processo amministrativo, poi, si è precisato - Sez. 2, n. 19476, Rv. 632241, est. Petitti - che, sull'applicazione della condizione di proponibilità di cui all'art. 54, comma 2, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, come modificato dall'art. 3, comma 23, dell'allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, non ha inciso la disposizione correttiva introdotta dall'art. 1, comma 3, lett. a, n. 6, del d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, dovendosi ritenere, fin dall'inizio chiara e tale da non generare dubbi la volontà del legislatore di fare dipendere comunque dalla presentazione dell'istanza di prelievo la proponibilità della domanda di equa riparazione.

2.3. La domanda di riparazione in pendenza del giudizio.

La Corte si è occupata della proponibilità della domanda di indennizzo nel caso in cui il giudizio presupposto sia ancora pendente alla data di proposizione della domanda.

Con riguardo al regime precedente alle modifiche introdotte con l'art. 55, comma 1, lett. d, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, la Corte - Sez. 6-2, n. 13712, Rv. 631170, est. Manna -, nel ritenere ammissibile la domanda, ha affermato che il giudice di merito è tenuto a valutare la durata complessiva di esso, come svoltosi fino a tale momento, e liquidare l'indennizzo in base alla differenza fra il tempo trascorso e il tempo, inferiore, ragionevole per compiere le medesime attività processuali, operando una giusta proporzione tra quest'ultimo e lo standard temporale di definizione dell'intero giudizio.

A seguito dell'introduzione della novella, peraltro, non è più proponibile in questa situazione la domanda di indennizzo, che resta preclusa dalla pendenza del giudizio presupposto (Sez. 2, n. 19479, Rv. 632159, est. Petitti, la cui legittimità è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale, con la sentenza 15 gennaio 2014, n. 30.

2.4. L'individuazione del dies a quo per la proponibilità dell'azione.

Significativo è l'intervento delle Sezioni Unite, con Sez. U, n. 19977, Rv. 632024, est. Ragonesi, con riguardo al termine ragionevole di durata del processo penale: per gli eredi della persona offesa dal reato deceduta, costituitasi parte civile, il termine decorre da quando gli stessi hanno avuto conoscenza del procedimento, in quanto solo da tale momento insorgono per essi il patema e l'interesse ad una rapida soluzione della controversia, sicché, in mancanza di prova di detta circostanza, il computo ha inizio dalla data del loro intervento in giudizio.

La conoscenza del procedimento presupposto, in capo agli eredi della parte civile deceduta, costituisce, dunque, il momento determinante per l'individuazione del dies a quo per far decorrere il termine, sicché, ove sia assente la dimostrazione di tale conoscenza, decorre dal momento della successione processuale nella posizione della parte deceduta.

Nella materia fallimentare Sez. 6-2, n. 18538, Rv. 632096, est. Petitti, si sofferma sulla determinazione della durata in caso di fallimento seguito a concordato fallimentare. Quest'ultima, infatti, è strutturalmente connessa al più ampio procedimento fallimentare, di cui costituisce fase e attività eventuale, ed inerisce al giudizio concorsuale principale, sicché il dies a quo per valutare la tempestività della proposizione del ricorso, ai sensi dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, coincide con il momento in cui il decreto di chiusura del fallimento diviene definitivo, ovvero con il termine di improponibilità del reclamo ex art. 199 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267.

2.5. Il carattere definitivo della decisione.

La nozione di provvedimento "divenuto definitivo", rilevante ai fini della decorrenza del termine di sei mesi di cui all'art. 4 della legge n. 89 del 2001, solleva alcuni interrogativi ermeneutici che la Suprema Corte affronta in relazione all'idoeneità a costituire res iudicata.

Al riguardo Sez. 6-2, n. 18427, Rv. 632038, est. Petitti, sottolinea che il concetto abbraccia qualsiasi provvedimento giurisdizionale che si presenti idoneo a porre formalmente temine al processo, così da impedire che quest'ultimo possa essere considerato ancora pendente. Tale attitudine non può, pertanto, essere riconosciuta al provvedimento del Giudice per le indagini preliminari di restituzione degli atti al P.M., in quanto atto endoprocessuale, propedeutico all'avanzamento del giudizio e inidoneo a passare in giudicato.

Sul piano dell'onere della prova, poi, Sez. 6-2, n. 18539, Rv. 632095, est. Petitti, rileva che l'art. 3, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89, come sostituito dall'art. 55, comma 1, lett. c, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, pone a carico del ricorrente l'onere di dimostrare l'irrevocabilità del provvedimento che ha definito il giudizio presupposto. Ove tale dimostrazione non avvenga con il deposito del ricorso, il presidente della corte d'appello o il giudice a tal fine designato, in assenza di una espressa sanzione di inammissibilità, deve invitare la parte, ai sensi dell'art. 640, primo comma, cod. proc. civ., richiamato dall'art. 3, comma 4, della legge n. 89 del 2001, a produrre documentazione idonea ad assolvere tale onere probatorio, con la conseguenza che, se la parte interessata non adempia nel termine all'uopo fissato dal giudice, la domanda va rigettata ai sensi dell'art. 640, secondo comma, cod. proc. civ.

Sotto altro versante, invece, Sez. 2, n. 18394, Rv. 631828, est. San Giorgio, rileva che laddove la notifica della sentenza, conclusiva del giudizio presupposto, sia stata eseguita dalla segreteria della Corte, atto che equivale all'avviso di deposito ex art. 133 cod. proc. civ., non decorre il termine breve di impugnazione, ma resta applicabile solo il termine lungo ex art. 327 cod. proc. civ.

Con riguardo alla durata delle procedure esecutive, Sez. 6-2, n. 17210, Rv. 631860, est. Petitti, ha affermato, ai fini della tempestività della domanda di equa riparazione, che l'ordinanza di estinzione della procedura stessa assume rilievo solo quando sia corredata dall'ordine di cancellazione della trascrizione del pignoramento, necessario ai sensi dell'art. 632 cod. proc. civ.

2.6. L'incidenza sulla durata dell'incidente di legittimità.

Secondo Sez. 2, n. 3096, Rv. 629595, est. Petitti, nel caso in cui nel processo presupposto sia stata sollevata una questione di costituzionalità, una siffatta evenienza non comporta - ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo - l'automatica esclusione del tempo necessario per la risoluzione dell'incidente, né giustifica un'apodittica affermazione di complessità della fattispecie.

2.7. Altri aspetti procedurali.

Un profilo particolare è quello esaminato da Sez. 6-2, n. 19238, Rv. 632079, est. Petitti, che ha ritenuto inammissibile, ai sensi dell'art. 3, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89, come modificato dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto emesso dal magistrato delegato della corte d'appello poiché contro di esso va proposta opposizione al collegio ex art. 5 ter della legge n. 89 del 2001, introdotto dallo stesso d.l. n. 83 del 2012.

Per la medesima ragione, poi, è stato ritenuto inammissile il regolamento di competenza emesso avverso il suddetto decreto (Sez. 6-2, n. 16806, Rv. 632676, est. Giusti).

Si è rilevato, peraltro, che l'opposizione al decreto di rigetto ex art. 5 ter della legge n. 89 del 2001, peraltro, apre una fase contenziosa, soggetta al rito camerale, sicché l'opponente deve notificare all'amministrazione controinteressata il ricorso e il decreto di fissazione dell'udienza entro un termine idoneo ad assicurare l'utile esercizio del diritto di difesa; tuttavia, tale termine non è perentorio per cui, ove la notifica sia omessa od inesistente, il giudice può concedere un nuovo termine, perentorio, affinché vi provveda (Sez. 6-2, n. 8421, Rv. 630366, est. Giusti).

Si concentra, invece, sulla notifica del provvedimento all'Avvocatura dello Stato Sez. 6-2, n. 10262, Rv. 631010, est. Petitti, atteso che, in caso di contumacia dell'amministrazione statale, la notifica del provvedimento all'Avvocatura dello Stato, domiciliataria ex lege, è idonea a far decorrere il termine breve d'impugnazione, nei confronti del notificato e del notificante, considerandosi effettuata nel domicilio eletto.

3. Il giudizio tributario.

La Corte, con Sez. 6-2, n. 510, Rv. 629067, est. Petitti, con una soluzione che si ispira ed è coerente con quanto affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea nella decisione 26 febbraio 2013, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, in armonia col principio costituzionale di stretta legalità delle sanzioni penali, ha evidenziato che, ai fini dell'assimilazione della sanzione tributaria alla sanzione penale, con le correlate conseguenze in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo tributario (e l'attivazione della tutela ex art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89), non è sufficiente il carattere afflittivo della sanzione, ma risulta necessario un preciso riferimento normativo.

4. Il lodo arbitrale.

Secondo la Corte - Sez. 2, n. 143, Rv. 628959, est. Bianchini - il giudizio di impugnazione del lodo innanzi alla corte d'appello va equiparato, ai fini della liquidazione dell'indennizzo per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ad un giudizio di primo grado, perché il cittadino che adisce la giustizia ordinaria ha la fondata aspettativa di ottenere una decisione finale di merito in cinque anni, mentre questa aspettativa cade quando egli si rivolge in primis all'arbitrato rituale.

5. Il giudizio amministrativo.

Particolarmente importante è Sez. U, n. 4429, Rv. 629557, est. Piccialli, in tema di computo della durata del processo amministrativo, che esclude la rilevanza del tempo trascorso per il preventivo esperimento di un procedimento amministrativo.

L'orientamento della Corte si incentra sulla fondamentale distinzione tra attività procedimentale davanti alla pubblica amministrazione (estranea rispetto alla tutela dagli irragionevoli ritardi de quibus) e attività processuale davanti al giudice amministrativo, non potendosi tenere conto del tempo occorso per il procedimento amministrativo che abbia preceduto il giudizio, anche quando il preventivo esperimento del procedimento sia normativamente prescritto senza predeterminazione di un termine massimo e lo stesso si sia svolto prima dell'entrata in vigore dell'art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (il quale prevede, in difetto di specifiche disposizioni, un generalizzato termine massimo di trenta giorni). Si tratta, infatti, di una fase che non partecipa alla natura giurisdizionale del processo, che è soltanto quello che si svolge davanti ad un giudice.

A contrariis, peraltro, si deve tener conto, nel computo della durata del processo, dei tempi occorsi per l'espletamento di attività endoprocessuali, riferibili ad organi dell'apparato giudiziario e ad ausiliari del giudice, nonché delle protrazioni del processo dovute all'operato di altri soggetti istituzionali, comunque incidenti sul relativo corso.

Con riguardo, specificamente, alla declaratoria di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo Sez. 1, n. 15, Rv. 629391, est. Dogliotti, osserva che tale dichiarazione non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse delle parte a coltivare il processo, in quanto in tal modo verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta - la dichiarazione di estinzione del giudizio - successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Ne consegue che va riconosciuto il diritto all'equa riparazione con riferimento al superamento del termine di durata decorso il primo triennio, potendosi limitare l'ammontare annuo dell'indennizzo solo in considerazione dell'esiguità della causa dichiarata perenta.

6. La congruità della misura dell'indennizzo.

Un ultimo rilevante profilo - esaminato da Sez. 2, n. 22772, Rv. 633027, est Petitti - ha riguardato la congruità del criterio di misura dell'indennizzo. La Corte, infatti, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 bis e 2, comma 2 bis, della legge n. 89 del 2001 per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art,. 6, par. 1, della CEDU, riguardanti l'art. 2 bis della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, nonché l'art. 2, comma 2 bis, della stessa legge n. 89 del 2011, nella parte in cui afferma che si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione, la ragionevolezza del criterio di 500 euro per anno di ritardo e i parametri di durata così stabiliti recepiscono le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della Corte di cassazione.

  • immigrazione
  • diritto degli stranieri

CAPITOLO III

I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 I diritti civili dello straniero. - 1.1 Ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale. - 2 I diritti degli immigrati. Il sistema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario. - 2.1 L'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. - 2.2 L'allontanamento dal territorio nazionale; il quadro delle garanzie procedimentali e processuali.

1. I diritti civili dello straniero.

In materia di giurisdizione, Sez. U, n. 22612, Rv. 632416, est. Di Palma, ha stabilito che appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia promossa dallo straniero nei confronti del Ministero degli esteri per il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio del visto d'ingresso per ricongiungimento familiare, non essendo stata dedotta la violazione del diritto soggettivo al ricongiungimento familiare, ma soltanto l'inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo avente ad oggetto il suo riconoscimento, senza che ne derivi illegittimità costituzionale, in quanto il giudice amministrativo assicura una tutela dei diritti fondamentali equivalente a quella garantita dal giudice ordinario.

In tema di condizione di reciprocità sancita dall'art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale secondo cui lo straniero "è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali", è intervenuta la Sez. 2, n. 14811, Rv. 631214, est. Mazzacane, con l'affermare che l'esercizio dei diritti civili da parte dello straniero è subordinato alla citata condizione, che costituisce fatto costitutivo della pretesa. La fattispecie esaminata aveva ad oggetto la domanda di un cittadino cubano il quale voleva esercitare nei confronti del cittadino italiano i diritti del legittimario, ma la Corte ha affermato che questi non li può esercitare giacché il codice civile di Cuba non contempla questa figura di erede, ma quella, radicalmente diversa, dell'erede "particolarmente protetto", in ragione della precarietà delle condizioni economiche del soggetto. La pronuncia si inserisce all'interno dell'orientamento di legittimità che ha chiarito come l'art. 16 cit., nella parte in cui subordina alla condizione di procedibilità l'esercizio dei diritti civili da parte dello straniero, deve essere interpretato in modo costituzionalmente orientato alla stregua del principio enunciato dall'art. 2 (di cui costituisce precedente più recente, Sez. 3, n. 8212 del 2013, Rv. 625665).

Nello stesso ambito, merita menzione la pronuncia Sez. 3, n. 23432, Rv. 633175, est. Carleo, che ha ribadito l'importante arresto, Sez. 3, n. 450 del 2011, Rv. 616136, con cui è stato affermato, per la prima volta, che l'art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale deve essere interpretato in modo conforme con i valori costituzionali, e quindi nel senso che i diritti fondamentali sono riconosciuti dal nostro ordinamento nei confronti degli individui in quanto persone umane, indipendentemente dal corrispondente riconoscimento nell'ordinamento con cui ci si raffronta. Ciò implica, in concreto, che "l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 16 preleggi, comporti non solo che della condizione di reciprocità non debba tenersi conto ai fini di assicurare allo straniero il risarcimento della lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente garantito (fin qui in applicazione dell'art. 2 Cost.), ma anche che lo straniero danneggiato possa avvalersi di tutti gli strumenti risarcitori apprestati per il cittadino, anche se essi sono diretti verso un soggetto diverso da quello che ha provocato la lesione".

Come si vede, la Corte è giunta alla sostanziale disapplicazione della condizione di reciprocità per quanto riguarda il terreno dei diritti fondamentali, conclusione che si fonda sulla base di una complessiva lettura dell'ordinamento, alla luce dei principi costituzionali, primo fra tutti quello dell'art. 2 della Costituzione. Ed è sempre con la guida del precetto costituzionale che la Corte ha riconosciuto allo straniero la medesima tutela di cui gode il cittadino, il che, nella specie, si traduce nel diritto all'azione diretta "per il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale derivato dalla lesione di diritti inviolabili della persona (quali il diritto alla salute e ai rapporti parentali o familiari), avvenuta in Italia, sia nei confronti del responsabile del danno, sia nei confronti degli altri soggetti che per la legge italiana, siano tenuti a risponderne, ivi compreso l'assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli od il Fondo di garanzia per le vittime della strada".

Interessanti, in ordine alla posizione dei figli minori di una italiana coniugata con uno straniero - la quale abbia stabilito la propria residenza all'estero - appaiono le considerazioni di Sez. 6-1, n. 6205, Rv. 630180, est. Acierno, che, alla luce della natura permanente ed imprescrittibile del diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana, ha affermato come i figli perdono la cittadinanza italiana, ai sensi dell'art. 12, terzo comma, della legge 13 giugno 1912, n. 555, esclusivamente nel caso in cui la madre, a seguito del matrimonio, abbia, ai sensi dell'art. 11 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, rinunciato spontaneamente e volontariamente alla cittadinanza italiana, senza che tale rinunzia - alla luce delle sentenze della Corte cost. 9 aprile 1975, n. 87 e n. 30 del 1983 ed ai principi espressi dalla Corte nelle sentenze Sez. U, nn. 4466 e 4467 del 2009 - possa costituire la mera conseguenza dell'acquisto della cittadinanza del coniuge straniero (art. 10 della legge n. 555 del 1912) ovvero di una "volontà" abdicativa non liberamente determinata (art. 8 della legge n. 555 del 1912).

Di particolare rilievo, poi, è la pronuncia emessa da Sez. 1, n. 11751, Rv. 631310, est. Macioce, che in tema di riconoscimento di figlio naturale ha ribadito il principio secondo cui lo stato di figlio di uno straniero deve essere scrutinato dal giudice italiano, ai sensi dell'art. 33, commi 1 e 2, della legge 31 maggio 1995, n. 218, come modificati dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, alla luce della legge nazionale del figlio al momento della nascita. Ne consegue che il giudice italiano è tenuto, in ipotesi di carattere plurilegislativo dell'ordinamento dello Stato straniero, a ricercare d'ufficio le norme dell'ordinamento straniero applicabili e le stesse clausole di quell'ordinamento idonee ad individuare il sottosistema territoriale o personale a cui si riferisce la fattispecie. In particolare, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, in assenza di prove sul sottosistema legislativo applicabile in ipotesi di ordinamento plurilegislativo come quello canadese, ha ritenuto di applicare la legge italiana in materia di riconoscimento di figlio naturale.

In relazione alla omessa previsione della partecipazione dello straniero extracomunitario ad un bando di concorso pubblico per l'assunzione di lavoratori disabili, Sez. L, n. 18523, Rv. 632637, est. Ghinoy, ha affermato la legittimità del bando che riservi la partecipazione ai soli cittadini italiani e comunitari in applicazione dell'art. 38 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, come modificata dall'art. 7, comma 1, lett. a) della legge 6 agosto 2013, n. 97, coordinato con le previsioni di cui all'art. 70, comma 13, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e di cui all'art. 2 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487; il complesso delle citate norme, difatti, limita l'accesso ai pubblici impieghi ai cittadini italiani, ai cittadini degli Stati membri dell'Unione europea - fatte salve le eccezioni di cui al d.p.c.m. 7 febbraio 1994, n. 174 - nonché alle categorie di cittadini extracomunitari espressamente indicate nell'art. 3 bis della legge n. 97 del 2013. Secondo la Corte l'esclusione degli altri stranieri non comunitari dall'accesso al lavoro pubblico non si pone in contrasto con i principi espressi dalla normativa sovranazionale, da quella costituzionale, dal decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) o dalla disciplina antidiscriminatoria dettata dal d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, in considerazione della particolarità e delicatezza della funzione svolta alle dipendenze dello Stato.

1.1. Ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale.

In tema di diritti civili dello straniero, meritano menzione due interessanti ordinanze interlocutorie con cui la Corte ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale, per un verso, riguardo alla questione della natura discriminatoria o meno, dell'esclusione degli stranieri regolarmente soggiornati in Italia dall'ammissione al servizio civile nazionale; per l'altro, riguardo la legittimità o meno della subordinazione al requisito della titolarità della carta di soggiorno, della concessione, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, della pensione e dell'indennità di accompagnamento per ciechi assoluti, nonché dell'assegno sociale maggiorato.

Le Sezioni unite, Sez. U, n. 20661, Rv. 632238, est. Giusti, hanno dubitato della legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. 5 aprile 2002, n. 77 (Disciplina del Servizio civile nazionale a norma dell'articolo 2 della legge 6 marzo 2001, n. 64), in riferimento agli artt. 2, 3 e 76 Cost., nella parte in cui, prevedendo il requisito della cittadinanza italiana, esclude i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nello Stato italiano dalla possibilità di essere ammessi a prestare il servizio civile nazionale, così precludendo loro, con misura non proporzionata, né ragionevole, il pieno sviluppo della personalità nella comunità di accoglienza. La pronuncia ha ricordato gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in materia ed in particolare la sentenza 10 dicembre 2013, n. 309, con cui la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera b), della legge della Provincia autonoma di Bolzano 19 novembre 2012, n. 19 (Disposizioni per la valorizzazione dei servizi volontari in provincia di Bolzano e modifiche delle leggi provinciali in materia di attività di cooperazione allo sviluppo e personale), nella parte in cui escludeva i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nello Stato italiano dalla possibilità di prestare servizio sociale volontario.

L'ordinanza ha osservato che la natura del servizio civile nazionale, caratterizzata da libertà e spontaneità, costituisce espressione della vocazione sociale e solidaristica di chi vi accede e così intesa escluderebbe "il rischio del sorgere di situazioni di conflitto potenziale tra opposte lealtà"; conclude, infine, affermando che "la partecipazione dello straniero regolarmente soggiornante in Italia ad una comunità di diritti, più ampia e comprensiva di quella fondata sulla cittadinanza in senso stretto, sembrerebbe consentirgli, senza discriminazioni in ragione del criterio della nazionalità, di essere legittimato, su base volontaria, a restituire un impegno di servizio a favore di quella stessa comunità, sperimentando le potenzialità inclusive che nascono dalla dimensione solidale e responsabile dell'azione a favore degli altri e a difesa dei valori inscritti nella Carta Repubblicana".

La Sezione Lavoro, Sez. L, n. 11053, Rv. 630925, est. Fernandes, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale concernente l'art. 80, comma 19, della legge 23 novembre 2000, n. 388, nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno, la concessione, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, della pensione e dell'indennità di accompagnamento per ciechi assoluti, nonché dell'assegno sociale maggiorato.

La pronuncia ha posto in evidenza come l'art. 80, comma 19 cit. sia stato già oggetto di esame della giurisprudenza costituzionale che, di volta in volta, lo ha dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevedeva la restrizione dell'ambito applicativo della disciplina, in riferimento a diverse prestazioni assistenziali come l'indennità di accompagnamento, l'assegno di invalidità, la pensione di inabilità, l'indennità di frequenza (Corte cost. sentenze 30 luglio 2008, n. 306, 23 gennaio 2009 n. 11, 28 maggio 2010, n. 187, 16 dicembre 2011, n. 329, 15 marzo 2013 n. 40).

Il collegio remittente ha osservato che i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale nelle richiamate pronunce non possono non valere anche per i benefici dell'indennità di accompagnamento per ciechi assoluti e dell'assegno sociale maggiorato, in quanto trattasi di sussidi che non vanno ad integrare un reddito minimo, ma a fornire alla persona un minimo sostentamento idoneo ad assicurarne la sopravvivenza. Inoltre, ha ritenuto di non poter addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, avuto riguardo sia al tenore letterale delle norme, sia alla circostanza che i precedenti interventi della Corte costituzionale hanno efficacia limitata alle prestazioni di volta in volta esaminate; ha osservato, infine, che non è possibile disapplicare la norma interna contrastante con l'articolo 14 della CEDU (principio di non discriminazione), essendo questa una norma non self executing e non avendo le disposizioni della Convenzione efficacia diretta nell'ordinamento.

2. I diritti degli immigrati. Il sistema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario.

In linea generale, in merito alla valutazione delle domande di protezione internazionale ai sensi dell'art. 3, comma 5, del d.lgs. 17 novembre 2007, n. 251, è stato affermato da Sez. 6-1, n. 15782, Rv. 632198, est. De Chiara, che le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell'onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere in merito alle condizioni soggettive e oggettive finalizzate all'ottenimento della misura tipica o atipica di protezione internazionale.

Il fondamento del peculiare regime probatorio di derivazione comunitaria in materia, ha spiegato la Corte, è volto a soddisfare l'esigenza di accertare la veridicità di circostanze lesive dei diritti umani delle persone. In applicazione di tale assunto, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, che si era limitata ad accertare la mancanza di prova del rapporto familiare del ricorrente, cittadino congolese, con l'autore dell'attentato all'allora Presidente della Repubblica Democratica del Congo e del nesso causale tra le lesioni riscontrate dai certificati medici ed il trattamento subito durante la carcerazione nel suo Paese di provenienza, omettendo di valutare, invece, come la domanda di asilo era stata immediatamente presentata all'arrivo in Italia e che l'istante aveva fatto, con un resoconto privo di contraddizioni interne od esterne, ogni esigibile sforzo di narrazione puntuale e produzione documentale.

La pronuncia, quindi, ha confermato l'indirizzo della Corte secondo cui nell'ipotesi in cui lo straniero non sia in grado di fornire elementi di prova a sostegno dei fatti allegati e non sia agevole il reperimento officioso, il giudice è tenuto ad osservare, nel valutare l'attendibilità delle sue dichiarazioni, i canoni stabiliti dall'art. 3, d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 ovvero che il richiedente abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, abbia fornito idonea motivazione sulla mancanza di elementi, abbia presentato la domanda il prima possibile o il ritardo, abbia una giustificazione e che dai riscontri effettuati sia attendibile (Sez. 1, n. 4138 del 2011, Rv. 616960).

Più in particolare, in ordine ai criteri mediante i quali operare la scelta per il riconoscimento dello status di rifugiato politico ovvero per il riconoscimento della protezione sussidiaria (ovvero la sussistenza di un danno grave ex art. 14, lett. a, b, c, del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251), si è rilevato da Sez. 6-1, n. 6503, Rv. 630179, est. Acierno, che l'esame comparativo dei requisiti necessari evidenzia un diverso grado di personalizzazione del rischio oggetto di accertamento.

Il collegio ha precisato che nella protezione sussidiaria si coglie, rispetto al rifugio politico, una attenuazione del nesso causale tra la vicenda individuale ed il rischio rappresentato, con la conseguenza, che l'esposizione dello straniero al rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti, pur dovendo rivestire un certo grado di individualizzazione, non deve avere i caratteri più rigorosi del fumus persecutionis, mentre, la situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato nel paese di ritorno può giustificare la mancanza di un diretto coinvolgimento individuale nella situazione di pericolo. Nella fattispecie, la Corte in merito alla richiesta presentata dal figlio di un perseguitato, cittadino del Bangladesh, ha chiarito che la persecuzione diretta in patria di cui era oggetto il padre del ricorrente non caratterizzava la posizione di quest'ultimo, non essendovi prova del suo coinvolgimento in attività partitiche, cosicché doveva riconoscersi nei suoi confronti la sola protezione sussidiaria, essendo egli comunque esposto ad un serio rischio per la sua incolumità fisica.

In un altro caso, riguardante uno straniero fuggito dal Paese di origine (Pakistan) per non essere costretto ad arruolarsi nelle milizie talebane, Sez. 6-1, n. 12075, Rv. 631321, est. Acierno, è stato affermato che va riconosciuto il regime di protezione sussidiaria e non lo status di rifugiato politico allo straniero qualora la pressione violenta, pur comportando una minaccia grave ed individuale alla persona, non sia dettata dalla volontà di imporre un'opzione religiosa, ma dall'esigenza d'ingrossare le fila di un'organizzazione armata.

Con riferimento alla nozione di minaccia attuale di persecuzione per motivi di "opinione politica", ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. e, del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, Sez. 6-1, n. 8399, Rv. 630686, est. De Chiara, ha ritenuto che rientra nell'ipotesi normativa, la minaccia da parte di un gruppo armato propugnante la secessione di una parte del territorio nazionale (nella specie, i ribelli del movimento di lotta per l'indipendenza del Casamance - Senegal, denominato MDFC, di arruolare con la forza nelle sue fila giovani residenti), anche se riferita ad episodi risalenti nel tempo, non potendosi escludere la sua persistenza, che va verificata in concreto nell'osservanza dei criteri e con le modalità di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007 e all'art. 8 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25.

Una pronuncia si è soffermata, peraltro, sull'impatto del sopravvenire dell'appartenenza dell'espulso all'Unione europea rispetto ad una legittima espulsione già adottata.

Al riguardo, Sez. 6-1, n. 2085, Rv. 629894, est. De Chiara, ha chiarito che il sopravvenire dell'appartenenza dell'espulso all'Unione europea determina la caducazione ex nunc degli effetti di una pur legittima espulsione amministrativa del medesimo, adottata per ragioni diverse da quelle che consentano l'allontanamento del cittadino di uno Stato dell'Unione. La fattispecie esaminata aveva ad oggetto una espulsione disposta per inottemperanza ad un precedente provvedimento di espulsione; la Corte, tenuto conto della legge 29 febbraio 2012, n. 17, di ratifica ed esecuzione del trattato di adesione all'Unione europea della Repubblica di Croazia, ha dichiarato cessata la materia del contendere e sancito l'irripetibilità delle spese processuali.

In rito, con riferimento al ricorso di cassazione, è stato precisato da Sez. 6-1, n. 2545, Rv. 629916, est. De Chiara, che le controversie in tema di protezione internazionale dello straniero sono assoggettate al rito sommario di cognizione attesa l'avvenuta abrogazione, in forza del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, del rito speciale di cui all'art. 35 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, il cui comma 14 prevedeva, in particolare, la notifica del ricorso per cassazione a cura della cancelleria. Ne consegue che, applicandosi nel giudizio davanti alla Corte di cassazione la disciplina ordinaria contenuta nel codice di procedura civile, è onere del ricorrente, a pena di inammissibilità, notificare il ricorso alla controparte.

Nello stesso ambito, infine, Sez. 6-1, n. 7258, Rv. 630320, est. De Chiara, ha ritenuto che la pronuncia del tribunale con cui è stato dichiarato inammissibile, in quanto tardivamente proposto, il ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ. avverso il rigetto della domanda di protezione internazionale non è impugnabile per cassazione, ma è appellabile ai sensi dell'art. 702 quater cod. proc. civ. in quanto tale norma ammette l'appello avverso le ordinanze emesse ai sensi dell'art. 702 ter, sesto comma, cod. proc. civ. che, a sua volta, si riferisce all'ordinanza di cui al quinto comma dello stesso articolo, pronunciata in tutti i casi in cui il giudice "non provvede ai sensi dei commi precedenti" e, dunque, contenente la regola generale nella quale rientra anche la statuizione d'inammissibilità per tardività della domanda.

Quanto al giudizio di secondo grado, rilevanti appaiono, per un verso, la pronuncia Sez. 6-1, n. 14502, Rv. 631621, est. De Chiara secondo cui l'appello, ex art. 702 quater cod. proc. civ., contro l'ordinanza del tribunale reiettiva del ricorso avverso il diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari, di cui all'art. 30, comma 1, lett. a), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, va proposto con atto di citazione, e non con ricorso, sicchè la verifica della tempestività dell'impugnazione va effettuata calcolandone il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell'atto introduttivo alla parte appellata; per l'altro, la pronuncia Sez. 6-1 n. 26326, in corso di massimazione, est. Acierno, che ha esteso il principio anche ai procedimenti relativi alle domande di protezione internazionale essendo prevista la identica modalità di impugnazione del provvedimento di primo grado assoggettato, in entrambe le ipotesi, al rito sommario così come adattato dal d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150.

2.1. L'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale.

Quanto ai diritti dello straniero entrante e soggiornante nel territorio nazionale, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito la particolare attenzione al tema del ricongiungimento familiare con diverse pronunce.

In un caso, ove era stata negata la qualifica di "familiari" ai minori extracomunitari affidati a cittadini italiani in forza di kafalah (istituto di diritto musulmano volto alla protezione dei minori orfani o abbandonati) ai fini del ricongiungimento in Italia, Sez. 1, n. 11404, Rv. 631435, est. Bernabai, ha affermato, nel solco tracciato dalle sezioni unite n. 21108 del 2013, Rv. 627475, che l'espressione "altri familiari" di cui all'art. 3, comma 2, lett. a, del d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 vada interpretata estensivamente in conformità ai principi affermati dall'art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 24 novembre 1989, ratificata con la legge 27 maggio 1991, n. 176, e dall'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del 7 dicembre 2000, secondo una accezione non strettamente parentale, in ragione del perseguimento del superiore interesse del minore, prevalente su eventuali interessi confliggenti.

Da Sez. 6-1, n. 5303, Rv. 630556, est. De Chiara, è stata data continuità all'affermazione, già contenuta in una serie di pronunce successive all'anno 2010 (di cui, Sez. 6-1, n. 12745 del 2013, Rv. 626959 costituisce precedente più recente), secondo la quale in tema di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari in favore di un cittadino extracomunitario, coniuge di un cittadino italiano, la normativa vigente di cui al d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 non richiede né il requisito oggettivo della convivenza tra il cittadino italiano e il richiedente, né quello del pregresso regolare soggiorno del richiedente; la pronuncia ha ritenuto, inoltre, che nella ipotesi di sopravvenuto decesso del coniuge cittadino italiano, l'art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 30 cit., subordina la conservazione del diritto al soggiorno alla permanenza sul territorio nazionale per almeno un anno prima del decesso ovvero alle ulteriori condizioni alternative previste dalla medesima disposizione.

Inoltre, Sez. 6-1, n. 12006, Rv. 631324, est. Bisogni, ha chiarito che il decreto di espulsione emesso nei confronti dello straniero il quale abbia omesso di chiedere, nei termini di legge, il rinnovo del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, è illegittimo per violazione della clausola di salvaguardia della "coesione familiare" di cui all'art. 5, comma 5, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ove non contenga alcun riferimento alle ragioni per cui non è stata presa in considerazione la situazione familiare dell'espulso.

Sotto altro profilo, è stato inoltre affermato come il divieto di espulsione di cui all'art. 19, comma 2, lett. c, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, non operi allorquando ad uno straniero coniugato con una italiana sia stato revocato il titolo di soggiorno per motivi di pericolosità sociale (Sez. 6-1, n. 18553, Rv. 631939, est. Acierno).

Qualora debba adottarsi un provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, Sez. 6-1, n. 18608, Rv. 631945, est. De Chiara, ha ritenuto che il dettato dell'art. 13, comma 2 bis, lett. a) e lett. b, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (introdotto dal d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5), tende a salvaguardare il diritto alla vita familiare dello straniero in ogni caso in cui esso non contrasti con gli interessi pubblici. Pertanto, ai fini dell'adozione o meno di un provvedimento espulsivo, va tenuto conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell'esistenza dei legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese di origine.

2.2. L'allontanamento dal territorio nazionale; il quadro delle garanzie procedimentali e processuali.

Numerose ordinanze hanno dettato precise indicazioni nel caso di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato con riferimento sia alle garanzie del procedimento sia a quelle del processo.

In via generale, Sez. 6-1, n. 437, Rv. 629814, est. Acierno, ha confermato l'orientamento della Corte in merito al divieto di assumere misure espulsive in via automatica e senza una valutazione concreta dei presupposti su cui si fondano (Sez. 1, n. 18481 del 2011, Rv. 618650); la pronuncia ha osservato in proposito che le misure espulsive degli stranieri, alla luce del nuovo sistema normativo contenuto negli artt. 13 e 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come integrato dal recepimento della Direttiva 115/2008/CE in forza del d.l. 26 giugno 2011, n. 89, convertito dalla legge 2 agosto 2011, n. 129, non possono essere la conseguenza automatica dell'inottemperanza ad un pregresso ordine di allontanamento disposto sotto il previgente regime giuridico dell'art. 14, comma 5 bis e ter, trattandosi di disposizione dichiarata in contrasto con i principi contenuti nella citata Direttiva 115/2008/CE dalla Corte di Giustizia, con sentenza 28 aprile 2011, C-61/11; viceversa, le misure adottabili debbono tener conto ai fini della decisione di rimpatrio, non solo dal riscontro dei requisiti oggettivi previsti dalla legge, ma anche dall'accertamento delle condizioni soggettive per poter procedere al rimpatrio mediante concessione di un termine per la partenza volontaria.

Secondo la Corte, pertanto, il rifiuto di concedere un termine per la partenza volontaria - contenuto nel provvedimento espulsivo - è illegittimo poichè il parametro fondato sull'inottemperanza al pregresso ordine di accompagnamento non costituisce, in mancanza del presupposto della valutazione individuale, un criterio validamente applicabile e non integra una condotta sintomatica della volontà di sottrarsi all'esecuzione della decisione di rimpatrio.

Sotto il profilo procedimentale, Sez. 6-1, n. 13304, Rv. 631512, est. Acierno, ha ribadito la nullità del provvedimento prefettizio qualora all'espellendo venga consegnata una mera copia priva della necessaria attestazione di conformità all'originale.

È stato pure ritenuto, da Sez. 6-1, n. 1809, Rv. 629816, est. Acierno, che il provvedimento di espulsione dello straniero è rimesso alla potestà deliberativa esclusiva del prefetto, la cui legittimità è sindacabile solo ove gli accertamenti di fatto su cui è fondato siano erronei o mancanti, o il cittadino straniero non abbia potuto esercitare la propria opzione in ordine alla richiesta di rimpatrio mediante partenza volontaria, previa adeguata informazione a mezzo di schede informative plurilingue, trattandosi di adempimenti imposti imperativamente dalla legge e dai principi fondativi dei diritti degli stranieri di derivazione comunitaria e costituzionale.

In tema di attribuzioni delle autorità competenti in tema di espulsione dello straniero, Sez. 6-1, n. 1809, Rv. 629815, est. Acierno, ha ritenuto che, per un verso, spetta al prefetto, valutato il singolo caso, stabilire se sussistono le condizioni per concedere, con il provvedimento di espulsione, il termine per la partenza volontaria, per l'altro rientra nella competenza del questore indicare, in tale evenienza, le condizioni per la permanenza medio tempore dello straniero nel territorio nazionale, ovvero, qualora venga disposta l'espulsione immediata, decidere se provvedere all'accompagnamento coattivo immediato, al trattenimento presso il C.I.E. o all'intimazione ex art. 14, comma 5 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998. Da ciò, secondo la Corte, consegue che non vi è contraddittorietà di provvedimenti tra il diniego di concessione di partenza volontaria e la mancata adozione di misure di controllo, che restano applicabili, alternativamente o cumulativamente, dal questore solo nell'ipotesi in cui sia stata accolta dal prefetto la richiesta di rimpatrio volontario.

Nell'ambito del procedimento di protezione internazionale, Sez. 6-1, n. 11871, Rv. 631323, est. Macioce, è stato precisato che l'obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonché quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all'autorità giudiziaria ordinaria (previsto dall'art. 10, commi 4 e 5, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25) è volto ad assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne discende, secondo la pronuncia in esame, che nel caso in cui la parte censuri la decisione per l'omessa traduzione, non può limitarsi a lamentare genericamente la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all'esercizio del diritto di difesa.

In altra ipotesi, nel caso di provvedimento giurisdizionale di sospensione ex art. 5 del d.lgs. 1° novembre 2011, n. 150 del diniego di protezione internazionale, Sez. 6-1, n. 11441, Rv. 631326, est. De Chiara, ha chiarito come si determini la cessazione del regime del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione dello straniero e, quindi, se ne precluda la proroga, venendo l'interessato assoggettato al regime, del tutto diverso, di cui al successivo art. 19, comma 5, che prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo e l'ospitalità nei centri di accoglienza.

Sotto il profilo processuale, Sez. 6-1, n. 8398, Rv. 630618, est. Bisogni, ha affermato che sussiste la competenza del tribunale ordinario e non del tribunale dei minori sulla domanda proposta dai genitori stranieri volta ad ottenere l'iscrizione dei figli minori sul permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, in quanto, ai sensi dell'art. 38, secondo comma, disp. att. e trans. cod. civ., i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria sono emessi dal tribunale ordinario, l'inserimento del minore nel permesso di soggiorno non presuppone necessariamente l'esperimento della procedura di ricongiungimento di cui all'art. 29, comma 1, lett. b, e commi 7, 8 e 9, del d.lgs. n. 286 cit., e, infine, appartiene alla discrezionalità del legislatore (come riconosciuto dalla Corte costituzionale, ordinanze n. 140 del 2001 e n. 295 del 2003) la scelta di affidare al giudice ordinario la tutela del diritto all'unità familiare (nel rispetto del superiore interesse del minore), espressamente riconosciuto agli stranieri regolarmente presenti in Italia, che siano titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.

Ancora in tema di competenza, Sez. 6-1, n. 13536, Rv. 631426, est. Acierno, ha ritenuto che spetta al tribunale, in composizione monocratica, e non al giudice di pace, la competenza a provvedere sulla convalida della proroga del trattenimento quando il cittadino straniero abbia presentato domanda di protezione internazionale e sia già sottoposto a trattenimento in forza di una decisione dell'autorità amministrativa, adottata e convalidata prima del deposito della suddetta richiesta.

La Corte, inoltre, con Sez. 6-1, n. 12609, Rv. 631511, est. De Chiara, ha affermato, che, in sede di convalida del decreto del questore di trattenimento dello straniero raggiunto da provvedimento di espulsione, il giudice è investito del potere di rilevare incidentalmente, ai fini della decisione di sua competenza, la manifesta illegittimità del provvedimento di espulsione; da ciò consegue che il giudice è comunque tenuto - alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, in relazione all'art. 5, par. 1, della CEDU (che consente la detenzione di una persona, a fini di espulsione, a condizione che la procedura sia regolare) - a rilevare incidentalmente, ai fini della decisione di sua spettanza, la manifesta illegittimità, consistente nell'avere l'Amministrazione agito al di fuori della propria competenza ovvero in mala fede.

Con Sez. 6-1, n. 8401, Rv. 630687, est. De Chiara, sempre in rito, si è poi affermato che spetta al tribunale ordinario e non al giudice di pace, provvedere sulla convalida del provvedimento di trattenimento del richiedente asilo in un centro di identificazione ed espulsione, disposto con decreto del questore ai sensi dell'art. 21, comma 1, lett. c, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25.

Inoltre, è stato chiarito da Sez. 6-1, n. 11442, Rv. 631320 est. De Chiara, che il giudice di pace non può disporre la proroga del trattenimento di un cittadino straniero presso un centro d'identificazione ed espulsione, quando il provvedimento espulsivo che ne costituisce il presupposto sia stato, ancorché indebitamente, sospeso, dal momento che il sindacato giurisdizionale, pur non potendo avere ad oggetto la validità dell'espulsione amministrativa, deve rivolgersi alla verifica dell'esistenza ed efficacia della predetta misura coercitiva.

È stato, per altro verso, sottolineato da Sez. 6-1, n. 14268, Rv. 631625, est. De Chiara, che il rilascio del permesso di soggiorno conseguente al riconoscimento della protezione internazionale per motivi umanitari rende inefficace il precedente decreto di espulsione, divenuto ineseguibile, sicché, nel giudizio proposto avverso quest'ultimo, va dichiarata la cessazione della materia del contendere, non potendosi ritenere persistente un interesse all'annullamento di tale decreto, poiché la posizione giuridica dell'interessato resta regolata dal permesso di soggiorno conseguito.

Secondo Sez. 6-1, n. 14267, Rv. 631389, est. De Chiara, è viziato da difetto assoluto di motivazione il provvedimento con il quale il giudice di pace, nel procedimento già disciplinato dagli artt. 13, commi 8, 9 e 10, e 13 bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ed oggi dall'art. 18 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, si limiti, in ipotesi di assenza ingiustificata del difensore del ricorrente, a rigettare il ricorso in forza di una mera valutazione di non manifesta illegittimità del decreto di espulsione impugnato.

In tema di sospensione del decreto di espulsione, Sez. 6-1, n. 19140, Rv. 632067, est. De Chiara, ha affermato che il giudice di pace, innanzi al quale lo straniero abbia impugnato il decreto di espulsione emesso dal Prefetto nei suoi confronti, non può sospenderne l'efficacia sul presupposto della sottoposizione a procedimento penale in Italia dell'impugnante; la pronuncia ha contestualmente escluso la violazione dell'art. 24 Cost in quanto il diritto di difesa è assicurato dalla previsione di cui all'art. 17 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

Sotto altro profilo, infine, Sez. 6-1, n. 18632, Rv. 631940, est. De Chiara, ha ritenuto che la nullità del provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale, reso dalla Commissione territoriale, non ha autonoma rilevanza nel giudizio introdotto dal ricorso al tribunale avverso il predetto provvedimento poiché tale procedimento ha ad oggetto il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata, sicché deve pervenire alla decisione sulla spettanza, o meno, del diritto stesso e non può limitarsi al mero annullamento del diniego amministrativo.

  • matrimonio
  • obbligo degli alimenti
  • madre portatrice
  • separazione legale
  • convivenza
  • figlio naturale

CAPITOLO IV

LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI SOSTANZIALI

(di Paolo Di Marzio )

Sommario

1 La crisi del matrimonio e l'addebito. - 2 La riconciliazione dei coniugi, elementi costitutivi. - 3 L'assegno di mantenimento per il coniuge. - 4 I figli nati fuori dal matrimonio. - 5 La casa familiare. - 6 Convivenza more uxorio e diritti conseguenziali. - 7 L'affidamento della prole. - 8 Il mantenimento della prole. - 9 Il mantenimento dei figli maggiorenni. - 10 Il divieto della maternità surrogata. - 11 Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

1. La crisi del matrimonio e l'addebito.

In ordine alle ragioni che possono essere poste a fondamento della pronuncia di addebito nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la Corte ha avuto modo di specificare che tra esse non può farsi rientrare la commissione di un pur grave reato in danno del coniuge (tentato sequestro a scopo di estorsione), quando esso sia stato posto in essere dopo il deposito del ricorso per la separazione giudiziale dei coniugi ed in un contesto di risalente e stabilizzata cessazione della convivenza tra le parti, essendo venuto meno tra loro il consortium vitae e pure ogni affectio coniugalis, Sez. 1, n. 12182, Rv. 631428, est. Giancola.

Il giudice di legittimità è poi intervenuto a precisare che la pronuncia di addebito, nell'ambito del giudizio di separazione personale dei coniugi, non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri imposti ai coniugi dall'art. 143 cod. civ. È necessario, infatti, in primo luogo accertare che una simile violazione non sia intervenuta quando era già maturata una situazione di incompatibilità della convivenza, sì che la violazione si ponga come una conseguenza della situazione di fatto maturata. Occorre quindi accertare che la violazione dei doveri coniugali abbia assunto una specifica efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale, Sez. 1, n. 18074, Rv. 632263, est. Benini.

2. La riconciliazione dei coniugi, elementi costitutivi.

In materia di elementi che devono ricorrere perché possa ritenersi che i coniugi separati si sono riconciliati, la Corte ha affermato che la mera coabitazione non è sufficiente. È infatti a tal fine necessario che i coniugi ripristinino tra loro quella comunione di vita e d'intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale, Sez. 1, n. 19535, Rv. 632566, est. Acierno.

3. L'assegno di mantenimento per il coniuge.

L'art. 2941, primo comma, n. 1, cod. civ., prevede che la prescrizione rimanga sospesa "tra i coniugi". La Corte ha però ritenuto che, qualora sia già in corso il giudizio di separazione personale, debba prevalere sull'interpretazione letterale della norma un'interpretazione conforme alla ratio legis, ed ha pertanto affermato che in tale fase del rapporto coniugale non rimane sospesa la prescrizione del diritto alla corresponsione dell'assegno di mantenimento. La previsione della sospensione della prescrizione tra coloro che sono uniti in matrimonio, infatti, si spiega con la comprensibile riluttanza che un consorte manifesta nel convenire in giudizio l'altro. Quando però il giudizio di separazione personale è ormai pendente, la crisi del rapporto matrimoniale è conclamata, gli obblighi di fedeltà e collaborazione dei coniugi sono sospesi e la convivenza è cessata, non vi è ragione di ritenere che permanga alcuna ritrosia ad agire in giudizio nei confronti del coniuge separato per rivendicare il versamento dell'assegno di mantenimento, Sez. 1, n. 7981, Rv. 630120, est. Campanile.

Ai sensi dell'art. 156 cod. civ., il diritto al mantenimento a seguito della separazione personale dei coniugi sorge, in favore del coniuge al quale la separazione non sia addebitabile, qualora non disponga di redditi sufficienti a consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva in corso di matrimonio. La Corte ha in proposito precisato che, nel valutare quale fosse il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio, il giudice dovrà tener conto di ogni reddito disponibile da parte del richiedente, comprese le elargizioni operate dai familiari del coniuge in corso di matrimonio, Sez. 1, n. 13026, Rv. 631516, est. Bisogni.

4. I figli nati fuori dal matrimonio.

L'art. 277 cod. civ. dispone che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, e l'art. 261 cod. civ. prevede che il riconoscimento comporta da parte del genitore l'assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi, e pertanto anche l'obbligo al mantenimento di cui agli artt. 147 e 148 cod. civ. In proposito la Corte ha avuto occasione di specificare che il diritto al rimborso pro quota delle spese sostenute fin dalla nascita per il mantenimento del figlio naturale, che spetta al genitore il quale ha allevato la prole in via esclusiva, non può essere azionato, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione di paternità naturale, se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che costituisce pertanto il momento iniziale della decorrenza dell'ordinario termine di prescrizione decennale entro il quale il diritto al regresso può essere fatto valere, Sez. 1, n. 7986, Rv. 630119, est. Giancola. La decisione dichiara di richiamarsi, tra l'altro, alla sentenza della Sez. 1, n. 15756 del 2006, Rv. 592466, in cui la Corte aveva precisato che il diritto del genitore il quale ha allevato il figlio al regresso nei confronti dell'altro genitore trova la sua regola nelle disposizioni dettate dall'art. 1299 cod. civ. per la disciplina dei rapporti tra condebitori solidali.

Il giudice di legittimità, ancora in relazione al diritto al rimborso delle spese a favore del genitore che ha provveduto in esclusiva al mantenimento del figlio naturale fin dalla nascita, ha affermato che, sebbene detto diritto trovi titolo nell'obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all'altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, in quanto diretto ad indennizzare il genitore che ha riconosciuto il figlio degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole. Ne consegue che il giudice di merito, ove l'importo non sia altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, legittimamente provvede alla determinazione della somma dovute quantificandola secondo equità, trattandosi di criterio di valutazione del pregiudizio di portata generale, fermo restando che, essendo la richiesta di indennizzo assimilabile ad un'azione di ripetizione dell'indebito, gli interessi, in assenza di un precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora, decorreranno dalla data della domanda giudiziale, Sez. 1, n. 16657, Rv. 632208, est. Lamorgese.

5. La casa familiare.

La Corte ha avuto occasione di intervenire ripetutamente in materia di spettanza dei benefici fiscali per l'acquisto della prima casa quando tra i coniugi sia ormai intervenuta la separazione, di fatto o di diritto. In quest'ultima ipotesi ha precisato - ricordato che le agevolazioni tributarie per l'acquisto della prima casa competono a chi non abbia la disponibilità di altro alloggio nel medesimo Comune a titolo di proprietà o altro diritto reale (cfr. art. 1, nota II bis, lett. b) e c), della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131) - che la disponibilità della ex casa coniugale, ricevuta in assegnazione da uno dei consorti per effetto di provvedimento adottato dal giudice della separazione o del divorzio, non comportando l'attribuzione di un diritto reale bensì di un diritto personale di godimento di natura atipica, non è di ostacolo al godimento dei benefici fiscali, Sez. 5, n. 2273, Rv. 629512, est. Sambito. La Corte ha pure affermato che qualora in sede di separazione consensuale dei coniugi sia stata prevista l'attribuzione in proprietà ad un solo coniuge della casa familiare, non si realizza una forma di alienazione immobiliare rilevante ai fini della decadenza dai benefici tributari per l'acquisto della prima casa, bensì una forma di utilizzazione dell'immobile per la migliore sistemazione dei rapporti tra i coniugi, in considerazione della cessazione della loro convivenza, Sez. 6-5, n. 3753, Rv. 629984, est. Cicala. La Corte ha anche affermato che al verificarsi della separazione legale la comunione tra coniugi di un diritto reale su un immobile, per quanto acquistato in regime di comunione legale, deve essere equiparata alla contitolarità indivisa dei diritti sui beni tra soggetti estranei, che è compatibile con la fruizione delle agevolazioni per l'acquisto della prima casa, perché la facoltà di usare il bene comune, che non impedisca a ciascuno degli altri comunisti di farne parimenti uso, ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., non consente di destinare la casa comune ad abitazione di uno solo dei comproprietari, per cui la titolarità della quota è simile a quella di un immobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative, Sez. 5, n. 3931, Rv. 629628, est. Sambito.

Diversamente, nel caso in cui i coniugi siano separati soltanto di fatto, la Corte ha innanzitutto ritenuto di conformarsi al principio enunciato a proposito della prova del luogo di residenza secondo cui le agevolazioni fiscali per l'acquisto della prima casa possono essere riconosciute a chi possa dimostrare "in base a dati certificati" e pertanto a "risultanze anagrafiche", di avere la propria residenza nel Comune in cui sorge l'immobile (Sez. 6-5, n. 1530 del 2012, Rv. 621386). Ha quindi specificato che analogo principio deve affermarsi in riferimento alla prova di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso o abitazione, in relazione ad altro immobile sito nel medesimo Comune. La Corte ha infatti giudicato che a tal fine non possono essere prese in considerazione situazioni di fatto contrastanti con le risultanze del dato anagrafico, perché il riconoscimento di un beneficio fiscale, di per sé di stretta interpretazione, deve essere ancorato ad un dato certo, e tale non è la separazione di fatto dei coniugi. La Corte ha pure specificato che il principio della prevalenza del dato anagrafico sulle situazioni di fatto è dettato in chiara funzione antielusiva, Sez. 5, n. 7069, Rv. 629941, est. Sambito.

Ancora in materia di destino della casa coniugale a seguito della separazione dei coniugi, la Corte ha avuto occasione di precisare che il giudice può assegnare una parte dell'originaria abitazione, tutta di proprietà esclusiva del genitore non collocatario, al genitore collocatario dei figli perché la abiti con loro, specie quando vi sia una limitata conflittualità tra i coniugi separati e la scelta appaia opportuna per assicurare più agevoli e frequenti contatti tra i figli ed il genitore non collocatario. Tuttavia, ove quest'ultimo scelga di trasferire altrove la propria residenza, il provvedimento di assegnazione parziaria non trova più la predetta giustificazione, ed è compito del giudice di merito accertare se l'originaria casa coniugale non fosse costituita dall'intero immobile, perché in questo caso apparirebbe corretto assegnare l'intera casa in favore del genitore collocatario perché la abiti con la prole che con quest'ultimo conviva, Sez. 6-1, n. 8580, Rv. 631071, est. Acierno.

La Corte ha avuto l'opportunità di pronunciarsi anche in ordine al destino della casa familiare a seguito della intervenuta separazione dei coniugi, in caso di morte di uno dei consorti separati, che abitavano ormai in case diverse, qualora il de cuius fosse proprietario esclusivo dell'appartamento in cui viveva. Il giudice di legittimità ha in tale occasione statuito che al coniuge superstite non può riconoscersi il diritto di abitazione nell'appartamento e di uso dei mobili che l'arredano, secondo le previsioni di cui all'art. 540, secondo comma, cod. civ., perché la norma è dettata in riferimento alla casa familiare e tale può ritenersi solo quella in cui i coniugi convivano all'epoca della scomparsa di uno di loro, Sez. 2, n. 13407, Rv. 631146, est. Matera.

Il giudice di legittimità ha poi affrontato la problematica della giusta durata dell'assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva di un coniuge all'altro, perché la abiti insieme ai figli nati dal matrimonio. Dato per scontato che in tal caso l'assegnazione della casa familiare al coniuge non proprietario dell'immobile si giustifica solo nel caso che sia collocatario dei figli, la Corte ha specificato che le circostanze le quali giustificano il permanere dell'assegnazione devono essere valutate dal giudice con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all'età dei beneficiari, fermo restando che il sacrificio imposto al coniuge proprietario, ma estromesso dalla casa coniugale, non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura. Il giudice di legittimità ha perciò confermato la decisione della Corte di merito che aveva ritenuto ingiustificato il protrarsi dell'assegnazione della casa familiare alla moglie sul mero presupposto dello stato di disoccupazione dei figli dei coniugi separati collocati presso di lei, pur in un contesto di crisi economica, essendo i figli ormai entrambi ultraquarantenni, Sez. 1, n. 18076, Rv. 631933, est. Lamorgese.

La Corte si è quindi occupata, a Sezioni Unite, del problema del rilievo dei legami familiari in relazione al contratto di comodato. Il giudice di legittimità ha statuito che il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, può opporre al comodante il quale chieda il rilascio dell'immobile, l'esistenza di un provvedimento di assegnazione in suo favore della casa familiare, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Fermo restando che a seguito del provvedimento di assegnazione si verifica la concentrazione del rapporto in favore del genitore assegnatario, ancorché diverso dall'originario contraente, in tale evenienza il contratto, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 cod. civ., sorge per un uso determinato ed ha - in assenza di una espressa indicazione della scadenza - una durata determinabile per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare. Pertanto, indipendentemente dall'insorgere di una crisi coniugale, il vincolo contrattuale è destinato a persistere o a venir meno in conseguenza della sopravvivenza o del venir meno delle necessità familiari (nella specie, relative a figli minori) che avevano legittimato l'assegnazione dell'immobile, Sez. U, n. 20448, Rv. 633004, est. D'Ascola.

6. Convivenza more uxorio e diritti conseguenziali.

In materia di diritto all'abitazione la Corte aveva già di recente specificato che il rapporto di convivenza more uxorio comporta l'instaurarsi di un rapporto di coabitazione che non ha i caratteri della mera ospitalità offerta dal convivente proprietario dell'immobile, ed assume anzi i connotati tipici di una detenzione qualificata da parte del convivente non proprietario. Quest'ultimo, in conseguenza, è stato ritenuto legittimato ad esercitare l'azione di spoglio nei confronti del convivente che lo avesse estromesso violentemente o clandestinamente dall'appartamento (Sez. 2, n. 7214 del 2013, Rv. 626080). Nell'anno 2014 la Corte è quindi tornata in argomento per ribadire che la convivenza more uxorio determina, sulla casa ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto sull'appartamento da parte di entrambi i conviventi, avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, ed ha specificato che la condizione di detentore qualificato dell'immobile è opponibile dal convivente more uxorio del comodatario dell'appartamento anche al terzo comodante, Sez. 2, n. 7, Rv. 628849, est. Migliucci.

La Corte ha avuto modo di esaminare anche un'articolata vicenda in cui un uomo ed una donna si erano uniti in un rapporto di convivenza more uxorio. A seguito del trasferimento in Cina dell'uomo, la convivente aveva rinunciato anche ad un lavoro quale dirigente pur di seguire il compagno. Dall'unione era quindi nato un figlio. Dopo qualche anno, però, i due si erano separati ed avevano anche regolato consensualmente i reciproci impegni, specie in considerazione della prole. Residuavano tuttavia pretese da parte dell'uomo, che domandava la restituzione di almeno parte del denaro corrisposto nel corso del rapporto direttamente alla convivente, e trattavasi di somme diverse da quanto versatole per le esigenze della vita, mentre lei domandava il riconoscimento di un indennizzo per aver lasciato una carriera lucrosa e di buone prospettive al solo fine di seguire il convivente in Asia. Il giudice di legittimità, dopo aver evidenziato che le unioni di fatto assumono rilievo anche ai sensi dell'art. 2 Cost., ha ricordato che dalle stesse derivano reciproci doveri di natura morale e sociale da parte dei conviventi. Ha quindi specificato che le attribuzioni patrimoniali effettuate in favore del convivente more uxorio nel corso della durata dell'unione, per quanto costituite nella specie da versamenti sul conto corrente personale della beneficiaria, configurano comunque l'adempimento di una obbligazione naturale ai sensi dell'art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza, e non sono perciò suscettibili di ripetizione. Queste prestazioni, infatti, non assumono natura indennitaria, nel caso di specie neppure per compensare la rinuncia a favorevoli occasioni di carriera professionale, ma sono fornite nell'ambito di un rapporto personale in cui la reciproca solidarietà assume un rilievo centrale, sono espressione del vincolo di unione che, per un tempo della loro vita, ha legato un uomo ed una donna, Sez. 1, n. 1277, Rv. 629802, est. Campanile.

7. L'affidamento della prole.

Il problema di distinguere l'affidamento legale del minore dall'esercizio in fatto dell'affidamento stesso si è posto in relazione ad una controversia avente ad oggetto la sottrazione internazionale di minori. La Corte infatti, dopo aver ricordato che ai sensi dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja del 25.10.1980, costituisce un presupposto indefettibile perché possa essere disposto il rimpatrio del minore la circostanza che, al momento del trasferimento, il diritto di affidamento fosse effettivamente esercitato dal richiedente il rimpatrio, neppure rilevando le ragioni del suo eventuale mancato esercizio, ha cassato la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto di poter disporre il rimpatrio sulla base del mero provvedimento di affidamento legale del minore, senza accertare se il richiedente il rimpatrio esercitasse effettivamente l'affidamento sul figlio d'età minore, Sez. 1, n. 14561, Rv. 631810, est. Lamorgese.

8. Il mantenimento della prole.

La Corte, evidenziato che il figlio minore ha un interesse proprio, distinto e preminente rispetto a quello dei genitori, a vedersi assicurato un contributo al mantenimento idoneo al soddisfacimento delle proprie esigenze di vita, ha precisato che le sue aspettative non rimangono compromesse dall'accordo raggiunto dai genitori circa la corresponsione dell'assegno di divorzio in un'unica soluzione. Tale scelta non pregiudica infatti la possibilità di richiedere, nell'interesse del figlio avente diritto al mantenimento, la modifica delle condizioni economiche del divorzio agendo ai sensi dell'art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, qualora il ricordato accordo, per fatti intervenuti successivamente alla definitività della sentenza, si riveli inidoneo a soddisfare le esigenze del figlio, Sez. 1, n. 13424, Rv. 631425, est. Bisogni.

Decidendo in tema di conseguenze del divorzio, quindi, il giudice di legittimità ha chiarito che il contributo al mantenimento dei figli minori, quantificato in una somma fissa mensile da corrispondere in favore del genitore affidatario, non costituisce (in mancanza di diverse disposizioni) il mero rimborso delle spese sostenute da quest'ultimo nel mese corrispondente, bensì la rata mensile di un assegno annuale determinato, tenendo conto di ogni altra circostanza emergente dal contesto, in funzione delle esigenze della prole rapportate all'anno. In conseguenza il genitore non affidatario non può ritenersi sollevato dall'obbligo di corresponsione dell'assegno in relazione al tempo in cui i figli, nel rispetto delle modalità di visita disposte dal giudice, si trovino presso di lui ed egli provveda perciò in modo esclusivo al loro mantenimento, Sez. 1, n. 18869, Rv. 632192, est. San Giorgio.

9. Il mantenimento dei figli maggiorenni.

In ordine al principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui le somme corrisposte all'ex coniuge beneficiario per il mantenimento proprio o dei figli in pendenza (del giudizio di separazione oppure di divorzio o) della procedura per la revisione delle condizioni di divorzio sono irripetibili perché, anche se eccedenti nella misura fissata tanto che questa sia stata ridotta all'esito della procedura, deve ritenersi che le somme versate siano state comunque tutte consumate per soddisfare primarie esigenze dei beneficiari, la Corte ha avuto modo di specificare che tale principio di irripetibilità, nel caso in cui all'esito della procedura l'importo dovuto sia stato ridotto per la sopravvenuta indipendenza economica dei figli maggiorenni, si giustifica solo qualora possa ritenersi che gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, ipotesi che non ricorre qualora ne abbiano beneficiato soggetti autosufficienti in un periodo in cui, stante la pendenza della controversia, era noto il rischio restitutorio, Sez. 1, n. 11489, Rv. 631633, est. Giancola.

10. Il divieto della maternità surrogata.

La Corte è intervenuta anche in materia di surrogazione di maternità, ossia della pratica per cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un figlio per un'altra donna. Il giudice di legittimità ha innanzitutto evidenziato che nell'ordinamento giuridico italiano, per il quale la madre è colei che partorisce il bambino (art. 269, terzo comma, cod. civ.) si rinviene, all'art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, un espresso divieto della maternità surrogata. Ha quindi specificato che il divieto di dare corso a tecniche di surrogazione di maternità costituisce una norma di ordine pubblico per l'ordinamento italiano, venendo in rilievo la dignità umana della gestante e l'istituto dell'adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone in contrasto. Nel caso di specie il giudice di legittimità ha confermato la dichiarazione dello stato di abbandono di un bambino il cui atto di nascita, formato all'estero, non appariva veritiero. Dal documento, infatti, il bambino risultava essere figlio di una coppia di italiani ma nel corso del giudizio era emerso che il minore, sotto l'aspetto genetico, non era affatto figlio di coloro che risultavano essere i suoi genitori. L'atto di nascita del bambino, pertanto, risultava invalido anche per la legislazione dello Stato in cui era stato formato, l'Ucraina, perché in quel Paese si consente la maternità surrogata, ma si richiede che almeno il 50% del patrimonio genetico del bambino appartenga ai genitori risultanti dall'atto di nascita, Sez. 1, n. 24001, Rv. 633634, est. De Chiara.

11. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

La Corte ha quindi confermato, nelle sue linee essenziali, anche la propria giurisprudenza ormai consolidata nell'affermare che la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per esclusione da parte di un coniuge di uno dei "bona" matrimoniali, ed in particolare di quello relativo alla procreazione, causa di nullità del matrimonio sconosciuta nell'ordinamento giuridico italiano, può conseguire il riconoscimento dell'esecutività "quando quella esclusione, sia pure unilaterale, sia stata portata a conoscenza dell'altro coniuge prima della celebrazione del matrimonio, o se questo coniuge ne abbia preso atto, ovvero quando vi siano stati elementi rivelatori di quell'atteggiamento psichico non percepiti dall'altro coniuge solo per sua colpa grave da valutarsi in concreto". Nel caso di specie, peraltro, la Corte di merito aveva ritenuto provato che entrambi i coniugi, anche se per motivazioni diverse, avevano contratto matrimonio prevenuti rispetto alla procreazione, Sez. 1, n. 11226, Rv. 631433, est. Didone.

  • abitazione
  • eredità
  • donazione
  • testamento di vita

CAPITOLO V

SUCCESSIONI E DONAZIONI

(di Cesare Trapuzzano )

Sommario

1 La delazione ereditaria. - 2 L'accettazione dell'eredità. - 3 L'accettazione beneficiata. - 4 La rinunzia all'eredità. - 5 La petizione d'eredità. - 6 Il diritto di abitazione e di uso del coniuge superstite. - 7 Il legato in sostituzione di legittima. - 8 Il testamento. - 9 La sostituzione fedecommissaria. - 10 L'esecutore testamentario. - 11 La divisione ereditaria. - 12 Il retratto successorio. - 13 La collazione. - 14 L'annullamento della divisione. - 15 Le donazioni.

1. La delazione ereditaria.

La successione mortis causa si fonda su due principi basilari. In primo luogo, deve essere garantita la possibilità di disporre dei beni, il che incentiva la produzione e l'accumulo e non solo il consumo. È evidente che se, per effetto del decesso, i beni residui fossero avocati allo Stato non vi sarebbe alcuna induzione alla produzione, oltre i meri limiti funzionali al consumo. In questo senso il principio si colloca nel generale favor riconosciuto alla proprietà privata, come sancito dall'art. 42, quarto comma, Cost. In secondo luogo, l'ordinamento giuridico ritiene che sia meritevole di tutela l'interesse dei parenti a mantenere nell'ambito della cerchia familiare il patrimonio del de cuius. In applicazione di tali principi, ai sensi dell'art. 457, primo comma, cod. civ., l'eredità si devolve per legge (delazione legittima) o per testamento (delazione testamentaria). Il collegamento tra le due forme di vocazione è individuato dal secondo comma, secondo cui non si fa luogo alla successione legittima se non quando manchi, in tutto o in parte, quella testamentaria. È esclusa, di conseguenza, qualsiasi coesistenza tra successione legittima e testamentaria. Detta coesistenza non si realizza neanche quando la successione per testamento non produca effetti. Sicché Sez. 6-2, n. 22195, Rv. 632598, est. Proto, ha puntualizzato che nessuna sovrapposizione o coesistenza si verifica tra successione testamentaria e successione legittima nel caso di perdita del diritto di accettare l'eredità ai sensi dell'art. 481 cod. civ. per il decorso, senza esito, del termine concesso dall'autorità giudiziaria per l'accettazione dell'eredità (cd. actio interrogatoria), che comporta la contestuale perdita della qualità di chiamato all'eredità per testamento, poiché in tale evenienza la devoluzione testamentaria diviene inefficace e si apre esclusivamente la successione legittima, senza che l'amministrazione statale possa rivendicare alcunché.

Sul piano tributario, deve essere valorizzato il principio secondo cui, in tema di imposta sulle successioni, presupposto dell'imposizione è la chiamata all'eredità, non già l'accettazione. Ne consegue che, allorché la successione riguardi anche l'eredità devoluta al dante causa e da costui non ancora accettata, l'erede è tenuto al pagamento dell'imposta anche relativamente alla successione apertasi in precedenza a favore del suo autore, la cui delazione sia stata trasmessa ai sensi dell'art. 479 cod. civ., come è stato argomentato da Sez. 6-5, n. 21394, Rv. 632358, est. Conti.

2. L'accettazione dell'eredità.

La qualità di erede si acquista, di regola, volontariamente in ragione dell'accettazione, i cui effetti retroagiscono al momento in cui è aperta la successione, alla stregua di una finzione giuridica. L'accettazione è sempre un atto volontario e consapevole del chiamato, epresso o tacito, ai sensi dell'art. 474 cod. civ. Occorre chiedersi se tale accettazione possa riguardare anche i chiamati a succedere in ordine successivo, sulla scorta di una delazione simultanea. Secondo quanto argomentato da Sez. 2, n. 2743, Rv. 629343, est. Abete, in tema di successioni legittime, qualora sussista una pluralità di designati a succedere in ordine successivo, si realizza una delazione simultanea a favore dei primi chiamati e dei chiamati ulteriori, con la conseguenza che questi ultimi, in pendenza del termine di accettazione dell'eredità dei primi chiamati, sono abilitati ad effettuare una accettazione, anche tacita, dell'eredità.

L'accettazione è espressa quando, in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato all'eredità dichiari di accettarla oppure assuma il titolo di erede. È, invece, tacita quando il chiamato all'eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella sua qualità di erede. La volontà di accettare non deve avere riguardo alla natura dell'atto compiuto ma all'animus e deve provenire necessariamente dal chiamato interessato, non già da terzi. Al riguardo, Sez. 3, n. 15888, Rv. 632054, est. Vivaldi, ha chiarito che l'accettazione tacita di eredità, pur potendo avvenire attraverso negotiorum gestio, cui segua la successiva ratifica del chiamato, o per mezzo del conferimento di una delega o dello svolgimento di attività procuratoria, può tuttavia desumersi soltanto da un comportamento del successibile e non di altri, sicché non ricorre ove solo l'altro chiamato all'eredità abbia fatto richiesta di voltura catastale di un immobile del de cuius, in assenza di elementi dai quali desumere il conferimento di una delega o la successiva ratifica del suo operato. Inoltre, l'accettazione tacita presuppone la volontà, effettiva o presupposta, del chiamato di acquistare l'eredità, a differenza dell'ipotesi regolata dall'art. 527 cod. civ., che ne prescinde completamente e considera erede puro e semplice colui che sottrae o nasconde i beni ereditari, assolvendo ad una funzione di garanzia dei creditori del de cuius, ai quali non può essere opposto un esonero di responsabilità attraverso il beneficio d'inventario o la rinunzia, come ha rilevato Sez. 2, n. 21348, Rv. 632834, est. Matera.

Costituiscono comportamenti significativi dell'accettazione tacita, purché provenienti dallo stesso chiamato, quelli che hanno una valenza dispositiva e non meramente conservativa. In applicazione di questo principio, Sez. 2, n. 2743, Rv. 629342, est. Abete, ha ritenuto che la riscossione dei canoni di locazione di un bene ereditario, quale atto dispositivo e non meramente conservativo, integra accettazione tacita dell'eredità, ai sensi dell'art. 476 cod. civ.

Nello stesso senso, altra pronuncia di Sez. 6-2, n. 22317, Rv. 632918, est. San Giorgio, richiamando un proprio precedente (Sez. 2, n. 10796 del 2009, Rv. 608105), ha rilevato che tra gli atti incompatibili con la volontà di rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare non possono essere annoverati gli atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di successione, mentre l'accettazione tacita può essere desunta dal compimento di atti che siano al contempo fiscali e civili, come la voltura catastale, che rileva non solo dal punto di vista tributario, ma anche sul piano civile.

Anche l'azione in giudizio promossa dall'erede può costituire atto significativo dell'accettazione tacita. Così Sez. 3, n. 22223, Rv. 633200, est. Carluccio, ha sostenuto che il figlio che aziona in giudizio un diritto del genitore, del quale afferma essere erede ab intestato, ove non sia stato contestato il rapporto di discendenza con il de cuius, non deve ulteriormente dimostrare, al fine di dare prova della sua legittimazione ad agire, l'esistenza di tale rapporto producendo l'atto dello stato civile attestante la filiazione, ma è sufficiente, in quanto chiamato all'eredità a titolo di successione legittima, che abbia accettato, anche tacitamente, l'eredità, di cui costituisce atto idoneo l'esercizio stesso dell'azione.

Ai sensi dell'art. 480 cod. civ., il diritto di accettare l'eredità si prescrive in dieci anni. Tale termine decorre dal giorno dell'apertura della successione e, in caso di istituzione condizionale, dal giorno in cui si verifica la condizione. Come è stato previsto dall'art. 69 del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, con decorrenza dal 7 febbraio 2014, in caso di accertamento giudiziale della filiazione, il termine per l'accettazione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione stessa. Il termine non corre per i chiamati ulteriori, se vi è stata accettazione da parte di precedenti chiamati e successivamente il loro acquisto ereditario è venuto meno. Inoltre, il termine di prescrizione per l'accettazione non è soggetto ad interruzione. Sicché, come affermato da Sez. 2, n. 21687, Rv. 632747, est. Migliucci, la pendenza di un giudizio volto all'accertamento del soggetto destinatario dell'istituzione di erede, sulla base della ricostruzione della volontà testamentaria, non rileva, in quanto impedimento di mero fatto, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione ex art. 480 cod. civ., trattandosi di diritto di natura potestativa, per il quale non operano gli atti interruttivi della prescrizione e che è soggetto unicamente alle ordinarie cause di sospensione ed agli impedimenti legali.

Infine, Sez. 2, n. 25643, in corso di massimazione, est. Picaroni, ha evidenziato che l'atto di accettazione dell'eredità non è idoneo a dimostrare l'avvenuto acquisto a titolo originario, giacché la prova della successione nel processo, regolata dall'art. 1146, primo comma, cod. civ., presuppone la prova del possesso del dante causa. Allo stesso modo, il contratto di vendita di un bene non prova, di per sé, l'acquisto del possesso in favore dell'acquirente, ai sensi dell'art. 1146, secondo comma, cod. civ., occorrendo a tal fine la dimostrazione del possesso dell'alienante e dell'immissione nel possesso dell'acquirente.

3. L'accettazione beneficiata.

Il chiamato all'eredità può evitare ogni pericolo in ordine alle conseguenze patrimoniali dell'acquisto della qualità di erede attraverso un'accettazione con beneficio d'inventario, la quale ha l'effetto di limitare la responsabilità dell'erede entro i limiti di valore del patrimonio relitto dal de cuius. L'accettazione beneficiata si effettua mediante dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione. Quindi, deve essere inserita nel registro delle successioni e trascritta presso l'ufficio dei registri immobiliari. La dichiarazione deve essere preceduta o seguita dalla redazione dell'inventario nelle forme prescritte dal cod. proc. civ.

L'accettazione beneficiata è poi prescritta per legge a tutela degli incapaci (minori, interdetti e inabilitati). Questi ultimi, ai sensi dell'art. 489 cod. civ., non si intendono decaduti dal beneficio d'inventario se non al compimento di un anno dalla maggiore età o dal cessare dello stato di interdizione o di inabilitazione, se entro tale termine non si siano conformati alla norme che regolano tale accettazione.

Sul punto, Sez. 5, n. 10054, Rv. 630830, est. Greco, ha sostenuto che i destinatari della disciplina sulla redazione dell'inventario che possono usufruire del prolungamento del termine sono solo gli incapaci. Sicché, in tema di accettazione beneficiata, il prolungamento dei termini per la redazione dell'inventario in presenza di minori chiamati all'eredità, ai sensi dell'art. 489 cod. civ., non si estende ai loro rappresentanti che eventualmente siano chiamati in proprio.

4. La rinunzia all'eredità.

Se il chiamato all'eredità non intende accettare la delazione può rinunciare con una dichiarazione unilaterale non recettizia, ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione e inserita nel registro delle successioni. In merito, bisogna interrogarsi sulla finalità di detta inserzione.

Secondo Sez. 3, n. 3346, Rv. 629957, est. Armano, l'inserzione dell'atto di rinuncia all'eredità nel registro delle successioni costituisce una forma di pubblicità funzionale a rendere la rinuncia opponibile ai terzi e non ai fini della sua validità. Ne consegue che il creditore ereditario, che agisca in giudizio contro l'erede per il pagamento dei debiti del de cuius, a fronte della produzione di un atto pubblico di rinunzia all'eredità, ha l'onere di provare, anche solo mediante l'acquisizione di una certificazione della cancelleria del tribunale competente, il mancato inserimento dell'atto de quo nel registro delle successioni. Tanto esclude l'opponibilità dell'atto abdicativo al creditore.

Se la rinunzia riguardi le disposizioni testamentarie e provenga da tutti i beneficiari del testamento, affinché si produca l'effetto del rifiuto è necessaria la forma scritta ad substantiam, qualora nella successione siano compresi beni immobili, poiché tale rinunzia ha valore dispositivo, importando una modificazione della misura delle quote spettanti a ciascuno. Si intende fare riferimento all'ipotesi in cui il de cuius abbia disposto con testamento solo di una parte dell'asse ereditario. In proposito, Sez. 2, n. 12685, Rv. 631139, est. Bucciante, ha testualmente affermato: "Per la valida rinunzia a far valere il testamento, occorre l'accordo di tutti i coeredi, da redigere per atto scritto, a pena di nullità, se nella successione sono compresi beni immobili, poiché detto accordo, importando una modificazione quantitativa delle quote, tanto dal lato attivo, che da quello passivo, si risolve in un atto di disposizione delle stesse".

Secondo Sez. 2, n. 25151, in corso di massimazione, est. Picaroni, qualora la notificazione dell'atto di riassunzione del giudizio di primo grado interrotto per morte di una parte sia avvenuta nei confronti del chiamato all'eredità che abbia contestato l'assunzione effettiva della qualità di erede, lamentando il proprio difetto di legitimatio ad causam, e successivamente abbia rinunciato all'eredità, senza che la sentenza ne abbia tenuto conto, la pronuncia di primo grado è nulla, attesa l'efficacia retroattiva della rinunzia all'eredità, prevista dall'art. 521 cod. civ., con la conseguenza che il giudice d'appello deve rimettere il giudizio al primo grado, ai sensi dell'art. 354 cod. proc. civ., per la regolarizzazione del contraddittorio, eventualmente previa nomina di un curatore dell'eredità giacente.

5. La petizione d'eredità.

L'erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi. L'azione è imprescrittibile, salvi gli effetti dell'usucapione rispetto ai singoli beni. Si tratta di una specifica azione di rivendica, connotata dalla particolarità dei beni rivendicati: deve trattarsi di beni ereditari. Pertanto, la petizione d'eredità non ha una finalità meramente dichiarativa, ma importa una condanna alla restituzione.

Come ha sostenuto Sez. 2, n. 2148, Rv. 629483, est. Manna, la petizione di eredità e l'azione di accertamento della qualità di erede differiscono tra loro in quanto, pur condividendo l'accertamento della qualità ereditaria, la prima è azione necessariamente recuperatoria, volta ad ottenere la restituzione dei beni ereditari da chi li possegga a titolo di erede o senza titolo, mentre l'altra è azione essenzialmente dichiarativa, eventualmente corredata da domanda accessoria di condanna non attinente alla restituzione dei beni ereditari. Ne consegue che l'azione di accertamento della qualità di coerede, proposta nei confronti di chi possegga i beni ereditari a titolo di erede, corredata dalla domanda di rendiconto della gestione e di corresponsione dei relativi frutti, non integra petitio hereditatis, ma costituisce azione di accertamento con domanda accessoria di condanna.

L'art. 535 cod. civ. prevede che la tutela del possessore si estenda anche al possessore dei beni ereditari contro cui sia stata proposta l'azione di petizione d'eredità. Sicché tale previsione non si applica al condividente che sia stato possessore esclusivo dei beni ereditari, all'esito dello scioglimento della comunione ereditaria. In tal senso si è pronunciata Sez. 2, n. 640, Rv. 629066, est. Mazzacane, la quale ha appunto rilevato che l'art. 535, primo comma, cod. civ., che rinvia alle disposizioni sul possesso in ordine alla restituzione dei frutti, alle spese, ai miglioramenti e alle addizioni, si riferisce al possessore di beni ereditari convenuto in petizione di eredità ex art. 533 cod. civ., mentre è estraneo allo scioglimento della comunione ereditaria; esso non si applica, quindi, al condividente che, avendo goduto il bene comune in via esclusiva senza titolo giustificativo, è tenuto alla corresponsione dei frutti civili agli altri condividenti, quale ristoro della privazione del godimento pro quota.

6. Il diritto di abitazione e di uso del coniuge superstite.

Ai sensi dell'art. 540, secondo comma, cod. civ., al coniuge del de cuius sono riservati, anche quando concorra con altri chiamati, i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni. Tali diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota riservata ai figli. I diritti successori del coniuge non separato spettano anche al coniuge separato senza addebito, in forza dell'equiparazione effettuata dall'art. 548, primo comma, cod. civ. Invece, al coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in cosa giudicata spetta soltanto un assegno vitalizio se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. E ciò anche se la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi. Entro questa cornice normativa, il diritto di abitazione ed il diritto di uso postulano che effettivamente il coniuge abbia vissuto nella casa familiare. In difetto di tale circostanza, siffatti diritti non competono. E ciò che accade, ad esempio, al coniuge separato senza addebito che, in esito alla cessazione della convivenza, non abbia abitato la casa familiare. Questo principio è stato sancito da Sez. 2, n. 13407, Rv. 631146, est. Matera, secondo cui i diritti di abitazione e d'uso riservati al coniuge superstite dall'art. 540, secondo comma, cod. civ. riguardano l'immobile concretamente utilizzato come residenza familiare prima della morte del de cuius, sicché essi non spettano al coniuge separato senza addebito, qualora la cessazione della convivenza renda impossibile individuare una casa adibita a residenza familiare.

7. Il legato in sostituzione di legittima.

Se ad un legittimario è lasciato un legato in sostituzione della legittima, egli può rinunziare al legato e chiedere la legittima. Qualora il legittimario preferisca conseguire il legato, perde il diritto a chiedere un supplemento, nel caso in cui il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e non acquista la qualità di erede, salvo che il testatore abbia espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento. Il legato in sostituzione di legittima grava sulla porzione indisponibile. Se però il valore del legato eccede quello della legittima spettante al legittimario, per l'eccedenza il legato grava sulla disponibile. Affinché possa applicarsi la disciplina innanzi esposta di cui all'art. 551 cod. civ. è necessario che dal testamento sia desumibile l'intenzione del testatore di attribuire un legato in sostituzione di legittima. All'uopo, non occorre che la scheda testamentaria usi formule sacramentali, essendo sufficiente che risulti l'intenzione del de cuius di soddisfare il legittimario con l'attribuzione di beni determinati, senza chiamarlo all'eredità. Così Sez. 2, n. 824, Rv. 629360, est. Abete, ha ritenuto che l'attribuzione fatta dal testatore al legittimario della "sola casa... quale sua stretta legittima... a titolo di legittima che neanche merita" costituisca espressione sufficiente per ritenere che si tratti di un legato in sostituzione di legittima.

8. Il testamento.

Secondo l'art. 587 cod. civ., il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse ovvero detta disposizioni di carattere non patrimoniale. Nel contesto di un unico atto possono pertanto convergere una pluralità di disposizioni testamentarie che manifestano distinte volontà con riferimento a singoli beni ovvero a singoli interessi a carattere non patrimoniale. Quanto più la volontà del de cuius è articolata e differenziata, tanto più numerose saranno le disposizioni testamentarie, ognuna delle quali ha una propria autonomia sostanziale, benché sia unico il documento formale che le contiene.

Perché un atto costituisca manifestazione di ultima volontà, riconducibile ai negozi mortis causa, non è necessario che il dichiarante faccia espresso riferimento alla sua morte ed all'intento di disporre dei suoi beni dopo la sua scomparsa, essendo sufficiente che lo scritto sia espressione di una volontà definitiva dell'autore, compiutamente e incondizionatamente manifestata allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte. Sez. 2, n. 150, Rv. 628958, est. Mazzacane, in applicazione del suddetto principio, ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva qualificato come testamento olografo un biglietto autografo del de cuius recante la clausola "nessuno faccia osservazione a questo biglietto essendo scritto di sua propria mano".

Le forme ordinarie di testamento sono il testamento olografo e il testamento per atto di notaio, che può essere a sua volta pubblico o segreto. Il testamento olografo è un atto privato e deve essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano dal testatore, in modo che possa con certezza individuarsi la persona della cui eredità si tratta. Non è pertanto indispensabile indicare nome e cognome. Il testamento olografo non perde il requisito dell'autografia, prescritto a pena di nullità dall'art. 606, primo comma, cod. civ., seppure il testatore vi alleghi planimetrie redatte da terzi, come un geometra, per meglio descrivere gli immobili ereditari, già compiutamente indicati nella scheda testamentaria. Così si è espressa Sez. 2, n. 4492, Rv. 630178, est. Mazzacane.

La data deve contenere l'indicazione del giorno, mese e anno. Nondimeno, la data del testamento olografo può essere apposta in ogni parte della scheda, non prescrivendo la legge che essa debba precedere o seguire le disposizioni di ultima volontà, come ha argomentato Sez. 2, n. 18644, Rv. 631779, est. Mazzacane.

Secondo Sez. 2, n. 22183, Rv. 632903, est. Picaroni, l'atto con il quale gli eredi individuano i beni immobili oggetto di un testamento olografo, specificando i relativi dati catastali, non esaurisce la propria causa nella strumentalità alla trascrizione, in quanto definisce il contenuto delle disposizioni testamentarie, svolgendo la funzione, tipica del negozio di accertamento, di ricognizione del contenuto del precedente negozio dispositivo, e determina l'effetto dell'attribuzione, in favore di ciascuno dei soggetti nominati nel testamento, di determinati beni.

Il testamento pubblico è ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni, alla presenza dei quali il testatore dichiara al notaio la propria volontà, che è ridotta in iscritto a cura del notaio. Quest'ultimo dà lettura del testamento al testatore in presenza dei testimoni. Di ogni formalità è fatta menzione nel testamento. Inoltre, detto testamento pubblico deve indicare il luogo, la data del ricevimento e l'ora della sottoscrizione, ed essere sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio. Se il testimone non può sottoscrivere, o può farlo solo con grave difficoltà, deve dichiararne la causa, e il notaio deve menzionare questa dichiarazione prima della lettura dell'atto. Per il testamento del muto, sordo o sordomuto si osservano le norme stabilite dalla legge notarile per gli atti pubblici di queste persone. Qualora il testatore sia incapace anche di leggere, devono intervenire quattro testimoni. Con riferimento al regime dettato per i non vedenti, Sez. 2, n. 8346, Rv. 630268, est. Mazzacane, ha affermato che il notaio, non solo deve attestare nell'atto la dichiarazione proveniente dal testatore circa la sua incapacità di sottoscrivere perché cieco, ma deve anche verificare che tale stato di incapacità sia effettivo, pena la nullità del testamento pubblico per difetto di sottoscrizione: "Ai sensi degli artt. 2 e 4 della legge 3 febbraio 1975, n. 18, i non vedenti hanno, in linea di principio, la capacità di sottoscrivere gli atti che li riguardano, sicché, ai fini della validità del testamento pubblico, la dichiarazione del testatore di non poter firmare perché cieco, seppur trasfusa nell'atto dal notaio rogante, è insufficiente, occorrendo anche che essa sia veridica, in quanto, altrimenti, il testamento è nullo per difetto di sottoscrizione".

Sotto il profilo dell'impugnazione del testamento, l'art. 624 cod. civ. prevede che la disposizione testamentaria può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse quando è l'effetto di errore, di violenza o di dolo. La prova del dolo deve essere particolarmente rigorosa. Al riguardo, Sez. 2, n. 824, Rv. 629361, est. Abete, ha evidenziato che, in tema di impugnazione della disposizione testamentaria che si assuma effetto di dolo, la prova della captazione, pur potendo essere presuntiva, deve fondarsi su fatti certi che consentano di identificare e ricostruire l'attività captatoria e la conseguente influenza determinante sul processo formativo della volontà del testatore, non potendosi tale prova desumere unicamente dal fatto che il beneficiario convivesse col de cuius.

Quanto al rigore probatorio richiesto per l'annullamento di un testamento in ragione dell'incapacità naturale del testatore, ai sensi dell'art. 591 cod. civ., Sez. 2, n. 27351, in corso di massimazione, est. Mazzacane, ha sostenuto che a tali fini è richiesta l'esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi. L'onere di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere del testatore è posto a carico della parte istante che assume l'esistenza di tale stato mentre soltanto quando risulti lo stato di incapacità permanente del testatore incombe a colui che faccia valere il testamento dimostrare che la redazione è avvenuta in uno stato di lucidità.

9. La sostituzione fedecommissaria.

Il fedecommesso si inserisce con proprie peculiarità nel tema della delazione successiva. Si tratta di una vera e propria sostituzione prevista dal de cuius non già per l'ipotesi in cui l'istituito non voglia o non possa succedere quanto in vista della morte di costui, dopo l'accettazione della delazione. Il testatore istituisce gli eredi o i legatari con l'obbligo di conservazione del patrimonio, che andrà automaticamente in favore di altri designati alla loro morte, indipendentemente dalla manifestazione di alcuna volontà, positiva o negativa, da parte di questi ultimi. Sicché non si ricade nell'ambito degli obblighi dell'istituito di fare testamento a vantaggio del sostituito poiché il sostituito succederà direttamente al de cuius originario che ha disposto la sostituzione fedecommissaria. E quando il sostituito non voglia o non possa accettare, non opererà il meccanismo della delazione successiva a vantaggio dei suoi successibili, ma si darà invece luogo alla successione legittima dell'istituito, ai sensi dell'art. 696 cod. civ. Il fedecommesso può essere previsto solo ed esclusivamente se l'istituito è un interdetto, figlio, discendente o coniuge del testatore. L'art. 692 cod. civ. estende la relativa disciplina al minore che si trovi in condizione di abituale infermità di mente, tale da far presagire la successiva declaratoria di interdizione, che in ogni caso deve seguire entro due anni dal raggiungimento della maggiore età. Il sostituito non può che essere la persona fisica o l'ente che, sotto la vigilanza del tutore, ha avuto cura dell'interdetto o del minore infermo. L'istituito ha solo il godimento e la libera amministrazione dei beni e non può alienarli, se non in caso di utilità evidente e previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria.

In ogni altro caso la sostituzione è nulla. In specie, la nullità è comminata per il cd. fedecommesso de residuo, che implica l'obbligo per l'erede, anche se tacitamente, di restituire ad altre persone quella parte del compendio ereditario che eventualmente sopravanzi alla sua morte, onde egli non può disporre mortis causa dei beni a lui relitti (vedi Sez. 2, n. 2797 del 1973, Rv. 366354). Siffatta ipotesi si riscontra quando nelle disposizioni testamentarie sussista l'elemento della duplice vocazione in ordine successivo, benché non sia stato imposto l'obbligo di conservazione dei beni. In tal caso, la sostituzione rimane comunque nulla, ai sensi dell'art. 692, quinto comma, cod. civ., come precisato da Sez. 2, n. 22168, Rv. 632575, est. Bucciante.

10. L'esecutore testamentario.

Qualora il de cuius voglia che sia controllata la corretta attuazione delle disposizioni testamentarie, può nominare con il testamento uno o più esecutori testamentari, anche nella persona di un erede o di un legatario di sua particolare fiducia. Se l'esecutore accetta, dovrà amministrare la massa ereditaria chiedendo il possesso all'erede per non più di un anno, salvo che l'autorità giudiziaria, per motivi di evidente necessità, sentiti gli eredi, ne prolunghi la durata, che in linea di massima non potrà superare un ulteriore anno. L'amministrazione avviene a nome dell'esecutore ma gli effetti degli atti ricadono nella sfera patrimoniale dell'erede. Per gli atti di straordinaria amministrazione è richiesta l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria, salvo che essi non siano stati stabiliti come necessari dal testatore. Su istanza di ogni interessato, l'autorità giudiziaria può esonerare l'esecutore testamentario dal suo ufficio per gravi irregolarità nell'adempimento dei suoi obblighi, per inidoneità all'ufficio o per avere commesso azione che ne menomi la fiducia, ai sensi dell'art. 710 cod. civ. Il provvedimento di esonero dell'esecutore testamentario per gravi irregolarità nell'adempimento dei suoi obblighi è assunto - in considerazione dell'espresso richiamo all'art. 710 cod. civ. contenuto nell'art. 750, ultimo comma, cod. proc. civ. - dal presidente del tribunale, con ordinanza reclamabile davanti al presidente della corte d'appello. Come ha specificato Sez. 6-2, n. 18468, Rv. 632043, est. Manna, la decisione assunta dal presidente della corte d'appello in sede di reclamo non è ricorribile in cassazione, in conformità alla previsione specifica dell'art. 750 cod. proc. civ. ed alla regola generale di cui all'art. 739 cod. proc. civ. Si tratta, infatti, di procedimento in camera di consiglio.

11. La divisione ereditaria.

La legge dedica una trattazione specifica all'istituto della divisione ereditaria. Sul punto, si precisa che ciascuno dei coeredi può sempre domandare la divisione. Tale diritto potestativo può trovare degli ostacoli, solo di natura temporale, peraltro derogabili a cura dell'autorità giudiziaria, quando il testatore abbia stabilito che essa non abbia luogo prima che sia trascorso un anno dal raggiungimento della maggiore età dell'ultimo nato, in presenza di eredi istituiti, in tutto o in parte minori di età. Ancora, il testatore può disporre che la divisione dell'eredità o di alcuni beni di essa non abbia luogo prima che sia trascorso dalla sua morte un termine non eccedente il quinquennio. Il coerede condividente che abbia goduto dei beni ereditari o di alcuni di essi in via esclusiva, senza titolo giustificativo, è tenuto alla corresponsione dei frutti civili in favore degli altri condividenti, quale ristoro per il mancato godimento pro quota, senza che possano trovare applicazione le disposizioni sul possesso in ordine alla restituzione dei frutti, spese, miglioramenti ed addizioni, come puntualizzato da Sez. 2, n. 640, Rv. 629066, est. Mazzacane, già citata. Qualora si tratti di immobile soggetto al regime vincolistico della legge 27 luglio 1978, n. 392, agli effetti dell'obbligo del condividente di versare agli altri, pro quota, i frutti civili del bene comune goduto in esclusiva durante la comunione, il rendimento immobiliare deve essere determinato con riferimento a tale legge, anche quanto alla periodica rivalutazione del canone di locazione, come ha affermato Sez. 2, n. 18445, Rv. 631832, est. Parziale.

Secondo l'art. 717 cod. civ., l'autorità giudiziaria, su istanza di uno o più coeredi, può sospendere la divisione dell'eredità o di alcuni beni per un tempo non superiore a cinque anni, qualora l'immediata sua esecuzione possa recare notevole pregiudizio al patrimonio ereditario. All'esito dei prelevamenti e della stima dei beni, il giudice procede alla divisione mediante la formazione delle porzioni in modo omogeneo, così da comprendere una quantità di mobili, immobili e crediti di eguale natura e qualità, in proporzione dell'entità di ciascuna quota. Anche i crediti del de cuius rientrano nella comunione, a differenza dei debiti che si ripartiscono automaticamente tra gli eredi. In proposito, Sez. 3, n. 15894, Rv. 632723, est. Spirito, ha sostenuto che i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria in conformità all'art. 727 cod. civ., che, nel prevedere la formazione delle porzioni con inclusione dei crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché al successivo art. 757 cod. civ., in forza del quale i crediti ricadono nella comunione poiché il coerede vi succede al momento dell'apertura della successione, trovando tale soluzione conferma nell'art. 760 cod. civ., che, escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato ad un coerede, presuppone necessariamente l'inclusione dei crediti nella comunione. Né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il de cuius ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Ne deriva che ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l'intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l'intervento di questi ultimi in presenza dell'interesse all'accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito.

È fatta salva la vendita dei beni per il pagamento dei debiti ereditari, concordata dai coeredi aventi diritto a più della metà dell'asse ex art. 719 cod. civ., ovvero degli immobili non comodamente divisibili ex art. 720 cod. civ. o dei beni che la legge dichiara indivisibili nell'interesse della produzione nazionale ex art. 722 cod. civ., quando nessuno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore sia disponibile all'attribuzione con addebito dell'eccedenza. Nel caso di più eredi disponibili, come affermato da Sez. 6-2, n. 16376, Rv. 631970, est. Proto, che richiama il precedente di Sez. 2, n. 11641 del 2010, Rv. 612827, nell'esercizio del potere di attribuzione dell'immobile ritenuto non comodamente divisibile, il giudice non trova alcun limite nelle disposizioni dettate dall'art. 720 cod. civ., da cui gli deriva, al contrario, un potere prettamente discrezionale nella scelta del condividente cui assegnarlo, potere che trova il suo temperamento esclusivamente nell'obbligo di indicare i motivi in base ai quali ha ritenuto di dover dare la preferenza all'uno piuttosto che all'altro degli aspiranti all'assegnazione (così esaminando i contrapposti interessi dei condividenti in proposito), e si risolve in un tipico apprezzamento di fatto, sottratto come tale al sindacato di legittimità, a condizione che sia adeguatamente e logicamente motivato.

Dopo la vendita, se ha avuto luogo, dei mobili o degli immobili, si procede ai conti che i condividenti si devono rendere, alla formazione dello stato attivo e passivo dell'eredità e alla determinazione delle porzioni ereditarie e dei conguagli o rimborsi che si devono tra loro i condividenti. L'art. 724 cod. civ. stabilisce che i coeredi condividenti sono tenuti alla collazione delle donazioni ricevute dal de cuius in vita e all'imputazione alla loro quota delle somme di cui erano debitori verso il defunto e di quelle di cui sono debitori verso i coeredi in dipendenza del rapporto di comunione. Nell'ipotesi in cui la donazione di denaro fatta in vita dal de cuius verso gli eredi sia dichiarata nulla, il relativo importo sarà oggetto di imputazione, ricevendo lo stesso trattamento dei debiti di denaro degli eredi verso il defunto. Secondo Sez. 2, n. 20633, Rv. 632664, est. Picaroni, qualora la donazione di danaro fatta in vita dal de cuius sia dichiarata nulla, la relativa somma diviene oggetto di un credito del de cuius verso l'erede donatario, alla cui quota la somma stessa deve essere imputata, a norma del citato art. 724, secondo comma, cod. civ.

Si discute sulla natura dichiarativa o costitutiva della pronuncia di divisione, in forza del dettato di cui all'art. 757 cod. civ., che - con una evidente fictio juris - prevede che ogni coerede è reputato solo ed immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per acquisto all'incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari. In merito, Sez. 2, n. 406, Rv. 628923, est. Migliucci, ha rilevato che, in tema di comunione ereditaria, il principio della natura dichiarativa della sentenza di divisione, recepito dall'art. 757 cod. civ., opera esclusivamente in riferimento all'effetto distributivo, per cui ciascun condividente è considerato titolare, sin dal momento dell'apertura della successione, dei soli beni concretamente assegnatigli e a condizione che si abbia una distribuzione dei beni comuni tra i condividenti e le porzioni a ciascuno attribuite siano proporzionali alle rispettive quote. Detto principio non opera, invece, e la sentenza produce effetti costitutivi, quando ad un condividente sono assegnati beni in eccedenza rispetto alla sua quota, in quanto rientranti nell'altrui quota. Ne consegue che gli interessi compensativi sul conguaglio decorrono soltanto dal passaggio in giudicato della sentenza costitutiva, che fa cessare lo stato di indivisione mediante attribuzione ad un condividente di un bene eccedente la sua quota.

L'ineguaglianza in natura delle quote si compensa con un equivalente in denaro. E ciò avviene senza la necessità di una specifica domanda di parte. Il conguaglio è soggetto a rivalutazione, allo scopo di tenere conto dello stato effettivo del valore venale dei beni divisi. Tale assunto è stato corroborato da Sez. 6-2, n. 15288, Rv. 631216, est. Petitti, la quale ha precisato che, in tema di divisione ereditaria, la determinazione del conguaglio in denaro, ai sensi dell'art. 728 cod. civ., prescinde dalla domanda di parte, concernendo l'attuazione del progetto divisionale, che appartiene alla competenza del giudice. Ne consegue che il giudice deve procedere d'ufficio alla rivalutazione del conguaglio, qualora vi sia stata un'apprezzabile lievitazione del prezzo di mercato del bene, tale da alterare la funzione di riequilibrio propria del conguaglio, spettando alla parte un mero onere di allegazione, finalizzato a sollecitare l'esercizio del potere officioso del giudice.

In presenza di porzioni uguali, l'assegnazione è fatta mediante estrazione a sorte, ai sensi dell'art. 729 cod. civ. Viceversa, per le porzioni diseguali si procede mediante attribuzione. L'estrazione a sorte non deve avvenire quando alcuni degli eredi condividenti vogliano mantenere in via residuale la comunione, limitatamente alle quote loro spettanti, sebbene la quota di ogni condividente sia uguale alle altre. Tale situazione è equiparata alla divisione di quote diseguali. Al riguardo, Sez. 2, n. 407, Rv. 628895, est. Giusti, confermando un orientamento consolidato, ha affermato: "Nella divisione di comunione ereditaria con parità di quote, qualora alcuni dei condividenti vogliano mantenere la comunione con riferimento alle quote loro spettanti, ottenendo l'assegnazione congiunta di una quota pari alla somma delle loro singole quote, deve ritenersi sussistere, ai sensi dell'art. 729 cod. civ., un'ipotesi di porzioni diseguali, con conseguente impossibilità di procedere all'assegnazione delle quote mediante sorteggio e necessità, quindi, di disporre l'attribuzione delle stesse da parte del giudice, atteso che l'alterazione dell'originaria uguaglianza delle quote ereditarie, dovuta alla richiesta di alcuni coeredi di attribuzione di una porzione corrispondente ad una quota pari alla somma delle singole quote loro spettanti, determina un inevitabile riflesso sulle modalità di attuazione della divisione e giustifica la mancata adozione del criterio di estrazione a sorte".

Si sottolinea altresì che la vendita, a cura di un coerede, prima della divisione, di beni facenti parte della comunione ereditaria ha esclusivamente effetto obbligatorio, essendo la sua efficacia subordinata all'assegnazione del bene al coerede-venditore attraverso la divisione. Sicché, fino a tale assegnazione, il bene continua a far parte della comunione e, finché essa perdura, l'acquirente non può ottenerne la proprietà esclusiva. A precisazione di tale principio, Sez. 2, n. 26051, in corso di massimazione, est. Matera, ha sostenuto che, qualora il bene parzialmente compravenduto costituisca l'intera massa ereditaria, l'effetto traslativo dell'alienazione non è subordinato all'assegnazione in sede di divisione della quota del bene al coerede-venditore, essendo quest'ultimo proprietario esclusivo della quota ideale di comproprietà e potendo di questa liberamente disporre; conseguentemente, il compratore subentra, pro quota, nella comproprietà del bene comune.

Infine, Sez. 2, n. 6785, Rv. 630156, est. Falaschi, ha evidenziato che l'atto introduttivo del giudizio di divisione ereditaria non interrompe il decorso del tempo utile all'usucapione da parte del convenuto, tale atto non essendo rivolto alla contestazione diretta ed immediata del possesso ad usucapionem.

12. Il retratto successorio.

L'art. 732 cod. civ. regola il diritto di prelazione spettante ai coeredi quando altro coerede voglia alienare ad un estraneo la sua quota o parte di essa. In tal caso, deve notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri coeredi, per consentire loro l'esercizio della preferenza accordata dalla legge. La prelazione deve essere esercitata nel termine di due mesi dall'ultima notifica. In mancanza della notificazione, i coeredi aventi diritto alla prelazione hanno diritto di riscattare la quota dall'acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria. Se i coeredi che intendono esercitare il riscatto sono più, la quota è assegnata a tutti in parti uguali.

Il diritto di prelazione regolato dalla norma, secondo costante giurisprudenza di legittimità, è inerente alla qualità di coerede e costituisce un diritto personale ed intrasmissibile, non già una qualità intrinseca della quota o una situazione giuridica autonoma, che possa essere trasferita da sola, come da ultimo evidenziato da Sez. 6-2, n. 4277 del 2012, Rv. 621444, dove si aggiunge che tale diritto di prelazione non può circolare neppure per successione mortis causa e non spetta, pertanto, all'erede del coerede.

Quanto all'ambito oggettivo di applicabilità del disposto dell'art. 732 cod. civ., è pacifico che il retratto successorio non si estende agli atti a titolo gratuito, sicché le donazioni fuoriescono dalla sfera di operatività della disposizione codicistica. Poiché il dettato della norma deroga al principio-cardine della libertà negoziale, che ha una valenza strumentale, in rapporto alla libertà di iniziativa economica privata di cui all'art. 41, primo comma, Cost., esso deve essere interpretato in ossequio al paradigma dell'art. 14 disp. prel. cod. civ. Per l'effetto, Sez. 2, n. 2159, Rv. 629710, est. Abete, ha puntualmente osservato che la disposizione dell'art. 732 cod. civ., sulla prelazione del coerede, derogando al principio di libertà negoziale, non può essere estesa alle donazioni, nelle quali, peraltro, si manifesta l'animus donandi, espressione solidaristica della personalità.

Nondimeno, l'attuazione del riscatto non è preclusa al coerede che abbia trasferito una parte significativa della sua quota, non essendo tale circostanza significativa di una volontà incompatibile con l'esercizio della prelazione. Sebbene l'esercizio della prelazione spettante al coerede ricada tra i diritti di cui questo può disporre e che non deve necessariamente attuare, la cessione onerosa di una parte della sua quota non è emblematica dell'abdicazione a valersene. Di tanto dà atto, da ultimo, Sez. 2, n. 2159, Rv. 629711, est. Abete, secondo cui le facoltà che l'art. 732 cod. civ. attribuisce al coerede sono disponibili, ma l'alienazione onerosa di una porzione della quota ereditaria, di per sé, non implica rinuncia alle stesse.

13. La collazione.

Alla divisione ereditaria si collega l'istituto della collazione, che muove dal principio secondo cui nella formazione della massa dei beni da dividere occorre tenere conto delle donazioni dirette ed indirette fatte dal de cuius al coniuge, ai figli e ai loro discendenti, in modo che non sia alterato il rapporto di proporzionalità delle quote in cui essi sono chiamati a succedere. È ammessa tuttavia la prova di una volontà contraria del de cuius, che deve essere espressa mediante la c.d. dichiarazione di dispensa. La collazione può avvenire o attraverso imputazione del valore dei beni, con riferimento al tempo dell'apertura della successione, così come previsto quando si tratta di mobili, ai sensi dell'art. 750 cod. civ., o mediante conferimento in natura. Tale scelta è rimessa al conferente per gli immobili, ai sensi dell'art. 746 cod. civ. Se l'immobile sia stato alienato o ipotecato, la collazione non può che avvenire con imputazione del valore. La cessione gratuita della quota di partecipazione ad una cooperativa edilizia, finalizzata all'assegnazione dell'alloggio in favore del cessionario, integra donazione indiretta dell'immobile, con la conseguenza che essa è soggetta, in morte del donante, alla collazione ex art. 746 cod. civ., tale quota esprimendo non una semplice aspettativa, ma un vero e proprio credito all'attribuzione dell'alloggio, come ha statuito Sez. 2, n. 56, Rv. 629344, est. Manna.

Per converso, la cessione a titolo gratuito di una quota societaria, importando la mera attribuzione di un diritto personale di partecipazione alla vita societaria, è assoggettata al trattamento della collazione di mobili, con la conseguente imputazione del valore. Su questa linea si è collocata Sez. 2, n. 20258, Rv. 632709, est. Parziale, la quale ha stabilito che la quota di società non conferisce al socio un diritto reale su beni costituenti il patrimonio societario, ma un diritto personale di partecipazione alla vita societaria, la cui misura non è soggetta a cambiamento per effetto di successivi aumenti di capitale, sicché la relativa donazione è soggetta a collazione per imputazione di beni mobili, ai sensi dell'art. 750 cod. civ., e, dunque, sulla base del valore che aveva al tempo di apertura della successione.

14. L'annullamento della divisione.

Ai sensi dell'art. 761 cod. civ., la divisione ereditaria può essere annullata quando è l'effetto di violenza o di dolo. Tale possibilità si riferisce alla sola divisione perfezionatasi per accordo tra i condividenti ovvero, secondo l'opinione prevalente, in caso di divisione giudiziale definita con ordinanza o decreto di assegnazione che si ricolleghi alla volontà espressa dagli interessati ovvero di accordo giudiziale o stragiudiziale intervenuto nel corso del giudizio divisorio. La norma citata, al contrario, non è applicabile alla divisione giudiziale, in cui l'attribuzione delle quote trova la propria fonte nel provvedimento unilaterale ed autoritativo del giudice. Di ciò ha dato atto, da ultimo, Sez. 2, n. 14682, Rv. 631209, est. Matera, secondo cui, in tema di divisione ereditaria, l'azione di annullamento prevista dall'art. 761 cod. civ. è esperibile solo in caso di divisione negoziale, non anche nel caso di divisione giudiziale conclusa da provvedimento non ricollegabile all'accordo delle parti.

L'errore, invece, è stato preso in considerazione dal legislatore solo quando si concretizza nell'omissione dalla massa ereditaria di uno o più beni oppure nel caso di lesione oltre il quarto subita da un condividente. In tali ipotesi sono stati previsti dagli artt. 762 e 763 cod. civ. gli specifici rimedi del supplemento di divisione e della rescissione per lesione. Negli altri casi l'errore non rileva, salvo che esso non cada sui presupposti della divisione, quali la stessa qualità di erede, la natura della successione, l'inesistenza della comunione.

15. Le donazioni.

La donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte che ha piena capacità di disporre dei propri beni arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio, o assumendo verso la stessa una obbligazione. Si tratta di negozio solenne poiché per la sua validità l'art. 782 cod. civ. esige la forma dell'atto pubblico mentre l'art. 48 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 richiede la presenza di due testimoni. Tale ultimo requisito è indefettibile ed insurrogabile. In questo senso, Sez. 2, n. 14799, Rv. 631218, est. Parziale, ha affermato: "Per la validità della donazione, ai sensi dell'art. 48 della legge notarile, anche prima della modifica introdotta dalla legge 28 novembre 2005, n. 246, è necessaria l'assistenza di due testimoni, alla mancanza dei quali non può supplire neanche la prestazione del giuramento decisorio".

Non rientrano tra le donazioni di cui all'art. 769 cod. civ. le liberalità d'uso di cui all'art. 770, secondo comma, cod. civ., che si fanno in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi. Ne discende che esse non sono neanche soggette a collazione ai sensi dell'art. 742, terzo comma, cod. civ. Il compenso per il servizio reso ovvero la conformazione ad un uso rendono meno marcato l'intento liberale, il che ha indotto il legislatore ad escludere dette liberalità dal novero delle donazioni. Sennonché la qualificazione giuridica di un'elargizione come liberalità effettuata in conformità agli usi, anziché come donazione, deve risultare non soltanto dal rapporto con le potenzialità economiche del soggetto che effettua l'elargizione, ma anche con riferimento alle condizioni sociali in cui si svolge la sua vita di relazione, oltre che dal concreto accertamento dell'animus solvendi, consistente nell'equivalenza economica tra servizi resi e liberalità ed, infine, dall'effettiva corrispondenza agli usi, intesi come costumi sociali e familiari (vedi Sez. 2, n. 16550 del 2008, Rv. 604098). Ne consegue che il rilevante valore dell'oggetto donato può configurare una liberalità d'uso e non una donazione, purché ricorrano elementi, quali le condizioni economiche del donante o altre circostanze peculiari dell'elargizione, tali da escludere l'animus donandi. Così ha ritenuto Sez. 3, n. 19636, Rv. 632441, est. Travaglino, con riguardo ad un'elargizione di denaro da padre a figlia per l'importo di lire 14 milioni ai fini dell'acquisto dei mobili destinati a casa coniugale.

Se il soggetto persegue l'intento liberale utilizzando schemi tipici, diversi dalla donazione, aventi una propria distinta funzione, si ricadrà, sulla base della previsione di cui all'art. 809 cod. civ., nella categoria delle donazioni indirette. Cosicché, secondo Sez. 6-2, n. 18541, Rv. 632422, est. Petitti, la dazione di una somma di denaro configura una donazione indiretta d'immobile ove sia effettuata quale mezzo per l'unico e specifico fine dell'acquisto del bene, dovendosi altrimenti ravvisare soltanto una donazione diretta del denaro elargito, per quanto successivamente utilizzato per effettuare un acquisto immobiliare. Lo stesso principio è fatto proprio da Sez. 2, n. 11035, Rv. 630665, est. Giusti, secondo cui, in tema di donazione indiretta, riguardo all'edificazione con denaro del genitore sul terreno intestato al figlio, il bene donato si identifica nell'edificio, anziché nel denaro, senza che ostino i principi dell'accessione, qualora, considerati gli aspetti sostanziali della vicenda e lo scopo ultimo del disponente, l'impiego del denaro a fini edificatori risulti compreso nel programma negoziale del genitore donante. Nella stessa direzione si attesta Sez. 1, n. 11491, Rv. 631474, est. Dogliotti, con riguardo alla donazione finalizzata all'acquisto di azioni, che è stata qualificata come ipotesi di donazione indiretta delle azioni, quando, in presenza di un collegamento tra la disponibilità del denaro ed il fine specifico dell'acquisto del bene, la compravendita costituisce lo strumento del trasferimento del bene medesimo, oggetto dell'arricchimento del patrimonio del destinatario. Viceversa, come ha osservato Sez. 2, n. 2149, Rv. 629388, est. Manna, la donazione indiretta dell'immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l'identico risultato giuridico-economico dell'attribuzione liberale dell'immobile esclusivamente nell'ipotesi in cui il donante stesso ne sostenga l'intero costo.

L'art. 809, primo comma, cod. civ. prevede espressamente che le donazioni indirette sono soggette alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d'ingratitudine e per sopravvenienza di figli, nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari. Sez. 2, n. 13684, Rv. 631239, est. Manna, ha ritenuto che l'art. 809 cod. civ., nell'indicare quali norme della donazione siano applicabili alle liberalità risultanti da atti diversi dalla donazione, va interpretato restrittivamente, nel senso che alle liberalità anzidette non si applicano tutte le altre disposizioni non espressamente richiamate. Ne consegue l'inapplicabilità dell'art. 778 cod. civ., che stabilisce i limiti del mandato a donare, al mandato a stipulare un negotium mixtum cum donatione.

La donazione può essere gravata da un onere ai sensi dell'art. 793 cod. civ. Il donatario è tenuto all'adempimento dell'onere entro i limiti del valore della cosa donata. Per l'adempimento dell'onere può agire, oltre che il donante, qualsiasi interessato, anche durante la vita del donante stesso. La risoluzione per inadempimento dell'onere, se preveduta dall'atto di donazione, può essere domandata dal donante o dai suoi eredi. Essa esige la previa valutazione della non scarsa importanza dell'inadempimento, ai sensi dell'art. 1455 cod. civ. Pertanto, in difetto del requisito della gravità dell'inadempimento relativo all'onere, la risoluzione non può essere pronunciata, benché prevista da una clausola risolutiva espressa. Così Sez. 2, n. 14120, Rv. 631172, est. Bucciante, ha ritenuto che, in tema di donazione modale, la risoluzione per inadempimento dell'onere non può avvenire ipso jure, senza valutazione di gravità dell'inadempimento, in forza di clausola risolutiva espressa, istituto che, essendo proprio dei contratti sinallagmatici, non può estendersi al negozio a titolo gratuito, cui pure accede un modus.

Sempre in tema di elemento accessorio della donazione, la trascrizione della donazione modale non fa acquistare all'onere carattere reale, atteso il principio di tipicità dei diritti reali e la riconduzione della donazione modale nell'ambito dei rapporti obbligatori, come ha rilevato Sez. 2, n. 12959, Rv. 631149, est. Nuzzo.

PARTE SECONDA I BENI

  • proprietà pubblica
  • proprietà privata
  • disciplina urbanistica
  • servitù

CAPITOLO VI

I DIRITTI REALI E IL POSSESSO

(di Donatella Salari )

Sommario

1 Proprietà pubblica. - 2 Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati. - 3 Azioni a tutela della proprietà. - 4 Comunione di diritti reali. - 5 Diritto di abitazione. - 6 Servitù prediali. - 7 Tutela ed effetti del possesso.

1. Proprietà pubblica.

Si segnala, innanzitutto Sez. U, n. 22116, Rv. 632415, rel. Ambrosio, che afferma la giurisdizione ordinaria in tutti i casi di violazione del principio del neminem laedere in rapporto ad ipotesi di immissioni illecite nei rapporti fondiari di vicinato e, pertanto, l'inosservanza da parte della P.A. delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario non solo per conseguire la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere, tale domanda non investendo scelte ed atti autoritativi della P.A., ma un'attività soggetta al principio del neminem laedere. (Nella specie, applicando l'enunciato principio, la S.C. ha dichiarato appartenere al giudice ordinario la cognizione sulla domanda per la condanna di Rete Ferroviaria Italiana alla riduzione nei limiti di tollerabilità delle immissioni rumorose prodotte dai convogli ferroviari, oltre che al risarcimento dei danni da inquinamento acustico).

Appartiene, invece, al giudice amministrativo la competenza a all'uso esclusivo dei beni demaniali secondo Sez. Un., n. 1006, Rv. 629031, est. Vivaldi, che ha affermato che in tema di concessione in uso esclusivo di beni demaniali a privati, appartiene al giudice amministrativo la giurisdizione in ordine alla controversia che trovi origine in un rapporto di affidamento a terzi, ex art. 45 bis cod. nav., di attività rientranti nell'oggetto di una concessione di un'area portuale, trattandosi di vicenda che postula la necessaria partecipazione dell'amministrazione concedente, alla quale, nell'esercizio del potere autorizzatorio attribuito e volto alla tutela dell'interesse pubblico, spetta espressamente autorizzare, con il rilascio di una sub concessione, il rapporto tra il concessionario e il terzo.

In tema di titolarità del diritto su di area di sedime in origine facente parte di alveo di un fiume abbandonato dal corso d'acqua la Suprema Corte ha affermato la competenza del giudice ordinario - Sez. 6-2, n. 16807, Rv. 632573, rel. Giusti - affermando che la controversia avente ad oggetto la titolarità di un terreno che, pacificamente, faceva un tempo parte dell'alveo di un fiume, ma che risulta abbandonato dalle acque da molti anni, non ponendo alcuna questione, ai fini del decidere, in ordine alla determinazione dei limiti dell'alveo e delle sponde, ovvero alla qualificazione dello stesso come alveo, sia con riferimento al passato che al presente, appartiene alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a quella del tribunale regionale delle acque pubbliche. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha cassato la decisione impugnata in quanto la P.A. si era limitata a sostenere la proprietà pubblica dell'area perché utilizzata, dopo la deviazione naturale del corso d'acqua, per molteplici esigenze di carattere collettivo/generale).

2. Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati.

In continuità con lo sviluppo giurisprudenziale delle tematiche coinvolgenti la rilevanza nell'ambito del diritto civile (ovvero in ambito esterno al rapporto pubblicistico con la P.A.) della difformità urbanistica degli immobili oggetto di pretese di attribuzione reale a privati si segnala Sez. 1, n. 19305, Rv. 632492, est. Benini, che ha affermato che, nel caso di espropriazione per pubblica utilità al proprietario del fondo, non compete ristoro indennitario per gli immobili abusivi realizzati prima della costruzione dell'opera pubblica a meno che l'intervento edilizio sia stato assentito con concessione in sanatoria e pertanto il danno permanente, indennizzabile ai sensi dell'art. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (ratione temporis applicabile, ora sostituito dall'art. 44 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), può essere invocato dal proprietario che abbia iniziato l'opera prima dell'approvazione del progetto di opera pubblica, a condizione, tuttavia, che la costruzione sia considerata, ancorché a posteriori, legittima dalla P.A. con il rilascio di permesso a costruire in sanatoria, sicché l'indennizzo non compete per le costruzioni abusive o non ancora sanate - salvo si lamenti un danno generico alla proprietà del fondo inedificato - o per quelle realizzate dopo l'approvazione del progetto di opera pubblica dalla cui realizzazione il proprietario abbia ragione di temere la compressione delle proprie facoltà dominicali.

Si è, inoltre, affermato - Sez., 2, n. 25811, est. Triola, in corso di massimazione - che la nullità ex art. 40, secondo comma, della legge n. 47 del 1985 è da considerare di tipo sostanziale perché diretta ai trasferimenti di cespiti non conformi alla normativa urbanistica e che a questa ipotesi generale va aggiunta quella relativa alla nullità formale riguardante non solo gli immobili di cui sopra, ma anche quelli in via di regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dall'atto di trasferimento (la decisione fa riferimento a Sez. 2, n. 23591, Rv. 628025, est. Parziale, pur dovendosi precisare che la statuizione concerneva un contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico che la Suprema Corte ha ritenuto nullo per la comminatoria di cui all'art. 40, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, che, sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per contrarietà a norma imperativa).

Si segnala, con riguardo alla conformazione del diritto di proprietà rispetto agli strumenti urbanistici locali Sez. 2, n. 23693, Rv. 633061, est. Migliucci, con riferimento alla specificazione del criterio di prevenzione nelle costruzioni. Secondo la Suprema Corte, il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 cod. civ., è derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse dal confine, salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l'edificare a distanza regolamentare e l'erigere la propria fabbrica fino ad occupare l'estremo limite del confine medesimo, ma non anche quella di costruire a distanza inferiore dal confine, poiché detta prescrizione ha lo scopo di ripartire tra i proprietari confinanti l'onere della creazione della zona di distacco.

Sullo stesso tema delle distanze si segnala Sez. 2, n. 14816, Rv. 631210, est. Giusti, che ha affermato che in tema di distanze tra costruzioni, in particolare fra pareti finestrate ed edifici antistanti, non è prospettabile un conflitto tra la legge statale (nella specie, art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444) e la legge regionale (nella specie, art. 35 del d.p.g.r. Friuli-Venezia Giulia 15 settembre 1978, n. 826), qualora la "deroga" alla normativa statale provenga da una circolare di una direzione generale della Regione, atteso che la circolare amministrativa non è fonte del diritto, né d'interpretazione della legge, ma si limita ad esprimere la potestà d'indirizzo e disciplina dell'attività dell'amministrazione.

Va, in proposito, segnalata Sez. 2, n. 25635, in corso di massimazione, est. Mazzacane, secondo la quale la facoltà del vicino di chiusura ex art. 904, secondo comma, cod. civ., secondo il quale chi acquista la comunione del muro non può chiudere le luci se ad esso non appoggia il suo edificio è subordinata alla realizzazione piena e concreta della costru- zione, con la conseguenza che è inammissibile la domanda di accertamento del diritto de quo in difetto di detta costruzione

Sullo stesso argomento in tema di distanze legali si segnala Sez. U, n. 13673, Rv. 631630, rel. San Giorgio, che ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata incidenter tantum dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo

In tema di qualificazione del concetto di veduta si segnala Sez. 6-2, n. 17950, Rv. 631783, rel. Manna, che ha specificato che la "porta-finestra" che consenta la inspectio, ma non la prospectio, ossia lo sguardo frontale sul fondo del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente, nel momento dell'uscita, la visione globale e mobile del fondo alieno.

Sempre con riguardo alle potenzialità di ingerenza dello sguardo del vicino nel fondo altrui la suprema Corte ha anche affrontato il tema della veranda realizzata all'interno del perimetro del balcone - Sez. 6-2, n. 7269, Rv. 630234, rel. Proto - statuendo che il proprietario del piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture (nella specie, finestra e non balcone aggettante) la veduta appiombo, sicché può imporre al vicino di non costruire una veranda, seppur nei limiti del perimetro del sottostante balcone, a meno di tre metri.

3. Azioni a tutela della proprietà.

Sui rapporti tra azioni a tutela della proprietà e conseguenti oneri di prova in tema di domanda di rilascio avanzata nei confronti di chi detenga un bene senza titolo (ordinanza interlocutoria n. 16553 del 2013, rel. Migliucci) si sono pronunciate le Sezioni Unite - Sez. U, n. 7305, Rv. 630013, est. Bucciante - che hanno affermato che in tema di azioni a difesa della proprietà, le difese di carattere petitorio opposte, in via di eccezione o con domande riconvenzionali, ad un'azione di rilascio o consegna non comportano - in ossequio al principio di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - una mutatio od emendatio libelli, ossia la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dell'attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso al convenuto, né, in ogni caso, implicano che l'attore sia tenuto a soddisfare il correlato gravoso onere probatorio inerente le azioni reali (cosiddetta probatio diabolica), la cui prova, idonea a paralizzare la pretesa attorea, incombe solo sul convenuto in dipendenza delle proprie difese.

Ancora, sul rapporto tra azioni a tutela del possesso e tutela della proprietà nelle sue limitazioni legali si segnala Sez. 2, n. 8731 del, Rv. 630401, est. Matera, che ha affermato che l'azione di manutenzione possessoria tutela il potere di fatto sulla cosa e non il corrispondente diritto reale, sicché la violazione delle distanze legali tra costruzioni può essere denunciata ex art. 1170 cod. civ. solo quando abbia determinato un'apprezzabile modificazione o limitazione dell'esercizio del possesso.

In tema di actio confessoria servitutis va segnalata Sez. 2, n. 18890, Rv. 632015, est. Nuzzo, che ha chiarito la portata dell'onere probatorio dell'attore che agisce in confessoria servitutis, ai sensi dell'art. 1079 cod. civ., il quale ha l'onere di provare l'esistenza del relativo diritto, presumendosi la libertà del fondo, che si pretende servente, da pesi e limitazioni. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha affermato che gravasse su colui che vantava la titolarità di una servitù di veduta, costituita per destinazione del padre di famiglia, la prova dell'assenza di inferriate apposte ad un'apertura, in relazione al requisito dell'apparenza e della possibilità di affaccio sul fondo del vicino).

Si segnala, inoltre, in relazione al diritto di proprietà quale presupposto di legittimazione della domanda la conformazione processuale dell'onere probatorio che può essere assolto attraverso il ricorso alle presunzioni - Sez. 2, n. 25809, Rv. 628362, est. Matera - sicché colui che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di provare qualora questa venga contestata, la propria legittimazione ad agire, in quanto titolare di un diritto di proprietà sul fondo dominante, sebbene la prova della proprietà non sia altrettanto rigorosa di quella richiesta per la rivendicazione, posto che, mentre con quest'ultima azione si mira alla dichiarazione del diritto di proprietà sul fondo, nel caso dell'azione confessoria si domanda soltanto l'affermazione del vincolo di servitù con le eventuali altre conseguenti dichiarazioni di diritto, onde la proprietà del fondo dominante costituisce unicamente il presupposto dell'azione ed è sufficiente che emerga anche attraverso delle presunzioni.

Per ciò che, invece, concerne la legittimazione passiva dell'actio confessoria servitutis - Sez. 6-2, n. 1332, Rv. 629492, rel. Bucciante - la Suprema Corte ha affermato che la legittimazione dal lato passivo è in primo luogo di colui che, oltre a contestare l'esistenza della servitù, abbia un rapporto attuale con il fondo servente (proprietario, comproprietario, titolare di un diritto reale sul fondo o possessore suo nomine), potendo solo nei confronti di tali soggetti esser fatto valere il giudicato di accertamento, contenente, anche implicitamente, l'ordine di astenersi da qualsiasi turbativa nei confronti del titolare della servitù o di rimessione in pristino ex art. 2933 cod. civ.; gli autori materiali della lesione del diritto di servitù possono, invece, essere eventualmente chiamati in giudizio quali destinatari dell'azione ex art. 1079 cod. civ., soltanto se la loro condotta si sia posta a titolo di concorso con quella di uno dei predetti soggetti o abbia comunque implicato la contestazione della servitù, fermo restando che, nei loro confronti, possono essere esperite, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., l'azione di risarcimento del danno e, ai sensi dell'art. 2058 cod. civ., l'azione di riduzione in pristino con l'eliminazione delle turbative e molestie.

Sull'analogo tema della prova dell'attore nell'azione di rivendicazione si evidenzia Sez. 3, n. 19653, Rv. 632992, est. Vivaldi, che sottolinea che l'azione di rivendicazione esige che l'attore provi il proprio diritto di proprietà risalendo sino all'acquisto a titolo originario attraverso i propri danti causa, o dimostrando il compimento dell'usucapione in suo favore, mentre il convenuto può limitarsi a formulare l'eccezione possideo quia possideo, senza onere di prova. Quando tuttavia il convenuto rinunci a questa posizione, opponendo, ad esempio, un proprio diverso diritto, senza contestare quello affermato dall'attore, il giudice del merito non può respingere la domanda per difetto di prova, ma deve tener conto delle ammissioni del convenuto e degli altri fatti di causa, ricavandone possibili elementi presuntivi.

Infine, in tema di lotti confinanti si afferma che la delimitazione dell'immobile operata in sede di consegna al compratore - quale comportamento delle parti successivo alla stipulazione della compravendita- non ha rilevanza ai fini dell'individuazione dell'esatta consistenza dell'oggetto del contratto, quando questo è univocamente determinato nell'atto del trasferimento mediante espresso riferimento ad un tipo di frazionamento catastale.

Inoltre, per la determinazione del confine dei fondi, a mente dell'art. 950 cod. civ., pur essendo ammissibile qualunque mezzo di prova, nel caso di fondi appartenenti originariamente come unico appezzamento ad un solo proprietario occorre fare riferimento agli atti di vendita o di divisione ed al tipo di frazionamento contenente gli estremi della lottizzazione, quando dalle misure ivi contenute possano trarsi elementi idonei ad individuare esattamente la linea di demarcazione tra le due proprietà Sez.2, n. 27170, in corso di massimazione, est. Abete.

4. Comunione di diritti reali.

La Corte, con Sez. 3, n. 7197, Rv. 630121, est. Scrima, ha enunciato il principio secondo il quale quando la locazione in favore di uno dei comproprietari cessi per scadenza del termine o per risoluzione per inadempimento del conduttore, il bene deve essere restituito alla comunione, affinché questa possa disporne, esercitando, attraverso la sua maggioranza, le facoltà di godimento diretto o indiretto. Ne consegue che il conduttore-comproprietario può essere condannato al rilascio dell'immobile in favore della comunione, onde permettere agli altri comproprietari di disporre delle rispettive quote, facendo uso della cosa comune secondo il loro diritto ai sensi degli artt. 1102 e 1103 cod. civ., trattandosi in tale ipotesi, peraltro, non di ordinare al comproprietario di restituire l'intero bene, ma la sola quota di esso, in maniera da reimmettere il concedente nella sua codetenzione.

Tale statuizione si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte - da ultimo Sez. 3, n. 5384, Rv. 625751 - che aveva affermato, in continuità con precedenti pronunce, che la sentenza emessa a seguito del giudizio, instaurato da taluno dei comproprietari, di condanna al rilascio pro quota può essere eseguita soltanto nei confronti del detentore qualificato e non anche di altro comproprietario, convenuto nel giudizio di rivendicazione della quota ideale di un bene in comproprietà pro indiviso, non potendosi ordinare il "rilascio" di una quota ideale.

Rimane, inoltre, confermato il principio - Sez. 2, n. 26766, in corso di massimazione, est. San Giorgio - secondo il quale in caso di frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito di trasferimento dall'originario unico proprietario ad altri soggetti, di alcune unità immobiliari, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale di comunione pro indiviso di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano - in tale momento costitutivo del condominio- destinate all'uso comune o a soddisfare interessi generali, salvo che il contrario non risulti dal titolo.

5. Diritto di abitazione.

In tema di portata e fondamento del diritto reale di abitazione sulla casa adibita a residenza coniugale si segnala Sez. 2, n. 14687, Rv. 631215, rel. Mazzacane, che ha precisato che in tema di diritto di abitazione, il limite sancito dall'art. 1022 cod. civ. riguardo ai bisogni del titolare e della sua famiglia non deve essere inteso in senso quantitativo, che imporrebbe l'ardua determinazione della parte di casa necessaria a soddisfare tali bisogni, ma solo come divieto di utilizzo della casa in altro modo che per l'abitazione diretta dell'habitator e dei suoi familiari.

6. Servitù prediali.

Si segnala Sez. 2, n. 15101, Rv. 631664, est. Scalisi, in tema di contenuto della servitù secondo il noto principio servitus in faciendo consistere equità, secondo la quale ai sensi dell'art. 1030 cod. civ., non è configurabile una servitù prediale quando l'utilità a favore del fondo dominante, anche se fornita attraverso il fondo servente, sia legata ad un facere del proprietario di quest'ultimo, perché mancherebbe in tal caso il carattere dell'obiettività, come connotato duraturo e permanente, della soggezione di un fondo all'altro. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale aveva escluso la sussistenza del possesso di una servitù di passaggio, in quanto l'accesso al fondo dominante attraverso un cancello posto sul fondo preteso servente era risultato comunque subordinato a specifiche richieste di ingresso e conseguenti autorizzazioni operate di volta in volta).

Ancora, si segnala sulla servitù coattiva di passaggio Sez. 2, n. 2922 del, Rv. 629617, relatore Proto, per la quale essa si estingue per cessazione dell'interclusione, ai sensi dell'art. 1055 cod. civ., qualora al fondo dominante, già intercluso, sia aggregato in unico lotto, facente capo ad unica proprietà, un altro fondo, con accesso alla pubblica via, in quanto, a norma dell'art. 1051 cod. civ., intercluso è il fondo circondato da fondi altrui e privo di uscita sulla via pubblica.

Con la stessa decisione la Suprema Corte ha precisato che per il disposto dell'art. 1054 cod. civ., il quale riconosce al proprietario del fondo rimasto intercluso in conseguenza di alienazione a titolo oneroso o di divisione il diritto di ottenere coattivamente dall'altro contraente il passaggio senza corrispondere alcuna indennità, deve presumersi che la servitù di passaggio costituita con lo stesso atto di alienazione o di divisione, o anche con atto successivo che all'interclusione sia oggettivamente preordinato, abbia natura coattiva, con conseguente applicabilità alla medesima, in caso di cessazione dell'interclusione, della causa estintiva di cui all'art. 1055 cod. civ., salvo che dal negozio costitutivo non emerga, in concreto ed inequivocabilmente, l'intento delle parti di assoggettarsi al regime delle servitù volontarie. Di seguito va ricordata Sez. 2, n. 23693, Rv. 633062, rel. Migliucci - a proposito della natura personale del diritto di passaggio ex art. 1054 cod. civ., e conseguenti oneri probatori a carico di chi lo invochi con la conseguenza che esso non spetta in favore dell'avente causa a titolo particolare dall'acquirente dell'immobile rimasto intercluso, né nei confronti dell'avente causa a titolo particolare dal dante causa, salvo che non ne sia stata prevista in modo espresso la trasmissione nell'atto di acquisto. Ne deriva che spetta al terzo, che sia stato convenuto in giudizio per la costituzione di una servitù coattiva di passaggio, l'onere di provare il fatto impeditivo della dedotta interclusione, in conseguenza del trasferimento del diritto personale a favore dell'avente causa dall'acquirente.

Si è poi affermato - Sez. 2, n. 27350, in corso di massimazione, est. Scalisi - che nel caso di unico fondo pervenuto a due eredi per quote indivise, poi frazionate in esito a scioglimento di comunione, deve escludersi la costituzione di servitù di passaggio e veduta per destinazione del padre di famiglia considerato che la destinazione di assoggettamento di fatto di una porzione immobiliare all'altra non può sorgere ex se con riferimento al momento della successione, ma può verificarsi solo nel momento successivo della divisione e sempreché emerga chiaramente un comportamento costitutivo od omissivo dell'originario proprietario da cui sia derivata una situazione di fatto corrispondente al contenuto della servitù e non risulti una volontà contraria del proprietario dei fondi al momento della loro separazione.

7. Tutela ed effetti del possesso.

Va evidenziata Sez. 2, n. 20635, Rv. 632423, est. Matera, che ha affermato che il soggetto leso che invochi la tutela possessoria, ove intenda ottenere la condanna dell'autore dello spoglio o della turbativa anche al risarcimento dei danni, deve necessariamente richiedere al giudice, nel termine previsto dall'art. 703, quarto comma, cod. proc. civ., la fissazione dell'udienza per la prosecuzione del giudizio di merito, ovvero proporre un autonomo giudizio, in quanto le questioni inerenti le pretese risarcitorie possono essere esaminate solo nel giudizio di cognizione piena. Ne consegue che, qualora il giudice adito con azione possessoria, esaurita la fase a cognizione sommaria, non si limiti a pronunciare sulla domanda di reintegrazione o di manutenzione, ma, travalicando i limiti del contenuto del provvedimento interdittale, decida altresì sulla domanda accessoria di risarcimento danni, il provvedimento adottato, anche se emesso nella forma dell'ordinanza, va qualificato come sentenza e, come tale, è impugnabile con appello.

Da un punto di vista processuale si segnala inoltre Sez. 2, n. 22720, Rv. 633029, est. Manna, in tema di ammissibilità della prova, ove la Suprema Corte ha avuto occasione di affermare che il possesso consiste in una relazione tra il soggetto e la cosa, sicché può formare oggetto di testimonianza l'attività attraverso la quale il potere si manifesta, ma non anche il risultato del suo esercizio nel quale il possesso si identifica, non potendo la prova testimoniale avere ad oggetto apprezzamenti o giudizi, ma solo fatti obiettivi. Ne consegue l'inammissibilità dei capitoli di prova relativi a giudizi di valore, mentre sono ammissibili i giudizi di verità in quanto inscindibili dal fatto cui si riferiscono e funzionali alla sua narrazione.

In tema, invece, di compossesso per Sez. 2, n. 13415, Rv. 631141, non si ha mutamento della domanda, né vizio di ultrapetizione, quando, chiestasi la reintegrazione nel possesso esclusivo dell'immobile, la reintegra venga poi chiesta od accordata all'attore per essere, anziché possessore esclusivo, semplicemente compossessore, in quanto il fatto costitutivo dell'azione resta il possesso, mutando solo il profilo giuridico dell'azione, ed in quanto non può ritenersi inibito al giudice, nel sovrano apprezzamento delle prove, di scorgere, anziché una situazione di possesso solitario, una convergenza di poteri di fatto che si traducono sostanzialmente in possesso.

In tema di possesso utile all'usucapione va poi certamente menzionata Sez. 2, n. 18095, Rv. 631780, est. Scalisi, secondo la quale nel giudizio promosso dal possessore nei confronti del proprietario per far accertare l'intervenuto acquisto della proprietà per usucapione, l'atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario in favore di terzi, anche se conosciuto dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell'usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, res inter alios acta, ininfluente sulla prosecuzione dell'esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, né contestato in modo idoneo.

Va di poi segnalata Sez. 6-2, n. 19706, Rv. 632364, rel. Giusti, in tema d'interruzione del possesso utile a compiere l'usucapione del bene sulla constatazione che, ai sensi dell'art. 1165 cod. civ. in relazione all'art. 2944 cod. civ., il riconoscimento del diritto altrui da parte del possessore, quale atto incompatibile con la volontà di godere il bene uti dominus, interrompe il termine utile per l'usucapione. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, è stata confermata la sentenza impugnata, la quale aveva attribuito valore di riconoscimento alla sottoscrizione, da parte del possessore, della domanda di ammissione al concordato preventivo presentata dal proprietario, nonché all'adesione prestata dal medesimo possessore ad una domanda di divisione presupponente l'altrui proprietà del bene).

Si segnala, infine, in tema di locazione Sez. 2, n. 18486, Rv. 632720, est. Picaroni, che nei rapporti tra detenzione qualificata e possesso, il conduttore che mantenga la disponibilità dell'immobile dopo la cessazione di efficacia del contratto di locazione è legittimato a ricorrere alla tutela possessoria ex art. 1168, secondo comma, cod. civ., in quanto detentore qualificato, ancorché inadempiente all'obbligo di restituzione agli effetti dell'art. 1591 cod. civ.

Lo stesso dicasi in tema di comodato - Sez. 2, Sentenza n. 21690, Rv. 632753 - considerato che la presunzione di possesso utile ad usucapionem, di cui all'art. 1141 cod. civ., non opera quando la relazione con il bene derivi non da un atto materiale di apprensione della res, ma da un atto o da un fatto del proprietario a beneficio del detentore, nella specie un contratto di comodato, poiché in tal caso l'attività del soggetto che dispone della cosa non corrisponde all'esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario. Ne consegue che la detenzione di un bene immobile a titolo di comodato precario può mutare in possesso solamente all'esito di un atto d'interversione idoneo a provare con il compimento di idonee attività materiali il possesso utile ad usucapionem in opposizione al proprietario concedente.

  • condominio

CAPITOLO VII

COMUNIONE E CONDOMINIO

(di Cesare Trapuzzano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il godimento della cosa comune. - 3 I poteri dell'amministratore della comunione. - 4 Le parti comuni nel condominio di edifici. - 5 Il supercondominio. - 6 Le innovazioni. - 7 La ripartizione delle spese condominiali. - 8 Il riparto delle spese relative ai lastrici solari di uso esclusivo. - 9 L'indennità spettante in caso di costruzione sull'ultimo piano. - 10 L'amministratore. - 11 La gestione di iniziativa individuale. - 12 L'assemblea. - 13 L'impugnazione delle deliberazioni assembleari. - 14 Il regolamento di condominio. - 15 Lo scioglimento del condominio.

1. Premessa.

La materia della comunione e del condominio negli edifici, oggetto di numerose pronunce della Suprema Corte anche nel 2014, rivela all'attualità particolare interesse alla luce dell'entrata in vigore, a decorrere dal 18 giugno dell'anno 2013, della legge 11 dicembre 2012, n. 220, la quale ha introdotto Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici, intervenendo, in particolare, sugli artt. 1117, 1118, 1119, 1120, 1122, 1124, 1129, 1130, 1131, 1134, 1136, 1137, 1138 e 2659 cod. civ., nonché sugli artt. 63, 64, 66, 67, 68, 69 e 70 disp. att. cod. civ., sull'art. 2, comma 1, della legge 9 gennaio 1989, n. 13, sull'art. 26, comma 2, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, sull'art. 2 bis, comma 13, del d.l. 23 gennaio 2001, n. 5 (convertito in legge 20 marzo 2001, n. 66) e sull'art. 23, primo comma, cod. proc. civ.; risultano, inoltre, inseriti gli artt. 1117 bis, 1117 ter, 1117 quater, 1122 bis, 1122 ter, 1130 bis cod. civ., gli artt. 71 bis, 71 ter, 71 quater e 165 bis disp. att. cod. civ., e un art. 30 della medesima legge n. 220 del 2012, il quale rimane a sé stante.

Fermo il regime transitorio, dettato dall'art. 32 della legge n. 220 del 2012, potrà essere utile confrontare gli approdi giurisprudenziali degli ultimi mesi con le prospettive interpretative determinate dalla vigenza della disciplina novellata.

2. Il godimento della cosa comune.

In forza delle disposizioni dedicate alla comunione in generale, ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Ai sensi dell'art. 1102, secondo comma, cod. civ., il comunista non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri comunisti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Con riferimento alla disposizione della quota, l'art. 1103, primo comma, cod. civ. prevede che ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota. La concessione in locazione costituisce una delle forme di godimento indiretto.

In applicazione di tali principi, Sez. 3, n. 7197, Rv. 630121, est. Scrima, ha affermato che, quando la locazione di un immobile ad uno dei comproprietari cessi per scadenza del termine o per risoluzione per inadempimento del conduttore, il bene deve essere restituito alla comunione, affinché questa possa disporne, esercitando, attraverso la sua maggioranza, le facoltà di godimento diretto o indiretto. Ne consegue che il conduttore-comproprietario può essere condannato al rilascio dell'immobile in favore della comunione, onde permettere agli altri comproprietari di disporre delle rispettive quote, facendo uso della cosa comune secondo il loro diritto ai sensi degli artt. 1102 e 1103 cod. civ., trattandosi in tale ipotesi, peraltro, non di ordinare al comproprietario di restituire l'intero bene, ma la sola quota di esso, in maniera da reimmettere il concedente nella sua codetenzione.

3. I poteri dell'amministratore della comunione.

L'art. 1106 cod. civ. consente che l'amministrazione della cosa in comunione ordinaria sia delegata ad uno o più partecipanti, o anche ad un estraneo, previa determinazione dei suoi poteri ed obblighi. In ogni caso, tali poteri non possono essere assimilati tout court a quelli che competono per legge all'amministratore di condominio.

Di tanto dà atto Sez. 2, n. 4209, Rv. 629623, est. Carrato, che ha specificato quanto segue: "L'amministratore della comunione non può agire in giudizio in rappresentanza dei partecipanti contro uno dei comunisti, se tale potere non gli sia stato attribuito nella delega di cui al secondo comma dell'art. 1106 cod. civ., non essendo applicabile analogicamente - per la presenza della disposizione citata, che prevede la determinazione dei poteri delegati - la regola contenuta nel primo comma dell'art. 1131 cod. civ., la quale attribuisce all'amministratore del condominio il potere di agire in giudizio sia contro i condomini che contro terzi".

4. Le parti comuni nel condominio di edifici.

In tema di condominio, l'art. 1117 cod. civ. individua una serie di beni che si presumono di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto ad un godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo. Il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune, sicché la presunzione di comproprietà posta dall'art. 1117 cod. civ., che contiene un'elencazione non tassativa ma meramente esemplificativa dei beni da considerare oggetto di comunione, può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario. In applicazione di questo principio, Sez. 2, n. 17993 del 2010, Rv. 614186, ha confermato l'esclusione dalla comunione, ai sensi dell'art. 1117 cod. civ., di una terrazza panoramica da sempre asservita alla contigua villa padronale in funzione di belvedere panoramico, tale da conferire alla villa stessa un particolare pregio e da risultarne un accessorio.

Sul tema inerente alla presunzione di condominialità dei beni, Sez. 2, n. 21693, Rv. 632582, est. Giusti, conformandosi ad un proprio precedente (Sez. 2, n. 17993 del 2010, Rv. 614187), ha precisato che la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall'art. 1117 cod. civ., trova applicazione anche nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano.

Sempre sul tema della presunzione di appartenenza dei beni al condominio, Sez. 2, n. 17556, Rv. 631830, est. Giusti, ha ritenuto che il cavedio (o chiostrina, vanella, pozzo luce, cortile di piccole dimensioni), circoscritto dai muri perimetrali e dalle fondamenta dell'edificio condominiale, essendo destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari (quali bagni, disimpegni, servizi), è sottoposto al regime giuridico del cortile, qualificato bene comune, salvo titolo contrario, dall'art. 1117, n. l, cod. civ., senza che la presunzione di condominialità possa essere vinta dal fatto che al cavedio si acceda solo dall'appartamento di un condomino o dal fatto che costui vi abbia posto manufatti collegati alla sua unità (nella specie, pilozza, scaldabagno, impianto d'illuminazione), in quanto l'utilità particolare che deriva da tali fatti non incide sulla destinazione tipica e normale del bene in favore dell'edificio condominiale.

Nello stesso senso, Sez. 2, n. 22179, Rv. 633026, est. Bursese, ha sostenuto che la fossa settica posta nel sottosuolo dell'edificio, nella quale confluiscono i liquami provenienti dagli scarichi dei sovrastanti appartamenti, rientra tra le parti comuni, in forza della presunzione di condominialità di cui all'art. 1117, n. 1, cod. civ., salvo che il contrario non risulti da un titolo, con la conseguenza che i singoli condomini che utilizzano l'impianto devono contribuire alle relative spese di utilizzazione e manutenzione e sono tenuti, ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., al risarcimento dei danni da esso eventualmente causati agli altri condomini o a terzi.

Anche l'impianto termico di uso comune ricade tra i beni condominiali. Al riguardo, Sez. 2, n. 23283, Rv. 633128, est. Scalisi, ha precisato che, in caso di immissioni rumorose in danno di un appartamento, provenienti dall'impianto termico condominiale ed eccedenti la normale tollerabilità, ai sensi dell'art. 844 cod. civ., sussiste la responsabilità del condominio, ex art. 2043 cod. civ., di risarcire i danni subiti dal proprietario dell'unità immobiliare, senza che assuma rilievo la circostanza che l'impianto sia a norma e mantenuto a regola d'arte, in quanto le immissioni moleste integrano comunque gli estremi di un'attività vietata.

La Corte si è anche soffermata sull'argomento relativo alla prova necessaria a vincere la presunzione di condominialità dei beni indicati dall'art. 1117 cod. civ. Al riguardo, Sez. 2, n. 9523, Rv. 630425, est. Oricchio, ha rilevato che la scheda catastale, avendo solo valore indiziario, non è idonea, di per sé, a vincere la presunzione di condominialità sancita dall'art. 1117 cod. civ. e ciò con specifico riferimento al corridoio di accesso alle cantine, al vano sottoscala ed al locale caldaia.

Sez. 2, n. 26766, in corso di massimazione, est. San Giorgio, ha inoltre precisato che, in caso di frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento dall'originario unico proprietario ad altri soggetti di alcune unità immobiliari, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale di comunione pro indiviso di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano - in tale momento costitutivo del condominio - destinate all'uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso; ciò sempre che il contrario non risulti dal titolo, cioè che questo non dimostri una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri.

5. Il supercondominio.

L'art. 1117 bis cod. civ., introdotto dall'art. 2 della legge 2012, n. 220, ha stabilito che le disposizioni del capo dedicato al condominio negli edifici si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell'art. 1117.

In merito, Sez. 2, n. 19799, Rv. 632420, est. Petitti, ha evidenziato che, ai fini della configurabilità di un supercondominio, non è indispensabile l'esistenza di beni comuni a più edifici, compresi in una più ampia organizzazione condominiale, ma è sufficiente la presenza di servizi comuni agli stessi, quali, nella specie, i servizi di illuminazione, di rimozione dei rifiuti e di portineria.

6. Le innovazioni.

La Corte si è anche occupata, in materia di condominio, della compatibilità delle opere effettuate dai singoli condomini sui beni comuni con il principio che garantisce di servirsi della cosa comune a ciascun condomino, purché non ne sia alterata la destinazione e non sia impedito il pari uso agli altri condomini, principio sancito dall'art. 1102, primo comma, cod. civ. Tale diritto è stato armonizzato con la regolamentazione delle innovazioni di cui all'art. 1120 cod. civ., volte al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, purché non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non ne alterino il decoro architettonico e non rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.

In termini generali, sono stati in primo luogo individuati i criteri per stabilire se un determinato uso innovativo della cosa comune da parte di un singolo condomino possa ritenersi pregiudizievole del pari uso spettante agli altri condomini. In proposito, Sez. 6-2, n. 14245, Rv. 631671, est. Giusti, ha osservato che, in tema di uso della cosa comune, per verificare se l'utilizzo diretto e più intenso da parte di un condomino sia legittimo ex art. 1102 cod. civ. e non alteri il rapporto di equilibrio tra i partecipanti, occorre avere riguardo, non tanto alla posizione di coloro che abbiano agito in giudizio a tutela del loro diritto, quanto all'uso potenziale spettante a tutti i condomini, proporzionalmente alla rispettiva quota del bene in comunione.

Quindi, sono state determinate le condizioni affinché le opere eseguite dal singolo condomino possano essere qualificate legittime. Così Sez. 2, n. 19915, Rv. 632907, est. Picaroni, ha precisato che, in tema di condominio negli edifici, non è automaticamente configurabile un uso illegittimo della parte comune costituita dall'area di terreno su cui insiste il fabbricato e posano le fondamenta dell'immobile, in ipotesi di abbassamento del pavimento e del piano di calpestio eseguito da un singolo condomino, dovendosi a tal fine accertare o l'avvenuta alterazione della destinazione del bene, vale a dire della sua funzione di sostegno alla stabilità dell'edificio, o l'idoneità dell'intervento a pregiudicare l'interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune.

Ancora, Sez. 6-2, n. 24295, Rv. 632897, est. Falaschi, ha affermato che l'apertura nell'androne condominiale di un nuovo ingresso, a favore dell'immobile di un condomino, è legittima, ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., in quanto, pur realizzando un utilizzo più intenso del bene comune da parte di quel condomino, non esclude il diritto degli altri di farne parimenti uso e non altera la destinazione del bene stesso.

Inoltre, si è tenuto conto anche della specifica utilità dell'innovazione apportata. In questa direzione, Sez. 2, n. 10852, Rv. 630809, est. Petitti, confermando il precedente di Sez. 2, n. 14096 del 2012, Rv. 623551, ha puntualizzato che, in tema di condominio, l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi la disciplina dettata dall'art. 907 cod. civ. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, comma 2, della legge 9 gennaio 1989, n. 13, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale.

Quindi, Sez. 2, n. 26055, in corso di massimazione, est. Triola, ha ripreso il principio già ribadito da Sez. 2, n. 4679 del 2009, Rv. 607232, secondo cui, in tema di condominio, non può avere incidenza lesiva del decoro architettonico di un edificio un'opera modificativa compiuta da un condomino (nella fattispecie realizzazione di una veranda), quando sussista degrado di detto decoro a causa di preesistenti interventi modificativi di cui non sia stato preteso il ripristino.

In ultimo, Sez. 2, n. 20985, Rv. 632393, est. San Giorgio, ha chiarito, distinguendo l'aspetto civilistico da quello amministrativo, che, per la legittimità dell'innovazione nel condominio degli edifici, ai sensi dell'art. 1120, secondo comma, cod. civ., è irrilevante che l'autorità amministrativa abbia autorizzato l'opera, in quanto il rapporto tra la pubblica autorità e il condomino esecutore dell'opera non può incidere negativamente sulle posizioni soggettive degli altri condomini.

7. La ripartizione delle spese condominiali.

Con riferimento alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, l'art. 1123, primo comma, cod. civ. prevede che esse sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione.

Si premette che il condominio si pone, verso i terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei condomini, attinenti alle parti comuni, sicché l'amministratore è rappresentante necessario della collettività dei partecipanti, sia quale assuntore degli obblighi per la conservazione delle cose comuni, sia quale referente dei relativi pagamenti. Ne consegue che non è idoneo ad estinguere il debito pro quota il pagamento eseguito dal condomino direttamente a mani del creditore del condominio, se tale creditore non è munito di titolo esecutivo verso lo stesso singolo partecipante, come ha ricordato Sez. 6-2, n. 3636, Rv. 629424, est. Bianchini.

In applicazione del principio di ripartizione delle spese di cui all'art. 1123, primo comma, cod. civ., Sez. 2, n. 17557, Rv. 631859, est. Giusti, ha reputato che, in tema di condominio negli edifici, salva diversa convenzione, la ripartizione delle spese della bolletta dell'acqua, in mancanza di contatori di sottrazione installati in ogni singola unità immobiliare, deve essere effettuata, ai sensi dell'art. 1123, primo comma, cod. civ., in base ai valori millesimali, sicché è viziata, per intrinseca irragionevolezza, la delibera assembleare assunta a maggioranza che, adottato il diverso criterio di riparto per persona in base al numero di coloro che abitano stabilmente nell'unità immobiliare, esenti dalla contribuzione i condomini i cui appartamenti siano rimasti vuoti nel corso dell'anno.

La Corte, inoltre, con Sez. 3, n. 15482, Rv. 631746, est. Sestini, ha altresì specificato che, quando i canoni d'uso previsti per le aree asservite a parcheggio di edificio condominiale siano assimilati a canoni di locazione, sono i proprietari delle stesse a dover sopportare le spese di amministrazione condominiale (compenso per l'amministratore, spese per cartoleria e contabilità, ecc.), in quanto non ricomprese tra quelle che il conduttore deve rimborsare al locatore, il quale, essendo diretto interessato all'attività di amministrazione e relativo mandante, ne sopporta per intero il carico, salvo diversa previsione contrattuale; ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in relazione al "fondo di riserva" che - quale accantonamento per eventuali future spese condominiali - risponde all'interesse del condomino (locatore) di accantonare somme che consentano un'adeguata e tempestiva amministrazione del bene.

L'art. 1123, secondo comma, cod. civ. precisa poi che, qualora le spese riguardino cose destinate a servire i condomini in misura diversa, esse sono ripartite in proporzione all'uso che ciascuno può farne. Sicché Sez. 2, n. 17880, Rv. 631784, est. San Giorgio, ha chiarito che l'art. 1123, secondo comma, cod. civ. si applica per le spese attinenti alle parti e ai servizi che, per loro natura, sono destinati a fornire utilità diverse ai singoli condomini, sicché esso non trova applicazione per la spesa di messa a norma dell'impianto elettrico condominiale, il quale, ai sensi dell'art. 1117, n. 3, cod. civ., in mancanza di titolo contrario, è comune a tutti i condomini.

Infine, la Suprema Corte ha affrontato il tema della prescrizione di tali spese. Sez. 2, n. 4489, Rv. 630177, est. Nuzzo, ha affermato che le spese condominiali hanno natura periodica, sicché il relativo credito è soggetto a prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 4, cod. civ., con decorrenza dalla delibera di approvazione del rendiconto e dello stato di riparto, costituente il titolo nei confronti del singolo condomino.

8. Il riparto delle spese relative ai lastrici solari di uso esclusivo.

Il cod. civ. dedica un'apposita disciplina alla ripartizione delle spese riguardanti i lastrici solari di uso esclusivo. In merito, l'art. 1126 cod. civ. dispone che, quando l'uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico mentre gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.

Sul tema, Sez. 3, n. 18164, Rv. 632926, est. D'Amico, ha precisato che, in tema di condominio negli edifici, la terrazza a livello, anche se di proprietà o in godimento esclusivo di un singolo condomino, assolve alla stessa funzione di copertura del lastrico solare posto alla sommità dell'edificio nei confronti degli appartamenti sottostanti. Ne consegue che, dei danni cagionati all'appartamento sottostante per le infiltrazioni d'acqua provenienti dal terrazzo a livello deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti i condomini tenuti alla sua manutenzione, secondo le proporzioni stabilite dall'art. 1126 cod. civ., senza che rilevi la riconducibilità delle infiltrazioni a difetti ricollegabili alle caratteristiche costruttive.

Sempre in ordine allo stesso argomento, Sez. 2, n. 1451, Rv. 629972, est. Giusti, ha sostenuto che il proprietario dell'appartamento su due livelli, che al piano superiore fruisca del calpestio sul lastrico solare e al piano inferiore goda della funzione di copertura, partecipa alla spesa di rifacimento del lastrico, ai sensi dell'art. 1126 cod. civ., per un terzo quale utente esclusivo del terrazzo e per due terzi in proporzione del valore millesimale dell'unità sita nella colonna sottostante al lastrico.

In ultimo, Sez. 2, n. 27154, in corso di massimazione, est. D'Ascola, ha affermato che le gronde, i doccioni ed i canali di scarico delle acque meteoriche della copertura di uno stabile condominiale, sia essa rappresentata da tetto a falda o da lastrico di proprietà esclusiva, il quale assolva anche la funzione di copertura di parte del fabbricato, costituiscono bene comune, atteso che, svolgendo una funzione necessaria all'uso comune, ricadono tra i beni che l'art. 1117 cod. civ. include tra le parti comuni dell'edificio, con la conseguenza che, anche in caso di proprietà esclusiva del lastrico o terrazzo dal quale provengono le acque che si immettono nei canali, non può trovare applicazione il regime sulle spese stabilito dall'art. 1126 cod. civ., norma non suscettibile di interpretazione analogica che disciplina soltanto le riparazioni o ricostruzioni del lastrico propriamente inteso e non di altre parti dell'immobile, la cui esistenza è indipendente da quella del lastrico, salvo che altrimenti risulti espressamente dal titolo.

9. L'indennità spettante in caso di costruzione sull'ultimo piano.

L'art. 1127, primo comma, cod. civ. consente al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio di elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico. Il secondo comma precisa poi che la sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non lo consentono. Inoltre, i condomini possono opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti. Infine, l'ultimo comma dell'art. 1127 cod. civ. stabilisce che il condomino che realizza la sopraelevazione deve corrispondere agli altri condomini un'indennità pari al valore attuale dell'area da occuparsi con la nuova fabbrica, diviso per il numero dei piani, ivi compreso quello da edificare, e detratto l'importo della quota a lui spettante. Quindi, è tenuto a ricostruire il lastrico solare di cui tutti o parte dei condomini avevano il diritto di usare.

Sennonché, la determinazione dell'indennità prevista dall'art. 1127 cod. civ., nel caso di sopraelevazione di un solo piano, deve essere effettuata assumendo come elemento base del calcolo il valore del suolo sul quale insiste l'edificio o la parte di esso che viene sopraelevata, dividendo, poi, il relativo importo per il numero dei piani, compreso quello di nuova costruzione, e detraendo, infine, dal quoziente così ottenuto, la quota che spetterebbe al condomino che ha eseguito la sopraelevazione. Nel caso di sopraelevazione di più piani, invece, il quoziente ottenuto dividendo il valore del suolo per il numero complessivo dei piani preesistenti e di quelli di nuova costruzione deve essere moltiplicato per il numero di questi ultimi e l'ammontare dell'indennità è rappresentato dal prodotto così ottenuto, diminuito della quota che, tenendo conto del precedente stato di fatto e di diritto, spetterebbe al condomino che ha eseguito la sopraelevazione, come ha osservato Sez. 2, n. 8096, Rv. 630365, est. Abete.

Con riguardo alla natura di tale indennità, la stessa Sez. 2, n. 8096, Rv. 630364, est. Abete, ha chiarito che l'indennità prevista dall'art. 1127 cod. civ. è oggetto di un debito di valore, da determinarsi con riferimento al tempo della sopraelevazione, sicché non trova applicazione la regola dettata dall'art. 1224 cod. civ. per i debiti di valuta, secondo cui gli interessi legali sono dovuti dalla costituzione in mora, essi spettando, invece, dal giorno di ultimazione della sopraelevazione.

10. L'amministratore.

La Corte si è occupata specificamente dei temi relativi alla nomina e revoca dell'amministratore, all'individuazione dei suoi poteri ed attribuzioni nonché alla determinazione della sua rappresentanza.

In primo luogo, Sez. 2, n. 9082, Rv. 630114, est. Migliucci, ha evidenziato che, in tema di condominio negli edifici, l'assemblea può nominare un nuovo amministratore senza avere preventivamente revocato l'amministratore uscente, applicandosi la norma sulla revoca tacita del mandato, di cui all'art. 1724 cod. civ.

Con riferimento alla nomina dell'amministratore da parte dell'autorità giudiziaria, quando l'assemblea non vi provveda, Sez. 2, n. 16698, Rv. 632063, est. Migliucci, ha puntualizzato che il decreto emesso ai sensi dell'art. 1129, primo comma, cod. civ. ha ad oggetto esclusivamente la nomina dell'amministratore da parte del tribunale, in sostituzione dell'assemblea che non vi provvede, senza che però muti la posizione dell'amministratore stesso, il quale, benché designato dall'autorità giudiziaria, instaura con i condomini un rapporto di mandato e non riveste la qualità di ausiliario del giudice. Ne consegue che l'amministratore nominato dal tribunale deve rendere conto del suo operato soltanto all'assemblea e la determinazione del suo compenso rimane regolata dall'art. 1709 cod. civ. E ciò con riguardo ad una fattispecie anteriore alle modifiche dell'art. 1129 cod. civ., operate con la legge 2012, n. 220, inapplicabile ratione temporis.

Quanto alla revoca dell'amministratore di condominio, Sez. 2, n. 18487, Rv. 632037, est. Manna, ha affermato che il procedimento diretto alla revoca dell'amministratore di condominio soggiace al regolamento delle spese ex art. 91 cod. proc. civ., dovendosi escludere, nella disciplina antecedente all'entrata in vigore dell'art. 1129, undicesimo comma, cod. civ., come introdotto dalla legge 2012, n. 220, che queste possano essere ripetibili nel rapporto interno tra il condomino vittorioso che le ha anticipate e il condominio, nei cui confronti pure si producono gli effetti della decisione, in quanto è nel rapporto processuale tra le parti del giudizio che le spese trovano la loro esclusiva regola di riparto. L'attuale disciplina dell'art. 1129, undicesimo comma, cod. civ., introdotta dall'art. 9 della legge 2012, n. 220, con decorrenza dal 18 giugno 2013, prevede invece espressamente, nel caso di accoglimento della domanda di revoca proposta dal singolo condomino, il titolo alla rivalsa per le spese legali nei confronti del condominio, che a sua volta può rivalersi nei confronti dell'amministratore revocato.

Con riferimento alle attribuzioni dell'amministratore condominiale, Sez. 3, n. 17983, Rv. 632560, est. Sestini, ha chiarito quale sia la posizione dell'amministratore, a fronte della responsabilità aquiliana del condominio per danno cagionato da cose in custodia, sancendo il principio secondo cui il condominio risponde, ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., dei danni subiti da terzi estranei ed originati da parti comuni dell'edificio, mentre l'amministratore, in quanto tenuto a provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia delle stesse, è soggetto, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., solo all'azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio per il recupero delle somme che esso abbia versato ai terzi danneggiati.

Il tema della legittimazione passiva del condominio, e non dei singoli condomini, nel caso di proposizione dell'azione di risarcimento dei danni discendenti da beni condominiali, è altresì affrontato da altra pronuncia. Sez. 3, n. 18168, Rv. 633038, est. Sestini, ha sostenuto che la legittimazione passiva nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti dal cedimento di strutture condominiali spetta al condominio, in persona dell'amministratore, quale rappresentante di tutti i condomini obbligati, e non già al singolo condomino, poiché la responsabilità delineata dall'art. 2053 cod. civ. si fonda sulla proprietà del bene, la cui rovina è cagione del danno, e va imputata a chi abbia la possibilità di ovviare ad un vizio di costruzione o di provvedere alla manutenzione del bene, ossia - per le strutture condominiali - al condominio. Nondimeno, la medesima sentenza ha prospettato che nel medesimo giudizio può anche essere chiamato il singolo condomino, a titolo personale, soltanto ove tale condomino frapponga impedimenti all'esecuzione dei lavori di manutenzione o ripristino ovvero allorché i danni derivino da difetti di conservazione o di manutenzione, a lui imputabili in via esclusiva.

L'argomento relativo alle attribuzioni spettanti all'amministratore è stato preso in considerazione anche da Sez. 2, n. 22464, Rv. 632995, est. Mazzacane, secondo cui la domanda di revisione delle tabelle millesimali, allegate ad un regolamento di condominio avente natura contrattuale, esorbita dall'ambito delle attribuzioni dell'amministratore e va proposta in contraddittorio di tutti i condomini, riguardando la modifica dei diritti riconosciuti ai singoli da tale regolamento.

Ancora, Sez. 2, n. 8339, Rv. 630367, est. Manna, ha evidenziato che l'amministratore è mandatario del condominio nell'erogazione della spesa per i servizi comuni, sicché egli, qualora sostituisca altri a se stesso nell'esecuzione di tale attività, senza esservi autorizzato dall'assemblea e senza che sia necessario per la natura dell'incarico, risponde dell'operato del sostituto, a norma dell'art. 1717, primo comma, cod. civ., non rilevando che la sostituzione sia conforme a una prassi nota ai condomini, fatto che, di per sé, non esprime la volontà del condominio.

Quanto ai diritti di consultazione documentale dei condomini verso l'amministratore, Sez. 2, n. 19799, Rv. 632421, est. Petitti, ha rilevato che, in tema di condominio negli edifici, ciascun condomino ha diritto di accedere alla documentazione contabile in vista della consapevole partecipazione all'assemblea condominiale, e a tale diritto corrisponde l'obbligo dell'amministratore di predisporre un'organizzazione, sia pur minima, che consenta di esercitare lo stesso e di informarne i condomini, sicché, a fronte della richiesta di un singolo condomino di accedere alla predetta documentazione, grava sull'amministratore, ovvero sul condominio che intenda resistere all'impugnazione della delibera assembleare proposta dal condomino dissenziente, l'onere della prova dell'inesigibilità ed incompatibilità della richiesta con le modalità previamente comunicate.

Relativamente ai poteri dell'amministratore, Sez. 2, n. 18084, Rv. 631782, est. D'Ascola, richiamando il precedente di Sez. 2, n. 14197 del 2011, Rv. 618395, ha ribadito che l'amministratore di condominio non ha - salvo quanto previsto dagli artt. 1130 e 1135 cod. civ. in tema di lavori urgenti - un generale potere di spesa, in quanto spetta all'assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l'opportunità delle spese sostenute dall'amministratore; ne consegue che, in assenza di una deliberazione dell'assemblea, l'amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute, perché, pur essendo il rapporto tra l'amministratore ed i condomini inquadrabile nella figura del mandato, il principio dell'art. 1720 cod. civ. - secondo cui il mandante è tenuto a rimborsare le spese anticipate dal mandatario - deve essere coordinato con quelli in materia di condominio, secondo i quali il credito dell'amministratore non può considerarsi liquido né esigibile senza un preventivo controllo da parte dell'assemblea.

Con riguardo al giudizio in cui sia parte il condominio in persona dell'amministratore e alla facoltà di intervento dei singoli condomini, Sez. 2, n. 14809, Rv. 631211, est. Mazzacane, ha affermato che la caratteristica del giudizio di rinvio come giudizio "chiuso", non solo per l'oggetto, ma anche per i soggetti, non preclude che vi intervengano singoli condomini a sostegno del condominio, rappresentato dall'amministratore, in controversia con altri condomini per la tutela dei diritti della collettività, atteso che i condomini intervenienti non sono terzi rispetto al condominio, ma si identificano con tale parte in giudizio.

Sempre con riferimento ai procedimenti giudiziali, in tema di legittimazione dell'amministratore a resistere all'impugnazione della delibera assembleare e ad interporre gravame, Sez. 2, n. 1451, Rv. 629971, est. Giusti, ha chiarito che, in tema di condominio negli edifici, l'amministratore può resistere all'impugnazione della delibera assembleare e può gravare la relativa decisione del giudice, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea, giacché l'esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientra fra le attribuzioni proprie dello stesso.

In tema di rendiconto condominiale, regolato dall'art. 1130 bis cod. civ., Sez. 2, n. 15401, Rv. 631701, est. Triola, ha precisato che, qualora il rendiconto annuale sia redatto secondo il criterio di cassa, i crediti vantati da un singolo condomino vanno inseriti non nel bilancio relativo al periodo in cui gli stessi siano stati semplicemente avanzati, ma nel consuntivo relativo all'esercizio in pendenza del quale sia avvenuto il loro accertamento.

Ancora, Sez. U, n. 19663, Rv. 632218, est. San Giorgio, hanno affermato il principio secondo cui, in caso di violazione del termine ragionevole del processo, qualora il giudizio sia stato promosso dal condominio, sebbene a tutela di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini, ma senza che costoro siano stati parte in causa, la legittimazione ad agire per l'equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, quale autonomo soggetto giuridico, in persona dell'amministratore, autorizzato dall'assemblea dei condomini.

Sempre relativamente alla delimitazione dei poteri dell'amministratore di condominio negli edifici, Sez. 2, n. 4366, Rv. 629598, est. Falaschi, ha ritenuto che è valida la deliberazione assembleare che autorizza genericamente l'amministratore a "coltivare" la lite con un determinato difensore, essendo rimessa a quest'ultimo la scelta tecnica di modulare le difese, limitandosi a resistere all'altrui ricorso per cassazione ovvero proponendo ricorso incidentale.

Infine, con riguardo alle spese di lite, Sez. 2, n. 13885, Rv. 631246, est. Falaschi, ha sostenuto che è invalida la deliberazione dell'assemblea che, all'esito di un giudizio che abbia visto contrapposti il condominio ed un singolo condomino, disponga anche a carico di quest'ultimo, pro quota, il pagamento delle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore nominato in tale processo, non trovando applicazione nella relativa ipotesi, nemmeno in via analogica, gli artt. 1132 e 1101 cod. civ.

11. La gestione di iniziativa individuale.

Secondo la formulazione dell'art. 1134 cod. civ., nella versione antecedente alla riforma di cui alla legge 2012, n. 220, il condomino che ha sostenuto spese per le cose comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spese urgenti. L'attuale versione della norma si riferisce, anziché alle spese per le cose comuni, alla gestione delle parti comuni.

La Corte - Sez. 2, n. 3221, Rv. 629348, est. Proto - ha interpretato la disposizione, nel testo precedente applicabile ratione temporis, nel senso che il condomino può ottenere il rimborso della spesa fatta "per la cosa comune", sostenuta, cioè, in funzione dell'utilità comune, indipendentemente dalla circostanza che la spesa stessa sia stata fatta su cosa comune o di proprietà esclusiva.

12. L'assemblea.

L'art. 1135 cod. civ. regola le attribuzioni dell'assemblea dei condomini, oltre a quelle stabilite dagli artt. precedenti. Il successivo art. 1136 cod. civ. disciplina invece la costituzione dell'assemblea e la validità delle sue deliberazioni.

In particolare, l'art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ. stabilisce che l'assemblea provvede all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e alla relativa ripartizione tra i condomini nonché all'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e all'impiego del residuo attivo della gestione.

Sul punto, Sez. 2, n. 1439, Rv. 629427, est. D'Ascola, ha rilevato che, in tema di condominio negli edifici, la deliberazione con cui l'assemblea, in mancanza di tabelle millesimali, adotti un criterio provvisorio di ripartizione delle spese tra i condomini, nell'esercizio delle attribuzioni di cui all'art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., non è nulla, ma solo annullabile, non incidendo comunque sui criteri generali dettati dall'art. 1123 cod. civ., con la conseguenza che la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza di trenta giorni previsto dall'art. 1137 cod. civ.

Inoltre, Sez. 2, n. 821, Rv. 629340, est. Bursese, ha affermato che, ai sensi dell'art. 1135 cod. civ., l'assemblea può deliberare a maggioranza su tutto ciò che riguarda le spese d'interesse comune e, quindi, anche sulle transazioni che a tali spese afferiscano, essendo necessario il consenso unanime dei condomini, ai sensi dell'art. 1108, terzo comma, cod. civ., solo quando la transazione abbia ad oggetto i diritti reali comuni.

Con riguardo alla regolarità della convocazione dell'assemblea, Sez. 2, n. 13047, Rv. 631143, est. Abete, ha evidenziato che, in tema di condominio negli edifici, affinché la delibera assembleare sia valida, non occorre che l'avviso di convocazione prefiguri lo sviluppo della discussione e il risultato dell'esame dei singoli punti all'ordine del giorno.

In ordine allo stesso tema, Sez. 6-2, n. 22685, Rv. 633153, est. Proto, ha puntualizzato che la norma di cui all'art. 1136 cod. civ., secondo la quale tra l'assemblea di prima e di seconda convocazione deve passare almeno un giorno, va intesa non già nel senso che debbano trascorrere ventiquattro ore, ma che la seconda assemblea deve essere tenuta, come minimo, nel giorno successivo.

13. L'impugnazione delle deliberazioni assembleari.

Ai sensi dell'art. 1137 cod. civ., le deliberazioni prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria, chiedendone l'annullamento, nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.

Sul piano della legittimazione attiva, Sez. 2, n. 9082, Rv. 630113, est. Migliucci, ha sostenuto che il condomino assente in assemblea, ma regolarmente convocato, non può impugnare la delibera per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio che inerisce all'altrui sfera giuridica, come conferma l'interpretazione evolutiva fondata sull'art. 66 disp. att. cod. civ., modificato dall'art. 20 della legge 2012, n. 220.

Quanto alla possibilità di impugnazione di deliberazioni assembleari aventi particolare oggetto, Sez. 2, n. 10860, Rv. 630663, est. Manna, richiamando il precedente di Sez. 2, n. 22276 del 2013, Rv. 627900, ha confermato che, ai fini della validità della delibera condominiale di trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato in impianti individuali - adottata ai sensi dell'art. 26, secondo comma, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, a maggioranza delle quote millesimali e in conformità agli obiettivi di risparmio energetico perseguiti da tale legge - non sono necessarie verifiche preventive circa l'assoluta convenienza della trasformazione quanto al risparmio dei consumi di ogni singolo impianto, né si richiede che l'impianto centralizzato da sostituire sia alimentato da fonte diversa dal gas, occorrendo soltanto che siano alimentati a gas quelli autonomi da realizzare, irrilevante essendo, altresì, la circostanza che, nella fase di attuazione della deliberazione, emerga l'impossibilità di realizzare l'impianto autonomo in uno degli appartamenti. Né, infine, la medesima legge n. 10 del 1991 impone all'art. 8 (nel testo originario, applicabile ratione temporis) di preferire l'adozione di valvole termostatiche o di altri sistemi di contabilizzazione del calore, ovvero l'utilizzo di energia solare per riscaldare gli edifici, consentendo anche soltanto di deliberare il passaggio da un impianto centralizzato, comunque alimentato, ad impianti autonomi a gas per le singole unità abitative.

Ancora, Sez. 6-2, n. 4216, Rv. 629611, est. Bianchini, ha chiarito, sempre relativamente ai vizi delle delibere assembleari, che la figura dell'eccesso di potere nel diritto privato ha la funzione di superare i limiti di un controllo di mera legittimità sulle espressioni di volontà riferibili ad enti collettivi (società o condominii), che potrebbero lasciare prive di tutela situazioni di non consentito predominio della maggioranza nei confronti del singolo; essa presuppone, tuttavia, la sussistenza di un interesse dell'ente collettivo, che sarebbe leso insieme all'interesse del singolo. Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito, che aveva escluso il vizio della delibera assembleare, avendo questa privilegiato, nella scelta del conduttore di locali condominiali, le qualità della persona rispetto all'entità del canone.

Sez. 6-2, n. 22685, Rv. 633154, est. Proto, ha altresì chiarito che, qualora il condomino impugni la deliberazione assembleare lamentando la mancata menzione della regolarità delle convocazioni, la prova che tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati incombe sul condominio, non potendosi porre a carico del condomino l'onere di una dimostrazione negativa, quale quella dell'omessa osservanza dell'obbligo di convocare l'universalità dei condomini, trattandosi di elemento costitutivo della validità della delibera.

14. Il regolamento di condominio.

Con specifico riferimento al regolamento contrattuale, Sez. 6-2, n. 19229, Rv. 632156, est. Manna, ha stabilito che il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà, sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare. In quest'ultimo caso, peraltro, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela.

Sempre in tema di regolamento di origine contrattuale nel condominio degli edifici, si è ritenuto che, per l'opponibilità delle servitù reciproche costituite dal regolamento contrattuale, non è sufficiente indicare nella nota di trascrizione il regolamento medesimo, ma, ai sensi degli artt. 2659, primo comma, n. 2, e 2665 cod. civ., occorre indicarne le specifiche clausole limitative, come argomentato da Sez. 2, n. 17493, Rv. 631786, est. Triola.

Con riferimento alle sanzioni stabilite per le infrazioni al regolamento di condominio regolato dall'art. 1138 cod. civ., Sez. 2, n. 820, Rv. 628917, est. Bursese, ha puntualizzato che, alla luce dell'art. 70 disp. att. cod. civ., il regolamento condominiale non può prevedere sanzioni diverse da quelle pecuniarie, ovvero diversamente afflittive, poiché ciò sarebbe in contrasto con i principi generali dell'ordinamento, che non conferiscono al privato, se non eccezionalmente, il diritto di autotutela. In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato legittima la sanzione regolamentare della rimozione delle autovetture irregolarmente parcheggiate dai condomini nell'area comune.

Quindi, sotto il profilo della competenza per materia, Sez. 2, n. 23297, Rv. 633127, est. Mazzacane, ha posto in evidenza che la controversia riguardante i limiti di esercizio del diritto del condomino sulla sua proprietà esclusiva, derivanti da una clausola del regolamento condominiale, non rientra tra le cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi di condominio, di competenza del giudice di pace, che attengono alle riduzioni quantitative del diritto di godimento dei singoli condomini sulle parti comuni e ai limiti qualitativi di esercizio delle facoltà comprese nel diritto di comunione in proporzione alle rispettive quote.

15. Lo scioglimento del condominio.

Gli artt. 61 e 62 disp. att. cod. civ. regolano la possibilità di scioglimento del condominio sul presupposto che un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi. Lo scioglimento può essere deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta o è disposta dall'autorità giudiziaria adita da un numero qualificato di condomini.

Sulla ricorrenza del presupposto per lo scioglimento, Sez. 2, n. 21686, Rv. 632394, est. Matera, ha rilevato che l'autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento del condominio, ai sensi degli artt. 61 e 62 disp. att. cod. civ., solo quando l'immobile sia divisibile in parti strutturalmente autonome, ciò che è escluso dall'esistenza di interferenze materiali involgenti elementi strutturali essenziali (quali fondazioni, facciata e perimetro).

  • terreno agricolo
  • espropriazione

CAPITOLO VIII

L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

(di Donatella Salari )

Sommario

1 Questioni di giurisdizione. - 2 Occupazione d'urgenza. - 3 Decreto di esproprio. - 4 Indennità di espropriazione: a) criteri di determinazione. - 5 (Segue) b) profili processuali. - 6 Le espropriazioni "indirette". - 7 (Segue) in particolare, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno. - 8 Espropriazione di fondi agricoli. - 9 Retrocessione del bene espropriato.

1. Questioni di giurisdizione.

La ricognizione delle decisioni delle pronunce della Suprema Corte in materia di espropriazione per pubblica utilità non può che muoversi da un preliminare esame di quelle scrutinate dalla Corte nel riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Innanzitutto, viene ribadito, - Sez. U, n. 3660, Rv. 629535, rel. Ceccherini, che le controversie risarcitorie per il danno da occupazione appropriativa, iniziate in periodo antecedente al 1° luglio 1998, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, secondo l'antico criterio di riparto diritti soggettivi - nteressi legittimi, al pari delle medesime controversie, se iniziate nel periodo dal 1° luglio 1998 al 10 agosto 2000, data di entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, per effetto della sentenza n. 281 del 2004, della Corte costituzionale, che, ravvisando nell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, anteriormente alla riscrittura operata con l'art. 7 della legge n. 205 del 2000, un eccesso di delega, ha dichiarato l'incostituzionalità delle nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva. Sono, invece, attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo, le controversie risarcitorie per l'occupazione appropriativa instaurate a partire dal 10 agosto 2000, data di entrata in vigore dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come riformulato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, non già perché la dichiarazione di pubblica utilità sia di per sé idonea ad affievolire il diritto di proprietà, ma perché ricomprese nella giurisdizione esclusiva in materia urbanistico - edilizia, mentre la stessa giurisdizione è attribuita dall'art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001, se la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta a partire dal 1° luglio 2003, data di entrata in vigore del t.u. espropriazioni.

Viene, pertanto, ribadita la competenza del giudice ordinario - Sez. U, n. 23470, Rv. 632714, est. Ragonesi - anche nel caso di scadenza del vincolo all'esproprio, in tal caso la Suprema Corte ha affermato che l'attività espropriativa posta in essere dopo la scadenza del vincolo ad essa preordinato (nella specie, vincolo biennale per le opere di edilizia scolastica) è svolta in carenza di potere, sicché la domanda dell'espropriato per la declaratoria di nullità del decreto di esproprio, per la restituzione dell'area occupata e il risarcimento del danno da occupazione appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.

In continuità con detta statuizione si segnala la decisione - Sez. U, n. 3661, Rv. 629547, rel. Ceccherini - che ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario nelle questioni di natura risarcitoria conseguenti ad un comportamento materiale di apprensione e trasformazione del bene attuato dalla amministrazione in carenza assoluta di potere, ancorché il giudice amministrativo abbia rigettato la domanda di annullamento del decreto di espropriazione.

Nel caso di specie, peraltro, la Corte ha affermato che la domanda di ristoro dei danni non appare preclusa dall'avvenuta formazione del giudicato amministrativo considerata la giuridica inesistenza della dichiarazione di pubblica utilità, in continuità con Sez. U, n. 27994, in corso di massimazione, rel. Salvago.

2. Occupazione d'urgenza.

Sul punto si registra un consolidamento del principio secondo il quale - Sez. 1, n. 7248, Rv. 630323, est. Benini - in tema di occupazione destinata alla realizzazione di un'opera pubblica, la redazione del verbale di immissione in possesso in favore dell'ente espropriante, in conseguenza della pronuncia di un decreto di occupazione, fa presumere che la P.A., beneficiaria dell'occupazione stessa, si sia effettivamente impossessata dell'immobile e, nel contempo, esonera il proprietario espropriato dall'onere di provare l'avvenuto spossessamento, sicché, una volta accertata l'immissione in possesso, qualora l'immobile sia restituito prima dell'esaurimento temporale del periodo autorizzato, grava sull'Amministrazione la prova di avere provveduto alla sua restituzione.

Rimane, inoltre, fermo il principio già affermato con Sez.1, n. 14098, Rv. 567079, est. Forte, secondo il quale l'indennità per l'occupazione d'urgenza di un immobile spetta soltanto per il periodo di occupazione legittima, non anche per il periodo successivo in cui l'occupazione si sia, eventualmente, protratta, atteso che, decorso il tempo per l'occupazione temporanea, in carenza del decreto di esproprio, essa prosegue come occupazione illecita se il terreno non è stato definitivamente trasformato con l'opera di pubblica utilità per la quale avvenne l'occupazione ovvero, se si è verificata la irreversibile destinazione a detta opera dell'area occupata, quest'ultima è acquisita dall'occupante per l'occupazione appropriativa (Sez.1, n. 15259, Rv. 631801, est. Salvago).

Mentre per quanto riguarda l'occupazione usurpativa (sulla quale si dirà oltre) ossia rea- lizzata in assenza di un valida dichiarazione di pubblica utilità, la Suprema Corte - Sez. 1, n. 21490, Rv. 632534, est. Campanile - ha affermato che in tema di occupazione cosiddetta usurpativa di area edificabile, nei giudizi di risarcimento del danno pendenti alla data dell'1 gennaio 1997, a seguito delle modifiche apportate dall'art. 1, comma 1, lett. pp, del d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 302, all'art. 55, comma 1, del testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità approvato con d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (eliminazione del riferimento alla mancanza di provvedimento "dichiarativo di pubblica utilità" e sostituzione del riferimento all'art. 43 del testo unico con quello all'art. 37 del medesimo Testo Unico), al privato proprietario del bene spetta il risarcimento integrale del danno subito per effetto dell'illecita attività della pubblica amministrazione.

3. Decreto di esproprio.

La Suprema Corte - Sez. 1, n. 6742, Rv. 630046, est. Benini - riafferma nei rapporti tra potere ablatorio e constitutum possessorium, l'efficacia dirimente del decreto di espropriazione in quanto idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione, di diritto o di fatto con essa incompatibile, affermando che qualora il precedente proprietario, o un soggetto diverso, continui ad esercitare sulla cosa attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, la notifica del decreto ne comporta la perdita dell'animus possidendi, con la conseguenza che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso utile ai fini dell'usucapione, è necessario un atto di interversio possessionis

4. Indennità di espropriazione: a) criteri di determinazione.

Come noto, le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007 hanno adottato due distinte statuizioni.

L'una (la n. 348) è intervenuta sulla determinazione del quantum d'indennizzo dovuto al proprietario a seguito di espropriazione cd. legittima, l'altra (la n. 349) si è pronunciata, invece, sulla liquidazione del danno per i soli casi di occupazione cd. acquisitiva.

Oltre alle sentenze citate deve darsi conto anche della sentenza 10 giugno 2011, n. 181, con la quale, come noto, la Corte Costituzionale è intervenuta ponendo nel nulla, perché incostituzionale, l'istituto del "valore agricolo medio", i tal modo coniando un tertium genus di aree oggetto di procedimenti ablatori, dopo le aree edificabili e quelle non edificabili, intervenendo sugli articoli 5 bis comma 4 del d.l. 333 del 1992, convertito nella legge n 359 del 1992, 15 e 16 della legge n. 865 del 1971 e 40, commi 2 e 3 del d.lgs. 327 del 2001 (testo unico sugli espropri).

Tutte le decisioni citate sembrano, comunque, farsi carico di ricondurre l'indennità espropriativa al pieno valore venale del cespite soggetto al potere ablatorio della pubblica amministrazione rileggendo, alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, la compressione della proprietà privata in funzione dell'interesse generale, e, nel contempo, recuperando l'indennità allo scenario del libero mercato e della libera contrattazione il ristoro conseguente all'atto ablatorio, sia pure nel rispetto di quel "margine di apprezzamento", all'interno del quale è possibile, in accordo con l'interpretazione della Corte di Strasburgo, che ciascuno Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dai principi della Carta EDU.

In definitiva, la normativa italiana sull'indennità di esproprio è stata ritenuta non compatibile con i principi della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo con il conseguente obbligo per l'ordinamento italiano di conformarsi ad essi attraverso la loro interpretazione di competenza esclusiva della Corte di Strasburgo, così riconoscendo alle norme della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo il valore di norme interposte tra la legge statale (in relazione al nuovo testo dell'art. 117 Cost.) e la Costituzione.

È proprio su questa scia che con la decisione n. 181 del 2011 è emerso, con l'intervento della Corte costituzionale, il riconoscimento a fini indennitari di quei suoli che fruiscano o meno della qualità edificatoria consentendo a quelli non edificabili l'utilizzazione di un parametro oggettivo in funzione di uno sfruttamento economico alternativo, sganciato dal valore agricolo medio.

Ne consegue che la stima dell'indennità deve essere effettuata utilizzandosi il criterio generale del valore venale pieno, tratto dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, applicandosi la menzionata pronuncia di illegittimità ai rapporti non ancora definitivamente esauriti - già Sez. U, n. 17868 del 2013, Rv. 627217, est. Botta -, l'interessato può anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà con conseguente valutazione di mercato che rispecchi possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e l'edificatoria: ad esempio, parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti.

Inoltre - Sez. 1, n. 9269, Rv. 631134, est. Giancola - al proprietario coltivatore diretto del fondo espropriato spetta un'indennità aggiuntiva, ex art. 17 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, autonoma rispetto all'indennità di espropriazione, caratterizzata da una funzione compensativa del sacrificio sopportato a causa della definitiva perdita del terreno su cui egli ha esercitato l'attività agricola. Tale indennità aggiuntiva deve essere commisurata al valore agricolo medio tabellare (VAM) ai sensi dell'art. 17, secondo, terzo e quarto comma, della legge n. 865 del 1971, applicabile ratione temporis, trattandosi di disposizioni che - ad eccezione beneficio della triplicazione previsto dal primo comma, da ritenersi abrogato per incompatibilità con il nuovo assetto normativo derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011 - non sono state coinvolte dalla menzionata pronuncia della Consulta, essendo dotate di funzione riparatrice autonoma rispetto all'indennità di esproprio e poste a tutela di diritti costituzionali, quale quello al lavoro, diversi da quello di proprietà.

Sotto il profilo del quantum si segnala Sez. 1, n. 18435, Rv. 627486, est. Lamorgese, che ha riaffermato la libertà del giudice di determinazione dell'indennità in funzione delle sue caratteristiche fisiche e legali senza vincolo rispetto alle determinazioni delle parti affermandosi che nei giudizi per la determinazione dell'indennità di esproprio, il giudice ha il potere-dovere di individuare il criterio legale applicabile alla procedura ablatoria sulla base delle caratteristiche del fondo espropriato, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, né alla quantificazione della somma contenuta nell'atto di citazione, dovendo questa essere liquidata in riferimento a detti criteri, con conseguente accoglimento o rigetto della domanda a seconda che venga accertata come dovuta un'indennità maggiore o minore di quella censurata.

Di seguito alla pronuncia citata si evidenzia Sez. 1, n. 4187, Rv. 629977, est. Benini, secondo la quale nel caso di occupazione acquisitiva, al fine di garantire il valore venale del fondo agricolo possa essere utilizzato il metodo sintetico-comparativo che si risolve nell'attribuire al bene da stimare il prezzo di mercato di immobili omogenei, con riferimento tanto agli elementi materiali, quali la natura, la posizione, la consistenza morfologica e simili, quanto alla condizione giuridica.

Ne consegue che, nell'individuazione degli immobili con caratteristiche affini, l'esigenza di omogeneità richiede il motivato riscontro della rappresentatività dei dati utilizzati, senza che assuma rilievo la fonte da cui i valori sono tratti, potendosi trattare anche di cessioni volontarie di terreni limitrofi di proprietà dello stesso espropriato, purché il giudice di merito, al fine di determinare l'importo dovuto a titolo di indennità di esproprio, desuma dagli atti riguardanti la procedura approdata alla cessione volontaria gli elementi di valutazione del fondo, salve le correzioni aggiuntive imposte dalla logica espropriativa.

In continuità con detta pronuncia, si è pertanto affermato - Sez.1, 6743, Rv. 630048, est. Benini - che l'evoluzione del sistema indennitario, a seguito degli interventi della Corte costituzionale, con le sentenze n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007 e n. 181 dell'11 giugno 2011, nonché delle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte Edu, agganciando indissolubilmente l'indennizzo espropriativo al valore venale del bene, comporta che, ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio, per suoli che, quale ne sia la destinazione, dispongano di un soprassuolo arboreo idoneo a conferire particolari condizioni di sicurezza, utilità e amenità, deve tenersi conto dell'aumento di valore di cui il suolo viene a beneficiare, assumendo rilievo ciò che contribuisce a connotarne l'identità fisica e urbanistica.

A tale proposito occorre evidenziare che la disciplina impressa ai beni dagli strumenti urbanistici costituisce un indubbio limite alla quantificazione dell'indennità espropriativa dei suoli secondo il principio del libero mercato.

In ogni caso si tratta di un limite generale ben giustificato dagli interessi collettivi alla più razionale gestione del territorio ed alla migliore fruizione dei servizi.

A tale proposito la Suprema Corte - Sez. 1, n. 22990, in corso di massimazione, est. Benini - ha affermato che nella determinazione dell'indennità non può tenersi conto del vincolo preordinato ad esproprio (art. 5 bis, comma 3, e ora altra d.P.R. n. 327 del 2001, art. 32, comma 1), e del suo effetto (potenzialmente penalizzante) in attuazione della quale avverrà l'espropriazione.

Va detto che si registra il consolidamento dei principi già affermati nell'anno 2013 circa i criteri di quantificazione della indennità di espropriazione, finalizzati a controbilanciare l'ablazione del bene con un serio ristoro in favore dell'espropriato, secondo il principio fondato sul valore venale dei cespiti, tenuto conto della loro natura, delle possibilità di sfruttamento edilizio o, in mancanza, secondo le specifiche caratteristiche del bene che possa armonizzare la quantificazione eccessivamente astratta e non in linea con il parametro del valore di mercato imposto dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo ed, in particolare dall'art. 1 della Convenzione EDU, nonché con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost..

Agli stessi principi ed in armonia con gli spunti della giurisprudenza Cedu va, inoltre, segnalata la continuità di quella giurisprudenza che nell'ancorare la conformazione urbanistica del bene espropriato al provvedimento ablatorio riafferma l'orientamento della Suprema Corte secondo il quale ai fini della determinazione dell'indennità espropriativa, di cui all'art. 5 bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. con modif. nella legge 8 agosto 1992 (ora recepito negli artt. 32 e 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) l'individuazione della destinazione urbanistica del terreno espropriato va rapportata all'edificabilità legale, per cui un'area va ritenuta valutabile come edificatoria quando (e per il solo fatto che) essa risulti classificata come tale dagli strumenti urbanistici al momento della vicenda ablativa, senza possibilità legale di edificazione tutte le volte in cui la zona sia stata concretamente vincolata da un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità ecc.) dallo strumento urbanistico vigente. Né rileva, in tali ultime ipotesi, che la destinazione zonale consenta la costruzione di edifici e attrezzature pubblici, atteso che l'attività di trasformazione del suolo per la realizzazione dell'opera pubblica rimessa inderogabilmente all'iniziativa pubblica non è assimilabile al concetto di edificazione preso in considerazione dal menzionato art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 agli effetti indennitari, da intendersi come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà (così Sez. 1, n. 11503, Rv. 631431, est. Salvago).

In definitiva può dirsi che nelle caratteristiche urbanistiche definite dal relativo strumento prevale la destinazione pubblicistica che esclude le qualità edificatorie dell'area, ancorché in concreto, l'Ente territoriale abbia adibito il cespite ad una destinazione pubblica diversa da "zona per attrezzature e servizi" (Sez. 1, n. 17271, Rv. 632542, est. Benini).

In questo senso si segnala anche Sez. U, n. 3660, in corso di massimazione, est. Ceccherini, secondo la quale il vincolo conformativo impresso ad un'area destinata ad edilizia scolastica incide sul valore venale del bene secondo le scelte programmate in rapporto alla domanda d'istruzione con la conseguenza che detto vincolo sottrae l'area all'edificazione privati e comporta poi che l'area medesima non possa essere qualificata come area edificabile ai fini della determinazione del suo valore venale.

Il rilievo fondamentale che connota la qualità ed il valore del suolo è, pertanto, criterio primario di valutazione secondo la destinazione dello strumento urbanistico vigente.

Ne consegue che, ai fini della determinazione dell'indennità espropriativa, la destinazione a zona edificabile nello strumento urbanistico generale è condizione necessaria e sufficiente per l'adozione del criterio previsto per le aree edificabili.

In tal senso la Suprema Corte - Sez. 1, n. 6036, Rv. 630536, est. Di Amato - ha affermato che l'indennità di esproprio deve essere, sì commisurata al valore venale del cespite anche nelle sue possibilità espansive, tuttavia tenendo sempre ferma l'originaria destinazione considerato che, nel caso di costruzione nella sua massima capacità espansiva sia in verticale che in orizzontale, nel sedime residuato dalla fabbrica occorre comunque garantire la funzionalità originaria del cespite, ovvero al più, considerare l'ulteriore sfruttamento del bene assorbito in un ulteriore piano.

La Suprema Corte ha chiarito poi che nella liquidazione dell'indennità espropriativa il metodo sintetico-comparativo da tenere presente nella determinazione del prezzo di mercato deve riferirsi al necessario confronto con immobili che presentino caratteristiche omogenee secondo una valutazione che, in generale, può riferirsi anche all'ipotesi di cessione volontaria del bene - Sez. 1, n. 4187, Rv. 629977, est. Benini - sicché tale metodologia si risolve nell'attribuire al bene da stimare il prezzo di mercato di immobili omogenei, con riferimento tanto agli elementi materiali, quali la natura, la posizione, la consistenza morfologica e simili, quanto alla condizione giuridica.

Ne consegue che, nell'individuazione degli immobili con caratteristiche affini, l'esigenza di omogeneità richiede il motivato riscontro della rappresentatività dei dati utilizzati, senza che assuma rilievo la fonte da cui i valori sono tratti, potendosi trattare anche di cessioni volontarie di terreni limitrofi di proprietà dello stesso espropriato, purché il giudice di merito, al fine di determinare l'importo dovuto a titolo di indennità di esproprio, desuma dagli atti riguardanti la procedura approdata alla cessione volontaria gli elementi di valutazione del fondo, salve le correzioni aggiuntive imposte dalla logica espropriativa.

La conformazione urbanistica, tuttavia, non può prescindere dalle potenzialità edificatorie dell'area e, pertanto, - Sez.1, n. 6036, Rv. 630536, est. Di Amato - nel caso in cui l'espropriazione abbia ad oggetto una costruzione, l'indennità di esproprio va determinata in modo unitario sulla base del valore venale dell'edificio, che non può prescindere dalle potenzialità edificatorie dell'area non assorbite dalla costruzione, ove la struttura del fabbricato consenta una costruzione in sopraelevazione oppure ove la demolizione del fabbricato (del cui costo si deve ovviamente tenere conto) e la realizzazione di un nuovo edificio siano rese economicamente convenienti da dette potenzialità. Tuttavia, in caso di destinazione della copertura dell'edificio a parcheggio, la considerazione, ai predetti fini, delle potenzialità edificatorie rimaste inespresse non consente di tener conto, contemporaneamente, anche del quid pluris derivante, sotto il profilo dell'unitario valore, da tale destinazione, posto che il teorico sfruttamento della residua potenzialità edificatoria l'assorbimento nel valore di un piano del nuovo edificio.

La pregnanza del criterio di conformazione legale del cespite ablato nella determinazione dell'indennità ha condotto la suprema Corte - Sez. 1, n. 10280, Rv. 631249, estensore Cristiano - ad affermare che, ai fini della determinazione dell'indennità d'espropriazione, l'approvazione del piano di edilizia economia e popolare conferisce il requisito dell'edificabilità a tutte le aree in esso inserite, essendo irrilevante la destinazione di talune di esse alla costruzione di strade o a parchi e/o giardini, trattandosi di previsioni specifiche che non assumono carattere conformativo del territorio, ma che integrano vincoli preordinati all'esproprio poiché non possono comportare - in quanto limitati all'interno di una zona urbanistica omogenea (a diversa destinazione generale) ed incidenti su beni determinati (sui quali si localizza la realizzazione dell'opera pubblica) - un mutamento della classificazione legale dei terreni che ne sono oggetto.

In linea con il parametro costituzionalmente determinato del valore venale del bene anche nella valutazione dell'indennità espropriativa di un terreno destinato a cava, è stato affermato - Sez. U, n. 5088, Rv. 629554, estensore Di Amato - che in tema di determinazione dell'indennità di esproprio di un terreno destinato a cava occorre fare riferimento all'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 e, pertanto, al valore venale del bene che, nella specie, va ragguagliato al parametro del materiale complessivamente estraibile dalla cava sino al suo esaurimento.

Trattasi di criterio omnicomprensivo, che non è compatibile con la liquidazione, in favore dell'espropriato, di un' ulteriore indennità per l'occupazione della cava, con la funzione di indennizzarlo della privazione del godimento del bene oggetto del procedimento di esproprio e della mancata percezione dei frutti nel corso dell'occupazione medesima, in quanto - avuto conto delle modalità di liquidazione dell'indennità di espropriazione, che fa riferimento al valore dei materiali estraibili durante il periodo di godimento della cava e non prevede il riconoscimento di un reddito in periodi e per causa ulteriori rispetto a quelli già considerati - si tradurrebbe in un'ingiustificata duplicazione della medesima indennità di espropriazione.

In questo percorso argomentativo s'inserisce- Sez. 1, n. 6296, Rv. 630506, est. Di Virgilio - nel riaffermare la centralità di un ristoro integrale a favore del privato che subisca l'occupazione di suoli non edificabili per i quali già in passato non era utilizzabile il criterio introdotto dal comma 7 bis dell'art. 5 bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, precisa che l'unico criterio utilizzabile, così come per i suoli edificabili, è quello della piena reintegrazione patrimoniale commisurata al prezzo di mercato, sulla base delle caratteristiche intrinseche ed estrinseche del suolo, senza che il proprietario abbia l'onere di dimostrare che il fondo è suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo rispecchiante possibilità di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificatoria, perché altrimenti si introdurrebbe un inammissibile fattore di correzione del criterio del valore di mercato, con l'effetto indiretto di ripristinare l'applicazione di astratti e imprecisati valori agricoli. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, dopo avere statuito sulla natura non edificabile del terreno espropriato, rientrante in una zona destinata a verde e servizi, specificamente finalizzata alla realizzazione di parcheggi da parte della P.A., ne aveva determinato un valore di mercato eccessivo, in adesione alle erronee indicazioni del c.t.u., basate sulla possibile utilizzazione dell'area per la realizzazione di parcheggi anche da parte di privati e sul più ampio concetto di "comparto urbanistico" anziché su quello, corretto, di "area").

Anche per il vincolo archeologico permane il criterio dello sfruttamento del suolo ancorché non edificabile, ma di particolare pregio. In tal senso si è pronunciata la Corte con Sez. 1, n. 10785, Rv. 631438, est. Di Amato, secondo la quale sussiste un indissolubile collegamento tra l'indennità di espropriazione ed il momento del trasferimento della proprietà del bene. Ne consegue che l'ammontare dell'indennità va determinato alla data del provvedimento ablatorio, con riferimento al regime urbanistico vigente, tenendo conto di tutti i vincoli a carattere conformativo, e tra questi del vincolo archeologico, che è idoneo a far classificare il terreno come legalmente non edificabile e comporta una compressione dello ius aedificandi, a salvaguardia di interessi pubblici di natura culturale, da ritenersi legittima alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale. Tale vincolo, peraltro, non è di ostacolo alla commercialità del bene o a considerarne una redditività diversa da quella del suo sfruttamento meramente agricolo, sicché, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, occorre tenere conto delle ulteriori possibili utilizzazioni del fondo, diverse da quelle edificatorie, avendo presente l'incremento di valore determinato dai suoi particolari pregi, anche riconnessi alla natura del vincolo apposto.

Per ciò che, invece, concerne la determinazione della indennità di espropriazione in rapporto alla conformazione geologica ed urbanistica del cespite la Suprema Corte ha affermato che - Sez. 1, n. 13521, Rv. 631423, est. Benini - ai fini indennitari, l'accertata esistenza di un vincolo connesso alla stabilità idrogeologica del terreno espropriato è idonea a far classificare il medesimo come non edificabile, rientrando tra le limitazioni legali della proprietà fissate in via generale, con la conseguente incidenza negativa sul valore di mercato dei beni coinvolti, divenuti legalmente inedificabili, e quindi sul calcolo dell'indennità di espropriazione.

Per quanto attiene, invece, al deprezzamento dei beni residui rispetto al bene espropriato si afferma l'unicità del criterio di liquidazione - Sez. 1, n. 11504, Rv. 631421, est. Lamorgese - considerato che il deprezzamento che abbiano subito le parti residue del bene espropriato rientra nell'unica indennità di espropriazione, che, per definizione, riguarda l'intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo, ivi compresa la perdita di valore della porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo, sia essa agricola o edificabile, non essendo concepibili, in presenza di un'unica vicenda espropriativa, due distinte somme, imputate l'una a titolo di indennità di espropriazione e l'altra a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni. Ne consegue che la domanda del proprietario che lamenti il deprezzamento delle porzioni residue del fondo espropriato va interpretata dalla corte di appello, competente in unico grado ai sensi dell'art. 19 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, come diretta al pagamento di un'unica indennità, da determinare tenendo conto della diminuzione di valore della parte non espropriata, a norma dell'art. 40 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, ancorché il proprietario chieda, per la parte espropriata e per quella residua, il pagamento di somme distinte a titolo indennitario.

In merito alla valutazione indennitaria delle cosidette "aree bianche" la Suprema Corte ha riaffermato, invece, il criterio valutativo della edificabilità di fatto - Sez. 1, n. 9488, Rv. 631154, est. Benini - specificando che in relazione a quelle porzioni del territorio comunale che siano sprovviste di destinazione urbanistica per l'avvenuta decadenza del vincolo di inedificabilità in virtù della decorrenza del termine previsto dall'art. 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (cosiddette "aree bianche", tra cui rientrano anche quelle aree che non abbiano ancora ricevuto una destinazione dallo strumento urbanistico) non rivive la condizione urbanistica preesistente (eventualmente agricola), ma si applica la disciplina transitoria prevista dalla norma di salvaguardia di cui all'art. 4, ultimo comma, della legge 28 gennaio 1977, n. 10, cosicché agli effetti dell'accertamento del valore del fondo va applicato il criterio della edificabilità di fatto. Trattasi di un criterio che enuclea il trattamento indennitario attraverso l'accertamento del valore delle aree circostanti ed omogenee, costituenti nel loro insieme un microsistema urbanistico, sempreché risulti accertata la compatibilità con le generali scelte urbanistiche, avuto riguardo anche ai vincoli legislativi ed urbanistici idonei ad incidere sull'edificabilità effettiva della zona, con la conseguente eventuale esclusione radicale di ogni attitudine all'edificabilità dell'area.

La pronuncia si pone il linea con Sez. 1, Sentenza n. 7251, Rv. 630324, est. Benini, sulla necessità d'integrazione del criterio della edificabilità di fatto a fronte di quello prevalente della edificabilità legale tutte le volte che sia necessario un riscontro concreto con le possibilità di sfruttamento edificatorio del fondo al momento della vicenda ablativa con la conseguenza che va esclusa l'edificabilità di un suolo quando le dimensioni dell'area sono insufficienti per edificare, per l'esaurimento degli indici di fabbricabilità della zona a causa delle costruzioni realizzate, per la distanza dalle opere pubbliche, per l'esistenza di prescrizioni e di vincoli legislativi ed urbanistici che incidono in misura determinante sulla edificabilità effettiva, quale attitudine del suolo ad essere sfruttato e concretamente destinato a fini edificatori. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per non aveva adottato il corretto criterio di indennizzo, previo accertamento della concreta edificabilità dei terreni espropriati).

Nello stesso senso - Sez. 1, n. 13521, Rv. 631422, est. Benini - va escluso il rilievo autonomo del criterio di edificabilità di fatto (ipotesi relativa a terreni in Provincia di Bolzano - Art. 7, comma 2, della legge prov. Bolzano n. 10 del 1991) anche allorché la normativa speciale della Provincia autonoma lo consideri prevalente considerati i criteri statali d'interpretazione della norma provinciale e pertanto, ai fini indennitari, relativamente al territorio della provincia autonoma di Bolzano, la previsione di cui all'art. 7, comma 2, della legge prov. Bolzano 15 aprile 1991, n. 10, che dà rilevanza all'edificabilità di fatto, va interpretata secondo i principi della legislazione statale desumibili dagli artt. 5 bis e 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sicché non può darsi rilievo autonomo all'edificabilità suddetta, in mancanza di destinazione urbanistica alla trasformazione edilizia del suolo, trattandosi di criterio di carattere suppletivo e complementare, utilizzabile in assenza di pianificazione urbanistica o come apprezzamento delle specifiche caratteristiche dell'area legalmente edificabile.

Allo stesso modo la Suprema Corte - Sez. 1, n. 22992, Rv. 632687, est. Benini - ha escluso il criterio dell'inedificabilità di fatto nel caso di scadenza del vincolo d'inedificabilità per decorrenza del termine quinquennale considerato che, ai fini della determinazione dell'indennità, il regime urbanistico, nel senso dell'edificabilità o inedificabilità, di un'area al momento del decreto di esproprio, è definibile, nell'ipotesi in cui l'originario vincolo di inedificabilità sia scaduto per decorso del termine quinquennale, tenendo conto della reiterazione del vincolo, che può dare diritto ad una speciale indennità, tuttavia distinta da quella di esproprio, restando inapplicabile il criterio dell'edificabilità di fatto, riservato all'ipotesi in cui al momento del concludersi della vicenda ablatoria persista, riguardo alla stessa area, una carenza di pianificazione.

Infine, si è affermato che l'intervenuta scadenza del vincolo di fa sorgere per il privato il solo interesse legittimo ad una nuova pianificazione urbanistica e che pertanto l'inerzia della pubblica amministrazione che sollecitata non abbia né realizzato la destinazione di zona, né rinnovato il vincolo, non è ex se fonte di risarcimento del danno ove manchi la dimostrazione da parte del privato di una prognosi a sé favorevole in ordine all'ottenimento del bene della vita che l'impugnazione del silenzio è finalizzata a raggiungere (Sez. 3, n. 26546, in corso di massimazione, est. Cirillo).

5. (Segue) b) profili processuali.

Sempre in tema di determinazione dell'indennità di espropriazione vanno segnalate alcune pronunce della Suprema Corte in materia processuale.

Va, innanzitutto, registrato in tema di legittimazione attiva alla proposizione dell'azione di opposizione alla stima il profilo della legittimazione dello stesso ente espropriante. La fattispecie viene esaminata in punto di determinazione urgente dell'indennità secondo la previsione di cui all'art. 22, comma 4, del t.u. in materia di espropriazione.

Rimane confermata, innanzitutto, quella giurisprudenza secondo la quale nella determinazione del quantum del risarcimento del danno derivante da occupazione acquisitiva dei suoli non edificabili, per i quali già in passato non era utilizzabile il criterio introdotto dal comma 7-bis dell'art. 5 bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992 (comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), l'unico criterio utilizzabile, è quello della piena reintegrazione patrimoniale da parametrarsi alle caratteristiche intrinseche ed estrinseche del suolo - Sez. 1, n. 6296, Rv. 630506, est. Di Virgilio -, senza che il proprietario abbia l'onere di dimostrare che il fondo è suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo rispecchiante possibilità di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificatoria, perché altrimenti si introdurrebbe un inammissibile fattore di correzione del criterio del valore di mercato, con l'effetto indiretto di ripristinare l'applicazione di astratti e imprecisati valori agricoli. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, dopo avere statuito sulla natura non edificabile del terreno espropriato, rientrante in una zona destinata a verde e servizi, specificamente finalizzata alla realizzazione di parcheggi da parte della P.A., ne aveva determinato un valore di mercato eccessivo, in adesione alle erronee indicazioni del c.t.u., basate sulla possibile utilizzazione dell'area per la realizzazione di parcheggi anche da parte di privati e sul più ampio concetto di "comparto urbanistico" anziché su quello, corretto, di "area").

In tema di opposizione alla stima, invece, la Suprema Corte - Sez. 1, n. 16748, Rv. 631975, est. Di Amato - ha affermato che l'opposizione rappresenta soltanto una variante del procedimento ablatorio, ferma restando l'unitarietà della disciplina relativa all'opposizione alla stima che apparentemente sembra riferirsi soltanto della legittimazione dell'espropriato, in realtà, stante la disciplina unitaria del t.u. essa va armonizzata con i principi della legittimazione più puntualmente disciplinata nell'art. 54, ove vengono anche individuati i soggetti titolari del potere d'impugnazione innanzi all'autorità giudiziaria di opposizione alla stima. Ne consegue che caso di determinazione urgente dell'indennità di espropriazione, di cui all'art. 22 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, la legittimazione all'opposizione alla stima compete, ai sensi dell'art. 54, comma 1, del medesimo d.P.R. non solo al proprietario espropriato, ma anche al promotore dell'espropriazione o al terzo che ne abbia interesse.

Nel caso invece di pluralità di enti esproprianti la Suprema Corte - Sez. 1, n. 10287, Rv. 631623, rel. Benini - ha affermato che nell'ipotesi di collaborazione di più enti alla realizzazione di un'opera che richieda acquisizione di aree mediante espropriazione la questione dell'individuazione dell'ente tenuto alla corresponsione dell'indennità espropriativa - e, come tale, abilitato a proporre l'azione di opposizione alla stima o a resistervi - attiene alla titolarità del rapporto sottostante e non alla legittimatio ad causam, onde la sua deduzione, configurandosi come oggetto di una mera difesa e non di una eccezione in senso proprio, può essere proposta anche con la comparsa conclusionale, restandone utilmente sollecitato il potere-dovere del giudice di provvedere al riguardo.

Per ciò che concerne l'imposta di registro, secondo la Corte - Sez. 5, n. 9137, Rv. 630772, est. Napolitano - alla sentenza che, rideterminandone l'entità, ordini il deposito, presso la Cassa Depositi e Prestiti, delle dovute indennità di esproprio e di occupazione legittima, si applica l'imposta percentuale di cui all'art. 8, lett. b, della Tariffa - Parte prima allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, trattandosi, in parte qua, di statuizione di condanna, priva della funzione, propria del provvedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità, di trasferire la proprietà del bene allo Stato, e che si limita, nel definire una controversia di natura patrimoniale derivante dalla opposizione alla stima, a determinare in via definitiva l'ammontare dell'indennità spettante all'espropriato per effetto del provvedimento ablatorio.

Ancora, in tema di legittimazione passiva, rimane, inoltre, confermata nella sua continuità la casistica giurisprudenziale, in merito alla quale è stato ribadito il principio - Sez. 1, n. 1242, Rv. 625350, est. Salvago - secondo cui obbligato al pagamento dell'indennità verso il proprietario espropriato, e come tale legittimato passivo nel giudizio di opposizione alla stima che sia stato da quest'ultimo proposto, è il soggetto espropriante, vale a dire quello a cui favore è pronunciato il decreto di espropriazione, anche nell'ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell'opera pubblica, nella quale deve ugualmente aversi riguardo, a detti fini, esclusivamente al soggetto che nel provvedimento ablatorio risulta beneficiario dell'espropriazione, salvo che dal decreto stesso non emerga che ad altro ente, in virtù di legge o di atti amministrativi e mediante figure sostitutive di rilevanza esterna, sia stato conferito il potere ed il compito di procedere all'acquisizione delle aree occorrenti e di promuovere e curare direttamente, agendo in nome proprio, le necessarie procedure espropriative ed addossati i relativi oneri.

Stesso dicasi per l'ente pubblico territoriale beneficiario degli interventi di risanamento, proprietario del patrimonio edilizio e destinato ad acquisire la proprietà dei siti da espropriare che è il solo soggetto legittimato passivo nel giudizio di opposizione alla stima, senza che assuma rilievo, a tal fine, che i suddetti interventi siano qualificati d'interesse nazionale, né che il Sindaco possa procedere all'attività espropriativa quale ufficiale del Governo, poiché, in assenza di espressa indicazione normativa, l'esercizio di tale potere non comporta l'automatico insorgere dell'obbligo dello Stato di pagare le relative indennità ai soggetti espropriati (Sez. 1, n. 21113, Rv. 632815, est. Mercolino).

In tema di termine di decadenza per l'opposizione alla stima previsto dall'art. 51 della legge n. 2359 del 1865 è stato affermato che la notifica al proprietario catastale non fa decorrere il termine ai fini della decadenza di cui all'art. 51 della legge 25 giugno 1865 - Sez. 1, n. 10289, Rv. 631265, est. Benini - considerato che la notifica del decreto di esproprio a chi, non essendo proprietario effettivo del bene, risulti tale dai registri catastali, non incide sulla validità ed efficacia del provvedimento ablativo, ma impedisce il decorso del termine di decadenza per l'opposizione alla stima nei confronti del proprietario effettivo ed abilita quest'ultimo a chiedere il risarcimento del danno derivato dalla ritardata riscossione dell'indennità, ove l'omissione o il ritardo della notificazione sia ascrivibile ad un difetto di diligenza dell'espropriante.

Tale diritto permane in capo al proprietario anche nell'ipotesi in cui questi, successivamente al decreto di esproprio - e, dunque, alla consumazione dell'illecito a suo danno - abbia alienato il bene, salvo che il trasferimento all'acquirente sia comprensivo del credito risarcitorio.

Sullo stesso punto la Suprema Corte è di poi intervenuta - Sez. 1, n. 11901, Rv. 631327, est. Cristiano - affermando che la notifica del decreto di esproprio a chi, non essendo proprietario effettivo del bene, risulti tale dai registri catastali, non solo impedisce il decorso del termine di decadenza per l'opposizione alla stima nei confronti del proprietario effettivo, ma abilita quest'ultimo, ove l'omissione o il ritardo della notificazione nei suoi confronti sia ascrivibile ad un difetto di diligenza dell'espropriante nell'accertamento del titolare del bene sottoposto ad espropriazione, a chiedere il risarcimento del danno derivato dalla ritardata riscossione dell'indennità. Tale danno, generalmente riconoscibile in via presuntiva in favore di qualsiasi creditore che ne domandi il risarcimento, senza necessità di inquadrarlo in una apposita categoria, è quantificabile nell'eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali. In tema di prescrizione si segnala, invece, Sez. 1, n. 8662, Rv. 631072, est. Campanile, secondo la quale, il momento dal quale far decorrere il termine decennale di prescrizione del diritto a conseguire l'integrazione o il conguaglio dell'indennità di espropriazione, allorché la vicenda ablativa si sia perfezionata nel vigore della legge 29 luglio 1980, n. 385 (riguardante il sistema dell'indennizzo "salvo conguaglio"), coincide con quello in cui tale diritto viene ad esistenza e, quindi, con la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale 19 luglio 1983, n. 223, che ha caducato la menzionata disciplina della legge n. 385 del 1980, senza che rilevi l'ignoranza incolpevole del proprio diritto da parte del titolare, attesa l'insussistenza tanto di un "caos normativo" quanto della conseguente oggettiva non riconoscibilità delle disposizioni di legge in vigore, tenuto conto del fatto che, a seguito della declaratoria di incostituzionalità, non si era verificato un vuoto normativo, ma aveva ripreso vigore il criterio generale del valore venale di cui all'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359.

Per quanto invece riguarda la decorrenza del termine di opposizione nelle procedure espropriative finalizzate ai programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica di cui all'art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 - si è affermato che il sistema introdotto dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865, fa decorrere, per qualunque interessato (quindi anche per l'ente espropriante), il termine di trenta giorni per proporre l'opposizione ivi disciplinata all'art. 19 dall'inserzione, nel Foglio degli annunci legali (FAL) della Provincia, dell'avviso di deposito della relazione redatta dalla Commissione provinciale espropri, ed a seguito della soppressione del FAL, dal momento dell'affissione del predetto avviso sull'Albo pretorio comunale.

Sullo stesso punto la Suprema Corte ha inteso specificare che detta opposizione è rivolta alla sola indennità determinata dagli organi tecnici competenti - Sez. 1, n. 7993, Rv. 630942, est. Lamorgese - sicché l'art. 20, quarto comma, della legge 22 ottobre 1971, n. 865, nel disporre che contro la determinazione dell'indennità gli interessati possono proporre opposizione davanti alla corte d'appello competente per territorio, con atto di citazione notificato all'occupante entro trenta giorni dalla comunicazione dell'indennità a cura del sindaco nelle forme prescritte per la notificazione degli atti processuali civili, fa implicito ma chiaro riferimento alla sola indennità che sia stata determinata, a norma del terzo comma dello stesso articolo, dall'UTE (oggi dalla Commissione provinciale, che vi provvede su richiesta del prefetto).

Da un punto di vista processuale occorre poi distinguere in rapporto all'intervento o meno degli organismi tecnici nella determinazione dell'indennità - Sez. 1, n. 11503, Rv. 631430, est. Salvago - in rapporto agli artt. 16 e 19 della legge n. 865 del 1971; infatti in punto di oneri processuali dell'espropriante la Suprema Corte ha affermato che occorre distinguere la domanda dell'espropriato di determinazione dell'indennità (a seguito dell'adozione del decreto di esproprio) ed in mancanza della stima definitiva pronunciata dalla Commissione di cui all'art. 16 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, dalla opposizione a detta indennità nel termine indicato dall'art. 19 della legge citata. Nel primo caso, ove l'espropriante chieda che l'indennità venga determinata con criteri meno favorevoli ed in misura inferiore a quella pretesa dalla controparte, la relativa istanza ha natura di mera sollecitazione e non richiede le forme della domanda riconvenzionale, né è soggetta al regime di preclusioni per essa previsto; nel secondo caso, invece, l'intervento del decreto di esproprio e la stima dell'indennità ad opera della Commissione provinciale, comporta l'attribuzione alle parti del solo diritto di impugnare, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 865 del 1971, il relativo provvedimento. Ne consegue che se l'opposizione viene proposta dall'espropriato, essendo l'oggetto del giudizio la congruità di detta stima e la sua conformità ai criteri di legge, la domanda può condurre a determinare soltanto una indennità maggiore rispetto a quella calcolata in sede amministrativa, ma non una somma inferiore, in difetto di una specifica domanda riconvenzionale formulata dall'espropriante.

Si segnala ancora in tema di cessione bonaria - Sez. 1, n. 10952, Rv. 631311, est. Di Amato - secondo la quale la cessione volontaria del bene, pattuita tra espropriante ed espropriato in epoca successiva alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dei criteri indennitari di cui alla legge 29 luglio 1980, n. 385, e nella quale non risultino indicati i legittimi criteri di determinazione del prezzo, costituisce espressione di autonomia negoziale, a norma dell'art. 1322 cod. civ. e, pertanto, non consente al privato né la richiesta di un non configurabile conguaglio, né la richiesta di una rideterminazione del prezzo alla stregua del valore venale del bene in applicazione del criterio di cui all'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e previa declaratoria di nullità del prezzo pattuito.

6. Le espropriazioni "indirette".

Come noto, può dunque parlarsi di espropriazione indiretta allorché si verifichi il caso di apprensione materiale del bene da parte dell'Amministrazione al di fuori di una legittima procedura espropriativa o di un procedimento sanante (art. 42-bis d.P.R. 327/2001) che rischiano (si pensi all'usucapione) di reintrodurre nell'ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata senza costi per l'Amministrazione, dal momento che la cd. retroattività reale dell'usucapione paralizza ogni pretesa risarcitoria, trattandosi di acquisto a titolo originario.

Prima ancora, però, va dato conto il carattere progressivamente evanescente del riparto concettuale finora osservato tra occupazione appropriativa ed usurpativa.

Sono noti i molteplici segnalati contrasti con le posizioni espresse dalla Corte europea dei diritti dell'uomo sulla questione della tutela del diritto al rispetto dei beni privati ex art. 1 Protocollo n. 1 CEDU che hanno indotto la Corte di Strasburgo a ritenere il quadro normativo e giurisprudenziale italiano non aderente alla Convenzione sulla considerazione che un comportamento illecito o illegittimo (tale considerato l'atto materiale di apprensione del bene) non può fondare l'acquisto di un diritto, perché in contrasto con il principio di legalità inteso come preminenza del diritto, con la conseguenza che, esclusa l'accessione invertita, l´intervenuta realizzazione dell´opera pubblica, non elide il diritto di proprietà del privato sul bene illegittimamente occupato e costui può domandare sia il risarcimento che la restituzione del fondo (Corte Cost., 8 ottobre 2010, n. 293 che ha dichiarato incostituzionale l'articolo 43 del d.P.R n. 327 del 2001).

A seguito della citata pronuncia è stato introdotto il d.l. n. 98 del 2011, convertito nella legge n. 111 del 2011 ed inserito l'art. 42 bis nel t.u. espropriazioni (d.P.R. n. 327 del 2001) che ha reintrodotto l'istituto dell'acquisizione sanante.

A tale proposito si segnala Sez. U, n. 441, Rv. 628868, rel. Salvago, che, sul rilievo che "la nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie individuate dall'art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione del bene senza titolo "in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio" - presenta numerosi ed insuperabili profili di criticità - non risolvibili in via ermeneutica - con le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.). La quale, del resto, come già rilevato dalla Suprema Corte (Cass. N. 18239/2005; n. 20543/2008), si è già pronunciata in tali sensi, esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art. 43 T.U., interamente riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo, dall'attuale art. 42-bis", ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42 bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, introdotto dall'art. 34, comma 1, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost., anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del I prot. add. della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in quanto la disposizione citata, reintroducendo una sorta di procedimento ablativo semplificato in favore della P.A., che utilizzi senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, si pone in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza e di ragionevolezza intrinseca, anche ai fini dell'esercizio della tutela giurisdizionale, con la garanzia della proprietà privata, posta altresì da vincoli derivanti da obblighi internazionali, con il principio di legalità dell'azione amministrativa, nonché con il principio di parità delle parti davanti al giudice, riservando all'amministrazione, intesa come soggetto autore di un fatto illecito e non quale espressione della funzione amministrativa, un ingiustificato trattamento privilegiato, tale da consentirle l'acquisizione del bene al patrimonio pubblico per effetto di un suo comportamento contra ius, di cui si avvantaggia pure nella determinazione dell'indennizzo o risarcimento dovuto al proprietario rispetto al ristoro altrimenti spettante nel caso di legittimo procedimento espropriativo.

In continuità con la citata ordinanza interlocutoria la Suprema Corte ha precisato - Sez. 1, n. 6301, Rv. 630521, est. Lamorgese - che in tutte le ipotesi in cui si verificano le condizioni di applicazione dell'istituto della cosiddetta occupazione acquisitiva o accessione invertita - e cioè nei casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia mancante o carente dei termini o sia annullata o il decreto di esproprio non sia emesso o sia annullato - alla P.A. non è consentito, invocando il mancato formale trasferimento nel proprio patrimonio della proprietà del bene illegittimamente occupato sul presupposto che il menzionato istituto sia stato ritenuto contrario ai principi costituzionali e della CEDU, negare al privato che lo richieda il risarcimento del danno, pur mantenendo il predetto bene nella propria disponibilità e destinandolo in modo definitivo e irreversibile ad un fine pubblico (nella specie, ad un cimitero). Invero, in presenza di un comportamento costituente fatto illecito, l'Amministrazione non può imputare al privato danneggiato il mancato esperimento del rimedio restitutorio in forma specifica che l'ordinamento interno ed internazionale gli accorda per la tutela della proprietà, al fine di essere esonerata dall'obbligazione di risarcimento del danno per equivalente, configurandosi la relativa eccezione come de iure tertii ed è, pertanto, inammissibile, in quanto la scelta dei rimedi a tutela della proprietà pur sempre riservata al privato danneggiato.

In adesione ai principi sanciti dalla Corte Edu si rafforza, perciò, la tutela del privato anche in rapporto all'alleggerimento del suo onere probatorio quanto alla prescrizione la cui decorrenza risulta agganciata ad una consapevolezza piena delle conseguenze irreversibili della occupazione "acquisitiva"- Sez. 1, n. 8965, Rv. 631075, est. Piccininni - e, pertanto, l'onere di provare la ricorrenza del presupposto richiesto dall'art. 2947 cod. civ., coincidente con il momento in cui il trasferimento della proprietà venga o possa essere percepito dal proprietario come danno ingiusto ed irreversibile, grava sull'amministrazione e, in mancanza di tale prova, si deve ritenere, in adesione all'indirizzo giurisprudenziale della CEDU, che tale momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio nel quale il proprietario richieda il controvalore.

Il carattere illecito dell'occupazione illegittima rende pertanto inapplicabile l'istituto della proroga delle occupazioni d'urgenza, laddove prevista, allorché la trasformazione irreversibile sia già avvenuta - Sez. 1, n. 16372, Rv. 632059, est. Forte - e pertanto la Suprema Corte ha affermato che in tema di attuazione dei procedimenti espropriativi per la realizzazione degli interventi di cui al titolo ottavo della legge 14 maggio 1981, n. 219, l'art. 9 del d.lgs. 20 settembre 1999, che proroga i termini relativi alle occupazioni d'urgenza, se prescinde dalla legittimità o illegittimità dell'occupazione al tempo della sua entrata in vigore, riguarda comunque solo i procedimenti espropriativi che siano in corso alla stessa data; ne deriva che la norma può valere a restituire legittimità ad occupazioni divenute inefficaci o illegittime solo se l'obiettivo di recupero della procedura espropriativa - costituente la ratio dichiarata della norma - sia conseguibile per non essersi già perfezionato il fatto (illecito) acquisitivo per effetto del concorso

Inoltre, nel caso medesimo nel caso di domanda diretta al risarcimento del danno la tutela risarcitoria del privato risulta ulteriormente rafforzata attraverso la possibilità di una possibile sopravvenienza in corso di causa della irreversibile trasformazione del bene che costituisce condizione della'azione risarcitoria - Sez. 1, n. 17992, Rv. 632048, est. Mercolino - con la conseguenza che nel caso di giudizio di risarcimento del danno per occupazione acquisitiva, la perdita del diritto di proprietà, determinato dalla realizzazione dell'opera pubblica non seguita dalla tempestiva emissione del decreto di espropriazione, costituisce una condizione dell'azione, che può sopravvenire anche in corso di causa.

Ma, come si accennava in premessa, di particolare importanza, per il suo carattere innovativo, è l'affermazione secondo cui - Sez. 2, n. 705, Rv. 624972, est. Giusti - la realizzazione di un'opera pubblica su un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgenza, non seguita dal perfezionamento della procedura espropriativa, costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, ed è, come tale, inidonea, da sé sola, a determinare il trasferimento della proprietà in favore della P.A., in tal senso deponendo la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha affermato la contrarietà alla Convenzione dell'istituto della cosiddetta "espropriazione indiretta" e negato la possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del procedimento ablatorio. Una conclusione, questa, cui induce - secondo la citata sentenza - anche l'art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, aggiunto dall'art. 34, comma 1, del d.l. 6 giugno 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, norma che, anche con riguardo ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, disciplina le modalità attraverso le quali, a fronte di un'utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile - con l'esercizio di un potere basato su una valutazione degli interessi in conflitto - pervenire ad un'acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di indennizzo, nella misura superiore del dieci per cento rispetto al valore venale del bene.

In definitiva lo sfavore verso la cd. accessione invertita permane ancorché il bene ablato abbia subito trasformazione e tale vicenda consumata obbliga il soggetto che detiene il bene al risarcimento del fatto illecito secondo le norme generali in tema di accessione - Sez. 1, n. 10680, Rv. 631379, est. Ragonesi - laddove l'illegittima occupazione di un fondo privato in seguito all'annullamento, da parte del giudice amministrativo, del decreto di espropriazione comporta l'obbligo dell'espropriante di restituire l'immobile al proprietario, in quanto la realizzazione senza titolo di opere e manufatti di natura privata su terreno altrui (nella specie un complesso industriale, pur se conformi agli strumenti urbanistici ed autorizzati dall'autorità comunale, non integra un'ipotesi di occupazione appropriativa, ma costituisce una vicenda disciplinata dall'art. 934 cod. civ. che, ponendo il principio dell'accessione, stabilisce che la costruzione si incorpora al suolo ed appartiene immediatamente al proprietario di questo, senza attribuire rilevanza alcuna alla sua consistenza o alla sua destinazione né alla coincidenza o meno degli interessi dell'esecutore con quelli della collettività, pur rivelati da una dichiarazione di pubblica utilità. Ne consegue che la costruzione su fondo altrui di opere e manufatti appartenenti a privato in assenza di provvedimenti di esproprio o asservimento configura un fatto illecito di natura permanente, che obbliga al risarcimento del danno non già l'Amministrazione che ha dato luogo all'occupazione (tenuta all'indennizzo relativo), ma l'autore dell'illegittima detenzione del bene dopo la scadenza del periodo di detenzione, per non aver consentito al proprietario il pieno ed esclusivo godimento del fondo.

7. (Segue) in particolare, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno.

In linea con gli orientamenti tradizionali della Suprema Corte si sono rivelati, nell'anno 2014, gli arresti in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da occupazioni usurpativa ed acquisitiva. Secondo Sez. 1, n. 8965, Rv. 631075, est. Piccininni ai fini della decorrenza del termine di prescrizione quinquennale per l'esercizio dell'azione risarcitoria a seguito di occupazione acquisitiva o appropriativa non è sufficiente la mera consapevolezza di avere subito un' occupazione e/o una manipolazione senza titolo dell'immobile, ma occorre che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica e, quindi, in particolare, al verificarsi dell'effetto estintivo-acquisitivo definitivo perseguito dall'amministrazione espropriante. L'onere di provare la ricorrenza del presupposto richiesto dall'art. 2947 cod. civ., coincidente con il momento in cui il trasferimento della proprietà venga o possa essere percepito dal proprietario come danno ingiusto ed irreversibile, grava sull'amministrazione e, in mancanza di tale prova, si deve ritenere, in adesione all'indirizzo giurisprudenziale della CEDU, che tale momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio nel quale il proprietario richieda il controvalore dell'immobile (con i relativi accessori), incompatibile con il perdurare del suo diritto dominicale su di esso.

8. Espropriazione di fondi agricoli.

Secondo Sez. 1, n. 9269, Rv. 631134, est. Giancola, sulla scia di sentenza Corte Cost., n. 181 del 2011 si riconosce, al proprietario coltivatore diretto del fondo espropriato, oltre l'indennità espropriativa anche quella aggiuntiva, ex art. 17 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, autonoma rispetto all'indennità di espropriazione, caratterizzata da una funzione compensativa del sacrificio sopportato a causa della definitiva perdita del terreno su cui egli ha esercitato l'attività agricola. Tale indennità aggiuntiva deve essere commisurata al valore agricolo medio tabellare (VAM) ai sensi dell'art. 17, secondo, terzo e quarto comma, della legge n. 865 del 1971 (applicabile ratione temporis), trattandosi di disposizioni che - ad eccezione beneficio della triplicazione previsto dal primo comma, da ritenersi abrogato per incompatibilità con il nuovo assetto normativo derivante dalla sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 2011, n. 181 - non sono state coinvolte dalla menzionata pronuncia della Consulta, essendo dotate di funzione riparatrice autonoma rispetto all'indennità di esproprio e poste a tutela di diritti costituzionali, quale quello al lavoro, diversi da quello di proprietà.

La Suprema Corte ha anche precisato - Sez. 1, n. 14782, Rv. 631811, est. Giancola, che qualora il suolo oggetto della procedura, benché avente natura legalmente edificatoria, sia coltivato da affittuari ed equiparati, l'indennità aggiuntiva ad essi dovuta ex art. 17 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, applicabile ratione temporis, pari al valore agricolo medio relativo al tipo di coltura effettivamente praticato, deve essere detratta dall'indennità ablativa quantificata in base al valore pieno di mercato del bene espropriato e derivante dalle caratteristiche naturali, economiche e giuridiche del fondo, e, soprattutto, dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle.

9. Retrocessione del bene espropriato.

Sulle questioni di giurisdizione si segnala Sez. U, n. 1520, Rv. 629346, est. Forte, la quale afferma che allorché siano proposte, dopo l'espropriazione di un'area, due domande congiunte o alternative dell'espropriato, l'una di retrocessione totale, per la parte delle superfici acquisite rimasta inutilizzata (di per sé configurante uno jus ad rem azionabile dinanzi al giudice ordinario), nel regime anteriore come successivo all'entrata in vigore degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, l'altra di retrocessione parziale, per la parte su cui sia stata realizzata un'opera di pubblica utilità diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio (rispetto alla quale rileva, invece, un potere discrezionale della P.A. esercitabile a seguito della richiesta di restituzione, cui corrisponde non un diritto, ma soltanto un interesse legittimo dell'espropriato), la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia urbanistico-edilizia, di cui all'art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, applicabile ratione temporis, comporta che di entrambe le domande debba conoscere il giudice amministrativo, potendo egli decidere sia su interessi legittimi che su diritti soggettivi.

Mentre sulle questioni possessorie - Sez. 1, n. 6742, Rv. 630047, est. Benini - la Suprema Corte ha affermato che il negozio traslativo della proprietà o di altro diritto reale, nel caso in cui l'alienante rimanga nel rapporto materiale con la cosa, non integra necessariamente un costituto possessorio implicito, occorrendo indagare, caso per caso, tenuto conto del comportamento delle parti e delle clausole contrattuali che non siano di mero stile, se la continuazione da parte dell'alienante dell'esercizio del potere di fatto sulla cosa sia accompagnata dall'animus sibi habendi, ovvero configuri una mera detenzione nomine alieno. Ne consegue che, in materia di espropriazione per pubblica utilità, le richieste di retrocessione del bene immobile avanzate dal soggetto espropriato sono idonee ad integrare un riconoscimento implicito della proprietà altrui, incompatibile con l'animus rem sibi habendi.

In tema di diritto alla retrocessione, si è inoltre ribadito - Sez. 1, n. 10461, Rv. 631432, est. Benini - che nel caso di mancata esecuzione dell'opera pubblica, l'onere della prova grava sull'espropriato: il presupposto del diritto alla retrocessione del bene espropriato, di cui all'art. 63 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, è la mancata esecuzione dell'opera pubblica, che va verificata tenendo conto della definizione formale dell'opera contenuta nella dichiarazione di pubblica utilità, quale espressione della discrezionalità amministrativa, pur se essa rappresenti, secondo il comune sentire, solo una parte di una maggiore entità empiricamente concepita. A tal fine, dunque, è il proprietario espropriato a dover documentare l'atto amministrativo contenente la dichiarazione di pubblica utilità.

PARTE TERZA LE OBBLIGAZIONI E I CONTRATTI

  • accordo di compensazione
  • ricorso per inadempienza
  • responsabilità contrattuale
  • diritti di obbligazioni

CAPITOLO IX

LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE

(di Paolo Spaziani )

Sommario

1 Le fonti dell'obbligazione. - 1.1 Le fonti tipiche. - 1.2 Le fonti atipiche. - 2 L'oggetto dell'obbligazione. La prestazione. - 2.1 Buona fede oggettiva e diligenza. - 2.2 Obbligazioni di mezzi e di risultato. - 2.3 Promessa del fatto del terzo. - 2.4 Obbligazioni di facere infungibile. - 2.5 Obbligazioni pecuniarie. - 3 L'adempimento. - 3.1 Legittimazione ad adempiere e a ricevere. - 3.2 Pagamento al legittimato apparente. - 3.3 Imputazione di pagamento. - 3.4 Quietanza. - 3.5 Offerta di adempimento e mora credendi. - 4 Modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento. - 4.1 Novazione. - 4.2 Compensazione. - 5 Vicende modificative dell'obbligazione dal lato attivo. - 5.1 Cessione del credito. - 5.2 Surrogazione di pagamento. - 6 Vicende modificative dell'obbligazione dal lato passivo. - 6.1 Delegazione. - 6.2 Accollo. - 7 Le obbligazioni plurisoggettive. - 7.1 Obbligazioni solidali. - 7.2 Obbligazioni indivisibili. - 8 L'inadempimento e la responsabilità contrattuale. - 8.1 L'inadempimento imputabile. - 8.2 La prova dell'inadempimento. - 8.3 Mora debendi. - 8.4 Responsabilità per fatto degli ausiliari. - 8.5 Concorso di colpa del creditore. - 8.6 Dovere del creditore di evitare il danno. - 8.7 Compensatio lucri cum damno.

1. Le fonti dell'obbligazione.

La Suprema Corte ha avuto occasione di affermare, o ribadire, alcuni principî sia in relazione alle fonti tipiche (art. 1173, prima parte, cod. civ.) sia in relazione alle fonti atipiche (art. 1173, seconda parte).

1.1. Le fonti tipiche.

Con riguardo alle fonti tipiche, Sez. 2, n. 4572, Rv. 630148, est. Mazzacane, ha ribadito il principio secondo cui il contratto può essere fonte di obbligazioni propter rem solo nei casi e col contenuto espressamente previsti dalla legge, in quanto trattasi di obbligazioni caratterizzate dal requisito della tipicità.

1.2. Le fonti atipiche.

Con riguardo alle fonti atipiche, se, per un verso, Sez. 1, n. 13506, Rv. 631306, est. Cristiano, ha riaffermato il principio, assolutamente consolidato, secondo cui la ricognizione di debito non integra una fonte autonoma di obbligazione ma ha effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, comportando soltanto l'inversione dell'onere della prova dell'esistenza di quest'ultimo (art. 1988 cod. civ.), per altro verso Sez. 3, n. 10633, Rv. 630670, est. Rubino, ha individuato un temperamento al principio di tipicità delle promesse unilaterali nel riferimento alla causa concreta che colora di liceità e meritevolezza l'impegno unilateralmente assunto, affermando che la dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri una proprietà immobiliare in attuazione di un precedente pactum fiduciae, non costituisce semplice promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazione, suscettibile anche di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., ove contenga un impegno attuale e preciso al ritrasferimento.

2. L'oggetto dell'obbligazione. La prestazione.

Oltre ad affermare, o ribadire, alcuni principî riguardo alla buona fede oggettiva e alla diligenza quali criteri fondamentali di determinazione della prestazione (artt. 1175 e 1176 cod. civ.), ai rapporti tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, alla promessa del fatto del terzo (art. 1381 cod. civ.) e alle obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni di facere infungibile, la Suprema Corte è tornata più volte sul tema delle obbligazioni pecuniarie (artt. 1277 e ss. cod. civ.).

2.1. Buona fede oggettiva e diligenza.

Ha trovato conferma la valenza generale di tali criteri fondamentali di determinazione della prestazione debitoria, in quanto Sez. 3, n. 18230, Rv. 631952, est. Rossetti, ne ha affermato l'operatività anche con riguardo alle prestazioni eseguite volontariamente ed a titolo gratuito.

2.2. Obbligazioni di mezzi e di risultato.

Sulla diversità dell'oggetto nelle obbligazioni di risultato e di mezzi si è pronunciata Sez. 2, n. 4876, Rv. 630192, est. Scalisi, la quale, sulla premessa che entrambi sono finalizzate ad attribuire al creditore un'utilitas oggettivamente apprezzabile, ha tuttavia chiarito che nelle prime il risultato è in rapporto di causalità necessaria con l'attività del debitore, mentre nelle seconde dipende anche da fattori ulteriori e concomitanti ad essa estranei, traendone, sul piano della prova liberatoria, la conseguenza che il debitore "di mezzi" prova l'esatto adempimento dimostrando di aver osservato le regole dell'arte e di essersi conformato ai protocolli dell'attività, senza dover provare che il risultato è mancato per cause a lui non imputabili.

2.3. Promessa del fatto del terzo.

Mantenendo le distanze dall'opinione dottrinaria che inquadra tra le obbligazioni di risultato la promessa del fatto del terzo, Sez. 2, n. 24853, in corso di massimazione, est. Matera, ha ribadito la consolidata esegesi dell'art. 1381 cod. civ., secondo la quale il promittente assume una prima obbligazione di facere, consistente nell'adoperarsi affinché il terzo assuma l'obbligazione o tenga il comportamento promesso, ed una seconda obbligazione di dare, cioè di corrispondere l'indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di obbligarsi o di tenere il comportamento oggetto della promessa; pertanto, il promittente sarà contrattualmente responsabile (e potrà soggiacere a tutti i rimedi contro l'inadempimento imputabile) soltanto allorché non abbia esattamente eseguito l'obbligazione di facere (omettendo di adoperarsi presso il terzo), mentre, nella contraria ipotesi in cui ciò si avvenuto ma il promissario non abbia ugualmente ottenuto il risultato sperato a causa del rifiuto del terzo, nessun rimedio contrattuale potrà essere ancora esperito nei confronti del promittente, in quanto egli sarà tenuto soltanto ad eseguire l'obbligazione di dare, pagando l'indennizzo.

2.4. Obbligazioni di facere infungibile.

Sez. L, n. 18779, Rv. 632372, est. Doronzo, ha ribadito l'ormai consolidato orientamento che ritiene ammissibile l'azione di adempimento di obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni di fare infungibile. In particolare, muovendo dalla premessa secondo la quale l'incoercibilità del facere oggetto dell'obbligazione non rende inutile la condanna all'adempimento della medesima - in quanto tale decisione, ancorché non suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica (nemo ad factum praecise cogi potest), produce comunque delle conseguenze giuridiche favorevoli al creditore - si è rilevato che quest'ultimo, oltre che giovarsi della possibile esecuzione volontaria dell'ordine giudiziale da parte del condannato, è legittimato a proporre la domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un facere infungibile assume la valenza sostanziale di una sentenza di accertamento.

2.5. Obbligazioni pecuniarie.

Con riguardo alle obbligazioni in valuta straniera, Sez. 1, n. 18584, Rv. 631917, est. Ragonesi, ha chiarito che le norme valutarie che vietano i pagamenti in moneta estera, al di fuori dei casi espressamente e tassativamente previsti, non determinano l'invalidità dell'obbligazione pattuita in moneta estera, ma incidono soltanto sulle modalità di adempimento, nel senso che l'obbligazione deve essere regolata in valuta italiana, ragguagliata al cambio di quella straniera al giorno della scadenza del debito, attraverso l'ufficio italiano dei cambi.

La Corte, con Sez. 1, n. 10793, Rv. 631414, est. Benini, si è pronunciata sulla natura degli indennizzi ex legge 26 gennaio 1980, n. 16, concessi a cittadini ed imprese italiani per i beni perduti all'estero in territori già soggetti alla sovranità italiana, ribadendo il principio secondo cui essi, in quanto rappresentano il frutto di una volontaria assunzione di impegno per ragioni politiche e solidaristiche, non hanno natura risarcitoria, bensì indennitaria, e configurano, pertanto, non già un debito di valore ma un debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione monetaria.

La natura di debito di valuta, con conseguente non applicabilità della rivalutazione monetaria, è stata riaffermata anche in relazione alle obbligazioni restitutorie conseguenti alla sentenza costitutiva di risoluzione del contratto per inadempimento (Sez. 3, n. 5639, Rv. 630187, est. Vivaldi), nonché in relazione ai crediti del professionista per compensi spettanti sulla base dei contratti d'opera conclusi con i propri clienti (Sez. 2, n. 20131, Rv. 632479, est. Manna), rispetto ai quali la pronuncia in esame ha altresì chiarito che essi non si trasformano in crediti di valore neppure per effetto dell'inadempimento del cliente, facendone derivare - in contrasto con l'orientamento espresso da Sez. U, n. 19499 del 2008, Rv. 604419, est. Amatucci - il corollario per cui, in caso di mora, sono dovuti gli interessi nella misura legale, salva la prova del maggior danno ai sensi dell'art. 1224, secondo comma, cod. civ..

Con riguardo ai mezzi di pagamento, Sez. 2, n. 20643, Rv. 633114, est. Picaroni, ha riaffermato il principio secondo cui nelle obbligazioni pecuniarie il debitore deve adempiere con moneta avente corso legale, ai sensi dell'art. 1277 cod. civ., salvo diversa volontà delle parti, la quale, peraltro, può essere espressa anche tacitamente e può essere desunta dal comportamento delle parti.

La Suprema Corte è infine tornata sul tema degli interessi compensativi: in particolare, Sez. 3, n. 19266, Rv. 632852, est. Rossetti, ha chiarito che, affinché il credito pecuniario produca interessi compensativi, è necessaria, ai sensi dell'art. 1282 cod. civ., la compresenza dei due requisiti dell'esigibilità e della liquidità, affermando che il credito illiquido, pur quando sia divenuto esigibile a causa della scadenza del termine di adempimento, resta improduttivo di interessi; Sez. 3, n. 3017, Rv. 629683, est. Vincenti, si è invece pronunciata sulla forma dell'accordo con cui vengono determinati interessi superiori alla misura legale, affermando che, poiché l'art. 1284, terzo comma, cod. civ. richiede a tal uopo la forma scritta ad substantiam, deve escludersi la possibilità di ritenere concluso un siffatto patto per facta concludentia allorché manchi la sottoscrizione da parte di entrambi i contraenti.

Quanto all'anatocismo, Sez. 3, n. 25729, in corso di massimazione, est. D'Amico, ha ricordato che la regola contenuta nell'art. 1283 cod. civ. ha carattere eccezionale e non è dunque estensibile ai debiti di valore, che restano governati dai principi affermati da Sez. U, n. 1712 del 1995, Rv. 490480, in forza dei quali, sino alla conversione in debito di valuta, il danno da mancato guadagno, derivante dal ritardato pagamento e liquidabile nella misura degli interessi legali, deve essere (anche presuntivamente) provato e non può essere automaticamente cumulato alla rivalutazione monetaria.

3. L'adempimento.

Sono stati affermati, o ribaditi, importanti principî in materia di legittimazione ad adempiere e a ricevere (art. 1188 cod. civ.) e di pagamento al legittimato apparente (art. 1189 cod. civ.). Inoltre la Suprema Corte è tornata ripetutamente sui temi dell'imputazione di pagamento (artt.1193 - 1195 cod. civ.), della quietanza (art. 1199 cod. civ.) e della mora credendi (artt. 1206-1217 cod. civ.).

3.1. Legittimazione ad adempiere e a ricevere.

Le nozioni di legittimazione ad adempiere (quale competenza ad eseguire la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione) e di legittimazione a ricevere (quale competenza ad accettare la prestazione con effetto liberatorio per il debitore: art. 1188 cod. civ.), costituiscono il presupposto della pronuncia resa da Sez. 6-1, n. 3636, Rv. 629424, est. Bianchini, in tema di obbligazioni assunte dal condominio - e ripartite pro quota tra i singoli condomini - per la conservazione delle cose comuni: prendendo le mosse dal rilievo secondo cui il condominio si pone, verso i terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei condomini attinenti alle parti comuni, la Corte ha ritenuto che l'amministratore è il rappresentante necessario della collettività dei partecipanti, sia quale assuntore delle predette obbligazioni sia quale referente dei relativi pagamenti; con l'ulteriore conseguenza dell'inidoneità liberatoria del pagamento pro quota eseguito dal condomino direttamente a mani del creditore del condominio, salvo che questi sia munito di titolo esecutivo verso lo stesso singolo partecipante.

3.2. Pagamento al legittimato apparente.

Della regola di cui all'art. 1189 cod. civ. si è fatto applicazione in una fattispecie relativa alla liquidazione dell'indennità nel procedimento di espropriazione per pubblico interesse: infatti, secondo Sez. 2, n. 18452, Rv. 631858, est. Scalisi, se l'indennità sia stata versata in buona fede all'apparente proprietario del bene espropriato, il vero proprietario non ha azione nei confronti dell'espropriante (il cui debito deve ritenersi estinto) ma può agire esclusivamente nei confronti dell'accipiens, secondo le regole stabilite per la ripetizione dell'indebito.

3.3. Imputazione di pagamento.

La regola di cui all'art. 1193 cod. civ. - secondo cui, tra più debiti scaduti, il pagamento deve essere imputato a quello meno garantito - è stata applicata da Sez. L, n. 9648, Rv. 630762, est. Patti, all'ipotesi del pagamento parziale effettuato dal datore di lavoro gravato da una pluralità di debiti verso un ente previdenziale: la pronuncia in esame ha ritenuto, in particolare, che il pagamento parziale va imputato a deconto delle sanzioni civili piuttosto che del capitale rappresentato dalle contribuzioni omesse, in quanto il credito relativo al capitale è assistito da un privilegio di grado poziore rispetto al credito relativo alle sanzioni.

Con riguardo all'imputazione dell'acconto versato al danneggiato prima della liquidazione definitiva del danno da fatto illecito, Sez. 3, n. 6347, Rv. 629791, est. Rossetti, ha statuito che il pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso un'operazione che consiste, dapprima, nel renderli entrambi omogenei (devalutandoli alla data dell'illecito oppure rivalutandoli alla data della liquidazione), per poi detrarre l'acconto dal credito e, infine, calcolare gli interessi compensativi - finalizzati a risarcire il danno da ritardato adempimento - sull'intero capitale, per il periodo che va dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto rivalutato, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva.

3.4. Quietanza.

Con riguardo alla quietanza si intrecciano problematiche di carattere sostanziale (legate alla sua natura di atto unilaterale dichiarativo) con problematiche di carattere processuale e probatorio (legate alla sua funzione di prova documentale precostituita).

La natura sostanziale di atto unilaterale dichiarativo è stata ribadita da Sez. 3, n. 5417, Rv. 630011, est. Vincenti, la quale ne ha peraltro tratto implicazioni destinate ad operare sul piano processuale e probatorio, ritenendo che, in ragione di tale natura della quietanza, non opera rispetto ad essa il divieto di provare per testi patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, previsto dall'art. 2722 cod. civ., il quale si riferisce al documento contrattuale formato con l'intervento di entrambe le parti e racchiudente una confessione.

Sempre sotto il profilo del valore probatorio della quietanza, Sez. 2, n. 4196, Rv. 629738, est. Falaschi, è tornata ad affermare il principio secondo il quale il suo rilascio, ai sensi dell'art. 1199 cod. civ., costituisce una confessione stragiudiziale dell'avvenuto pagamento resa alla parte, avente piena efficacia probatoria e impugnabile solo per errore di fatto e violenza (artt. 2733, 2735 e 2732 cod. civ.).

Sempre sotto il medesimo profilo, chiarendo la portata del principio, Sez. 6-3, n. 21258, Rv. 633149, est. Barreca, è tornata a precisare che, tuttavia, il valore di confessione stragiudiziale può essere riconosciuto alla quietanza rilasciata dal creditore al debitore, soltanto se e nei limiti in cui essa sia fatta valere nell'ambito della controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, l'autore e il destinatario della dichiarazione; quando ciò non accada - come nell'ipotesi del giudizio promosso dal curatore del fallimento del creditore - il debitore che esibisce la quietanza non può invocare l'efficacia vincolante della confessione stragiudiziale, ma unicamente il valore di documento probatorio dell'avvenuto pagamento, liberamente apprezzabile dal giudice al pari di qualsiasi altra prova desumibile dal processo.

Ancora sotto il profilo dell'efficacia probatoria, infine, Sez. U, n. 19888, Rv. 631923, est. Giusti, risolvendo una questione di massima di particolare importanza, hanno posto la distinzione tra la quietanza tipica (che, in quanto indirizzata al solvens, fa piena prova dell'avvenuto pagamento, salva la dimostrazione che il rilascio sia avvenuto per errore di fatto o violenza) e la quietanza atipica contenuta nella dichiarazione di vendita di un autoveicolo ex art. 13 del r. d. 29 luglio 1927, n. 1814, la quale, in quanto indirizzata al conservatore del pubblico registro automobilistico, è liberamente apprezzata dal giudice al pari della confessione stragiudiziale resa ad un terzo.

3.5. Offerta di adempimento e mora credendi.

La Suprema Corte si è pronunciata sia sull'offerta non formale (la quale, pur senza l'osservanza di forme rituali, consente al debitore di evitare la mora: art. 1220 cod. civ.) sia sull'offerta formale (attraverso la quale, mediante l'osservanza delle forme stabilite dalla legge, viene costituito in mora il creditore: artt. 1206 e ss. cod. civ.).

Riguardo alla prima, muovendo dalla premessa che essa consiste in una qualsiasi condotta del debitore idonea a manifestare seriamente l'intento di effettuare la prestazione, la quale deve essere posta a disposizione del creditore con modalità tali da consentirne la concreta fruibilità, Sez. 6-2, n. 22734, in corso di massimazione, est. Scalisi, con riguardo ad una fattispecie di cessione in proprietà di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, ha ritenuto idonea l'offerta non formale di pagamento del prezzo giudizialmente determinato effettuata mediante intestazione di un libretto bancario all'ente e deposito dello stesso presso il tribunale sin dall'iscrizione della causa a ruolo.

In ordine alla seconda, Sez. 2, n. 18483, Rv. 632032, est. Picaroni, ha ribadito che, ai fini della validità dell'offerta reale, occorre, ai sensi dell'art. 1208 cod. civ., che essa comprenda la totalità della somma o delle cose dovute, inferendone il corollario per cui l'accettazione di un'offerta inferiore, ove non accompagnata da una quietanza a saldo o da specifici elementi di fatto che evidenzino una volontà abdicativa del percipiente, comporta una liberazione soltanto parziale del debitore.

Secondo Sez. 3, n. 17975, Rv. 632554, est. Lanzillo, infine, le norme che stabiliscono i presupposti di idoneità dell'offerta reale (artt. 1208 e ss. cod. civ.) devono essere interpretate ed applicate alla luce dei principi di buona fede e di cooperazione del creditore nell'adempimento: in applicazione di questo principio la pronuncia in esame ha quindi ritenuto illegittimo il rifiuto del creditore di ricevere l'offerta di pagamento del prezzo di un riscatto agrario, effettuata tramite assegno circolare (in ragione del divieto di pagamento in contanti imposto dalle norme speciali), presentata ritualmente al domicilio dei creditori, coniugi comproprietari, e seguita, dopo il loro rifiuto, dall'invito a presenziare al deposito della somma su libretti bancari loro intestati.

4. Modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento.

Si segnalano pronunce in relazione agli istituti della novazione (art. 1230 e ss. cod. civ.) e della compensazione (art. 1241 e ss. cod. civ.).

4.1. Novazione.

Sulla portata e i limiti dell'effetto estintivo della novazione oggettiva per effetto della sostituzione alla obbligazione originaria di una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso (aliquid novi), si è pronunciata Sez. 3, n. 11366, Rv. 630812, est. Stalla: la Corte, ribadendo un importante principio in ordine all'incidenza dell'istituto nei rapporti contrattuali di durata, ha statuito che in questi rapporti la novazione oggettiva impedisce che quello sostituito continui a produrre le obbligazioni che da esso sarebbero altrimenti normalmente derivate, ma non estingue le obbligazioni già sorte al momento dell'accordo novativo stesso.

4.2. Compensazione.

In tema di compensazione legale la Suprema Corte ha riaffermato il principio secondo il quale, se per un verso (sotto il profilo sostanziale), essa ha luogo di diritto, determinando l'estinzione per le quantità corrispondenti dei debiti connotati dai caratteri di reciprocità, omogeneità, certezza, liquidità ed esigibilità (artt. 1243 e 1241 cod. civ.), per altro verso (sotto il profilo processuale), il giudice non può rilevarla d'ufficio, sussistendo l'onere di eccepirla in capo al soggetto che intende avvalersene (art. 1242 cod. civ.).

Al riguardo, Sez. 3, n. 10335, Rv. 630960, est. Carleo, ha ribadito che, sebbene la pronuncia del giudice si risolva in un accertamento dell'avvenuta estinzione ope legis dei reciproci crediti delle parti dal momento in cui sono venuti a coesistere, tuttavia la compensazione, in quanto esercizio di un diritto potestativo, deve essere eccepita, pur senza la necessità di utilizzare formule sacramentali, dalla parte interessata.

Peraltro, Sez. L, n. 11729, Rv. 630969, est. Arienzo, è tornata a chiarire che le norme che regolano la compensazione, ivi compresa quella sul divieto di rilevarla d'ufficio, riguardano l'ipotesi della compensazione in senso tecnico, che postula l'autonomia dei contrapposti rapporti di credito, ma non si applicano allorché i rispettivi crediti e debiti siano sorti da un unico rapporto o da rapporti accessori.

Infine, Sez. 1, n. 10683, Rv. 631261, est. Didone, nel pronunciarsi sulla regola che sancisce l'inefficacia, in pregiudizio del creditore pignorante e di quelli intervenuti nell'esecuzione, dell'estinzione del credito pignorato per cause successive al pignoramento (art. 2917 cod. civ.), ha riaffermato il principio secondo il quale questa regola deve intendersi riferita non solo alle cause di estinzione cosidette volontarie (quali il pagamento, la novazione, la remissione), ma a tutte le cause di estinzione dell'obbligazione (compresa, dunque, la compensazione legale), in quanto il pignoramento comporta l'indisponibilità e la separazione dal restante patrimonio del credito pignorato.

5. Vicende modificative dell'obbligazione dal lato attivo.

In ordine alle vicende che comportano la modificazione dell'obbligazione dal lato attivo, e cioè la modificazione soggettiva del credito, si segnalano pronunce sia sul tema della cessione del credito (art. 1260 e ss. cod. civ.) sia sul tema della surrogazione di pagamento (art. 1201 e ss. cod. civ.).

5.1. Cessione del credito.

Con riguardo al principio generale della cedibilità dei crediti e alle relative deroghe stabilite nei divieti di cessione, Sez. 3, n. 18339, Rv. 632615, est. Rubino, ha ribadito che, nella disciplina della cessione dei crediti verso la pubblica amministrazione, il divieto di cessione senza l'adesione del debitore pubblico, stabilito dall'art. 70 r. d. 18 novembre 1923, n. 2240, si applica soltanto ai rapporti di durata (appalto, somministrazione, fornitura), mentre i crediti derivanti da altri contratti soggiacciono all'ordinaria disciplina codicistica e possono essere liberamente trasferiti senza il consenso del debitore, a norma dell'art. 1260 cod. civ.

In relazione alla problematica dell'opponibilità della cessione al fallimento del cedente - che risente, da un lato, della disciplina dell'efficacia della cessione riguardo al debitore ceduto (art. 1264 cod. civ.) e, dall'altro, della disciplina dell'opponibilità della stessa ai creditori procedenti (art. 2914, n. 1, cod. civ.) - Sez. 1, n. 9831, Rv. 631123, est. Mercolino e Sez. 1, n. 19199, Rv. 632487, est. De Chiara, hanno affermato che al fallimento del cedente possono essere opposte soltanto le cessioni notificate al debitore ceduto (o dal medesimo accettate) con atto di data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, sicché, in mancanza, il debitore ceduto, ancorché fosse a conoscenza dell'avvenuta cessione, è tenuto ad eseguire il pagamento al curatore del fallimento e non al cessionario.

Quanto alle forme della notificazione e della accettazione quali atti che determinano l'efficacia della cessione riguardo al debitore ceduto, Sez. 3, n. 1770, Rv. 629429, est. Barreca (con riguardo alla notificazione) e Sez. 3, n. 10335, Rv. 630961, est. Carleo (con riguardo alla accettazione), hanno ritenuto che si tratta di atti a forma libera, la prima traendone la conseguenza che la notificazione può essere effettuata sia mediante ricorso per decreto ingiuntivo sia mediante comunicazione operata nel successivo giudizio di opposizione, la seconda inferendone il corollario che la regola dell'inopponibilità al cessionario della compensazione opponibile al cedente (art. 1248, primo comma, cod. civ.) non postuli necessariamente un'accettazione espressa.

Infine, in ordine all'ipotesi di mandato in rem propriam che integri una cessione del credito con funzione solutoria, seguito dal fallimento del creditore cedente, Sez. 3, n. 18316, Rv. 632100, est. D'Amico, ha affermato il principio secondo il quale l'effetto sostanziale dell'avvenuta cessione, che fa uscire il credito dal patrimonio del fallito prima della dichiarazione di fallimento (salva l'esperibilità della revocatoria fallimentare), non solo preclude l'applicazione dell'art. 78 legge fall., ma preclude altresì agli organi della curatela la possibilità di procedere alla revoca del mandato per giusta causa, ai sensi dell'art. 1723 cod. civ..

5.2. Surrogazione di pagamento.

Muovendo dal presupposto che la disposizione di cui all'art. 1203, n.3, cod. civ. - secondo la quale la surrogazione ha luogo di diritto a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse di soddisfarlo - è applicabile solo nell'ipotesi di pagamento di un debito altrui, Sez. 1, n. 6293, Rv. 630520, est. Bisogni, ha ritenuto che la società in nome collettivo non solo non può agire nei confronti dei soci per il pagamento dei debiti sociali (spettando la relativa legittimazione soltanto ai creditori sociali, in quanto la responsabilità solidale ed illimitata dei soci per le predette obbligazioni è posta a tutela dei creditori stessi e non della società), ma, ove abbia pagato il debito, non può neppure invocare la surrogazione.

6. Vicende modificative dell'obbligazione dal lato passivo.

In ordine alle vicende che comportano la modificazione dell'obbligazione dal lato passivo, e cioè la modificazione soggettiva del debito, si segnalano due pronunce, l'una sulla delegazione (art. 1268 e 1269 cod. civ.), l'altra sull'accollo (art. 1273 cod. civ.).

6.1. Delegazione.

In termini di delegazione passiva (quale fattispecie in cui il debitore-delegante assegna al creditore-delegatario un nuovo debitore-delegato) e più precisamente in termini di delegazione di pagamento (quale fattispecie in cui il delegato, anziché obbligarsi verso il delegatario per conto del delegante - c.d. delegazione promissoria - provvede senz'altro al pagamento) è stato ricostruito il rapporto tra datore di lavoro e Cassa edile in ordine ai versamenti degli accantonamenti per ferie, festività e gratifiche.

Infatti, secondo Sez. 6-L, n. 10140, Rv. 630794, est. Pagetta, la Cassa edile è obbligata nei confronti dei lavoratori al pagamento delle predette somme, che costituiscono specifiche voci del debito retributivo del datore di lavoro, solo a seguito del versamento delle medesime da parte del datore di lavoro. Da questa ricostruzione la pronuncia in esame trae quindi la conseguenza che, se da un lato il lavoratore può agire nei confronti del datore per il pagamento delle somme dovute sulla base dei predetti titoli, dall'altro lato la Cassa ha l'obbligo di riscuotere le somme che il datore è tenuto a versare.

6.2. Accollo.

Sez. 1, n. 4383, Rv. 629678, est. Campanile, è tornata sulla distinzione tra accollo interno (quale figura - non espressamente prevista dal codice civile ma riconducibile all'esercizio dell'autonomia privata per il perseguimento di interessi meritevoli di tutela - che produce effetti unicamente rispetto alle parti, comportando l'assunzione, da parte dell'accollante, del peso del debito in senso puramente economico senza attribuire alcun diritto al creditore, sicché il terzo assolve il proprio obbligo di tenere indenne il debitore adempiendo direttamente in veste di terzo, o apprestando in anticipo al debitore i mezzi occorrenti, ovvero rimborsando le somme pagate al debitore che ha adempiuto) e accollo esterno (quale figura - espressamente regolata dall'art. 1273 cod. civ. ed inquadrabile nella più generale fattispecie del contratto a favore di terzo - che determina una modificazione soggettiva dell'originaria obbligazione, facendo sorgere un obbligo dell'accollante verso il creditore). Richiamata questa distinzione, la pronuncia in esame ha ritenuto che l'assunzione, nei confronti del debitore, dell'obbligo di pagare gli interessi da questi dovuti al terzo creditore, configura un accollo interno, al quale non si applica l'art. 1284 cod. civ., in materia di pattuizione di interessi ultralegali.

7. Le obbligazioni plurisoggettive.

La Suprema Corte è tornata più volte sul tema delle obbligazioni solidali (artt. 1292 e ss. cod. civ.) e si è pronunciata sulle obbligazioni indivisibili (art. 1316 cod. civ.).

7.1. Obbligazioni solidali.

Con riguardo alle obbligazioni soggettivamente complesse ex latere creditoris, Sez. 3, n. 2822, Rv. 629850, est. Carleo, ha affermato il principio secondo il quale la solidarietà attiva tra più creditori deve risultare espressamente dalla legge o da un titolo negoziale preesistente alla richiesta di adempimento; essa quindi non si presume, nemmeno in caso di identità della prestazione dovuta, non essendo sufficiente all'esistenza del vincolo l'identità qualitativa delle prestazioni (eadem res debita) e delle obbligazioni (eadem causa debendi).

Con riguardo alle obbligazioni soggettivamente complesse ex latere debitoris, per le quali vige il principio della solidarietà passiva (art. 1294 cod. civ.), Sez. 3, n. 15895, Rv. 631992, est. Spirito, ha ribadito che la disposizione dell'art. 1304, primo comma, cod. civ. (circa gli effetti estensivi della transazione stipulata tra il creditore e uno dei debitori solidali) si riferisce soltanto alla transazione stipulata per l'intero debito solidale e non è quindi applicabile quando la transazione è limitata al solo rapporto interno del debitore che la stipula.

Sempre in relazione all'art. 1304, primo comma, cod. civ., Sez. 2, n. 20250, Rv. 632333, est. San Giorgio, ha nuovamente affermato che la dichiarazione del debitore solidale di voler profittare della transazione stipulata tra il creditore e altro debitore solidale non costituisce un'eccezione da far valere nei tempi e nei modi processuali ad essa pertinenti ma integra un diritto potestativo esercitabile, anche nel corso del processo, senza requisiti di forma né limiti di decadenza.

In relazione alle problematiche connesse con l'estensione, secundum eventum litis, degli effetti della sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori solidali, Sez. 3, n. 20559, Rv. 632597, est. Cirillo, ha statuito, anche qui confermando un principio già precedentemente affermato, che la regola che consente ai condebitori in solido di opporre al creditore la sentenza pronunciata tra questi e uno degli altri condebitori (art. 1306, secondo comma, cod. civ.), trova applicazione solo nel caso in cui la sentenza suddetta sia stata resa in un giudizio cui non abbiano partecipato i condebitori che intendono opporla; se, invece, costoro hanno partecipato al medesimo giudizio, operano le preclusioni proprie del giudicato, con la conseguenza che la mancata impugnazione da parte di uno o di alcuni dei debitori solidali, soccombenti in un rapporto obbligatorio scindibile, determina il passaggio in giudicato della sentenza nei loro confronti, sebbene gli altri condebitori l'abbiano impugnata e ne abbiano ottenuto l'annullamento o la riforma.

Sempre in relazione alle medesime problematiche, Sez. 3, n. 11634, Rv. 630993, est. Rubino, ha ritenuto che l'effetto estensivo previsto dall'art. 1306, secondo comma, cod. civ. si applichi anche al lodo arbitrale non impugnabile, di tal che degli effetti favorevoli al condebitore solidale del lodo reso tra questi e il creditore possono giovarsi anche gli altri condebitori che non siano stati parti del giudizio arbitrale.

7.2. Obbligazioni indivisibili.

Sulla nozione di obbligazione indivisibile - che ricorre, ai sensi dell'art. 1316 cod. civ., solo quando la prestazione abbia per oggetto una cosa o un atto che non è suscettibile di divisione per sua natura (indivisibilità oggettiva) o per il modo in cui è stato considerato dalle parti (indivisibilità soggettiva) - si è soffermata Sez. 3, n. 2822, Rv. 629851, est. Carleo, per statuire che è invece divisibile l'obbligazione di risarcimento del danno in forma specifica nascente da un atto di transazione e avente ad oggetto lavori di sistemazione di terreni, se tale fu la volontà delle parti e se sia i terreni sia la prestazione dovuta sono frazionabili.

La Corte, con Sez. 2, n. 11549, Rv. 630848, est. Migliucci, ha reputato indivisibile l'obbligazione di pagamento del prezzo in relazione ad un preliminare di vendita di bene indiviso considerato quale unicum: ciò sul presupposto che in tale fattispecie ogni comproprietario non solo si obbliga a prestare il consenso per il traferimento della sua quota, ma promette anche il fatto altrui, cioè la prestazione del consenso degli altri comproprietari, sicché, attesa l'unitarietà della prestazione dei venditori, l'obbligo di prezzo è indivisibile per volontà negoziale e ciascun venditore può esigere l'intero a titolo solidale.

Per Sez. 2, n. 4197, Rv. 629715, est. Falaschi è invece divisibile l'obbligazione di pagamento del corrispettivo di un contratto di appalto dovuto ad una pluralità di appaltatori nella realizzazione di un'opera complessa, in quanto ognuno di essi può domandare, ai sensi dell'art. 1314 cod. civ., solo la propria quota di compenso e il committente è liberato solo quando abbia corrisposto la quota spettante a ciascuno, salvo che sia stata espressamente pattuita la solidarietà attiva.

8. L'inadempimento e la responsabilità contrattuale.

Alcune pronunce sono tornate sui presupposti della responsabilità contrattuale, esplorando i classici temi dell'inadempimento imputabile (quale inadempimento che comporta la responsabilità del debitore e la sua soggezione all'obbligo di risarcimento e agli altri rimedi contrattuali: artt. 1218, 1453, 1460 cod. civ.), della ripartizione dell'onere della prova in sede di esercizio dell'azione risarcitoria e degli altri rimedi (art. 1218 cod. civ.), della mora debendi (art. 1219 cod. civ.) e della responsabilità per fatto degli ausiliari (art. 1228 cod. civ.).

Altre pronunce sono invece tornate sulle conseguenze della responsabilità contrattuale e, in particolare, sulle regole di determinazione del danno risarcibile previste dal codice (concorso di colpa del creditore; dovere del creditore di evitare il danno: art. 1227, primo e secondo comma, cod. civ.) o elaborate dalla giurisprudenza (compensatio lucri cum damno).

8.1. L'inadempimento imputabile.

In conformità con il presupposto, ormai pacifico, che l'imputabilità dell'inadempimento esige la colpa del debitore e che, conseguentemente, l'impossibilità liberatoria ex art. 1218 cod. civ. va identificata con l'impedimento non prevedibile né superabile con la dovuta diligenza, Sez. 1, n. 18880, Rv. 631950, est. Benini, in una fattispecie relativa ad un contratto di appalto di opere pubbliche, ha statuito che il Comune, committente delle opere e debitore del corrispettivo, non può invocare quale factum principis idoneo a determinare l'impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile, l'esistenza di decreti di fermo amministrativo disposti dal Commissario straordinario di governo e volti alla sospensione del pagamento dei propri debiti, ove, da un lato, tali provvedimenti siano stati emessi in totale carenza di potere e, dall'altro, l'ente sia stato consapevole della loro illegittimità.

8.2. La prova dell'inadempimento.

Si è data continuità, facendosene applicazione in ordine a fattispecie peculiari e complesse, all'ormai consolidato orientamento (prevalso a seguito del contrasto composto da Sez. U, n. 13533 del 2001, Rv. 549956, est. Preden, e mai abbandonato dalla giurisprudenza successiva), secondo cui, in tema di prova dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) di una obbligazione, il creditore che azioni rimedi contrattuali (domanda di adempimento, di risoluzione del contratto, di risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'esatto adempimento.

Precisamente, Sez. 3, n. 2413, Rv. 630341, est. Cirillo, dopo aver rammentato che la responsabilità dell'istituto scolastico per i danni causati da un allievo a se stesso ha natura contrattuale, ha ritenuto che, al fine di provare che il danno sia stato determinato da causa non imputabile alla scuola o all'insegnante, l'istituto ha l'onere di dimostrare le misure adottate dai docenti per evitare il verificarsi di eventi dannosi, ed ha conseguentemente affermato - nella fattispecie concreta - la responsabilità del Ministero per i danni subiti da un alunno durante una gita scolastica, nel corso della quale, issatosi con taluni compagni su una catena ancorata a dei pilastri per farsi fotografare, ne era precipitato per il crollo di un pilastro, mentre i docenti erano rimasti ingiustificatamente inerti e, pur avendone avuto il tempo, avevano omesso di assumere una qualche iniziativa per far scendere gli alunni dalla catena.

Sulla stessa linea, Sez. 3, n. 3612, Rv. 629845, est. Vivaldi, dopo aver ricordato che la responsabilità della scuola di sci per il danno alla persona subìto dall'allievo a seguito di caduta ha natura contrattuale, ha ritenuto che al creditore danneggiato spetta solo allegare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto mentre è onere della controparte provare l'esatto adempimento della propria obbligazione, ossia l'aver vigilato sulla sicurezza ed incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruiva della prestazione scolastica, dimostrando che le lesioni subite siano state conseguenza di circostanze autonome e non imputabili alla scuola; in proposito la Suprema Corte ha ulteriormente precisato che la predetta prova liberatoria può essere data anche a mezzo di presunzioni e che solo se la causa resta ignota il sistema impone che le conseguenze patrimoniali negative restino a carico di chi ha oggettivamente assunto la posizione di inadempiente: nel caso concreto è stata dunque negata la responsabilità della scuola di sci, perché, tenendo conto della peculiarità dell'insegnamento impartito e del comune dato di esperienza che non si può imparare a sciare senza cadere, era stato accertato che la causa della lesione subìta dall'allievo andava ascritta alla circostanza che egli aveva perso l'equilibrio, cadendo all'indietro e sedendosi sulle code degli sci, senza che gli attacchi di sicurezza potessero aprirsi.

8.3. Mora debendi.

In ordine ai presupposti della mora del debitore, Sez. 2, n. 9510, Rv. 630721, est. Manna, ha ribadito che, non operando nel nostro ordinamento il principio in illiquidis non fit mora, la liquidità del debito non è condizione necessaria della costituzione in mora, la quale invece sussiste quando la mancata o ritardata liquidazione derivi dalla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore e, in genere, dal suo fatto doloso o colposo, quale l'illegittimo comportamento processuale per aver egli, a torto, contestato in radice la propria obbligazione; la pronuncia in esame ha dunque statuito che, ove ciò si verifichi, legittimamente la sentenza che liquida il debito fa decorrere gli interessi moratori dalla data della interpellatio.

Con riguardo alla natura dell'atto di costituzione in mora, è stato confermato l'orientamento volto a ritenere che si tratti di un atto giuridico in senso stretto, traendosene coerenti conseguenze sul piano applicativo e su quello ermeneutico. Precisamente, Sez. L, n. 11579, Rv. 631047, est. Arienzo, ha ritenuto che la predetta natura giuridica dell'atto non consente l'applicabilità diretta ed immediata dei principî sui vizi del volere e della capacità dettati in tema di atti negoziali, ma legittima il ricorso, in via analogica, alle regole di ermeneutica, in quanto compatibili, degli atti negoziali stessi.

8.4. Responsabilità per fatto degli ausiliari.

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul fondamento della responsabilità prevista dall'art. 1228 cod. civ., a norma del quale il debitore risponde dei fatti dolosi o colposi posti in essere dalle persone (ausiliari) della cui opera si avvale nell'adempimento dell'obbligazione.

Al riguardo si è dato continuità al prevalso orientamento secondo il quale la responsabilità prescinde dalla colpa del debitore nella scelta dell'ausiliario (culpa in eligendo) o nella vigilanza su di esso (culpa in vigilando) ed integra piuttosto una sorta di responsabilità oggettiva, che coindivide il medesimo fondamento della responsabilità extracontrattuale del preponente per il fatto dannoso commesso dai suoi preposti (art. 2049 cod. civ.).

Tale fondamento, precisamente, va individuato nell'esigenza che chi si appropria dell'operato altrui ne assuma il rischio per i danni arrecati ai terzi (Sez. 3, n. 12833, Rv. 631719, est. Scarano).

In applicazione di questo principio, la Suprema Corte ha ritenuto che nell'ipotesi di danno patito da un minore affidato ad un centro estivo comunale, il Comune è direttamente responsabile qualora l'evento dannoso sia da ascriversi alla condotta colposa del terzo (nella specie, alla condotta negligente della vigilatrice), della cui attività l'ente territoriale si era avvalso per l'adempimento delle prestazioni ricreative oggetto del contratto stipulato con i genitori del minore.

8.5. Concorso di colpa del creditore.

È nota la travagliata elaborazione dottrinale della regola contenuta nell'art. 1227, primo comma, cod. civ., il cui fondamento è stato rinvenuto talora nel principio di autoresponsabilità, talaltra in quello di stretta causalità. Prevalsa questa seconda tesi, resta tuttavia la necessità della presenza della colpa (intesa non in senso soggettivo-psicologico, ma in senso oggettivo-normativo) quale requisito legale della rilevanza causale del fatto del creditore danneggiato. Di ciò ha tenuto conto Sez. 2, n. 470, Rv. 629084, est. Matera, la quale ha statuito che il mancato ricorso all'autorità giudiziaria per la determinazione del prezzo ai sensi dell'art. 1474 cod. civ. non integra un concorso colposo del danneggiato e non giustifica una riduzione del risarcimento ex art. 1227, primo comma, cod. civ., in quanto l'esercizio dell'azione giudiziaria costituisce una merà facoltà e non un obbligo del titolare.

8.6. Dovere del creditore di evitare il danno.

La netta distinzione operata dal codice civile tra la regola di cui al primo comma dell'art. 1227 (che dà rilievo alla partecipazione del creditore alla produzione del danno attraverso un comportamento obiettivamente colposo) e la regola di cui al secondo comma (che invece sanziona l'inerzia del creditore il quale non si attivi per evitare, limitare od attenuare il danno che ha causa esclusiva nell'inadempimento del debitore) ha trovato riscontro nella nota tesi dottrinale, condivisa anche di recente dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., ad es., Sez. 2, n. 26639 del 2013, Rv. 628544, est. Nuzzo), secondo cui il dovere di cooperare per limitare le conseguenze dannose dell'inadempimento trova fondamento nel generale dovere di buona fede in senso oggettivo o correttezza, inteso come canone di salvaguardia dell'interesse della controparte nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio personale o economico.

Con specifico riguardo al settore alimentare, dove la circolazione di merce sicura e sana contribuisce in maniera significativa alla salute e al benessere dei consumatori, la Suprema Corte, richiamando il dovere della parte non inadempiente di evitare il danno conseguente all'inadempimento dell'altra, ha posto peraltro le premesse per un' (ulteriore) estensione ultra partes, ex latere creditoris (per un'estensione ex latere debitoris si pensi, ad es., alla tematica degli obblighi di protezione), dell'ambito di operatività del dovere di correttezza.

La Corte, infatti, con Sez. 2, n. 15824, Rv. 631694, est. Giusti, ha statuito che l'acquirente di un alimento, operatore professionale e produttore (mediante l'utilizzazione del componente comperato) della sostanza finale destinata al consumo umano, ha l'obbligo - riconducibile al dovere di cooperazione previsto dall'art. 1227, secondo comma, cod. civ. - di attenersi al principio di precauzione e di adottare misure proporzionate in funzione delle caratteristiche del prodotto e della sua destinazione, verificando, attraverso controlli di genuinità a campione, che il componente acquistato risponda ai previsti requisiti di sicurezza e non contenga additivi vietati o pericolosi, senza poter fare esclusivo affidamento sull'osservanza da parte del rivenditore dell'obbligo di fornire un prodotto non adulterato né contraffatto, salvo che abbia ricevuto preventivamente una precisa e circostanziata garanzia. Secondo la pronuncia in esame, dunque, nello specifico settore alimentare l'obbligo del creditore di attivarsi per attenuare le conseguenze dannose dell'inadempimento trova fondamento non solo nella necessità di salvaguardare l'interesse della controparte contrattuale, ma anche nell'esigenza di tutelare interessi fondamentali di terzi.

8.7. Compensatio lucri cum damno.

Come è noto, questa regola pretoria trova fondamento nell'esigenza che la determinazione del danno risarcibile tenga conto degli effetti vantaggiosi per il creditore danneggiato che sono conseguenza immediata e diretta (art. 1223 cod. civ.) dell'inadempimento.

Di qui l'affermazione tralatizia - riconducibile ad un orientamento sino all'anno passato ampiamente consolidato (cfr., ad es., Sez. 3, n. 12248 del 2013, Rv. 626397, est. De Stefano) - secondo la quale il vantaggio (lucro), al fine della compensazione con il pregiudizio subìto dal creditore (danno), deve condividere con questo il medesimo titolo, e cioè deve essere direttamente causato - e non semplicemente occasionato - dall'inadempimento.

Nelle pronunce di quest'anno la Suprema Corte ha tuttavia manifestato qualche oscillazione.

Infatti, se in un primo momento l'orientamento tradizionale ha trovato una conferma in Sez. 3, n. 5504, Rv. 630209, est. Amatucci (la quale ha escluso l'operatività del principio della compensatio lucri cum damno in relazione all'ipotesi in cui, a seguito della morte della persona offesa, ai congiunti superstiti sia stata concessa una pensione di reversibilità, erogazione fondata su un titolo diverso rispetto all'atto illecito), in una prospettiva assolutamente innovativa Sez. 3, n. 13537, Rv. 631440, est. Rossetti, ha invece statuito, in relazione ad una identica fattispecie - ed in evidente contrasto con l'indirizzo tradizionale -, che dall'ammontare del risarcimento dovuto al familiare superstite deve essere detratto il valore capitale della predetta pensione di reversibilità, in considerazione della funzione indennitaria di questo trattamento che è inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla morte del congiunto, con conseguente riduzione del danno risarcibile.

Peraltro, da ultimo, Sez. 3, n. 20548, Rv. 632962, est. Scarano, ha omesso di dare continuità al nuovo indirizzo ed ha invece ribadito l'orientamento tradizionale, affermando che il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione soltanto allorché sia il pregiudizio che l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito, escludendo la detraibilità di quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, di assegni, di equo indennizzo e di qualsiasi altra erogazione connessa alla morte o all'invalidità ma avente fondamento in un titolo diverso dall'illecito e non avente finalità risarcitorie.

Sotto il profilo processuale, va segnalato che Sez. 6-3, n. 20111, Rv. 632976, est. De Stefano, ha ribadito il principio secondo il quale l'eccezione di compensatio lucri cum damno non comporta l'allegazione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato ma di una mera difesa in ordine all'entità del pregiudizio patito dall'attore e costituisce, pertanto, un'eccezione in senso lato, come tale rilevabile d'ufficio dal giudice, il quale, al fine di stabilire l'esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell'acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio.

  • contratto
  • risoluzione di contratto
  • responsabilità contrattuale
  • clausola contrattuale

CAPITOLO X

IL CONTRATTO IN GENERALE

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Contratto atipico. - 2 Conclusione del contratto, proposta, accettazione, presunzione di conoscenza e proposta al pubblico. - 3 Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale. - 4 Condizioni generali e clausole vessatorie. - 5 Oggetto. - 6 Causa. - 7 Forma. - 8 Preliminare ed esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre. - 9 Condizione. - 10 Interpretazione e qualificazione del contratto. - 11 Penale e caparra. - 12 Rappresentanza e ratifica. - 13 Cessione del contratto. - 14 Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi. - 15 Simulazione ed interposizione di persona. - 16 Nullità del contratto. - 17 Annullabilità e Rescissione del contratto. - 18 Risoluzione del contratto.

1. Contratto atipico.

La Suprema Corte di cassazione, Sez. 1, n. 10952, Rv. 631311, est. Salvago, ha ricondotto nell'alveo degli atti di autonomia negoziale ai sensi dell'art. 1322 cod. civ. la cessione volontaria del bene pattuita fra l'espropriante e l'espropriato nell'ambito di una procedura di espropriazione per pubblica utilità successivamente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dei criteri indennitari previsti dalla legge 29 luglio 1980, n. 385, e nella quale non siano stati indicati illegittimi criteri di determinazione del prezzo. Ha chiarito, quindi, che, per tale ragione, il privato non poteva più chiedere né un conguaglio ulteriore, né una rideterminazione del prezzo in misura pari al valore venale del bene previa declaratoria di nullità del prezzo concordato.

Peraltro, Sez. 2, n. 9990, Rv. 630625, est. Scalisi, ha precisato che, comunque, la Pubblica Amministrazione, ancorché il proprietario abbia deciso di optare per la cessione volontaria del bene, non è obbligata a contrarre, ma mantiene il potere discrezionale di definire la procedura espropriativa con un atto di autorità.

Secondo Sez. 3, n. 22807, Rv. 633230, est. Sestini, al contratto atipico di parcheggio si applicano le norme previste per il contratto di deposito.

Va segnalata, altresì, Sez. 3, n. 10633, Rv. 630670, est. Rubino, per la quale la dichiarazione unilaterale resa da persona che si obblighi a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un accordo fiduciario rappresenti una autonoma fonte di obbligazioni, a condizione che contenga un impegno attuale e preciso, con l'esatta individuazione dell'immobile, dei suoi confini e dei dati catastali. A ciò consegue la possibilità per il beneficiario di agire ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., ove il firmatario non dia esecuzione alla dichiarazione in questione.

Peculiare è l'affermazione di Sez. 6-3, n. 10397, Rv. 630673, est. Lanzillo, che si è occupata del contratto atipico con il quale un operatore economico che ha raccolto delle informazioni vantaggiose per qualcuno offre di rivelarle agli ignari beneficiari dietro pagamento di un compenso, chiarendo che questo è sorretto da adeguata causa giustificativa solamente se le informazioni sono acquisite in virtù di una attività organizzata in maniera professionale, risolvendosi nell'erogazione di un servizio in favore del destinatario.

In tema di leasing finanziario, poi, la Corte, con Sez. 5, n. 9417, Rv. 630309, est. Greco, ha precisato che il perfezionamento del contratto avviene con l'attribuzione dal proprietario concedente all'utilizzatore della detenzione autonoma qualificata della cosa, mentre la materiale consegna del bene ad opera del fornitore rappresenta semplice adempimento di un'obbligazione gravante su quest'ultimo ed esecuzione da parte dello stesso di un incarico conferitogli dal concedente nell'interesse dell'utilizzatore.

Nel contratto di sponsorizzazione, poi, la Corte - Sez. 3, n. 8153, Rv. 630403, est. Lanzillo - ha stabilito che i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli articoli 1175 e 1375 cod. civ. individuano obblighi ulteriori od integrativi di quelli tipici del rapporto, l'inadempimento dei quali può giustificare una richiesta di risarcimento danni

Va qualificato - secondo Sez. 3, n. 7776, Rv. 630710, est. Rossetti - come contratto atipico unitario l'operazione con la quale una banca eroghi ad un cliente un mutuo, contestualmente impiegato per acquistare per suo conto strumenti finanziari predeterminati emessi dalla medesima banca, subito costituiti in pegno in favore dello stesso istituto di credito a garanzia della restituzione del finanziamento. Tale contratto è stato ricondotto ai servizi di investimento ex art. 1, comma 5, decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e la sua causa è stata indicata nella realizzazione di un lucro finanziario.

In ordine alle obbligazioni propter rem, Sez. 2, n. 4572, Rv. 630148, est. Mazzacane, ha ribadito il consolidato orientamento secondo il quale, essendo caratterizzate dal requisito della tipicità, queste possono sorgere per contratto solamente nei casi e con il contenuto previsto dalla legge, mentre Sez. 2, n. 3091, Rv. 629708, est. Matera, ha anche chiarito che i privati possono sottrarsi, ai sensi dell'art. 1322 cod. civ., al principio della tipicità dei diritti reali su cose altrui per mezzo della costituzione, in luogo di servitù prediali, di obblighi in favore di specifiche persone, senza alcuna funzione di utilità fondiaria.

2. Conclusione del contratto, proposta, accettazione, presunzione di conoscenza e proposta al pubblico.

Va, in primo luogo, segnalata Sez. 5, n. 15315, Rv. 631551, est. Crucitti, che ha stabilito che, nel caso di notificazione a mezzo posta eseguita direttamente dall'Ufficio finanziario, trovano applicazione le disposizioni in tema di consegna dei plichi raccomandati, con la conseguenza che non va redatta una relata di notifica, né deve essere indicata sull'avviso di ricevimento la persona alla quale il plico è stato consegnato. In particolare, l'atto, una volta pervenuto all'indirizzo del destinatario, deve ritenersi consegnato a quest'ultimo, in base alla presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., che può essere vinta esclusivamente se l'interessato dimostra di essersi trovato senza sua colpa nell'impossibilità di prenderne cognizione. Sez. L., n. 6845, Rv. 630099, est. Buffa, ha applicato tale principio al caso in cui a ricevere una lettera raccomandata che comunicava un licenziamento individuale era stata la moglie convivente del lavoratore.

In materia di conclusione di un contratto, Sez. 3, n. 10533, Rv. 630905, est. Barreca, ha affermato che l'accettazione non può essere dedotta dal mero silenzio serbato su una proposta, ancorché in precedenza vi siano state delle trattative fra le parti, delle quali la proposta in questione abbia tenuto conto. Infatti, è stato ribadito che il silenzio acquista un valore negoziale soltanto se, alla luce delle circostanze e sulla base dei rapporti sorti fra le parti, il comune modo di agire o la buona fede impongano di parlare oppure quando, alla luce delle qualità dei contraenti e delle loro relazioni di affari, in un certo momento storico o sociale il tacere di una parte possa qualificarsi come adesione alla volontà dell'altra. Sez. 3, n. 1770, Rv. 629430, est. Barreca, ha pure ritenuto che non dimostrasse l'avvenuta stipulazione di un contratto il mero deposito di un ricorso per decreto ingiuntivo finalizzato ad ottenerne l'adempimento, qualora non fosse possibile individuare un atto di accettazione giunto al proponente prima della presentazione del ricorso.

Secondo Sez. 2, n. 20853, Rv. 632640, est. Matera, il termine entro cui il proponente si impegna a mantenere ferma la proposta rappresenta elemento essenziale della proposta irrevocabile, con la conseguenza che questo deve essere indicato dallo stesso proponente e, in mancanza di ciò, la detta proposta è da considerare pura e semplice.

Inoltre, Sez. 3, n. 40, Rv. 629812, est. Ambrosio, ha qualificato come atto unilaterale recettizio la dichiarazione di riscatto ex art. 8, legge 26 maggio 1965, n. 590, ed ha precisato che essa è idonea a produrre effetto o, ai sensi dell'art. 1334 cod. civ., una volta giunta a conoscenza del destinatario o, in base al disposto dell'art. 1335 cod. civ., dopo che sia pervenuta all'indirizzo di quest'ultimo, con relativa presunzione di conoscenza.

In tema di lavoro pubblico privatizzato, Sez. L, n. 14275, Rv. 631607, est. Maisano, ha ribadito che ricorre un'offerta al pubblico nell'ipotesi in cui il datore di lavoro abbia indetto un concorso interno per coprire i posti di una determinata qualifica mediante la pubblicazione di un bando contenente gli elementi essenziali, nonché la previsione del diritto del vincitore del concorso di ricoprire la posizione disponibile e la data di decorrenza di questa. Da ciò deriva che il datore di lavoro deve adempiere alle obbligazioni assunte, mentre nel patrimonio dell'interessato si consolida una situazione giuridica soggettiva dalla quale il primo non può sciogliersi autonomamente.

La Corte, peraltro, ha precisato - Sez. 3, n. 20167, Rv. 632821, est. Chiarini - che la presunzione di conoscibilità di un atto giuridico recettizio necessita della prova, anche presuntiva, purché rispetti i requisiti di cui all'art. 2729 cod. civ., che questo sia giunto all'indirizzo del destinatario. Ne consegue che in presenza di contestazioni non è sufficiente la prova della spedizione a fondare la presunzione di conoscenza a meno che, in ragione delle modalità di trasmissione dell'atto e per i particolari doveri di consegna dell'agente postale, non si possa ritenere l'arrivo nel luogo di destinazione, presunzione, il che va escluso nel caso in cui l'invio dell'atto sia avvenuto per posta semplice.

Infine, secondo Sez. 3, n. 18185, Rv. 633063, est. Stalla, in materia di formazione del contratto l'art. 1326 cod. civ. non richiede che la proposta scritta sia contenuta in un unico documento.

3. Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale.

In tema di appello al pubblico risparmio Sez. 3, n. 15224, Rv. 631740 e Rv. 631741, est. Lanzillo, ha chiarito che i principi di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 cod. civ. e 1375 cod. civ. impongono che l'offerta di titoli di partecipazione avvenga con modalità che permettano all'investitore di analizzare in maniera completa l'offerta e la convenienza dell'operazione, per cui la banca che abbia un vantaggio informativo ha il dovere di non approfittarne in danno altrui. Inoltre, i doveri di correttezza e trasparenza gravanti sugli operatori finanziari hanno un ambito di applicazione più ampio rispetto a quelli previsti dai summenzionati articoli 1175 cod. civ. e 1375 cod. civ., e, quindi, in caso di omessa informazione nei confronti degli investitori, a rispondere del danno derivante dal minor valore del titolo rispetto all'importo pagato per acquistarlo sono le banche in solido anche in mancanza di un rapporto diretto con detti investitori.

Va messa in particolare evidenza Sez. 1, n. 15260, Rv. 631507, est. Cristiano, la quale ha affermato che la responsabilità della P.A. è configurabile qualora l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede. Ha precisato che all'osservanza di tali principi la parte pubblica è tenuta già nel corso del procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente e che la sua responsabilità per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337 cod. civ. sorge a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante. In tal modo, la Suprema Corte si è consapevolmente discostata dal proprio tradizionale orientamento, espresso da ultimo da Sez. 2, n. 477 del 2013, Rv. 624592, est. Petitti, secondo il quale non è ipotizzabile una responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione, per violazione del dovere di correttezza di cui all'art. 1337 cod. civ., rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, mentre questa è ammissibile con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative dell'ente è sindacabile ove siano stati violati i doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all'affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto.

È stato poi ribadito - Sez. 1, n. 12698, Rv. 631314, est. Campanile - il principio che anche nell'appalto di opere pubbliche sussiste in capo alla P.A. un dovere di cooperare all'adempimento dell'appaltatore ponendo in essere quelle attività necessarie perché quest'ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, mentre Sez. 1, n. 6747, Rv. 630567, est. Di Amato, ha confermato il precedente orientamento, affermando che il presupposto dell'integrazione di cui all'articolo 1374 cod. civ. è l'incompleta od ambigua espressione della volontà delle parti, per cui ove questa sia completa ed inequivoca non può venire in questione un problema di integrazione del contratto.

Secondo Sez. 2, n. 9220, Rv. 630872, est. Proto, il prestatore d'opera intellettuale nel recedere dal contratto deve evitare al cliente il pregiudizio derivante dall'improvvisa rottura, concedendogli il tempo necessario a provvedere ai propri interessi.

Infine, in tema di responsabilità civile, Sez. 3, n. 1607, Rv. 629828, est. Barreca, ha chiarito che l'assicuratore viola i doveri di correttezza e buona fede qualora, nel corso delle trattative stragiudiziali, non informi l'assicurato che il contratto fa gravare esclusivamente su di lui il danno da mora verso il terzo danneggiato, a meno che non vi sia stata una costante interlocuzione fra danneggiato, assicurato ed assicuratore che abbia reso inutile tale avvertimento.

4. Condizioni generali e clausole vessatorie.

Per quanto riguarda le clausole vessatorie, la Suprema Corte ha manifestato un orientamento volto a ridurre le formalità gravanti sulle parti.

Così, Sez. 6-3, n. 12708, Rv. 631182, est. Ambrosio, ha affermato che, qualora non sia imposta la forma scritta per un contratto, l'obbligo ex art. 1341 cod. civ. della specifica approvazione per iscritto è limitato alla sola clausola vessatoria, senza che sia necessario trascriverne integralmente il contenuto, ma bastando il richiamo, tramite numero o titolo, alla clausola stessa.

L'accordo fra l'Inps ed il soggetto debitore di contributi previdenziali che avvenga con la sottoscrizione di una istanza di dilazione di pagamento con relativa determinazione delle sanzioni dovute contenuta in un modulo a stampa predisposto dall'istituto, non è, peraltro qualificabile come contratto per adesione, poiché il contribuente può contestare l'entità delle somme richieste e domandare modifiche migliorative in suo favore prima di apporre la firma (Sez. L, n. 2062, Rv. 629886, est. Venuti). Inoltre, ha precisato che la clausola di rinuncia a sollevare future eccezioni non è vessatoria, essendo la vicenda negoziale vantaggiosa per entrambe le parti.

Infine, secondo Sez. 3, n. 22806, Rv. 633290, est. Sestini, le clausole di un contratto di assicurazione contro il furto per mezzo delle quali la garanzia assicurativa venga subordinata all'adozione di speciali dispositivi di sicurezza od all'osservanza di oneri diversi, non limitano la responsabilità dell'assicuratore, e, poiché definiscono semplicemente il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa, non devono essere specificamente approvate per iscritto ai sensi dell'art. 1341 cod. civ.

5. Oggetto.

In materia di appalto, Sez. 2, n. 19413, Rv. 632365, est. Picaroni, ha affermato che in tema di appalto, la specificazione del prezzo non rappresenta un elemento essenziale dell'intesa fra le parti, con la conseguenza che, ove non sia stata data esecuzione alle previsioni contrattuali concernenti la determinazione del corrispettivo, l'entità dei lavori realizzati e la loro quantificazione vanno accertati dal giudice tramite indagine tecnica.

La determinazione della prestazione contrattuale ad opera dell'arbitratore non è peraltro - Sez. 1, n. 13379, Rv. 631380, est. Lamorgese - sindacabile nel merito, per cui questa può essere contestata solo provando che ha agito intenzionalmente in danno di una delle parti. In questa eventualità rileva l'atteggiamento psicologico dell'arbitratore che, in maniera consapevole, si sia piegato agli interessi di una parte, non la mera circostanza che l'incarico non sia stato eseguito in modo compiuto e che le determinazioni siano prive di ragionevolezza.

La Corte ha poi avuto occasione di riaffermare, con Sez. 2, n. 13222, Rv. 631145, est. Proto, che il contratto atipico che preveda a carico delle parti l'obbligo di trasferire il mero possesso di una cosa disgiunto dal relativo diritto è nullo per impossibilità dell'oggetto.

In tema di perizia contrattuale, Sez. 3, n. 7531, Rv. 630667, est. Carleo, ha chiarito che, ancorché la clausola di un contratto di assicurazione che deferisca ad un collegio di esperti l'incarico di espletare degli accertamenti in base a regole tecniche comporti la temporanea rinunzia alla tutela giurisdizionale dei diritti derivanti dal rapporto, questa limitazione viene meno ove la perizia non possa più essere espletata perché l'oggetto dell'accertamento è definitivamente venuto meno.

6. Causa.

Secondo Sez. 3, n. 16757, Rv. 632136, est. Chiarini, in caso di promessa di vendita di un bene non commerciabile, il relativo contratto preliminare è nullo per violazione di norme imperative e, ove le parti siano state entrambe partecipi di questa, il venditore ha diritto a chiedere la restituzione del bene ed il pagamento di un indennizzo per la riduzione di valore dell'immobile avvenuta nel periodo in cui era a disposizione dell'acquirente, ma non la corresponsione di un compenso per l'uso della cosa che quest'ultimo abbia fatto in tale arco di tempo.

7. Forma.

Quanto alla forma contrattuale, si segnalano alcune specificazioni del relativo obbligo individuate dalla Corte.

Così, con Sez. 2, n. 21352, Rv. 632609, est. Nuzzo, l'oggetto dei contratti per i quali sia prevista la forma scritta ad substantiam deve essere determinato o determinabile utilizzando gli elementi presenti nel contratto stesso. Pertanto, qualora le parti di una compravendita immobiliare abbiano individuato il bene riferendosi ad una planimetria allegata, questa deve essere sia sottoscritta dai contraenti che indicata nel contratto come parte del relativo contenuto.

È stato poi ribadito - Sez. 6-3, n. 18107, Rv. 632001, est. Amendola - l'obbligo di stipulazione in forma scritta dei contratti di affitto conclusi dalla Pubblica Amministrazione, così da escluderne la rinnovazione tacita per facta concludentia, a meno che, nel caso di omesso invio della disdetta, tale rinnovazione sia prevista da apposita clausola dell'originario contratto redatto per iscritto. Sez. 3, n. 9975, Rv. 630636, est. Ambrosio, ha precisato, altresì, che non può ritenersi stipulato con la Pubblica Amministrazione un contratto di affitto agrario a coltivatore diretto in forza di un comportamento concludente durato anni, con la conseguenza che non ricorre una novazione soggettiva del contratto nell'ipotesi di sostituzione di fatto di persona diversa dall'affittuario nella coltivazione del terreno. Inoltre, sempre per ciò che concerne gli stessi contratti, Sez. 3, n. 2187, Rv. 630244, est. Cirillo, ha qualificato la denuntiatio in tema di prelazione e riscatto agrario alla quale è tenuto il proprietario venditore del fondo come proposta contrattuale, la quale deve per forza rivestire la forma scritta ad substantiam e, quindi, non può essere provata per testimoni.

La Corte - Sez. 1, n. 17721, Rv. 632173, est. Piccininni - ha chiarito, inoltre, che che la clausola compromissoria inserita in un capitolato non deve essere approvata per iscritto, bastando che la volontà di rimettere le controversie ad arbitri sia desumibile da atto scritto.

In materia di comunicazioni telematiche tra banche, si è poi stabilito - Sez. 1, n. 13020, Rv. 631366, est. Didone - che il sistema swift è riconducibile allo schema dei contratti per adesione, le cui regole di forma relative alle comunicazioni contrattuali sono disciplinate dal manuale ufficiale di funzionamento del sistema. Tali regole sono state considerate un requisito di forma convenzionale stabilito ad substantiam, con conseguente nullità del messaggio swift privo dell'indicazione dell'apposito codice informatico alfanumerico previsto dal summenzionato manuale.

La Corte ha poi ribadito alcuni dei suoi principi in materia di forma.

Quindi, Sez. 6-3, n. 12711, Rv. 631163, est. Amendola, ha confermato che nei contratti per i quali la legge imponga la forma scritta ad substantiam, occorre, perché l'accordo possa ritenersi perfezionato, non solo che il contratto sia prodotto in giudizio ad opera della parte che non lo ha sottoscritto, ma, altresì, che tale produzione avvenga per ottenere l'adempimento delle obbligazioni che ne derivano.

Su altro versante, poi, Sez. 2, n. 12685, Rv. 631139, est. Bucciante, ha ribadito che la rinunzia a fare valere un testamento, nell'ipotesi in cui nella successione rientrino degli immobili, deve essere redatta per atto scritto con l'accordo di tutti i coeredi, mentre, per Sez. 1, n. 11757, Rv. 631477, est. Bisogni, il pactum fiduciae per mezzo del quale il fiduciario si impegna a modificare la propria situazione giuridica in favore del fiduciante o di altro soggetto da lui designato, necessita, qualora abbia ad oggetto beni immobili, della forma scritta ad substantiam, con la conseguenza che è possibile escludere l'applicazione delle preclusioni alla prova per testimoni stabilite dagli articoli 2721 e segg. cod. civ. solo quando non vi sia un trasferimento neppure indiretto di beni immobili ed il patto miri a costituire obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di conseguire uno scopo ulteriore rispetto a quello relativo all'accordo, senza contraddire direttamente il contenuto espresso del contratto scritto.

Giova rilevare, poi, che per Sez. 2, n. 9219, Rv. 630873, est. Migliucci, l'azienda speciale, ancorché agisca iure privatorum, è sempre soggetta alla regola che impone la forma scritta ad substantiam per la conclusione dei contratti della P.A. Tale conclusione si pone in linea con la parallela affermazione - Sez. 1, n. 6555, Rv. 630054, est. Salvago - che i contratti con la P.A., dovendo essere redatti per iscritto, vanno sottoscritti dall'organo rappresentativo esterno dell'ente e dalla controparte, in un unico documento, contenente le clausole disciplinanti il rapporto.

In un caso che si segnala per la sua particolarità, Sez. 1, n. 3889, Rv. 629599, est. Lamorgese ha ritenuto che, poiché il contratto di gestione di portafoglio di investimento stipulato con un intermediario finanziario deve essere redatto per iscritto a pena di nullità e visto che tale forma scritta, essendo stata prevista dalla legge a protezione dell'investitore, non ammette equipollenti o ratifiche, non integra detto requisito formale la sottoscrizione del documento sui rischi generali di cui all'art. 28 del Regolamento Consob 1° luglio 1998, n. 11522.

Anche la costituzione dell'obbligo di pagare interessi in misura superiore rispetto a quella legale necessita della forma scritta ad substantiam, sicché, in assenza di sottoscrizione del relativo patto, tale accordo non può reputarsi concluso per facta concludentia (Sez. 3, n. 3017, Rv. 629683, est. Vincenti).

8. Preliminare ed esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre.

Al fine di meglio chiarire i rapporti fra contratto preliminare e sentenza ex art. 2932 cod. civ., Sez. 6-2, n. 18467, Rv. 632040, est. Manna, ha precisato che la sentenza emessa ai sensi dell'art. 2932 cod. civ. in tema di contratto preliminare si sostituisce al contratto definitivo limitandosi a surrogarne gli effetti, e non contiene alcun accertamento relativamente alla successiva attuazione del vincolo in senso conforme al pattuito, a meno che sul punto non vi sia stata apposita pronuncia ovvero non venga in rilievo un contratto definitivo cosiddetto autoesecutivo.

In tale ottica, Sez. 2, n. 8081, Rv. 630399, est. Falaschi, ha chiarito che l'irregolarità urbanistica che non oltrepassi la parziale difformità dalla concessione non preclude la pronuncia della sentenza ex art. 2932 cod. civ., visto che il corrispondente atto di trasferimento non sarebbe nullo.

È stato poi ribadito da Sez. 2, n. 5776, Rv. 630335, est. Scalisi, come in tema di contratto preliminare, qualora un promissario acquirente receda dal preliminare di compravendita, l'altro possa comunque chiedere la stipula del definitivo ed agire ex art. 2932 cod. civ., corrispondendo l'intero prezzo.

Secondo Sez. 6-2, n. 21286, Rv. 632332, est. Petitti, in presenza di un preliminare di vendita di un bene immobile concluso solamente da uno dei comproprietari pro indiviso, il promissario acquirente non può chiedere, ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., il trasferimento coattivo della sola quota dello stipulante.

Si è poi affermato - Sez. 1, n. 22984, Rv. 633247, est. Scaldaferri - che, nell'ipotesi in cui le parti di un contratto preliminare abbiano successivamente stipulato il contratto definitivo, questo rappresenta l'unica fonte dei loro diritti ed obbligazioni, per cui le clausole del preliminare successivamente non riprodotte si presumono non conformi alla volontà dei contraenti espressa nel definitivo, dovendo, però, il giudice sempre verificare se tale presunzione non possa essere superata da elementi di segno opposto offerti dalle parti o desumibili dagli atti.

9. Condizione.

Per ciò che concerne, invece, le diverse tipologie di condizione che possono essere apposte ad un contratto, Sez. 3, n. 18239, Rv. 632069, est. Lanzillo, ha precisato che ricorre una condizione meramente potestativa quando viene in esame un fatto volontario del quale il compimento o l'omissione non dipendono da seri od apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da ogni razionale valutazione di opportunità e convenienza e tale da manifestare l'assenza di una seria volontà della parte stessa di ritenersi vincolata dal contratto. Sussiste, invece, una condizione potestativa ove l'evento dedotto in condizione sia collegato a valutazioni di interesse e convenienza, in particolare qualora la decisione sia affidata al concorso di fattori estrinseci in grado di influire sulla determinazione della volontà, ancorché la relativa valutazione sia rimessa all'esclusivo apprezzamento dell'interessato.

Si è poi chiarito - Sez. 1, n. 7405, Rv. 630139, est. Salvago - che, ove un Comune subordini il pagamento del compenso di professionisti dallo stesso scelti agendo iure privatorum per redigere un progetto alla condizione potestativa mista del conseguimento di un finanziamento ad opera di terzi, esso è tenuto, in pendenza della condizione, ad agire secondo buona fede ai sensi dell'art. 1358 cod. civ. e, pertanto, a domandare il finanziamento in questione, mentre non assume rilievo alcuno la questione della attualità o della persistenza di un interesse pubblico alla redazione del suddetto progetto. Inoltre, Sez. 1, n. 12, Rv. 629297, est. Mercolino, ha qualificato come contrario a buona fede (con conseguente avveramento della condizione apposta) il comportamento del Comune che, dopo avere subordinato il pagamento di un professionista incaricato dell'elaborazione di un progetto di opera pubblica alla condizione dell'ottenimento del finanziamento di questo da parte della Regione e della presentazione della relativa richiesta ad opera del Comune medesimo, abbia affidato tale progetto ad altro professionista.

Nella stessa prospettiva Sez. 2, n. 3207, Rv. 629545 e Rv. 629546, est. Matera, ha affermato che la parte la quale si sia obbligata a vendere (od abbia venduto) un bene sotto la condizione sospensiva del rilascio delle autorizzazioni amministrative necessarie all'altro contraente, deve compiere secondo buona fede tutto ciò che è necessario per fare avverare la condizione e, quindi, non deve impedire alla Pubblica Amministrazione di rilasciare le dette autorizzazioni. In caso contrario, la controparte ben può domandare la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno qualora risulti che la condizione avrebbe potuto avverarsi nel momento in cui è avvenuto l'inadempimento. Inoltre, la vendita di un terreno ben può essere sottoposta alla condizione sospensiva del mutamento della legislazione o di norme operanti erga omnes (nella specie, degli strumenti urbanistici), ferma restando l'inefficacia del contratto qualora tale mutamento non si verifichi.

10. Interpretazione e qualificazione del contratto.

È stata ribadita, innanzitutto, la priorità del canone ermeneutico fondato sul significato letterale delle parole, con la conseguenza che, qualora sia sufficiente, l'operazione ermeneutica è da considerare conclusa (Sez. 3, n. 5595, Rv. 630563, est. Carleo).

Si è poi ribadito - Sez. L, n. 12360, Rv. 631051, est. Amendola - che il principio in claris non fit interpretatio presuppone che il testo sia talmente chiaro da precludere la ricerca di una volontà diversa, con la conseguenza che il giudice ha il potere dovere di accertare se l'intenzione comune delle parti risulti in maniera certa ed immediata dalla lettera del contratto, mediante l'impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, compreso quello che dà valore al comportamento complessivo delle parti.

La Corte, con Sez. 3, n. 15476, Rv. 631744, est. Rossetti, ha, peraltro, chiarito che, ove il testo che determina l'oggetto di una polizza fideiussoria sia ambiguo, trova applicazione il principio espresso dall'art. 1370 cod. civ. in base al quale le clausole predisposte da uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, in favore dell'altro.

Anche in tema di interpretazione del contratto, i contraenti che si avvalgano di dipendenti ed ausiliari, rispondono pure del loro comportamento e dell'organizzazione dell'attività. La condotta del personale di una parte che contrasti con il tenore letterale di una clausola contrattuale può non assumere significato qualora l'azione sia inconsapevole o meramente erronea (Sez. 3, n. 11533, Rv. 631301, est. Lanzillo).

Secondo Sez. 2, n. 5782, Rv. 630422, est. Carrato, poi, la buona fede serve ad escludere significati unilaterali od in contrasto con l'affidamento dell'uomo medio.

Seguendo lo stesso ragionamento, Sez. 2, n. 5605, Rv. 629681, est. Scalisi, si è occupata anche della qualificazione del contratto traslativo della proprietà di un bene nel quale la controprestazione sia rappresentata da una cosa in natura e da una somma di denaro ed ha stabilito che, per accertare se ricorra una compravendita od una permuta, qualora si escludano la duplicità dei negozi ed il contratto a causa mista, si deve considerare non la prevalenza del valore economico del bene in natura o della somma di denaro, ma la comune intenzione delle parti.

Sempre in materia di trasferimenti immobiliari si è affermato, Sez. 2, n. 817, Rv. 628916, est. Carrato, che, benché l'oggetto e gli altri elementi essenziali del contratto debbano risultare per iscritto, il giudice può tenere conto, al fine di interpretare la volontà delle parti, del comportamento di queste ultime, pure posteriore alla conclusione del contratto, sia che sia stato riferito da testimoni sia che risulti da documenti, così da chiarirne l'effettiva intenzione ed accertare l'esatta consistenza dell'oggetto trasferito.

Sul tema specifico dell'arbitrato, Sez. 1, n. 6125, Rv. 630518, est. Campanile - ha, poi, precisato che i canoni ermeneutici negoziali sono applicabili all'arbitrato irrituale, in quanto le parti affidano la questione all'arbitro solamente tramite lo strumento negoziale. Tale applicazione deve, invece, essere esclusa nell'ipotesi di proposizione di domanda giudiziale, non essendo possibile in questo caso individuare una comune intenzione delle parti.

Si è, inoltre, chiarito - Sez. 3, n. 4564, Rv. 630130, est. De Stefano - che il verbale di conciliazione giudiziale ha natura negoziale, benché redatto con l'intervento del giudice, per cui va interpretato applicando gli articoli 1362 e segg. cod. civ.

Secondo Sez. U, n. 774, Rv. 629370, est. Vivaldi, le regole di ermeneutica contrattuale devono essere utilizzate pure per interpretare le clausole di una convenzione urbanistica, in particolare alla luce delle regole di buona fede e correttezza che regolano le fasi di formazione, conclusione ed esecuzione della convenzione stessa.

Si è, peraltro, distinto - Sez. 2, n. 4205, Rv. 629624, est. Proto - tra interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali, che deve avvenire utilizzando i canoni ermeneutici previsti dagli articoli 12 e seguenti delle preleggi, da quella degli atti processuali delle parti, per i quali trovano applicazione i criteri ermeneutici di cui all'art. 1362 cod. civ.

Correlativamente si è precisato - Sez. 1, n. 2120, Rv. 629529, est. Ceccherini - che le parti non hanno la facoltà di qualificare un pegno come regolare od irregolare, in quanto tale conseguenza giuridica discende da norme del codice civile di carattere indisponibile.

11. Penale e caparra.

Secondo Sez. 3, n. 14764, Rv. 631760, est. Chiarini, la pattuizione di una clausola penale in un contratto preliminare non esclude che al rapporto si applichi la disciplina delle obbligazioni, con la conseguenza che il promittente venditore che abbia assunto una obbligazione di facere per stipulare il definitivo risponde del relativo inadempimento solamente se nella sua condotta sia ravvisabile colpa o negligenza.

In tema di leasing immobiliare, Sez. 3, n. 888, Rv. 629425, est. Lanzillo, ha stabilito che, al fine di accertare se una clausola penale, che assegna al concedente, in caso di inadempimento dell'utilizzatore, l'importo del finanziamento e la proprietà del bene, sia manifestamente eccessiva, bisogna verificare se tale previsione non dia al concedente vantaggi maggiori di quelli che potrebbe ottenere se il contratto fosse regolarmente eseguito.

Altre decisioni rilevanti, in tema di caparra confirmatoria, sono state Sez. 2, n. 17401, Rv. 631836, est. Migliucci, che ha chiarito che la stessa non è incompatibile con il contratto definitivo, sebbene sia più congeniale al contratto preliminare, nonché Sez. 3, n. 14776, Rv. 631704, est. Carleo, che ha confermato che il giudice non ha il potere di ridurrla applicando la normativa sulla clausola penale.

12. Rappresentanza e ratifica.

Sono stati affermati alcuni principi in tema di ratifica.

Invero, per Sez. 2, n. 13774, Rv. 631244, est. Bianchini, le deliberazioni dell'assemblea di un'associazione riconosciuta possono valere come ratifica degli atti posti in essere da soggetto privo di potere rappresentativo, mentre Sez. 3, n. 3616, Rv. 630358, est. Stalla, ha precisato che la ratifica può avere ad oggetto pure il recesso del contratto di locazione.

Inoltre, Sez. 2, n. 2153, Rv. 629565, est. Mazzacane, ha ribadito che, nel caso di rappresentanza senza potere, la ratifica del dominus non si verifica con la semplice conoscenza dell'attività posta in essere dal falsus procurator, ma necessita di una manifestazione di volontà diretta ad approvare il contratto ed a farne propri gli effetti.

In tema di enti pubblici Sez. 1, n. 12179, Rv. 631491, est. Mercolino, ha stabilito che, in tema di rappresentanza, non si applica il principio dell'apparenza del diritto che tutela l'affidamento del terzo contraente, in ragione della presunzione di conoscenza delle disposizioni inderogabili di legge che ne regolano la rappresentanza esterna.

13. Cessione del contratto.

Secondo Sez. 3, n. 4067, Rv. 629694, est. Vincenti, la cessione del contratto di locazione di un immobile destinato ad attività d'impresa che sia contestuale a quella dell'azienda del conduttore diviene efficace nei confronti del ceduto solo dopo che sia stata a lui comunicata e, in assenza di tale comunicazione, non è opponibile al locatore ceduto, pur non essendo questa requisito di validità della cessione fra il conduttore cedente ed il terzo cessionario.

La cessione dell'appalto, peraltro, può desumersi dalla volontà comunque manifestata dalle parti, venendo in esame un contratto a forma libera (Sez. 6-2, n. 3916, Rv. 629734, est. Giusti).

14. Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi.

La Corte con Sez. 2, n. 18490, Rv. 632222, est. Mazzacane, ha ribadito che nel contratto per persona di nominare la dichiarazione di nomina e l'accettazione del terzo devono avere la medesima forma del contratto. In un caso concernente un preliminare di vendita di un bene immobile ha ritenuto sufficiente a tal fine, peraltro, l'arrivo all'altro contraente di una comunicazione scritta indicante la chiara volontà di designare il terzo e l'accettazione di quest'ultimo, eventualmente pure contenuta nell'atto introduttivo del giudizio instaurato dal terzo verso l'altro contraente.

Si è poi affermato, Sez. 1, n. 8868, Rv. 631156, est. Campanile, che, poiché nel contratto per persona da nominare il terzo designato acquista i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto con effetto retroattivo, egli deve rispettare la clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare stipulato prima della sua nomina, benché questa sia avvenuta solo al momento della stipula del contratto definitivo.

La Corte ha peraltro chiarito - Sez. 3, n. 8272, Rv. 629909, est. Frasca - che nel contratto a favore di terzo, in mancanza di esplicite previsioni convenzionali, unicamente il terzo è legittimato ad agire per chiedere al promittente inadempiente la prestazione dovuta nei casi in cui il contratto sia idoneo a fargli acquisire il relativo diritto senza che occorra un'attività esecutiva dello stesso promittente. Qualora detta attività sia, invece, necessaria, sussiste, altresì, una legittimazione concorrente dello stipulante.

15. Simulazione ed interposizione di persona.

Nell'ipotesi in cui uno stesso soggetto acquisti, con un unico rogito notarile, più beni o più quote di un bene da venditori diversi, Sez. 1, n. 20294, Rv. 632292, est. Mercolino, ha stabilito che il documento contrattuale, ancorché formalmente unico, è costituito da più atti fra loro autonomi, con la conseguenza che le parti di ciascun atto sono da qualificare come soggetti terzi rispetto agli altri atti. Pertanto, nel giudizio di simulazione o nella revocatoria della compravendita i venditori sono litisconsorti necessari esclusivamente qualora sia impugnato il trasferimento congiunto dei beni indivisi nella loro unitarietà, oppure ove sia dedotta l'esistenza di un collegamento funzionale fra le singole vendite, ma non quando la contestazione della simulazione o dell'inefficacia del trasferimento concerna i singoli beni o le quote appartenenti ad uno dei venditori.

In punto di opponibilità della simulazione assoluta, poi, Sez. 2, n. 12953, Rv. 631138, est. Parziale, ha affermato l'opponibilità al minore di un atto eccedente l'ordinaria amministrazione che sia stato posto in essere dal legale rappresentante regolarmente autorizzato dal giudice tutelare.

Con riguardo ad un diverso profilo, invece, si è deciso - Sez. 6-1, n. 12138, Rv. 631354, est. Cristiano - che, qualora due soggetti costituiscano una società di capitali, l'intestazione ad uno di loro della partecipazione dell'altro non si risolve né in una interposizione fittizia di persona, né in una simulazione assoluta del contratto che ha dato origine alla società, con la conseguenza che il solo strumento per mezzo del quale fare emergere la realtà del rapporto è rappresentato dalle azioni di accertamento e di adempimento di un negozio fiduciario.

La Corte, con Sez. 1, n. 8957, Rv. 631125, est. Mercolino, ha stabilito che l'azione di simulazione assoluta o relativa dà luogo ad un litisconsorzio necessario di ogni partecipante dell'accordo simulatorio. Sul punto, si segnala che secondo Sez. U, n. 11523 del 2013, Rv. 626187, est. Petitti, nel giudizio concernente la simulazione relativa di una compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente, l'alienante non riveste la qualità di litisconsorte necessario, ove nei suoi confronti il contratto sia stato integralmente eseguito, mediante adempimento degli obblighi tipici di trasferimento del bene e di pagamento del prezzo, e non vengano dedotti ed allegati né l'interesse dello stesso ad essere parte del processo, né la consapevolezza e la volontà del venditore di aderire all'accordo simulatorio. Tale ultima pronuncia era stata motivata anche con riferimento ai principi del giusto processo ex art. 111 Cost., che portano a contemperare le esigenze pubblicistiche del litisconsorzio necessario ed il dovere del giudice di accertare la ricorrenza di un reale interesse a contraddire del soggetto pretermesso.

In materia tributaria, Sez. 5, n. 1568, Rv. 629503, est. Valitutti, ha ribadito che, qualora l'amministrazione finanziaria sostenga, al fine di applicare regolarmente le imposte, la simulazione assoluta o relativa di un contratto concluso dal contribuente, essa può dimostrare detta simulazione con ogni mezzo, poiché riveste la qualità di terzo, senza, però, potersi limitare ai soli profili oggettivi, ma dovendo provare pure quelli di carattere soggettivo.

Inoltre, secondo Sez. 2, n. 22454, Rv. 632953, est. Abete, la dichiarazione che attesta il versamento del prezzo di una compravendita immobiliare contenuta in un rogito notarile non è vincolante verso il creditore di una delle parti che abbia chiesto l'accertamento della simulazione dell'alienazione, essendo un soggetto terzo rispetto ai contraenti.

16. Nullità del contratto.

La Corte con Sez. 1, n. 8462, Rv. 630886, est. Didone, ha affermato, in tema di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, che solo la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto può, ove non altrimenti stabilito dalla legge, comportarne la nullità, mentre il mancato rispetto di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, può essere fonte di responsabilità.

Pertanto, in materia di intermediazione finanziaria, ha concluso che la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni posti dalla legge a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale qualora avvenga nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto quadro di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti. Essa è, invece, fonte di responsabilità contrattuale e può condurre alla risoluzione del contratto, ove riguardi le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del suddetto contratto quadro. Ha escluso, però, che la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare la nullità del contratto quadro o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso.

Secondo Sez. 2, n. 2447, Rv. 629709, est. Carrato, colui che esercita l'azione di nullità deve dimostrare l'esistenza di un proprio concreto interesse, non potendo agire semplicemente per un fine collettivo di attuazione della legge.

Merita di essere segnalata, in quanto di notevole importanza, Sez. U, n. 26242, in corso di massimazione, est. Travaglino, la quale ha affrontato da vari punti di vista il rapporto fra rilievo di ufficio della nullità di un contratto e le altre azioni volte a rimuoverne gli effetti (annullamento, rescissione, risoluzione), anche alla luce dell'idoneità della pronuncia a passare in giudicato quanto alla affermazione, sia esplicita che implicita, della nullità o meno del negozio.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, ribadito l'assunto già presente in Sez. U, n. 14828 del 2012, Rv. 623290, est. D'Ascola, per il quale il rilievo officioso da parte del giudice della nullità del contratto consiste nella tutela di interessi generali sovraindividuali. Peraltro, ha rivisto e precisato l'affermazione, presente sempre in Sez. U, n. 14828 del 2012, Rv. 623290, est. D'Ascola, in base alla quale al giudice sarebbe vietata ogni indagine concernente una nullità di protezione, ciò alla luce pure della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, da cui è possibile evincere un chiaro rafforzamento del potere-dovere del giudice di rilevare d'ufficio la nullità, anche al fine di non ridurre la deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole. La Suprema Corte ha, quindi, ritenuto l'esistenza di una unità funzionale della categoria della nullità, distinguendo fra la rilevazione di questa, la quale sarà sempre obbligatoria, con relativa indicazione alle parti, e la sua dichiarazione, in motivazione o nel dispositivo, che sarà, invece, non sempre dovuta, almeno nei casi in cui, in presenza di nullità speciali o di protezione, la parte interessata ritenga di non avvalersene e chieda una pronuncia nel merito, oppure qualora venga in questione una decisione fondata sulla cosiddetta ragione più liquida.

In particolare, ha chiarito che l'ordine di esame delle questioni processuali rispetto a quello delle questioni attinenti alla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio dipende da vari parametri, fra cui soprattutto, appunto l'idoneità (o liquidità) di una data questione a definire il giudizio, nel senso che occorre dare priorità alla ragione più evidente che porti ad una decisione, sia essa di rito che di merito.

La Suprema Corte ha, affermato, così meglio specificando il proprio precedente orientamento, che la rilevabilità d'ufficio della nullità va estesa a tutte le ipotesi di azioni di impugnativa negoziale, vale a dire alle azioni di adempimento, risoluzione (siano esse per inadempimento, eccessiva onerosità sopravvenuta od impossibilità sopravvenuta), rescissione e annullamento. Ciò alla luce del riconoscimento dell'omogeneità funzionale delle azioni di impugnativa negoziale, operando una ricostruzione unitaria della fattispecie del negozio ad efficacia eliminabile.

La Suprema Corte ha, poi, mutato il proprio orientamento espresso, fra le molte, da Sez. 1, n. 21600 del 2013, Rv. 628045, est. Mercolino, ed ha stabilito che il giudice può legittimamente procedere al rilievo officioso di una causa di nullità diversa da quella sottoposta al suo esame dalla parte.

Essa ha modificato la propria giurisprudenza pure con riguardo al tema della nullità parziale, in quanto, diversamente da come deciso da Sez. 1, n. 16017 del 2008, Rv. 604010, est. Panzani, ha chiarito che il giudice può sempre rilevare la nullità totale dell'intero contratto, ancorché si sia discusso solamente dell'invalidità di una singola clausola, con possibilità di dichiararla ove una delle parti formuli di conseguenza domanda di accertamento di nullità totale dell'atto, ed obbligo di rigettare l'originaria domanda di invalidità parziale qualora le parti insistano nel mantenerla (le stesse considerazioni sono state svolte con riguardo all'ipotesi di domanda di nullità totale e rilievo ad opera del giudice di una nullità solo parziale).

La Suprema Corte ha, quindi, escluso la possibilità di rilevare d'ufficio una possibile conversione del contratto.

In sintesi, essa ha affermato, con riferimento ai rapporti fra nullità negoziale ed impugnative negoziali, che il giudice ha l'obbligo di rilevare sempre una causa di nullità negoziale, e, dopo averla rilevata, ha la facoltà di dichiarare la nullità del negozio, salvo i casi di nullità speciali o di protezione rilevati e indicati alla parte interessata senza che questa manifesti interesse alla dichiarazione, e rigettare la domanda di adempimento, risoluzione, annullamento e rescissione, specificando in motivazione che il rigetto è dovuto alla nullità del negozio, con una decisione che ha attitudine a divenire cosa giudicata in ordine alla nullità negoziale. Inoltre, il giudice deve rigettare la domanda di adempimento, risoluzione, rescissione ed annullamento senza rilevare né dichiarare la nullità, se fonda la decisione sulla ragione più liquida, senza esaminare in alcun modo il tema della validità del negozio, così non formandosi alcun giudicato sulla nullità. Il giudice potrà, poi, dichiarare la nullità del negozio nel dispositivo della sentenza, con effetto di giudicato in assenza di impugnazione, qualora, dopo avere prospettato alle parti la questione, una di esse ne domandi l'accertamento. Diversamente, in mancanza di domanda di accertamento proposta da una delle parti in seguito alla segnalazione d'ufficio della nullità del negozio, il giudice dichiarerà detta nullità nella motivazione della sentenza, con effetto di giudicato in assenza di impugnazione. In ogni caso, in appello e in cassazione, in caso di mancata rilevazione officiosa della nullità in primo grado, il giudice mantiene sempre il potere di rilevare d'ufficio la nullità.

La Suprema Corte, con riguardo alla mancata rilevazione officiosa della nullità ad opera del giudice opera una ulteriore importante distinzione.

Infatti, se il giudice accoglie la domanda di adempimento, risoluzione, rescissione od annullamento la pronuncia è idonea alla formazione del giudicato implicito sulla validità del negozio. Se, al contrario, il giudice respinge tale domanda si forma il giudicato implicito sulla validità del negozio, a meno che la decisione non risulti fondata sulla ragione più liquida. Negli altri casi in cui il giudice rigetta la domanda, il giudicato implicito sulla non nullità del negozio si forma se, nella motivazione, egli accerti e si pronunci non equivocamente nel senso della validità del negozio. Infine, qualora il giudice respinga la domanda, essendo stato sin dall'inizio investito di una domanda di nullità negoziale, senza avere rilevato altre cause di nullità negoziale, l'accertamento della non nullità del contratto è idoneo al passaggio in giudicato, per cui, in altro giudizio, non potrà essere ulteriormente addotta, a fondamento dell'azione, una diversa causa di nullità.

Si segnala pure, sempre in tema di rilievo della nullità del contratto, che con Sez. U, 26243, ancora in corso di massimazione, est. Travaglino, è stato chiarito che l'art. 1421 cod. civ. è applicabile senza limitazioni di grado, con la conseguenza che il giudice di appello deve rilevare d'ufficio una causa di nullità non dedotta né rilevata in primo grado, indicandola alle parti ai sensi dell'art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., e che tale obbligo può essere attivato da ciascuna delle parti ai sensi dell'art. 345, secondo comma, cod. proc. civ., che consente la proposizione di eccezioni rilevabili d'ufficio. La declaratoria di inammissibilità della domanda di nullità, proposta per la prima volta in appello, per novità della questione, non ne impedisce la conversione e l'esame quale eccezione di nullità, con il giudice d'appello che non può limitarsi ad una declaratoria di inammissibilità della domanda, ma deve valutare nel merito la questione sollevata in via di eccezione.

17. Annullabilità e Rescissione del contratto.

Si è precisato - Sez. 1, n. 16004, Rv. 632204, est. Lamorgese - che le dichiarazioni mendaci configurano dolo contrattuale, la cui rilevanza è tanto maggiore in relazione all'affidabilità intrinseca degli atti utilizzati e se queste siano rese da una parte con la deliberata finalità di offrire una rappresentazione alterata della veridicità dei presupposti di fatto rilevanti e di viziare nell'altra il processo formativo della volontà negoziale.

Il dolo decettivo, inoltre, comporta - Sez. 3, n. 4065, Rv. 630314, est. Rossetti - l'annullamento del contratto in relazione ad ogni errore in cui il deceptus sia stato indotto, compreso quello relativo al valore od alle qualità del bene oggetto del negozio.

In tema di prescrizione Sez. 2, n. 1617, Rv. 629526, est. Parziale, ha ribadito che l'art. 2947, terzo comma, cod. civ., non si applica all'azione di annullamento, neanche ove il vizio del consenso dipenda da un fatto-reato.

Va segnalato, infine, Sez. 2, n. 10976, 630661, est. Migliucci, secondo la quale l'offerta di modificare il contratto rescindibile per ricondurlo ad equità può consistere, ove avvenga in giudizio, nella semplice richiesta che sia il giudice a determinarla utilizzando elementi oggettivi da accertarsi in giudizio.

18. Risoluzione del contratto.

Per quanto riguarda la risoluzione del contratto sono stati chiariti alcuni profili concernenti l'accertamento dei relativi presupposti.

Così, Sez. 2, n. 18696, Rv. 632107, est. Abete, ha affermato che l'intimazione della diffida ad adempiere prevista dall'art. 1454 cod. civ., nonostante il termine ivi indicato per l'adempimento sia inutilmente decorso, non esclude la necessità che sia accertata la gravità dell'inadempimento con riferimento alla situazione verificatasi allo scadere del termine ed alla permanenza dell'interesse della parte all'adempimento.

Si è, inoltre, chiarito - Sez. 2, n. 14120, Rv. 631172, est. Bucciante - che la risoluzione per inadempimento dell'onere apposto ad una donazione modale non può essere pronunciata in assenza di una valutazione della gravità dell'inadempimento, neppure in forza di una clausola risolutiva espressa.

In tema di determinazione della prestazione rimessa ad un terzo, Sez. 1, n. 13379, Rv. 631381, est. Lamorgese, ha precisato che il contratto di conferimento di incarico professionale o di mandato al terzo arbitratore non può essere risolto per inadempimento ai sensi degli articoli 1453 ed 1455 cod. civ., in quanto la decisione dell'arbitratore può essere contestata solo se manifestamente iniqua od erronea o se assunta in malafede.

In tema di diffida ad adempiere, Sez. 1, n. 11493, Rv. 631483, est. Salvago, ha stabilito che il giudizio sulla congruità del termine di quindici giorni di cui all'art. 1454 cod. civ. va compiuto prendendo in esame non solamente la situazione del debitore, ma pure l'interesse del creditore all'adempimento ed il sacrificio che egli subisce per il ritardo.

Nei contratti agrari, secondo Sez. 3, n. 10538, Rv. 630906, est. Amendola, le ipotesi di inadempimento grave menzionate dall'art. 5, secondo comma, legge 3 maggio 1982, n. 203, hanno carattere solo esemplificativo, assumendo rilievo, ai fini della risoluzione per inadempimento, ogni condotta del conduttore che comporti una gestione impropria del fondo lesiva degli interessi del concedente.

Secondo Sez. U, n. 8510, Rv. 630334, est. Giusti, la parte, la quale abbia domandato la risoluzione del contratto per inadempimento durante il giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può pure chiedere, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale. In tal modo è stato superato il diverso avviso espresso di recente da Sez. 2, n. 870, Rv. 621227, est. Bucciante.

In materia di comodato, peraltro, Sez. 3, n. 6203, Rv. 629891, est. Rubino, ha escluso che possa essere proposta azione di risoluzione per inadempimento attesa la gratuità del contratto, mentre il comodante può ottenere tutela, in caso di inosservanza delle eventuali pattuizioni accessorie concordate fra le parti, chiedendo la restituzione anticipata del bene ove si siano verificati un abuso della cosa oggetto di comodato od una lesione della fiducia riposta nel comodatario.

Su altri profili la Corte si è ulteriormente pronunciata. In particolare, con Sez. 1, n. 6125, Rv. 630517, est. Campanile, ha confermato che la risoluzione del contratto per mutuo consenso può essere rilevata d'ufficio.

La Corte, con Sez. 3, n. 5639, Rv. 630187, est. Vivaldi, ha, invece, chiarito che l'obbligo restitutorio che nasce dalla risoluzione del contratto per inadempimento ha natura di debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione monetaria.

Si è precisato - Sez. 1, n. 364, Rv. 629159, est. Lamorgese - che le convenzioni urbanistiche stipulate ai sensi della legge 6 agosto 1967, n. 765, per mezzo delle quali i poteri autoritativi di controllo dell'attività edilizia sono esercitati in forma concordata, mantengono il loro carattere contrattuale, sicché, in caso di risoluzione per inadempimento della P.A., il privato ha diritto al risarcimento dei danni, i quali non corrispondono alle utilità che egli poteva ottenere da una puntuale esecuzione della convenzione, ma comprendono il costo delle opere di urbanizzazione inutilmente eseguite in forza della convenzione inadempiuta.

Va, poi, evidenziato che l'impossibilità sopravvenuta della prestazione, con conseguente estinzione dell'obbligazione, sussiste - Sez. 1, n. 20811, Rv. 632493, est. Mercolino - quando siano diventati impossibili l'adempimento della prestazione ad opera del debitore o l'uso della stessa per la controparte, purché tale impossibilità non sia imputabile al creditore ed egli non sia più interessato a ricevere la prestazione medesima.

Infine, va segnalata Sez. 2, n. 20854, Rv. 632838, est. Matera, secondo la quale, ove il negozio cessi di avere effetti ab origine al verificarsi di un evento futuro ed incerto, ricorre una condizione risolutiva, mentre, quando sia stato previsto lo scioglimento del contratto qualora una obbligazione non sia adempiuta, sussiste una clausola risolutiva espressa, verificandosi la risoluzione di diritto senza necessità di provare la gravità dell'inadempimento di controparte.

  • garanzia
  • locazione immobiliare
  • mandato
  • contratto di appalto previa trattativa privata
  • appalto pubblico
  • contratto di trasporto
  • assicurazione danni
  • assicurazione obbligatoria
  • assicurazione responsabilità civile
  • locazione per uso commerciale
  • vendita

CAPITOLO XI

I SINGOLI CONTRATTI

(di Irene Ambrosi, Salvatore Leuzzi )

Sommario

1 Premessa. - 2 L'appalto privato. - 3 L'appalto di opere pubbliche. - 4 L'assicurazione. - 4.1 L'assicurazione contro i danni. - 4.2 L'assicurazione della responsabilità civile. - 4.3 L'assicurazione obbligatoria della r.c.a. - 5 Il comodato. - 6 Prelazione e riscatto nei contratti agrari. - 7 Il contratti bancari (rinvio). - 8 I contratti finanziari (rinvio). - 9 Fideiussione e garanzie atipiche. - 10 La locazione. - 10.1 La locazione ad uso abitativo. - 10.2 La locazione ad uso non abitativo. - 10.3 Disciplina della locazione in generale. - 11 Il mandato. - 12 La spedizione. - 13 La mediazione. - 14 Il deposito. - 15 Il mutuo. - 16 La transazione. - 17 Il trasporto. - 18 La vendita. - 18.1 Il contratto preliminare. - 18.2 Interpretazione, consenso e vizi. - 18.3 Fattispecie speciali di vendita.

1. Premessa.

Anche nel 2014 la produzione giurisprudenziale in materia di contratti tipici si è mostrata particolarmente ricca, articolata. Denso e nutrito è stato il "pacchetto" di decisioni in materia di appalto (sia privato che di opere pubbliche, assicurazione, locazione, mandato e vendita).

Delle numerose pronunce rese verrà fornito nei §§ che seguono un dettagliato monitoraggio, muovendo dall'analisi dei più rilevanti contratti tipici secondo un ordine alfabetico.

Dall'esame delle decisioni è dato cogliere che nel complesso sono stati ribaditi e rafforzati principî già noti; si registra, nondimeno, l'emersione di taluni indirizzi significativamente innovativi, ai quali si darà, nella disamina che segue, un più ampio risalto.

Per essenziali ragioni di ordine sistematico si è preferito trattare dei contratti bancari e di quelli finanziari nella parte dedicata al diritto del mercato.

2. L'appalto privato.

Nel novero di pronunce emesse dalla Corte in materia di appalto privato, connotazione di sicuro rilievo assume Sez. U, n. 2284, Rv. 629518, est. Massera, che intervenendo sul complesso tema dei rapporti tra gli artt. 1669 e 2043 cod. civ., contiene l'ammissione della coesistenza delle azioni ivi disciplinate rispetto al medesimo evento. A detto approdo ermeneutico le Sezioni Unite giungono, sull'assunto che la responsabilità disciplinata dall'art. 1669 cod. civ. sebbene collocata entro il codice civile, configura un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale la quale, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini, essendo riconducibile a una violazione di regole primarie (di ordine pubblico), stabilite per garantire l'interesse, di carattere generale, alla sicurezza dell'attività edificatoria in funzione della salvaguardia dell'incolumità delle persone. Il rapporto fra le due evocate norme viene risolto nel senso della specialità dell'art. 1669 cod. civ. rispetto all'art. 2043 cod. civ., che risulterà applicabile quante volte la norma speciale (giustificata dall'esigenza di offrire ai danneggiati da rovina o gravi difetti di un edificio, una più ampia tutela) non lo sia in concreto. Nondimeno, nel caso in cui l'azione sia fondata sull'art. 2043 cod. civ. non opera il regime speciale di presunzione della responsabilità dell'appaltatore, tratto caratterizzante della norma speciale: spetterà, pertanto, all'attore provare tutti gli elementi richiesti dal "paradigma" dell'illecito civile e, segnatamente, la colpa dell'appaltatore.

Mette in conto evidenziare che il principio, benché dettato in riferimento ad un appalto privato, per la sua portata generale, deve ritenersi applicabile anche all'appalto di opere pubbliche.

Di rilievo appare, poi, Sez. 2, n. 19413, Rv. 632365, est. Picaroni, la quale ha escluso che la specificazione del prezzo dell'appalto costituisca elemento essenziale dell'accordo negoziale. Su questa premessa, si è evidenziato che, qualora le parti non abbiano dato esecuzione alla previsione contrattuale sulla determinazione del corrispettivo, è compito del giudice - che vi procederà a mezzo di indagine tecnica - appurare l'entità dei lavori realizzati e quantificarne il valore. La pronuncia si inserisce nell'ampio solco della giurisprudenza di legittimità tesa ad escludere che la mancata determinazione del corrispettivo d'appalto, in deroga alla disposizione generale di cui all'art. 1346 cod. civ., integri una causa di nullità del contratto, potendo lo stesso essere stabilito a posteriori, ai sensi dell'art. 1657 cod. civ. in base alle tariffe vigenti o agli usi. E detta norma trova fondamentale applicazione non solo quando le parti non abbiano nemmeno mai discusso del corrispettivo delle opere, ma anche quando esse, pur sostenendo di avere pattuito il corrispettivo, non abbiano fornito prova della differente misura dedotta.

Degna di speciale attenzione è anche Sez. 2, n. 15563, Rv. 632016, est. Migliucci, la quale, sulla premessa secondo cui, in materia di appalto, il committente può chiedere, in via alternativa, ex art. 1668 cod. civ., l'eliminazione delle difformità o dei vizi dell'opera a spese dell'appaltatore o la riduzione del prezzo (nel qual caso occorre la verifica che l'opera eseguita abbia un valore inferiore a quello che avrebbe avuto se realizzata a regola d'arte), è giunta a ritenere l'insussistenza del vizio di extrapetizione o di omessa pronuncia qualora il giudice, richiesto di condannare l'appaltatore al pagamento della somma necessaria per eliminare i vizi dell'opera, abbia determinato il conseguente minor valore della stessa, in tal modo procedendo alla riduzione del prezzo. Con ogni evidenza, la pronuncia si fa apprezzare nella misura in cui sancisce una "fungibilità" piena ed assoluta tra i rimedi dell'eliminazione dei vizi e della riduzione del prezzo di cui al secondo comma dell'art. 1668 cod. civ., che pure la norma in discorso rimette alla libera scelta del committente. La riduzione del prezzo è, nell'ottica assunta dalla Corte, una via alternativamente parallela a quella dell'eliminazione dei vizi, ponendosi entrambi i rimedi nell'identica prospettiva del ripristino del turbato equilibrio contrattuale tra le prestazioni e tutelando entrambi il medesime interesse. In tal senso, il giudice che, richiesto di condannare l'appaltatore a eliminare i vizi, abbia ritenuto di limitarsi a ridurre il prezzo dell'opera non omette di pronunciarsi e non travalica i limiti di ciò che gli è stato chiesto.

Icasticamente esplicativa è Sez. 6-2, n. 3916, Rv. 629734, est. Giusti, secondo cui, essendo l'appalto un contratto a forma libera, la sua cessione può essere desunta dalla volontà comunque manifestata dalle parti. Nel riprendere un principio consolidato, la pronuncia muove dalla presa d'atto dell'esclusione dell'appalto dal novero di contratti, per i quali l'art. 1350 cod. civ. richiede la forma scritta ad substantiam. È coerente e conseguente, in tal senso, riconoscere che il consenso alla relativa cessione possa essere preventivo, concomitante o successivo alla stipulazione e, soprattutto, che non debba necessariamente ridondare in forme solenni, potendo connotarsi finanche come tacito, purché idoneo a manifestare la volontà di porre in essere una modificazione soggettiva del rapporto.

Nell'annualità in corso, spicca anche Sez. 2, n. 4197, Rv. 629715, est. Falaschi, che, in rapporto agli appalti per la realizzazione di un'opera complessa, richiama la disciplina codicistica delle cd. obbligazioni parziarie, caratterizzate da una fonte unitaria e dall'adempimento circoscritto entro i limiti della quota del debitore o del creditore. Secondo la pronuncia, ai sensi dell'art. 1314 cod. civ., se più sono i creditori di una prestazione divisibile e non è stata pattuita la solidarietà attiva, ciascuno dei creditori non può domandare il soddisfacimento del credito da corrispettivo che per la sua parte, mentre il debitore non è tenuto a pagare il debito che per quella medesima parte.

Un'opportuna puntualizzazione si rinviene in Sez. 2, n. 4198, Rv. 629713, est. Falaschi, che ha escluso la natura aleatoria del c.d. appalto a forfait. In ipotesi, in cui il contratto contenga una clausola tesa ad escludere, in deroga all'art. 1664 cod. civ., in punto di revisione del corrispettivo stabilito in favore dell'appaltatore, il diritto di costui a ricevere un ulteriore compenso correlato alle difficoltà impreviste incontrate nell'esecuzione dell'opera, non consta, pur tuttavia, alterazione alcuna della struttura e della funzione dell'appalto. In tal senso, quand'anche si sottragga ogni rilievo negoziale alle circostanze inattese, suscettibili di influire sui costi di esecuzione dell'opera, l'appalto non diviene contratto aleatorio, posto che l'allargamento del rischio che da quella pattuizione deriva non è esorbitante rispetto alla normale alea contrattuale. L'impostazione della Corte tiene sostanzialmente conto di un elemento saliente: l'appalto è sempre un contratto commutativo, posto che l'entità obiettiva delle prestazioni delle due parti è in ogni caso determinata, o almeno determinabile, in base a criteri obiettivi prestabiliti. È quel che conta, poiché, l'alea connaturale al contratto, anche quando le parti abbiano escluso che il prezzo sia suscettibile di revisione, non incide sulle prestazioni delle parti in modo da renderle quantitativamente e qualitativamente incerte. Piuttosto, ad essere investita è unicamente la sfera economica dei contraenti e l'accrescimento del rischio in virtù dell'esclusione del rimedio ex art. 1664 cod. civ. resta estranea al contenuto giuridico del rapporto, in nulla differendo quest'ultimo, se non per la maggiore intensità e latitudine, dall'alea economica presente nella dinamica negoziale.

3. L'appalto di opere pubbliche.

Nel complesso delle pronunce rese nell'anno in corso, di sicura importanza è Sez. 1, n. 3670, Rv. 629723, est. Macioce, la quale ha avuto modo di statuire che la forza maggiore idonea a determinare la sospensione dell'esecuzione dei lavori ai sensi dell'art. 30, primo comma, del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, è integrata dalla c.d. "sorpresa archeologica". La Corte ha confermato che è corretto inquadrare il rinvenimento di reperti archeologici nel novero delle "cause di forza maggiore" impeditive della prosecuzione dei lavori: detto rinvenimento concretizza una condotta legalmente imposta e doverosa (factum principis) in relazione al quale l'amministrazione appaltante non ha discrezionalità circa la sospensione o la prosecuzione dell'appalto, occorrendo, in punto, il nulla osta della competente Sovrintendenza. Non rileva, peraltro, il tema dell'addebitabilità della "sorpresa archeologica", dovendosi ravvisare una ipotesi di cogenza della sospensione nel caso in cui un reperto archeologico emerga in cantiere. Basta finanche la probabilità di detta emersione, ossia la presenza di un quadro che renda ineludibile far precedere il normale corso dell'esecuzione dell'appalto dall'attività di "esplorazione" archeologica.

Meritevole di menzione è Sez. L, n. 15432, Rv. 631769, est. Tria, che torna sulla tematica "sensibile" attinente alla portata e ai limiti dell'azione diretta ex art. 1676 cod. civ. dei lavoratori dipendenti dell'appaltatore nei confronti del committente. In materia di appalti pubblici viene puntualizzata la eminente residualità della tutela codicistica in rapporto a quella contemplata dalla normativa di settore. Nel dettaglio, la pronuncia chiarisce che, in tema di appalti relativi a lavori, servizi e forniture, in ipotesi di ritardo nel pagamento delle retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente dall'esecutore o dal subappaltatore, o dai soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all'articolo 118, comma 8, ultimo periodo, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, cosiddetto "codice degli appalti pubblici", i lavoratori devono avvalersi degli speciali strumenti di tutela previsti dagli artt. 4 e 5 del d.P.R. 5 ottobre 2010 n. 207 (recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del suddetto codice). Dal che consegue, l'inapplicabilità dell'art. 29, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Solo laddove gli ausiliari dell'appaltatore non si siano avvalsi della disciplina speciale, resta possibile far ricorso, in via chiaramente residuale, alla tutela di cui all'art. 1676 cod. civ., norma pure applicabile ai contratti stipulati con le pubbliche amministrazioni e in base alla quale i dipendenti dell'appaltatore hanno azione diretta verso il committente, fino a concorrenza del debito del committente verso l'appaltatore, per conseguire quanto loro dovuto per l'attività prestata nell'esecuzione dell'appalto. In definitiva, per la Corte a garanzia dei crediti retributivi e contributivi dei lavoratori impegnati negli appalti pubblici sono previsti innanzitutto specifici strumenti., contemplati dagli artt. 4 e 5 del citato Regolamento di esecuzione, disciplinanti l'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienze contributive e retributive dell'esecutore e del subappaltatore. Tali disposizioni consentono ai lavoratori di recuperare anche in corso d'opera quanto a loro spettante e testimoniano come "nell'ambito degli appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti un disvalore maggiorato dal fatto di considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui migliore perseguimento è preordinata la complessiva disciplina regolatrice degli appalti pubblici". Cionondimeno, in via residuale vale l'opportunità del ricorso alla tutela codicistica, di cui all'artl 1676 cod. civ., tradizionalmente ritenuto applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni e che permette, pur sempre, ai lavoratori di agire direttamente contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che lo stesso committente ha verso l'appaltatore.

Sicuramente notevole, è Sez. 1, n. 9545, Rv. 631085, est. Di Virgilio, che ha avuto modo di riaffermare la portata "ristretta" della disposizione sul computo degli interessi ex artt. 35 e 36 del cap. gen. oo. pp. approvato con d.P.R. n. 1063 del 1962. La previsione degli speciali interessi di mora, con particolari decorrenze, di cui agli articoli anzidetti postula la determinazione certa del prezzo e riguarda unicamente il ritardo nel pagamento delle rate di acconto e di saldo del corrispettivo. In tal senso, se ne deve escludere l'applicazione analogica od estensiva ad altre, diverse ipotesi di ritardato pagamento, ovvero al caso di inadempimenti sostanziali ad obblighi assunti dall'amministrazione appaltante, per i quali, pertanto, ove se ne accerti l'ascrivibilità a quest'ultima, resta dovuto il risarcimento dei danni secondo le regole ordinarie di cui agli artt. 1218 e seguenti cod. civ.. Nel caso di specie, la Corte ha escluso che gli interessi in parola fossero dovuti sulla somma giudizialmente liquidata a norma dell'art. 1657 cod. civ. quale corrispettivo.

D'interesse anche Sez. 1, n. 22036, Rv. 632828, est. Mercolino, tesa a specificare il contenuto dell'obbligo dell'appaltatore nella realizzazione opere pubbliche dietro progetto altrui. L'appaltatore, anche in ipotesi di lavori pubblici, deve realizzare l'opera a regola d'arte, osservando, nell'esecuzione della prestazione, la diligenza qualificata ex art. 1176, secondo comma, cod. civ. che rappresenta un modello astratto di condotta e si estrinseca in un adeguato sforzo tecnico con l'impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento di quanto dovuto ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi. Da ciò deriva che anche quando l'appaltatore si attenga ad un progetto predisposto dal committente ed alle sue indicazioni per la realizzazione, ciononostante può essere ritenuto responsabile per i vizi dell'opera se, nell'eseguire fedelmente il progetto e le indicazioni ricevute, non segnali eventuali carenze ed errori, in quanto la prestazione da lui dovuta implica anche il controllo e la correzione di eventuali errori progettuali, ferma la possibile corresponsabilità dell'amministrazione quando il fatto dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del progetto o di direttive impartite dal committente, nei cui confronti è configurabile una responsabilità esclusiva solo se essa abbia rigidamente vincolato l'attività dell'appaltatore, così da neutralizzarne completamente la libertà di decisione.

La medesima pronuncia Sez. 1, n. 22036, Rv. 632827, est. Mercolino, contiene, peraltro, una rilevante precisazione, nella misura in cui specifica che in tema di appalto, l'assenza, nelle costruzioni, dei livelli prestabiliti di sicurezza garantiti dal rispetto di prescrizioni tecniche uniformi incide sulla sostanza e la stabilità degli edifici o delle altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, sicché va annoverata tra i gravi difetti dell'opera, dei quali l'appaltatore è responsabile nei confronti del committente, ai sensi dell'art. 1669 cod. civ.

4. L'assicurazione.

Come di consueto, pure nel 2014 la produzione in materia di assicurazione è stata ricca. Parte preponderante delle decisioni ha riguardato l'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica (r.c.a.); alcune pronunce, nondimeno, sembrano affermare interessanti principi di portata generale.

La Corte, con Sez. 3, n. 5952, Rv. 630558, est. Rossetti, ha affrontato il tema della rilevabilità d'ufficio della nullità della clausola di delimitazione del rischio assicurato e del suo necessario coordinamento con il principio dispositivo e con l'altro principio cardine della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Proprio detto coordinamento esige che il contraente, laddove deduca la nullità in discorso, sia onerato di allegare ritualmente i fatti costitutivi dell'eccezione (ovvero l'esistenza della clausola, la sua inconoscibilità, il suo contenuto in tesi vessatorio) nella comparsa di risposta o con le memorie di cui all'art. 183 cod. proc. civ., quindi prima del maturare delle preclusioni.

Di rilievo la puntualizzazione resa da Sez. 3, n. 7897, Rv. 630410, est. Rossetti, secondo la quale deve qualificarsi come ripetizione di indebito, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., qualunque domanda avente ad oggetto la restituzione di somme pagate sulla base di un titolo inesistente, sia nel caso di inesistenza originaria, che di inesistenza sopravvenuta o di inesistenza parziale. Dal che consegue che il diritto alla restituzione dell'indennizzo assicurativo, per la parte che l'assicuratore assuma di aver pagato in eccedenza rispetto al dovuto, è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale e non a quella breve di cui all'art. 2952 cod. civ., in quanto scaturente dall'indebito e non dal contratto di assicurazione.

4.1. L'assicurazione contro i danni.

Notevole, in materia, è Sez. 3, n. 17088, Rv. 632145, est. Stalla, che incisivamente riafferma il principio secondo cui, ai fini della perdita dei benefici assicurativi, ai sensi dell'articolo 1915 cod. civ., non occorre lo specifico e fraudolento intento di creare danno all'assicuratore, essendo sufficiente la consapevolezza dell'obbligo previsto dalla suddetta norma e la cosciente volontà di non osservarlo. In altri termini, il diritto all'indennità assicurativa prescinde dalle intenzioni e dalle finalità perseguite, ancorandosi soltanto alla consapevolezza dell'obbligo e della sua perpetrata violazione. Nella specie, relativa ad una polizza contro i rischi di insolvenza nei rapporti commerciali, la corte territoriale aveva accertato che l'assicurata, omettendo di comunicare tempestivamente alla assicuratrice lo stato di decozione della cliente, aveva potuto pattuire con questa nuove condizioni di rientro delle esposizioni, evitando la revoca del fido. Dette circostanze avevano indotto a ritenere che l'omissione di comunicazione non s'atteggiava a mera dimenticanza, ma, in quanto consapevole, comportava la perdita dei benefici.

Di fondamentale importanza è la precisazione resa da Sez. 3, n. 13233, Rv. 631753, est. Rossetti, secondo cui l'assicurazione contro gli infortuni non mortali costituisce un'assicurazione contro i danni, come tale soggetta rigorosamente al principio indennitario, in virtù del quale l'indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito. Ne consegue che il risarcimento dovuto alla vittima di lesioni personali deve essere diminuito dell'importo percepito a titolo di indennizzo da parte del proprio assicuratore privato contro gli infortuni. In altri termini, la garanzia infortuni, quando non comprende il rischio di morte, rientra tra le assicurazioni del ramo danni, rimanendo perciò fermamente saldata al principio indennitario. L'affermazione netta della natura indennitaria delle polizze di assicuazione a copertura degli infortuni "non mortali", irrobustisce quanto sostenuto, oltre dodici anni fa, da Sez. U, n. 5119 del 2002, Rv. 553633. In particolare, rimarcando la portata "esterna" del principio indennitario (ritenuto di ordine pubblico e, perciò, invalicabile), la Corte enuncia il principio del divieto di cumulo - a fronte di una medesima fattispecie di danno - tra risarcimento di matrice civilistica ed indennizzo assicurativo. Si colgono all'evidenza le potenziali ripercussioni pratiche sulle modalità di liquidazione del danno, specie nel settore della r.c.a.. Con altrettanta facilità si intravedono i possibili impatti della pronuncia sulla funzione stessa delle assicurazioni infortuni, per come strutturate e gestite nella prassi.

4.2. L'assicurazione della responsabilità civile.

Di rilevante portata dogmatica è Sez. 3, n. 5791, Rv. 630057, est. Rossetti, secondo la quale, ai fini della validità del contratto di assicurazione della responsabilità civile, non è consentita l'assicurazione di un rischio i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula, dovendo essere futuro rispetto a tale momento non il prodursi del danno, quanto l'avversarsi della causa di esso, senza che rilevi che il concreto pregiudizio patrimoniale si sia poi verificato dopo la conclusione del contratto, in quanto conseguenza inevitabile di fatti già avvenuti in precedenza. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza di merito la quale, in ipotesi di assicurazione della responsabilità professionale di un avvocato, aveva escluso l'obbligo indennitario dell'assicuratore, essendo accaduto durante il tempo dell'assicurazione, agli effetti dell'art. 1917 cod. civ., il fatto della proposizione di un appello tardivo, ma non anche il deposito della sentenza che ne dichiarava l'intempestività. Nell'ottica della pronuncia in discorso, ai fini della validità del contratto di assicurazione ciò che deve essere "futuro" rispetto alla stipula del contratto non è il prodursi del danno, bensì l'avverarsi della causa di esso. Non è consentita l'assicurazione di quel rischio i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula del contratto, a nulla rilevando che l'evento, e quindi il concreto pregiudizio patrimoniale, si sia verificato in seguito. La sentenza in commento prende una incisiva posizione sulla (affermata) nullità di una garanzia assicurativa (del ramo danni) che copra un rischio che, al momento della stipula, non si possa più ritenere tale, essendosi già prodotti tutti i presupposti causali della fattispecie dannosa a quel rischio correlati. Il principio di fondo che ispira la pronuncia è espresso nell'art. 1895 cod. civ., nella parte in cui dispone che "il contratto è nullo se il rischio [...] ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto": un rischio i cui fattori causali possano dirsi tutti sostanzialmente già verificatisi prima della stipula finisce col venir meno, trasformandosi da "pericolo" a "certezza" di danno. L'impatto pratico della linea marcata dalla Corte è suscettibile di rivelarsi notevole, in quanto suscettibile di condurre a ritenere, in ipotesi, nulla ex art. 1895 cod,. civ., per inesistenza del rischio l'assicurazione contro le malattie stipulata da persona in cui la patologia sia già insorta, non rilevando che questa divenga oggettivamente visibile dopo la stipula del contratto; analogamente, nulla si rivelerebbe l'assicurazione della responsabilità civile stipulata da persona che abbia già tenuto una condotta illecita, non rilevando che il danno da essa causato sia destinato a prodursi nel futuro.

Ora, se il percorso motivazionale della pronuncia in commento è incentrato sulla necessità di distinguere il concetto di "rischio assicurativo" da quello di "danno civilistico", detta esigenza discretiva costituisce per la Corte Suprema un argomento attualissimo. Lo testimonia il fatto che è di circa un mese precedente, altra pronuncia - Sez. 3, n. 3622, Rv. 630035, est. Lanzillo - che sembra seguire un percorso argomentativo in certo senso divergente, rispetto a quella da ultimo rammentata, nella misura in cui riconferma la validità e l'efficacia, almeno in linea di principio, della c.d. clausola "claims made" o "a richiesta fatta", inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile e in virtù della quale l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti anteriori alla stipula del contratto. Tale tipo di clausola, nata nella prassi anglosassone per fronteggiare il problema della copertura di particolari tipologie di sinistri "silenti" o "a lungo latenti", è da tempo nota al mercato assicurativo, avendo trovato particolare diffusione proprio nelle polizze di assicurazione della responsabilità civile professionale, nelle quali gli usi assicurativi hanno portato ad individuare il tratto distintivo della clausola in questione nel fatto che la essa introduce una definizione convenzionale di sinistro, conferendo rilevanza non già alla data di accadimento del fatto che è causa del danno - che può essersi verificato anche prima della stipulazione della polizza - ma alla data della richiesta di risarcimento - il "claim" - rivolto dal terzo danneggiato verso l'assicurato. Il vantaggio, per l'assicurato, di una tale clausola, viene quindi ad essere rappresentato proprio dal fatto che la stessa consente di conseguire una copertura assicurativa in relazione a fatti verificatisi in un periodo precedente alla stipula della polizza, tanto che nell'assicurazione claims made viene richiesto all'assicurato, al momento della stipulazione del contratto, di dichiarare se è a conoscenza di sinistri risarcibili già verificatisi. Ad avviso della pronuncia in rassegna, l'estensione della copertura alle responsabilità dell'assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non fa venire meno l'alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento della stipula le parti e, segnatamente, l'assicurato, ignoravano l'esistenza di questi fatti, potendosi, solo in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 cod. civ. per le dichiarazioni inesatte o reticenti. In buona sostanza, la Corte rileva chiaramente che l'alea può concernere comportamenti colposi, commessi in passato, dei quali l'assicurato non conosca ancora l'illiceità o idoneità a produrre un danno risarcibile. L'alea non concerne, in altri termini, i comportamenti passati nella loro materialità, ma la consapevolezza, in capo all'assicurato, del loro carattere colposo e pregiudizievole per i terzi. L'estensione della copertura ai comportamenti anteriori alla stipulazione della polizza finisce, pertanto, per essere frutto di una precisa scelta dell'assicuratore, che di sua iniziativa inserisce la clausola fra le condizioni generali di contratto, sulla base di una cosciente valutazione dei rischi.

4.3. L'assicurazione obbligatoria della r.c.a.

Sicuro interesse riveste Sez. 3, n. 16781, Rv. 632201, est. Stalla, in materia di coassicurazione dei rischi. Secondo quanto previsto dal nostro ordinamento, le coperture assicurative per determinati rischi possono assumere, all'evenienza, particolari strutture e coinvolgere più soggetti all'interno del rapporto contrattuale assicurativo. Tra le diverse figure previste, la coassicurazione ricopre certamente un ruolo pregnante, in quanto permette di ripartire su più compagnie assicurative un medesimo rischio, garantendo una maggiore solvibilità e certezza dell'integrale risarcimento del danno. Si è soliti distinguere due figure di coassicurazione: una impropria, definita coassicurazione "indiretta" e disciplinata dall'art. 1910 cod. civ. ed una vera e propria, indicata come coassicurazione "diretta" e disciplinata dall'art. 1911 cod. civ.. Nel primo caso, il medesimo rischio viene assicurato mediante la stipulazione separata di più assicurazioni presso diverse imprese assicurative e l'assicurato è posto in grado a richiedere l'intero indennizzo anche ad uno sola di queste, di poi legittimata a rivalersi contro le altre per la ripartizione proporzionale in ragione delle indennità dovute secondo i rispettivi contratti. Nel secondo caso (di cui segnatamente si occupa la pronuncia in commento) è la medesima assicurazione ad essere ripartita tra più assicuratori per quote determinate; ne deriva che ciascun assicuratore è tenuto al pagamento dell'indennità assicurata soltanto in proporzione della rispettiva quota, anche se unico è il contratto sottoscritto da tutte le compagnie.

Il principio espresso dalla sentenza in discorso è nitido: il contratto di coassicurazione genera, nell'ipotesi in discorso, separati rapporti assicurativi, in virtù dei quali ciascun assicuratore è titolare delle sole posizioni soggettive relative al proprio rapporto con l'assicurato. Peraltro, l'assunzione dell'obbligo di pagare l'indennità soltanto pro quota si riferisce al mero rapporto interno tra assicurato e coassicuratore e non trova applicazione ove ad agire nei confronti di quest'ultimo sia il danneggiato, con azione diretta ex art. 18, della legge 24 dicembre 1969, n. 990, ratione temporis applicabile, rilevando in tal caso il regime di maggior tutela del danneggiato e non la previsione dell'art. 1911 cod. civ..

La pronuncia tiene in evidente considerazione natura e funzione della coassicurazione, invero adoperata quando si intende coprire rischi contraddistinti da un'alta probabilità di accadimento, oppure quando gli interessi da presidiare sono di elevatissimo valore economico, ossia di un'entità complessiva in relazione alla quale ben difficilmente un solo assicuratore sarebbe disposto ad assumere il rischio. Lo scopo dell'istituto è, allora ed in effetti, proprio quello di operare una ripartizione del rischio tra diversi assicuratori, secondo quote predeterminate, in guisa che ciascuno di essi risponda solo della quota specificamente assicurata.

Merita, peraltro, considerare che nella sentenza qui segnalata la Corte di cassazione ha dovuto proprio affrontare un caso in cui l'unica impresa co-assicuratrice indicata sul contrassegno, sola destinataria dell'azione diretta svolta dal terzo danneggiato, aveva preteso di opporre al danneggiato le regole della limitazione pro quota dell'indennizzo. Secondo la Corte le regole proprie della coassicurazione diretta - circoscritte al rapporto interno fra co-assicuratori - non possono prevalere nell'ambito della r.c.a., dove cedono inesorabilmente il passo al "regime di maggior tutela del danneggiato (quanto ad affidamento, ed effettività del suo diritto) di cui alla normativa speciale". Ecco, dunque, l'essenzialità delle indicazioni di contrassegno: il contrassegno privo di qualsiasi menzione della coassicurazione e indicante un solo coassicuratore legittima il terzo danneggiato ad agire direttamente contro quest'ultimo; costui sarà quindi obbligato al risarcimento del danno, indipendentemente dai limiti interni di efficacia e di ripartizione del massimale nel rapporto assicurativo.

Proprio sull'essenzialità del ruolo del contrassegno assicurativo, un'opportuna riaffermazione di principio si rinviene in Sez. 3, n. 18307, Rv. 632097, est. Scarano, la quale puntualizza che, in forza del combinato disposto dell'art. 7 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (attuale art. 127 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) e dell'art. 1901 cod. civ., il rilascio del contrassegno da parte dell'assicuratore della r.c.a. vincola quest'ultimo a risarcire i danni causati dalla circolazione del veicolo, quand'anche il premio assicurativo non sia stato pagato, ovvero il contratto di assicurazione non sia efficace. Ciò in quanto, nei confronti del danneggiato, ai fini della promovibilità dell'azione diretta nei confronti dell'assicuratore del responsabile, rileva l'autenticità del contrassegno, non certo la validità del rapporto assicurativo. Peraltro, posto che la disciplina del citato art. 7 mira alla tutela dell'affidamento del danneggiato e copre, pertanto, anche l'ipotesi dell'apparenza del diritto, per escludere la responsabilità dell'assicuratore in ipotesi di contrassegno contraffatto o falsificato occorre che risulti esclusa detta apparenza, e cioè che l'assicuratore non abbia tenuto alcun comportamento colposo idoneo ad ingenerare l'affidamento in ordine alla sussistenza della copertura assicurativa.

Di tenore analogo rispetto alla pronuncia da ultimo riportata è Sez. 3, n. 14636, Rv. 631706, est. Carleo, la quale pure evidenzia che, in tema di assicurazione per danni da circolazione di veicoli, il terzo danneggiato non è tenuto ad effettuare accertamenti se sia stato pagato il premio assicurativo, potendo fare ragionevole affidamento sull'apparenza della situazione espressa dal contrassegno rilasciato, come gli consente l'art. 7 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (ora sostituito dall'art. 127 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209)

Su altro versante, si mostra di rilievo Sez. 3, n. 18308, Rv. 632098, est. Scarano, che afferma la portata ristretta, dunque inter partes, della clausola del contratto di assicurazione della r.c.a. che prevede l'inoperatività della garanzia nel caso in cui il veicolo assicurato sia condotto, al momento del sinistro, da persona non munita della patente di guida. In altri termini, la clausola di polizza che subordina la garanzia alla circostanza che il conducente fosse munito di valida patente di guida non opera nei confronti del danneggiato, ma solo nei confronti dell'assicurato; detta clausola non è opponibile dall'assicuratore al terzo danneggiato che si avvalga nei suoi confronti dell'azione diretta per il risarcimento ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969 n. 990, trattandosi, d'altronde, di eccezione derivante dal contratto. Nella specie la Suprema Corte ha ritenuto terzi danneggiati i congiunti del proprietario dell'auto - deceduto all'esito di sinistro stradale cagionato da conducente che si trovava in una delle condizioni previste dalla clausola contrattuale di inoperatività della polizza - che era anche terzo trasportato, nonché titolare del contratto di relativa assicurazione per la r.c.a., avendo gli stessi fatto valere danni subiti iure proprio e, segnatamente, il danno non patrimoniale da perdita del congiunto e quello da perdita dell'assegno di mantenimento.

Nel quadro giurisprudenziale in esame, si registrano alcune interessanti pronunce in tema di cd. mala gestio dell'assicuratore della r.c.a. nell'adempimento delle proprie obbligazioni. Risultano ormai ampiamente consolidati, nell'approccio ermeneutico della Corte, due diversi tipi di responsabilità da ritardo: quella per cd. mala gestio impropria (id est: responsabilità da colpevole ritardo) nei confronti del danneggiato stesso, la quale ha per effetto l'obbligo di pagare gli interessi ed, eventualmente, il maggior danno ex art. 1224, comma secondo, cod. civ., anche in eccedenza rispetto al massimale; quella per cd. mala gestio propria, che sussiste nei confronti non del danneggiato, ma dell'assicurato, ed ha per effetto l'obbligo dell'assicuratore di tenere indenne quest'ultimo, anche in misura esorbitante rispetto al massimale, di un importo pari alla differenza tra quanto il responsabile avrebbe dovuto pagare al danneggiato se l'assicuratore avesse tempestivamente adempiuto le proprie obbligazioni, e quanto invece sarà costretto a pagare in conseguenza del ritardato adempimento.

Proprio con riferimento ad una ipotesi di ingiustificato ritardo dell'assicuratore della r.c.a. nell'adempimento delle proprie obbligazioni nei confronti del danneggiato (quindi di cosiddetta mala gestio impropria), la Corte, Sez. 3, n. 15900, Rv. 632053, est. Sestini, ha puntualizzato che la rivalutazione monetaria e gli interessi dovuti dall'assicuratore al danneggiato oltre il limite del massimale decorrono della scadenza del termine previsto - quale spatium deliberandi - dall'art. 22 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (norma, applicabile ratione temporis, oggi sostituita dall'art. 145 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209), che si identifica con quello della costituzione in mora.

Ancora in tema di domanda di condanna dell'assicuratore al risarcimento del danno per mala gestio cosiddetta impropria, Sez. 3, n. 14637, Rv. 631816, est. Carleo, ha riconosciuto che la relativa domanda deve ritenersi implicitamente formulata tutte le volte in cui la vittima abbia domandato la condanna al pagamento di interessi e rivalutazione, anche senza riferimento al superamento del massimale o alla condotta renitente dell'assicuratore. Ne consegue che non costituisce domanda nuova quella con cui in appello i danneggiati chiedano la condanna dell'assicuratore al pagamento della differenza tra danno liquidato e superamento del massimale di polizza, che va intesa quale riproposizione della domanda originaria nei limiti del riconoscimento di interessi moratori e rivalutazione oltre il massimale di legge.

La Corte, peraltro, con Sez. 3, n. 1606, Rv. 629854, est. Vincenti, ha avuto modo di precisare che la domanda con la quale l'assicurato, convenuto in giudizio dal terzo danneggiato, chieda di essere manlevato dal proprio assicuratore anche oltre il limite del massimale, invocandone la mala gestio, sub specie di colpevole ritardo nell'adempimento della propria obbligazione indennitaria, con conseguente lievitazione del risarcimento dovuto dall'assicurato, deve essere espressamente formulata, non potendosi ritenere implicita nella semplice chiamata in garanzia o nella domanda di essere tenuto indenne "da tutte le pretese attoree", a nulla rilevando che l'attore abbia formulato una domanda di condanna dell'assicurato-danneggiato al pagamento del capitale, degli interessi e della rivalutazione.

Su un altro piano, è di considerevole portata il principio affermato da Sez. 3, n. 14199, Rv. 631826, est. Lanzillo, secondo cui, nell'assicurazione obbligatoria per responsabilità civile da circolazione dei veicoli, la circostanza che l'obbligazione a carico dell'assicuratore nei confronti del danneggiato abbia natura di debito di valuta, come tale assoggettato al principio nominalistico e destinato, pertanto, a determinarsi entro il limite del massimale di polizza, non esclude che la somma liquidata possa superare il massimale in relazione agli interessi e alla rivalutazione monetaria dovuti dall'assicuratore - che ritardi ingiustificatamente il pagamento - secondo le condizioni previste dal primo e secondo comma dell'art. 1224 cod. civ., ferma restando, peraltro, la necessità che in tale operazione si abbia sempre riguardo al massimale convenuto dalle parti o a quello minimo di legge vigente alla data del sinistro, essendo irrilevanti eventuali variazioni successive.

Con Sez. 3, n. 5944, Rv. 630617, est. Chiarini, ha trovato ulteriore sedimentazione, il principio secondo cui, nei contratti di assicurazione della r.c.a. con rateizzazione del premio, una volta scaduto il termine di pagamento della seconda rata, l'efficacia del contratto resta sospesa a partire dal quindicesimo giorno successivo alla scadenza, e tale sospensione è opponibile anche ai terzi danneggiati, ai sensi dell'art. 1901 cod. civ., dovendosi ritenere il veicolo sprovvisto di assicurazione, senza che rilevi l'accettazione, da parte dell'assicuratore, di un pagamento tardivo, che non costituisce rinunzia alla sospensione della garanzia assicurativa, ma impedisce solo la risoluzione di diritto del contratto.

Va poi menzionata Sez. 3, n. 5952, Rv. 630559, est. Rossetti, che si è significativamente occupata della clausola di rivalsa in ambito di assicurazione obbligatoria della r.c.a.. Nel giudizio di rivalsa, di natura contrattuale, promosso dall'assicuratore, ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, applicabile ratione temporis, il convenuto, ove invochi la nullità della clausola in questione, ha l'onere di allegare e provare il fatto costitutivo dell'eccezione, e cioè l'illegittimità della pretesa dell'assicuratore, qualora la predetta clausola non sia stata resa conoscibile (in violazione dell'art. 1341, primo comma, cod. civ.), ovvero non sia stata doppiamente sottoscritta (in violazione dell'art. 1342, secondo comma, cod. civ.), mentre l'assicuratore è tenuto a dimostrare solo l'esistenza del contratto e della clausola legittimante la rivalsa stessa.

In tema di assicurazione obbligatoria della r.c.a., si evidenzia, poi, con Sez. 3, n. 8136, Rv. 630408, est. Armano, che alla luce della disciplina prevista dagli artt. 19 e 20 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, ratione temporis applicabile, è ammissibile che una società assicuratrice venga contemporaneamente evocata in giudizio sia in proprio, quale incorporante l'assicuratore dell'autovettura del responsabile del sinistro, sia quale impresa designata dal Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, per l'ipotesi che il veicolo risulti privo di copertura assicurativa, in quanto fra le due posizioni vi è autonomia patrimoniale e autonomia di scopo, agendo essa, quale impresa designata, per conto e con le finalità proprie della Consap-Gestione autonoma del F.G.V.S., su cui ricadono le conseguenze economiche del risarcimento.

Indubbio interesse riscuote, altresì, Sez. 3, n. 7531, Rv. 630667, est. Carleo, secondo cui, la clausola di un contratto di assicurazione che preveda una perizia contrattuale (con il deferimento, ad un collegio di esperti, degli accertamenti da espletare in base a regole tecniche) implica la temporanea rinunzia alla tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto, nel senso che, prima e durante il corso della procedura contrattualmente prevista, le parti stesse non possono proporre davanti al giudice le azioni derivanti da esso. Tali limitazione alla tutela giurisdizionale tuttavia, cessano quando l'espletamento della perizia non sia più oggettivamente possibile per essere venuto meno definitivamente l'oggetto dell'accertamento peritale da espletare.

Merita attenzione anche Sez. 3, n. 4548, Rv. 630123, est. Scrima, la quale, riprendendo un principio già espresso, afferma che in materia di assicurazione, alla norma generale dettata, in tema di prescrizione, dall'art. 2935 cod. civ. (secondo la quale la prescrizione stessa comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere), viene apportata una sensibile deroga dalla norma di cui all'art. 2952, quarto comma, cod. civ., che, regolando in ogni suo aspetto il rapporto tra assicurato e assicuratore, detta, altresì, la disciplina speciale della sospensione del termine di prescrizione sino alla definitiva liquidità ed esigibilità del credito del terzo danneggiato; tale sospensione si verifica non già con la denuncia del sinistro, bensì con la comunicazione, efficace anche se proveniente dallo stesso danneggiato o da un terzo, all'assicuratore, della richiesta di risarcimento proposta dal danneggiato.

Merita considerazione, infine, Sez. 3, n. 15921, Rv. 632496, est. Carluccio, che, mutuando un principio già enunciato, ribadisce che in tema di assicurazione contro i danni, quando le parti elevino a condizione sospensiva della liquidazione del danno, da parte dell'assicuratore, la circostanza futura ed incerta dell'inizio di un procedimento penale a carico dell'assicurato per reato riguardante i fatti generatori del danno, l'avveramento della condizione non osta all'esercizio del solo diritto al pagamento di quanto dovuto dall'assicuratore, né del diritto dell'assicurato all'indennizzo, giacché la loro coincidenza comporta che la prescrizione di tale unitario diritto resti interrotta - a norma dell'art. 2935 cod. civ. - fino al passaggio in giudicato della sentenza di proscioglimento dell'assicurato, identificandosi il suo diritto all'indennizzo con quello a vedersi risarcire, nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, il danno sofferto in conseguenza del sinistro.

5. Il comodato.

Di notevole significato si palesa la pronuncia resa da Sez. U, n. 20448, 633004, la quale conferma la soluzione adottata a suo tempo da Sez. U, n. 13603 del 2004, Rv. 575657, est. Luccioli, che, in tema di assegnazione della casa familiare in comodato, aveva sancito il principio per cui, allorché dalla ricostruzione della volontà delle parti emerge la volontà di costituire un vincolo di destinazione dell'immobile alle esigenze della famiglia, viene in rilievo un termine implicito di restituzione coincidente con il venir meno della destinazione convenuta, con contestuale limitazione delle pretese del comodante alla restituzione ex art. 1810 cod. civ.. Nel solco già tracciato un decennio addietro, si riafferma che il comodato della casa familiare è disciplinato dall'art. 1809 cod. civ. e ha una durata desumibile dall'uso a cui la cosa è destinata, e non invece dall'art. 1810 cod. civ. (cd. precario) senza determinazione di durata. In altri termini, la concessione in comodato di un immobile, perché sia destinato ai bisogni del nucleo familiare del comodatario, non può essere revocata dal comodante sino a che permangono le esigenze abitative della famiglia, salva solo l'ipotesi di necessità urgente ed imprevista del comodante stesso, ex art. 1809 cod. civ.. E tale principio trova significativamente applicazione, non solo nei confronti dell'originario comodatario, ma anche del di lui coniuge al quale sia stata assegnata la casa familiare in sede di separazione.

La decisione del settembre scorso evidenzia, in definitiva, che la specificità della destinazione, espressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà ed incertezza che caratterizzano il comodato c.d. precario e che legittimano la cessazione ad nutum del rapporto su iniziativa del comodante: costui, piuttosto, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato e per un fine coincidente con le esigenze del nucleo familiare, è tenuto a consentire la continuazione del rapporto anche oltre l'eventuale crisi coniugale, ferma e impregiudicata la sola ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno. L'ipotesi è diversa dal recesso ad nutum del contratto di comodato a tempo indeterminato, nella misura in cui il comodante può ottenere il rilascio solo sul presupposto dell'urgenza e imprevedibilità del bisogno, che deve palesarsi serio e non voluttuario, né capriccioso, nè artificiosamente indotto. Tale esigenza può comprendere anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica che giustifichi la richiesta di restituzione del bene anche per poterlo alienare ovvero concedere in locazione per trarne un reddito. Tuttavia, nella valutazione del bisogno del comodante si dovrà tener conto dell'esigenza di tutelare la prole. Nell'ottica delle Sezioni Unite, la destinazione dell'unità immobiliare a casa familiare imprime un vincolo di destinazione idoneo a conferire all'uso cui la cosa viene destinata il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito del rapporto. È tuttavia necessario per potersi opporre al comodante che richieda il rilascio che sussista un provvedimento di assegnazione della casa familiare e sia dimostrabile che il godimento di questa era stato convenuto nel contratto di comodato, anteriormente stipulato, proprio per destinare l'immobile alle esigenze abitative della famiglia. Quando il comodante mette a disposizione del figlio un'abitazione da destinare a casa familiare, senza porre limiti temporali, la sua intenzione è senza dubbio quella di consentire per tutto il tempo necessario a soddisfare l'interesse del comodatario il godimento di tale immobile. E se la ragion d'essere del contratto di comodato si fonda sulle esigenze della famiglia del comodatario, corrisponde a diritto che la sua durata perduri fini al venir meno delle esigenze stesse. In tal senso depongono, del resto, le disposizioni di cui agli artt. 337 bis ss. cod. civ. che riconoscono la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che legittimano l'assegnazione della casa familiare e quindi il perdurare del contratto di comodato.

In tema di comodato, di rilievo si palesa, altresì, Sez. 3, n. 14771, Rv. 631824, est. Amendola, ove si enuclea l'importante principio generale, in virtù del quale l'accoglimento della domanda di restituzione di un bene per occupazione sine titulo, non viola il giudicato esterno formatosi all'esito di un precedente giudizio, intercorso tra le stesse parti, nel quale sia stata esperita l'actio commodati e che sia stato definito con rigetto della richiesta di restituzione del medesimo bene per scadenza del contratto. Si evidenzia, infatti, al riguardo che il diritto al rilascio di un bene è etero determinato, tanto da poter essere fatto valere, fra gli stessi soggetti, tutte le volte che, invariato il petitum, nondimeno mutino i fatti che identificano la causa petendi. Sotto tale angolo di visuale, la domanda giudiziale, introdotta con un secondo processo, pur presentando lo stesso contenuto, è nuova ogni qualvolta perché fondata su un diverso fatto costitutivo.

Sempre in materia di comodato, tangibile importanza riveste Sez. 3, n. 6203, Rv. 629891, est. Rubino, ove è affermato che, nei confronti del comodatario, non può essere proposta azione di risoluzione per inadempimento attesa la gratuità del contratto, senza che assuma rilievo la presenza di eventuali pattuizioni accessorie, anche di apprezzabile peso economico, a carico di quest'ultimo, dovendo il comodante, in tale ipotesi, far ricorso al diverso rimedio della restituzione anticipata del bene ai sensi dell'art. 1804 cod. civ., se l'inosservanza degli obblighi integra un abuso della cosa oggetto di comodato, ovvero una lesione della fiducia riposta dal comodante nel comodatario.

Nella stessa pronuncia (Sez. 3, n. 6203, Rv. 629890, est. Rubino), si rinviene, peraltro, un'opportuna riconferma del principio per il quale la concessione in comodato di un immobile per tutta la vita del comodatario configura un contratto a termine, di cui é certo l'an ed incerto il quando, atteso che, con l'inserimento di un elemento accidentale per l'individuazione della precisa durata (nella specie, la massima possibile, ossia per tutta la durata della vita del beneficiario), il comodante finisce per limitare la possibilità di recuperare, quando voglia, la disponibilità materiale dell'immobile, rafforzando, al contempo, la posizione del comodatario, a cui viene garantito il godimento per tutto il tempo individuato. Ne deriva che, in tale evenienza, il comodante o i suoi eredi sono tenuti a rispettare il termine di durata del contratto in pendenza del quale si sia verificata la morte del comodante e possono sciogliersi dal contratto soltanto nelle ipotesi di cui agli artt. 1804, terzo comma, 1809 e 1811 cod. civ. e non liberamente come avviene nel comodato c.d. precario. Nel particolare caso di comodato sottoposto all'esame della Corte di cassazione, viene concordemente inserito dalle parti un elemento accidentale del negozio, che individua espressamente la durata di tale contratto a tempo determinato, o meglio individua la sua durata massima, essendo tale elemento accidentale riferibile alla vita del comodatario, circostanza da cui si evince la libera volontà delle parti nell'individuazione del termine finale (morte del comodatario), a cui far conseguire la restituzione del bene concesso gratuitamente; in tale ipotesi, l'individuazione di un termine del contratto rafforza, di fatto, la posizione del comodatario, garantendogli l'utilizzo e il godimento del bene per tutta la vita e sottraendo tale contratto alla disciplina del recesso unilaterale ad nutum del comodante che, invece, caratterizza, i contratti a tempo indeterminato. Nonostante che le parti avessero intitolato il contratto definendolo "a tempo indeterminato", esse erano evidentemente incorse in un errore di valutazione nella sua classificazione, rispetto al contenuto sostanziale dei patti concordati, magari facendo discendere tale concetto di indeterminatezza dalla sola circostanza per la quale non è possibile stabilire il momento esatto della morte del comodatario, ben sapendo che ciò avverrà: il nomen iuris indicato dalle parti, ancorché concordemente, non implicava, quindi, anche la scelta della disciplina giuridica applicabile al caso concreto, prevalendo per quest'ultima solo il contenuto pattizio e la sua effettiva applicazione, circostanza che non comporta né un vincolo per l'attività interpretativa del giudice, né un criterio privilegiato per tale interpretazione. In questo comodato, quindi, la scelta effettuata dalle parti, di collegare la durata temporale del contratto alla vita della comodatario, svelava il termine massimo possibile per un contratto a tempo determinato, destinato comunque ad avere un termine certo, magari, anche oltre la vita del comodante concedente e per questo a durare nel tempo anche nei confronti degli eredi di quest'ultimo.

6. Prelazione e riscatto nei contratti agrari.

In materia di contratti agrari, utile puntualizzazione è quella operata da Sez. 3, n. 15768, Rv. 631881, est. Rubino, la quale evidenzia che il diritto di prelazione in favore del proprietario del fondo confinante con quello venduto, previsto dall'art. 7, secondo comma, della legge 14 agosto 1971, n. 817, sussiste anche nell'ipotesi in cui, in occasione dell'alienazione, si sia proceduto ad un suo artificioso frazionamento per eliminare il requisito del confine fisico tra i suoli, onde precludere l'esercizio del diritto di prelazione. Come chiarito già in passato dalla giurisprudenza di legittimità, la creazione di artificiosi diaframmi al fine di eliminare il requisito della confinanza fisica tra i suoli non giova a precludere l'esercizio del diritto di prelazione.

Poco tempo prima, Sez. 3, n. 15754, Rv. 632013, est. Carleo, si era opportunamente curata di precisare che la denuntiatio ex art. 8 legge 26 maggio 1965, n. 590, rivolta ad uno solo dei coniugi componenti l'impresa familiare non ha effetto nei confronti dell'altro ai fini del decorso del termine di esercizio del diritto di prelazione. A sostegno del principio milita il fatto che l'impresa ex art. 230 bis cod. civ. non ha alcuna rilevanza esterna e non permette di ritenere esistente un rapporto di rappresentanza reciproca tra i familiari e la persona a capo dell'impresa.

Infine Sez. 3, n. 5414, Rv. 630207, est. Barreca, ha specificato che all'affittuario coltivatore diretto della porzione di un più ampio fondo messo in vendita spetta il diritto di prelazione sulla parte da lui coltivata, a condizione che l'intero predio sia diviso in porzioni distinte e autonome sotto il profilo giuridico ed economico. Ne consegue che, quando il fondo sia promesso in vendita a terzi unitamente ad altri fondi con l'indicazione di un prezzo unitario e il prelazionario non provveda al versamento del prezzo nel termine fissato dall'art. 8, sesto comma, della legge n 590 del 26 maggio 1965, non si verifica la decadenza dal diritto di prelazione in quanto specificazione del prezzo della porzione soggetta a prelazione costituisce un obbligo posto a carico del proprietario, la cui determinazione può avvenire anche nel giudizio di riscatto.

7. Il contratti bancari (rinvio).

In materia si registrano interessanti decisioni, che, come avvertito, saranno esaminate nel cap. XXI, par. 1.

8. I contratti finanziari (rinvio).

Parimenti, si rinvia al riguardo al cap. XXI, par. 2.

9. Fideiussione e garanzie atipiche.

In tema, rilevante si mostra Sez. 3, n. 5951, Rv. 630557, est. Rossetti, per aver recisamente escluso che la previsione dell'importo massimo garantito ex art. 1938 cod. civ. sia applicabile alle sole fideiussioni rilasciate a favore di banche o società finanziarie. La determinazione dell'importo massimo per le obbligazioni future non sconta limitazioni di sorta, né in base alla lettera, né in base alla "ratio" normativa. Nella previsione in discorso si scorge, d'altronde, un principio generale di garanzia e di ordine pubblico economico.

Per quanto d'impatto settoriale-specifico, di rilievo appare la puntualizzazione resa da Sez. 1, n. 17731, Rv. 631996, rel. Nazzicone, sull'attività del consorzio fidi (o Confidi), consistente nella prestazione di una garanzia che lo obbliga a tenere indenne il creditore, in tutto o in parte, dalle perdite che fossero derivate dall'inadempimento del debitore, e di suoi eventuali fideiussori, dopo la relativa escussione.

Una significativa precisazione di metodo ermeneutico, è stata svolta da Sez. 3, n. 15476, Rv. 631744, est. Rossetti. Nell'occasione il collegio ha chiarito che la delimitazione ambigua dell'oggetto della garanzia, la cui relativa clausola contenga un incongruo riferimento testuale "alle inadempienze", anziché ad un'obbligazione, a un debito o a una prestazione, impone di far applicazione dell'essenziale principio della interpretatio contra proferentem, di cui all'art. 1370 cod. civ.. In tal senso, si è ritenuta adeguata l'interpretazione del giudice di merito, secondo cui l'assunzione della garanzia relativa "alle inadempienze" era riferibile alle obbligazioni scadute e non adempiute durante il periodo di vigenza della polizza fideiussoria, con conseguente inapplicabilità dell'art. 1957 cod. civ., il quale, com'è noto, prevede che il fideiussore rimanga obbligato anche dopo la scadenza dell'obbligazione principale, purché il creditore abbia, entro sei mesi dalla predetta scadenza, proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate.

Di interesse, tra le pronunce sulle garanzie personali, si palesa Sez. 1, n. 10109, Rv. 631383, est. Ceccherini. La sentenza de qua enuncia un principio e ne trae un essenziale corollario: il principio sta in ciò, che l'art. 2624 cod. civ. (nel testo anteriore alle modifiche disposte dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61), nel sanzionare penalmente gli amministratori delegati, i direttori generali, i sindaci ed i liquidatori di società che sotto qualsiasi forma, sia direttamente, sia per interposta persona, contraggono prestiti con la società che amministrano o con società controllante o controllata, ovvero si facciano prestare da una delle predette società garanzie per debiti propri, punisce tutte le condotte anche indirettamente finalizzate al risultato di obbligare una società per debiti del proprio amministratore, non anche per debiti altrui; il corollario risiede in ciò, che, laddove la società abbia presentato una fideiussione a favore di un'altra società amministrata dallo stesso amministratore e per la quale quest'ultimo abbia già prestato, a sua volta, fideiussione, l'atto, in quanto relativo a debiti altrui, non è nullo, ma, risulta nondimeno fondato su un potenziale conflitto di interessi, che, in assenza di specifica autorizzazione da parte della prima società, determina l'annullabilità del contratto di garanzia ai sensi dell'art. 1395 cod. civ.. Detta ultima norma, infatti, sancisce l'annullabilità del contratto che il rappresentante conclude con sé stesso, in proprio o come rappresentante di un'altra parte, quando non consti una specifica autorizzazione oppure la predeterminazione del contenuto nel negozio sia tale da escludere la possibilità di conflitto di interessi.

Un importante riflesso processuale della natura accessoria della fideiussione è stato efficacemente colto da Sez. 6-1, n. 8576, Rv. 630658, est. Scaldaferri, secondo cui la clausola derogatoria della competenza per territorio contenuta nel contratto di conto corrente per il quale è sorta controversia determina l'estensione del foro convenzionale anche alla controversia concernente la relativa garanzia fideiussoria. Si è evocata l'incidenza del disposto dell'art. 31 cod. proc. civ. in ambito di competenza per territorio delle cause accessorie; si evidenziato, inoltre, come, nonostante la coincidenza solo parziale dei soggetti processuali, non possa che tenersi nel debito conto lo stretto legame esistente tra i due rapporti e il rischio che, in caso di separazione dei procedimenti, possano formarsi due diversi giudicati in relazione ad un giudizio che pure si configura sostanzialmente unico.

Nel contesto specifico della determinazione del reddito d'impresa rilevante a fini fiscali, di rilievo si palesa Sez. 5, n. 9433, Rv. 630311, est. Crucitti, la quale ha precisato che non è deducibile la svalutazione dei crediti il cui inadempimento sia garantito anche con modalità diverse dalla stipula di un contratto di assicurazione, dovendosi intendere l'espressione credito coperto da "garanzia assicurativa", utilizzata dall'art. 71 (ora 106) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non in senso restrittivo, nel suo significato tecnico giuridico, bensì in senso lato, quale credito rispetto al cui inadempimento il contribuente è comunque garantito con esclusione del relativo rischio. È muovendo da detta impostazione che la Corte è approdata alla riforma della sentenza impugnata, che aveva ritenuto deducibile la svalutazione del credito agrario erogato dalla contribuente, ritenendolo non garantito, sull'erroneo presupposto che la fideiussione prestata dalla sezione speciale del Fondo Interbancario, prevista dal comma 4 dell'ormai abrogato art. 45 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, non fosse equiparabile ad una copertura assicurativa.

Un'incisiva reiterazione di un principio consolidato si rinviene in Sez. 3, n. 5417, Rv. 630009, est. Vincenti, sulla fideiussione del mediatore. La pronuncia, nel chiarire che la garanzia personale prestata dal mediatore ai sensi dell'art. 1763 cod. civ., per l'adempimento delle prestazioni di una delle parti del contratto concluso per il suo tramite, è regolata dai principi propri della fideiussione, di ciò ha evidenziato una significativa conseguenza: come previsto dall'art. 1937 cod. civ., la garanzia in questione deve risultare da una volontà espressa. Pertanto, sebbene a tal fine non sia necessaria la forma scritta né l'utilizzo di formule sacramentali, ciò nonostante occorre che la volontà di prestare fideiussione si manifesti in un patto di cui sia fornita la prova, con ogni mezzo e, dunque, anche con testimoni o per presunzioni.

Rimarchevole, nel contesto di riferimento, è anche Sez. 1, n. 4528, Rv. 629644, est. Didone, che significativamente riafferma la valida configurabilità della fideiussione rilasciata da un socio illimitatamente responsabile di una società di persone, puntualizzandone il fondamento. In buona sostanza, detto socio può prestare illimitatamente responsabile in favore della società di persone che, pur se sprovvista di personalità giuridica, costituisce un distinto centro di interessi e di imputazione di situazioni sostanziali e processuali, dotato di una propria autonomia e capacità rispetto ai soci stessi; ne consegue che la predetta garanzia rientra tra quelle prestate per le obbligazioni altrui secondo l'art. 1936 cod. civ., non sovrapponendosi alla garanzia fissata ex lege dalle disposizioni sulla responsabilità illimitata e solidale, potendo invero sussistere altri interessi che ne giustificano l'ottenimento - alla stregua di garanzia ulteriore - in capo al creditore sociale ed essendo lo stesso beneficium excussionis, di cui all'art. 2304 cod. civ.. Tale ultima norma, nel prevedere, infatti, che i creditori sociali, prima d'aver escusso il patrimonio sociale, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, è posto a tutela di costoro, ma è senz'altro disponibile.

Un'indubbia importanza, anche per la precisazione dogmatica che ha reso, si riscontra in Sez. 3, n. 6517, Rv. 630348, est. Cirillo, la quale ha evidenziato come, in tema di locazioni ad uso non abitativo, la facoltà, attribuita contrattualmente al conduttore, di sostituire il deposito cauzionale, dovuto ai sensi degli artt. 11 e 41 della legge 27 luglio 1978, n.392, con una fideiussione bancaria a prima richiesta determina l'inapplicabilità dell'art. 1956 cod. civ., che presuppone il carattere futuro dell'obbligazione garantita, avendo tale fideiussione, da qualificarsi, peraltro, come cauzione o polizza fideiussoria, funzione di garanzia di un obbligo immediato, certo, liquido ed esigibile e natura di equivalente del denaro contante. Nel caso giunto al vaglio della Corte, il conduttore era tenuto a costituire un deposito cauzionale di lire 42 milioni, pari ad una rata trimestrale di canone, a garanzia di tutti i suoi obblighi contrattuali; previsione rispondente, tra l'altro, alla regola generale della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 11 richiamato dal successivo art. 41 per le locazioni ad uso diverso da quello di abitazione. Al conduttore, però, era stata concessa la facoltà di sostituire il deposito cauzionale con una fideiussione bancaria a prima richiesta il cui testo sarà indicato dal locatore. Il collegio ha rilevato che, in un caso del genere la fideiussione - che dovrebbe essere chiamata piuttosto cauzione o polizza fideiussoria - non era sorta a garanzia di un'obbligazione futura, bensì di un'obbligazione che la ricorrente ha correttamente definito immediata, certa, liquida ed esigibile. In altre parole, al conduttore era stata conferita la possibilità di sostituire il deposito cauzionale con la prestazione di una garanzia che aveva a tutti gli effetti la natura di un equivalente del denaro contante. Questa essendo, la corretta interpretazione del contratto, era evidente che la Corte di merito avesse errato, in relazione a questo profilo, ad invocare l'art. 1956 cod. civ. e la conseguente inoperatività della garanzia, perché la norma applicata presupponeva, appunto, il carattere futuro dell'obbligazione, che era mancante in riferimento all'obbligo di deposito.

Meritevole di attenzione è anche Sez. 3, n. 15902, Rv. 632722, est. Lanzillo, che si è incaricata di chiarire lo scopo dell'art. 1957 cod. civ., evidenziando che, in tema di decadenza del creditore dall'obbligazione fideiussoria per effetto della mancata tempestiva proposizione delle azioni contro il debitore principale, qualora il debito sia ripartito in scadenze periodiche, ciascuna delle quali dotata di un grado di autonomia tale da potersi considerare esigibili anche prima ed indipendentemente dalla prestazione complessiva, il dies a quo, agli effetti della richiamata norma, va individuato in quello di scadenza delle singole prestazioni, non già dell'intero rapporto. La ratio finalistica del termine decadenziale è, infatti, quello di evitare che il fideiussore si trovi esposto all'aumento indiscriminato degli oneri inerenti alla sua garanzia, per non essersi il creditore tempestivamente attivato al primo manifestarsi dell'inadempimento, magari proprio contando sulla responsabilità solidale del fideiussore. Nel caso di specie la Corte ha avuto modo, peraltro, di ravvisare l'autonomia delle prestazioni aventi ad oggetto le singole rate del canone annuo pattuito per la locazione, anche considerando che la legge autorizza il locatore ad agire per la risoluzione del contratto decorsi venti giorni dalla scadenza del canone ineseguito.

Notevole la precisazione espressa da Sez. 3, n. 14772, Rv. 631815, est. Amendola, secondo cui in tema di cessione del credito da rimborso IVA, il fideiussore che, ai sensi dell'art. 38-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, quale garante del diritto, spettante all'ufficio dell'imposta sul valore aggiunto, di ripetere le somme risultanti a credito del contribuente in sede di dichiarazione annuale, abbia pagato quanto preteso dall'amministrazione finanziaria in via di ripetizione a seguito dell'accertamento operato, è surrogato nei diritti e nelle azioni di cui godeva il creditore garantito anche nei confronti del cessionario dell'originario (ed infondato) credito di rimborso.

Ancora in tema di fideiussione, Sez. 6-5, n. 14000, Rv. 631538, est. Caracciolo, ha fatto idonea applicazione, in ambito fiscale, del principio secondo cui la surrogazione del fideiussore al creditore principale implica una mera, per quanto peculiare forma di successione nel credito, con contestuale novazione dal lato soggettivo, senza, tuttavia, incidere sull'identità oggettiva dell'obbligazione, che conserva la sua natura. Dal che si è tratta la conseguenza per cui, in materia di imposta di registro, il decreto ingiuntivo ottenuto dal fideiussore nei confronti del debitore inadempiente per il recupero di somme assoggettate ad IVA soggiace, ai sensi dell'art. 8 della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, all'applicazione dell'imposta in misura fissa.

Sempre con riferimento all'ambito tributario, Sez. 6-5, n. 4799, Rv. 629987, est. Bognanni, evidenzia che, in tema di rimborso dell'IVA, l'atto con cui l'amministrazione richieda al contribuente, che abbia presentato la corrispondente istanza ex art. 38 bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, vigente ratione temporis, anche la prestazione di una garanzia fideiussoria implica inequivocabilmente, benché tacitamente, l'ammissione della pretesa creditoria, con effetti interruttivi della prescrizione ex art. 2944 cod. civ., a differenza della mera richiesta di documentazione che, effettuata al fine di verificare la fondatezza della pretesa stessa, difetta del requisito dell'univocità. È ancora una volta la connotazione accessoria della garanzia a risaltare, nel senso che la prestazione della fideiussione di per sé stessa non può che costituire, per la natura di quest'ultima, un riconoscimento, sia pure tacito, del credito vantato dal contribuente.

Notevole appare, infine, Sez. 6-3, n. 4038, Rv. 630325, est. Barreca, la quale ha escluso il rapporto di pregiudizialità, ai fini della sospensione necessaria di cui all'art. 295 cod. proc. civ., tra il giudizio di risoluzione contrattuale promosso dal subappaltante nei confronti del subappaltatore per l'inadempimento di questi, ed il giudizio promosso dallo stesso subappaltante nei confronti del fideiussore per escutere la garanzia prestata per l'inadempimento del subappaltatore. A tanto, il collegio è approdato tenendo conto che l'autonomia dei rapporti e la diversità dei soggetti sono aspetti che il carattere accessorio della garanzia non vale a travolgerla.

10. La locazione.

Nutrito, come di consueto, il complesso delle pronunce in materia di locazione. Risultano investiti capillarmente i diversi ambiti delle locazioni abitative e delle locazioni ad uso diverso. Rilevanti sono taluni principi affermati con riferimento al regime generale delle locazioni.

10.1. La locazione ad uso abitativo.

Nel solco di un orientamento ampiamente stabile, si è inserita Sez. 3, n. 19744, Rv. 632429, est. Scrima, la quale afferma che il locatore è tenuto a risarcire il danno alla salute subito dal conduttore in conseguenza delle condizioni abitative dell'immobile locato anche in relazione a vizi preesistenti la consegna ma manifestatisi successivamente ad essa qualora gli stessi, con l'uso dell'ordinaria diligenza, potessero essere a lui noti; né rileva che tali condizioni abitative fossero note al conduttore al momento della conclusione del contratto, in quanto la tutela del diritto alla salute prevale su qualsiasi patto interprivato di esclusione o limitazione della responsabilità.

Un'essenziale precisazione sui cd. "patti in deroga" è, poi, giunta da Sez. 3, n. 17034, Rv. 632081, est. Carleo, ad avviso della quale, la pattuizione di un canone libero ex art. 11 del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni in legge 8 agosto 1992, n. 359, in deroga alla disciplina sull'equo canone di cui alla legge 7 luglio 1978, n. 392, è valida solo a condizione che il locatore rinunci, espressamente e contestualmente alla conclusione del contratto, alla facoltà di disdire la locazione alla prima scadenza, obbligandosi per l'effetto a rinnovare il contratto per ulteriori quattro anni. Da che deriva che, pur quando vi sia espresso richiamo all'art. 11 della legge 359 del 1992, non risulta conclusa un valida pattuizione in deroga ove le parti si siano limitate a prevedere una clausola di rinnovo automatico della locazione per un secondo quadriennio nell'ipotesi di mancata comunicazione della disdetta al conduttore.

La Corte, con Sez. 3, n. 15898, Rv. 632055, est. Spirito, ha puntualizzato che in tema di locazione di immobile ad uso abitativo, nell'ipotesi in cui il locatore, alla prima scadenza quadriennale del contratto, abbia comunicato al conduttore il proprio diniego immotivato alla rinnovazione del contratto e sia sopravvenuta cosa giudicata sull'accertamento dell'inefficacia di quel diniego, sull'automatico rinnovo del contratto e sulla sua scadenza allo spirare del secondo quadriennio, è precluso al locatore stesso l'esperimento di una nuova azione tendente a far accertare il mancato rinnovo del contratto alla prima scadenza, sulla base di una diversa (benché tempestiva) comunicazione al conduttore dell'esercizio della facoltà di diniego del rinnovo del contratto sulla base dei motivi di cui al comma 1 dell'art. 3 della legge 9 dicembre 1998, n. 431.

Sull'assunto posto dall'orientamento costante della Corte di cassazione, secondo cui i gravi motivi che consentono, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, il recesso del conduttore dal contratto di locazione, ai sensi degli artt. 4 e 27 legge del 27 luglio 1978 n. 392, devono essere determinati da fatti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendergli oltremodo gravosa la sua prosecuzione Sez. 3, n. 12291, Rv. 631034, est. Armano, assevera che i motivi in questione possono consistere anche in molestie di fatto da parte di un terzo, in presenza delle quali il conduttore ha unicamente la facoltà, e non l'obbligo, di agire personalmente contro il terzo stesso ai sensi dell'art. 1585 cod. civ. Segnatamente, la dismissione della detenzione dell'immobile non dipende da arbitraria volontà del conduttore, ma si lega a esigenze esterne, in ipotesi in cui il continuo abbaiare del cane arrechi pregiudizio alla salute, provato dalla testimonianza del coniuge del conduttore e del suo medico curante. Le condizioni di stress indotte dal disturbo alla quiete e al riposo notturno, con precise ripercussioni alla salute pacificamente sopravvenute rispetto all'inizio del rapporto di locazione, rendevano oltremodo gravosa, se non intollerabile, la prosecuzione del rapporto locatizio per causa indipendente dalla volontà del conduttore.

Nel ricorso per cassazione si lamentava che i gravi motivi legittimanti il recesso non potessero consistere nel fatto illecito del terzo, avendo, il legislatore, previsto che il conduttore possa agire direttamente contro l'autore del fatto illecito, senza in alcun modo prevedere che il conduttore possa semplicemente recedere dal contratto. Nel caso di specie, a dire del ricorrente, in violazione dell'ordinaria diligenza, il conduttore non si era rivolto all'autorità giudiziaria competente e non aveva chiesto la cessazione delle molestie di fatto.

Il rigetto del ricorso è incentrato sul presupposto della dichiarata correttezza della affermazione secondo cui, in presenza di molestie di fatto, in base all'art. 1585 cod. civ., il conduttore ha la facoltà di agire personalmente contro il terzo, senza che tale previsione limiti, men che meno escluda, il ricorso ad altri strumenti di tutela giuridica: costringere il conduttore a continuare a detenere il bene e ad agire in giudizio contro il terzo significa tradurre incongruamente una sua facoltà in un obbligo, il che è manifestamente contrario al quadro normativo teso ad ampliare i poteri del conduttore, mentre anche il locatore ha un'azione autonoma nei confronti del terzo in relazione all'eventuale pregiudizio economico subito.

Di rilievo, in assenza di massimazione recente, è il principio contemplato da Sez. 3, n. 12290, Rv. 631035, est. Armano, secondo cui l'art. 79 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (applicabile ratione temporis), nel sanzionare con la nullità le previsioni contrattuali adottate in violazione dei limiti legali del contratto di locazione ad uso abitativo, non si riferisce agli interessi convenzionali di mora per il mancato pagamento del canone, che sono lasciati alla libera contrattazione delle parti riguardando la fase patologica del rapporto senza incidere in alcun modo sulla misura del canone e la durata del contratto, a tutela dei quali è, invece, posta la citata previsione di nullità.

La Corte, con Sez. 3, n. 5595, Rv. 630563, est. Carleo, ha affermato, con riferimento ad una fattispecie in tema di clausola pattizia per rinnovo tacito di locazione abitativa, il valore prioritario del criterio di interpretazione letterale dei contratti. La connotazione essenzialmente precipua del canone fondato sul significato letterale delle parole, di cui all'art. 1362, primo comma, cod. civ., implica che, in ipotesi in cui esso risulti sufficiente, l'operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente, il che accade, nello specifico, laddove risulti chiaro il tenore letterale della clausola del contratto di locazione ad uso abitativo, con cui le parti avevano voluto pattiziamente estendere ad ogni successiva scadenza la necessità per il locatore di dare disdetta motivata al conduttore ai sensi dell'art. 11, comma 2, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359.

Importante il chiarimento reso da Sez. 3, n. 4075, Rv. 629750, est. Carleo, in ambito di locazioni transitorie. La pronuncia ha affermato, infatti, che nella vigenza della legge 9 dicembre 1998, n. 431, la possibilità per le parti di stipulare un valido ed efficace contratto locatizio ad uso transitorio è subordinata all'adozione delle modalità e alla sussistenza dei presupposti stabiliti dall'art. 5 della legge n. 431 cit. e dal d.m. 30 dicembre 2002, che costituisce normativa secondaria di attuazione giusta il disposto di cui all'art. 4, comma 2, della medesima legge, con la conseguenza che, a tal fine, è necessario che l'esigenza transitoria, del conduttore o del locatore, sia specificamente individuata nel contratto, al quale deve essere allegata documentazione idonea a comprovare la stessa, e che i contraenti, prima della scadenza del termine contrattuale, ne confermino, con lettera raccomandata, la persistenza.

L'ordinanza resa da Sez. 3, n. 37, est. Scarano, ha revocato in dubbio il l'orientamento - espresso in particolare da Sez. 3, n. 16089 del 2003, Rv. 567691, est. Preden - secondo cui la mancata registrazione del contratto di locazione non determina la sua nullità ed ha rimesso la questione interpretativa relativa alla sua validità alle Sezioni Unite, ritenendo superata la precedente posizione. Ad avviso della Corte l'avviso precedente non è suscettibile di essere confermato, non potendosi neppure ritenere sanata la nullità del patto con la registrazione tardiva. In tal senso, con la citata ordinanza si è chiesto alle Sezioni Unite di fare chiarezza sulla questione così da evitare "un contrasto potenzialmente foriero di disorientanti oscillazioni interpretative che potrebbero conseguirne". Nell'affrontare la questione della nullità del patto che prevede un canone superiore a quello previsto nel contratto scritto e registrato, si è dunque presa nuovamente in esame, in contrasto con l'avviso precedentemente invalso, la problematica della validità o meno del contratto di locazione non registrato o tardivamente registrato. Muovendo dall'esegesi dell'art. 13, legge n. 431/1998, il quale dispone la nullità di qualsivoglia pattuizione tesa a delineare "un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato", l'ordinanza di rimessione riconosce alla registrazione del contratto la portata di requisito di validità dell'intera operazione negoziale. Non è avulso dal ragionamento della Corte un aspetto saliente: la promozione dell'emersione del fenomeno delle locazioni "in nero", volto a contrastare il mercato sommerso dell'evasione ed elusione fiscale, testimonia la sempre più stretta correlazione tra obblighi tributari e civili, sub specie di validità contrattuale. Si è disattesa, in tal senso, la diversa impostazione volta ad individuare nella registrazione del contratto una mera condicio iuris di un negozio valido, ma ancora imperfetto. Nella prospettiva della Corte, coerentemente, l'ulteriore patto, concordato dalle parti, non registrato, volto a prevedere un canone da versare superiore a quello risultante dal contratto registrato, si espone alla sanzione della nullità, essendo volto proprio al perseguimento del fine vietato dalla norma, "garantire cioè al locatore di ritrarre dal concesso godimento dell'immobile un reddito superiore rispetto a quello assoggettato ad imposta (nel caso, di registro)". Le parti possono, pertanto, modificare il precedente assetto negoziale nel solo caso di accordo novativo del contratto scritto e registrato a monte, con conseguente relativo assoggettamento alla corrispondente imposizione fiscale.

10.2. La locazione ad uso non abitativo.

Nel quadro di un avviso consolidato, si è innestata Sez. 3, n. 20551, Rv. 632407, est. Carleo, che, con riferimento agli immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, evidenzia la nullità, ai sensi dell'art. 79 della legge 27 luglio 1978, n. 392, di ogni pattuizione che consenta al locatore di pretendere dal conduttore un pagamento non giustificato dal sinallagma contrattuale. Dal che consegue, con riguardo agli oneri condominiali, l'impossibilità, desumibile anche dall'art. 9 della legge anzidetta, di porre a carico del conduttore poste passive e spese scollegate dal godimento effettivo, da parte sua, di un servizio. In tal senso, detta impossibilità afferisce, in particolare, gli oneri straordinari che riguardino, non solo l'unità immobiliare, ma l'edificio condominiale nel suo complesso, stante l'assenza di ogni rapporto sinallagmatico con il bene locato.

La medesima pronuncia resa da Sez. 3, n. 20551, Rv. 632406, est. Carleo, ha avvalorato, una volta di più, il principio in virtù del quale, in tema di contratto di locazione, ai fini della risoluzione per morosità, il giudice deve valutare la gravità dell'inadempimento anche alla stregua del comportamento del conduttore successivo alla proposizione della domanda, posto che l'avvenuto pagamento della somma richiesta dal locatore, nelle more del giudizio, non può non incidere sulla valutazione prognostica del suo futuro comportamento così da escludere, in termini di rilevante probabilità, il possibile verificarsi di ulteriori inadempimenti.

Un'importante riaffermazione del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo è contenuta in Sez. 3, n. 17061, Rv. 632144, est. Carleo, laddove si evidenzia che detta libera determinazione consente senz'altro di concordare il canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, purché, tuttavia, la misura, ex art. 32 della legge sull'equo canone, sia ancorata ad elementi predeterminati nel contratto, idonei a regolamentare l'equilibrio economico del rapporto senza incidere sulla disciplina delle variazioni annue del potere di acquisto della moneta, mentre è contra legem, e come tale nulla per violazione di norma imperativa, se costituisce un espediente per neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria, in violazione dei limiti quantitativi previsti dal sistema normativo. L'interpretazione di tale clausola, pertanto, deve tener conto dell'intero contesto delle clausole del contratto e del comportamento contrattuale ed extracontrattuale delle parti contraenti.

Rivela un saldo ancoraggio a principio consolidato Sez. 3, n. 13651, Rv. 631823, est. Scrima, affermando che nella locazione di immobile per uso diverso da quello abitativo, il locatore è inadempiente ove non abbia ottenuto - in presenza di un obbligo specifico contrattualmente assunto - le autorizzazioni o concessioni amministrative che condizionano la regolarità del bene sotto il profilo edilizio (e, in particolare, la sua abitabilità e la sua idoneità all'esercizio di un'attività commerciale), ovvero quando le carenze intrinseche o le caratteristiche proprie del bene locato ostino all'adozione di tali atti e all'esercizio dell'attività del conduttore in conformità all'uso pattuito.

Una puntualizzazione opportuna è arrivata da Sez. 3, n. 12050, Rv. 630927, est. Carleo, secondo la quale l'art. 3, comma 3 bis del d.l. 25 settembre 2001, n. 351 (aggiunto dalla legge di conversione 23 novembre 2001, n. 410), che riconosce ai conduttori degli immobili in dismissione, appartenenti al patrimonio pubblico, un diritto di opzione a prezzo agevolato, si applica limitatamente al primo trasferimento del bene all'acquirente privato, mentre, per i trasferimenti successivi - che concernono, ormai, un bene non più pubblico - opera l'art. 38 della legge 27 luglio 1978, n. 392, che contempla un diritto di prelazione in favore del conduttore al prezzo di compravendita fissato dalle parti secondo leggi di mercato.

Di indubbia rilevanza è Sez. 3, n. 10846, Rv. 631005, est. Rubino, ad avviso della quale, in tema di locazioni di immobili adibiti ad uso non abitativo, il riscatto previsto dall'art. 39 della legge 27 luglio 1978, n. 392, va tempestivamente esercitato dall'avente diritto alla prelazione anche nei confronti del coniuge dell'acquirente, che sia in regime di comunione legale al momento dell'acquisto, e a tal fine l'integrazione del contraddittorio nel giudizio intrapreso tempestivamente nei confronti del solo acquirente non è idoneo ad impedire la decadenza dal diritto di riscatto, se sia già inutilmente decorso il termine di sei mesi dalla trascrizione del contratto. Detto arresto giurisprudenziale mostra una distonia rispetto a Sez. U, n. 9523 del 2010, Rv. 612669, est. Spirito, secondo cui, in tema di prelazione e riscatto di immobile locato, ai sensi degli artt. 38 e 39 della legge 27 luglio 1978, n. 392, qualora il conduttore eserciti il diritto di riscatto con l'atto di citazione entro il termine di sei mesi previsto dalla suddetta norma soltanto contro uno o alcuni degli acquirenti, il consolidamento dell'acquisto è impedito anche nei confronti degli altri acquirenti, a condizione che la nullità della domanda derivante dalla mancata notificazione a tutti i litisconsorti sia sanata dall'integrazione del contraddittorio delle parti necessarie inizialmente pretermesse. Proprio sulla base dell'enunciato principio la Corte di cassazione aveva, nel caso di specie, ritenuto che il riscatto tempestivamente esercitato dal locatario per via giudiziale contro l'acquirente di un immobile fosse idoneo ad impedire la decadenza di cui all'art. 39 della legge n. 392 del 1978 anche nei confronti del coniuge dell'acquirente, con questo in comunione legale dei beni e non citato inizialmente in giudizio, ma nei cui confronti, benché fosse trascorso il suddetto termine di decadenza, era poi stato integrato il contraddittorio.

Una fondamentale precisazione si rintraccia in Sez. 3, n. 10542, Rv. 631629, est. Frasca, secondo la quale, in tema di locazioni ad uso non abitativo, inviata disdetta alla scadenza del secondo sessennio, la richiesta di adeguamento del canone ex art. 32, legge 27 luglio 1978, n. 392, formulata dal locatore in prossimità della scadenza, è pienamente compatibile con il perdurare dell'effetto di cessazione del rapporto, giacché diretta soltanto ad assicurare che tale aggiornamento sia compreso nella misura di quanto dovuto, ai sensi dell'art. 1591 cod. civ., per l'ipotesi in cui il conduttore non rilasci l'immobile, laddove occorre un nuovo accordo negoziale per il rinnovo del contratto.

La Corte, con Sez. 3, n. 5596, Rv. 629892, est. Carleo, ha avuto modo di reiterare l'affermazione, già in precedenza espressa, secondo cui, in tema di locazione di immobile adibito ad uso abitativo, nel vigore della legge 9 dicembre 1998, n. 431, al conduttore spetta il diritto di prelazione (e, quindi, di riscatto), nei confronti del terzo acquirente, solo nel caso in cui il locatore abbia intimato disdetta per la prima scadenza, manifestando in tale atto l'intenzione di vendere a terzi l'unità immobiliare, rispondendo la scelta normativa all'esigenza di compensare il mancato godimento dell'immobile per l'ulteriore quadriennio a fronte dell'utilità per il locatore di poter alienare il bene ad un prezzo corrispondente a quello di mercato degli immobili liberi. Ne consegue che, in caso di disdetta immotivata per la detta scadenza, il conduttore ha unicamente il diritto alla rinnovazione del contratto.

Sempre in tema di recesso del conduttore di immobili ad uso non abitativo, Sez. 3, n. 7217, Rv. 630201, est. Sestini, adduce l'opportuna specificazione secondo cui, ove il locatario svolga la propria attività in diversi rami di azienda, per i quali utilizzi distinti immobili, i gravi motivi, giustificativi del recesso anticipato, di cui all'art. 27, ultimo comma, della legge del 27 luglio 1978, n. 382, debbono essere accertati in relazione all'attività svolta nei locali per cui viene effettuato il recesso, senza possibilità per il locatore di negare rilevanza alle difficoltà riscontrate per tale attività in considerazione dei risultati positivi registrati in altri rami aziendali.

I giudici di merito avevano escluso che sussistessero i gravi motivi addotti dalla società conduttrice a fondamento del recesso anticipato, osservando che la chiusura del ramo di azienda per cui veniva utilizzato il capannone oggetto della locazione non era stata "una scelta necessitata dell'imprenditore, bensì una scelta di opportunità", determinata "da motivi strategici e non gravi", visto che, pur a fronte di un'indubbia riduzione del fatturato relativo allo specifico ramo d'azienda, la società aveva registrato - nel complesso - un aumento del volume di affari.

La Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che l'accertamento della ricorrenza dei gravi motivi che giustificano il recesso non possa che essere condotto in riferimento allo specifico contratto di locazione per cui viene esercitato il recesso e che, ove venga addotta la non remuneratività dell'attività o addirittura la chiusura del ramo di azienda che utilizzava l'immobile interessato dal recesso, non possa tenersi conto dell'aumentata redditività di altre attività, tale da assorbire le perdite o anche da determinare un miglioramento complessivo delle condizioni economiche del conduttore. Nell'ottica di un bilanciamento fra l'interesse del locatore alla prosecuzione del rapporto fino alla sua naturale scadenza e quello del conduttore a non essere vincolato dal contratto ove l'attività per cui l'immobile è stato locato divenga antieconomica, la valutazione imposta dall'art. 27 ult. comma della legge n. 392 del 1978 non può che concernere la specifica attività per cui l'immobile è stato locato, al fine di accertare se persista - oggettivamente - quell'interesse che aveva determinato l'assunzione degli obblighi contrattuali.

La Corte, con Sez. 3, n. 4443, Rv. 629685, est. Rossetti, ha ribadito il principio che le obbligazioni di pagamento dell'indennità e di rilascio dell'immobile sono in rapporto di reciproca dipendenza, sicché ciascuna delle due prestazioni è inesigibile in difetto di contemporaneo adempimento (o offerta di adempimento) dell'altra. Ne consegue che gli interessi sulla somma dovuta a titolo di indennità di avviamento commerciale non iniziano a decorrere finché non è avvenuto il rilascio dell'immobile.

La salvaguardia dell'equilibrio sinallagmatico contrattuale sta alla base anche della pronuncia emessa da Sez. 3, n. 3348, Rv. 629682, est. Stalla, secondo la quale, in materia di immobili urbani adibiti alle attività di cui all'art. 27, primo comma, nn. 1 e 2, della legge 27 luglio 1978, n. 392, tra il diritto del locatore al risarcimento del maggior danno da ritardata riconsegna dell'immobile locato, ai sensi dell'art. 1591 cod. civ., e l'adempimento dell'obbligo su questi gravante di pagamento al conduttore dell'indennità per la perdita dell'avviamento, esiste un rapporto di reciproca interdipendenza; ne consegue che, chiesto dal locatore il risarcimento del suddetto maggior danno, il giudice deve verificare anche d'ufficio se l'attore abbia adempiuto od offerto di adempiere l'obbligo di pagamento della suddetta indennità, non occorrendo a tal fine una formale eccezione da parte del conduttore.

Si è anche puntualizzato, con Sez. 3, n. 17066, Rv. 632578, est. Rubino, che nelle locazioni non abitative (nella specie, ad uso turistico-alberghiero), la valutazione della gravità dell'inadempimento va operata caso per caso e non può ridursi alla mera constatazione della violazione di una obbligazione principale, dovendosi, piuttosto, considerare l'importanza dell'inadempimento in rapporto al complesso delle pattuizioni e dell'operazione economica posta in essere, nonché all'interesse che intendeva realizzare la parte non inadempiente, così da verificare in quale misura l'inadempimento abbia determinato un effettivo squilibrio nel sinallagma contrattuale, che giustifichi la risoluzione. In tal senso, avuto riguardo al caso di specie, la violazione dell'obbligazione di custodia della cosa locata, per l'omessa esecuzione di lavori di piccola manutenzione per un valore di settanta milioni di vecchie lire, non si palesava idonea a giustificare la risoluzione per inadempimento a fronte di canoni corrisposti in nove anni per un importo di oltre tre miliardi. La portata pratica della pronuncia è assai rilevante in quanto affronta lo spinoso tema della valutazione della gravità dell'inadempimento nei contratti ad uso diverso dall'abitazione, per il quale non consta predeterminazione legale di gravità dell'inadempimento suscettibile di condurre alla risoluzione, neppure in relazione all'obbligo di corrispondere il canone. In tal senso, per quanto l'art. 1587 cod. civ. preveda a carico del conduttore l'obbligazione di prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l'uso determinato nel contratto o per l'uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze esige la valutazione delle condotte del locatario, nondimeno è rimessa alla discrezionalità del giudice la valutazione della gravità e dell'importanza dell'inadempimento connesso alla condotta o all'omissione del conduttore, da stimarsi in relazione all'interesse del locatore. Nel caso della locazione alberghiera è d'uopo valutare in concreto il complesso delle pattuizioni e dell'operazione economica posta in essere dalle parti, oltre che l'interesse che la parte non inadempiente intendeva realizzare, per verificare se e in che misura l'inadempimento del conduttore fosse in grado di determinare un effettivo e definitivo squilibrio sopravvenuto nel sinallagma contrattuale tale da giustificare una pronuncia di risoluzione. Poiché l'obbligazione di eseguire la piccola manutenzione non è una delle obbligazioni principali del conduttore, ma una mera obbligazione accessoria, l'accertamento del suo inadempimento non implica di per sé la sussistenza della non scarsa importanza che solo legittima la pretesa risoluzione. Nel caso concreto, non solo l'entità degli interventi di manutenzione in rapporto ai canoni di locazione corrisposti negli anni, costituiva un elemento di scarsa rilevanza (poche decine di migliaia di euro a fronte di alcuni milioni pagati a titolo di canone), ma l'interesse del locatore poteva essere non meritevole di tutela, posto che la richiesta pronuncia di risoluzione per inadempimento del conduttore sembrava preordinata ad evitare la corresponsione dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale dovuta alla cessazione per finita locazione.

10.3. Disciplina della locazione in generale.

Di sicuro pregio fra le pronunce in materia è Sez. 3, n. 17964, Rv. 632196, est. Carleo, la quale riafferma che l'inadempimento o l'inesatto adempimento dell'obbligazione contrattuale è di per sé un illecito, ma non obbliga per ciò solo l'inadempiente al risarcimento, se non ne è derivato un danno in concreto al patrimonio del creditore. La riferibilità di detto principio generale alla fattispecie disciplinata dall'art. 1590 cod. civ., implica la conseguenza per la quale il conduttore non è obbligato al risarcimento, se dal deterioramento della cosa locata, superiore a quello corrispondente all'uso della cosa in conformità del contratto, per particolari circostanze non ne è derivato un danno patrimoniale al locatore. Nella specie, la pattuita riconsegna era strumentale alla ristrutturazione dell'immobile, sul cui costo il deterioramento non aveva alcuna incidenza economica.

Di spicco la pronuncia resa da Sez. 6-3, n. 15788, Rv. 632260, est. Scarano, che, sul presupposto per cui il rapporto che nasce dal contratto di locazione e che si instaura tra locatore e conduttore ha natura personale, ha ribadito la legittimazione del soggetto cui fa capo la disponibilità di fatto della res, in base a titolo non contrario a norme d'ordine pubblico (quindi lecitamente), a concederla validamente in locazione o comodato; del pari, costui è legittimato a richiedere la risoluzione del contratto. La saliente conseguenza che se trae sta in ciò, che in caso di simultanea pendenza di un giudizio relativo al rilascio di un immobile concesso in locazione e di altro relativo alla proprietà dello stesso bene in capo al locatore, non ricorrono i presupposti per la sospensione necessaria del primo di essi, atteso che l'accertamento della proprietà dell'immobile locato non integra affatto una questione pregiudiziale in ordine alla legittimazione a locare. La riaffermazione del principio riassunto rivela una specifica utilità avuto riguardo alla sussistenza, tra gli svariati precedenti conformi, anche di alcuni precedenti difformi, tra i quali Sez. 3, n. 23086 del 2004, Rv. 578710, est. Chiarini, che, pur muovendo dal medesimo presupposto in base al quale, per assumere la qualità di locatore non è necessario avere un diritto reale sulla cosa, sottolinea la necessità che colui che intende concedere in locazione abbia una disponibilità della cosa giuridica e non di mero fatto, ossia una disponibilità che tragga genesi in un rapporto o titolo giuridico atto a giustificare il potere di trasferire la detenzione ed il godimento del bene.

D'interesse è Sez. 1, n. 17734, Rv. 632151, est. Lamorgese, la quale esclude che la Pubblica Amministrazione che agisce iure privatorum concludendo un contratto di locazione abbia il potere di emettere, a norma dell'art. 823, secondo comma, cod. civ., atti autoritativi in autotutela per il conseguimento della disponibilità di un bene immobile detenuto in locazione da un privato nell'ambito di un rapporto di diritto comune

Un'utile puntualizzazione è stata svolta da Sez. 3, n. 15482, Rv. 631746, est. Sestini, laddove si evidenzia che, quando i canoni d'uso previsti per le aree asservite a parcheggio di edificio condominiale siano assimilati a canoni di locazione, sono i proprietari delle stesse a dover sopportare le spese di amministrazione condominiale (compenso per l'amministratore, spese per cartoleria e contabilità, ecc.), in quanto non ricomprese tra quelle che il conduttore deve rimborsare al locatore, il quale, diretto interessato all'attività di amministrazione e relativo mandante, ne sopporta per intero il carico, salvo diversa previsione contrattuale; ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in relazione al "fondo di riserva" che - quale accantonamento per eventuali future spese condominiali - risponde all'interesse del condomino (locatore) di accantonare somme che consentano un'adeguata e tempestiva amministrazione del bene.

Una opportuna riaffermazione chiarificatrice sul tema dell'aggiornamento del canone di locazione è stata operata da Sez. 3, n. 11675, Rv. 631068, est. Rubino, secondo la quale la relativa richiesta da parte del locatore, sia in caso di locazione di immobili ad uso abitativo, sia in caso di locazione ad uso diverso da quello di abitazione, costituisce condizione per il sorgere del relativo diritto. Ne consegue che solo a seguito di tale richiesta il locatore può domandare il canone aggiornato, per cui, ove non sia mai stato richiesto l'aggiornamento (o non sia stato convenuto tra le parti), lo stesso non rileva per la quantificazione dell'indennità ex art. 1591 cod. civ. per il ritardato rilascio dell'immobile.

Sembra testimoniare di un contrasto a tutt'oggi non ancora risolto l'affermazione contenuta in Sez. 3, n. 7197, Rv. 630121, est. Scrima, secondo cui, qualora la locazione di un immobile ad uno dei comproprietari cessi per scadenza del termine o per risoluzione per inadempimento del conduttore, il bene deve essere restituito alla comunione, affinché questa possa disporne, esercitando, attraverso la sua maggioranza, le facoltà di godimento diretto o indiretto. Ne consegue che il conduttore-comproprietario può essere condannato al rilascio dell'immobile in favore della comunione, onde permettere agli altri comproprietari di disporre delle rispettive quote, facendo uso della cosa comune secondo il loro diritto ai sensi degli artt. 1102 e 1103 cod. civ., trattandosi in tale ipotesi, peraltro, non di ordinare al comproprietario di restituire l'intero bene, ma la sola quota di esso, in maniera da reimmettere il concedente nella sua codetenzione. In effetti, la riassunta pronuncia, se trova conforto in Sez. 3, n. 19929 del 2008, Rv. 604225, est. Vivaldi, si pone in dissonanza rispetto alle pronunce Sez 1, n. 17094 del 2006, Rv. 592297, est. Mazzacane e Sez. 3, n. 5384 del 2013, Rv. 625751, est. Barreca.

La Corte - Sez. 3, n. 3616, Rv. 630358, est. Stalla - ha veicolato proficuamente la riaffermazione del principio, già in precedenza espresso, secondo cui il recesso dal contratto di locazione ha natura tipicamente negoziale quale manifestazione dell'autonomia negoziale della parte, ed è pertanto suscettibile di ratifica, disciplinata dall'art. 1399 cod. civ. ed applicabile anche agli atti unilaterali ex art. 1324 cod. civ. Ne consegue che il recesso va considerato tempestivo anche quando la sua ratifica intervenga dopo la scadenza del termine utile per il suo esercizio, retroagendo gli effetti al momento in cui il recesso è stato esercitato.

In un quadro giurisprudenziale sedimentato si è inserita Sez. 3, n. 2619, Rv. 629855, est. De Stefano, dalla quale si trae conferma del principio in base al quale, il conduttore, ai sensi degli artt. 1588 e 1590 cod. civ., al termine della locazione ed all'atto della riconsegna dell'immobile, ha l'onere di dare piena prova liberatoria della non imputabilità nei suoi confronti di ogni singolo danno riscontrato al bene locato, che deve presumersi in buono stato all'inizio del rapporto, esclusi solo i danni da normale deterioramento o consumo in rapporto all'uso dedotto in contratto.

Nello specifico, dunque, il locatario, essendo tenuto a restituire la cosa nello stato in cui si trovava all'inizio del rapporto o, in mancanza di prova su tale condizione, in buono stato, deve provare, trattandosi di obbligazione contrattuale, la propria assenza di colpa rispetto ai danni subiti dalla cosa locata. Diversamente, egli risponde dei danni stessi, ove non provi la non imputabilità a sé dei medesimi, complessivamente considerati, in relazione alla peculiare diligenza richiestagli per la natura del bene oggetto di locazione.

La sentenza in discorso ha significativamente accolto il ricorso del locatore, spiegando, tra l'altro, che di una situazione di persistente incertezza sull'epoca di verificazione dei danni non può fare le spese il locatore, cui giova l'evocata presunzione degli artt. 1588 e 1590 cod. civ.. in ordine alle condizioni all'inizio del rapporto di locazione. Piuttosto, dovendosi, in difetto di prova delle diverse e peggiori condizioni del bene all'inizio della locazione, considerare il bene in buono stato anche in tale tempo, il locatario deve rispondere dello scostamento da quelle condizioni anche se per avventura dipendenti da fatti non propri. Già in precedenza risulta affermato che il conduttore, ai sensi dell'art. 1588 cod. civ., risponde verso il locatore del deterioramento della cosa locata qualora non dia la prova dell'esistenza di causa a lui non imputabile; tale principio può essere derogato nel caso in cui il fattore determinante il danno abbia riguardato strutture o apparati dell'immobile sottratti alla disponibilità dello stesso conduttore ed estranei, pertanto, alla sfera dei suoi poteri e doveri di vigilanza Sez. 3, n. 20434 del 2008, Rv. 604283, est. Urban.

11. Il mandato.

In tema di mandato nel corso del 2014, la Suprema Corte ha pronunciato diverse sentenze di rilievo concernenti, per un verso, il contratto in senso stretto e, per l'altro, i limiti del mandato alle liti.

In merito al contratto di mandato strictu sensu, è stato ribadito da Sez. 2, n. 14682, Rv. 631208, est. Matera, l'orientamento già espresso in un risalente precedente Sez. 3, n. 605 del 1980, Rv. 403994, secondo cui la presunzione di onerosità del mandato, stabilita iuris tantum dall'art. 1709 cod. civ., può essere superata dalla prova della sua gratuità, desumibile anche dalle circostanze del rapporto, come la qualità del mandatario, le relazioni che intercedono fra questi e il mandante ed il contegno delle parti, anteriore e successivo allo svolgimento delle prestazioni.

Riguardo al mandato gratuito, Sez. 3, n. 15485, Rv. 631713, est. Stalla, ha affermato che non trovano applicazione gli artt. 2722 e 2729 del cod. civ. allorché la volontà negoziale circa la gratuità del contratto sia stata espressa sin dall'inizio del rapporto contrattuale, venendo in rilievo, in tale caso, una questione di interpretazione della sostanziale ed originaria volontà negoziale delle parti e non già di applicazione dei limiti alla prova testimoniale e presuntiva in materia di patti aggiunti.

Con riferimento al contenuto del mandato, è stato precisato da Sez. 2, n. 2153, Rv. 629564, est. Mazzacane, che il mandato per la riscossione di un credito non si estende alla transazione col debitore, la quale, ai sensi dell'art. 1708 cod. civ., è atto meramente eventuale ed ulteriore rispetto all'attività espressamente consentita.

Nella ipotesi di mandato all'incasso di titoli di credito, è stato affermato da Sez. 1, n. 10434, Rv. 631384, est. Scaldaferri, che le somme ricevute per conto del mandante in esecuzione del contratto di mandato, sono custodite dal mandatario in funzione dell'obbligo di restituirle al mandante, senza che, rispetto a tale adempimento, debba prospettarsi l'esistenza di un distinto contratto di deposito regolare delle somme, dovendosi ritenere che, come desumibile dall'art. 1177 cod. civ., nonché, quanto alla specifica normativa, dagli artt. 1714 e 1718 cod. civ., rientri nella disciplina del rapporto di mandato la configurabilità di un obbligo di custodia. In particolare, la Corte, qualificando come mandato all'incasso il contratto stipulato da un professionista con una società, poi fallita, ha riconosciuto la compensabilità del debito contrattuale con un proprio credito professionale già ammesso al passivo.

Di particolare interesse, in tema di ultrattività del mandato alla lite, è il principio espresso da Sez. U., n. 15295, Rv. 631467, est. Spirito: era controverso se, con riferimento al caso di morte o di perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, la notificazione della sentenza fatta a quest'ultimo fosse idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; a tale quesito è stata data risposta affermativa, osservando che il medesimo procuratore alla lite, in tali ipotesi, è legittimato a ricevere gli atti ed è tenuto a compiere di sua iniziativa solo gli atti urgentissimi che siano indispensabili ad evitare decadenze, con conseguente obbligo professionale di individuare immediatamente i successori o il rappresentante del cliente per informarli dello stato della causa, illustrare la strategia difensiva e ricevere disposizioni in merito.

La pronuncia in esame, Rv. 631466, ha pure chiarito che la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, in caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, il quale ometta di dichiarare o notificare il relativo evento, comporta che il difensore continui a rappresentare la parte come se l'evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell'impugnazione. Secondo la Corte tale posizione è suscettibile di modificazione qualora, nella fase di impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale di quella divenuta incapace, ovvero se il suo procuratore, già munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza, o notifichi alle altre parti, l'evento, o se, rimasta la medesima parte contumace, esso sia documentato dall'altra parte o notificato o certificato dall'ufficiale giudiziario ex art. 300, quarto comma, cod. proc. civ.

Quanto alla ipotesi di estinzione della persona giuridica, in applicazione dei medesimi principi, Sez. 3, n. 23141, in corso di massimazione, est. Amendola, ha ritenuto che la cancellazione di una società dal registro delle imprese - considerato quale fenomeno estintivo che priva la società stessa della capacità di stare in giudizio - determina, qualora l'estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte costituita, un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., la cui omessa dichiarazione o notificazione, ad opera del procuratore, comporta, in applicazione della regola dell'ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte (risultando così stabilizzata la sua posizione giuridica rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell'impugnazione. Con la conseguenza che tale posizione è suscettibile di modificazione qualora, nella fase di impugnazione, si costituiscano i soci successori della società, ovvero se il procuratore costituito per la società, già munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza l'evento o lo notifichi alle altre parti, o ancora se, in caso di contumacia, tale evento sia documentato dall'altra parte o notificato o certificato dall'ufficiale giudiziario ex art. 300, quarto comma, cod. proc. civ.

Sullo stesso tema, merita di essere menzionata Sez. 5, n. 26495, in corso di massimazione, est. Vella, che nel dare applicazione ai principi espressi da Sez. U, n. 15295 sopra meglio richiamata, ha posto in rilievo come essi meriterebbero ulteriore ponderazione in relazione alle peculiarità del processo tributario (ove la parte può essere difesa da professionisti diversi dagli avvocati, i quali non sono abilitati alla difesa nel giudizio di cassazione, dove perciò assai spesso il difensore è soggetto diverso da quello incaricato nei gradi precedenti) sia con riferimento alle "differenze che oggettivamente contraddistinguono gli eventi che colpiscono la persona fisica (morte) rispetto a quelli che colpiscono la persona giuridica (estinzione), alla luce del sistema di pubblicità legale che rende in questo secondo caso immediatamente fruibili tutte le necessarie informazioni (attraverso la consultazione del registro delle imprese)".

In tema di conferimento del mandato, Sez. L, n. 11382, Rv. 630916, est. Nobile, ha affermato come il principio che nega alla morte o alla perdita della capacità della parte o del difensore effetti giuridici nel giudizio in cassazione, caratterizzato dall'impulso di ufficio e perciò sottratto alle disposizioni degli artt. 299 e 300 cod. proc. civ., è applicabile solo dopo che, con la notifica del ricorso, si è instaurato il rapporto processuale dinanzi alla Corte di cassazione perché, fino a questo momento, vi è invece l'esigenza della presenza di tutti i requisiti della impugnazione, con conseguente inammissibilità del ricorso nel caso di decesso dell'institore, che ha sottoscritto la procura speciale, prima della esecuzione della notifica, dato che, ai sensi dell'art. 1722 cod. civ., tale evento, al pari della morte del difensore, estingue la procura privandola di ogni effetto.

Ancora, con riferimento al giudizio di legittimità, è stato sottolineato che la procura rilasciata dal controricorrente in calce o a margine della copia notificata del ricorso, anziché in calce al controricorso medesimo, non è idonea per la valida proposizione di quest'ultimo, né per la formulazione di memorie, in quanto non dimostra l'avvenuto conferimento del mandato anteriormente o contemporaneamente alla notificazione dell'atto di resistenza, ma è idonea ai soli fini della costituzione in giudizio del controricorrente e della partecipazione del difensore alla discussione orale, non potendo a tali fini configurarsi incertezza circa l'anteriorità del conferimento del mandato stesso, Sez. U, n. 13431, Rv. 631298, est. D'Ascola.

È stato peraltro affermato da Sez. U, n. 3775, Rv. 629590, est. Giusti, che il ricorso innanzi alle sezioni unite della Corte avverso una decisione del Consiglio nazionale forense emessa in sede disciplinare può essere sottoscritto dal procuratore dell'avvocato incolpato solo ove questi, oltre ad essere iscritto nell'albo speciale dei patrocinanti davanti alle giurisdizioni superiori, sia munito di "mandato speciale", riferito specificamente alla impugnazione della sentenza disciplinare, in quanto il requisito della specialità, prescritto dall'art. 66 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, assolve all'esigenza che la volontà della parte di impugnare si formi tenendo conto della decisione oggetto del ricorso stesso e, pertanto, necessariamente dopo la sua pubblicazione, sicché non può essere considerata idonea la procura rilasciata per la rappresentanza e la difesa nelle fasi dinanzi al Consiglio dell'ordine territoriale o al Consiglio nazionale forense, ancorché conferita in vista dell'intero procedimento.

La Corte - Sez. 3, n. 17221, in corso di massimazione, est. Rossetti - ha infine ritenuto valida la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito, che segua un procedimento cautelare, eseguita non alla parte personalmente, ma nel domicilio da questa eletto presso il proprio difensore in occasione del procedimento cautelare, purche' dal tenore della procura alle liti possa desumersi che essa sia stata conferita anche per la fase di merito. "Tuttavia", ha specificato il Collegio: "il conferimento d'una procura valida sia per la fase cautelare che per quella successiva di merito era eccezione che doveva essere sollevata dall'odierno ricorrente, in quanto idonea a paralizzare l'eccezione di nullità della notificazione della citazione in primo grado. Non era, dunque, onere dell'appellante provare di avere conferito al proprio avvocato, nella fase cautelare, una procura valida solo per la fase sommaria, ma era onere dell'appellato provare il contrario".

12. La spedizione.

In tema di contratto di spedizione, Sez. 3, n. 14089, Rv. 631759, est. Cirillo, ha precisato che lo spedizioniere acquista anche la veste di vettore ex art. 1741 cod. civ. ove assuma una unitaria obbligazione di esecuzione, in autonomia, del trasporto della merce con mezzi propri o altrui, verso un corrispettivo. La pronuncia ha aggiunto che l'accertamento di tale rapporto si risolve in una indagine sul concreto contenuto dell'intento negoziale, che non può essere soddisfatta dalla sola circostanza della girata allo spedizioniere della polizza di carico, la quale è titolo di credito causale del diritto alla consegna della merce trasportata, ma non implica l'automatica assunzione, da parte del medesimo, degli obblighi derivanti dal contratto di trasporto.

13. La mediazione.

Con riferimento al contratto di mediazione, Sez. 3 n. 762, Rv. 629758, est. Vivaldi, ribadendo un principio già affermato da Sez. 3, n. 16147 del 2010, Rv. 613826, ha ritenuto che, in tema di compensi per l'attività prestata, sebbene il ruolo dei mediatori previsto dall'art. 2 della legge 3 febbraio 1989, n. 39 sia stato soppresso dall'art. 73 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, tuttavia non è stato abrogato il dettato dell'art. 6 della legge n. 39 del 1989, secondo cui "hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli"; pertanto, il richiamato dettato normativo va interpretato nel senso che, anche per i rapporti di mediazione sottoposti alla normativa prevista dal d.lgs. n. 59 del 2010, hanno diritto alla provvigione solo i mediatori che siano iscritti nei registri delle imprese o nei repertori tenuti dalla camera di commercio.

È stato inoltre riaffermato da Sez. 3 n. 5417, Rv. 630009, est. Vincenti, in linea con un risalente precedente, Sez. 3, n. 11413 del 1992, Rv. 479023, che la garanzia personale prestata dal mediatore ai sensi dell'art. 1763 cod. civ., per l'adempimento delle prestazioni di una delle parti del contratto concluso per il suo tramite, è regolata dai principi propri della fideiussione, sicché, come previsto dall'art. 1937 cod. civ., essa deve risultare da una volontà espressa. A tal fine non è necessaria la forma scritta, né l'utilizzo di formule sacramentali, ma occorre che la volontà di prestare fideiussione si manifesti in un patto, la cui prova può essere fornita con ogni mezzo e, dunque, anche con testimoni o per presunzioni.

La Corte, con Sez. 2, n. 25799, in corso di massimazione, est. Bucciante, in materia di provvigione in una fattispecie relativa a distinti mediatori successivamente incaricati, a condizioni non del tutto identiche, ha ribadito il principio già espresso da Sez. 2, n. 2136 del 2000, Rv. 534398, secondo cui il diritto del mediatore alla provvigione sorge quando la conclusione dell'affare sia in rapporto causale con l'opera dallo stesso svolta, senza che sia necessario il suo intervento in tutte le fasi delle trattative, con la conseguenza che è sufficiente che sia ravvisabile il nesso di causalità tra attività del mediatore e conclusione dell'affare.

Infine, Sez. 3, n. 25851, in corso di massimazione, est. Stalla, confermando quanto già affermato da Sez. 3 n. 7759 del 2005 Rv. 582382, ha ritenuto che il conferimento dell'incarico non sia affatto essenziale alla configurazione del rapporto di mediazione, connotato, invece, dalla posizione di terzietà assunta dal mediatore, di norma non legato alle parti come previsto dall'art. 1754 cod. civ. da rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza.

14. Il deposito.

Nell'anno in corso, in tema di deposito, merita attenzione la decisione assunta da Sez. 3, n. 26887, in corso di massimazione, rel. Chiarini, che nel peculiare caso di furto del bagaglio avvenuto durante il trasporto ferroviario in carrozza letto ha ravvisato la responsabilità solidale del vettore e del gestore del servizio sulla base dell'art. 1786 cod. civ. che, espressamente, estende la responsabilità dell'albergatore all'imprenditore del servizio di carrozza letto; ha spiegato la Corte, infatti, che, come in capo all'albergatore sussiste l'obbligazione accessoria di garantire il cliente contro i furti delle cose che egli porta nella camera di albergo e così di vigilare affinché estranei non vi si introducano, così il vettore e l'organizzatore del trasporto ferroviario in carrozza letto debbono predisporre analoghi accorgimenti e cautele. In particolare, il Collegio ha precisato come il furto costituisse un rischio espressamente previsto nel regolamento della società, incaricata dal vettore per l'esecuzione del servizio di carrozza letto, e perciò rientrante nella sua sfera di controllo e di organizzazione di misure necessarie per scongiurarne l'accadimento e che, pertanto, i viaggiatori, una volta pagato anche il servizio di carrozza - letto, avevano il diritto di esigere la sorveglianza necessaria a che nessuno vi potesse entrare indisturbato mentre loro erano chiusi dall'interno, come invece era accaduto mentre il dipendente della società gerente il servizio "dormiva profondamente nella sua garitta, così non impedendo il furto aggravato".

15. Il mutuo.

Nel 2014 la Corte ha avuto modo di fornire indicazioni degne di nota sia con riferimento al mutuo bancario che con riguardo al credito al consumo.

In materia di contratti bancari, Sez. 3, n. 18325, Rv. 632034, est. Barreca, è intervenuta escludendo che la violazione dell'onere della forma scritta si abbia con la stipulazione per iscritto di clausole del contratto di mutuo fondiario e dell'atto di erogazione e quietanza, con le quali le parti abbiano previsto l'eventualità dell'utilizzo, da parte dell'istituto mutuante, di provvista in valuta estera raccolta mediante assunzione di un prestito in ECU, onde regolare, in tale eventualità, le singole semestralità di ammortamento del mutuo. Al riguardo, la Corte ha spiegato che non può parlarsi di recepimento del contenuto di un diverso contratto non sottoscritto dalla parte mutuataria, ma dell'assunzione dello stesso a presupposto del mutuo, allo scopo di variare, secondo fattori oggettivi, pur se aleatori, le condizioni del contratto di mutuo, così come in quest'ultimo convenute.

Si è, inoltre, precisato - Sez. 1, n. 11400, Rv. 631434, est. Cristiano - che con l'entrata in vigore del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (cosiddetto Testo Unico bancario), l'avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di finanziamento a medio e lungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili, ha comportato l'applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1283 cod. civ. e la circostanza del mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l'obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull'intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario.

Secondo Sez. 3, n. 7776, Rv. 630710, est. Rossetti, l'operazione di erogazione al cliente, da parte di una banca, di un mutuo contestualmente impiegato per acquistare per suo conto strumenti finanziari predeterminati ed emessi dalla banca stessa, a loro volta contestualmente costituiti in pegno in favore di quest'ultima a garanzia della restituzione del finanziamento, dà vita ad un contratto atipico unitario, la cui causa concreta risiede nella realizzazione di un lucro finanziario, da ricondurre ai "servizi di investimento" ex art. 1, comma 5, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.

La Corte, inoltre, con Sez. 3, n. 25205, Rv., in corso di massimazione, est. Barreca, ha espresso il principio secondo cui affinché una clausola di determinazione degli interessi corrispettivi sulle rate di ammortamento scadute sia validamente stipulata ai sensi dell'art. 1346 cod. civ., è sufficiente che la stessa contenga un richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione del saggio di interesse. A tal fine, secondo la pronuncia, occorre che quest'ultimo sia desumibile con l'ordinaria diligenza dal contratto, senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità in capo all'istituto mutuante, non rilevando la difficoltà di calcolo necessario per pervenire al risultato finale ne' la perizia richiesta per la sua esecuzione.

In tema di credito al consumo, Sez 3, n. 20477, Rv 634236, est. Barreca, nel caso di inadempimento del fornitore di beni e servizi, ha affermato che l'azione diretta del consumatore contro il finanziatore, prevista dall'art. 125, comma 4, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (cosiddetto Testo unico bancario), nel testo originario, si aggiunge alle comuni azioni contrattuali per le quali non vigono le condizioni stabilite da detta norma, spettando al giudice, in applicazione dei principi generali, individuare gli effetti del collegamento negoziale istituito per legge tra il contratto di finanziamento e quello di vendita.

16. La transazione.

Interessante quanto affermato da Sez. 2, n. 15841, Rv. 631672, est. Migliucci, che ha chiarito come la transazione novativa, avente ad oggetto un titolo nullo, sia annullabile, ma che il vizio del negozio, agli effetti dell'art. 1972, secondo comma, cod. civ., può essere fatto valere soltanto dalla parte che abbia ignorato la causa di nullità.

Con riferimento ai rapporti tra condebitori solidali, Sez. 3, n. 15895, Rv. 631992, est. Spirito, ha ribadito il principio, già espresso da Sez. 3, n. 9369 del 2006, Rv. 589349, secondo cui la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori solidali giova agli altri, che dichiarino di volerne profittare, soltanto se stipulata per l'intero debito solidale, principio non applicabile quando, invece, la transazione è limitata al solo rapporto interno del debitore che la stipula.

In tema di transazioni commerciali tra soggetti domiciliati negli Stati membri dell'Unione europea, rilevante è il principio espresso da Sez. 3 n. 9862, Rv. 630999, est. Carluccio, che nella ipotesi di sentenza di condanna al pagamento di interessi di mora con indicazione della sola decorrenza e non anche la natura e la misura di essi, ha precisato che tale condanna generica si pone in contrasto con il principio di effettività del diritto comunitario, atteso che ai sensi dell'art. 49, del Regolamento 22 dicembre 2000, n. 44/2001/CE, ratione temporis vigente, le decisioni straniere che applicano penalità sono esecutive nello Stato membro richiesto solo se la misura sia definitivamente fissata dai giudici dello Stato membro di origine.

La Corte, con Sez. 2, n. 7505, Rv. 630107, est. Nuzzo, ha affermato che la prova scritta della transazione, necessaria ai sensi dell'art. 1967 cod. civ., non può consistere nella trascrizione di colloqui telefonici in quanto la trascrizione stessa non costituisce documento, né può integrare una riproduzione meccanica di un documento.

Infine, di rilievo, quanto statuito da Sez. 5, n. 24102, in corso di massimazione, est. Chindemi, che in tema di imposta di registro, nel caso in cui nel corpo della sentenza soggetta a registrazione sia enunciata una transazione intervenuta tra le parti, ha chiarito come l'imposta sia dovuta solo qualora le prestazioni dalla stessa derivanti siano ancora da eseguire. In particolare, la Corte ha cassato l'impugnata sentenza, che aveva rigettato il ricorso del contribuente, pur risultando dalla stessa sentenza che quest'ultimo aveva già adempiuto per intero all'obbligazione pecuniaria derivante a suo carico dalla transazione.

17. Il trasporto.

In tema di diritti nascenti dai contratti di autotrasporto di cose per conto terzi con tariffe "a forcella" (nel testo applicabile, ratione temporis, prima dell'entrata in vigore dell'art. 2, del d.l. n. 82 del 1993), la Corte - Sez. 3, n. 15231, Rv. 631989, est. Cirillo - ha ritenuto applicabile la prescrizione breve di un anno, prevista dall'art. 2951 cod. civ.

Con riferimento alla responsabilità del vettore, Sez. 3 n. 2075, Rv. 629942, est. Amendola, ha ribadito, in conformnità con un principio già affermato da Sez. 3, n. 10980 del 2003, Rv. 565005, che l'art. 13 della convenzione di Ginevra del 19 maggio 1956, relativa al contratto di trasporto internazionale di merci su strada (C.M.R.) attribuisce, al pari dell'art. 1689 cod. civ., la titolarità del diritto all'indennizzo in ragione dell'incidenza del pregiudizio conseguente alla perdita ovvero al deterioramento delle cose trasportate. Da ciò discende che la legittimazione del destinatario a pretendere il suddetto indennizzo sussiste solo dal momento in cui, arrivate le cose a destinazione o scaduto il termine in cui sarebbero dovute arrivare, lo stesso ne abbia richiesto la riconsegna al vettore.

In materia di giurisdizione sulle controversie relative al trasporto aereo internazionale, Sez. U, n. 22035, Rv. 633018, in linea con quanto affermato da Sez. U, n. 11183 del 2005, Rv. 581918, ha ribadito che l'art. 28 della Convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929 (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 19 maggio 1932, n. 841), come modificata dal protocollo dell'Aja del 28 settembre 1955 (ratificato con legge 3 dicembre 1962 n. 1832), nella parte in cui individua i fori alternativi nel luogo in cui il vettore ha il domicilio, la sede principale dell'impresa o un'organizzazione a cura della quale sia stato concluso il contratto, ovvero in quello del luogo di destinazione, indica unicamente i criteri di collegamento per radicare la giurisdizione dello Stato aderente, ma non anche le regole attributive della competenza che rimane soggetta al regime proprio dello Stato in cui l'attore decide di intraprendere il giudizio, in quanto il secondo comma del menzionato art. 28 stabilisce che le disposizioni procedurali - e, quindi, anche l'individuazione del criterio di competenza - sono rimesse alla legge del tribunale adito.

18. La vendita.

Il contratto di compravendita è uno dei contratti tipici sul quale più frequentemente la Corte è stata chiamata ad intervenire nel corso del 2014 e numerose sono state le decisioni in materia, specie riguardanti la vendita immobiliare.

Appare opportuno, per chiarezza espositiva, esaminare separatamente le decisioni riguardanti il contratto preliminare di vendita, rispetto a quelle concernenti il contratto di vendita stricto sensu, distinguendo tra queste ultime, quelle attinenti alle disposizioni generali e alle obbligazioni scaturenti dal contratto, da quelle relative a singole specie di vendita.

18.1. Il contratto preliminare.

Diverse le pronunce in tema di preliminare di vendita che ribadiscono gli orientamenti interpretativi delle Corte, fornendo interessanti indicazioni e utili puntualizzazioni.

La corte, con Sez. 2 n. 18097, Rv. 631781, est. Scalisi, ha ribadito il principio già affermato da Sez. 3, n. 15035 del 2001, Rv. 550631, secondo cui il contratto preliminare di vendita di cosa altrui rimane pur sempre una fattispecie bilaterale tra promittente venditore e promissario acquirente, sicché il proprietario che vi aderisca non assume alcun obbligo diretto nei confronti del promissario acquirente e non può da lui essere convenuto con l'azione ex art. 2932 cod. civ., restando obbligato esclusivamente verso il promittente alienante.

Nel diverso caso di preliminare di vendita di un bene immobile, concluso da uno solo dei comproprietari pro indiviso, Sez. 6-2, n. 21286, Rv. 632332, est. Petitti, ha escluso, in conformità al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, già ribadito da Sez. 2, n. 6308 del 2008, Rv. 602526, la facoltà del promissario acquirente di richiedere ex art. 2932 cod. civ. il trasferimento coattivo, limitatamente alla quota appartenente allo stipulante, non essendo consentito, in via giudiziale, costituire un rapporto giuridico diverso da quello voluto dalle parti con il preliminare, in quanto l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto è ammessa, ex art. 2932, primo comma, cod. civ., solo "qualora sia possibile".

Sotto altro profilo e sempre con riguardo al preliminare di vendita di bene indiviso, considerato quale unicum, Sez. 2, n. 11549, Rv. 630848, est. Migliucci, ha precisato che ogni comproprietario, non solo si obbliga a prestare il consenso per il trasferimento della sua quota, ma promette anche il fatto altrui, cioè la prestazione del consenso degli altri comproprietari, sicché, attesa l'unitarietà della prestazione dei venditori, l'obbligo di prezzo è indivisibile per volontà negoziale e ciascun venditore può esigere l'intero a titolo solidale.

In tema di preliminare di vendita per persona da nominare concernente un bene immobile, Sez. 2, n. 18490, Rv. 632222, est. Mazzacane, ha affermato, ribadendo un assunto già enunciato da Sez. 2, n. 23066 del 2009, Rv. 610789, che la dichiarazione di nomina e l'accettazione del terzo debbono rivestire la stessa forma del contratto, sicché è sufficiente che all'altro contraente pervenga una comunicazione scritta indicante la chiara volontà di designazione del terzo e l'accettazione di quest'ultimo, che può risultare anche dall'atto introduttivo del giudizio promosso dal terzo nei confronti dell'altro contraente, senza che rilevi l'eventuale non contemporaneità o la ricezione in tempi diversi della nomina del terzo e della relativa accettazione.

Nella diversa ipotesi in cui al contratto preliminare di vendita per persona da nominare venga apposta una clausola compromissoria, il terzo designato al momento della stipula del contratto definitivo deve essere considerato fin dall'origine unica parte contraente contrapposta al promittente venditore ed a questo legata dal rapporto costituito dallo stipulante nella sua interezza, comprensivo quindi della clausola compromissoria contenuta nel solo preliminare e che direttamente lo vincola, come deciso da Sez. 1, n. 8868, Rv. 631156, est. Campanile.

Peculiare è il principio affermato da Sez. 2, n. 15392, Rv. 631698, est. Bianchini, che in tema di compravendita di immobili, qualora il contratto preliminare preveda l'obbligo del promissario acquirente di sostenere l'onere delle spese per la redazione delle tabelle millesimali, ancora da ultimare al momento della stipula dell'atto, ha ritenuto il promittente venditore obbligato alla consegna degli elaborati tecnici necessari alla stesura definitiva delle stesse, precisando che tale obbligo si desume, non dall'art. 1477, terzo comma, cod. civ. concernente i soli documenti che rendano agevole la fruizione della cosa venduta, ma dall'interpretazione secondo buona fede della volontà negoziale, espressione dell'interesse del compratore ad avere a disposizione le tabelle ed a conoscerne l'intero processo formativo al fine di controllare l'esercizio dei poteri dell'assemblea e la corretta ripartizione delle spese condominiali.

Nello stesso ambito, a parere di Sez. 3 n. 22343, Rv. 633147, est. Scarano, qualora il bene oggetto del contratto risulti soggetto a vincolo di inedificabilità posto da un provvedimento amministrativo di carattere generale (nella specie, vincolo idrogeologico previsto dal piano straordinario dell'Autorità di bacino nord occidentale della Regione Campania), tale vincolo, sottaciuto dal promittente venditore, rientra nel suo obbligo di garanzia ex art. 1489 cod. civ. sicché il promissario acquirente, ove emerga, alla luce di un'interpretazione dell'intero contratto condotta secondo il criterio funzionale e di buona fede e correttezza, il suo affidamento circa l'edificabilità del terreno, può richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore.

Si è poi osservato, Sez. 6-2, n. 14023, Rv. 631465, est. Manna, che nel caso in cui il promissario acquirente abbia ottenuto, in sede giudiziale, la fissazione del termine entro cui stipulare il contratto definitivo, il successivo giudicato si forma anche sull'esistenza del credito che presuppone il suddetto termine. Ne consegue che, nella successiva causa instaurata dallo stesso promissario per l'emissione di una pronuncia costitutiva ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., il promittente venditore può eccepire solo la prescrizione dell'actio iudicati ex art. 2953 cod. civ., e non anche del diritto di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto, in quanto facoltà compresa nel credito accertato ed insuscettibile di autonoma prescrizione.

In materia di diffida ad adempiere, con riferimento ad un contratto preliminare di vendita immobiliare, Sez. 1, n. 11493, Rv. 631483, est. Salvago, ha osservato che il giudizio sulla congruità del termine di quindici giorni previsto dall'art. 1454 cod. civ. non può essere unilaterale ed avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, ma deve prendere in considerazione anche l'interesse del creditore all'adempimento ed il sacrificio che egli sopporta per l'attesa della prestazione. Ne consegue che la valutazione di adeguatezza va commisurata - tutte le volte in cui l'obbligazione del debitore sia divenuta attuale già prima della diffida - non rispetto all'intera preparazione all'adempimento, ma soltanto rispetto al completamento di quella preparazione che si presume in gran parte compiuta, non potendo il debitore, rimasto completamente inerte sino al momento della diffida, pretendere che il creditore gli lasci tutto il tempo necessario per iniziare e completare la prestazione. Nella specie, si controverteva in merito alla valutazione della congruità del termine di quindici giorni assegnato alla promittente venditrice con la diffida ad adempiere e la Corte, nel cassare la sentenza di merito, ha sottolineato come avrebbe dovuto tenersi conto dell'enorme lasso di tempo anteriore alla notifica della diffida, quantificabile in circa sette anni, nel corso del quale la stessa ben avrebbe avuto la possibilità di compiere nei registri immobiliari le necessarie visure e, quindi, effettuare, una volta ricevuta la diffida, il pagamento necessario al fine di liberare l'immobile dalle formalità trascritte.

Ribadendo l'indirizzo espresso da Sez. 2, n. 20258 del 2009, Rv. 609669, la Corte - Sez 2, n. 8081, Rv. 630399, est. Falaschi - ha ritenuto, a proposito di un preliminare di vendita di immobile solo parzialmente difforme dalla concessione, che l'irregolarità urbanistica che non oltrepassi la soglia della parziale difformità dalla concessione (nella specie, presenza di scala esterna) ex art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, non impedisce l'emanazione della sentenza ex art. 2932 cod. civ., perché il corrispondente negozio di trasferimento non sarebbe nullo.

In materia di nullità parziale, di sicuro interesse è quanto affermato da Sez. 2, n. 23950, Rv. non anc. mass., est. Picaroni, secondo cui la nullità della singola clausola contrattuale investe l'intero contratto, ai sensi dell'art. 1419, primo comma, cod. civ., solo quando si accerti che la effettiva volontà delle parti sarebbe stata quella di non concludere il negozio senza la clausola affetta da nullità, perché gli strumenti negoziali prescelti vanno valutati in funzione dell'interesse concretamente perseguito dalle parti. Affermando tale principio è stata cassata con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto non incidente sull'intero contratto una clausola nulla, apposta in un preliminare di vendita a garanzia del promittente venditore e di natura commissoria, perché reputata irrilevante per il "contraente medio", senza neppure chiarire il parametro oggettivo assunto quale criterio di valutazione.

Nel caso di fallimento del promittente venditore, Sez. 2, n. 9076, Rv. 630213, est. Correnti, ha ritenuto, mutando consapevolmente avviso rispetto a Sez. 1, n. 15218 del 2010, Rv. 613712 e Sez. U, n. 12505 del 2004, Rv. 574280, che il curatore possa optare per lo scioglimento del contratto ex art. 72 legge fall. e ottenere il rigetto della domanda ex art. 2932 cod. civ., anche se questa è stata trascritta prima della dichiarazione di fallimento, in quanto l'effetto prenotativo della trascrizione vale per le sentenze dichiarative e non per quelle costitutive, in relazione alla facoltà di scelta del curatore, che trova il solo limite nel giudicato.

18.2. Interpretazione, consenso e vizi.

Numerose le pronunce in merito al contratto di vendita stricto sensu, sia attinenti alle disposizioni generali sia alle obbligazioni scaturenti dal contratto.

In via generale, Sez. 1, n. 8957, Rv. 631126, est. Mercolino, ha affermato, in linea con Sez. 1, n. 2725 del 2007, Rv. 595520, che la causa del contratto di vendita con patto di riscatto o di retrovendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio, può rappresentare un mezzo per sottrarsi all'applicazione del relativo divieto ogni qualvolta il versamento del prezzo da parte del compratore non si configuri come corrispettivo dovuto per l'acquisto della proprietà, ma come erogazione di un mutuo, rispetto al quale il trasferimento del bene risponda alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi in maniera diversa a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute.

In tema di interpretazione del contratto, con riferimento ad una fattispecie di vendita con clausola di servitù, è stato affermato da Sez. 2, n. 5782, Rv. 630422, est. Carrato, che la buona fede esclude significati unilaterali o contrastanti con l'affidamento dell'uomo medio. In particolare, in relazione ad una convenzione costitutiva di una servitù di passaggio, inserita nel più ampio contesto di un atto di vendita con il quale il proprietario di un fondo, in origine unico, aveva alienato parte di esso a terzi, assumeva rilievo il significato letterale dell'atto, che, contro il principio nemini res sua servit, costituiva sul fondo venduto una servitù di passaggio "in favore del compratore", anziché del venditore.

Con riferimento ad un contratto traslativo della proprietà di un bene, per il quale la controprestazione sia costituita, in parte, da una cosa in natura e, in parte, da una somma di denaro, al fine di stabilire se si tratti di una vendita o di una permuta, Sez. 2, n. 5605, Rv. 629681, est. Scalisi, ha ritenuto, in conformità a Sez. 2 n. 9088 del 2007, Rv. 596953, che, una volta esclusa la duplicità di negozi ovvero l'ipotesi del contratto con causa mista, occorre avere riguardo non già alla prevalenza del valore economico del bene in natura ovvero della somma di denaro, bensì alla comune volontà delle parti, verificando se esse hanno voluto cedere un bene contro una somma di denaro, commutando una parte di essa, per ragioni di opportunità, con un altro bene, ovvero hanno concordato lo scambio di beni in natura, ricorrendo all'integrazione in denaro soltanto per colmare la differenza di valore tra i beni stessi.

Interessante quanto affermato da Sez. 3, n. 4065, Rv. 630313, est. Rossetti, che in relazione ad un contratto di acquisto di un bene stipulato in vista di una successiva concessione in locazione finanziaria ad un terzo, ha ritenuto che possa essere annullato per vizio del consenso che abbia inciso sulla formazione della volontà dell'acquirente, il quale è legittimato a chiederne l'annullamento anche quando, come concedente, agisca nella veste di mandatario dell'utilizzatore. La pronuncia ha chiarito, infatti, che, da un lato viene in rilievo, in ogni caso, un mandato in rem propriam e senza rappresentanza, mentre, dall'altro, presupposto del contratto di leasing è costituito dalla proprietà o dalla legittima disponibilità giuridica, in capo al concedente, del bene concesso in locazione, e, in tali operazioni, sussiste un collegamento funzionale tra vendita e locazione finanziaria tale da determinare una "diffusione", dall'uno all'altro dei contratti, delle cause di nullità, annullamento e risoluzione.

Sez. 2, n. 26051, in corso di massimazione, est. Matera, ha ribadito quanto già affermato da Sez. 2, n. 3385 del 2007, Rv. 594740, ovvero che la vendita di un bene, facente parte di una comunione ereditaria, da parte di uno solo dei coeredi, ha solo effetto obbligatorio; ha precisato, inoltre, che se il bene parzialmente compravenduto costituisce l'intera massa ereditaria, l'effetto traslativo dell'alienazione non resta subordinato all'assegnazione in sede di divisione della quota del bene al coerede - venditore in quanto quest'ultimo, quale proprietario esclusivo della quota ideale di comproprietà, ne può validamente disporre e di conseguenza il compratore subentra, pro quota, nella comproprietà del bene comune.

In tema di mancata determinazione del prezzo, la Corte ha ritenuto che ricorre l'ipotesi di cui all'art. 1474, terzo comma, cod. civ., quando le parti nel contratto si siano riferite al "giusto prezzo", senza che assumano rilievo espressioni diverse ancorchè equivalenti (come prezzo congruo, adeguato o simili). Inoltre, la Corte ha precisato che l'"accordo" cui fa riferimento il secondo inciso della richiamata disposizione, indica una pattuizione successiva, non prevista nel contratto originario, la quale si innesta su una previsione contrattuale che ha fatto riferimento al "giusto prezzo", Sez. 3, n. 11529, Rv. 631278, est. Frasca.

Con riguardo al tema dei vizi della cosa venduta, Sez. 2 n. 15824, Rv. 631693, est. Giusti, ha enunciato il principio secondo cui il rivenditore è responsabile nei confronti del compratore del danno a lui cagionato dal prodotto difettoso se non fornisce la prova di aver attuato un idoneo comportamento positivo tendente a verificare lo stato e qualità della merce e l'assenza di vizi, anche alla stregua della destinazione della stessa, giacché i doveri professionali del rivenditore impongono, secondo l'uso della normale diligenza, controlli periodici o su campione, al fine di evitare che notevoli quantitativi di merce presentino gravi vizi di composizione (nella specie, peperoncino rosso adulterato).

La stessa pronuncia, Rv. 631694, ha inoltre affermato che nel settore alimentare, dove la circolazione di merce sicura e sana contribuisce in maniera significativa alla salute e al benessere dei consumatori, l'acquirente di un alimento, operatore professionale e produttore (mediante l'utilizzazione del componente comperato) della sostanza finale destinata al consumo umano, ha l'obbligo - riconducibile al dovere di diligenza, previsto dal secondo comma dell'art. 1227 cod. civ., cui il creditore è tenuto per evitare l'aggravamento del danno indotto dal comportamento inadempiente del debitore - di attenersi al principio di precauzione e di adottare misure proporzionate in funzione delle caratteristiche del prodotto e della sua destinazione, verificando, attraverso controlli di genuinità a campione, prima di ulteriormente impiegarlo quale parte o ingrediente nella preparazione di un alimento poi distribuito su scala industriale, che il componente acquistato risponda ai requisiti di sicurezza previsti e non contenga additivi vietati e pericolosi, senza poter fare esclusivo affidamento sull'osservanza da parte del rivenditore dell'obbligo di fornire un prodotto non adulterato né contraffatto, a meno che non abbia ricevuto, prima dell'impiego su scala industriale dell'alimento acquistato, una precisa e circostanziata garanzia.

Sempre con riferimento alla garanzia per vizi, Sez. 2 n. 16963, Rv. 631856, est. Migliucci, ha puntualizzato che nella vendita di partecipazioni sociali, la clausola con la quale il venditore si impegna a tenere indenne il compratore dalle sopravvenienze passive nel patrimonio della società ha ad oggetto una prestazione accessoria e non rientra, quindi, nella garanzia di cui all'art. 1497 cod. civ., che attiene, invece, alle qualità intrinseche della cosa, esistenti al momento della conclusione del contratto. Pertanto, il diritto del compratore all'indennizzo, fondato su detta clausola, non è soggetto alla prescrizione annuale ex artt. 1495 e 1497 cod. civ., bensì alla prescrizione ordinaria decennale.

Peculiare, in tema di vendita di animale domestico, è la pronuncia resa da Sez. 3, n. 3021, Rv. 629958, est. Spirito, che ha ritenuto come l'inadempimento del venditore possa far sorgere una responsabilità anche extracontrattuale ove siano stati lesi interessi del compratore che, essendo sorti fuori dal contratto, abbiano consistenza di diritti assoluti, mentre, qualora il danno lamentato sia la conseguenza diretta del minor valore della cosa venduta o della sua distruzione o di un suo intrinseco difetto di qualità, si resta nell'ambito della responsabilità contrattuale, le cui azioni sono soggette a prescrizione annuale. In particolare, nella vicenda esaminata, l'acquirente lamentava essergli stato venduto un cane senza pedigree e la Corte ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva escluso l'esistenza della responsabilità extracontrattuale trattandosi di posizioni di interesse tutte riconducibili al contratto.

Con riferimento alla vendita effettuata da una società immobiliare, Sez. 2, n. 6784, Rv. 630191, est. Parziale, ha affermato che la clausola di esclusione della garanzia per vizi occulti è affetta da inefficacia rilevabile d'ufficio, ai sensi degli artt. 1469 bis e 1469 quinquies cod. civ. (applicabili ratione temporis), ove risultino limitate le azioni del consumatore verso il professionista inadempiente.

Si è poi ritenuto - Sez. 2, n. 10184, Rv. 631009, est. Scalisi - che nel caso il venditore abbia espressamente garantito la destinazione edificatoria del suolo compravenduto, specificando l'indice di edificabilità, il compratore, appresa l'esistenza di un vincolo urbanistico che riduca la cubatura realizzabile, può avvalersi della garanzia prevista dall'art. 1489 cod. civ. in tema di cosa gravata da oneri non apparenti, essendo il vincolo non agevolmente riconoscibile per effetto delle asserzioni del venditore.

Ancora in tema di vendita immobiliare, secondo Sez. 2 n. 25357, Rv. 633267, est. Oricchio, la responsabilità del venditore di un immobile affetto da irregolarità edilizia, ai sensi dell'art. 1489 cod. civ., non può essere invocata dal compratore che sia stato edotto della difformità al momento dell'acquisto.

Si è poi ribadita - Sez. 2, n. 14324, Rv. 631318, est. Manna - in conformità con Sez. 2, n. 24055 del 2008, Rv. 605100, che l'evizione totale o parziale si verifica solo quando l'acquirente sia privato, in tutto o in parte, del bene alienato, mentre, nell'ipotesi in cui, inalterato il diritto nella sua estensione quantitativa, risulti inesistente la servitù attiva che il venditore abbia dichiarato nel contratto, si determina, al pari dell'ipotesi di esistenza di una servitù passiva non dichiarata, la mancanza di una qualitas fundi, con conseguente applicazione dell'art. 1489 cod. civ., estensivamente interpretato, il quale, oltre ai rimedi sinallagmatici della risoluzione e della riduzione del prezzo, consente anche il solo risarcimento del danno.

La legittimazione all'azione di nullità ex art. 1421 cod. civ. non esime, secondo Sez. 2, n. 2447, Rv. 629709, est. Carrato, l'attore dal dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse, a norma dell'art. 100 cod. proc. civ., non potendo tale azione essere esercitata per un fine collettivo di attuazione della legge. La vicenda atteneva alla domanda di un cittadino, dichiarata improponibile dalla Corte, il quale aveva prima promosso una raccolta di firme contro la vendita di un edificio comunale e poi aveva chiesto di invalidarla ai sensi dell'art. 1471, n. 1, cod. civ.

Secondo Sez. 2, n. 8886, Rv. 630111, est. Carrato, le "spese accessorie" della vendita, che l'art. 1475 cod. civ. pone a carico del compratore, sono quelle necessarie alla conclusione del contratto, non anche quelle relative ad attività prodromiche che non siano in rapporto di strumentalità e causalità rispetto a tale conclusione, sicché la spesa di redazione di un preliminare da parte di un professionista resta a carico del venditore che ne abbia conferito l'incarico.

In tema di nullità del contratto di vendita per irregolarità edilizie insanabili, Sez 2, n. 25811 (anc. non mass.), est. Triola, ribadendo quanto affermato da Sez. 2, n. 23591 del 2013, Rv. 628025, ha ritenuto che accanto alla nullità di ordine sostanziale derivante dal dettato dell'art. 40, secondo comma, legge 28 febbraio 1985, n. 47 per gli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, si aggiunge una nullità di carattere formale per mancata menzione della concessione o dell'istanza di regolarizzazione.

Infine, Sez. 3, n. 14765, Rv. 631577, est. Scarano, ha osservato che nella vendita forzata, l'applicabilità delle norme del contratto di vendita, non incompatibili con la natura dell'espropriazione forzata, riguarda anche l'art. 1477 cod. civ., concernente l'obbligo di consegna della cosa da parte del venditore, ivi compresi gli accessori, le pertinenze ed i frutti dal giorno della vendita. Ne deriva che, in relazione allo ius ad rem (pur condizionato al versamento del prezzo), acquisto dell'aggiudicatario all'esito dell'iter esecutivo, è configurabile un obbligo di diligenza e di buona fede a carico dei soggetti tenuti alla custodia e conservazione del bene aggiudicato, così da assicurare la corrispondenza tra quanto ha formato oggetto della volontà dell'aggiudicatario e quanto venduto, nonché un obbligo di correttezza quale espressione di un principio di solidarietà sociale anche dei terzi, i quali, allorché l'aggiudicatario lamenti la perdita o il danneggiamento dell'immobile aggiudicato prima del deposito del decreto di trasferimento, rispondono del relativo danno a norma dell'art. 2043 cod. civ. In particolare, la Corte ha confermato la decisione con la quale il giudice di merito aveva condannato al risarcimento dei danni un terzo che, d'accordo con i proprietari, aveva effettuato, dopo l'aggiudicazione di un fondo ma prima del decreto di trasferimento, il taglio di alberi da pioppo ivi insistenti.

18.3. Fattispecie speciali di vendita.

Meritano menzione anche diverse pronunce che hanno preso in esame peculiari tipologie di vendita.

Interessante il decisum di Sez. 6-2, n. 14025, Rv. 631217, est. Manna, che ha precisato come la vendita di un'autovettura designata solo per marca, tipo e accessori, non è una vendita di cosa altrui o cosa futura, ma una vendita di cosa appartenente a genere limitato, che fa sorgere a carico del venditore il duplice obbligo di individuare la res e di consegnarla nel luogo pattuito. La Corte ha aggiunto che l'individuazione necessaria all'effetto reale deve essere fatta col concorso di entrambe le parti, sicché la mancata importazione del veicolo dal luogo di produzione a quello di consegna rende il venditore inadempiente ad entrambe le predette obbligazioni.

Non rientra nella disciplina della vendita fuori dai locali commerciali - Sez. 6 n. 22863, Rv.633234, est. Lanzillo, recata dal d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 50, quella concernente le negoziazioni che si svolgano nell'ambito degli stands allestiti dagli operatori all'interno di una fiera o di un salone di esposizione, atteso che la peculiare tutela di cui alla menzionata normativa presuppone che le trattative avvengano in luoghi pubblici o aperti al pubblico non destinati di per sé alle negoziazioni, ed ai quali il consumatore acceda per finalità estranee a quella di comprare, vendere o contrattare, sicché l'eventuale iniziativa del professionista lo colga di sorpresa ed impreparato alla difesa dei suoi interessi.

Come affermato da Sez. 3, n. 23438, Rv. 633235, est. Carleo, la ipotesi di vendita di pacchetto turistico ai sensi del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 111, vincola al rispetto della forma scritta ad substantiam le sue parti contrattuali, tra cui figurano esclusivamente il tour operator che organizza il viaggio e il consumatore che lo acquista, non anche l'agenzia di viaggi che, come mandataria con rappresentanza del primo, fa da mero tramite ai fini della stipula. In applicazione di tale principio, la Corte, confermando la sentenza d'appello, ha escluso che, una volta venuto meno, per indisponibilità, l'operatore in nome e per conto del quale era stato concluso un contratto di vendita di pacchetto turistico, l'agenzia di viaggi potesse, pure a parità di servizi offerti, imporre il mutamento di tour operator ed esigere il pagamento del corrispettivo di un nuovo pacchetto, non sussistendo tra l'agenzia e il viaggiatore alcun titolo contrattuale che a tanto la legittimasse e non essendo stata provata l'avvenuta stipula, necessariamente per iscritto, di un distinto, ulteriore contratto, in nome e per conto del diverso operatore.

In tema di vendita di cosa mobile da trasportare, Sez. 3, n. 2084, Rv. 629823, est. Carleo, ha affermato che la previsione di cui all'art. 1510, secondo comma, cod. civ., secondo cui, salvo patto o uso contrario, se la cosa venduta deve essere trasportata da un luogo all'altro, il venditore si libera dall'obbligo di consegna rimettendo la cosa al vettore o allo spedizioniere, costituisce una norma speciale applicabile solo in tema di vendita a distanza di cose mobili, rispetto alla quale il contratto di trasporto costituisce mera modalità esecutiva, con la conseguenza che, per tale figura contrattuale, il venditore non risponde dell'inadempimento del vettore o dello spedizioniere, non trovando applicazione il principio generale dettato dall'art. 1228 cod. civ.

Ancora, in tema di vendita di cosa da trasportare, Sez. 2, n. 10343, Rv. 631012, est. Nuzzo, ha ritenuto che la liberazione del venditore dall'obbligo di consegna ai sensi dell'art. 1510, secondo comma, cod. civ., presuppone che il vettore, cui la cosa è rimessa, sia identificabile.

Secondo Sez. 2, n. 16961, Rv. 631835, est. Mazzacane, la vendita di cosa da trasportare, ai sensi dell'art. 1510, secondo comma, cod. civ., si presume "vendita con spedizione", nella quale il venditore si libera dall'obbligo di consegna rimettendo la cosa al vettore. Pertanto, per configurare una "vendita con consegna all'arrivo", occorrono elementi, precisi e univoci, atti a dimostrare il patto di deroga; a tal fine, è insufficiente la stipulazione della clausola "porto franco", perché questa esonera l'acquirente dalle spese di trasporto, ma non lo solleva dai rischi del medesimo.

Sotto il profilo fiscale e in tema di imposta sul valore aggiunto, di interesse appare quanto deciso da Sez. 5, n. 16221, Rv. 632075, est. Cirillo, che riguardo ad una vendita di un aeromobile iscritto nei registri aeronautici italiani, perfezionatasi durante un volo in spazio aereo internazionale, ha ritenuto che essa è soggetta all'ordinaria disciplina nazionale, in quanto il criterio della legge di bandiera, quale collegamento tra la nazionalità dell'aeromobile e il soggetto proprietario, comporta l'assimilazione del bene, anche sotto il profilo fiscale, a un immobile ubicato nel territorio dello Stato e, pertanto, soggetto al principio di territorialità sancito dall'art. 7 bis, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.

In tema di disciplina del commercio, Sez. 2, n. 13525, Rv. 631238, est. D'Ascola, ha affermato la vigenza dell'obbligo di preventiva dichiarazione all'autorità locale di pubblica sicurezza ex art. 126 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza) e ha precisato che detto obbligo si applica ai rivenditori di cose usate di valore apprezzabile - ancorché non ricomprese tra quelle antiche e preziose - in quanto la modifica dell'art. 247 del relativo regolamento (r.d. 6 maggio 1940, n. 635, operata con l'art. 2 del d.P.R. 28 maggio 2011, n. 311), ha escluso l'applicabilità dell'art. 126 cit. (nonché del successivo art. 128) limitatamente al solo commercio di cose usate prive di valore o di valore esiguo.

Di rilievo quanto affermato da Sez. U, n. 1134, Rv. 629039, est. Travaglino, che in tema di vendita internazionale di cose mobili, ha precisato come il giudice chiamato a decidere sulla propria giurisdizione debba applicare, salvo diversa convenzione, il criterio del luogo di esecuzione della prestazione di consegna di cui all'art. 5, n. 1, lett. b) del Regolamento CE 22 dicembre 2001, n. 44, a prescindere da ogni considerazione sulle modalità del trasporto e sul luogo in cui il vettore prenda in carico le merci, come da altri criteri eventualmente previsti dalla legislazione nazionale. Ne consegue che la modificazione ex post delle formalità di adempimento dell'obbligazione di consegna (nella fattispecie, giustificata da imprevisti sopravvenuti dopo la conclusione del contratto, tali da imporre al compratore l'onere di organizzare il trasporto delle cose affidandosi ad un vettore), non è idonea a modificare la corretta identificazione del luogo di consegna e, quindi, ad incidere sulla determinazione della giurisdizione.

Va menzionata, nello stesso ambito, anche Sez. U. n. 24279, in corso di massimazione, est. D'Ascola, secondo cui il criterio del luogo di esecuzione della prestazione di consegna, di cui all'art. 5, n.1, lett. b) del Regolamento CE 22 dicembre 2000, n. 44, laddove una diversa convenzione stipulata dalle parti sul luogo di consegna dei beni, per assumere prevalenza, deve essere chiara ed esplicita, sì da risultare nitidamente dal contratto, con possibilita' di far ricorso, ai fini dell'identificazione del luogo, ai termini e alle clausole generalmente riconosciute nel commercio internazionale, quali gli Incoterms (International Commercial Terms), purché da essi risulti con chiarezza la determinazione contrattuale.

Con riferimento alla vendita immobiliare, infine, Sez. 2, n. 3207, Rv. 629545, est. Matera, richiamando l'orientamento espresso da Sez. 2, n. 74 del 1986, Rv.443724, ha ritenuto non affetto da nullità un contratto di vendita di un terreno che venga stipulato al fine di consentire all'acquirente una utilizzazione edificatoria dell'immobile - non permessa al momento della stipula del contratto dagli strumenti urbanistici - e che venga quindi sottoposto a condizione sospensiva della futura approvazione di una variante che ne consenta l'utilizzo edificatorio. Ha spiegato la pronuncia che tale contratto non è nullo, né sotto il profilo dell'impossibilità dell'oggetto, né sotto il profilo dell'impossibilità della condizione, dovendosi ritenere consentito alle parti di dedurre come condizione sospensiva anche un mutamento di legislazione o di norme operanti erga omnes, salva restando l'inefficacia del contratto in conseguenza del mancato verificarsi di tale mutamento.

  • obbligazione

CAPITOLO XII

LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 La ripetizione di indebito. - 2 L'ingiustificato arricchimento.

1. La ripetizione di indebito.

La Suprema Corte di cassazione, Sez. L, n. 10121, Rv. 630796, est. Tria, ha affermato che, con riferimento ai rapporti di lavoro anteriori alla contrattualizzazione del pubblico impiego, trova applicazione il principio della irripetibilità delle somme pagate dalla P.A. ove percepite dai dipendenti in buona fede.

Si è, poi, ribadito - Sez. 1, n. 16657, Rv. 632208, est. Lamorgese - che la richiesta di rimborso delle spese avanzata dal genitore che ha provveduto da solo al mantenimento del figlio naturale sin dalla sua nascita ha natura indennitaria, con la conseguenza che l'ammontare di detto indennizzo può essere quantificato secondo equità e che, essendo la richiesta in questione assimilabile ad una azione di ripetizione di indebito, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, ove manchi un precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora. Inoltre, secondo Sez. 1, n. 1277, Rv. 629802, est. Campanile, le attribuzioni patrimoniali in favore del convivente more uxorio avvenute durante il rapporto costituiscono adempimento di un'obbligazione naturale ai sensi dell'art. 2034 cod. civ., purché siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza, non assumendo rilievo le eventuali rinunce effettuate dal convivente, ancorché richieste o suggerite dall'altro, che abbiano generato una situazione precaria sul piano economico.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 8405, Rv. 630220, est. Vincenti, ha confermato che la richiesta di ripetizione dei canoni di locazione corrisposti in misura superiore a quella legale dopo l'instaurazione del giudizio è inammissibile, trattandosi di domanda nuova, in quanto non è applicabile, nella specie, in via analogica il disposto dell'art. 664, primo comma, cod. proc. civ.

In tema di rapporti fra indebito ed azione di arricchimento, Sez. 1, n. 6747, Rv. 630568, est. Di Amato, ha anche chiarito che l'azione di indebito oggettivo ha natura restitutoria, per cui la ripetibilità della prestazione dipende dal contenuto di questa e dalla possibilità concreta che possa essere ripetuta, la quale sussiste ove abbia avuto ad oggetto una somma di denaro o cose di genere oppure una cosa determinata. In difetto di tali condizioni, qualora ne sussistano i presupposti ed in mancanza di altra azione, va esercitata l'azione generale di arricchimento senza causa prevista dall'art. 2041 cod. civ., che assolve alla funzione di reintegrare l'equilibrio economico. Pertanto, nel caso di prestazione di facere, non essendo questa suscettibile di restituzione e, in quanto indebita, non potendone essere determinato il valore economico dalle parti, è proponibile non l'azione di indebito oggettivo, ma solo quella di ingiustificato arricchimento. In tale ottica, va qualificata come ripetizione di indebito, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., ogni domanda che abbia ad oggetto la restituzione di somme pagate in virtù di un titolo inesistente, con la conseguenza che il diritto dell'assicuratore al rimborso dell'indennizzo pagato in eccedenza è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale (Sez. 3, n. 7897, Rv. 630410, est. Rossetti)

Secondo Sez. 3, n. 18185, Rv. 633064, est. Stalla, in seguito alla risoluzione di un contratto per inadempimento sorge l'obbligo di restituire quanto prestato in esecuzione del contratto stesso in base alle regole dell'indebito oggettivo. Ne deriva che, qualora debba essere restituita una cosa determinata di cui sia impossibile la riconsegna, ai sensi dell'art. 2037 cod. civ. il ricevente dovrà corrisponderne il controvalore se in malafede, mentre risponderà nei limiti dell'arricchimento ove in buona fede.

Da ultimo, Sez. 3, n. 19654, Rv. 633075, est. Scrima, ha affermato che, nell'ipotesi in cui l'attore che agisca in restituzione affermi l'inesistenza originaria o sopravvenuta del debito ed agisca ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., non può trovare applicazione l'art. 2940 cod. civ., in base al quale non è consentita la ripetizione di somme pagate in adempimento di debiti prescritti.

2. L'ingiustificato arricchimento.

Pochi e misurati gli interventi in tema di ingiustificato arricchimento. Sez. 1, n. 5397, Rv. 630478, est. Ceccherini, ha confermato che, in tema di azione per indebito arricchimento nei confronti della P.A., il riconoscimento dell'utilità dell'opera e la configurabilità dell'arricchimento dipendono unicamente da una valutazione discrezionale della stessa P.A. beneficiaria. Il relativo apprezzamento, inoltre, deve provenire non da qualsiasi soggetto appartenente a quest'ultima, ma dai suoi organi amministrativi o da quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà, ed a nulla rileva una valutazione effettuata da amministrazioni terze, ancorché interessate alla prestazione. Detto riconoscimento può essere esplicito od implicito e, in questo ultimo caso, occorre che siano gli organi rappresentativi dell'ente ad attuare consapevolmente l'utilizzazione dell'opera.

In un caso che si segnala per la sua particolarità, Sez. 6-3, n. 307, Rv. 629469, est. Frasca, ha deciso che, in tema di ristoro del pregiudizio da tardiva attuazione di direttive comunitarie in materia di retribuzione della formazione dei medici specializzandi, non spetta a questi ultimi l'azione generale di arricchimento senza causa, che ha carattere sussidiario, poiché essi sono già titolari dell'azione di responsabilità contrattuale ex lege contro lo Stato per il mancato rispetto della suddetta obbligazione di adempimento delle direttive

  • circolazione stradale
  • responsabilità parentale
  • responsabilità
  • danno
  • responsabilità per i danni ambientali
  • errore medico

CAPITOLO XIII

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

(di Luigi Giordano, Andrea Penta )

Sommario

1 Il danno non patrimoniale. - 1.1 La gravità della lesione. - 2 La liquidazione complessiva. - 3 Il danno morale. - 4 Il danno esistenziale. - 5 Il danno da perdita della vita. - 5.1 Il danno biologico terminale. - 5.2 Il danno biologico iure hereditatis: criteri di quantificazione. - 6 Il concorso di colpa del danneggiato. - 7 La competenza territoriale. - 8 I parametri di quantificazione del danno: le tabelle di Milano. - 9 La liquidazione del danno biologico permanente. - 10 La tecnica degli interessi. - 11 Il danno biologico per lesioni di lieve entità. - 12 Il danno patrimoniale. - 12.1 Il danno da riduzione della capacità lavorativa generica. - 12.2 Il danno patrimoniale futuro. - 12.3 La compensatio lucri cum damno. - 13 Il danno non patrimoniale in determinati settori. - 14 La responsabilità precontrattuale. - 15 La responsabilità medica. - 15.1 Il decreto cd. Balduzzi. - 16 I danni arrecati col mezzo della stampa o della televisione. - 17 Il risarcimento in forma specifica. - 18 Le responsabilità presunte. - 18.1 Genitori e maestri (art. 2048 cod. civ.). - 18.2 Padroni e committenti (art. 2049 cod. civ.). - 18.3 Attività pericolose (art. 2050 cod. civ.). - 18.4 Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.). - 18.5 Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 cod. civ.). - 18.6 Circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.).

1. Il danno non patrimoniale.

Anche nel corso del 2014 la produzione della Corte in tema di responsabilità extracontrattuale è stata molto copiosa.

La S.C. ha avuto l'occasione per ribadire, in alcuni casi, e precisare, in altri, la portata di molti dei principi enunciati nelle sentenze a Sezioni Unite del 2008 meglio note come "sentenze di San Martino" (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975). Queste ultime ebbero, tra l'altro, il merito di chiarire che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile - sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. - anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l'interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.

Rappresenta, per certi versi, una summa degli esposti principi Sez. 3, n. 26367, in corso di massimazione, est. Vincenti, la quale ha ribadito che rientra tra i principi informatori della materia (ai quali è tenuto ad uniformarsi il giudice di pace nel giudizio di equità) quello di cui al disposto dell'art. 2059 cod. civ. il quale, secondo una lettura costituzionalmente orientata, non disciplina un'autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto dell'esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 cod. civ., con la peculiarità della tipicità di detto danno, stante la natura dell'art. 2059 cod. civ., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, e con la precisazione, in tale ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l'interesso leso e non il pregiudizio in conseguenza sofferto, e che la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave e che il danno non sia futile.

1.1. La gravità della lesione.

Orbene, seguendo la stessa scia, Sez. 6-3, n. 2370, Rv. 629712, est. Ambrosio, ha statuito che nell'ipotesi di illegittimo fermo amministrativo il danno non patrimoniale, pur lamentato per supposta lesione di diritti costituzionalmente protetti, non è meritevole di tutela risarcitoria quando inquadrabile nello sconvolgimento della quotidianità della vita, che si traduca in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e ogni altra espressione di insoddisfazione, costituenti conseguenze non gravi ed insuscettibili di essere monetizzate perché bagatellari.

Dal canto suo, Sez. 3, n. 1766, Rv. 629422, est. Lanzillo, premesso che il risarcimento del danno non patrimoniale ha luogo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale, oppure nei casi espressamente previsti dalla legge, ha escluso che l'interruzione della somministrazione di energia elettrica, anche se fonte di disagio, appartenga al novero dei pregiudizi meritevoli di considerazione a tale titolo, rientrando tra le contrarietà e gli inconvenienti della vita quotidiana in relazione ai quali l'ordinamento richiede un certo margine di tolleranza.

Al contempo, nell'ottica che il pregiudizio asseritamente subìto deve connotarsi come grave, Sez. 3, n. 16133, Rv. 632536, est. Vincenti, ha sottolineato che il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (cd. codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno" (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato. Applicando tale criterio, la S.C. ha ritenuto non risarcibile il danno alla privacy consistente nella possibilità, per gli utenti del web, di rinvenire agevolmente su internet - attraverso l'uso di un comune motore di ricerca - generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva della parte attrice.

Ha valorizzato, in tema di diffamazione a mezzo della stampa, l'esigenza di superare, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, il filtro rappresentato dalla serietà del danno, altresì Sez. 3, n. 21424, est. Sestini, in corso di massimazione.

2. La liquidazione complessiva.

Uno dei fondamentali principi enunciati da Sez. U, n. 26972 del 2008, e tradotto poi in un vero e proprio slogan, fu quello per cui il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che sarebbe inammissibile, perché costituirebbe una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello cd. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale.

Inserendosi nel solco di tale arresto, Sez. L, n. 687, Rv. 629252, est. Blasutto, pur ribadendo che la liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva, e cioè tale da coprire l'intero pregiudizio a prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione, ha chiarito che, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie del "danno biologico" e del "danno morale" continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice, al fine di parametrare la liquidazione del danno risarcibile.

Valorizzando quest'ultimo aspetto, Sez. 3, n. 4078, Rv. 630125, est. Amatucci, ha precisato che il principio di omnicomprensività della liquidazione del danno non patrimoniale alla persona comporta la valutazione complessiva dei pregiudizi subiti, con la conseguenza che il giudice d'appello, sollecitato a rivalutare l'adeguatezza della somma globalmente riconosciuta, per l'assunta insufficienza della liquidazione di un determinato tipo di pregiudizio, può riconsiderare anche le ulteriori voci di cui il danno non patrimoniale si compone, in funzione della verifica della congruità della liquidazione complessiva operata dal giudice di primo grado.

Peraltro, Sez. 3, n. 531, Rv. 629756, est. Ambrosio, ha avuto il merito di chiarire che, in tema di danno non patrimoniale risarcibile, il danno biologico, quello morale e quello dinamico-relazionale non costituiscono conseguenza indefettibile della lesione dei diritti della persona, occorrendo valutare caso per caso, nel rispetto del principio della "integralità" del risarcimento, se il danno non patrimoniale presenti o meno tutti i siffatti aspetti, a tal fine dovendo il giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato ed individuare quali concrete ripercussioni negative si siano verificate sul valore-uomo. Ne consegue che la mancanza di danno biologico non esclude la configurabilità del danno morale soggettivo e di quello dinamico-relazionale, quale conseguenza autonoma della lesione. Pertanto, ove il fatto lesivo abbia profondamente alterato il complesso assetto dei rapporti personali all'interno della famiglia, il danno non patrimoniale per lesione di interessi costituzionalmente protetti deve trovare ristoro nella tutela apprestata dall'art. 2059 cod. civ. (cfr. n. 19402 del 2013).

Sul piano della personalizzazione del danno, si segnala Sez. 3, n. 23778, in corso di massimazione, est. Rossetti, secondo cui il grado di invalidità permanente espresso da un baréme medico-legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima. Pertanto, una volta liquidato il danno biologico convertendo in denaro il grado di invalidità permanente, una liquidazione separata del danno estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale è possibile soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età. Tali circostanze debbono essere tempestivamente allegate dal danneggiato, ed analiticamente indicate nella motivazione, senza rifugiarsi in formule di stile o stereotipe del tipo "tenuto conto della gravità delle lesioni".

La stessa pronuncia ha avuto altresì il merito di precisare che il cd. "danno psicologico" non è che una particolare ipotesi di lesione (permanente o transeunte) della salute psichica e, in quanto tale, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado di invalidità permanente. Da ultimo, ha ribadito che la perduta possibilità di intrattenere rapporti sociali a causa di una invalidità permanente non è che una delle "normali" conseguenze della invalidità, nel senso che qualunque persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali, e che, quando la dottrina medico-legale elabora i propri barémes per la determinazione del grado di invalidità permanente, questa incidenza delle lesioni sulla vita di relazione è necessariamente ricompresa nel grado di invalidità permanente.

La Corte, con Sez. 3, n. 24471, est. Rossetti, in corso di massimazione, ha avuto il merito di chiarire che dà diritto alla personalizzazione del risarcimento solo la sussistenza di circostanze specifiche che siano anomale ed eccezionali rispetto alla generalità dei casi analoghi e che, mentre la facile stancabilità e dolorabilità alla stazione eretta, provata da chi abbia riportato una frattura della caviglia viziosamente consolidatasi, non è circostanza che giustifichi una personalizzazione del risarcimento (perché è conseguenza comune a tutte le persone che patiscano questo tipo di danno), la perduta possibilità di continuare a svolgere una attività sportiva in precedenza praticata con assiduità costituisce una circostanza giustificativa della personalizzazione del risarcimento, perché non tutti i traumatizzati alla caviglia svolgono attività sportiva.

3. Il danno morale.

Il principale rischio che si annida dietro una impostazione del genere è quello di realizzare una indebita duplicazione risarcitoria, cui fa da contraltare il pericolo di incorrere in vuoti risarcitori.

Meritano, di essere segnalate, da questo punto di vista, le seguenti pronunce in tema di liquidazione del danno morale. Secondo Sez. 3, n. 1361, Rv. 629365, est. Scarano, nel liquidare il danno morale il giudice deve dare motivatamente conto del significato ad esso attribuito, ed in particolare se lo abbia valutato solo alla stregua di "patema d'animo" (e cioè di sofferenza interiore o perturbamento psichico, vale a dire di "danno morale subiettivo", di natura meramente emotiva e interiore), ovvero anche in termini di pregiudizio arrecato alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana.

Ancora più chiara nel senso di riconoscere un'autonomia anche sul piano ontologico è Sez. L, n. 21917, Rv. 632667, est. Buffa (conforme a Sez. 3, n. 22585 del 2013, Rv. 628153), per la quale il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto espressamente stabilito - sul piano normativo - dall'art. 5, lettera c, del d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, ma soprattutto in ragione della differenza ontologica esistente tra di essi, corrispondendo, infatti, tali danni a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo, il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana.

Sempre nell'ottica di individuare con la maggiore precisione possibile il criterio di quantificazione e di contenere il rischio di duplicazioni risarcitorie, Sez. 3, n. 5243, Rv. 630077, est. Barreca, ha sostenuto (in ciò preceduta da n. 18641 del 2011, n. 11950 del 2013 e Sez. L, n. 687 del 2014, Rv. 629252, est. Blasutto) che la necessaria liquidazione unitaria del danno biologico e del danno morale può correttamente effettuarsi mediante l'adozione di tabelle che includano nel punto base la componente prettamente soggettiva data dalla sofferenza morale conseguente alla lesione, operando perciò non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione, nel senso di dare per presunta, secondo l'id quod plerumque accidit, quanto meno per le invalidità superiori al dieci per cento, l'esistenza di un tale tipo di pregiudizio, pur se non accertabile per via medico-legale, salvo prova contraria, a sua volta anche presuntiva. È evidente, in tal guisa ragionando, l'adesione all'impianto posto alla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano (su cui vedasi infra).

La Corte - con Sez. 3, n. 2413, Rv. 630341, est. Cirillo - pur occupandosi fondamentalmente della responsabilità di un istituto scolastico per i danni riportati da un allievo, ha colto l'occasione per segnalare che la sentenza che, facendo riferimento alle sottocategorie di danno biologico, abbia risarcito due volte le medesime conseguenze pregiudizievoli (ad esempio, ricomprendendo la sofferenza psichica sia nel danno "biologico" che in quello "morale"), è erronea, ma se, invece, facendo riferimento alle tradizionali locuzioni, il giudice ha preso in esame pregiudizi concretamente diversi, la pronuncia non può considerarsi erronea in diritto. Pertanto, il riconoscimento del danno biologico, inteso quale lesione del diritto alla salute, e del danno morale, inteso quale sofferenza conseguente all'illecito, non comporta, di per sé, alcuna indebita duplicazione.

Ha confermato sostanzialmente il divieto di moltiplicare le voci del danno, finendo per chiamare con nomi diversi pregiudizi identici, Sez. 3, n. 23778, est. Rossetti, in corso di massimazione, per la quale, peraltro, in presenza di pregiudizi estetici, sessuali e/o relazionali di notevole entità, il giudice, piuttosto che procedere ad una mera personalizzazione del danno, dovrebbe tenerne conto nella determinazione corretta del grado di invalidità permanente. A tal ultimo riguardo, peraltro, occorrerebbe considerare che, nel caso di lesioni plurime monocrone, il detto grado di invalidità non è necessariamente pari alla somma algebrica delle singole invalidità, ma va determinato con i criteri indicati dalla dottrina medico-legale.

4. Il danno esistenziale.

In realtà, gli orientamenti più recenti della S.C. (a partire da Sez. 3, n. 20292 del 2012, Rv. 624502, secondo cui la configurabilità di un danno morale soggettivo e di un danno esistenziale da risarcire non può essere esclusa, purchè il giudice di merito operi una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell'aspetto interiore del danno, la sofferenza morale, quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana, danno esistenziale) forniscono nuova linfa alle tre componenti del danno non patrimoniale (biologico, morale ed esistenziale) risarcibile, confermando, nella sostanza, la correttezza di un impianto risarcitorio composto da più voci, le quali, solo se complessivamente considerate, sono capaci di assicurare alla vittima dell'illecito il ristoro integrale del danno alla persona (si segnalano in questa direzione anche Cass. nn. 1361 del 2014, 5056 del 2014, 3549 del 2014 e 20292 del 2012).

Ed è così che la altrimenti nota (vedasi infra) Sez. 3, n. 1361, Rv. 629365, est. Scarano, ha enunciato il principio (peraltro, già anticipato da n. 10527 del 2011 Rv. 618209, n. 20292 del 2012 Rv. 624502, n. 19402 del 2013 Rv. 627584) per cui la categoria generale del danno non patrimoniale - che attiene alla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da valore di scambio - presenta natura composita, articolandosi in una serie di aspetti (o voci) aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (identificabile nel patema d'animo o sofferenza interiore subìti dalla vittima dell'illecito), ovvero nella lesione arrecata alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, quello biologico (inteso come lesione del bene salute) e quello esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato), dei quali - ove essi ricorrano cumulativamente - occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell'integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto (o voce) venga computato due (o più) volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni.

Proiettandosi nella stessa direzione, sia pure in ambito lavoristico, Sez. L, n. 18207, Rv. 632366, est. Ghinoy, nello stabilire che la liquidazione in via equitativa del danno esistenziale (nella specie, derivante da un illegittimo atto di avviamento al lavoro) presuppone l'accertamento del complessivo peggioramento della qualità della vita del soggetto sul piano delle relazioni umane e del contesto familiare, ha di fatto riconosciuto l'autonoma risarcibilità della voce di danno.

5. Il danno da perdita della vita.

Ma l'ambito nel quale la S.C. si è particolarmente distinta per la quantità e lo spessore delle decisioni è senza dubbio quello della morte della vittima primaria, per apprezzare il danno iure hereditatis di spettanza degli eredi.

Dirompente è apparsa sin da subìto Sez. 3, n. 1361, Rv. 629365, est. Scarano, che, ponendosi consapevolmente in contrasto con le Sezioni Unite del 2008 (in ciò seguite da n. 6754 del 2011 Rv. 616517, n. 7126 del 2013 Rv. 6254), ha sostenuto che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita, siccome bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno "biologico terminale" e di danno (morale) "catastrofale". Esso, pertanto, rileverebbe ex se, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta "immediata" o "istantanea", senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l'intensità della sofferenza dalla stessa subìta per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine. In linea con tale assunto, la S.C. ha altresì avallato la tesi per cui il risarcimento del danno da perdita della vita avrebbe funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) sarebbe trasmissibile iure hereditatis, atteso che la non patrimonialità sarebbe attributo proprio del bene protetto (la vita) e non già del diritto al ristoro della lesione ad esso arrecata.

Proprio a seguito di tale pronuncia, la terza sezione della Corte si è vista costretta a rimettere, con ordinanza n. 5056 del 2014, gli atti al Primo Presidente per una (più che prevedibile) assegnazione alle Sezioni Unite di un ricorso che, tra i suoi motivi, poneva nuovamente al giudice di legittimità la delicata e dibattuta questione del danno da morte immediata (nella specie conseguente a lesioni riportate all'esito di un incidente stradale) sub specie della sua risarcibilità iure successionis. Ciò in quanto in precedenza altre sentenze, come si è detto, si erano pronunciate nel senso della irrisarcibilità per via ereditaria del danno da morte immediata (danno cd. Tanatologico), attesa la funzione compensativa/ riparatoria del danno civile, impredicabile in assenza di un soggetto leso, e data la caratteristica di danno-conseguenza del pregiudizio risarcibile (a differenza di quanto previsto per l'illecito penale).

Dopo poco più di tre mesi, peraltro, Sez. 3, n. 13537, Rv. 631439, est. Rossetti, ha, ponendosi in consapevole contrasto con la pronuncia n. 1361 del 2014 (vedasi supra) ed allineandosi a quello che è l'orientamento decisamente prevalente (n. 21976 del 2007, Rv. 600108, n. 28423 del 2008, Rv. 606104, n. 6754 del 2011, Rv. 616517, n. 2564 del 2012, Rv. 621706), qualificato la paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, come un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente (danno morale iure hereditatis), sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni.

Allineandosi sui principi enunciati dalla sentenza n. 1361, Sez. L, n. 26590, in corso di massimazione, est. Napoletano, ha sostenuto che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita (bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile) è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella duplice configurazione di danno "biologico terminale" e di danno "catastrofale". Esso, pertanto, rileva ex se, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cd. immediata (o istantanea), senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l'intensità della sofferenza dalla stessa subìta per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine.

Di minore impatto appare l'altra statuizione di principio contenuta nella menzionata pronuncia n. 1361, a tenore della quale la liquidazione del danno da perdita della vita deve compiersi in applicazione dell'art. 1226 cod. civ., essendo rimessa alla discrezionalità del giudice di merito l'individuazione di criteri che consentano di pervenire ad un equo ristoro, evitando però sia l'adozione di soluzioni di carattere meramente soggettivo, sia la determinazione di un ammontare eguale per tutti, occorrendo, per contro, un'adeguata personalizzazione in considerazione, in particolare, dell'età, dello stato di salute e delle speranze di vita futura della vittima, nonché dell'attività da essa svolta e delle sue condizioni personali e familiari.

5.1. Il danno biologico terminale.

Parimenti, non fa che ribadire un principio che ormai sembra essersi consolidato (già per Cass. n. 23053 del 2009, che, a sua volta, richiamava Cass. nn. 870 del 2008, 18163 del 2007, 9959 del 2006), l'ammontare del danno biologico, che gli eredi del defunto richiedono iure successionis, andava calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva) Sez. 3, n. 15491, Rv. 631748, est. D'Amico, a mente della quale, in tema di danno da perdita della vita, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso. Tale danno, qualificabile come danno "biologico terminale", dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile iure hereditatis, da commisurare soltanto all'inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte (vedasi infra).

Maggiormente significativo appare un altro passaggio motivazionale della stessa sentenza, alla stregua del quale il danno alla salute subito dai prossimi congiunti della vittima di un sinistro stradale costituisce danno non patrimoniale, risarcibile iure proprio in favore di tali soggetti, ove sia adeguatamente provato il nesso causale tra la menomazione dello stato di salute dei medesimi ed il fatto illecito.

Da ultimo, la medesima pronuncia, nell'ottica di evitare duplicazioni risarcitorie (sul punto vedasi infra), ha ricordato (n. 21716 del 2013, Rv. 628100, n. 1361 del 2014, Rv. 629364) che il danno qualificabile come "edonistico" per la perdita del rapporto parentale deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale iure proprio. Infatti il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. preclude un risarcimento separato e autonomo per ogni tipo di sofferenza patita dalla persona, fermo l'obbligo del giudice di tener conto nel caso concreto di tutte le peculiari modalità di manifestazione del danno non patrimoniale, così da assicurare la personalizzazione della liquidazione.

Sez. 3, n. 25731, in corso di massimazione, est. Vincenti, ha poi confermato il principio consolidato per cui, quando all'estrema gravità delle lesioni segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere risarcito agli eredi il danno biologico "terminale" connesso alla perdita della vita della vittima, come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, fondato sull'intensa sofferenza d'animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro.

Particolarmente interessante risulta, per la peculiarità della vicenda processuale, una decisione adottata dalla S.C. all'inizio dell'anno. Si tratta di Sez. 3, n. 4447, Rv. 630337, est. Frasca, che ha evidenziato che, in materia di danno non patrimoniale lamentato dai prossimi congiunti della vittima di un illecito mortale, colui che, tra costoro, si dolga dell'inadeguatezza della liquidazione del danno a suo favore rispetto a quella operata in favore di taluno degli altri ha l'onere di allegare, in sede di impugnazione, quali fossero le circostanze di fatto idonee a consentire quella personalizzazione del pregiudizio subìto che si assume, invece, essere stata omessa da parte del giudice di merito.

5.2. Il danno biologico iure hereditatis: criteri di quantificazione.

Pur ribadendo un principio che sembra ormai essersi consolidato in seno alla Suprema Corte, si segnala, sul piano dell'individuazione del criterio di liquidazione del pregiudizio, Sez. 3, n. 22228, Rv. 633124, est. Vincenti, a mente della quale la determinazione del risarcimento dovuto a titolo di danno biologico iure hereditatis, nel caso in cui il danneggiato sia deceduto in un apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo (nel caso di specie, 16 giorni), va parametrato alla menomazione della integrità psicofisica patita dallo stesso per quel determinato periodo di tempo, con commisurazione all'inabilità temporanea da adeguare alle circostanze del caso concreto, tenuto conto del fatto che, se pure temporaneo, detto danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è stata così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte. Nella fattispecie esaminata, in particolare, i giudici di legittimità hanno censurato la sentenza di merito per aver erroneamente liquidato il danno biologico in oggetto rapportandolo all'invalidità permanente totale, come se il danneggiato fosse sopravvissuto alle lesioni per il tempo corrispondente alla sua ordinaria speranza di vita.

Sempre in tema di danno biologico terminale, Sez. 3, n. 23183, Rv. 633238, est. Sestini, ha operato un ulteriore sottile distinguo, esponendo che il detto pregiudizio è, in realtà, comprensivo sia di un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), sia di una eventuale componente di sofferenza psichica (cd. danno catastrofico). Mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata, come detto, sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo caso risulta integrato un danno non patrimoniale di natura peculiare che comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che sappia tener conto dell'enormità del pregiudizio.

6. Il concorso di colpa del danneggiato.

La Corte, con Sez. 3, n. 23426, in corso di massimazione, est. Rossetti, ha enunciato l'importante principio per cui in materia di responsabilità civile, in caso di concorso della condotta colposa della vittima di un incidente stradale nella produzione del danno, anche il risarcimento del danno, patrimoniale e non, patito iure proprio dai congiunti della vittima deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di colpa ascrivibile alla stessa vittima (cfr. Sez. 3, 11698, Rv. 631111, est. Rubino, avente ad oggetto un caso di infortunio mortale; nonché, indirettamente, Sez. 3, n. 10607 del 2010, Rv. 612764).

La Corte, con Sez. 3, n. 22514, est. Cirillo, Rv. 633071, sulla base del rilievo che, in caso di concorso di colpa, la riduzione proporzionale del danno (in ragione dell'entità percentuale dell'efficienza causale del soggetto danneggiato) deve essere operata non solo nei confronti del danneggiato, ma anche nei confronti dei congiunti (che, in relazione agli effetti riflessi che l'evento di danno subìto proietta su di essi), agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio, ha precisato che il principio di cui all'art. 1227 cod. civ. (riferibile anche alla materia del danno extracontrattuale per l'espresso richiamo contenuto nell'art. 2056 cod. civ.) si applica anche quando il leso sia incapace di intendere o di volere (per minore età o per altra causa). Tale conclusione costituisce applicazione di un più generale principio secondo cui, quando la vittima primaria sia corresponsabile dell'evento dannoso che l'ha colpita, ai soggetti danneggiati di riflesso (anche se iure proprio) deve applicarsi la regola generale dell'art. 1227, comma primo, cod. civ., non essendo ragionevole che costoro possano ottenere un risarcimento pieno.

In termini generali, infine, Sez. 3, n. 23148, est. Rossetti, in corso di massimazione, ha ribadito che, in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato nella produzione dell'evento dannoso, la prova che il creditore-danneggiato avrebbe potuto evitare i danni dei quali chiede il risarcimento usando l'ordinaria diligenza deve essere fornita dal debitore-danneggiante che pretende di non risarcire, in tutto o in parte, il creditore.

7. La competenza territoriale.

Avuto riguardo al profilo della competenza, Sez. 6-3, ord. n. 5456, Rv. 630198, est. Frasca, ha confermato il principio generale secondo cui, in tema di competenza territoriale l'art. 20 cod. proc. civ. si applica a tutte le obbligazioni, da qualunque fonte esse provengano, e quindi anche a quelle di origine extracontrattuale. Ne consegue, sul piano processuale, che il convenuto in una causa per responsabilità aquiliana, il quale eccepisca l'incompetenza per territorio, ha l'onere di contestare la competenza del giudice adito con riferimento, tra l'altro, ad entrambi i criteri di collegamento previsti dalla norma (ovvero, quello del forum commissi delicti e quello del forum destinatae solutionis), dovendo, in mancanza, ritenersi la competenza radicata presso il giudice adìto per inammissibilità della sollevata eccezione, rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità.

8. I parametri di quantificazione del danno: le tabelle di Milano.

Per quanto concerne l'annosa questione dei parametri di quantificazione del pregiudizio, come è noto, in tema di liquidazione del danno biologico, la S.C. ha ritenuto che garantisse l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale. In quest'ottica, in applicazione dell'art. 3 Cost., ha riconosciuto ad esso la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono. Tuttavia, mentre Sez. 3, n. 12408 del 2011 ha sostenuto che l'applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell'applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge e solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito, Sez. 3, n. 14402 del 2011 ha ritenuto incongrua la motivazione della sentenza di merito che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una liquidazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui si giungerebbe mediante l'applicazione dei parametri recati dall'anzidette "tabelle" milanesi (e, quindi, ha inquadrato il relativo vizio nell'ambito del motivo di gravame di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione precedente alla riforma introdotta con il d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. con modificazioni nella legge n. 134 del 2012).

L'evidente contrasto tra le due impostazioni permane anche nel corso del 2014. Invero, da un lato, Sez. 3, n. 5243, Rv. 630077, est. Barreca, ha sostenuto che, poiché le tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione all'integrità psico-fisica, elaborate successivamente all'esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, determinano il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte la componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di "danno morale" (nei sistemi tabellari precedenti liquidata invece separatamente), è incongrua la motivazione della sentenza che liquidi il danno alla salute con l'impiego di tabelle diverse da quelle di Milano, senza renderne nota la provenienza e la cui elaborazione non consideri tutte le componenti non patrimoniali di questa tipologia di danno, tra le quali il danno morale. Dall'altro lato, Sez. 3, n. 4447, Rv. 630336, est. Frasca, è pervenuta alla conclusione che la loro erronea applicazione da parte del giudice dà luogo ad una violazione di legge, censurabile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Segue quest'ultimo indirizzo Sez. 3, n. 24205, est. Vincenti, in corso di massimazione, secondo cui l'applicazione di criteri diversi da quelli risultanti dalle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano può essere fatta valere in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, soltanto quando in grado di appello il ricorrente si sia specificamente doluto della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed abbia altresì versato in atti dette tabelle.

Per Sez. 3, n. 24473, R, 633272, est. D'Amico, le tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica predisposte dal Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ., là dove la fattispecie concreta non presenti circostanze tali da richiedere la relativa variazione in aumento o, per le lesioni di lievi entità conseguenti alla circolazione, in diminuzione, con la conseguenza che risulta incongrua la motivazione della sentenza di merito che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una liquidazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui si giungerebbe mediante l'applicazione dei parametri recati dall'anzidette "tabelle" milanesi. Ove, peraltro, si tratti di dover risarcire anche i c.d. "aspetti relazionali" propri del danno non patrimoniale, il giudice è tenuto a verificare se i parametri delle tabelle in concreto applicate tengano conto (come accade per le citate "tabelle" di Milano) pure del cd. "danno esistenziale", ossia dell'alterazione/cambiamento della personalità del soggetto che si estrinsechi in uno sconvolgimento dell'esistenza, e cioè in radicali cambiamenti di vita, dovendo in caso contrario procedere alla cd. "personalizzazione", riconsiderando i parametri anzidetti in ragione anche di siffatto profilo, al fine di debitamente garantire l'integralità del ristoro spettante al danneggiato.

Secondo Sez. 3, n. 23778, est. Rossetti, in corso di massimazione, la ricorribilità per cassazione d'una sentenza pronunciata prima del 7.6.2011 (data di pubblicazione della sentenza 12408 del 11), la quale non abbia utilizzato le tabelle milanesi per la liquidazione del danno biologico, è subordinata a due condizioni: (a) che la parte interessata abbia espressamente invocato, nel grado di appello, l'applicazione delle cd. "Tabelle di Milano"; (b) che copia delle suddette tabelle sia stata depositata al più tardi in appello.

De iure condendo, è evidente che la divulgazione di un provvedimento amministrativo che proponga la tabella di liquidazione del danno biologico per lesioni di non lieve entità (ex art. 138 del codice delle assicurazioni), unitamente al rilievo per cui il sistema normativo si applicherebbe ai due settori della responsabilità civile (r.c. auto e colpa medica - art. 3 della legge n. 189 del 2013) più frequenti nella casistica giurisprudenziale, determinerebbe una sensibile contrazione del campo di applicazione delle tabelle milanesi.

In questa direzione sembra andare Sez. L, n. 26590, in corso di massimazione, est. Napoletano, secondo cui nella liquidazione dei danni non patrimoniali patiti dagli eredi per la morte di un loro congiunto per malattia professionale il giudice del merito, pur non essendo tenuto a supportare la sua decisione con una motivazione minuziosa e particolareggiata, è tuttavia tenuto, nella valutazione equitativa di detti danni ex artt. 1226 e 2059 cod. civ., ad individuare dei validi criteri di giudizio parametrati alla specificità del caso da esaminare e, conseguentemente, funzionalizzati ad una "personalizzazione" di detti danni, non conseguibile, invece, attraverso standards valutativi delle tabelle normative o di quelle del Tribunale di Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità.

Peraltro, Sez. 6, n. 20111, Rv. 632977, est. De Stefano, ha precisato che, in caso di mancata liquidazione del cd. danno morale, occorre che il ricorrente, in sede di impugnazione della sentenza, non si limiti ad insistere sulla separata liquidazione di tale voce di danno, ma che articoli chiaramente la doglianza come erronea esclusione, dal totale ricavato in applicazione delle "tabelle di Milano", delle componenti di danno diverse da quelle originariamente descritta come "danno biologico". Ciò alla luce del fatto che le previsioni delle predette tabelle hanno carattere tendenzialmente omnicomprensivo.

9. La liquidazione del danno biologico permanente.

Dal punto di vista dell'autorità giudiziaria chiamata a decidere, Sez. 3, n. 21396, Rv. 632983, est. Rossetti, ha ricordato che la liquidazione del danno biologico permanente richiede, anche nel caso in cui si ricorra alle tabelle cc.dd. a punti, un adeguato impegno motivazionale da parte del giudice di merito investito della controversia. In particolare, quest'ultimo è tenuto a dare conto di quali siano i criteri tabellari seguiti, con i relativi elementi costitutivi (valore di base del punto di invalidità e coefficiente di abbattimento), ma non può nemmeno glissare sui fattori che hanno suggerito di attestarsi sull'importo standard del risarcimento ovvero di discostarsene (e, in tal caso, di giustificare l'ampiezza dello scostamento in una determinata misura). Del resto, non sarebbe nemmeno sufficiente, per ritenere assolto l'obbligo - imposto dall'art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. - di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione con cui si procede alla commisurazione del danno biologico permanente, il mero recepimento acritico delle indicazioni provenienti dalla consulenza tecnica d'ufficio quanto all'importo da liquidare, quante volte manchi la specificazione in ordine alle tabelle utilizzate per pervenire all'ammontare della condanna ed alla percentuale d'invalidità permanente riscontrata, la cui omissione preclude la possibilità di ricostruire come e perché la sentenza sia arrivata a tale qualificazione (Sez. 3, n. 4448, Rv. 630338, est. Frasca). È necessario, invece, illustrare le ragioni e l'iter logico seguito per pervenire, partendo dalle dette conclusioni, al risultato enunciato in sentenza.

Senza tralasciare che l'esistenza e la derivazione causale di postumi permanenti costituiscono il fatto costitutivo della pretesa al risarcimento, e la loro sussistenza va provata da chi la allega, senza nessuna possibilità per il giudice di ricorrere all'equità (così Sez. 3, n. 23425, est. Rossetti, in corso di massimazione).

Con riferimento ai parametri di liquidazione del danno, Sez. 3, n. 18161, Rv. 632224, est. Spirito, ha confermato che, nella quantificazione del danno biologico, da effettuarsi con criteri equitativi ai sensi degli artt. 2056 e 1226 cod. civ., eventualmente anche applicando criteri predeterminati e standardizzati come le cosiddette "tabelle", valutabili come parametri uniformi per la generalità delle persone salvo personalizzare il risultato al caso concreto, non può essere utilizzato il criterio del triplo della pensione sociale, di cui all'art. 4 del d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, convertito dalla legge 26 febbraio 1977 n. 39, trattandosi di norma eccezionale, utilizzabile esclusivamente nell'ambito dell'azione diretta contro l'assicuratore per la liquidazione del danno patrimoniale.

La Corte, con Sez. 3, n. 26897, in corso di massimazione, est. Stalla, ha altres' ribadito il principio per cui, premesso che la liquidazione del danno biologico deve tener conto della lesione dell'integrità psico-fisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e di quella permanente, quest'ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacchè altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno.

Interessante, per la peculiarità della vicenda analizzata, è Sez. 3, n. 24201, est. Cirillo, in corso di massimazione, la quale ha ribadito il principio per cui il luogo (id est, la realtà socio-economica) dove il danneggiato abitualmente vive (e presumibilmente spenderà o investirà il risarcimento spettantegli) è irrilevante ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, costituendo un elemento esterno e successivo (un posterius) alla fattispecie dell'illecito.

Restando in tema, Sez. 3, n. 23432, est. Carleo, in corso di massimazione, ha confermato il principio per cui, poiché l'art. 16 disp. prel. cod. civ., nella parte in cui subordina alla condizione di reciprocità l'esercizio dei diritti civili da parte dello straniero, dev'essere interpretato in modo costituzionalmente orientato (alla stregua dell'art. 2 cost.), che assicura tutela integrale ai diritti inviolabili, allo straniero, che sia o meno residente in Italia, è sempre consentito (a prescindere da qualsiasi condizione di reciprocità) domandare al giudice italiano il risarcimento del danno, patrimoniale e non, derivato dalla lesione di diritti inviolabili della persona (quali il diritto alla salute e ai rapporti parentali o familiari), avvenuta in Italia, sia nei confronti del responsabile del danno, sia nei confronti degli altri soggetti che per la legge italiana, siano tenuti a risponderne (ivi compreso l'assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli od il Fondo di garanzia per le vittime della strada).

10. La tecnica degli interessi.

La Corte, con Sez. 3, n. 21396, Rv. 632893, est. Rossetti, ha ribadito (cfr. altresì Sez. 3, n. 27584 del 2011, Rv. 621087) in ordine alla commisurazione del ristoro da riconoscere al soggetto leso per reintegrarlo dell'ulteriore perdita scaturente dal ritardato adempimento dell'obbligo di risarcire le voci di pregiudizio non patrimoniale, che, ove a tal fine si utilizzi la tecnica degli interessi, questi ultimi vanno computati dal giorno in cui si è verificato il consolidamento dei postumi e fino alla data della liquidazione (atteso che, come è noto, dopo tale data il coacervo di capitale e danno da mora, ormai trasformato in una obbligazione di valuta, inizierà a produrre interessi al saggio legale, ai sensi dell'art. 1282, primo comma, cod. civ.). Si è peraltro chiarito - Sez. 2, n. 21956, Rv. 632755, est. Manna - che, allorchè, con riguardo ad una pretesa restitutoria, la parte proponga domanda congiunta di interessi e rivalutazione monetaria, come se si trattasse di un credito di valore, al giudice è preclusa l'applicabilità dell'art. 1224, secondo comma, cod. proc. civ. in ordine al maggior danno da svalutazione.

Con riferimento alla questione del dies a quo di decorrenza degli interessi compensativi, è noto che, mentre in termini generali, al fine di monetizzare il danno da mora nell'adempimento di un debito di valore, si tende a computarli in concomitanza con il momento in cui sorge l'obbligazione risarcitoria, in alcune circostanze è stato approvato dalla S.C. anche un modus operandi consistente nel riconoscimento degli interessi - legali o ad un tasso diverso - sulla somma attribuita, ma a decorrere da una data intermedia (cfr. Sez. 3, n. 1215 del 2006, Sez. 3, n. 11712 del 2002, e Sez. 2, n. 3931 del 2010). La pronuncia menzionata ha ritenuto che il danno da ritardato adempimento dell'obbligazione risarcitoria vada liquidato applicando un saggio di interessi scelto in via equitativa dal giudice sulla semisomma (e, cioè, sulla media) tra il credito rivalutato alla data della liquidazione e lo stesso credito espresso in moneta all'epoca dell'illecito ovvero sul credito espresso in moneta all'epoca del fatto e poi rivalutato anno per anno.

Per l'eventualità in cui il danneggiato, prima della liquidazione definitiva del danno da fatto illecito, abbia ricevuto un acconto dal responsabile, Sez. 3, n. 6347, Rv. 629791, est. Rossetti, ha ribadito che tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso un'operazione che consiste, preliminarmente, nel rendere omogenei entrambi (devalutandoli, alla data dell'illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione), per poi detrarre l'acconto dal credito e, infine, calcolando, gli interessi compensativi - finalizzati a risarcire il danno da ritardato adempimento - sull'intero capitale, per il periodo che va dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto rivalutato, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva.

11. Il danno biologico per lesioni di lieve entità.

Ponendo probabilmente la parola "fine" al dibattito che negli ultimi anni aveva si era tradotto nella giurisprudenza di merito in soluzioni discordanti, Corte cost. 16 ottobre 2014, n. 235, ha reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, nella parte in cui stabilisce limiti e modalità del risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità (micro permanenti), considerandolo osservante dei principi e criteri direttivi della legge-delega e realizzando un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. La norma, a dire della Consulta, non impedisce, inoltre, di liquidare il danno morale, poiché, qualora ne ricorrano in concreto i presupposti, il giudice può (ossia, deve) incrementare (in sede di personalizzazione del risarcimento) l'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti di cui al comma 3 della stessa (e, quindi, in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato). Da ciò consegue che ai giudici di merito è preclusa di fatto la possibilità, in siffatta evenienza, di concedere un ulteriore risarcimento per il "danno morale" del tutto sganciato da quello previsto ex art. 139.

La disciplina, pertanto, non realizza una disparità di trattamento a seconda della causa del danno (se, cioè, conseguente o meno a sinistro stradale) e non viola le norme dell'UE (Corte di giustizia 23.1.2014, C-371/12; vedasi infra). Anzi, la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistro stradale è più incisiva e sicura rispetto a quella dei danneggiati in conseguenza di eventi diversi, se solo si considera che solo i primi possono avvalersi della copertura assicurativa, ex lege obbligatoria, del danneggiato (o, in alternativa, direttamente di quella del proprio assicuratore) che si risolve in garanzia dell'an stesso del risarcimento. Del resto, ha precisato la Corte, il diritto all'integralità del risarcimento del danno alla persona non costituisce un valore assoluto ed intangibile, poiché anch'esso va bilanciato con altri valori di pari rango costituzionale. In quest'ottica, l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi. Senza tralasciare che il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà comporta che non è risarcibile il danno per lesione di quei diritti che non superi il "livello di tollerabilità" che ogni persona inserita nel complesso contesto sociale deve accettare.

La Corte, da ultimo, ha chiarito che la circostanza che la disposizione operi un testuale riferimento al "danno biologico", senza menzionare anche il "danno morale", deve tener conto del fatto che le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione (n. 26972 del 2008) hanno chiarito che il cd. danno morale (costituito dalla sofferenza personale suscettibile di rappresentare una ulteriore posta risarcibile - comunque unitariamente - del danno non patrimoniale, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato) "rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente".

La pronuncia si allinea a quella, di poco precedente, della Corte di giustizia UE citata, a tenore della quale, in caso di lesioni di lieve entità provocate da un incidente stradale, è conforme al diritto dell'Unione la normativa nazionale che limita il risarcimento dei danni morali derivati da detti sinistri rispetto al risarcimento dei danni identici risultanti da cause diverse. La Corte ha ricordato che le direttive in tema di r.c auto non hanno il fine di ravvicinare i regimi degli Stati membri sul tema, i quali restano liberi di determinare quali danni debbano essere risarciti, la portata del risarcimento degli stessi e le persone aventi diritto a detto risarcimento. In particolare, le direttive non ostano né ad una legislazione che impone ai giudici nazionali criteri vincolanti per la determinazione dei danni morali né a sistemi specifici, adeguati alle particolarità dei sinistri stradali.

Sia pure incidenter tantum, poi, la stessa Corte costituzionale ha, forse inconsapevolmente, chiarito (e, per certi versi, offerto una interpretazione costituzionalmente orientata) la portata dei commi 3 ter e 3 quater dell'art. 31 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo della infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della l. 24 marzo 2012, n. 27, stabilendo che per le lesioni di lieve entità (id est, fino al 9%), mentre occorre un "accertamento clinico strumentale" (di un referto di diagnostica, cioè, per immagini) per la risarcibilità del danno biologico permanente, è sufficiente anche un mero riscontro visivo, da parte del medico legale, per la risarcibilità del danno da invalidità temporanea.

12. Il danno patrimoniale.

Anche la materia dell'accertamento del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno ha fatto registrare nel 2014 perduranti contrasti. Le attenzioni della S.C. si sono concentrate soprattutto sul piano probatorio.

La Corte, in particolare, con Sez. 3, n. 11361, Rv. 630839, est. Frasca, ha avuto modo di precisare che la presunzione - in virtù della quale la riduzione di una certa entità della capacità di lavoro specifica determina, di regola, anche una riduzione della capacità di guadagno nella sua proiezione futura - copre solo l'an dell'esistenza del danno. Viceversa, ai fini della sua quantificazione, è onere del danneggiato dimostrare la contrazione dei suoi redditi dopo il sinistro, non potendo il giudice, in mancanza, esercitare il potere di cui all'art. 1226 cod. civ., perché esso riguarda solo la liquidazione del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare, situazione che, di norma, non ricorre quando la vittima continui a lavorare e produrre reddito e, dunque, può dimostrare di quanto quest'ultimo sia diminuito (questo principio era da poco già stato formulato da n. 2644 del 2013 Rv. 625083 e n. 25634 del 2013 Rv. 628724). Nella stessa ottica si pone Sez. 3, n. 23468, est. Ambrosio, in corso di massimazione, secondo cui, poichè tra lesione della salute e diminuzione della capacità di guadagno non sussiste alcun rigido automatismo, in presenza di una lesione della salute, anche di non modesta entità, non può ritenersi ridotta in egual misura la capacità di produrre reddito, ma il soggetto leso ha sempre l'onere di allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l'invalidità permanente abbia inciso sulla capacità di guadagno.

L'onere del soggetto leso di dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un'attività produttiva di reddito e la diminuzione o il mancato conseguimento di questo in conseguenza del fatto dannoso è stato ribadito anche da Sez. 3, n. 15238, Rv. 631711, est. Cirillo, in una fattispecie relativa alla richiesta di risarcimento dei danni riportati al braccio e alla spalla da un soggetto esercente l'attività di barista, senza che fosse stata dimostrata dal danneggiato la diminuzione di reddito conseguitane (conf. n. 3290 del 2013 Rv. 625016).

Maggiormente possibilista sembra Sez. 3, n. 20003, Rv. 632979, est. Travaglino, secondo cui il danno patrimoniale da riduzione della capacità lavorativa specifica, derivante da lesioni personali, in quanto danno futuro, deve essere valutato su base prognostica, salva la determinazione equitativa in assenza di prova certa del suo ammontare.

Particolarmente interessante si rivela Sez. 3, n. 24771, in corso di massimazione, est. Rossetti, che, in tema di danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico, in un caso di pretesa azionata da un individuo di sesso maschile, ha chiarito che dal fatto noto che una persona sia rimasta vittima di lesioni che l'abbiano costretta ad un lungo periodo di rilevante invalidità, è possibile risalire al fatto ignorato che a causa dell'invalidità non abbia potuto attendere al ménage familiare.

Per contro, Sez. 3, n. 25726, in corso di massimazione, est. Vivaldi, ha ribadito, che il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che (come la casalinga) provveda da sé al lavoro domestico, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale (e non biologico) e che chi lo invoca ha l'onere di dimostrare che gli esiti permanenti residuati alla lesione della lesione impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico.

Va ricordato che, al fine della liquidazione del danno patrimoniale da perdita di chance, la concreta ed effettiva occasione perduta di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto, ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione autonoma, che deve tenere conto della proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto (così Sez. L, n. 18207, Rv. 632367, est. Ghinoy).

Invece Sez. 3, n. 24205, in corso di massimazione, est. Vincenti, ha avuto il merito di chiarire che il danno per spese di assistenza domiciliare giornaliera, divenute necessarie in conseguenza di un incidente stradale subito dal danneggiato, costituisce una componente del danno patrimoniale e non del danno biologico, in quanto l'assistenza è un rimedio per sopperire alle conseguenze del danno alla salute, non diversamente dalla necessità di cure sanitarie, e l'entità del danno è pari alla misura della spesa sostenuta per l'assistenza; ne consegue che la prova dei costi sopportati deve essere fornita dal soggetto danneggiato, salvo che, sussistendone le condizioni, il giudice non ritenga di ricorrere ad una valutazione equitativa.

12.1. Il danno da riduzione della capacità lavorativa generica.

Mostra di essere meno intransigente, almeno in tema di damnum emergens, Sez. 3, n. 11684, Rv. 630951, est. Lanzillo, nel momento in cui ha statuito che le spese funerarie, sostenute dagli eredi della persona deceduta per atto illecito, costituiscono una voce di danno ineliminabile e possono essere liquidate anche in mancanza di specifica dimostrazione della precisa entità della somma corrisposta a tale scopo, occorrendo, tuttavia, fornire al giudice i dati dai quali desumere, almeno approssimativamente, i parametri cui commisurare la valutazione, sia pure con riferimento al costo medio delle onoranze funebri della zona in questione.

La Corte, inoltre, con Sez. 3, n. 18161, Rv. 632223, est. Spirito, ha ricordato che, all'interno del risarcimento del danno alla persona, il danno da riduzione della capacità lavorativa generica non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia - in quanto lesione di un'attitudine o di un modo d'essere del soggetto - in una menomazione dell'integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico.

In questo ambito sembrano, invece, essere rimasti consolidati due principi: a) la mancanza di un reddito al momento dell'infortunio, per essere il soggetto leso disoccupato, può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato alla invalidità permanente che - proiettandosi per il futuro - verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà una attività remunerata, salvo l'ipotesi che si tratti di disoccupazione volontaria, ovvero di un consapevole rifiuto dell'attività lavorativa; b) la riduzione della capacità lavorativa di un soggetto che svolge vari e saltuari lavori non qualificati, o dell'operaio non specializzato, non è assimilabile alla incapacità lavorativa generica, liquidabile, ripetesi, solo nell'ambito del danno biologico, ma è pur sempre fonte di danno patrimoniale, da valutarsi considerando quale sia stata in concreto la riduzione della capacità lavorativa specifica del soggetto leso.

12.2. Il danno patrimoniale futuro.

Avuto riguardo al caso in cui il soggetto danneggiato sia, in conseguenza delle lesioni subìte, deceduto, Sez. 3, n. 759, Rv. 629754, est. Armano, ha, valorizzando i criteri di regolarità causale, statuito che, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale futuro, patito dai genitori per la morte del figlio in conseguenza del fatto illecito altrui, è necessaria la prova, sulla base di circostanze attuali e secondo criteri non ipotetici ma ragionevolmente probabilistici, che essi avrebbero avuto bisogno della prestazione alimentare del figlio, nonché del verosimile contributo che il figlio avrebbe versato per le necessità della famiglia.

12.3. La compensatio lucri cum damno.

Interessante è il principio enunciato da Sez. 3, n. 13537, Rv. 631440, est. Rossetti, secondo cui, in tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, dall'ammontare del risarcimento deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento, che è inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile. Il collegio ha, peraltro, precisato che, a ben vedere, in siffatta evenienza, non tanto di compensatio lucri cum damno deve parlarsi, quanto di inesistenza stessa del danno patrimoniale, per la parte elisa dal beneficio assicurativo. La pronuncia merita di essere segnalata soprattutto perché, con ampie argomentazioni giuridiche, si pone in consapevole contrasto con il precedente orientamento prevalente difforme (n. 4205 del 2002, Rv. 553234; n. 8828 del 2003, Rv. 563838; n. 3357 del 2009, Rv. 606516; n. 5504 del 2014 Rv. 630209). In particolare, quest'ultima (Sez. 3, n. 5504, Rv. 630209, est. Amatucci) ha in senso contrario sostenuto (in ciò seguita da Sez. 3, n. 20548, Rv. 632962, est. Scarano, che ha escluso la detrazione di quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all'invalidità, in quanto tali attribuzioni non hanno finalità risarcitorie) che l'ipotesi della compensatio lucri cum damno non si configura quando, a seguito della morte della persona offesa, ai congiunti superstiti aventi diritto al risarcimento del danno sia stata concessa una pensione di reversibilità, giacché tale erogazione si fonda su un titolo diverso rispetto all'atto illecito. Ha aderito all'indirizzo maggiormente rigoroso Sez. 3, n. 991, Rv. 629703, est. D'Amico, la quale, pur riconoscendo che il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto abbia natura diversa rispetto all'attribuzione indennitaria regolata dalla legge n. 210 del 1992, tuttavia ha statuito che, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele, l'indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (conf. n. 6573 del 2013).

Ponendosi a metà strada tra i due orientamenti, Sez. 3, n. 25733, (in corso di massimazione), est. Vincenti, ha, da un lato, sostenuto che le somme corrisposte al danneggiato dall'ente previdenziale (nel caso di specie, a titolo di rendita capitalizzata) debbono essere detratte, in base al principio indennitario, dall'importo del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, da parte del responsabile (onde evitare duplicazioni di risarcimento sia in favore del danneggiato, che a carico dell'assicuratore e del responsabile), e, dall'altro lato, escluso che nella fattispecie potesse trovare applicazione l'istituto della compensatio lucri cum damno.

Sez. 3, n. 20548, ha altresì ribadito che il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito.

Da ultimo, Sez. 6-3, n. 20111, Rv. 632976, est. De Stefano, ha confermato che l'eccezione di compensatio è un'eccezione in senso lato, vale a dire non l'adduzione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato, ma una mera difesa in ordine all'esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato.

13. Il danno non patrimoniale in determinati settori.

Non è ovviamente possibile, data l'estremamente variegata tipologia di settori nei quali può ipotizzarsi una responsabilità extracontrattuale, fornire un quadro completo. Tuttavia, senza pretese di esaustività, è opportuno menzionare, tra le decisioni adottate nel corso del 2014, quelle maggiormente significative o originali.

In tema di illegittimo trattamento di dati sensibili ex art. 4 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 193, Sez. 3, n. 15240, Rv. 631712, est. Cirillo, ha ritenuto configurabile un illecito ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., che non determina un'automatica risarcibilità del danno, poiché il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) deve essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l'entità e la difficoltà di assolvere l'onere probatorio, trattandosi di un danno-conseguenza e non di un danno-evento, senza che rilevi in senso contrario il suo eventuale inquadramento quale pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti (in subiecta materia si segnala anche Sez. 1, n. 10947, Rv. 631481, est. Dogliotti).

Per Sez. 6, n. 18812, Rv. 632941, est. Frasca, l'illecito in esame giustifica l'accoglimento della pretesa risarcitoria solo a condizione che sia dimostrata dall'interessato l'esistenza di un pregiudizio di natura non patrimoniale sofferto in sua conseguenza (in particolare, nella sfera delle proprie relazioni parentali e sociali).

Si è, inoltre, precisato - Sez. 6-3, n. 22526, est. Scarano, in corso di massimazione - ha precisato che, ai fini dell'azione di risarcimento danni per la violazione della normativa in materia di protezione di dati personali, la competenza per territorio va individuata, in via esclusiva, in capo al tribunale del luogo di residenza del titolare del trattamento dei dati.

Nell'analizzare una domanda di risarcimento dei danni alla salute subiti da un militare italiano in conseguenza dell'esposizione all'uranio impoverito e ad altre sostanze nocive nel corso della missione di pace in Kosovo, Sez. U, n. 9666, Rv. 630552, est. Di Amato, ha statuito che la stessa, proposta nei confronti del Ministero della difesa (ai sensi dell'art. 63, comma 4, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165), appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, giacché fondata su di una condotta dell'amministrazione che non presenta un nesso meramente occasionale con il rapporto di impiego, ma si pone come diretta conseguenza dell'impegno del militare in quel "teatro operativo" senza fornirgli le necessarie dotazioni di sicurezza e senza averlo informato dei rischi connessi all'esposizione.

Il giorno prima le stesse Sezioni Unite, Sez. U, n. 9573, Rv. 630493, est. Rovelli, avevano precisato che anche la domanda proposta dagli eredi di un militare italiano, per il risarcimento dei danni conseguenti all'esposizione del proprio congiunto all'uranio, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma solo in relazione ai pregiudizi fatti valere iure hereditatis; per contro, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda volta al ristoro dei danni subìti iure proprio dagli eredi, atteso che l'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel riservare al giudice amministrativo, oltre alle controversie relative ai rapporti di lavoro non contrattualizzati, anche i diritti patrimoniali connessi, sottintende la riferibilità degli stessi alle sole parti del rapporto di impiego e non anche a terzi.

In materia interessante si rivela Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, a mente della quale la regola di diritto internazionale consuetudinaria che riconosce l'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile di altri Stati non opera nell'ordinamento italiano con riferimento a comportamenti illegittimi di uno Stato che sono da considerarsi crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti fondamentali della persona riconosciuti nella Costituzione. La fattispecie si riferiva alla richiesta di condanna risarcitoria della Repubblica Federale di Germania avanzata da tre cittadini (catturati nel territorio italiano e deportati in Germania per essere adibiti al lavoro forzato nei campi di concentramento) per i danni patiti nel corso della seconda guerra mondiale.

Prolifica è stata la produzione giurisprudenziale della S.C. in materia di espropriazione per pubblico interesse. In tale ambito Sez. 1, n. 6296, Rv. 630506, est. Di Virgilio, nel seguire una linea già delineata da n. 18434 del 2013, Rv. 627629, ha ribadito che, in tema di determinazione del risarcimento del danno derivante da occupazione acquisitiva dei suoli non edificabili, l'unico criterio utilizzabile, così come per i suoli edificabili, è quello della piena reintegrazione patrimoniale commisurata al prezzo di mercato, sulla base delle caratteristiche intrinseche ed estrinseche del suolo, senza che il proprietario abbia l'onere di dimostrare che il fondo sia suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo rispecchiante possibilità di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificatoria, perché altrimenti si introdurrebbe un inammissibile fattore di correzione del criterio del valore di mercato, con l'effetto indiretto di ripristinare l'applicazione di astratti e imprecisati valori agricoli.

In materia, va ricordato che l'attività espropriativa posta in essere dopo la scadenza del vincolo ad essa preordinato è svolta in carenza di potere, sicchè la domanda dell'espropriato per il risarcimento del danno da occupazione appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario (così Sez. U, n. 23470, Rv. 632714, est. Ragonesi).

Si è poi precisato - Sez. 1, n. 21489, Rv. 632777, est. Campanile - ha precisato che l'irreversibile trasformazione del fondo di proprietà privata in opera pubblica, qualora verificatasi nel periodo di sua occupazione legittima senza che sia stato tempestivamente emanato un provvedimento ablatorio, integra un illecito aquiliano che si consuma, però, solo al momento della scadenza del termine dell'occupazione autorizzata, atteso che in tale periodo l'attività svolta ha, per definizione, il carattere della legittimità e, come tale, è improduttiva di danno risarcibile ex art. 2043 cod. civ.

La Corte, con Sez. 3, n. 3427, Rv. 629959, est. Cirillo, ha confermato l'indirizzo per cui l'illegittima levata di un protesto crea nell'attuale regime di mercato, che si fonda, in via principale, sul credito, un'inevitabile lesione dell'immagine del soggetto protestato, comportando una maggiore difficoltà di accesso al credito, idonea a tradursi nella negazione o riduzione di futuri prestiti ovvero nella richiesta immediata di esazione di crediti, e determinando un danno, la cui liquidazione può essere effettuata dal giudice anche in via equitativa. Nel caso sottoposto al suo vaglio, la S.C. ha condiviso la decisione del giudice di merito, che aveva limitato l'ammontare del danno entro una soglia risarcitoria contenuta, tenendo conto che i fatti erano avvenuti nel contesto d'una realtà economica di non particolare grandezza ed importanza.

14. La responsabilità precontrattuale.

La responsabilità precontrattuale va analizzata nella presente sede sulla base dell'assunto per cui essa, derivando dalla violazione della regola di condotta, posta dall'art. 1337 cod. civ. a tutela del corretto dipanarsi dell'iter formativo del negozio, costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell'onere della prova.

Tre sono le pronunce che meritano di essere segnalate in questo ambito: una prima per essersi posta in consapevole contrasto con l'orientamento maggioritario, una seconda perché conforme ad un indirizzo in via di formazione in un settore delicato ed una terza per i suoi risvolti sul piano processuale.

In particolare, Sez. 1, n. 15260, Rv. 631507, est. Cristiano, ha, con dovizia di particolari, sostenuto che la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente (ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, instaurando con ciascuno di essi trattative idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici, nel cui ambito è tenuto al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti). Ne consegue che l'inosservanza di tale precetto, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della P.A. per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337 cod. civ., a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante. È palese il contrasto rispetto a n. 13164 del 2005 Rv. 583987 e n. 477 del 2013 Rv. 624592, se si considera che queste ultime avevano escluso che fosse ipotizzabile una responsabilità precontrattuale, per violazione del dovere di correttezza di cui all'art. 1337 cod. civ., rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ammettendo la stessa con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative dell'ente è sindacabile sotto il profilo della violazione del dovere del neminem laedere, ove lo stesso sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza.

La Corte, con Sez. 1, n. 8462, Rv. 630886, est. Didone, in tema di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, ha ribadito (n. 25222 del 2010, Rv. 614877) che unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile, ove non altrimenti stabilito dalla legge, di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere fonte di responsabilità. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cd. "contratto quadro"), mentre è fonte di responsabilità contrattuale, ed, eventualmente, può condurre alla risoluzione del contratto, ove le violazioni riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro". Va in ogni caso escluso, in assenza di una esplicita previsione normativa, che la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell'art. 1418, primo comma, cod. civ., la nullità del cosiddetto "contratto quadro" o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso.

Infine, Sez. 2, n. 14806, Rv. 631669, est. Manna, ha, in tema di qualificazione della domanda, chiarito che la sentenza di primo grado che abbia applicato l'istituto della garanzia per vizi della "res vendita" contiene l'accertamento implicito dell'avvenuta conclusione del contratto e della natura contrattuale dell'azione esercitata, sicché, ove tale statuizione non sia stata impugnata neppure in via implicita, il giudice d'appello che, ricostruendo i fatti storici di causa, neghi l'avvenuta formazione del consenso contrattuale e qualifichi l'azione come diretta a far valere una responsabilità precontrattuale, altera la causa petendi della domanda e perciò viola il giudicato interno.

15. La responsabilità medica.

A seguito dell'entrata in vigore del d.l. n. 158 del 2012, convertito in legge n. 189 del 2012, in tema di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria, le attenzioni della giurisprudenza di merito si sono concentrate sulla natura contrattuale o extracontrattuale della detta responsabilità. Tuttavia, l'incertezza che permane sull'inquadramento giuridico rende opportuno menzionare le pronunce di rilievo adottate anche sulla responsabilità medica in generale.

In particolare, Sez. 3, n. 18230, Rv. 631952, est. Rossetti, ha chiarito che colui il quale assume volontariamente un obbligo, ovvero inizia volontariamente l'esecuzione di una prestazione, ha il dovere di adempiere il primo o di eseguire la seconda con la correttezza e la diligenza prescritte dagli artt. 1175 e 1176 cod. civ., a nulla rilevando che la prestazione sia eseguita volontariamente ed a titolo gratuito. Nella fattispecie giunta sino in Cassazione un medico anestesista si era fatto carico volontariamente anche della gestione di un paziente nella fase del ricovero e della sua assistenza a domicilio nella fase post-operatoria.

Analizzando funditus la vexata quaestio della responsabilità da mancato consenso, Sez. 3, n. 12830, Rv. 631825, est. Vivaldi, ha precisato che, quando ad un intervento di chirurgia estetica segua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o attenuare, la responsabilità del medico per il danno derivatone è conseguente all'accertamento che il paziente non sia stato adeguatamente informato di tale possibile esito, ancorché l'intervento risulti correttamente eseguito. Infatti, con la chirurgia estetica il paziente insegue un risultato non declinabile in termini di tutela della salute, ciò che fa presumere come il consenso all'intervento non sarebbe stato prestato se egli fosse stato compiutamente informato dei relativi rischi, senza che sia necessario accertare quali sarebbero state le sue concrete determinazioni in presenza della dovuta informazione.

Sempre in tema di consenso informato, Sez. 3, n. 19731, Rv. 632440, est. Petti, ha poi precisato che lo stesso va acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell'evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono ometterle in base ad un mero calcolo statistico.

Da ultimo, Sez. 3, n. 20547, Rv. 632891, est. Scrima, ha ribadito che la violazione da parte del medico del dovere di informare il paziente può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto di autodeterminazione in sé stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio (patrimoniale o non) diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Sul piano dell'illecito omissivo, Sez. 3, n. 11522, Rv. 630950, est. Travaglino, nell'analizzare un caso estremo in tema di danno alla persona (ma, purtroppo, di non rara verificazione), ha enunciato l'importante principio (i cui prodromi si possono leggere tra le righe di n. 23846 del 2008, Rv. 604659) per cui l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cosiddetto palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione dello stesso, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che, nelle more, egli non ha potuto fruire di tale intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze. In tema di responsabilità da illecito omissivo si segnala altresì Sez. 3, n. 22344, est. Amendola, in corso di massimazione. È opportuno in questa sede ricordare che, mentre la causalità commissiva va accertata con il criterio cd. della causalità umana, quella omissiva va scrutinata sulla base del criterio del "più probabile che non".

A tal ultimo proposito, Sez. 3, n. 22225, Rv. 632945, est. Carluccio, ha evidenziato che, allorchè la consulenza tecnica d'ufficio (che pure di norma presenta in tale ambito natura "percipiente") formuli una valutazione, con riguardo all'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento di danno, come "meno probabile che non", l'esito della consulenza è correttamente ignorato dal giudice, atteso che, in applicazione del criterio della regolarità causale e della certezza probabilistica, l'affermazione della riferibilità causale del danno all'ipotetico responsabile presuppone, all'opposto, una valutazione nei termini di "più probabile che non".

Sulla stessa lunghezza d'onda, Sez. 3, n. 7195, Rv. 630704, est. Barreca, ha addebitato ad un medico l'errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l'esito certamente infausto di una malattia, che aveva comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto.

Parimenti, Sez. 3, n. 6341, Rv. 630671, est. Frasca, ha chiarito che, allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell'integrità fisica, sia sottoposto ad un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell'intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario.

La Corte, poi, con Sez. 3, n. 15490, Rv. 631715, est. D'Amico, ha affermato che il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l'onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno. Sottolinea l'onere di allegare l'inadempimento qualificato del medico o della struttura sanitaria oltre a Sez. 3, n. 21025, est. Scrima, in corso di massimazione altresì Sez. 3, n. 20547, Rv. 632962, est. Scrima, la quale ha inoltre ribadito che, qualora, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore. Tale ultima pronuncia si segnala per essersi posta in consapevole contrasto con Sez. 3, n. 4792 del 2013, Rv. 625765, per la quale, se, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno, tale incertezza ricade sul paziente e non sul medico.

Da ultimo, Sez. 3, n. 22222, est. Scarano, in corso di massimazione, ha precisato che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non vale come criterio di ripartizione dell'onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova della particolare difficoltà della prestazione.

15.1. Il decreto cd. Balduzzi.

Come si è già detto nell'incipit del presente paragrafo, peraltro, la pronuncia più attesa era quella che doveva fornire criteri ermeneutici nella lettura della novità normativa meglio nota come "decreto Balduzzi".

Così Sez. 6-3, ord. n. 8940, Rv. 630778, est. Frasca, ha chiarito la portata della clausola di salvezza dell'obbligo ex art. 2043 cod. civ., sostenendo che l'art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, nel prevedere che "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve", fermo restando, in tali casi, "l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile", non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve. In particolare, la menzionata disposizione, poiché omette di precisare in che termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 cod. civ., dev'essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità extracontrattuale civilistica. Deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un'opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale.

In precedenza, Cass. n. 4030 del 2013 aveva affermato, ma solo in un obiter dictum e non fornendo indicazioni interpretative del secondo inciso dell'art. 3, comma 1, che la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate anche per la cd. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale.

Peraltro, essendosi al cospetto di una decisione di inammissibilità ai sensi dell'art. 360 bis, primo comma, cod. proc. civ., la pur articolata dissertazione assume la valenza di mero obiter dictum e, come tale, non ha la portata di precedente.

Sul piano processuale, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 8413, Rv. 630183, est. Vivaldi, a tenore della quale, nel processo a pluralità di parti, instaurato da un paziente per far valere la responsabilità solidale di una casa di cura e del sanitario operante presso di essa, non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario passivo, in quanto l'attore, avendo diritto di pretendere da ciascun condebitore il pagamento dell'intera somma dovuta a titolo di risarcimento dei danni subiti, instaura nei loro confronti cause scindibili, sicché - in applicazione dei principi valevoli per l'obbligazione solidale passiva - la notifica della sentenza che sia stata eseguita ad istanza della parte attrice nei confronti di uno solo dei convenuti segna esclusivamente nei riguardi dello stesso l'inizio del termine breve ex art. 325 cod. proc. civ.

La questione, per quanto la soluzione qui riportata appaia condivisibile, probabilmente verrà in futuro portata, ai sensi dell'art. 374, comma 2, cod. proc. civ., all'attenzione delle Sezioni Unite, in quanto, a fronte di pronunce conformi (n. 239 del 2008 Rv. 600973), vi sono anche decisioni di segno contrario (n. 676 del 2012 Rv. 621390).

In proposito, Sez. 3, n. 20192, Rv. 632978, est. Rubino, ha posto in rilievo che l'unicità del fanno dannoso richiesta dall'art. 2055 cod. civ. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell'illecito va intesa in senso non assoluto, ma relativo, sicchè ricorre tale responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempre che le singole azioni o omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione dell'intero danno.

16. I danni arrecati col mezzo della stampa o della televisione.

Molto copiosa è stata, anche nel 2014, la produzione giurisprudenziale in tema di danno all'onore, alla reputazione ed all'immagine, avuto particolare riguardo ai danni commessi col mezzo della stampa o della televisione.

Come è noto, occorre in questo ambito distinguere il diritto di cronaca da quello di critica e da quello di satira, tenendo presente che quest'ultima costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta all'obbligo di riferire fatti veri, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto, pur soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito.

Si è già visto, nel trattare la questione degli interessi meritevoli di tutela, che, anche in tema di diffamazione a mezzo stampa, la risarcibilità del danno non patrimoniale esige la verifica del superamento del filtro rappresentato dalla serietà del pregiudizio. Applicando tale principio, Sez. 3, n. 21424, est. Sestini, in corso di massimazione, ha escluso la sussistenza di una lesione all'immagine in un caso in cui la locandina di un quotidiano aveva dato la notizia dell'arresto di una persona indicata solo con il cognome, comune al diffamato, in quanto i quotidiani pubblicati lo stesso giorno di esposizione della locandina avevano fornito tutti i ragguagli sulla persona effettivamente arrestata.

A tal riguardo Sez. 3, n. 24474, est. D'Amico, in corso di massimazione, ha precisato che, in tema di diffamazione, non essendo il danno alla reputazione in re ipsa, la prova presuntiva, come può essere utilizzata per la prova del danno morale ed alla serenità familiare, così può essere utilizzata per calibrare correttamente l'effettiva entità della lesione di altri aspetti della vita umana.

Va segnalato che Sez. 3, n. 18174, Rv. 633037, est. Ambrosio, ha avuto il merito di precisare che il danno alla reputazione deve essere inteso in termini unitari, senza distinguere tra "reputazione personale" e "reputazione professionale", trovando la tutela del relativo diritto il proprio fondamento sempre nell'art. 2 Cost. e, in particolare, nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale.

Sul piano degli elementi oggettivi, si segnala Sez. 3, n. 21424, est. Sestini, in corso di massimazione, secondo cui, in tema di diffamazione a mezzo della stampa, l'offesa della reputazione necessaria ad integrare l'illecito presuppone l'attitudine della comunicazione a rendere individuabile il diffamato sulla base di elementi che, sebbene non univoci, siano oggettivamente tali da far convergere l'offesa o il fatto offensivo su un determinato soggetto. Da ciò consegue che, se è vero che l'indicazione del solo cognome può bastare talvolta ad identificare una persona (come nel caso di un politico che rivesta un importante incarico pubblico, di un campione sportivo o di una star del cinema), è altrettanto vero che ciò non può essere sufficiente allorquando il cognome non abbia immediata attitudine individualizzante.

In tema di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, si è poi affermato - Sez. 3, n. 12056, Rv. 630949, est. Cirillo, che, nel caso in cui l'articolo giornalistico riporti il contenuto di una denuncia anonima, offensiva dell'altrui reputazione, inviata alla Procura della Repubblica, l'applicazione dell'esimente del diritto di cronaca presuppone la prova, da parte dell'autore dell'articolo, della verità reale o putativa dei fatti riportati nello scritto stesso, e non della mera verità dell'esistenza della fonte anonima. Ne deriva che, laddove siffatta prova non possa essere fornita, la menzionata esimente non è applicabile, senza che neppure rilevi il fatto che la concreta individuabilità dei soggetti diffamati sia derivata non dal contenuto della denuncia anonima, ma dalla diffusione di ulteriori atti conseguenti alla medesima.

Per Sez. 3, n. 23168, est. Sestini, in corso di massimazione, quando la cronaca abbia per oggetto immediato il contenuto di un'intervista, il requisito della verità va apprezzato in termini di corrispondenza fra le dichiarazioni riportate dal giornalista e quelle effettivamente rese dall'intervistato, con la conseguenza che, laddove non abbia manipolato o elaborato le predette dichiarazioni (in modo da falsarne, anche parzialmente, il contenuto), il giornalista non può essere chiamato a rispondere di quanto affermato dall'intervistato, sempreché ricorra l'ulteriore requisito dell'interesse pubblico alla diffusione dell'intervista.

Si è poi ribadito - Sez. 3, n. 17082, Rv. 632677, est. Carluccio - il principio per cui non sussiste la scriminante del diritto di cronaca quando siano riportate circostanze non vere relativamente allo svolgimento di un procedimento penale a carico di un soggetto sottoposto ad indagini. Nel caso di specie era stata divulgata a mezzo stampa la notizia inveritiera di una perquisizione domiciliare dallo stesso subìta e la S.C. ha reputato tale mezzo di ricerca della prova (al pari della esecuzione di misure cautelari personali o reali) idoneo a determinare una "macchia" per la reputazione del soggetto interessato.

Per Sez. 3, n. 19152, Rv. 632943, est. Rossetti, il giornalista, sebbene sia di regola tenuto a controllare la plausibile verità dei fatti dichiarati dai terzi, è esonerato dal dovere di verifica della verità putativa di quanto riferito e dal divieto di riportare espressioni oltraggiose, quando sussiste un interesse dell'opinione pubblica a conoscere, prima ancora dei fatti narrati, la circostanza che un terzo li abbia riferiti, perché in tal caso la notizia di interesse pubblico si identifica nella stessa dichiarazione del terzo. È chiaro che in siffatta evenienza il giudice dovrà verificare la circostanza che fosse ben chiara al lettore la natura di opinioni e dichiarazioni di terzi, e non di verità obiettive, di quanto riferito dal giornalista.

Quando la fonte della notizia sia un provvedimento giudiziario, Sez. 3, n. 18264, Rv. 632094, est. Ambrosio, ha chiarito che la verità di una tale notizia sussiste allorché essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti di sorta, dovendo il limite della verità essere restrittivamente inteso, poiché non è sufficiente la mera verosimiglianza. Invero, il sacrificio della presunzione di non colpevolezza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi. Ne consegue che eventuali inesattezze secondarie o marginali possono considerarsi irrilevanti, ai fini della lesione dell'altrui reputazione, solo qualora si riferiscano a particolari di scarso rilievo e privi di valore informativo.

Premesso che il limite della verità oggettiva vale solo per il diritto di cronaca, Sez. 3, n. 19178, Rv. 632942, est. Spirito, ha chiarito che la critica negativa dell'opera altrui non è di per sé offensiva quando socialmente rilevante, perché l'argomentata espressione di dissenso rispetto all'opera intellettuale, diffusa e di interesse pubblico, non comporta lesione dell'altrui reputazione. I giudici di legittimità hanno, peraltro, aggiunto che la critica diventa illecita, se non si limita ad esprimere valutazioni negative circa la qualità ed il rilievo letterario dell'opera intellettuale e del suo stesso autore (nel qual caso assume rilievo come scriminante), ma trasmoda nell'adozione di espressioni "gratuite", inutilmente volgari, umilianti o dileggianti.

In ordine al limite della continenza, Sez. 3, n. 25739, in corso di massimazione, est. Stalla, ha statuito che quest'ultimo, nell'ambito del diritto di cronaca, comporta moderazione, misura, proporzione nelle modalità espressive, le quali non devono trascendere in attacchi personali diretti a colpire l'altrui dignità morale e professionale, con riferimento non solo al contenuto dell'articolo, ma all'intero contesto espressivo in cui l'articolo è inserito (compresi titoli, sottotitoli, presentazione grafica, fotografie).

Sempre quest'ultima pronuncia ha ribadito il principio per cui, in tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, il danno morale non può che essere liquidato con criteri equitativi e che la ragione del ricorso a tali criteri è insita nella natura del danno e nella funzione del risarcimento, realizzato mediante la dazione di una somma di denaro compensativa di un pregiudizio di tipo non economico.

Per quanto riguarda il requisito soggettivo, Sez. 3, n. 18173, in corso di massimazione, est. Ambrosio, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ha sostenuto che può essere chiamato a risponderne chiunque (tanto in via esclusiva, quanto a titolo di concorso) abbia avuto un ruolo attivo nella pubblicazione di atti dai contenuti diffamatori, anche qualora non svolga professionalmente un'attività di informazione. Pertanto, non essendo richiesta una particolare qualifica dell'autore del reato, è sufficiente concorrere effettivamente alla diffusione o pubblicazione dell'atto (nel caso di specie, si trattava di un esposto-denuncia diffamatorio).

La Corte, con Sez. 3, n. 10252, Rv. 631162, est. Rubino, ha precisato che la responsabilità del direttore del giornale per i danni conseguenti alla diffamazione a mezzo stampa trova fondamento nella sua posizione di preminenza, che si estrinseca nell'obbligo di controllo e nella facoltà di sostituzione. Tali attività non si esauriscono nell'esercizio di un adeguato controllo preventivo, consistente nella scelta oculata di un giornalista idoneo alla redazione di una determinata inchiesta, ma richiede altresì la vigilanza ex post sui contenuti e sulle modalità di esposizione, mediante la verifica della verità dei fatti o dell'attendibilità delle fonti.

Particolarmente rilevante, per la questione di frequente verificazione analizzata, è Sez. 3, n. 18174, citata, Rv. 633036, la quale, dopo aver inquadrato l'inserimento nel sistema mondiale di reti informatiche interconnesse ("internet") di informazioni lesive dell'onore e della reputazione nell'ambito della diffamazione aggravata commessa con altro mezzo di pubblicità rispetto alla stampa, ha evidenziato che anche in questo caso trovano applicazione gli stessi limiti derivanti dal bilanciamento tra il diritto di critica o di cronaca e quello all'onore ed alla reputazione, quali la verità obiettiva delle informazioni (verità anche solo putativa), purchè frutto di un serio diligente lavoro di ricerca, la continenza delle espressioni usate e l'interesse pubblico all'informazione (cd. pertinenza). Nella fattispecie è stato, sulla base di tali criteri, ritenuto responsabile il gestore di un sito internet per avervi inserito notizie incomplete e dal tono insinuante e, in particolare, per aver omesso di riferire l'esito positivo di procedimenti penali ed amministrativi nei confronti del diffamato.

17. Il risarcimento in forma specifica.

Avuto particolare riguardo alla lesione dei diritti reali, per Sez. 3, n. 22347, est. Rubino, in corso di massimazione, il risarcimento in forma specifica, costituendo un diritto del danneggiato (in quanto forma di risarcimento di solito più pienamente satisfattiva) non può ribaltarsi in un onere a suo carico; tuttavia il rifiuto da parte sua dell'offerta fatta dal danneggiante di ripristinare direttamente i luoghi può essere valutato ai fini della parziale compensazione delle spese di lite.

Poiché il risarcimento del danno in forma specifica rappresenta, rispetto a quello per equivalente, una forma più ampia ed onerosa per il debitore di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, costituisce una mera emendatio libelli (consentita anche in sede di precisazione delle conclusioni) la richiesta di risarcimento per equivalente avanzata nonostante nel'atto introduttivo del giudizio fosse stato domandato il risarcimento in forma specifica (Sez. 3, n. 22223, est. Carluccio, in corso di massimazione).

18. Le responsabilità presunte.

18.1. Genitori e maestri (art. 2048 cod. civ.).

La Suprema Corte, con la sentenza Sez. 3, n. 3964, Rv. 630413, est. Ambrosio, ha affermato che la precoce emancipazione dei minori, frutto del costume sociale, non esclude, né attenua la responsabilità che l'art. 2048 cod. civ. pone a carico dei genitori per il fatto illecito commesso dal minore in potestate. Pur rilevando che, nella attuale realtà sociale, è sempre più anticipato il momento in cui i minori si allontanano dalla sorveglianza diretta dei genitori, l'obbligo di vigilanza di costoro "non è stato certo annullato, ma assume, piuttosto, contorni diversi; mentre il compito di impartire insegnamenti adeguati e sufficienti ad affrontare correttamente la vita di relazione deve essere assolto, se del caso, anche con maggiore rigore proprio in ragione dei tempi in cui avviene l'emancipazione dal controllo diretto dei genitori". I genitori, pertanto, proprio in ragione della precoce emancipazione, hanno l'onere di impartire ai figli l'educazione necessaria per non recare danni a terzi nella loro vita di relazione e devono rispondere per le carenze educative che hanno determinato l'illecito commesso dal figlio.

Con la Sez. 3, n. 3612, Rv. 629845, est. Vivaldi, invece, la Suprema Corte ha precisato che la responsabilità della scuola di sci per il danno subito dall'allievo a seguito di caduta esula dall'area operativa dell'art. 2043 cod. civ. e da quella dell'art. 2048 cod. civ ed ha natura contrattuale. Ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., pertanto, al creditore danneggiato spetta solo allegare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre grava sulla controparte provare l'esatto adempimento della propria obbligazione, ossia l'aver vigilato sulla sicurezza ed incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruiva della prestazione scolastica, dimostrando che le lesioni subite siano state conseguenza di circostanze autonome e non imputabili alla scuola.

18.2. Padroni e committenti (art. 2049 cod. civ.).

Anche nel 2014 la Corte ha ribadito l'orientamento secondo cui la responsabilità dei padroni e committenti ex art. 2049 cod. civ. può essere invocata nei confronti del datore di lavoro solo quando esiste un nesso di "occasionalità necessaria" tra il danno e le mansioni affidate al lavoratore che l'ha causato. In tema di responsabilità dell'intermediario per i danni arrecati a terzi dai promotori finanziari nello svolgimento delle incombenze loro affidate, pertanto, Sez. 3, n. 5020, Rv. 630645, est. Ambrosio, ha affermato che manca un simile rapporto di occasionalità nel caso in cui l'investitore abbia incautamente comunicato al promotore i codici di accesso al proprio conto corrente, rendendo così possibile il fatto illecito di quest'ultimo, consistito nel compimento di indebite operazioni di bonifico.

La P.A., analogamente, secondo Sez. 3, n. 21408, Rv. 632581, est. D'Amico non è responsabile per il fatto illecito del proprio dipendente che abbia agito come privato, per fini esclusivamente personali ed estranei all'amministrazione di appartenenza, ponendo in essere una condotta non ricollegabile, neppure in modo solo indiretto, alle attribuzioni proprie dell'agente. Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto correttamente ravvisato il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente pubblico,confermando la sentenza di condanna della P.A. a risarcire il danno cagionato da un agente di polizia che, coinvolto in una discussione animata all'interno di un luna park e fuori dall'attività di servizio, aveva esploso un colpo con la pistola di ordinanza ed aveva ferito una delle persone con le quali era intercorso il diverbio.

In relazione ai danni provocati a terzi da un subagente, infine, Sez. 3, n. 23448, Rv. 633233, est. De Stefano, ha precisato che l'agente di un'impresa di assicurazioni è responsabile, ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., quando le condotte illecite sono riconducibili alle incombenze a lui attribuite. Se invece dette condotte esorbitano dalle predette incombenze, può essere invocata la responsabilità dell'agente in forza del principio dell'apparenza del diritto, purché sussista la buona fede incolpevole del terzo danneggiato e l'atteggiamento colposo del preponente, desumibile dalla mancata adozione delle misure ragionevolmente idonee, in rapporto alla peculiarità del caso, a prevenire le condotte devianti del preposto.

18.3. Attività pericolose (art. 2050 cod. civ.).

La presunzione di colpa a carico del danneggiante, posta dall'art. 2050 cod. civ., come ha precisato Sez. 3, n. 19872, Rv. 632680, est. Ambrosio, presuppone la sussistenza del nesso eziologico tra l'esercizio dell'attività e l'evento dannoso, la cui prova è a carico del danneggiato. Ne consegue che va esclusa la responsabilità ove sia ignota o incerta la causa dell'evento dannoso.

Secondo un consolidato orientamento, invero, costituiscono attività pericolose, ai sensi dell'art. 2050 cod. civ., non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi usati, comportano la rilevante probabilità del verificarsi del danno, sia in conseguenza di un'azione, sia nell'ipotesi di omissione delle cautele che sarebbe stato necessario adottare. L'attività di trattamento dei dati personali, in questa prospettiva, è stata ritenuta pericolosa ai sensi dell'art. 2050 cod. civ. da Sez. 1, n. 10947, Rv. 631481, est. Dogliotti. I dati sensibili, nella specie quelli idonei a rivelare lo stato di salute, infatti, per garantire la salvaguardia del diritto fondamentale alla riservatezza, possono essere diffusi e conservati solo mediante l'uso di cifrature o numeri di codici non identificabili. Tale accorgimento costituisce la misura minima idonea ad impedire il danno. La sua omissione obbliga chi compie l'attività di trattamento di tali dati a risarcire il danno provocato secondo le regole dettate dal codice civile per le conseguenze dannose delle attività pericolose. Sez. 3, n. 15240, Rv. 631712, est. Cirillo, pure relativa all'illegittimo trattamento di dati sanitari compiuto da una pubblica amministrazione, tuttavia, ha ricondotto la violazione dell'art. 4 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 193 all'art. 2043 cod. civ., escludendo che determini una responsabilità "presunta". Secondo questa decisione, il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) deve essere provato in base alle regole ordinarie, quale ne sia l'entità e la difficoltà di assolvere l'onere probatorio, trattandosi di un danno-conseguenza e non di un danno-evento, senza che rilevi in senso contrario il suo eventuale inquadramento come pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti.

L'attività di polizia, infine, non è, per sua natura, attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 cod. civ., configurandosi quale compito indefettibile imposto allo Stato in difesa di beni e interessi della collettività. Secondo Sez. 3, n. 21426, Rv. 633092, Vincenti, tuttavia, può, in concreto, ricondursi alla fattispecie prevista dalla norma in esame "per la natura dei mezzi adoperati", quali armi o altri mezzi di coazione di pari pericolosità, sempreché - sulla base di un giudizio di merito, non implicante alcun sindacato sulle scelte discrezionali della P.A. - emerga un uso imperito o imprudente degli stessi, ovvero il loro carattere di anormalità od eccedenza e, dunque, di sproporzionalità evidente rispetto alla situazione contingente, sì da escludere l'operatività della scriminante di cui all'art. 53 cod. pen. Nella decisione è precisato che spetta al soggetto danneggiato, che invoca la responsabilità della P.A. per l'intrinseca pericolosità dei mezzi effettivamente adoperati, fornire la prova delle concrete ed oggettive condizioni atte a connotare il fatto come illecito, in quanto antigiuridico, mentre incombe all'amministrazione la prova di aver adottato, in ogni caso, tutte le misure idonee a prevenire il danno.

18.4. Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.).

La qualità di "custode" della persona contro cui sia invocata la presunzione di legge è il primo presupposto della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. La Suprema Corte (Sez. 3, n. 11532, Rv. 631067, est. Rossetti) al riguardo, ha negato che la pubblica amministrazione possa essere ritenuta custode del mare territoriale che è cosa distinta dal lido marino. Soltanto quest'ultimo, che rientra nel demanio marittimo e che può essere oggetto di proprietà, è suscettibile di "custodia" ai sensi dell'art. 2051 cod. civ.

Il potere-dovere di custodia, che grava sul proprietario di un bene, come ha precisato Sez. 3, n. 19657, Rv. 632991, est. Lanzillo, comprende i profili del controllo, della manutenzione e dell'interdizione dell'accesso a terzi non autorizzati. Secondo Sez. 2, n. 22179, Rv. 633026, est. Bursese, pertanto, sussiste la responsabilità del condominio ai sensi della norma in esame in relazione ai danni cagionati a terzi o agli stessi condomini dalle parti comuni dell'immobile, tra le quali la fossa settica, posta nel sottosuolo dell'edificio per la raccolta dei liquami provenienti dagli scarichi dei sovrastanti appartamenti.

La fattispecie della responsabilità da cose in custodia, poi, postula l'accertamento della esistenza di un nesso causale tra la cosa ed il danno. Il riferimento ad una concreta condotta colposa del danneggiante, contenuto nella domanda di risarcimento danni, secondo Sez. 3, n. 4446, Rv. 630181, est. Carleo, esclude che la parte attrice abbia inteso richiamare la fattispecie della responsabilità da cose in custodia, che prescinde dall'accertamento del carattere colposo dell'attività o del comportamento del custode.

Il limite alla sussistenza del rapporto di causalità è stato individuato da Sez. U, n. 9936, Rv. 630490, est. Travaglino, nell'utilizzazione palesemente impropria della res da parte del danneggiato. La Corte, con questa decisione, ha escluso la responsabilità del custode di un campo sportivo per il danno subito da un minore il quale, nel corso di una partita di basket, tenutasi alla presenza di un istruttore, dopo una schiacciata a canestro, si era appeso alla struttura metallica, provocandone la caduta, con conseguenti lesioni. Il minore, infatti, sebbene fosse stato specificamente avvertito dall'istruttore del pericolo di rottura del canestro in conseguenza dell'inutile gesto di appendersi con tutto il proprio peso all'anello del canestro dopo una schiacciata, non aveva rispettato tale indicazione. L'uso manifestamente improprio della res da parte del danneggiato, secondo la pronuncia indicata in esame, è riconducibile al cd. fortuito soggettivo che esime da responsabilità il custode.

Con un'altra decisione (Sez. 3, n. 999, Rv. 629275, est. Cirillo), invero, la Corte ha precisato che il comportamento colposo del danneggiato, in base ad un ordine crescente di gravità, può atteggiarsi a concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ.) ovvero escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode. In questo ultimo caso, integra gli estremi del caso fortuito rilevante a norma dell'art. 2051 cod. civ. Quest'ultima decisione è intervenuta in tema di danni da insidia stradale. La Corte ha ribadito che la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati può essere esclusa dalla stessa colpa della vittima che ricorre allorché il danneggiato, con l'uso dell'ordinaria diligenza, avrebbe potuto avvedersi dell'esistenza del pericolo ed evitarlo agevolmente. In applicazione di tale principio, pertanto, la Suprema Corte, confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto che l'evento lesivo in concreto verificatasi, conseguente all'inciampo in un tombino malfermo e mobile, fosse da ricondurre alla esclusiva responsabilità del soggetto danneggiato, il quale non aveva tenuto il comportamento adeguato nel transitare a piedi in una strada talmente dissestata da obbligare i pedoni a procedere in fila indiana.

Infine, Sez. 3, n. 17983, Rv. 632560, est. Sestini, ha precisato che il condominio risponde, ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., dei danni subiti da terzi estranei, originati da parti comuni dell'edificio, mentre l'amministratore, tenuto a provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia delle stesse, è soggetto, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., solo all'azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio per il recupero delle somme che esso abbia versato ai terzi danneggiati.

18.5. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 cod. civ.).

La Suprema Corte, con la sentenza Sez. 3, n. 17091, Rv. 632576, est. D'Amico, ha confermato che il proprietario o chi ne ha l'uso risponde ex art. 2052 cod. civ.del danno cagionato da un animale, per responsabilità oggettiva e non per condotta colposa (anche solo omissiva), dunque sulla base del mero rapporto intercorrente con l'animale nonché del nesso causale tra il comportamento di quest'ultimo e l'evento dannoso. Il limite della responsabilità va fissato nell'intervento di un fattore esterno generatore del danno (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma alle modalità di causazione del dannoconcretamente verificatosi. Grava sull'attore l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra l'animale e l'evento lesivo, mentre la prova del fortuito è a carico del convenuto.

Si è poi precisato, Sez. 3, n. 2414, Rv. 630356, est. Cirillo, che la responsabilità di chi si serve dell'animale per il tempo in cui lo ha in uso, ai sensi dell'art. 2052 cod. civ., prescinde sia dalla continuità dell'uso, sia dalla presenza dell'utilizzatore al momento in cui l'animale arreca il danno.

In relazione ai danni cagionati da animali selvatici, Sez. 3, n. 21395, Rv. 632728, est. Scarano, ha affermato che la responsabilità extracontrattuale va imputata all'ente cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che derivino dalla legge, sia che trovino fonte in una delega o concessione di altro ente.

Ribadendo un orientamento consolidato, peraltro, Sez. 1, n. 9276, Rv. 631131, est. Macioce, ha escluso che il danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione sia risarcibile in base alla presunzione stabilita dall'art. 2052 cod. civ., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall'art. 2043 cod. civ. Ne deriva che, ai fini della responsabilità per i danni, l'applicazione dell'ordinario onere della prova richiede l'individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico.

18.6. Circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.).

Anche nel 2014, diverse decisioni della Suprema Corte hanno riguardato la responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli.

L'art. 2054 cod. civ., invero, secondo Sez. 3, n. 11270, Rv. 631027, est. D'Alessandro, esprime, in ciascuno dei commi che lo compongono, principi di carattere generale applicabili a tutti i soggetti che ricevono danni dalla circolazione dei veicoli. Anche il trasportato, qualunque sia il titolo del trasporto, di cortesia ovvero contrattuale, oneroso o gratuito, indipendentemente dal titolo del trasporto, può invocare i primi due commi dell'art. 2054 cod. civ. per far valere la responsabilità extracontrattuale del conducente ed il comma terzo per far valere quella solidale del proprietario.

In tema di investimento del pedone, è stato confermato l'indirizzo rigoroso secondo cui la condotta colposa del danneggiato non basta, di per sé, a ritenere superata la presunzione di colpa posta dall'art. 2054, primo comma, cod. civ., a carico del conducente: in applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 3964, Rv. 630412, est. Ambrosio, ha ritenuto che la circostanza che il pedone abbia repentinamente attraversato un incrocio regolato da semaforo per lui rosso non vale ad escludere la responsabilità dell'automobilista, se non nei casi in cui tale condotta anomala del pedone, per le circostanze di tempo e di luogo, che avrebbero consigliato una maggiore prudenza e in particolare una minore velocità, fosse ragionevolmente prevedibile.

Sulla presunzione di corresponsabilità prevista, in caso di scontro tra veicoli, dall'art. 2054, secondo comma, cod. civ., Sez. 3, n. 23431, est. Carleo, in attesa di massimazione, ha confermato un indirizzo consolidato espresso di recente anche da Sez. 3, n. 3543 del 2013, Rv. 625217, secondo cui l'accertamento della colpa di uno dei conducenti coinvolti non comporta automaticamente la liberazione dell'altro conducente dalla presunzione di cui all'art. 2054, secondo comma, cod. civ., dovendo il giudice valutare in ogni caso se quest'ultimo abbia a sua volta tenuto una condotta di guida irreprensibile. La presunzione di pari responsabilità, in particolare, deve trovare applicazione quando l'incerta situazione probatoria emersa dall'istruttoria non permetta di ricostruire l'esatta dinamica dell'incidente, accertando che l'altro conducente abbia tenuto una condotta esente da qualsiasi censura.

Nel caso di tamponamento, però, Sez. 3, n. 6193, Rv. 630499, Stalla, ha affermato che, per il disposto dell'art. 149, primo comma, cod. strada (d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), il conducente di un veicolo deve essere in grado di garantire in ogni caso l'arresto tempestivo del mezzo, evitando collisioni con il veicolo che precede. L'avvenuto tamponamento, pertanto, pone a carico del conducente del veicolo tamponante una presunzione "de facto" di inosservanza della distanza di sicurezza. Tanto vale ad escludere l'applicabilità della presunzione di pari colpa di cui all'art. 2054, secondo comma, cod. civ. Il conducente del veicolo tamponante, però, può fornire la prova liberatoria, dimostrando che il mancato tempestivo arresto dell'automezzo e la conseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili.

È stato chiarito da Sez. 3, n. 14635, Rv. 631703, est. Carleo che obbligato in solido ex art. 2054 cod. civ. con il conducente del veicolo concesso in locazione finanziaria è l'utilizzatore del veicolo e non il proprietario concedente. Ai sensi degli artt. 91 e 196 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, infatti, si verte in ipotesi di responsabilità alternativa e non concorrente. L'utilizzatore ha la disponibilità giuridica del bene e, quindi, la possibilità di vietarne la circolazione. Ne discende che litisconsorte necessario nell'azione diretta contro l'assicuratore in caso di danni da circolazione di veicoli, ex art. 23 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, ratione temporis" applicabile, è esclusivamente il "lessee" (utilizzatore) e non il "lessor" (concedente), al pari dell'usufruttuario e dell'acquirente con patto di riservato dominio, con esclusione del proprietario concedente, né assume rilievo che l'utilizzatore sia moroso nel pagamento dei canoni di leasing.

Circa la prova liberatoria, Sez. 3, n. 11270, Rv. 631027, est. D'Alessandro, già citata, ha affermato che può essere esclusa la responsabilità del proprietario solo se è raggiunta la prova che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà, ovvero che il conducente aveva fatto tutto il possibile per evitare il danno o, ancora, in caso di guasto tecnico, dimostrando il caso fortuito o l'inesistenza del vizio di manutenzione o costruzione.

La Suprema Corte (Sez. 3, n. 14636, Rv. 631707, est. Carleo) ha anche precisato una delle conseguenze della natura solidale dell'obbligazione risarcitoria a carico dell'assicuratore, del proprietario del veicolo ed eventualmente del conducente. Essa comporta che, ai fini della prescrizione del diritto risarcitorio, gli atti interruttivi compiuti dal danneggiato nei confronti dell'assicuratore esplichino efficacia anche nei riguardi del proprietario e del conducente del veicolo danneggiante, in applicazione del principio sancito nell'art. 1310 cod. civ., che estende a tutti i debitori solidali dell'obbligazione l'efficacia interruttiva della prescrizione, derivante da qualunque atto compiuto nei confronti di uno di essi.

Circa la determinazione del danno risarcibile, Sez. 3, n. 2070, Rv. 629825, est. D'Amico, ha preciso che il cosiddetto "danno da fermo tecnico" del veicolo danneggiato da un sinistro stradale sussiste solo quando il mezzo, a seguito dell'incidente, non sia divenuto inservibile. In tale ultimo caso, infatti, si determina una perdita definitiva nel patrimonio del danneggiato con diritto al risarcimento sia del danno da perdita dell'autoveicolo, sia di quello relativo alle spese di gestione dell'auto nel periodo in cui essa non è stata utilizzata.

Secondo Sez. 6-3, n. 24681, Rv. 633237, est. Cirillo, infine, l'iscrizione nel pubblico registro automobilistico del trasferimento di proprietà di un'autovettura, prevista dall'art. 6 del r.d.l. 15 marzo 1927, n. 436, convertito nella legge 19 febbraio 1928, n. 510, non solo permette di dirimere i conflitti tra aventi causa dal medesimo venditore, ma costituisce prova presuntiva in ordine all'individuazione del soggetto obbligato a risarcire i danni da circolazione stradale quale proprietario del veicolo.

  • notaio
  • responsabilità
  • medico
  • avvocato

CAPITOLO XIV

LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

(di Paolo Bernazzani )

Sommario

1 Premessa. - 2 Medici. - 3 Avvocati. - 4 Notai.

1. Premessa.

In maniera non dissimile a quanto già registrato negli anni precedenti, anche nel 2014 le tre categorie professionali maggiormente attinte da giudizi in materia di colpa professionale risultano quelle dei medici, degli avvocati e dei notai. In particolare, sotto il profilo eminentemente quantitativo si conferma una linea di tendenza ormai consolidata nel tempo, che assegna il maggior numero di pronunce emesse dalla Corte in materia di responsabilità professionale al settore dell'attività medico chirurgica, seguito dall'area delle controversie in tema di responsabilità dell'avvocato ed a quella relativa alla responsabilità dei notai. Sotto un profilo contenutistico, la giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità professionale si è mossa sostanzialmente nel solco dei paradigmi ermeneutici fatti propri dagli orientamenti precedenti, pur senza trascurare opportuni approfondimenti argomentativi.

2. Medici.

2.1 Mutuando, con tenui variazioni, una sistematica espositiva già in precedenti rassegne adottata, nell'analizzare la giurisprudenza di legittimità in tema di colpa medica sviluppatasi nel corso del 2014 appare possibile ricondurre la produzione della Corte ad alcune fondamentali direttrici classificatorie: viene, in primo luogo, in rilievo la decisione che ha nuovamente scrutinato il tema della qualificazione, contrattuale ovvero extracontrattuale, della responsabilità civile alla luce di un recente intervento normativo del legislatore; un secondo filone si polarizza attorno all'individuazione dei criteri di determinazione della natura colposa della condotta e della sua rilevanza causale, sia con riferimento alla colpa professionale in senso stretto sia con riguardo alla colpa per violazione dell'obbligo di informare il paziente; un ulteriore gruppo di decisioni è dedicato al riparto dell'onere della prova, ovvero alle regole di valutazione della stessa; infine, non mancano pronunzie relative a tematiche ancora diverse, quali i criteri di quantificazione del danno secondo il sistema tabellare ovvero di natura eminentemente processuale.

2.2 In tema di qualificazione della responsabilità civile da attività medico chirurgica, al fine di valutarne la riconducibilità, alternativamente, ad un paradigma di matrice contrattuale ovvero extracontrattuale, Sez. 6-3, n. 8940, Rv. 630778, est. Frasca ha ritenuto che la norma dell'art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, laddove prevede che "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve" e soggiunge che "in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile", deve essere interpretata, conformemente al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è unicamente preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve anche nell'ambito della responsabilità civile di natura extracontrattuale. La Corte ha, per converso, escluso che con il richiamato inciso il legislatore abbia inteso smentire la qualificazione contrattuale di detta responsabilità, secondo la figura della c.d. responsabilità da "contatto sociale", esprimendo una diversa opzione a favore della qualificazione della responsabilità medica come responsabilità necessariamente extracontrattuale.

2.3 Fra le decisioni concernenti la colpa professionale in senso stretto, merita di essere segnalata, innanzitutto, Sez. 3, n. 22338, Rv. 633058, est. Rossetti: la Corte, chiamata ad occuparsi del tema della responsabilità del primario ospedaliero, nel condividere l'orientamento espresso da Sez. 3, n. 24144 del 2010, Rv. 615276, ha affermato che questi deve adempiere a tutti gli obblighi normativamente previsti dall'art. 7 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 (nella specie, applicabile ratione temporis), tra i quali spicca quello di informazione sulle condizioni dei malati e di predisposizione di adeguate istruzioni al personale al fine di fronteggiare e gestire correttamente le emergenze, restando a suo carico, in caso di omissione, il danno derivato da una situazione di inadeguatezza della struttura sanitaria da lui diretta.

La medesima decisione in esame, Rv. 633059, ha, altresì, stabilito che la diligenza qualificata richiesta, ai sensi del secondo comma dell'art. 1176 cod. civ., nell'esecuzione della prestazione professionale, implica che debba ritenersi in colpa il medico che, in presenza di un paziente cui non possano essere prestate adeguate cure nella struttura ospedaliera in cui si trova, ometta di attivarsi per tentare di disporne il trasferimento in altra struttura più idonea.

In tema di consenso informato, merita di essere menzionata la decisione - Sez. 3, n. 19731, Rv. 632440, est. Petti - che ha sottolineato come lo stesso, quale elemento strutturale dei contratti di protezione che si concludono nel settore sanitario, in cui gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, vada acquisito indipendentemente dal grado di probabilità di verificazione dell'evento ed, in particolare, anche quando tale probabilità sia talmente esigua da essere prossima al fortuito o, all'opposto, risulti talmente elevata da confinare con la certezza, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono ometterla in base ad un mero calcolo statistico.

Sempre in tema di responsabilità del sanitario per mancata acquisizione del consenso informato del paziente, particolare rilievo assume Sez. 3, n. 12830, Rv. 631825, est. Vivaldi, per le puntuale determinazione del contenuto dell'obbligo informativo del medico e delle conseguenze dell'omessa informazione: tale decisione, in particolare, ha affermato che, quando ad un intervento di chirurgia estetica (nella specie, volto alla rimozione di un tatuaggio) derivino conseguenze dannose, quali un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o attenuare, la responsabilità del medico per il danno derivatone è conseguente all'accertamento che al paziente non sono state fornite tutte le informazioni rilevanti per maturare una decisione libera e consapevole, ancorché l'intervento risulti correttamente eseguito a regola d'arte.

In tale prospettiva, la Corte ha rimarcato come, a differenza dell'ipotesi di intervento chirurgico necessario - non qualificabile, di per sé, come contra ius - nel campo degli interventi non necessari, quale l'intervento di chirurgia estetica in esame, l'assenza di valido consenso privi lo stesso di qualsiasi fonte di legittimazione, rendendolo contra ius, anche ove compiuto secondo i migliori protocolli terapeutici.

Sviluppando tale impostazione ermeneutica, la decisione citata ha sottolineato come, proprio in materia di chirurgia estetica, il dovere di informazione sia particolarmente pregnante, essendo il medico tenuto a prospettare in termini di probabilità logica e statistica al paziente l'effettiva possibilità di conseguire un effettivo miglioramento dell'aspetto fisico e - per converso - i rischi di un possibile peggioramento della condizione estetica. Nel caso di comprovata assenza di una corretta e puntuale informazione sui possibili esiti negativi, sul piano estetico, del trattamento, la Corte ha ritenuto che l'applicazione di consolidati criteri di razionalità e di normalità consenta di presumere che il consenso non sarebbe stato prestato se l'informazione fosse stata offerta, rendendo, pertanto, superfluo l'accertamento specifico, invece necessario quando l'intervento sia volto alla tutela della salute e la stessa risulti pregiudicata da un intervento pur indispensabile e correttamente eseguito, sulle concrete determinazioni cui il paziente sarebbe addivenuto in presenza della dovuta informazione.

Di particolare rilievo risulta, altresì, un'ulteriore decisione - Sez. 3, n. 11522, Rv. 630950, est. Travaglino - la quale, ponendosi nel solco di Sez. 3, n. 23846 del 2008, Rv. 604659, ha ribadito che l'omessa diagnosi di un processo morboso terminale, determinando un ritardo della possibilità di eseguire un intervento cosiddetto palliativo, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli ha dovuto sopportare le sofferenze conseguenti a tale processo morboso e particolarmente il dolore, che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza effetto risolutivo sul piano della patologia, alleviare.

Altra decisione - Sez. 3, n. 15239, Rv. 632220, est. Cirillo - ha rimarcato, ai fini dell'individuazione del termine di prescrizione per l'esercizio dell'azione risarcitoria, come non sia configurabile il delitto di lesioni volontarie gravi o gravissime nell'ipotesi in cui il medico sottoponga il paziente ad un trattamento da questi non consentito, ed anche ove l'intervento sia stato effettuato in violazione delle regole dell'arte medica ed abbia avuto esito infausto, qualora nella condotta professionale del medico sia comunque rinvenibile una finalità terapeutica, ovvero la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici: tali caratteristiche, infatti, consentono di escludere che la condotta del medico sia diretta a ledere, posto che la finalità curativa in concreto perseguita risulta incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un'alterazione lesiva dell'integrità fisica della persona offesa, invece necessaria per l'integrazione della condotta tipica del reato di lesioni dolose. Da tali premesse consegue che, ove dall'intervento o trattamento effettuato derivino lesioni al paziente, potrà, al più, ipotizzarsi il delitto di lesioni colpose se l'evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare.

2.4 Con riferimento alla ripartizione dell'onere della prova, Sez. 3, n. 20547, Rv. 632891, est. Scrima, ha ribadito l'orientamento secondo cui il danneggiato ha l'onere di provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e di allegare l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, mentre a carico del medico e/o della struttura sanitaria grava la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno. L'eventuale situazione di incertezza o di stallo probatorio che residui, all'esito del giudizio, in ordine all'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno è destinata a ricadere sul debitore: in tale prospettiva, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria avanzata dai familiari di una paziente deceduta, escludendo il nesso di causalità in quanto la consulenza tecnica d'ufficio aveva assegnato un identico grado di possibilità alle due cause di morte tecnicamente ipotizzabili, una sola delle quali attribuibile alla condotta del sanitario.

In tema di valutazione della prova in materia risarcitoria, Sez. 3, n. 22225, Rv. 632945, est. Carluccio, ha rilevato che correttamente il giudice può non tener conto delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio disposta nel corso del giudizio - che, pure, di norma presenta in tale ambito natura "percipiente" -, allorché questa, chiamata a pronunciarsi sull'efficienza causale della condotta della struttura sanitaria rispetto all'evento dannoso, formuli una valutazione in termini di "meno probabile che non", posto che, per ricondurre sul piano eziologico l'evento al soggetto ritenuto responsabile in termini di certezza probabilistica, è necessaria una valutazione opposta, ossia formulata in termini di "più probabile che non".

Infine, una puntuale ricognizione della portata dei poteri valutativi spettanti al giudice del rinvio in relazione alle risultanze istruttorie acquisite nelle precedenti fasi di merito - con particolare riferimento alla valutazione circa il raggiungimento della prova dell'assenza di colpa, incombente sulla struttura sanitaria, nel caso di danni subiti da un nascituro in conseguenza dell'omessa esecuzione di un parto cesareo - è stata operata da Sez. 3, n. 13358, Rv. 631758, est. Carluccio, la quale ha escluso che il giudice del rinvio possa trarre indicazioni al riguardo dalla stessa sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte, attesi i limiti istituzionali propri del sindacato di legittimità, che escludono ogni potere di valutazione delle prove.

2.5 Di estremo interesse è un ulteriore arresto giurisprudenziale - Sez.3, n. 6341, Rv. 630671, est. Frasca - che ha delineato le specifiche modalità di applicazione del sistema tabellare nella liquidazione del danno in caso di lesione dell'integrità fisica conseguente alla cattiva esecuzione di un intervento medico nei confronti di paziente già affetto da una situazione di compromissione dell'integrità fisica: la Corte ha, al riguardo, affermato che, qualora dalla cattiva esecuzione dell'intervento derivi una compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell'intervento stesso, la liquidazione del danno con il sistema tabellare va determinata muovendo dalla percentuale di invalidità effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto indicato in tabella in termini monetari per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e, perciò, non riconducibile alla responsabilità del sanitario.

In applicazione di tale principio, ha argomentato la Corte che, nella specie, la condotta dei responsabili aveva cagionato un danno-evento rappresentato non dalla perdita dell'integrità fisica da zero al 5%, bensì dal 5% al 10%, onde, nella liquidazione del danno secondo il sistema tabellare, il riferimento al valore equivalente ad un'invalidità del 5% si sarebbe tradotto nel considerare un danno-evento diverso da quello effettivamente cagionato; l'equivalente da considerare era, dunque, quello che, secondo le tabelle applicate, rappresentava la differenza fra il valore dell'invalidità del 10% e quello del 5%.

Sul piano eminentemente processuale, infine, va segnalata Sez. 3, n. 8413, Rv. 630183, est. Vivaldi: l'impostazione adottata da tale decisione muove dal postulato che il principio in base al quale, nel processo con pluralità di parti, la notifica della sentenza eseguita ad istanza di una sola di esse segna, nei confronti della stessa e del destinatario della notificazione, la decorrenza del termine per la proposizione dell'impugnazione contro tutte le altre parti, non sia applicabile nel caso in cui si verta in tema di obbligazione solidale passiva, poiché essa non comporta, sul piano processuale, l'inscindibilità delle cause e non dà luogo a litisconsorzio necessario, avendo il creditore titolo per rivalersi per intero nei confronti di ogni debitore con conseguente possibilità di scissione del rapporto processuale.

In tale prospettiva, la Corte ha ritenuto che nel processo a pluralità di parti, instaurato da un paziente per far valere la responsabilità solidale di una casa di cura e del sanitario operante presso di essa, non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario passivo: in tale caso, invero, l'attore instaura nei confronti di tali soggetti una pluralità di cause scindibili, avendo il diritto di pretendere da ciascun condebitore l'intero risarcimento dei danni subiti, onde la notifica della sentenza effettuata ad istanza della parte attrice nei confronti di uno solo dei convenuti determina esclusivamente nei riguardi dello stesso il decorso del termine breve ex art. 325 cod. proc. civ.

3. Avvocati.

3.1 In tema di responsabilità dell'avvocato, meritano di essere segnalate alcune decisioni che, nel ribadire orientamenti generali già affermati dalla S.C., ne hanno fatto specifica applicazione, rispettivamente, in relazione al contenuto dell'obbligo di diligenza; ai criteri di valutazione del negligente svolgimento dell'attività professionale che devono essere adottati da parte del giudice di merito, ed alla loro sindacabilità nel giudizio di cassazione; infine, in relazione all'attribuibilità della qualifica di "consumatore" al cliente nell'ambito dei rapporti con il proprio legale, ai fini della determinazione della competenza territoriale.

3.2 Nel delineare il contenuto e la portata degli obblighi professionali del difensore, la Corte - Sez. 6, n. 4790, Rv. 630405, est. De Stefano - ha richiamato il principio secondo il quale l'avvocato, i cui obblighi professionali sono di mezzi e non di risultato, è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente, espressamente riconoscendone l'applicabilità nel caso in cui una soluzione giuridica, sia pure opinabile ed, eventualmente, non condivisa e ritenuta errata ed ingiusta dal medesimo difensore sia stata, tuttavia, riaffermata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (nella specie, in tema di validità della notifica della sentenza presso la cancelleria del'ufficio giudiziario ai fini della decorrenza del termine breve per l'impugnazione, qualora la controparte non abbia eletto domicilio nel circondario in cui ha sede l'autorità adita). Anche in siffatti casi, invero, il professionista non è esentato dal dovere di tenere conto dell'orientamento ermeneutico da cui pur dissente per poter prevenire le conseguenze derivanti dalla sua prevedibile applicazione, sfavorevoli per il proprio assistito.

Un'altra interessante decisione concerne lo specifico profilo di negligenza del difensore riconducibile alla gestione della propria casella di posta elettronica certificata (PEC). La Corte - Sez. L, n. 15070, Rv. 631596, est. Tria - ha, in particolare, affermato che l'avvocato, dopo aver ottenuto dall'ufficio giudiziario l'abilitazione all'utilizzo del sistema di posta elettronica certificata ed aver effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di PEC al Ministero della Giustizia per il tramite del Consiglio dell'Ordine di appartenenza, diventa responsabile della gestione della propria utenza e, in quanto tale, ha l'onere di verificare con puntualità le comunicazioni regolarmente inviategli dalla cancelleria a tale indirizzo, indicato negli atti processuali.

Da ciò consegue che lo stesso difensore non può invocare la circostanza della mancata apertura della posta per ottenere la concessione di nuovi termini al fine di compiere attività processuali altrimenti precluse: nel caso di specie, nonostante la regolare comunicazione a mezzo PEC, in base all'art. 136, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall'art. 25 della legge n. 183 del 2011, del decreto di fissazione dell'udienza di discussione nel giudizio di appello, il difensore dell'appellante non ne aveva effettuato la notifica alla controparte, unitamente all'atto di appello, entro il termine di rito; la Corte, in applicazione del richiamato principio, ha confermato la statuizione di improcedibilità del ricorso in appello.

3.3 Nel ribadire il consolidato principio secondo il quale l'affermazione della responsabilità dell'avvocato per colpa professionale implica, da parte del giudice di merito, una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale ove la stessa fosse stata essere proposta e diligentemente seguita, la Corte - Sez. 3, n. 3355, Rv. 630155, est. Cirillo - ha precisato che tale giudizio, pur essendo fondato su di una previsione probabilistica di contenuto essenzialmente tecnico giuridico, nel giudizio di cassazione costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione.

3.4 Con Sez. 6, n. 1464, Rv. 629961, est. Segreto, resa in tema di competenza territoriale nell'ambito di una controversia in materia di responsabilità professionale, si è affermato il principio secondo cui, nei rapporti fra avvocato e cliente, quest'ultimo riveste la qualità di "consumatore", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. a, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, a nulla rilevando che il rapporto sia caratterizzato dall'intuitu personae e sia non di contrapposizione, ma di collaborazione (quanto ai rapporti esterni con i terzi, ossia con le controparti del cliente), non rientrando tali circostanze nel paradigma normativo. In tale prospettiva, la Corte ha precisato che "secondo l'orientamento giurisprudenziale italiano prevalente deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all'art. 1469 bis c.c. e segg. (attualmente d.lgs. n. 2006 del 2005, artt. 3 e 33 e ss.) la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività". A ciò consegue, pertanto, l'applicabilità alle controversie fra cliente ed avvocato in tema di responsabilità professionale delle regole sul foro del consumatore di cui all'art. 33, comma 2, lett. u, del d.lgs. n. 206 del 2005.

4. Notai.

In tema di responsabilità del notaio merita di essere richiamata Sez. 3, n. 18244, Rv. 632307, est. Amendola, secondo la quale il notaio che rogiti un contratto di compravendita immobiliare senza procedere alle visure dei pubblici registri per verificare la libertà e disponibilità dell'immobile risponde del danno risarcibile che ne deriva; danno che, peraltro, non coincide necessariamente con il prezzo corrisposto dall'acquirente ma con la situazione economica nella quale il medesimo si sarebbe trovato qualora il notaio avesse compiuto diligentemente la propria prestazione: pertanto, nel caso in cui il corrispettivo della compravendita immobiliare sia stato versato quasi interamente dall'acquirente in epoca anteriore alla stipulazione dell'atto notarile, il danno non può che corrispondere unicamente alla parte residua del corrispettivo, posto che il pregiudizio anteriormente subito dal cliente non è etiologicamente ricollegabile alla condotta negligente del professionista.

Infine, in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno cagionato dalla condotta negligente di un notaio per la redazione di un atto rivelatosi errato, la Corte - Sez. 3, n. 21026, Rv. 632946, est. Scrima - ha confermato la sentenza con la quale il giudice di merito aveva ritenuto che il conseguente danno si era verificato con la redazione della scrittura, da cui decorreva il termine di prescrizione del diritto al risarcimento. In tale ottica, si è esclusa la ricorrenza di un'ipotesi di impossibilità di far valere il diritto, che ex art. 2935 cod. civ. impedisce la decorrenza della prescrizione, derivando essa unicamente da cause giuridiche che ostacolino l'esercizio del diritto e non da impedimenti soggettivi od ostacoli di mero fatto; riguardo a questi ultimi, l'art. 2941 cod. civ. prevede soltanto specifiche e tassative ipotesi di sospensione, fra le quali (salva l'ipotesi di dolo prevista dal n. 8) non rientra l'ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sulla esistenza dello stesso ovvero il ritardo determinato dalla necessità del suo accertamento.

PARTE QUARTA TUTELA DEI DIRITTI

  • garanzia
  • ipoteca

CAPITOLO XV

LE GARANZIE REALI

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Inquadramento sistematico. - 2 Privilegi. - 3 Pegno. - 4 Ipoteca.

1. Inquadramento sistematico.

Strumenti di rafforzamento della garanzia del credito, le cause legittime di prelazione assicurano un regime preferenziale per la soddisfazione di determinati crediti, in deroga al principio della par condicio creditorum ed alla correlata eguale facoltà di tutti i creditori di agire sul patrimonio del debitore e di concorrere proporzionalmente sul ricavato dello stesso.

Secondo il canone discretivo tradizionalmente elaborato in dottrina, le cause legittime di prelazione si distinguono in due grandi categorie: da un lato, i privilegi, previsti da tipiche e tassative disposizioni di legge e riconosciuti in considerazione della causa del credito; dall'altro, il pegno e l'ipoteca, aventi fonte convenzionale e connotati dalla realità, cioè a dire dalla stretta afferenza alla res vincolata a garanzia del credito, dalla concentrazione del diritto su singoli, specifici e individuati beni.

La disamina della produzione giurisprudenziale in materia sull'argomento seguirà questa classica distinzione (peraltro, non sempre di agevole applicazione, riscontrandosi nell'ordinamento positivo figure per dir così spurie, che partecipano cioè dei caratteri dei vari istituti) e si articolerà secondo l'ordine sistematico del codice civile.

2. Privilegi.

Di sicuro interesse, per la frequente ricorrenza della fattispecie, è Sez. 1, n. 17270, Rv. 632473, est. Cristiano, relativa al conflitto tra l'ipoteca e il privilegio speciale immobiliare che assiste, in forza dell'art. 2775 bis cod. civ., i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell'art. 2645 bis cod. civ.. Nell'affrontare la questione, la pronuncia - conformandosi all'insegnamento di Sez. U, n. 21045 del 2009, Rv. 609335 - ha affermato che il menzionato privilegio immobiliare, siccome subordinato ad una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall'ultima parte dell'art. 2745 cod. civ.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza dei privilegi sull'ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dal secondo comma dell'art. 2748 cod. civ., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti; da ciò ha fatto conseguire che, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell'immobile opti per lo scioglimento del contratto preliminare, il conseguente credito del promissario acquirente, benché assistito da privilegio speciale, deve essere collocato, in sede di riparto, con grado inferiore rispetto a quello dell'istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull'immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice.

Degne di nota, in ordine a specifiche fattispecie di privilegi generali su beni mobili, risultano:

- Sez. 6-1, n. 12136, Rv. 631411, est. Cristiano, secondo cui il riconoscimento del privile-gio per i crediti delle società cooperative di produzione e lavoro ex art. 2751 bis, n. 5, cod. civ. postula che il credito risulti pertinente ed effettivamente correlato al lavoro dei soci e che l'apporto lavorativo di questi ultimi sia prevalente rispetto al lavoro dei dipendenti non soci, escludendo ogni rilevanza di parametri diversi, collegati a canoni funzionali o dimensionali ovvero a comparazioni fra lavoro dei soci e capitale investito;

- Sez. 1, n. 4769, Rv. 629679, est. Didone, in tema di crediti per retribuzione dei profes-sionisti e di ogni altro prestatore d'opera intellettuale, ha ritenuto non assistito dal privilegio di cui all'art. 2751 bis, n. 2, cod. civ., il credito costituito dal compenso in favore dell'amministratore di società, atteso che questi non fornisce una prestazione d'opera intellettuale e che il contratto tipico che lo lega alla società non è assimilabile al contratto d'opera ex artt. 2222 e ss. cod. civ., non presentando gli elementi del perseguimento di un risultato, con la conseguente sopportazione del rischio, mentre l'opus (cioè l'amministrazione) che egli si impegna a fornire non è, a differenza di quello del prestatore d'opera, determinato dai contraenti preventivamente né determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività d'impresa.

3. Pegno.

La Corte, Sez. 1, n. 2120, Rv. 629529, est. Ceccherini, nel circoscrivere l'ambito della autonomia negoziale in materia di pegno, ha riconosciuto alle parti il potere di determinarne l'oggetto, la durata ed eventualmente la sostituzione mediante il meccanismo cosiddetto rotativo, ma non anche la facoltà di qualificare il pegno come regolare o irregolare, discendendo tale definizione esclusivamente dalle relative norme del codice civile a carattere indisponibile, trattandosi di diritti reali di garanzia opponibili a terzi.

Merita menzione poi la decisione di Sez. 1, n. 3674, Rv. 629946, est. Di Amato, la quale ha ravvisato gli estremi di un pegno regolare con surrogazione dell'oggetto nel patto che prevedeva la facoltà del creditore pignoratizio di provvedere autonomamente alla riscossione dei titoli concessi in pegno alla scadenza e di impiegare gli importi riscossi nell'acquisto di altrettanti titoli della stessa natura, e così di seguito a ogni successiva scadenza dei titoli provenienti dal rinnovo o dai rinnovi, con l'avvertenza che gli importi riscossi e i titoli con essi acquistati restavano soggetti all'originario vincolo di pegno, ritenendo la riscossione dei titoli alla scadenza (e non la vendita degli stessi in qualsiasi momento) e l'acquisto di titoli della stessa natura elementi incompatibili con l'attribuzione alla banca della facoltà di disporre dei titoli (dato caratterizzante il pegno irregolare, in quanto comportante, in caso di adempimento, l'obbligo della restituzione non già dell'idem corpus, cioè del bene sottoposto a pegno, bensì del tantundem eiusdem generis et qualitatis); la sentenza ha inoltre precisato che ad escludere la qualificazione come pegno regolare non è idonea l'inclusione dei titoli in un certificato cumulativo, atteso che la dematerializzazione, pur superando la fisicità del titolo, consente comunque forme di consegna e di trasferimento virtuali, attraverso meccanismi alternativi di scritturazione, senza la movimentazione e senza neppure la creazione del supporto cartaceo.

4. Ipoteca.

Esaustiva trattazione circa il principio di specialità - connotante l'ipoteca - si rinviene in Sez. 3, n. 18325, Rv. 632035, est. Barreca: diversa dalla specialità oggettiva (riguardante il bene vincolato), la specialità soggettiva, espressamente affermata dall'art. 2809, comma primo, ultimo inciso, cod. civ., importa che per la validità del vincolo ipotecario sono necessarie l'indicazione del credito garantito e la specificazione della somma dovuta, naturale corollario del principio di determinatezza della garanzia, dacché la legge non consente al creditore di estendere il vincolo ipotecario per un credito diverso da quello garantito. Tuttavia - chiarisce la S.C. - la specialità dell'ipoteca si rapporta non al contenuto del credito garantito, ma al titolo dell'obbligazione e al titolo costitutivo dell'ipoteca, il quale deve contenere la menzione della fonte dell'obbligazione, dei soggetti e della prestazione: ne deriva che la somma determinata per la quale l'ipoteca è iscritta segna il limite della garanzia (vale a dire il limite oltre il quale non opera più il diritto di prelazione) e non si identifica affatto con l'importo del credito garantito, dal quale va tenuta distinta.

Ancora la stessa Sez. 3, n. 18325, Rv. 632036, est. Barreca, nella esegesi dell'art. 2852 cod. civ., ha escluso la possibilità di una ipoteca per crediti meramente futuri, che non abbiano fondamento in un rapporto già in essere, reputando ammissibile la costituzione della garanzia ipotecaria per crediti eventuali, cioè quelli che possono nascere in dipendenza di un rapporto già esistente purché individuato nel titolo (nel caso scrutinato, è stata ritenuta valida l'ipoteca concessa a garanzia di tutte le obbligazioni, principali ed accessorie, derivanti da un contratto di mutuo fondiario).

Come precisato da Sez. 3, n. 9987, Rv. 630657, est. Stalla, la costituzione di ipoteca successiva al sorgere del credito garantito ha natura di atto a titolo gratuito, con conseguente indifferenza dello stato soggettivo del terzo in ipotesi di esperimento di azione revocatoria ordinaria.

L'iscrizione di ipoteca legale effettuata sulla base di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo - ha asserito Sez. 3, n. 13547, Rv. 631400, est. Ambrosio - costituisce mero atto di esecuzione, per cui ne deve essere ordinata la cancellazione, anche di ufficio, qualora il titolo, per qualsiasi causa, divenga inefficace, con disposizione che va resa nello stesso provvedimento con cui viene accertata la sopravvenuta inefficacia.

Quanto all'ambito di estensione della garanzia in ipotesi di iscrizione di ipoteca per un capitale, Sez. 3, n. 23614, in corso di massimazione, est. Barreca, ha circoscritto il privilegio agli interessi corrispettivi, intendendo il sintagma (capitale che produce interessi) contenuto nell'art. 2855, secondo comma, cod. civ., come riferito ai soli interessi che, in guisa di frutti civili, costituiscono remunerazione del capitale, con esclusione degli interessi moratori, che trovano la loro ragione causale nel ritardo nell'adempimento imputabile al debitore.

Sul medesimo tema, Sez. 3, n. 17044, Rv. 632405, est. De Stefano, ha ritenuto assistiti dal privilegio ipotecario, ai sensi dell'art. 2855, terzo comma, cod. civ., anche gli interessi al tasso legale via via vigente maturati successivamente all'annata in corso al momento del pignoramento (ovvero al momento dell'intervento in giudizio) sino alla vendita del bene oggetto di ipoteca, qualunque natura essi abbiano, moratoria o corrispettiva, non potendosi escludere i primi, sia per l'impossibilità di operare una lettura dell'art. 2855 cod. civ. che correli il comma terzo al secondo (che fa riferimento ai soli interessi corrispettivi), sia perché dal termine dell'annata in corso al momento del pignoramento possono decorrere unicamente gli interessi moratori.

Circa la inefficacia della iscrizione per spirare del termine di decadenza ventennale previsto dall'art. 2847 cod. civ., Sez. 3, n. 5628, Rv. 630575, est. Travaglino, ha ribadito che la mancata rinnovazione dell'ipoteca comporta l'estinzione dell'ipoteca stessa ma non del titolo esecutivo, per cui è possibile procedere in forza di esso ad una nuova iscrizione ipotecaria con un nuovo grado, la quale, tuttavia, in osservanza delle ordinarie regole di pubblicità immobiliare, non sarà opponibile ai terzi acquirenti dell'immobile che abbiano trascritto il loro titolo medio tempore, cioè a dire successivamente all'originaria iscrizione non rinnovata ma prima della nuova iscrizione.

L'estinzione della garanzia reale comporta altresì - come puntualizza la stessa Sez. 3, n. 5628, Rv. 630574, est. Travaglino - il venir meno del diritto del creditore ipotecario a procedere, ai sensi dell'art. 2808 cod. civ., ad espropriazione forzata in danno del terzo acquirente (non obbligato personalmente nei suoi confronti) di un bene ormai libero da vincoli.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA

  • congedo parentale
  • orario di lavoro
  • licenziamento
  • licenziamento collettivo
  • contratto di lavoro
  • contratto collettivo
  • apprendista
  • permesso di lavoro
  • retribuzione del lavoro
  • conversione del posto di lavoro
  • sindacato
  • sicurezza del lavoro
  • trasferimento d'impresa
  • ferie
  • classe dirigente
  • licenziamento abusivo
  • pubblica amministrazione
  • insegnante

CAPITOLO XVI

IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO

(di Luigi Di Paola, Ileana Fedele )

Sommario

1 Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato. - 2 Lavoro flessibile e precario. - 2.1 Il contratto di lavoro a tempo determinato. - 2.1.a Il regime transitorio della "successione dei contratti" ex art. 1, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 247. - 2.1.b Il contratto a termine nel settore degli enti lirici. - 2.1.c Il contingentamento. - 2.1.d La decadenza. - 2.1.e La conversione. - 2.1.f L'indennità omnicomprensiva. - 2.2 La somministrazione di lavoro. - 2.3 L'apprendistato. - 3 Inquadramento, mansioni e trasferimenti. - 4 Orario di lavoro, congedi parentali, permessi. - 5 Sicurezza sul lavoro e risarcimento del danno. - 6 Potere di controllo e disciplinare. - 7 Retribuzione, indennità e contratto collettivo. - 8 Organizzazione sindacale. - 9 Trasferimento d'azienda. - 10 Dimissioni. Mutuo consenso. - 11 Licenziamento individuale. - 11.1 La risoluzione del contrasto sull'indennità sostitutiva della reintegrazione. - 11.2 La decadenza dall'impugnazione. - 11.3 I presupposti per l'accesso alla tutela reale. - 11.4 Giusta causa e giustificato motivo di licenziamento. - 11.5 Il superamento del periodo di comporto. - 11.6 La speciale posizione dei dirigenti. - 11.7 Le conseguenze economiche del licenziamento illegittimo. - 11.8 Prime applicazioni della legge Fornero. - 12 Licenziamenti collettivi. - 13 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. - 13.1 Le sentenze delle Sezioni Unite. - 13.2 Principi affermati ai sensi dell'art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ. - 13.3 Gli incarichi dirigenziali. - 13.4 Il principio di parità di trattamento. - 13.5 Il settore scuola. - 13.6 Procedure concorsuali. - 13.7 Orario di lavoro e tempo parziale. - 13.8 Il diritto alle ferie. - 13.9 Contratti a tempo determinato. - 13.10 Il potere disciplinare. - 13.11 Equo indennizzo. - 13.12 Rimborso delle spese legali. - 14 Agenzia.

1. Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato.

Con riferimento al contratto di apprendistato, Sez. L, n. 14754, Rv. 631604, est. Balestrieri, ha affermato, sulla base di una linea argomentativa già tracciata in passato, che il dato essenziale del predetto contratto è rappresentato dall'obbligo del datore di lavoro di garantire un effettivo addestramento professionale finalizzato all'acquisizione, da parte del tirocinante, di una qualificazione professionale; è pertanto escluso che possa ritenersi conforme a tale speciale figura contrattuale un rapporto avente ad oggetto lo svolgimento di attività assolutamente elementari o routinarie, non integrate da un effettivo apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica, con accertamento rimesso al giudice di merito ed incensurabile in cassazione, se congruamente motivato.

Con riguardo al tema della validità della prova Sez. L, n. 11582, Rv. 631049, est. Arienzo, ha puntualizzato che l'art. 2096 cod. civ. impone la forma scritta per il patto di prova ma non per le modalità di esecuzione della prova; pertanto il rinvio per relationem ad un contratto collettivo, in ordine a tali modalità, si deve ritenere legittimo, anche perché, tramite il rinvio, il contenuto non ha alcun margine di indeterminabilità.

Il patto di prova è compatibile con una previa assunzione del dipendente a tempo determinato; al riguardo Sez. L, n. 23381, Rv. 632933, est. Venuti, ha precisato che è legittima l'apposizione di un patto di prova - ai sensi del c.c.n.l. Comparto Regioni ed Autonomie Locali - al contratto a tempo indeterminato stipulato con un dipendente in precedenza già assunto, ma con contratto a tempo determinato, all'esito del superamento di un periodo di prova per le medesime mansioni ove, in base all'apprezzamento del giudice di merito, risponda all'interesse di entrambe le parti sperimentare la persistente convenienza del rapporto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in relazione all'assunzione del Comandante del Corpo di Polizia Municipale, aveva ritenuto legittima la reiterazione della prova in ragione della diversità temporale e qualitativa sia del periodo di prova apposto ai due contratti sia del contesto lavorativo cui l'esperimento era preordinato).

È legittima la proposta contrattuale del datore di lavoro che, fin dall'origine, preveda un rapporto di lavoro part-time con una precisa e predeterminata articolazione della prestazione su turni, così da consentire al lavoratore di conoscere con esattezza il tempo del suo impegno lavorativo, entro coordinate temporali contrattualmente definite ed oggettivamente predeterminabili; al riguardo Sez. L, n. 17009, Rv. 632312, est. Doronzo, ha chiarito che, in difetto di disposizioni che vietino la limitazione e la predeterminazione convenzionale dell'orario da parte del datore di lavoro, è compatibile una siffatta clausola con il regime delle assunzioni obbligatorie delle categorie protette di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68.

All'esito delle procedure selettive ex art. 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, la costituzione del rapporto di lavoro, pur obbligatoria, non è automatica; sul punto, Sez. L, n. 4915, Rv. 629899, est. Pagetta, ha affermato che è richiesto necessariamente l'intervento della volontà delle parti ai fini della concreta specificazione del contenuto del rapporto stesso in ordine ad elementi essenziali quali la retribuzione, le mansioni e la qualifica; "ne deriva che, ove l'obbligo del datore di lavoro rimanga inadempiuto, il lavoratore non può esperire il rimedio dell'esecuzione in forma specifica ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., ma ha (soltanto) il diritto all'integrale risarcimento dei danni, salvo il caso in cui sia la legge stessa a prevedere la qualifica, le mansioni e il trattamento economico e normativo del lavoratore avviato".

In tema di servizio di pilotaggio (consistente nell'assistenza alle navi in manovra, affidato alle apposite corporazioni di piloti) Sez. L, n. 15451, Rv. 631774, est. Amoroso, ha chiarito che il rapporto tra il pilota e la corporazione di appartenenza, secondo la disciplina di cui agli artt. 86 e segg. cod. nav. e 100 e segg. del d.P.R. 15 febbraio 1952, n. 328 (recante il Regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione), ha natura associativa ed esula dall'ambito del lavoro subordinato in quanto le prestazioni del pilota sono effettuate autonomamente in favore del comandante della nave da pilotare, i piloti si avvalgono di mezzi in comproprietà degli associati, il loro compenso è condizionato al saldo attivo detratte le spese di gestione (con correlata partecipazione al rischio d'impresa) e la loro attività lavorativa non è connotata dal vincolo di subordinazione con la corporazione. Ne consegue che, anche con riferimento al "marittimo idoneo al pilotaggio", di cui all'art. 116 del d.P.R. n. 328 del 1952, l'"assunzione in servizio provvisorio" comporta la temporanea associazione alla corporazione e non la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo determinato (pur non potendosi escludere, tuttavia, che il rapporto assuma, in concreto, la detta connotazione).

Con riguardo all'attuale nonché delicata questione della configurabilità di un unico rapporto di lavoro subordinato nella formale sussistenza di più datori, Sez. L, n. 12817, Rv. 631186, est. Doronzo, ha precisato che una pluralità di soggetti aventi autonoma personalità (nella specie, gruppi parlamentari), ma comuni interessi economici, "possono essere considerati unitariamente, quantomeno sotto il profilo economico, nel caso in cui lo stesso lavoratore abbia prestato attività alle loro dipendenze, ove sia configurabile, tra i datori di lavoro, un legame tale da far ritenere costituito fra gli stessi un complesso unitario, nell'ambito del quale, pur con la formale distinzione dei rapporti di lavoro, sia in concreto sussistita una continuità sostanziale dell'originario contratto di prestazione d'opera subordinata, con una fittizia successione del soggetto datore di lavoro".

Sulla problematica, mai definitivamente risolta, dell'identificazione dei criteri che devono orientare il giudizio concernente la sussistenza, o meno, della subordinazione, Sez. L, n. 8364, Rv. 630241, est. Mancino, ha ribadito che l'assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive è riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore di lavoro viene esercitato de die in diem; in tal caso, il vincolo della subordinazione consiste nell'accettazione dell'esercizio del suddetto potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso. (In base all'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come subordinato il rapporto di lavoro di alcuni fisioterapisti le cui prestazioni erano assoggettate al potere organizzativo e decisionale del titolare dell'impresa, estrinsecantesi in direttive impartite quotidianamente attraverso la predisposizione dell'agenda degli impegni, degli orari di lavoro, dell'indicazione del paziente e del tipo di prestazione da eseguire).

Peraltro, confermando la tesi della prevalenza dell'effettivo atteggiarsi del rapporto rispetto alla volontà delle parti cristallizzata nel contratto di assunzione, Sez. L, n. 22289, Rv. 633045, est. Berrino, ha affermato che ai fini della distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, deve attribuirsi "maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, da cui è ricavabile l'effettiva volontà delle parti (iniziale o sopravvenuta), rispetto al "nomen iuris" adottato dalle parti e ciò anche nel caso di contratto di lavoro a progetto, normativamente delineato come forma particolare di lavoro autonomo, ai sensi dell'art. 61 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276". (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, rispetto ad un'attività dedotta in termini di subordinazione con qualifica di dirigente d'azienda, aveva ravvisato la prova di un rapporto di consulenza professionale parasubordinato basandosi esclusivamente sugli aspetti formali del contratto a progetto e senza valutare le ulteriori risultanze processuali).

L'occupazione temporanea in lavori socialmente utili non integra un rapporto di lavoro subordinato; sul punto Sez. L, n. 22287, Rv. 633048, est. Venuti, ha puntualizzato che, ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. 1° dicembre 1997, n. 468, poi riprodotto negli stessi termini dall'art. 4 del d.lgs. 28 febbraio 2000, n. 81, l'utilizzazione dei predetti lavoratori non determina "l'instaurazione di un rapporto di lavoro", ma realizza un rapporto speciale che coinvolge più soggetti (oltre al lavoratore, l'amministrazione pubblica beneficiaria della prestazione, la società datrice di lavoro, l'ente previdenziale erogatore della prestazione di integrazione salariale) di matrice assistenziale e con una finalità formativa diretta alla riqualificazione del personale per una possibile ricollocazione. Ne consegue che, anche in caso di prestazioni rese in difformità dal programma originario o in contrasto con le norme poste a tutela del lavoratore, non si costituisce un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, trovando applicazione solo la disciplina sul diritto alla retribuzione prevista dall'art. 2126 cod. civ.

2. Lavoro flessibile e precario.

La maggior parte delle pronunce concerne, in linea di continuità con i dati registrati nell'anno passato, la tipologia del contratto a tempo determinato. Non mancano, peraltro, decisioni relative al contratto di somministrazione di manodopera, indubbiamente rilevanti per essere, per lo più, le prime emesse dalla S.C. in materia, in funzione auspicabilmente risolutiva di vari aspetti problematici.

2.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato.

Sulla disciplina del rapporto a termine - già oggetto di ritocco con la legge "Fornero" nel 2012 in chiave di moderata liberalizzazione, mediante l'introduzione nel sistema del contratto acausale della durata di un anno - il legislatore è intervenuto prima dell'estate (con il d.l. 20 marzo 2014, n. 34, conv. in legge 16 maggio 2014, n. 78, recante "Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese"), ampliando l'estensione della predetta durata fino a tre anni (con immaginabili effetti a cascata anche sulla disciplina dei licenziamenti, il cui presumibile, progressivo depotenziamento deriverà dall'utilizzo massiccio di rapporti a termine anche in successione, non operando il limite massimo dei trentasei mesi, stando all'opinione che sembra attualmente prevalere, in caso di ripetute assunzioni per lo svolgimento, di volta in volta, di mansioni non equivalenti del prestatore); onde è plausibile ritenere che il contenzioso classico - vertente, in prevalenza, sulla sussistenza, o meno, nonché sulla valutazione delle cause giustificative, e, più di recente, sulla determinazione delle conseguenze derivanti dalla declaratoria di illegittimità della clausola appositiva del termine - subirà un drastico ridimensionamento.

2.1.a. Il regime transitorio della "successione dei contratti" ex art. 1, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 247.

Con una rilevante pronuncia intervenuta sulla questione (su cui si è aperto un non trascurabile dibattito in passato) del regime transitorio della "successione dei contratti" ex art. 1, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, Sez. L, n. 19998, Rv. 632271, est. D'Antonio, ha affermato, con specifico riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato nel settore delle poste, che l'art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, è compatibile con la clausola 5 dell'accordo quadro di cui alla direttiva 1999/70/CE anche nell'ipotesi di successione di contratti stipulati nel predetto regime transitorio, in quanto la citata disposizione sancisce che, decorsi 15 mesi dall'entrata in vigore della legge, ai fini del limite massimo dei 36 mesi, si computano tutti i periodi pregressi lavorati con il medesimo datore di lavoro.

2.1.b. Il contratto a termine nel settore degli enti lirici.

Altra articolata decisione - Sez. L, n. 6547, Rv. 630000, est. Doronzo - è quella che ha affrontato la questione circa l'applicabilità, o meno, della normativa sul contratto a termine - salvo quella in tema di proroghe, prosecuzioni e rinnovi - anche nel settore degli enti lirici, dando al quesito risposta positiva.

In particolare, all'esito di una complessiva analisi della frastagliata regolamentazione della materia, è stato precisato che in tema di assunzioni a termine del personale artistico da parte degli enti lirici, la disciplina di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 230 trova applicazione esclusivamente dopo la trasformazione di tali enti in fondazioni di diritto privato (e, dunque, a far data dal 23 maggio 1998), con esclusione, ai sensi dell'art. 22 del d.lgs. 29 giugno 1996, n. 367, del disposto di cui all'art. 2 della legge n. 230 cit. relativo alle proroghe, alle prosecuzioni ed ai rinnovi dei contratti a tempo determinato, mentre, dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 9 giugno 2001, n. 368, i relativi rapporti di lavoro sono assoggettati alla nuova normativa, ferma l'inapplicabilità, ai sensi dell'art. 11, comma 4 del d.lgs. n. 368, degli artt. 4 e 5 in tema di proroghe, prosecuzioni e rinnovi.

Se ne è concluso che "l'art. 3, comma 6, del d.l. n. 30 aprile 2010, n. 64, convertito con modificazioni nella legge 29 giugno 2010, n. 100, nel prevedere che "alle fondazioni lirico - sinfoniche continua ad applicarsi l'art. 3, quarto e quinto comma, della legge 22 luglio 1977, n. 426" anche con riferimento al periodo successivo alla trasformazione in soggetti di diritto privato e dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001, ha un valore meramente confermativo dell'inapplicabilità ai suddetti rapporti di lavoro delle norme in tema di rinnovo dei contratti a tempo determinato, di riassunzione del lavoratore prima della scadenza del termine minimo di legge e di assunzioni successive effettuate senza soluzione di continuità".

2.1.c. Il contingentamento.

In linea con un orientamento consolidato è stato enunciato, da Sez. L, n. 6108, Rv. 630482, est. Arienzo, il principio - tuttora di interesse per quanto concerne gli oneri di forma cui è assoggettata la c.d. clausola di contingentamento di previsione negoziale - secondo cui gli accordi conseguenti all'applicazione dell'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, in tema di assunzione di lavoratori con contratti a tempo determinato, devono osservare forme prestabilite che siano tali da consentire un controllo in itinere delle parti sociali e degli stessi lavoratori, in un ambito procedimentalizzato, cosicché anche la clausola cosiddetta di contingentamento deve essere fissata in forma scritta, al pari della quota percentuale delle assunzioni a termine, poiché, se è vero che anche l'indicazione di un numero massimo nell'anno può realizzare la finalità del contingentamento, è comunque necessario che tale indicazione sia accompagnata da quella dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, si da potersi comunque verificare il rapporto percentuale fra lavoratori stabili e lavoratori a termine.

Sempre in relazione alla clausola di contingentamento, Sez. L, n. 3031, Rv. 630105, est. Nobile, ha affermato, enunciando un principio di attuale interesse, che l'art. 8, comma 3, del c.c.n.l. del 26 novembre 1994 per i dipendenti dell'Ente Poste Italiane (applicabile ratione temporis), nel prevedere che il numero dei lavoratori assunti a tempo determinato rispetto a quelli assunti a tempo indeterminato non può superare la quota percentuale massima del dieci per cento, comporta che, ai fini della verifica dell'osservanza della clausola di contingentamento, deve tenersi conto del numero complessivo dei lavoratori, senza che i contratti a tempo determinato "part-time" siano suscettibili di essere considerati secondo il criterio cosiddetto "full time equivalent", ossia unitariamente fino alla concorrenza dell'orario pieno.

La specifica indicazione della percentuale dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato è condizione di validità della delega in bianco conferita dal legislatore alla contrattazione collettiva (consentendo di prevedere legittime fattispecie di apposizione del termine ulteriori rispetto a quelle legali) in riferimento alle assunzioni effettuate ai sensi dell'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (applicabile ratione temporis); sul punto Sez. L, n. 6108, Rv. 630483, est. Arienzo, ha affermato che l'apposizione di un termine ad un contratto di lavoro stipulato con riferimento ad una fattispecie (quale quella, rilevante nel caso di specie, di assunzione a termine per la sostituzione di lavoratori assenti per ferie) per la quale il contratto collettivo non contiene la espressa indicazione della predetta percentuale è illegittima, non corrispondendo ad un tipo legale di contratto a termine.

2.1.d. La decadenza.

Sez. L, n. 6100, Rv. 630448, est. Amoroso, in aderenza all'impostazione dominante (con riguardo alle fattispecie sorte anteriormente alla data di entrata in vigore del cd. "collegato lavoro") ha affermato che non è configurabile la decadenza per mancata impugnativa del licenziamento, se il rapporto ha avuto conclusione non in base ad un atto unilaterale risolutivo del datore di lavoro, ma solo per la scadenza del termine illegittimamente apposto. (Nella specie la S.C. ha ritenuto insussistente l'onere di impugnativa con riferimento a contratto a tempo determinato, concluso nella vigenza della legge 18 aprile 1962, n. 230, in controversia iniziata prima dell'entrata in vigore della legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 3).

2.1.e. La conversione.

Sulla questione dell'effetto di trascinamento della conversione, Sez. L, n. 903, Rv. 629258, est. Tria, ha ribadito, in conformità ad un orientamento pressoché univoco, che nel caso di contratti a termine ripetuti senza soluzione di continuità, stipulati in contrasto con le previsioni della legge 18 aprile 1962, n. 230 (ratione temporis applicabile), se il primo della serie viene dichiarato illegittimo, con conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, la stipulazione degli altri contratti a termine non incide sulla già intervenuta trasformazione del rapporto, a meno che: a) risulti provata la esplicita volontà dei contraenti di risolvere il precedente rapporto a tempo indeterminato e di costituire un nuovo rapporto a termine, cioè di porre in essere una novazione contrattuale (di cui vanno accertati gli estremi); b) gli intervalli di tempo intercorsi tra i diversi contratti a termine siano di notevole durata e nel loro corso non vi sia stata né prestazione lavorativa né offerta della prestazione da parte del lavoratore, il quale non risulti esser rimasto a disposizione del datore di lavoro, sicché possa presumersi che i diversi intervalli trascorsi (o alcuno di essi) abbiano spezzato il nesso tra i periodi lavorativi, che pertanto sono da considerare separati, ancorché ciascuno disciplinato dalle norme sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

2.1.f. L'indennità omnicomprensiva.

Con riferimento alla posta risarcitoria spettante in caso di conversione del contratto a tempo determinato, Sez. L, n. 19295, Rv. 632225, est. Amendola, ha affermato che l'indennità di cui all'art. 32, commi 5 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, costituisce una specie di penale "ex lege" a carico del datore di lavoro per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto "intermedio", che decorre dalla scadenza del termine sino alla sentenza di conversione, sicché essa non può essere applicata al periodo successivo a detta sentenza.

È stato sul punto aggiunto da Sez. L, n. 3027, Rv. 630469, est. Balestrieri, che l'indennità in questione non ha natura retributiva e su tale indennità non spettano né la rivalutazione monetaria né gli interessi legali, se non dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato.

È stato peraltro puntualizzato da Sez. L, n. 13630, Rv. 631765, est. Patti, che tale posta si commisura all'ultima retribuzione globale di fatto, ossia al danno subito dal lavoratore, costituito dalla perdita della retribuzione (e dei relativi accessori), per essere stato allontanato dal proprio posto di lavoro nel periodo compreso tra l'allontanamento e la sentenza di merito, dovendosi ritenere che l'espressione "omnicomprensiva", adoperata con riferimento all'indennità, si riferisca soltanto a detto danno e non anche a quanto spetti al lavoratore per l'eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo indeterminato.

La Corte, con Sez. L, n. 6122, Rv. 630001, est. Bandini, ha rilevato che la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell'indennità prevista dal sopra menzionato art. 32 - che richiama i criteri indicati dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 - spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria.

Sez. L, n. 3027, Rv. 630468, est. Balestrieri, ha poi chiarito che la possibilità della riduzione alla metà del limite massimo dell'indennità in questione, in dipendenza della applicabilità al lavoratore di accordi di stabilizzazione, ai sensi dell'art. 32, comma 6 della citata legge 183, deve essere verificata con riferimento alla data della cessazione del rapporto ed è subordinata all'effettiva e concreta possibilità per il lavoratore di aderire, in tale momento, ad un accordo di stabilizzazione e non, invece, alla semplice stipula, in assoluto, da parte del datore di lavoro, di accordi di stabilizzazione.

Inoltre è stato ribadito da Sez. L, n. 7372, Rv. 630088, est. Bronzini, che il già più volte menzionato art. 32, comma 5, per come chiarito dalla Corte di giustizia UE (sentenza 12 dicembre 2013 in C-361/12), non contrasta con la normativa sovranazionale, in quanto l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato non impone di trattare in maniera identica l'indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto a tempo indeterminato.

È stato ancora affermato da Sez. L, n. 6735, Rv. 629999, est. Bandini, che l'articolo in questione, come interpretato autenticamente dall'art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92, è applicabile ai giudizi in corso in materia di contratti a termine, dovendosi escludere che la disciplina dell'indennità risultante dal combinato disposto delle due norme incida su diritti già acquisiti dal lavoratore poiché: a) è destinata ad operare su situazioni processuali ancora oggetto di giudizio; b) non comporta un intervento selettivo in favore dello Stato; c) concerne tutti i rapporti di lavoro subordinati a termine. Né può ritenersi "che l'adozione della norma interpretativa costituisca una indebita interferenza sull'amministrazione della giustizia o sia irragionevole ovvero, in ogni caso, realizzi una violazione dell'art. 6 CEDU, poiché il legislatore ha recepito, nel proposito di superare un contrasto di giurisprudenza e di assicurare la certezza del diritto a fronte di obbiettive ambiguità del- l'originaria formulazione della norma interpretata, una soluzione già fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, senza che - in linea con l'interpretazione dell'art. 6 CEDU operata dalla Corte EDU (sentenza 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia) - l'intervento retroattivo abbia inciso su diritti di natura retributiva e previdenziale definitivamente acquisita dalle parti".

È stato anche precisato, poi, da Sez. L, n. 6122, Rv. 630002, est. Bandini, che in tema di determinazione della predetta indennità risarcitoria, la possibilità di integrazione della domanda e delle relative eccezioni, contemplata dal comma 7 della medesima norma, va coordinata con i principi in tema di giudicato interno. (Nella specie, il giudice di prima istanza non aveva ricompreso il rateo di trattamento di fine rapporto nella retribuzione da considerare a fini risarcitori e tale punto non era stato oggetto di specifica censura in sede di gravame; la S.C. ha ritenuto tale esclusione non più sindacabile ai fini della determinazione dell'indennità prevista dalla normativa sopravvenuta).

Va infine segnalata Sez. L, n. 24129, in corso di massimazione, est. Nobile, la quale ha puntualizzato che lo ius superveniens di cui all'art. 32, commi 5, 6 e 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si applica anche in sede di giudizio di rinvio, sempreché sulla questione risarcitoria non sia intervenuto il giudicato interno.

2.2. La somministrazione di lavoro.

Per come succintamente anticipato all'inizio del paragrafo, molti profili problematici in materia di somministrazione di lavoro (ai sensi degli artt. 20 e ss. del d.lgs. 9 ottobre 2003, n. 276) - generatori di un consistente contenzioso, non meno insidioso di quello, parallelo e più tradizionale, concernente il rapporto a termine "in senso stretto" - sono stati esaminati, nel corso dell'anno, dalla S.C., secondo una linea di tendenza volta a ricercare soluzioni conformi agli obiettivi del legislatore, mediante una interpretazione teleologica del dato normativo.

Sez. L, n. 17540, Rv. 632005, 632006, est. Manna, ha affrontato tre questioni di notevole rilevanza.

In primo luogo ha ribadito che la mera astratta legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non basta a rendere legittima l'apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, una rispondenza tra la causale enunciata e la concreta assegnazione del lavoratore a mansioni ad essa confacenti.

In secondo, dando soluzione a spinosa questione risolta in modo non uniforme dalle Corti di merito, ha affermato che la sanzione di nullità del contratto, prevista espressamente dall'art. 21, ult. comma, del citato d.lgs., per il caso di difetto di forma scritta, si estende anche all'indicazione omessa o generica della causale della somministrazione, con conseguente trasformazione del rapporto da contratto a tempo determinato alle dipendenze del somministratore a contratto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell'utilizzatore.

Infine, irrobustendo un orientamento inaugurato dalla S.C. lo scorso anno, ha confermato che l'indennità prevista dall'art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (come autenticamente interpretato dall'art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92) è applicabile a qualsiasi ipotesi di conversione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato e, dunque, anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore che abbia chiesto ed ottenuto l'accertamento della nullità di un contratto di somministrazione di lavoro, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore ed utilizzatore della prestazione.

È stato ad ogni modo precisato da Sez. L, n. 21001, Rv. 632808, est. Lorito, che la causale giustificativa indicata in "punte di intensa attività derivanti dalla acquisizione di commesse che prevedono inserimento in reparto produttivo" è assistita da un grado di specificità sufficiente a soddisfare il requisito di forma sancito dall'art. 21, comma 1, lett. c), del d.lgs. 9 ottobre 2003, n. 276, fermo restando l'onere per l'utilizzatore di fornire la prova dell'effettiva esistenza delle ragioni giustificative in caso di contestazione.

Quanto all'istituto della proroga, Sez. L, n. 21520, Rv. 632811, est. Ghinoy, ha affermato che, poiché l'art. 22, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, stabilisce che il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato con il consenso del lavoratore e con atto scritto, la proroga deve essere espressione di una dichiarazione di volontà manifesta di tutti i contraenti e la mancanza della relativa forma scritta, richiesta ad substantiam, determina la nullità del contratto, ex art. 21, comma 4, del d.lgs. n. 276 cit., con conseguente trasformazione del rapporto in contratto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell'utilizzatore.

2.3. L'apprendistato.

Sez. L, n. 4920, Rv. 630388, est. Buffa, ha affermato che l'affidamento all'apprendista, in via temporanea e provvisoria, in correlazione con la ristrutturazione del reparto produttivo, e con l'affiancamento di altro dipendente più esperto, di mansioni in parte diverse da quelle dedotte in contratto, concretizza un inadempimento del datore di lavoro non rilevante nell'economia del rapporto che non invalida il contratto, sicché ne resta esclusa la conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

3. Inquadramento, mansioni e trasferimenti.

Le sentenze più significative (segnalate verso la fine del presente paragrafo) portano, in certo qual modo, a conclusione l'opera di rimodulazione del divieto di demansionamento, in chiave di sempre maggiore attenuazione dello stesso, in virtù di deroghe giustificate dall'esigenza primaria di mantenere inalterata, a beneficio del lavoratore, la garanzia alla conservazione del posto di lavoro. Per il resto la S.C. ha avuto modo di affrontare i consueti temi riconducibili alla previsione di cui all'art. 2103 cod. civ., non senza assumere, in alcuni casi ed in relazione ad alcuni profili, maggior nettezza di posizione rispetto al passato.

Venendo, nello specifico, al tema della promozione automatica, con riferimento ad una fattispecie particolare, Sez. L, n. 18460, Rv. 632327, est. Lorito, ha precisato che la posizione di comando del lavoratore subordinato, dipendente da ente pubblico economico, presso una amministrazione pubblica, non comporta, a differenza del distacco, alcuna alterazione del rapporto di lavoro, ma ne implica una rilevante modificazione in senso oggettivo, giacché il dipendente, immutato il rapporto organico con l'ente di appartenenza, viene destinato a prestare servizio, in via ordinaria e abituale, presso un'organizzazione diversa, con modifica del rapporto di servizio, senza tuttavia che siano imputabili all'ente di appartenenza gli effetti della gestione del rapporto ad opera del soggetto pubblico. Ne consegue che il lavoratore comandato, che si trovi a svolgere mansioni superiori rispetto a quelle originarie, non ha diritto all'inquadramento nella qualifica superiore presso l'ente di provenienza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda di superiore inquadramento, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., proposta da un dipendente dell'ente Poste Italiane comandato presso il Ministero degli affari esteri).

La Corte, con Sez. L, n. 17870, Rv. 632025, est. Arienzo, in linea con un orientamento consolidato, ha ribadito che per la sussistenza della frequenza e sistematicità di reiterate assegnazioni di un lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori, il cui cumulo sia utile all'acquisizione del diritto alla promozione automatica in forza dell'art. 2103 cod. civ., non è sufficiente la mera ripetizione delle assegnazioni, essendo invece necessario - se non un vero e proprio intento fraudolento del datore di lavoro - una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento. (Nella specie, la S.C. ha escluso che l'adibizione di un dipendente postale a mansioni diverse, sebbene protratta e reiterata, ma con attribuzione di reggenza di un ufficio per nove giorni e dopo tre anni di alternanza in detta posizione di altri dipendenti aventi qualifica di quadro, potesse dare luogo alla promozione automatica).

L'istituto della promozione automatica soffre una deroga in presenza di lavoro nautico; al riguardo Sez. L, n. 16090, Rv. 632308, est. Bronzini, ha stabilito, sul punto, che, ai sensi dell'art. 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, non è applicabile, neppure in via analogica, l'art. 2103 cod. civ. in materia di promozione automatica a seguito di svolgimento di mansioni superiori, senza che tale esclusione si ponga in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 35 e 36 Cost., "poiché la disciplina specialistica del lavoro nautico, fortemente connotata dall'intervento pubblicistico che in gran parte predetermina le scelte dell'armatore, offre un'ampia tutela della professionalità dei lavoratori, individuando meccanismi prestabiliti di promozione (con il sistema dell'imbarco e delle relative graduatorie), regolando minuziosamente i titoli professionali necessari per ciascuna qualifica e assegnando comunque il diritto ad una retribuzione maggiorata in caso di esercizio provvisorio di mansioni superiori".

In materia di demansionamento, e con particolare riferimento alla questione della idoneità, o meno, del carattere temporaneo dell'adibizione a mansioni diverse da quelle di assunzione a violare la regola di cui all'art. 2103 cod. civ., Sez. L, n. 18121, Rv. 631919, est. Venuti, ha evidenziato che il prestatore di lavoro (nella specie, dirigente responsabile del servizio di "call center") deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, non rilevando in alcun modo che l'assegnazione a mansioni inferiori (nella specie, al servizio di cosiddetto "telesportello", destinato a raccogliere informazioni e reclami degli utenti) sia temporanea, o effettuata solo per il tempo occorrente alla realizzazione di una nuova struttura produttiva.

Peraltro, secondo Sez. L, n. 13485, Rv. 631329, est. Buffa, il protrarsi nel tempo del demansionamento non può essere inteso né come acquiescenza del lavoratore alla situazione imposta dal datore (cui compete il potere organizzativo del lavoro), essendo indisponibili gli interessi sottesi ai limiti allo ius variandi datoriale, né come prova della sua tollerabilità, potendo essere proprio la protrazione della situazione di illegittimità rilevante per fondare le ragioni che giustificano le dimissioni.

In fattispecie concernente una ipotesi di cd. riclassamento operato dalla contrattazione collettiva, Sez. L, n. 4989, Rv. 630286, est. Maisano, ha precisato - dopo aver rimarcato, in conformità a risalente insegnamento, che il divieto di variazione peggiorativa, di cui all'art. 2103 cod. civ., comporta che al prestatore di lavoro non possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito, e garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali - che l'osservanza dei criteri di cui all'art. 2103 cod. civ. non può essere disattesa in sede di contrattazione collettiva neppure nell'ipotesi del cosiddetto "riclassamento", che, pur implicando un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza delle mansioni, non può in ogni caso condurre allo svilimento della professionalità acquisita dal singolo lavoratore, mediante una equivalenza verso mansioni, che, anche se rivalutate, abbiano in concreto l'effetto di mortificarla.

Con riguardo agli oneri di allegazione e probatori, a carico delle parti del rapporto, in materia di demansionamento (o dequalificazione), Sez. L, n. 15527, Rv. 631775, est. Tria, ha ribadito, in conformità all'indirizzo tracciato dalle Sezioni Unite nel 2009, che "il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia ed ha, quindi, l'onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, e non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell'esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall'interessato, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo".

Sul versante delle conseguenze pregiudizievoli, di natura patrimoniale, derivanti dall'avvenuto demansionamento Sez. L, n. 19778, Rv. 632886, est. Venuti, ha statuito che il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, di natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

Con riferimento alla rilevante problematica dei poteri esercitabili dal giudice in chiave ripristinatoria, Sez. L, n. 16012, Rv. 632254, est. Di Cerbo, ha precisato che ove venga accertata l'esistenza di un comportamento contrario all'art. 2103 cod. civ., il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, di contenuto satisfattorio dell'interesse leso, intesa a condannare il datore di lavoro a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione delle mansioni inferiori, affidando al lavoratore l'originario incarico, ovvero un altro di contenuto equivalente. L'obbligo del datore di lavoro è derogabile solo nel caso in cui provi l'impossibilità di ricollocare il lavoratore nelle mansioni precedentemente occupate, o in altre equivalenti, per inesistenza in azienda di tali ultime mansioni o di mansioni ad esse equivalenti.

In materia di legittima deroga al divieto di demansionamento Sez. L, n. 14944, Rv. 631603, est. Tria, ha puntualizzato che l'art. 4, comma 11, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ha carattere speciale poiché, nel prevedere che, nel corso delle procedure di mobilità, gli accordi sindacali possono stabilire, per garantire il reimpiego di almeno una parte dei lavoratori, che il datore di lavoro assegni, in deroga all'art. 2103 cod. civ., mansioni diverse da quelle svolte, non pone alcuna preclusione all'assegnazione di mansioni anche inferiori o peggiorative - ivi compreso il trasferimento o la trasferta del lavoratore da una unità produttiva all'altra - trattandosi di rimedio volto ad evitare il licenziamento dei lavoratori, fermo restando che questi non sono vincolati alla deroga poiché possono rifiutare la dequalificazione affrontando il rischio del licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittimo, in quanto precipuamente finalizzato a tutelare l'interesse dei lavoratori alla conservazione del posto, un accordo aziendale che prevedeva la trasferta di alcuni lavoratori, senza rimborso della relativa indennità per alcuni mesi).

Del pari, sulla scorta di un indirizzo che va progressivamente consolidandosi, Sez. L, n. 11395, Rv. 630913, est. De Renzis, ha evidenziato che la disposizione dell'art. 2103 cod. civ. sulla disciplina delle mansioni e sul divieto di declassamento va interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti, tra l'altro, interventi di ristrutturazione aziendale, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte senza modifica del livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile.

Con riferimento, infine, al tema del trasferimento, in relazione al profilo dell'identificazione della nozione di unità produttiva, Sez. L, n. 20600, Rv. 632934, est. Tria, ha avuto modo di precisare che la finalità principale della norma di cui all'art 2103 cod. civ. è quella di tutelare la dignità del lavoratore e di proteggere l'insieme di relazioni interpersonali che lo legano ad un determinato complesso produttivo; pertanto "le tutele previste per il lavoratore trasferito rilevano anche quando lo spostamento avvenga in un ambito geografico ristretto (ad esempio nello stesso territorio comunale) da una unità produttiva ad un'altra, intendendo per unità produttiva ogni articolazione autonoma dell'azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale". (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello, che, con riferimento a tre punti di vendita di uno stesso supermercato, tutti ubicati nell'ambito del territorio comunale della stessa città di notevoli dimensioni, aveva apoditticamente ritenuto non trattarsi di distinte unità produttive ai fini dell'applicazione della tutela di cui all'art. 2103 cod. civ.).

4. Orario di lavoro, congedi parentali, permessi.

Con una significativa pronuncia, Sez. L, n. 11574, Rv. 631044, est. Blasutto, ha chiarito che i limiti legali imposti dal d.lgs. 8 aprile 2003 n. 66 in materia di orario massimo complessivo, pause di lavoro e lavoro notturno, non possono essere derogati con il consenso del singolo lavoratore interessato - e dunque per effetto della rinuncia ai relativi diritti - ma solo ad opera della contrattazione collettiva, e nei limiti e con le modalità stabilite dalla legge, comportando il mancato esercizio di tale facoltà di deroga da parte delle parti sociali l'operatività diretta delle garanzie e dei limiti legali, con conseguente applicazione delle sanzioni stabilite in caso di violazione.

In materia di lavoro "part-time", l'intesa intervenuta tra le parti volta alla ulteriore riduzione dell'orario di lavoro dopo l'instaurazione del rapporto integra gli estremi di una novazione oggettiva e richiede una rinnovata manifestazione di volontà espressa in conformità ai vincoli di forma richiesti ad substanziam dall'art. 5, comma 2, del d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, conv. in legge 19 dicembre 1984, n. 863, ratione temporis applicabile; al riguardo Sez. L, n. 26109, in corso di massimazione, est. De Marinis, ha ritenuto che la modalità oraria si configura come elemento qualificante la prestazione oggetto del contratto di lavoro a tempo parziale.

La pronuncia in questione si pone in consapevole contrasto con quanto stabilito da Sez. L, n. 1584 del 1997, Rv. 502587, est. secondo cui "l'art. 5 d.l. 30 ottobre 1984 n. 726, conv. in legge 19 dicembre 1984 n. 863, richiede, a pena di nullità, l'accordo delle parti del rapporto di lavoro, con atto scritto (convalidato dall'Ufficio provinciale del lavoro) soltanto ai fini della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo parziale o della trasformazione in quest'ultimo di un rapporto a tempo pieno, ma non anche ai fini della eventuale ulteriore riduzione dell'orario di lavoro dopo l'instaurazione di un rapporto a tempo parziale".

Essa risulta ad ogni modo in linea con un precedente del 1989 (Sez. L, n. 3266, Rv. 463341), ove è affermato, per quanto qui interessa, che il contratto di lavoro a tempo parziale rappresenta un istituto singolare caratterizzato principalmente dal fatto che i tempi infracontrattuali concernenti lo svolgimento della prestazione lavorativa, e cioè elementi che nel comune contratto di lavoro costituiscono solo degli accidentalia negotii, sono elevati, per esplicita volontà del legislatore, al rango proprio degli essentialia negotii. Consegue che la forma scritta richiesta ad substantiam per tale contratto dal secondo comma del citato art. 5 (nonché dal decimo comma dello stesso articolo per la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale) deve rivestire anche le indicazioni degli elementi predetti e che la successiva modificazione di uno di questi costituisce novazione del contratto originario, restando in tal caso inapplicabile (per il carattere non accessorio ma essenziale degli stessi elementi) la disposizione dell'art. 1231 cod. civ.

In tema di progressione di carriera, ove la contrattazione collettiva ricolleghi la promozione all'anzianità di servizio, il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità è equiparato, secondo Sez. L, n. 14110, Rv. 631656, est. Napoletano, al periodo di effettivo servizio, salvo che la stessa contrattazione collettiva subordini la promozione ad altri particolari requisiti, come la valutazione circa la quantità e qualità del servizio prestato, non correlati alla sola virtuale prestazione lavorativa.

Con riferimento al tema della computabilità ai fini della tredicesima mensilità o della gratifica natalizia dei permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, Sez. L, n. 15435, Rv. 631770, est. Ghinoy, ha affermato che "la limitazione di detta computabilità in forza del richiamo operato dal successivo comma 4 all'ultimo comma dell'art. 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (abrogato dal d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, che ne ha tuttavia recepito il contenuto negli artt. 34 e 51), opera soltanto nei casi in cui essi debbano cumularsi effettivamente con il congedo parentale ordinario - che può determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa - e con il congedo per malattia del figlio, per i quali compete un'indennità inferiore alla retribuzione normale (diversamente dall'indennità per i permessi ex lege n. 104 del 1992 commisurata all'intera retribuzione), risultando detta interpretazione idonea ad evitare che l'incidenza sulla retribuzione possa essere di aggravio alla situazione dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l'utilizzazione del permesso".

La Corte ha poi ricordato - Sez. L, n. 4984, Rv. 629667, est. Arienzo - che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale.

Con una interessante pronuncia Sez. 6-L, n. 18715, Rv. 632807, est. Curzio, ha evidenziato che è illegittima la disapplicazione dell'accordo collettivo nazionale di lavoro, operata con riferimento al contratto individuale di lavoro, diretta a ridurre i giorni di permesso retribuito a seguito della reintroduzione legislativa di alcune festività soppresse, poiché il contratto collettivo costituisce un "atto normativo" con efficacia vincolante per il singolo aderente alle associazioni stipulanti, cui non pertengono poteri modificativi della suddetta regolamentazione. Né, in senso contrario, può essere invocata la presupposizione (o la causa in concreto), che postula l'esistenza di una inequivoca condizione inespressa, il cui venir meno faccia scemare la ragione del contratto, ovvero di una precisa corrispondenza tra le intervenute modifiche legislative ed il conseguente rimodellamento del regolamento contrattuale collettivo.

5. Sicurezza sul lavoro e risarcimento del danno.

La materia ha fatto registrare, nell'anno, significative pronunce della S.C., per lo più vertenti sui classici (e, sul fronte pratico, sempre rilevanti) temi riguardanti la responsabilità datoriale - con particolare riguardo al profilo delle cautele esigibili - e la tutela risarcitoria, con annessa questione inerente alla ripartizione dell'onere della prova in tema di danno alla salute del lavoratore.

Va ad ogni modo preliminarmente segnalata, tenuto conto della valenza generale della questione esaminata, una interessante sentenza - Sez. L, n. 22280, Rv. 632964, est. Venuti - con la quale è stato affrontato il tema del risarcimento dei danni per omesso esercizio, da parte dello Stato, della funzione legislativa di adeguamento della normativa vigente in Italia a quella di diritto comunitario. Al riguardo è stato affermato che "l'art. 5, primo e quinto comma, della direttiva 89/391/CEE del 12 giugno 1989 concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, detta norme di carattere generale non sufficientemente specifiche, sicché non può ravvisarsi una inadempienza dello Stato italiano per la mancata loro trasposizione nel diritto nazionale".

Va ancora riportata, in apertura - in quanto concernente, parimenti, questione "di fondo" -, altra pronuncia, ove è puntualizzato che le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro devono essere osservate non solo a tutela dei dipendenti, ma anche delle persone estranee, ivi compresi i soci della società, anche di fatto, datrice di lavoro, che occasionalmente si trovino sui luoghi di lavoro (Sez. L, n. 9870, Rv. 630761, est. Amoroso).

A chiusura degli aspetti di ordine generale vi è quella della possibile incompatibilità, in alcuni casi particolari, della previsione di cui all'art. 2087 cod. civ. con norme specifiche di settore, con conseguente prevalenza, sul versante della regolamentazione degli obblighi di prevenzione, di queste ultime sulla prima. Sul punto Sez. L, n. 899, Rv. 629259, est. Bronzini, ha chiarito che l'art. 172, comma 8, lett. c), cod. strada, nell'esentare gli appartenenti a servizi di vigilanza privata, che effettuano scorte, dall'obbligo di indossare le cinture di sicurezza, prevale sull'art. 2087 cod. civ. da cui può desumersi l'obbligo del datore di lavoro di far indossare quelle cinture ai suoi dipendenti, in quanto la prima è disposizione di ordine speciale, tesa a regolare una specifica attività lavorativa "pericolosa", al fine di consentire una più pronta reazione nel caso di attacchi al mezzo vigilato.

Venendo al tema centrale degli obblighi gravanti sul datore, Sez. L, n. 2625, Rv. 629842, est. Bronzini, ha chiarito che non rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dall'art. 40 della legge 19 settembre 1994, n. 626 (applicabile ratione temporis), le tute, di stoffa o monouso, fornite dal datore di lavoro (nella specie, a dipendenti comunali con mansioni di giardinieri), quando esse, per la loro consistenza, svolgono esclusivamente la funzione di preservare gli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa, e non anche quella (pur astrattamente configurabile) di proteggere il lavoratore contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, sicché rispetto ad esse non è configurabile, in mancanza di specifiche previsioni contrattuali, un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di sistematico lavaggio.

Con riguardo alle lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, Sez. L, n. 21647, Rv. 632793, est. Tria, ha precisato che l'obbligo del datore di lavoro di apprestare - quando possibile - impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali, non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, che sono una misura di carattere generale e imperativo, ma complementare, nel senso che, quando sia comprovata l'impossibilità della concreta realizzabilità del loro utilizzo, il datore di lavoro può essere esonerato dall'obbligo di fornire la protezione delle cinture purché i suddetti impalcati di protezione e parapetti siano idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta dall'alto e non soltanto a facilitare il lavoro o, tutt'al più, ad attenuare soltanto tale rischio.

Ai fini del giudizio di responsabilità datoriale é comunque irrilevante l'assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l'ignoranza delle particolari condizioni in cui sono prestate le mansioni affidate ai dipendenti, che, salvo prova contraria, si presumono conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore; peraltro gli effetti della conformazione della condotta del prestatore ai canoni di cui all'art. 2104 cod. civ., coerentemente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni e in ragione del soddisfacimento delle ragioni dell'impresa, non integrano mai una colpa del lavoratore. (Sez. L, n. 9945, Rv. 630801, est. Blasutto).

Resta fermo il principio secondo cui non può comunque esigersi dal datore di lavoro la predisposizione di accorgimenti idonei a fronteggiare cause d'infortunio del tutto imprevedibili; al riguardo Sez. L, n. 1312, Rv. 629928, est. Marotta - nel ribadire che è configurabile una responsabilità del datore di lavoro in relazione ad infortunio che sia riconducibile ad un comportamento colpevole del datore, alla violazione di uno specifico obbligo di sicurezza da parte dello stesso o al mancato apprestamento di misure idonee alla prevenzione di ragioni di danno per i lavoratori dipendenti - ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che potesse essere addebitato al datore di lavoro l'infortunio subito da un conducente di autoarticolato, il cui sistema frenante era in condizioni superiori ai limiti previsti per la revisione - pari al 68 per cento complessivo -, tanto più che era stata la scelta del percorso da parte del lavoratore e la sua condotta di guida a determinare un eccessivo carico sul sistema frenante.

Si affinano, nell'ambito di una elaborazione concettuale che oramai può dirsi giunta al suo epilogo, i criteri di valutazione degli indici di identificazione del mobbing lavorativo; in particolare, per Sez. L, n. 17698, Rv. 631986, est. Tria, devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Con riguardo alla delicata questione della ripartizione dell'onere della prova in materia di danno alla salute del lavoratore, Sez. L, n. 15082, Rv. 631593, est. Patti, ha osservato che gli oneri probatori spettanti al datore di lavoro ed al lavoratore sono diversamente modulati nel contenuto a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 cod. civ., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza: "nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette "nominate", la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette "innominate", la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli "standards" di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe".

Sulla problematica specifica della prova liberatoria contrapposta a domanda risarcitoria per esposizione all'amianto, Sez. L, n. 10425, Rv. 630792, est. Buffa, ha statuito che, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l'esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie.

Va infine segnalata la interessante pronuncia - Sez. L, n. 17006, Rv. 632809, est. Tria - con la quale è stato affermato che la materia del risarcimento del danno subito dai prossimi congiunti del lavoratore deceduto per infortunio sul lavoro non è riconducibile al diritto comunitario, sicché, come chiarito dalla Corte di giustizia UE (sentenza 26 febbraio 2013, in C-617/10), ad essa non si applicano le tutele offerte dalla Carta dei diritti fondamentali della UE (cosiddetta Carta di Nizza), le quali possono venire in considerazione soltanto nelle fattispecie in cui sia applicabile il diritto dell'Unione europea.

Quanto al danno da stress, è stato puntualizzato - da Sez. L, n. 2886, Rv. 630472, est. Buffa - che esso si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava l'onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici. Ne consegue che, ai fini del risarcimento del danno derivante dal mancato riconoscimento delle soste obbligatorie, nella guida per una durata di almeno 15 minuti tra una corsa e quella successiva e, complessivamente, di almeno un'ora per turno giornaliero - previste del Regolamento n. 3820/85/CEE, nonché dall'art. 14 del Regolamento O.I.L. n. 67 del 1939 e dall'art. 6, primo comma, lett. a) della legge 14 febbraio del 1958, n. 138 -, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare il tipo di danno specificamente sofferto ed il nesso eziologico con l'inadempimento del datore di lavoro.

Un cenno particolare merita, infine, Sez. L, n. 26590, in corso di massimazione, est. Napoletano, la quale - con riguardo al dibattuto tema della misura del danno non patrimoniale liquidabile agli eredi e derivante dal decesso del dante causa in seguito ad infortunio sul lavoro - ha ribadito due rilevanti principi (di cui il primo notoriamente formulato dalla Sez. 3 all'inizio dell'anno con la sentenza n. 1361, tuttavia non seguito dalle sentenze successive emesse della stessa sezione): 1) il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita - bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile - è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo; b) nella liquidazione dei danni non patrimoniali patiti dagli eredi per la morte di un loro congiunto per malattia professionale (nella specie per mesioteloma polmonare) il giudice del merito pur non essendo tenuto a supportare la sua decisione con una motivazione minuziosa e particolareggiata, è tuttavia tenuto, nella valutazione equitativa di detti danni ex art. 1226 e 2059 cod. civ., ad individuare dei validi criteri di giudizio parametrati alla specificità del caso da esaminare e, conseguentemente, funzionalizzati ad una "personalizzazione" di detti danni, non conseguibile, invece, attraverso "standards" valutativi delle tabelle normative o di quelle del tribunale di Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità.

6. Potere di controllo e disciplinare.

Sul rispetto del principio di specificità della contestazione disciplinare Sez. L, n. 10662, Rv. 630790, est. Tria, ha confermato l'indirizzo - v. Sez. L, n. 5115 del 2010, Rv. 612527 e Sez. L, n. 23223 del 2010, Rv. 615334 - secondo cui è ammissibile la contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, purché le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell'interessato; in tale caso, infatti, risultano rispettati i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio, in coerenza con la precipua funzione della contestazione dell'addebito, finalizzata a fornire al lavoratore incolpato le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati e rispetto ai quali è chiamato a difendersi.

Quanto, invece, alla tempestività della contestazione disciplinare, Sez. L, n. 4724, Rv. 630280, est. Arienzo, pur richiamando il consolidato indirizzo secondo cui il principio di immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo - Sez. L, n. 4502 del 2008, Rv. 601972 - ha ribadito, in linea con Sez. L, n. 7410 del 2010, Rv. 612852, che la rilevanza penale dei fatti contestati e la conseguente denuncia all'autorità inquirente non costituiscono di per sé ragioni idonee a legittimare il differimento della contestazione, tenuto conto dell'esigenza di tutelare l'affidamento ed il diritto di difesa dell'incolpato, salvo che sussista la necessità per il datore di lavoro di acquisire conoscenza della riferibilità dei fatti al lavoratore in termini di ragionevole certezza e nelle linee essenziali. D'altro canto, Sez. L, n. 13955, Rv. 631849, est. Berrino, ha ritenuto che la sospensione cautelare dal servizio disposta in pendenza di procedimento penale dimostri la permanenza dell'interesse del datore di lavoro ad accertare con sicurezza i fatti incompatibili con la prosecuzione del rapporto e legittimi, di conseguenza, un intervallo di tempo, più o meno lungo, per la complessità dell'accertamento ovvero della struttura organizzativa dell'impresa. Infine, Sez. L, n. 14103, Rv. 631452, est. Buffa, ha precisato che, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione disciplinare può essere differita dal datore di lavoro proprio in ragione della pendenza del procedimento penale e per esigenze di tutela del segreto istruttorio. Sotto altro profilo, la medesima pronuncia - Sez. L, n. 14103, Rv. 631453, est. Buffa - ha ritenuto legittima la riattivazione del procedimento disciplinare per fatti dei quali la rilevanza penale fosse stata esclusa, anche ove questi fossero connessi ad altri tuttora oggetto di procedimento penale, purché non legati ai primi da vincolo di pregiudizialità.

In ordine al rispetto del procedimento disciplinare previsto dall'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, Sez. L, n. 18462, Rv. 632328, est. Maisano, ha escluso la necessità dell'espressa previsione nel codice disciplinare del comportamento del lavoratore subordinato consistente nella mancata effettuazione, anche parziale, della prestazione lavorativa, in quanto condotta in contrasto con il principio fondamentale della sinallagmaticità del rapporto di lavoro. Inoltre, secondo Sez. L, n. 18462, Rv. 632329, est. Maisano, il datore di lavoro può convocare il lavoratore che abbia chiesto di essere ascoltato a discolpa anche al di fuori del posto e dell'orario di lavoro, senza che ciò costituisca violazione del diritto di difesa.

Quanto alle condizioni dell'azione per sollecitare la verifica giudiziale sulla legittimità delle sanzioni disciplinari irrogate, Sez. L, n. 10668, Rv. 630783, est. Maisano, ha chiarito che il termine biennale di efficacia delle sanzioni, di cui all'art. 7, comma 8, della legge 20 maggio 1970, n. 300, non decorre in caso di impugnazione giudiziale della sanzione medesima entro tale biennio, onde permane l'interesse l'interesse ad agire anche qualora l'udienza di discussione sia fissata oltre due anni dopo l'irrogazione della sanzione. Viceversa, Sez. L, n. 3026, Rv. 630610, est. Buffa, ha escluso che il datore di lavoro abbia interesse giuridicamente tutelabile ad impugnare la parte della sentenza che abbia confermato la sanzione disciplinare irrogata al dipendente ove la decisione, pur avendo escluso la verificazione di alcuni dei fatti contestati, abbia ritenuto gli altri fatti addebitati in sé sufficienti a dar conto della sanzione irrogata, in quanto parte totalmente vittoriosa. In linea con tale interpretazione ed in conformità all'indirizzo già affermato da Sez. L, n. 19343 del 2007, Rv. 599279, Sez. L, n. 12195, Rv. 630964, est. Berrino, ha ribadito che, nell'ipotesi di licenziamento intimato per diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ogni fatto deve essere autonomamente valutato ai fini del giudizio di idoneità a giustificare la sanzione adottata; con la conseguenza che la nullità della contestazione per alcuni addebiti si estende all'atto di recesso nel suo complesso solo ove risulti provato che le mancanze ritualmente contestate siano di per sé insufficienti a giustificare il licenziamento.

Di interesse, per le conseguenze sul profilo retributivo, Sez. L, n. 15444, Rv. 631771, est. Arienzo, che ha riconosciuto il diritto del lavoratore, dimessosi in costanza di sospensione cautelare dal servizio e prima della conclusione in senso a lui favorevole del procedimento penale, senza che sia mai stato instaurato il procedimento disciplinare, a ricevere tutte le retribuzioni maturate nel periodo di sospensione cautelare, dovendosi ritenere la misura, avente carattere provvisorio, caducata e non potendo, per contro, un atto volontario del prestatore di lavoro, di carattere non disciplinare, assumere valenza retroattiva ai fini dell'interruzione del rapporto.

7. Retribuzione, indennità e contratto collettivo.

Sul tema dell'indennità di "agente unico" prevista per i dipendenti postali, Sez. 6-L, n. 11330, Rv. 630897, est. Marotta, ha affermato che la predetta indennità remunera le mansioni di ritiro e consegna di oggetti postali svolte unitamente a quelle di autista, sicché ha causa retributiva ed integra un obbligo contrattuale. Ne consegue che, in assenza di concorde volontà delle parti, non può essere ridotta - o soppressa ove siano mutate le condizioni aziendali - estendendosi ad essa il principio della irriducibilità della retribuzione, desumibile dagli artt. 2103 cod. civ. e 36 Cost., in quanto voce compensativa di particolari e gravose modalità di svolgimento del lavoro.

Sulla questione dei buoni pasto a favore dei cd. "turnisti semplici", Sez. L, n. 20599, Rv. 632388, est. Bandini, ha evidenziato che questi ultimi hanno diritto, ai sensi dell'art. 19, comma 1, punto 1.1. lett. B), del contratto aziendale Ferrovie dello Stato del 16 aprile 2003, all'indennità di mensa sia per il pranzo che per la cena qualora inizino o cessino il turno in orari che non consentano la fruizione di entrambi i pasti presso l'abitazione, a nulla rilevando l'uso generico del termine "pasto" al singolare nella predetta clausola e trovando applicazione il medesimo criterio presuntivo in ordine all'impossibilità di rientro a casa espressamente dettato per i turnisti in terza (addetti cioè, al primo e terzo turno, con intervallo del secondo).

Inoltre Sez. L, n. 20597, Rv. 632378, est. Bandini, ha precisato che i lavoratori addetti a turni rotativi comprensivi delle fasce orarie prescritte per la consumazione del pasto hanno diritto alla fruizione dei buoni pasto indipendentemente dai tempi di percorrenza e dalla distanza dall'abitazione, elemento che, ai sensi dell'articolo sopra menzionato, rileva solo nella diversa ipotesi in cui le fasce orarie non siano ricomprese (o lo siano solo parzialmente) nel turno praticato.

Con riferimento all'indennità di vacanza contrattuale prevista dal c.c.n.l. 1 maggio 2004 per i dipendenti degli Istituti di vigilanza, Sez. L, n. 14356, Rv. 631640, est. Amoroso, ha statuito che l'art. 145 del c.c.n.l. in questione, nel riferirsi alla predetta indennità, la definisce "elemento provvisorio" della retribuzione e prevede espressamente che le parti contrattuali, in sede di rinnovo del contratto, stabiliscano tempi e modalità di cessazione dell'indennità eventualmente erogata. Ne consegue che essa non è un diritto acquisito al patrimonio del lavoratore, ma costituisce un mero anticipo, suscettibile di disciplina definitiva da parte del successivo contratto collettivo.

In materia di lavoro giornalistico Sez. L, n. 290, Rv. 629669, est. Balestrieri, ha affermato che il collaboratore fisso di una agenzia di informazioni quotidiane (nella specie, l'Ansa), da identificarsi nel giornalista che, pur non assicurando una attività giornaliera, fornisca con continuità ai lettori un flusso di notizie attraverso la redazione sistematica di articoli o la tenuta di rubriche, "ha diritto, ai sensi dell'art. 2, comma 4, del c.c.n.l. lavoro giornalistico (applicabile "ratione temporis"), ad una retribuzione collegata al numero di collaborazioni fornite, ossia al numero di articoli redatti o rubriche tenute, nonché all'impegno di frequenza e alla natura e all'importanza delle materie trattate, ferma restando la soglia minima di quattro od otto collaborazioni al mese. Ne consegue che, ove il numero delle collaborazioni sia particolarmente elevato e superiore a quello pattuito, il giudice, ai fini della equa determinazione della retribuzione, non può limitarsi ad un aumento proporzionale della stessa in rapporto al maggior numero di articoli o rubriche rispetto a quelli concordati, dovendo anche tenere conto di tutti gli altri parametri previsti dalla disposizione collettiva".

In tema di indennità sostitutiva del preavviso Sez. L, n. 1148, Rv. 630103, est. Amoroso, ha stabilito che l'indennità in questione è dovuta anche nel caso, di cui all'art. 6 del c.c.n.l. 30 aprile 2003 FISE per i dipendenti da imprese e società esercenti servizi di igiene ambientale, di cosiddetto passaggio diretto del lavoratore dall'azienda che cessa dall'appalto di pulizie a quella che subentra nell'appalto medesimo, mancando nella norma richiamata una previsione espressa che escluda la corresponsione dell'indennità.

Sez. L, n. 18479, Rv. 632371, est. Manna, ha affermato che rientrano nel trattamento o indennità di trasferta - che può essere composta da un'unica o da plurime voci - le erogazioni che, prescindendo dalla qualificazione ad esse data dalle parti, siano causalmente collegate ai disagi e/o ai maggiori oneri economici, eventualmente derivanti dalla necessità di portare con sé la famiglia, che il lavoratore affronta quando gli venga mutata, per un tempo determinato, la destinazione di servizio.

In materia di lavoro "part-time", Sez. L, n. 23600, Rv. 633240, est. Berrino, è pervenuta alla conclusione che il credito all'indennità compensativa della disponibilità offerta dal lavoratore ad eseguire prestazioni "a comando" ha natura risarcitoria, in quanto trattasi di un indennizzo avente causa autonoma, riconducibile alla necessità di ristoro della maggiore penosità della prestazione. Ne consegue che, non essendo il predetto credito connesso ad un emolumento spettante al lavoratore per legge o per contratto, è soggetto a prescrizione ordinaria e non a quella quinquennale.

La prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore è interrotta dalla comunicazione della richiesta, inoltrata da quest'ultimo, di espletamento del tentativo di conciliazione, ai sensi dell'art. 410, secondo comma, cod. proc. civ., spettando al datore di lavoro, che contesti l'efficacia interruttiva della richiesta, provarne le eventuali lacune o ambiguità (Sez. L, n. 19604, Rv. 632590, est. Maisano).

In materia di contratti pubblici di appalto relativi a lavori, servizi e forniture, Sez. L, n. 15432, Rv. 631769, est. Tria, ha, con una rilevante pronuncia, affermato, intervenendo in un settore in cui si addensano non pochi aspetti problematici generatori di un articolato dibattito, che "in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente dall'esecutore o dal subappaltatore, o dai soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all'articolo 118, comma 8, ultimo periodo, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, cosiddetto "codice degli appalti pubblici", i lavoratori devono avvalersi degli speciali strumenti di tutela previsti dagli artt. 4 e 5 del d.P.R. 5 ottobre 2010 n. 207 (recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del suddetto codice). Ne consegue l'inapplicabilità dell'art. 29, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, mentre, ove i lavoratori non si siano avvalsi della disciplina speciale, resta possibile far ricorso, in via residuale, alla tutela di cui all'art. 1676 cod. civ., che è applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni".

Con riguardo al tema classico della sfera di incidenza, sulle posizioni dei lavoratori, dei contratti collettivi, Sez. L, n. 14944, Rv. 631602, est. Tria, ha ribadito, in conformità al tradizionale indirizzo giurisprudenziale, che la contrattazione collettiva non può incidere, in relazione alla regola dell'intangibilità dei diritti quesiti, in senso peggiorativo su posizioni già consolidate o su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori in assenza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte degli stessi, ma solo su diritti del singolo lavoratore non ancora acquisiti. L'adesione degli interessati - iscritti o non iscritti alle associazioni stipulanti - ad un contratto o accordo collettivo può essere, peraltro, non solo esplicita, ma anche implicita, per fatti concludenti, che sono generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative clausole. (Nella specie la S.C. ha desunto dal comportamento dell'interessato, che aveva dato pratica applicazione, senza mai dolersene, ad una clausola contrattuale prevedente la trasferta di alcuni lavoratori senza l'attribuzione di rimborsi per alcuni mesi, l'accettazione implicita della clausola contrattuale, peraltro incidente su diritti patrimoniali non ancora acquisiti dal lavoratore).

In ordine all'ipotesi di successione tra contratti collettivi Sez. L, n. 13960, Rv. 631647, est. Doronzo, ha confermato l'indirizzo secondo cui le modificazioni in peius per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale.

È stato a tale ultimo riguardo precisato - da Sez. L, n. 3982, Rv. 630386, est. Buffa - che per diritti quesiti devono intendersi le situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come i corrispettivi di prestazioni già rese, e non anche quelle situazioni future o in via di consolidamento che sono autonome e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi.

Con riferimento al rilevante profilo dell'ultrattività del contratto collettivo, Sez. L, n. 18011, Rv. 631912, est. Bronzini, ha evidenziato che "l'art. 87 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 per i dipendenti dell'Ente Poste Italiane s.p.a. stabilisce il vigore della suddetta disciplina collettiva fino al 31 dicembre 1997 e l'applicazione, per il periodo successivo, delle ordinarie disposizioni di diritto privato, sicché è esclusa qualsiasi ultrattività nel periodo di vacanza contrattuale. Ne consegue che, in caso di impiego del lavoratore in mansioni superiori successivamente alla scadenza del contratto collettivo del 1994 e prima della vigenza del successivo, ai fini della maturazione del diritto all'acquisizione della qualifica superiore (nella specie, alla categoria dei quadri), trova applicazione l'art. 2103 cod. civ. e non è necessario lo svolgimento della prestazione per la durata di sei mesi, come richiesto dalla disposizione collettiva".

Con riguardo alla problematica dei limiti alla vincolatività dei contratti aziendali, Sez. L, n. 16089, Rv. 631982, est. Tria, ha precisato che la regola secondo cui i contratti o gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell'azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (con l'unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l'esplicito dissenso dall'accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad un accordo sindacale separato e diverso), non vale nell'ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno in rapporto a tempo parziale ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, in quanto tale trasformazione, seppure prevista da un contratto collettivo aziendale come strumento alternativo alla collocazione in mobilità, non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma necessita in ogni caso dell'esplicito consenso scritto del lavoratore, il cui rifiuto della trasformazione del rapporto non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Sulla regola dell'inidoneità del contratto collettivo a derogare alla legge, Sez. L, n. 13496, Rv. 631462, est. Amendola, ha ricordato che l'art. 3, quinto comma, del d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, secondo cui il periodo di formazione e lavoro è computato nell'anzianità di servizio in caso di trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, non può essere derogato da una disposizione contrattuale collettiva. Ne consegue l'illegittimità dell'art. 4 dell'Accordo per il rinnovo del c.c.n.l. per i dipendenti del settore degli autoferrotranviari, siglato il 27 luglio 1997, che ha soppresso, dalla data di stipula, il cosiddetto "terzo elemento salariale", la cui attribuzione è stata mantenuta in favore dei soli lavoratori a tempo indeterminato già in forza a tale data e non anche, invece, ai lavoratori già assunti, alla stessa data, con contratto di formazione e lavoro, poi trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Sul delicato tema dell'interpretazione dei contratti collettivi Sez. L, n. 6335, Rv. 630019, est. Patti, ha enunciato, in difformità da due precedenti del 2013 (secondo i quali l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata, ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti cod. civ), il principio (tenuto fermo da Sez. L, n. 18946, Rv. 632788, est. Blasutto) secondo cui "la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., come modificato dall'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicché anch'essa comporta, in sede di legittimità, l'interpretazione delle loro clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (art. 1362 ss. cod. civ.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell'esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del disconoscimento da parte del giudice del merito dei canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti".

Ancora sul predetto tema Sez. L, n. 19779, Rv. 632634, est. Nobile, ha chiarito che nell'interpretazione del contratto collettivo è necessario procedere, ai sensi dell'art. 1363 cod. civ., al coordinamento delle varie clausole contrattuali, anche quando l'interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole, senza residui di incertezza, poiché l'espressione "senso letterale delle parole" deve intendersi come riferita all'intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale e non già limitata ad una parte soltanto, qual è una singola clausola del contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e confrontare fra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato, tenendo altresì conto del comportamento, anche successivo, delle parti.

8. Organizzazione sindacale.

Sulla controversa questione concernente la legittimazione, o meno, del singolo componente della r.s.u. di indire assemblee, Sez. L, n. 15437, Rv. 631851, est. Tria, ha affermato che l'autonomia collettiva può prevedere organismi di rappresentatività sindacale in azienda diversi rispetto alle rappresentanze sindacali aziendali, assegnando ad essi prerogative sindacali non necessariamente identiche a quelle delle r.s.a., con l'unico limite, di cui all'art. 17 della legge 20 maggio, n. 300, del divieto di riconoscere ad un sindacato un'ingiustificata posizione differenziata, che lo collochi quale interlocutore privilegiato del datore di lavoro. Ne consegue che il combinato disposto degli artt. 4 e 5 dell'Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 (istitutivo delle r.s.u.), deve essere interpretato nel senso che il diritto di indire assemblee, di cui all'art. 20 della legge n. 300 del 1970, rientra tra le prerogative attribuite non solo alla r.s.u. considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della r.s.u., purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nella azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 300 del 1970, quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013.

Sez. L, n. 16637, Rv. 632317, est. Bandini, ha riconosciuto che il subentro dei componenti delle RSU ai dirigenti delle RSA nella titolarità dei diritti, permessi e libertà sindacali, previsto dall'art. 4 dell'Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993, è testualmente limitato alle disposizioni di cui al titolo terzo della legge 20 maggio 1970, n. 300, restandone perciò escluso il diritto ai permessi retribuiti contemplati dall'art. 30 dello Statuto dei lavoratori, che è disposizione contenuta nel titolo quarto di tale legge.

Con riferimento al diritto di riunione ex art. 20 della legge da ultimo menzionata, Sez. L, n. 24670, in corso di massimazione, est. Ghinoy, ha precisato che esso può esercitarsi in piena libertà sia all'interno che all'esterno del luogo di lavoro, con i soli limiti prescritti dalla legge e dalla eventuale contrattazione collettiva (e con l'ulteriore, implicito limite del divieto di atti emulativi), non essendo ravvisabile, in linea generale, alcun interesse datoriale allo svolgimento dell'assemblea all'interno dell'unità produttiva, bensì soltanto a salvaguardare la sicurezza degli impianti e la possibilità di continuazione dell'attività lavorativa da parte dei lavoratori non partecipanti all'assemblea, con conseguente legittimità dell'assemblea convocata all'esterno del luogo di lavoro.

In materia di condotta antisindacale, Sez. L, n. 13726, Rv. 631341, est. Doronzo ribadendo un indirizzo da ritenersi oramai consolidato, ha puntualizzato che il comportamento che leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali integra gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, senza che sia necessario - né, comunque, sufficiente - uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro poiché l'esigenza di una tutela della libertà sindacale può sorgere anche in relazione a un'errata valutazione del datore di lavoro circa la portata della sua condotta, così come l'intento lesivo del datore di lavoro non può di per sé far considerare antisindacale una condotta che non abbia rilievo obbiettivamente tale da limitare la libertà sindacale.

Sulla delicata questione dei rapporti tra la tutela contro la condotta antisindacale e il diritto di sciopero, Sez. L, n. 13726, Rv. 631342, est. Doronzo, ha affermato che "l'attivazione di procedure di raffreddamento e conciliazione, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, e il diritto di sciopero costituiscono oggetto di due situazioni giuridiche facenti capo al sindacato ma dirette a tutelare differenti interessi collettivi di cui questi è portatore, sicché il rifiuto datoriale opposto ad una richiesta di convocazione nell'esercizio della prima attività sindacale non ne esclude la lesione, tutelabile con la repressione della condotta antisindacale, anche ove sia comunque consentito l'esercizio del diritto di sciopero, rientrando nella scelta discrezionale delle organizzazioni sindacali optare per l'uno o per l'altro degli strumenti posti a salvaguardia degli interessi degli associati".

In materia di sciopero, Sez. L, n. 14112, Rv. 631657, est. Napoletano, ha chiarito che nel sistema delineato dalla legge 12 giugno 1990, n. 146, per i servizi pubblici essenziali, solo il preavviso minimo di cui all'art. 2, comma 1, per l'esercizio del diritto di sciopero è assoggettato al termine previsto dal successivo comma 5 del medesimo articolo, sicché tale termine non può essere esteso alla diversa ipotesi di richiesta da parte delle organizzazioni sindacali di un incontro per concordare il funzionamento dei servizi minimi essenziali.

9. Trasferimento d'azienda.

Il tema (rispetto al quale si intensifica, in tempi attuali, il dibattito, sollecitato dall'affermazione sempre più massiccia di moderni modelli di "esternalizzazione" non sempre in linea con la normativa di riferimento) è stato, nell'anno in corso, ampiamente sviscerato dalla S.C., con pronunce vertenti su molteplici profili - concernenti, in particolare, l'identificazione del ramo di azienda e l'individuazione delle conseguenze patrimoniali derivanti dalla declaratoria di illegittimità del trasferimento - che hanno delineato con maggior nettezza il quadro complessivo dei vari istituti, anche portando a compimento percorsi argomentativi già intrapresi in passato.

Con riguardo alla "preliminare" questione dell'interesse ad agire in giudizio per l'accertamento della non ravvisabilità di un ramo d'azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento, e, quindi - in difetto del consenso del lavoratore - dell'inefficacia nei confronti di quest'ultimo del trasferimento stesso, Sez. L n. 13617, Rv. 631763, est. Buffa - sulla stessa linea di Sez. L, n. 8756, Rv. 630263, est. Bandini -, ha riconosciuto la sussistenza dell'interesse in questione, non essendo per il lavoratore medesimo indifferente, quale creditore della prestazione retributiva, il mutamento della persona del debitore-datore di lavoro, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei suoi diritti. Precisazione di rilievo è che il predetto interesse non viene meno né per lo svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative per il cessionario - che non integra accettazione della cessione del contratto di lavoro - né per effetto dell'eventuale conciliazione intercorsa tra lavoratore e cessionario all'esito del licenziamento del primo, né, in genere, in conseguenza delle vicende risolutive del rapporto con il cessionario.

Con riferimento alla centrale problematica dell'identificazione dei presupposti per la configurabilità di un ramo di azienda, è stato mantenuto fermo, da Sez. L, n. 8757, Rv. 630262, est. Napoletano, il principio generale secondo cui per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 cod. civ. (come sostituito dalla prima parte dell'art. 32 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276), deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone, comunque, una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste). Non può integrare, pertanto, un ramo di azienda una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, dovendosi ritenere preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici ovvero di articolazioni non autonome (nella specie, il servizio di manutenzione degli impianti ad uso ufficio e dei servizi ambientali da parte della Telecom), unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità.

È stato altresì precisato - da Sez. L, n. 9361, Rv. 630731, est. Lorito - che l'accertamento, in concreto, della sussistenza del ramo di azienda presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell'eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell'avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell'eventuale trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima o dopo la cessione. (Nella specie, è stata esclusa la ravvisabilità di un ramo d'azienda nella cessione di un servizio di gestione e manutenzione di strutture informatiche privo di una struttura aziendale autonoma, non identificabile sulla base di interventi del cessionario successivi alla cessione ed anzi esclusa dai criteri di designazione dei lavoratori trasferiti, i quali erano provvisti di competenze professionali non omogenee ed ancora interagenti con l'impresa cedente).

Su tale linea Sez. L, n. 11832, Rv. 631056, est. Buffa, ha affermato che un complesso di servizi - privi di struttura aziendale autonoma e preesistente - consistenti nella gestione e manutenzione di strutture informatiche e nell'assistenza tecnica, che restino disomogenei per funzioni svolte e professionalità coinvolte, non integrati tra loro e privi di coordinamento unitario, non costituisce ramo d'azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., "senza che assuma rilievo, al fine di ravvisare un valido fenomeno traslativo, la mera decisione, assunta dal cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un'unica funzione al momento del trasferimento, la cui considerazione in termini di sufficienza si porrebbe in contrasto sia con le direttive CE nn. 1998/50 e 2001/23 - che richiedono già prima di quest'atto "un'entità economica che conservi la propria identità" - sia con gli articoli 4 e 36 Cost., che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, insindacabile per l'assenza di riferimenti oggettivi".

Del pari Sez. L, n. 9949, Rv. 630716, est. Venuti, ha negato la ravvisabilità di un ramo d'azienda, suscettibile di trasferimento ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., in un servizio di magazzinaggio, assunto dall'impresa cessionaria senza alcuna disponibilità autonoma dei locali aziendali, detenuti in via precaria, e senza attribuzione di software, né di propria strumentazione informatica ed amministrazione, in modo tale che i lavoratori trasferiti continuano ad utilizzare i sistemi informatici dell'impresa cedente, negli uffici e con i macchinari di quest'ultima.

A maggior illustrazione delle condizioni legittimanti un trasferimento di azienda, Sez. L, n. 9461, Rv. 630729, est. Tricomi, ha ritenuto che il frazionamento e la cessione di parte di uno specifico settore aziendale, destinato a fornire il supporto logistico sia al ramo ceduto che all'attività della società cessionaria, rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2112 cod. civ., purché presenti, all'interno della più ampia struttura aziendale oggetto della cessione, una propria organizzazione di beni e persone al fine della fornitura di particolari servizi per il conseguimento di obiettive finalità produttive (come, ad esempio, il servizio di gestione di tutti gli adempimenti amministrativi del personale Telecom, preesistente, sin dal luglio 1999, alla cessione stessa).

Sul non trascurabile tema delle conseguente patrimoniali derivanti dalla declaratoria di nullità della cessione d'azienda (o di suo ramo) Sez. L, n. 14542, Rv. 631652, est. Tricomi, esprimendo il proprio orientamento (sostanzialmente inedito, trattandosi di prima pronuncia della S.C. sul punto) in vicenda oggetto di cospicuo contenzioso, ha affermato che, in presenza di tale declaratoria, ai lavoratori passati alle dipendenze del cessionario, e da questi regolarmente retribuiti, non spetta - in carenza di prova di un danno risarcibile ex art. 1218 cod. civ. - alcun risarcimento, poiché il rapporto di lavoro è proseguito, sebbene soltanto di fatto, con il cessionario e non si è realizzato alcun allontanamento dal posto di lavoro, con conseguente esclusione della tutela di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ratione temporis applicabile.

Sulla stessa questione, giungendo ad analoga conclusione ma con motivazione diversa, Sez. L, n. 18955, Rv. 632379, est. Berrino, ha precisato che, in caso di dichiarazione di nullità della cessione, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall'ammontare del risarcimento.

Con riferimento all'ulteriore problema dell'incidenza della declaratoria di illegittimità del licenziamento, intimato dal cedente - anteriormente al trasferimento d'azienda -, sulla prosecuzione del rapporto con il cessionario, Sez. L, n. 4130, Rv. 629998, est. Buffa, ha affermato che il rapporto di lavoro continua con il predetto cessionario, senza che rilevi l'anteriorità del recesso rispetto al trasferimento d'azienda, "salva la possibilità per il cessionario, convenuto in giudizio ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., di opporre le eccezioni relative al rapporto di lavoro, alle modalità della sua cessazione o alla tutela applicabile al cedente avverso il licenziamento, a prescindere dalle difese spiegate da quest'ultimo e dalla formazione del giudicato nei suoi confronti ed in favore del lavoratore".

Infine, sulla questione della misura della responsabilità del cessionario Sez. L, n. 21565, Rv. 632670, est. Balestrieri, ha chiarito che il cessionario medesimo acquista gli obblighi gravanti sul cedente in favore del lavoratore, in forza del disposto dell'art. 2112, primo comma, cod. civ., rispondendo di tutti i debiti non ancora estinti per prescrizione.

Peraltro, nell'ipotesi di cessione di azienda, ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e dell'art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, con trasferimento parziale dei lavoratori dipendenti al cessionario, la rinuncia alla solidarietà di quest'ultimo per le obbligazioni anteriori al trasferimento, quale condizione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, costituisce, secondo Sez. L, n. 23473, Rv. 633047, est. Patti, deroga consentita all'art. 2112 cod. civ. ove prevista dall'accordo concluso ai sensi del predetto art. 47.

10. Dimissioni. Mutuo consenso.

È stato confermato - Sez. L, n. 17010, Rv. 632251, est. Amendola - il principio già ribadito da Sez. L, n. 17817 del 2005, Rv. 583824) e Sez. L, n. 18547 del 2009, Rv. 609512), della libera disponibilità in capo al lavoratore subordinato della propria facoltà di recesso dal rapporto, come nell'ipotesi di pattuizione di una garanzia di durata minima dello stesso, che comporti, fuori dell'ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 cod. civ., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, non ravvisandosi in proposito alcun contrasto con norme o principi dell'ordinamento giuridico in tema di tutela assicurata al lavoratore.

In considerazione della natura di atto unilaterale delle dimissioni, Sez. L, n. 8361 del, Rv. 630029, est. Tria, in linea con precedente pronuncia - Sez. L, n. 460 del 2011, Rv. 616147 - ha approfondito i canoni ermeneutici che debbono presiedere alla identificazione dell'effettivo intento del lavoratore nel caso concreto; pertanto, dopo aver richiamati i criteri dell'interpretazione letterale e complessiva delle clausole le une per mezzo delle altre, la S.C., apprezzata la rilevanza di beni giuridici primari oggetto di particolare tutela da parte dell'ordinamento, ha evidenziato la necessità di svolgere un'indagine rigorosa al fine di accertare in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto di lavoro, attribuendo rilievo prevalente al contenuto sostanziale dell'atto rispetto al nomen juris utilizzato (nel caso di specie, l'esistenza di una dichiarazione del lavoratore di essere pronto a continuare a svolgere la propria attività, per un periodo più o meno lungo, ha indotto ad escludere che egli intendesse realmente manifestare l'intento di dimettersi).

Sul piano della tutela assicurata alla lavoratrice madre, Sez. L, n. 4919, Rv. 629714, est. Arienzo, ha affermato che nel caso di dimissioni volontarie nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice madre ha diritto, a norma dell'art. 55 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, alle indennità previste dalla legge o dal contratto per il caso di licenziamento, ivi compresa l'indennità sostitutiva del preavviso, indipendentemente dal motivo delle dimissioni e, quindi, anche nell'ipotesi in cui esse risultino preordinate all'assunzione della lavoratrice alle dipendenze di altro datore di lavoro. In tal modo la Corte ha confermato il principio già affermato in relazione alla previgente normativa da Sez. L, n. 11164 del 1991, Rv. 474344, da cui si era discostata Sez. L, n. 10994 del 2000, Rv. 539682, espressamente dichiarando assorbita la richiesta di rimessione della questione al Primo Presidente per l'eventuale pronunzia delle Sezioni Unite sul rilievo che l'evidenziato contrasto tra le sezioni semplici si è verificato con riguardo all'interpretazione della precedente norma di cui all'art. 12 legge 30 dicembre 1971, n. 1204 e non in relazione all'interpretazione dell'art. 55 d.lgs. n. 151 del 2001 in esame.

Merita poi di essere segnalata Sez. L, n. 22063, Rv. 632901, est. Berrino, che, nell'ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate da un lavoratore subordinato (nella specie, perché in stato di incapacità naturale), ha ribadito l'orientamento espresso da Sez. L, n. 6166 del 1996, Rv. 498394 e confermato da Sez. L, n. 13045 del 2005, Rv. 582023, secondo cui le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l'illegittimità delle dimissioni, in quanto il principio secondo cui l'annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, che, salvo espressa previsione di legge, non sono dovute in mancanza della prestazione lavorativa. Il principio così affermato, per la parte che riguarda le retribuzioni maturate dal ricorso introduttivo del giudizio alla sentenza che accerta l'illegittimità delle dimissioni, si discosta da Sez. L, n. 8886 del 2010, Rv. 612956, secondo cui gli effetti della sentenza di annullamento retroagiscono al momento della domanda giudiziaria in applicazione del principio generale secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice.

Sulla nota questione, tuttora dibattuta, concernente - soprattutto nel settore dei rapporti a tempo determinato - l'individuazione degli indici attestanti la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, Sez. L, n. 1780, Rv. 629857, est. Nobile, dando seguito all'indirizzo prevalente, maggiormente rigoroso, ha affermato che nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, essendo il solo decorso del tempo o la semplice inerzia del lavoratore, successiva alla scadenza del termine, insufficienti a ritenere sussistente la risoluzione per mutuo consenso, costituente pur sempre una manifestazione negoziale, che, seppur tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo, in conseguenza della mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto di lavoro.

In particolare Sez. L, n. 21310, Rv. 632571, est. Buffa, ha precisato che ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso dopo la scadenza del termine illegittimamente apposto, non rileva il semplice reperimento di altra occupazione, che, rispondendo ad esigenze di sostentamento quotidiano, non indica la volontà del lavoratore di rinunciare ai propri diritti verso il precedente datore di lavoro.

La risoluzione consensuale del rapporto non è impugnabile ex art. 2113 cod. civ.; al riguardo secondo Sez. 6-L, n. 6265, Rv. 630498, est. Fernandes, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, anche se convenute in una conciliazione raggiunta in sede sindacale, non rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 2113 cod. civ., con conseguente irrilevanza degli eventuali vizi formali del relativo procedimento.

11. Licenziamento individuale.

Numerose anche quest'anno le pronunce meritevoli di attenzione sul tema.

11.1. La risoluzione del contrasto sull'indennità sostitutiva della reintegrazione.

Come annotato nella rassegna dello scorso anno, con due distinte ordinanze (ord. n. 18369 del 31 luglio 2013 e ord. su ricorso 24035 del 2012, resa all'esito della camera di consiglio dell'udienza del 18 settembre 2013), la Sezione Lavoro aveva rimesso al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni Unite la seguente questione: "Se al lavoratore illegittimamente licenziato, che abbia esercitato l'opzione prevista dall'art. 18, comma quinto, dello Statuto dei Lavoratori - nel testo anteriore alle modifiche apportate con legge 28 giugno 2012, n. 92 - e, dunque, abbia scelto in luogo della disposta reintegrazione nel posto di lavoro la corresponsione della somma pari a quindici mensilità, spettino anche le retribuzioni maturate sino al momento dell'effettivo pagamento dell'indennità sostitutiva.". Il contrasto è stato composto da Sez. U, n. 18353, Rv. 631789, est. Amoroso, e Sez. U, n. 18354, Rv. 631790, est. Amoroso, che hanno dato continuità all'indirizzo giurisprudenziale espresso da Sez. L, n. 15869 del 2012, Rv. 624341 e Sez. L, n. 16228 del 2012, Rv. 626235, affermando il seguente principio di diritto "Ove il lavoratore illegittimamente licenziato in regime di c.d. tutela reale - quale è quello, nella specie applicabile ratione temporis, previsto dall'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300, nel testo precedente le modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92 - opti per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dal quinto comma dell'art. 18 cit., il rapporto di lavoro si estingue con la comunicazione al datore di lavoro di tale opzione senza che permanga, per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore né può essere pretesa dal datore di lavoro, alcun obbligo retributivo con la conseguenza che l'obbligo avente ad oggetto il pagamento di tale indennità è soggetto alla disciplina della mora debendi in caso di inadempimento, o ritardo nell'adempimento, delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, quale prevista dall'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore".

La Corte è approdata a tale soluzione in esito ad analitica ricognizione della giurisprudenza in materia, contrassegnata da tre diverse linee interpretative: la prima, definita tradizionale, fondata essenzialmente sulla ricostruzione svolta nella sentenza della Corte costituzionale 4 marzo 1992, n. 81, secondo cui, in applicazione dello schema dell'obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, il rapporto di lavoro si estingue solo con il pagamento dell'indennità sostitutiva, con conseguente obbligo del datore di lavoro di pagare le retribuzioni nel periodo dall'esercizio dell'opzione sino all'effettivo pagamento dell'indennità sostitutiva; la seconda, definita tradizionale "rettificata", affermatasi a partire dal 2009, che, discostandosi da Corte costituzionale n. 81 del 1992, ammette che il rapporto di lavoro si estingue con la dichiarazione (recettizia) del lavoratore di opzione in favore dell'indennità sostitutiva ma mantiene fermo il diritto del lavoratore al riconoscimento delle retribuzioni nel periodo dall'esercizio dell'opzione all'effettivo pagamento dell'indennità sostitutiva in virtù dell'elaborazione di un principio "di effettività dei rimedi", inteso a rafforzare la tutela del lavoratore; la terza, più recente, affermatasi nel 2012, che reputa il rapporto di lavoro estinto con la dichiarazione (recettizia) di opzione in favore dell'indennità sostitutiva ed applica la disciplina ordinaria in tema di inadempimento del datore di lavoro al pagamento dei crediti pecuniari, riconoscendo al lavoratore, nel periodo tra l'esercizio dell'opzione e l'effettiva corresponsione dell'indennità sostitutiva, il diritto agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria. Proprio a quest'ultimo più recente orientamento la Corte ha ritenuto di dare continuità nella risoluzione del contrasto. Infatti, senza entrare nel merito della discussione fra la riconducibilità dell'istituto alla figura dell'obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore ovvero alla figura dell'obbligazione alternativa, le Sezioni Unite hanno posto piuttosto in evidenza il carattere "processuale" dell'istituto, connesso alla provvisoria esecutorietà dell'ordine di reintegrazione. Ed il nesso che lega l'indennità al processo non muta per effetto dell'evoluzione in senso "sostanziale" dell'istituto, allorché in giurisprudenza si è affermata la possibilità per il lavoratore di richiedere direttamente l'indennità sostitutiva in luogo della reintegrazione: "non c'è un'obbligazione del datore di lavoro che nasca dal rapporto e in ordine alla quale ci si debba interrogare in quale categoria civilistica sia da inquadrare: nelle obbligazioni con prestazioni alternative oppure in quelle con facoltà alternativa [...]. C'è una pronuncia del giudice di condanna del datore di lavoro a reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore illegittimamente licenziato, pronuncia provvisoriamente esecutiva alla quale il datore di lavoro deve prestare ottemperanza; ove però il lavoratore eserciti l'opzione per l'indennità costitutiva, non si innesta alcuna facoltà alternativa nell'ottemperanza dell'ordine del giudice, ma questo risulta mutato nell'oggetto perché dal momento in cui l'opzione del lavoratore è comunicata al datore di lavoro e quindi è efficace, l'ottemperanza all'ordine di reintegra è possibile solo con la corresponsione dell'indennità sostitutiva. Il datore di lavoro non può più dare esecuzione all'ordine del giudice pretendendo che il lavoratore riprenda il servizio, così come il lavoratore in ipotesi reintegrato non può più pretendere, re melius perpensa, il pagamento dell'indennità sostitutiva." Corollario di tali premesse è la ravvisata incoerenza dell'orientamento tradizionale - nella parte in cui postula la permanenza del rapporto sino all'effettivo pagamento dell'indennità sostitutiva - stante l'assenza del "proprium del rapporto di lavoro - ossia il sinallagma essenziale "prestazione lavorativa versus retribuzione"". Pertanto, giunti alla conclusione che il rapporto di lavoro e con esso l'obbligo di reintegrazione cessano con la comunicazione dell'opzione del lavoratore in favore dell'indennità sostitutiva, i giudici della S.C. hanno respinto anche l'indirizzo, definito tradizionale "rettificato", che postula la permanenza dell'obbligazione avente ad oggetto l'indennità risarcitoria, in quanto tale obbligo può plausibilmente fondarsi solo sulla permanenza del rapporto ed in relazione all'obbligo di reintegra, in difetto di una base legale che legittimi la configurabilità di una tutela rafforzata del lavoratore rispetto al pagamento di un'obbligazione di natura pecuniaria, qual è quella dell'indennità sostitutiva. Pertanto, traendo ulteriori elementi di conforto dalla nuova disciplina dell'indennità sostitutiva prevista dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, le Sezioni Unite hanno abbandonato l'ancoraggio alla storica ricostruzione della Corte costituzionale del 1992 (non senza sottolineare che trattavasi di interpretazione meramente correttiva di quella indicata dal giudice a quo) per giungere alla conclusione che l'obbligo avente ad oggetto il pagamento dell'indennità sostitutiva è soggetto alla disciplina della mora debendi ai sensi dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore.

11.2. La decadenza dall'impugnazione.

Diverse le pronunce che, sotto diversi profili, hanno affrontato la questione dei termini per impugnare il licenziamento.

La Corte, in particolare, con Sez. L, n. 6845, Rv. 630099, est. Buffa, ha ritenuto che ove il recesso sia comunicato con lettera raccomandata, regolarmente ritirata dalla moglie convivente del lavoratore, operi la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., sicché incombe sul lavoratore l'onere della prova dell'impossibilità incolpevole di avere notizia dell'atto recettizio, non essendo sufficiente la semplice prova della mancata conoscenza di esso. La medesima pronuncia - Sez. L, n. 6845, Rv. 630100, est. Buffa - in conformità a Sez. L, n. 7049 del 2007, Rv. 596171, ha ribadito che il termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento, quale negozio unilaterale recettizio, decorre dal momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore e non già dal momento, eventualmente successivo, di cessazione dell'efficacia del rapporto di lavoro.

Ai fini della verifica sulla tempestività dell'impugnazione, Sez. L, n. 12890, Rv. 631272, est. Napoletano, ha riaffermato il principio, risalente a Sez. L, n. 14087 del 2006, Rv. 590925, in virtù del quale non è necessario che l'atto di impugnazione del licenziamento giunga a conoscenza del destinatario nel termine di sessanta giorni previsto dall'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, in quanto, ai sensi dell'art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. (così come modificato dall'art. 36 del d.lgs. del 31 marzo 1998, n. 80 e nella formulazione ratione temporis applicabile), il predetto termine si sospende a partire dal deposito dell'istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l'impugnativa scritta del licenziamento, presso la commissione di conciliazione, divenendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l'ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione.

Infine, sul tema merita di essere segnalata Sez. L, n. 9203, Rv. 630755, est. Bandini, che, pronunciandosi sull'art. 32, comma 1 bis, della legge 4 novembre 2010, n. 183, introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito nella legge 26 febbraio 2011, n. 10, ha ritenuto che il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento si applichi a tutti gli ambiti di novità di cui all'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dunque anche al deposito, nel termine di decadenza stabilito, del ricorso giudiziale o della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato ("attraverso il differimento "In sede di prima applicazione" del primo comma novellato dell'art. 6 legge n. 604/66, il legislatore ha inteso, con ciò stesso, differire anche il termine a partire dal quale decorre la decadenza di cui al secondo comma, che diviene quindi a sua volta non applicabile anteriormente al 31.12.2011."). A tale pronuncia si è pienamente conformata Sez. L, n. 15434, Rv. 631680, est. Tria.

11.3. I presupposti per l'accesso alla tutela reale.

Quanto alla verifica circa la sussistenza delle condizioni per l'accesso alla tutela reale, Sez. L, n. 3026, Rv. 630611, est. Buffa, ha ribadito l'orientamento - risalente a Sez. U, n. 141 del 2006, Rv. 585625 - che pone a carico del datore di lavoro la prova circa l'assenza dei presupposti per l'applicazione della tutela reale, specificando che la prova va offerta attraverso le scritture aziendali ed escludendo che la dimostrazione del numero dei dipendenti possa essere fornita con una mera visura camerale storica, in sé meramente riproduttiva dei dati comunicati dal datore al di fuori della possibilità di controllo.

Si è poi confermato - Sez. L, n. 2460, Rv. 630382, est. Venuti - il principio affermato da Sez. L, n. 13274 del 2003, Rv. 566740, secondo cui il computo dei dipendenti va effettuato tenendo conto della normale occupazione dell'impresa - riferita ai soli lavoratori legati da rapporto di subordinazione - nel periodo di tempo antecedente al licenziamento e non anche a quello successivo di preavviso, senza contare le contingenti e occasionali contrazioni o espansioni del livello occupazionale aziendale.

Infine, Sez. L, n. 4983, Rv. 630394, est. Ghinoy, si è occupata del profilo relativo al requisito soggettivo di esclusione della tutela reale, di cui all'art. 4 della legge 5 novembre 1990 n. 108, affermando, in linea con Sez. L, n. 22873 del 2010, Rv. 615575, che non è sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazione di tendenza indicate dalla norma, in quanto occorre un accertamento in concreto della mancanza di scopo di lucro e della mancanza di un'organizzazione imprenditoriale gestita secondo criteri di economicità (nel caso in esame, è stata riconosciuta la natura imprenditoriale di una struttura dotata di ampia organizzazione diretta alla commercializzazione di generi di largo consumo, realizzata con l'apporto di strutture manageriali e di dipendenti valutati secondo procedure improntate alla produttività.).

11.4. Giusta causa e giustificato motivo di licenziamento.

Una particolare attenzione va senz'altro riservata alla casistica sottoposta al vaglio della Corte, come ipotesi di giusta causa di licenziamento.

Secondo Sez. L, n. 10352, Rv. 630789, est. Tria, il mancato rispetto dell'obbligo di comunicare tempestivamente al datore di lavoro eventuali impedimenti nel regolare espletamento della prestazione, tali da determinare la necessità di assentarsi, può giustificare il licenziamento, in quanto, la mancata comunicazione dell'assenza dal lavoro costituisce una violazione dei doveri correttezza e diligenza del prestatore di lavoro ed è idonea ad arrecare alla controparte datoriale un pregiudizio organizzativo, derivante dal legittimo affidamento in ordine alla supposta effettiva ripresa della prestazione lavorativa.

Ancora, è stato ritenuto - Sez. L, n. 17859, Rv. 632311, est. Buffa - giustificato il licenziamento intimato al lavoratore che abbia copiato e conservato, sul personal computer in dotazione sul posto di lavoro, dati aziendali senza autorizzazione del datore, indipendentemente dalla possibilità, riconosciuta al dipendente, di accesso e visione dei dati, aggiungendo - Sez. L, n. 17859, Rv. 632310, est. Buffa - che il recesso è legittimo ove il codice disciplinare affisso nella bacheca aziendale vieti l'accesso alla rete internet e l'utilizzo della posta elettronica per scopi personali ed il dipendente abbia installato sul computer aziendale un programma di file-sharing ed uno per l'accesso alla e-mail personale, effettuando il download di foto e filmati pornografici.

Sul rilievo da attribuire alla recidiva, in conformità a Sez. L, n. 14041 del 2002, Rv. 557685, è stato ribadito - Sez. L, n. 26741, in corso di massimazione, est. Bandini - che la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in relazione a precedenti mancanze come ipotesi di licenziamento non esclude il potere - dovere del giudice di valutare la gravità dell'addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva.

In linea con Sez. L, n. 7523 del 2009, Rv. 607429, è stato escluso - Sez. L, n. 22388, Rv. 633197, est. Lorito - che il datore di lavoro, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, possa intimare il licenziamento disciplinare al lavoratore nei cui confronti abbia già applicato per il medesimo fatto una sanzione conservativa, in quanto, per il principio di consunzione del potere disciplinare, non è consentito che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica. La pronuncia trae argomento anche dalla valorizzazione di quanto affermato dalla Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri contro Italia, in ordine alla portata generale, estesa a tutti i rami del diritto, del principio del divieto di ne bis in idem.

Secondo Sez. L, n. 22054, Rv. 633044, est. Tria, nel caso di abbandono del posto di lavoro da parte della guardia giurata privata - mancanza suscettibile di licenziamento per giusta causa - l'art. 140 del c.c.n.l. per gli Istituti di vigilanza privata del 6 dicembre 2006 si interpreta nel senso che è richiesta la "coscienza e volontà di allontanamento dal posto di servizio" qualificata dalla precisa intenzione di violare le direttive ricevute; ne consegue la legittimità del licenziamento ove il lavoratore abbandoni il posto di lavoro senza previa autorizzazione dell'istituto di vigilanza e senza aver comunicato la propria necessità di allontanarsi, sempreché il datore di lavoro abbia rispettato i propri obblighi circa le dotazioni strumentali da fornire ai dipendenti per consentire l'immediatezza delle comunicazioni della guardia con la centrale.

Quanto alla dibattuta questione della rilevanza disciplinare dello svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di malattia, Sez. L, n. 17625, Rv. 632325, est. Amoroso, ha ribadito il consolidato orientamento - da ultimo, Sez. L, n. 21253 del 2012, Rv. 624713 - in base al quale il recesso è giustificato per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove l'attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere la fraudolenta simulazione della malattia ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, salva la verifica circa l'idoneità della contestazione a porre il lavoratore in condizione di comprendere bene l'addebito contestatogli e di potersi difendere (in particolare, ove l'addebito si incentri sul profilo della fraudolenta simulazione dello stato di malattia, la contestazione sul punto deve essere specifica e chiara). In proposito, merita di essere segnalata Sez. L, n. 25162, Rv. in corso di massimazione, est. Tricomi, che, richiamando un precedente risalente - Sez. L, n. 6236 del 2001, Rv. 546441 - ha affermato che le disposizioni dell'art. 5 della legge 20 maggio 1970 n. 300, non precludono che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto - pur non risultante da un accertamento sanitario - atta a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza, in tal modo ribadendo la facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

Risulta altresì confermato l'orientamento - Sez. L, n. 16260 del 2004, Rv. 576536 - che ritiene insufficiente il mero dato della tenuità del danno patrimoniale per escludere la sussistenza della giusta causa di recesso, atteso che secondo Sez. L, n. 19684, Rv. 632282, est. Bandini, la condotta del prestatore di lavoro deve essere piuttosto valutata sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia; su queste premesse, è stato ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente che, quale addetta al reparto abbigliamento e ai camerini di prova di un grande magazzino, aveva intenzionalmente cambiato i talloncini segnaprezzo di due capi di abbigliamento, al fine di acquistare il capo più caro al minor prezzo. D'altro canto, un mera svista commessa dal lavoratore nell'espletamento delle proprie mansioni, in assenza di conseguenze dannose per il datore di lavoro o per i terzi, non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento - Sez. L, n. 25608, Rv. in corso di massimazione, est. Manna -, non essendo sufficiente a suffragare la legittimità del recesso né la peculiarità delle mansioni (nella specie: cassiere di banca) né eventuali precedenti disciplinari (peraltro, nel caso esaminato, neppure specificati - né nel numero né nella natura né nell'epoca - dalla Corte di merito).

Sulla rottura dell'elemento fiduciario si incentra anche la valutazione di Sez. L, n. 19612, Rv. 632321, est. Manna, che ha ravvisato la sussistenza della giusta causa di recesso nella condotta del direttore di una filiale bancaria che abbia riferito ad un cliente la richiesta di accertamenti disposti dall'autorità giudiziaria, ponendosi in evidenza anche l'affidamento circa la correttezza dei dipendenti, per evitare che l'azienda si trovi ad essere esposta a potenziali responsabilità ex art. 2049 cod. civ.

È stata invece esclusa - Sez. L, 26106, in corso di massimazione, est. Manna - la configurabilità della giusta causa di recesso nell'ipotesi di espressioni non veritiere, sconvenienti ed offensive utilizzate dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro in uno scritto difensivo depositato nell'ambito di un giudizio in cui il datore di lavoro era estraneo: la Corte, in linea con Sez. L, n. 1757 del 2007, Rv. 594156, ha ritenuto applicabile l'esimente dell'art. 598 cod. pen. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all'Autorità Giudiziaria, avendone riscontrato la stretta pertinenza all'oggetto della controversia, in difetto di motivazione sui riflessi lesivi dell'immagine per il datore di lavoro. È stata parimenti esclusa - Sez. L, n. 27424, Rv. in corso di massimazione, est. Manna - la rilevanza disciplinare della registrazione di colloqui fra presenti ancorché non autorizzata (nella specie la registrazione era avvenuta mentre i superiori del lavoratore gli contestavano verbalmente presunte infrazioni disciplinari), ritenuta pienamente legittima in quanto espressione del diritto di difesa, ai sensi dell'art. 51 cod. pen., non limitato alla sede processuale ma esteso a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, anche prima che la controversia sia stata formalmente instaurata; di conseguenza, è ammissibile la produzione in giudizio della registrazione fonografica quale riproduzione meccanica ai sensi dell'art. 2712 cod. civ.

Ove poi la condotta disciplinarmente rilevante del lavoratore integri anche gli estremi del reato, Sez. L, n. 13955, Rv. 631848, est. Berrino, ha ribadito - Sez. L, n. 29825 del 2008, Rv. 606162 - che il datore di lavoro non è tenuto ad attendere la sentenza definitiva di condanna, considerato che il principio di non colpevolezza, sancito dall'art. 27, secondo comma, Costituzione, concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non si applica all'esercizio del potere disciplinare datoriale.

Infine, merita di essere menzionata Sez. L, n. 18678, Rv. 632635, est. Tricomi, che ha affrontato il difficile tema del recesso per scarso rendimento del lavoratore in linea con Sez. L, n. 1632 del 2009, Rv. 606285, affermando la legittimità del licenziamento - previa conversione da giusta causa in giustificato motivo oggettivo - qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione. Nel caso esaminato dalla Corte lo scarso rendimento è stato ancorato alle reiterate assenze effettuate dal lavoratore, comunicate all'ultimo momento e costantemente "agganciate" ai giorni di riposo, in modo tale da rendere la prestazione non più utile per il datore di lavoro ed incidendo negativamente sull'organizzazione e sul funzionamento aziendale.

Sempre in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Sez. L, n. 22533, Rv. 633042, est. Buffa, ha affrontato il caso dell'inabilità sopravvenuta del lavoratore, escludendo che lo stesso, anche qualora affetto da invalidità superiore al 60 per cento ed inserito nelle quote di riserva di cui all'art. 4, comma 4, della legge 12 marzo 1999, n. 68, possa vantare il diritto alla conservazione del posto di lavoro, che rimane subordinata alla possibilità di adibire il dipendente a mansioni equivalenti o inferiori, compatibili con il suo stato di salute.

11.5. Il superamento del periodo di comporto.

Diverse pronunce si sono occupate del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto: Sez. L, n. 12563, Rv. 631659, est. Arienzo, richiamando un precedente assai remoto - Sez. L, n. 3351 del 1996, Rv. 496922 - ha escluso che - in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva - il datore di lavoro abbia l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà, prevista dal contratto collettivo, di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa.

D'altro canto, Sez. L, n. 22753, Rv. 632930, est. Arienzo, in linea con Sez. L, n. 3028 del 2003, Rv. 560762, ha ritenuto che il lavoratore, assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio, è tenuto comunque a presentare la richiesta di fruizione delle ferie (pur se versa in stato di confusione mentale), affinché il datore di lavoro possa concedere al medesimo di beneficiarne durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro, evitando il superamento del periodo di comporto.

Sui criteri di computo, Sez. L, n. 20106, Rv. 632801, est. Bandini, ha confermato l'interpretazione di Sez. L, n. 20458 del 2004, Rv. 577762, secondo cui si deve tener conto anche dei giorni non lavorativi, che cadono nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell'episodio morboso.

Ove il datore di lavoro abbia intimato il licenziamento anteriormente alla scadenza del periodo di comporto, secondo Sez. L, n. 24525, in corso di massimazione, est. Doronzo, in linea con Sez. L, n. 6773 del 2013, Rv. 625643, l'atto di recesso è nullo per violazione della norma imperativa, di cui all'art. 2110 cod. civ., e non già temporaneamente inefficace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza suddetta.

Infine, quanto alla verifica della tempestività del recesso per superamento del periodo di comporto, Sez. L, n. 19400, Rv. 632644, est. Bandini, in linea con l'interpretazione di Sez. L, n. 7037 del 2011, Rv. 616426, ha ritenuto che il requisito della tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una valutazione di congruità - non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata - che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative, mentre, per contro, il lavoratore è tenuto a provare che l'intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.

11.6. La speciale posizione dei dirigenti.

Considerato il peculiare regime previsto per i dirigenti, è opportuno segnalare alcune pronunce intervenute in materia.

Va posta in evidenza, in primo luogo, Sez. L, n. 6110, Rv. 630288, est. Miani Canevari, che ha confermato l'orientamento ormai consolidato sul concetto di "giustificatezza", da intendere come qualsiasi motivo che sorregga il licenziamento, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, atteso che non è necessaria un'analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza di poteri attribuiti al dirigente.

Si è poi reputato - Sez. L, n. 13335, Rv. 631456, est. Berrino - che la "clausola di stabilità" (che assicura una durata minima garantita) del rapporto di lavoro dirigenziale ha lo scopo, da un lato, di soddisfare l'interesse del datore di lavoro ad assicurarsi la collaborazione del dirigente e, dall'altro, di garantire a quest'ultimo la continuità della prestazione lavorativa, attraverso la preventiva rinuncia della parte datoriale alla facoltà di recesso; di conseguenza il limite a tale rinunzia può identificarsi solo nella sussistenza di una giusta causa di recesso, che comporti il venir meno del vincolo fiduciario. Nello stesso senso, Sez. L, n. 25902, in corso di massimazione, est. Manna, ha escluso l'applicabilità del recesso per giustificato motivo oggettivo nell'ipotesi di contratti garantiti da una clausola di durata minima, in quanto allargare la clausola di stabilità anche al giustificato motivo oggettivo comporterebbe di fatto esporre il rapporto alle stesse vicende risolutive che avrebbe potuto soffrire anche in assenza del patto, in tal modo vanificando la stessa garanzia di stabilità.

11.7. Le conseguenze economiche del licenziamento illegittimo.

Seppure per lo più in linea con precedenti indirizzi, è opportuno dare conto di alcune pronunce sulle conseguenze economiche del licenziamento illegittimo.

In primo luogo, va segnalata Sez. L, n. 2887, Rv. 630451, est. Buffa, secondo cui l'indennità di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 va determinata con riferimento alla retribuzione goduta di fatto dal lavoratore al momento dell'intimazione del recesso, e non a quella a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto dalla data del recesso fino all'effettiva reintegrazione, con la conseguente irrilevanza degli eventuali incrementi retributivi determinati dall'evoluzione della successiva contrattazione; tale interpretazione è stata ancorata al dato letterale della disposizione normativa, che non determina il diritto al pagamento delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se fosse stato in servizio, bensì risarcisce esclusivamente il danno derivante dall'interruzione del rapporto e dalla conseguente perdita della retribuzione, fissando quale parametro dell'indennità regolamentata proprio quello della retribuzione globale di fatto percepita al momento dell'illegittimo licenziamento. L'assunto sembra discostarsi da Sez. L, n. 19285 del 2011, Rv. 619272, che, proprio in considerazione della natura risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore in seguito all'illegittimo licenziamento, ritiene che vadano inclusi gli aggiornamenti delle retribuzioni medesime.

La Corte - Sez. L, n. 22050, Rv. 632645, est. Buffa - ha ribadito (v. Sez. L, n. 19770 del 2009, Rv. 610386) che l'importo pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto previsto dall'art. 18, quinto comma, della legge 30 maggio 1970, n. 300 (nella formulazione applicabile ratione temporis), rappresenta una parte irriducibile dell'obbligazione risarcitoria complessiva conseguente all'illegittimo licenziamento, commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, con la conseguenza che detto importo minimo è dovuto anche ove la reintegra intervenga a meno di cinque mesi dal licenziamento invalido, dovendosi escludere, in ogni caso, che la stessa sia cumulabile all'indennità risarcitoria.

Ancora, Sez. L, n. 16143, Rv. 631981, est. Maisano, ha confermato l'indirizzo - v. Sez. U, n. 12194 del 2002, Rv. 558139 - secondo cui il risarcimento del danno non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dal lavoratore a titolo di pensione, atteso che il diritto alla pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell'assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro e non si pone, di per sé, come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all'operatività della regola della compensatio lucri cum damno.

Quanto, poi, al risarcimento del danno all'integrità psico-fisica del lavorare, Sez. L, n. 5730, Rv. 630285, est. Arienzo, in linea con Sez. L, n. 6845 del 2010, Rv. 612131, ha ritenuto che tali danni sono una conseguenza soltanto mediata ed indiretta (e, quindi, non fisiologica e non prevedibile) del recesso datoriale e, pertanto, non sono risarcibili salvo che nell'ipotesi di licenziamento ingiurioso (o persecutorio o vessatorio), della cui prova - unitamente a quella del danno sofferto - è onerato il lavoratore.

11.8. Prime applicazioni della legge Fornero.

Di assoluto interesse, in quanto costituisce una della prime applicazioni dell'art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300, siccome come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, Sez. L, n. 23669, in corso di massimazione, est. Arienzo, secondo cui il fatto materiale va distinto dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento; con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.

Altra questione di rilievo è quella che riguarda l'individuazione del regime sostanziale applicabile dopo l'approvazione della legge 28 giugno 2012, n. 92. In conformità a Sez. L, n. 10550 del 2013, Rv. 626536, secondo cui il nuovo testo dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, non trova applicazione alle fattispecie di licenziamento oggetto dei giudizi pendenti innanzi alla Corte di cassazione alla data della sua entrata in vigore, Sez. L, n. 9098, Rv. 630444, est. Bandini, ha affermato che il medesimo principio trova applicazione anche con riferimento ai giudizi pendenti (alla data di entrata in vigore della novella) nei gradi di merito ovvero, come nel caso all'esame, in sede di rinvio. Sulla stessa linea, Sez. L, n. 301, Rv. 630279, est. Manna, ha ritenuto che, sebbene l'art. 1, comma 67, della legge n. 92, cit. preveda l'applicabilità delle disposizioni processuali da essa introdotte alle controversie instaurate dopo la sua entrata in vigore, le nuove norme sostanziali in essa contenute non sono applicabili ai licenziamenti anteriormente intimati; infatti, in mancanza di una espressa disposizione transitoria, il principio di irretroattività della legge previsto dall'art. 11 preleggi fa sì che la nuova legge non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente e ancora in vita ove, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso (come, ad esempio, nell'ipotesi del licenziamento già giudicato illegittimo).

12. Licenziamenti collettivi.

I temi di maggior rilievo affrontati nell'anno vertono sulla idoneità, o meno, di un atto espulsivo ad integrare un licenziamento collettivo nonché sulla delimitazione del criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità.

È stato, quanto al primo aspetto, affermato da Sez. L, n. 22826, Rv. 633043, est. Tria, che qualora il recesso datoriale derivi esclusivamente dalla scelta dei lavoratori di non accettare l'assunzione che sia stata proposta non per esigenze dell'impresa, ma in esecuzione (spontanea) di una sentenza dichiarativa dell'illegittimità della cessione di un ramo di azienda non è configurabile un licenziamento collettivo, poiché, in tale evenienza, il licenziamento ha origine, a prescindere dai motivi degli interessati (privi di rilievo giuridico), esclusivamente da un atto di volontà dei lavoratori e non del datore.

Inoltre Sez. L, n. 25349, in corso di massimazione, est. Bandini, ha rilevato che l'esclusione dell'obbligo di osservare le procedure dettate per i licenziamenti collettivi, prevista dall'art. 24, comma 4, della legge 23 luglio 1991, n. 223, per la "fine lavoro nelle costruzioni edili", opera anche nel caso di esaurimento di una singola fase di lavoro, che abbia richiesto specifiche professionalità, non utilizzabili successivamente; in tal caso, l'ultimazione delle opere edili per la realizzazione delle quali il lavoratore è stato assunto integra gli estremi di un giustificato motivo di licenziamento individuale, anche se plurimo.

Con riguardo al secondo aspetto Sez. L, n. 14170, Rv. 631606, est. Buffa, ha evidenziato che ove il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali sia unico e riguardi la possibilità di accedere al prepensionamento, tale criterio sarà applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, restando perciò irrilevanti i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura.

Si è poi precisato - Sez. L, n. 8971, Rv. 630758, est. Bronzini - che qualora l'individuazione dei dipendenti da licenziare avvenga, previo accordo tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali, mediante ricorso ai criteri per l'accesso al Fondo di solidarietà previsti dall'art. 8 del d.m. 28 aprile 2000, n. 158, il datore di lavoro può limitarsi ad indicare, nella comunicazione scritta di cui all'art. 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, l'elenco nominativo dei lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo, "in quanto la natura oggettiva dei criteri fissati in sede di accordo sindacale rende possibile la verifica della concreta aderenza ad essi della scelta effettuata, nonché superflua la comparazione dei lavoratori individuati con quelli privi dei requisiti indicati".

Sulla questione della quantificazione del risarcimento del danno derivante da licenziamento collettivo illegittimo, con una interessante pronuncia resa con riferimento ad atto espulsivo irrogato prima dell'entrata in vigore della legge 23 luglio 1991, n. 223, Sez. L, n. 17460, Rv. 631909, est. Arienzo, ha escluso che il risarcimento dovesse esser commisurato a tutte le retribuzioni non percepite dai lavoratori licenziati tra il recesso datoriale e la sentenza di primo grado, poiché era presumibile che, dopo un primo periodo di incolpevole occupazione, gli stessi avrebbero potuto attivarsi per il reperimento di altra attività lavorativa. Ciò sul rilevo che l'imprevedibilità alla quale fa riferimento l'art. 1225 cod. civ. costituisce un limite alla misura dell'ammontare del danno, che resta circoscritto a quello astrattamente prevedibile in relazione ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, quindi, secondo un criterio di normalità in presenza di circostanze di fatto conosciute.

Va infine segnalata Sez. L, n. 23984, Rv. 633316, est. Ghinoy, ove è specificato che l'esenzione dal contributo di mobilità, prevista dall'art. 3, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223, si applica nel solo caso di licenziamento collettivo disposto dagli organi di una procedura concorsuale, e non si estende alle altre ipotesi in cui, assente ogni spazio di valutazione discrezionale in capo all'imprenditore, sia impossibile la continuazione dell'attività (come nel caso di sequestro disposto in sede penale), attesa la matrice eccezionale della norma, insuscettibile di applicazione analogica.

13. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Come sempre, molto ricca la giurisprudenza sul pubblico impiego privatizzato.

13.1. Le sentenze delle Sezioni Unite.

È opportuno dare subito conto della pronuncia con cui è stato risolto il contrasto segnalato da Sez. L, n. 10979 del 2013 sulla seguente questione: "Se, nella base retributiva per la determinazione dell'indennità di buonuscita, si debba o meno computare anche il trattamento economico goduto in ragione del conferimento di un incarico temporaneo di reggenza e percepito al momento della cessazione del servizio.". Infatti, Sez. U, n. 10413, Rv. 630642, est. Amoroso, hanno ribadito l'orientamento tradizionale - da cui si era discostata Sez. L, n. 9646 del 13 giugno 2012, Rv. 6227999 - enunciando il seguente principio di diritto: "Nel regime dell'indennità di buonuscita spettante ai sensi degli arti. 3 e 38 d.P.R. 1032 del 1973 al pubblico dipendente, che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell'esercizio di mansioni superiori in ragione dell'affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo di reggenza ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, lo stipendio da considerare come base di calcolo dell'indennità medesima è quello relativo alla qualifica di appartenenza e non già quello rapportato all'esercizio temporaneo delle mansioni relative alla superiore qualifica di dirigente.". In particolare, i giudici della S.C. hanno ritenuto che l'intrinseca temporaneità dell'incarico di reggenza, affidato ad un dipendente sprovvisto della qualifica dirigenziale, comporta che l'incremento di trattamento economico rispetto a quello corrispondente alla qualifica di appartenenza - imposto dall'obbligo, ricavato dall'art. 36 Costituzione, di retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato - non possa rientrare nella nozione di "stipendio", che è invece il trattamento economico tabellarmente riferibile alla qualifica di appartenenza, unico rientrante nell'elencazione operata dall'art. 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032; peraltro, come già evidenziato dall'indirizzo tradizionale cui le Sezioni Unite hanno dato continuità, rapportare la liquidazione dell'indennità di buonuscita alla retribuzione percepita in forza delle mansioni dirigenziali espletate in via di reggenza temporanea, anziché alla retribuzione dell'ultima qualifica rivestita, costituirebbe un sostanziale aggiramento del disposto dell'art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che vieta la stabilizzazione nella superiore qualifica corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ponendosi altresì in contrasto con il principio del necessario concorso o procedura selettiva comparativa per l'accesso alla dirigenza pubblica.

Sempre in tema di emolumenti spettanti al termine del rapporto, Sez. U, n. 24280, Rv. 633079, est. Curzio, superando l'apparente contrasto ravvisato con ordinanza interlocutoria del 22 novembre 2013, n. 26247, ha ribadito, in conformità a Sez. L, n. 226 del 2002, Rv. 551480, che in caso di estinzione del rapporto di lavoro alle dipendenze di un ente locale seguita dalla costituzione di un nuovo rapporto di lavoro alle dipendenze dello Stato - per il quale matura il trattamento di fine rapporto ex art. 2120 cod. civ. - il lavoratore ha diritto a percepire l'indennità premio di servizio sin dal momento dell'estinzione del rapporto presso l'ente locale, a ciò non ostando il principio di infrazionabilità dell'indennità premio di servizio prevista dagli artt. 4 e 12 della legge 8 marzo 1968, n. 152. In motivazione, è stato chiarito che l'opposta conclusione cui erano pervenute Sez. L, n. 14632 del 1999 e Sez. L, n. 13328 del 1991 - origine del sollevato contrasto - trovava giustificazione proprio nella diversità della situazione di fatto sottesa alle predette pronunce, atteso che non si era di fronte ad una successione di rapporti di lavoro bensì continuità del medesimo rapporto, rispetto al quale non poteva che affermarsi la regola della infrazionabilità dell'indennità premio di servizio normativamente prevista.

Quanto a Sez. U, n. 26939, in corso di massimazione, est. Bandini, in tema di contratti a termine delle ex aziende speciali municipali, si rinvia al paragrafo 13.9., inerente la specifica materia.

13.2. Principi affermati ai sensi dell'art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ.

Ai fini dell'individuazione dei principi utilizzati quale parametro di valutazione di inammissibilità del ricorso, ai sensi dell'art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ., si segnala Sez. 6-L, n. 7726, Rv. 630006, est. Blasutto, che, in conformità a Sez. L, n. 8458 del 2010, Rv. 612864, ha ribadito che ai dipendenti del comparto delle regioni e delle autonomie locali che svolgono la prestazione lavorativa con il sistema dei turni, funzionale all'esigenza di continuità del servizio, si applica, ove la prestazione cada in giornata festiva infrasettimanale, come in quella domenicale, l'art. 22, comma 5, del contratto collettivo 14 settembre 2000 del comparto autonomie locali, che compensa il disagio con la maggiorazione del 30 per cento della retribuzione, mentre il disposto dell'art. 24, che ha ad oggetto l'attività prestata dai lavoratori dipendenti in giorni festivi infrasettimanali oltre l'orario contrattuale di lavoro, trova applicazione soltanto quando i predetti lavoratori siano chiamati a svolgere la loro attività, in via eccezionale od occasionale, nelle giornate di riposo settimanale che competono loro in base ai turni, ovvero in giornate festive infrasettimanali al di là dell'orario di lavoro.

13.3. Gli incarichi dirigenziali.

Diverse le pronunce di interesse sulla figura e sul ruolo dei dirigenti.

Fra tutte, è opportuno iniziare dall'ordinanza interlocutoria - Sez. L, n. 13064, Rv. 631331, est. D'Antonio - con la quale, in riferimento ai parametri del principio di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa, di cui all'art. 97 Costituzione, è stata sollevata questione di costituzionalità degli artt. 1, comma 2, e 2, della legge reg. Abruzzo 12 agosto 2005, n. 27, nella parte in cui prevedono rispettivamente la cessazione automatica delle nomine degli organi di vertice di amministrazione degli enti dipendenti dalla Regione all'atto dell'insediamento del nuovo consiglio regionale, salvo motivata conferma (cosiddetto spoils system), e la decadenza dalle medesime nomine al momento di entrata in vigore della legge (cosiddetto spoils system una tantum), comportando un'interruzione automatica del rapporto prima dello spirare del termine stabilito, in carenza di garanzie procedimentali e a prescindere da qualsiasi valutazione dell'operato del dirigente. In motivazione, a conforto del giudizio di non manifesta infondatezza della questione, sono state richiamate le sentenze n. 103 del 2007, n. 351 e n. 390 del 2008, n. 34, n. 81 e n. 224 del 2010, n. 124 e 246 del 2011, emesse dalla Corte costituzionale su casi analoghi.

In ordine agli incarichi dirigenziali affidati da enti locali a soggetti esterni, va evidenziato che Sez. L, n. 478, Rv. 629670, est. Venuti, ha ritenuto applicabile l'art. 19 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel testo modificato dall'art. 14 sexies del d.l. 30 giugno 2005, n. 115, convertito con modificazioni nella legge n. 17 agosto 2005, n. 168, secondo cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né eccedere i cinque, e non già l'art. 110, comma 3, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U. enti locali), che stabilisce che gli incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco in carica; infatti, si è ritenuto che la disciplina statale integri quella degli enti locali in quanto la prima, con la predeterminazione della durata minima del contratto, è volta ad evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le sue capacità e a conseguire i risultati per cui è stato nominato, mentre la seconda fornisce al Sindaco uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell'intuitus personae e assicura la collaborazione del funzionario incaricato per tutta la durata del mandato, fermo restando il rispetto del termine minimo triennale anche nell'ipotesi di cessazione del suddetto mandato.

Sempre in ordine alla specifica disciplina della dirigenza degli enti locali, Sez. L, n. 689, Rv. 629250, est. Bandini, ha chiarito che l'art. 110 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U. Enti Locali) distingue espressamente tra incarico dirigenziale e incarico di alta specializzazione, sicché, pur disponendo che entrambi possano essere conferiti al di fuori della dotazione organica e con contratti a tempo determinato, non è possibile ricavare da tale disposizione una loro equiparazione.

Quanto ai criteri di selezione, Sez. L, n. 13867, Rv. 631643, est. Amoroso, in aderenza a Sez. L, n. 3880 del 2006, Rv. 587005, ha confermato che il datore di lavoro pubblico ha un'ampia potestà discrezionale nella scelta dei soggetti ai quali conferire incarichi dirigenziali, cui corrisponde, in capo a coloro che aspirano all'incarico, una posizione qualificabile non come diritto soggettivo pieno ma come di interesse legittimo di diritto privato. Differente, invece, la posizione vantata rispetto alla revoca illegittima dall'incarico, atteso che secondo Sez. L, n. 687, Rv. 629253, est. Blasutto, come già per Sez. L, Sentenza n. 4479 del 2012, Rv. 622118, il dirigente ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, da determinare in riferimento alle ragioni dell'illegittimità del provvedimento di revoca, alle caratteristiche, alla durata ed alla gravità dell'attuato demansionamento, alla frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione ed alle eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro e comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale.

Ove, invece, l'amministrazione non proceda all'attribuzione dell'incarico, secondo Sez. L, n. 22835, Rv. 633189, est. Nobile, l'interessato può agire per il risarcimento da mancato conferimento o ritardata attribuzione di un incarico dirigenziale, ma non già per il demansionamento, secondo quanto già indicato da Sez. 6-L, n. 9807 del 2012, Rv. 622926, e ciò anche nell'ipotesi di passaggio dall'inquadramento nelle aree funzionali alla qualifica di dirigente, equiparata al reclutamento dall'esterno, trattandosi di novazione oggettiva del rapporto di lavoro non riconducibile alle procedure concorsuali o selettive di cui all'art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

In ordine alle funzioni proprie del dirigente, Sez. L, n. 13953, Rv. 631650, est. Berrino, ha chiarito che l'elencazione dei compiti, delle attribuzioni e delle funzioni della dirigenza pubblica di cui agli artt. 16 e 17 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, non ha carattere tassativo, trattandosi unicamente dell'indicazione di quelle che sono in genere le funzioni dei dirigenti.

Alcune pronunce si sono occupate in particolare della retribuzione di posizione, elementi tipico della remunerazione dei dirigenti.

Sul punto si segnala la divergenza rilevata fra Sez. L, n. 6956, Rv. 630274, est. Marotta, che, in linea con Sez. U, n. 7768 del 2009, Rv. 607465, ha ritenuto non determinabile né rivendicabile dall'interessato la componente variabile della retribuzione in caso di mancata adozione, da parte della ASL, del provvedimento di graduazione delle funzioni, e Sez. L, n. 14279, Rv. 631649, est. Ghinoy, secondo cui, invece, la retribuzione di posizione costituisce, in base alle previsioni dei c.c.n.l. per la dirigenza medica e veterinaria del comparto sanità del 5 dicembre 1996 e del 8 giugno 2000, una componente fondamentale della retribuzione dei dirigenti, la cui erogazione non è condizionata all'effettiva determinazione della graduazione delle funzioni dirigenziali ad opera dell'azienda sanitaria. Più in generale, Sez. L, n. 13062, Rv. 631275, est. Venuti, ha ritenuto che la corresponsione della parte variabile della retribuzione di posizione non può essere omessa, con il solo limite, posto all'autonomia delle parti, del rispetto delle risorse disponibili e dei vincoli di finanza pubblica stabiliti dall'amministrazione nella graduazione delle funzioni e responsabilità dirigenziali e nell'attribuzione del valore economico a tali incarichi.

13.4. Il principio di parità di trattamento.

Sul principio di parità di trattamento, espresso dall'art. 45 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Sez. L, n. 3682, Rv. 630101, est. Marotta, in conformità a consolidato orientamento maturato sul punto - v. da ultimo Sez. L, n. 10105 del 2013, Rv. 626441 - ha riaffermato la legittimità del trattamento economico differenziato, in favore del personale dei ruoli ad esaurimento - previsti dagli artt. 60 e 61 del d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748 - di ispettore generale e direttore di divisione, rispetto al personale ugualmente inquadrato in area C, previsto dalla tabella B allegata al c.c.n.l. per il comparto Ministeri del 19 febbraio 1999, in ragione del carattere necessariamente temporaneo e del diverso percorso professionale dei due gruppi di dipendenti.

Sempre in ordine alla determinazione del trattamento economico spettante in correlazione con figure e posizioni rivendicate come similari, va segnalata Sez. L, n. 18669, Rv. 632812, est. Maisano, che ha escluso per i vigili urbani il diritto all'indennità mensile per servizi di istituto dovuta alle forze di polizia ed al personale civile dell'amministrazione penitenziaria ex art. 1 della legge 23 dicembre 1970, n. 1054, in quanto, anche ove investiti della qualifica di agenti di pubblica sicurezza, ex art. 18 del r.d. 31 agosto 1907, n. 690, tale attribuzione è loro conferita singulatim, è sempre revocabile quando mutino le condizioni locali in forza delle quali è stata effettuata e, in ogni caso, non comporta la somma dei doveri e degli oneri propri degli appartenenti ai suddetti corpi, cui spetta il compito precipuo ed essenziale della difesa delle istituzioni democratiche e della tutela dell'ordine pubblico.

Quanto al personale infermieristico, Sez. L, n. 5565, Rv. 630275, est. Mancino, ha chiarito, decidendo ai sensi dell'art. 420 bis cod. proc. civ., che l'indennità giornaliera, prevista dall'art. 44, comma 6, lett. a), b) e c) del c.c.n.l. 1° settembre 1995 per il comparto Sanità, è strettamente correlata allo svolgimento di attività in reparti specifici, destinati alla somministrazione di particolari cure, sicché essa compete solo al personale infermieristico addetto ai servizi - intesi quali articolazioni strutturali dell'organizzazione sanitaria - di malattie infettive, di terapia intensiva e di terapia sub intensiva.

Il criterio della distinzione delle funzioni svolte è stato assunto pure da Sez. 6-L, n. 15873, Rv. 632639, est. Curzio, per escludere il diritto dei dipendenti del Ministero dell'istruzione, università e ricerca appartenenti al personale scolastico in servizio presso istituzioni scolastiche all'estero, all'applicazione, sull'assegno di sede, previsto dall'art. 27 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62, del coefficiente di maggiorazione di sede stabilito dall'art. 5 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 per il personale del servizio diplomatico consolare del Ministero degli esteri, cui invece spetta una "indennità di servizio", attesa la differente denominazione delle indennità rispettivamente riconosciute, le diverse attività lavorative svolte, i distinti criteri per la fissazione dei coefficienti.

Si richiama ai criteri fondamentali in tema di spesa pubblica, Sez. L, n. 8002, Rv. 630096, est. Mammone, secondo cui costituisce principio generale del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato che la spesa per il personale debba essere evidente, certa e prevedibile nell'evoluzione (art. 8 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) e che il trattamento economico allo stesso riservato - ivi compreso quello accessorio - debba essere definito, secondo il canone della parità di trattamento (art. 45 del d.lgs. n. 165 cit.), dai contratti collettivi; con la conseguenza che, in base al c.c.n.l. del comparto Sanità 1998-2001 del 7 aprile 1999, che determina l'indennità di funzione in misura variabile tra un minimo ed un massimo, rimettendo alla contrattazione integrativa la determinazione di un fondo per il relativo finanziamento, è inammissibile l'attribuzione dell'indennità in misura preventiva ed indeterminata nella misura massima, a prescindere da ogni disponibilità di bilancio e da ogni determinazione parametrale tra il minimo ed il massimo.

Sempre sul tema della correlazione fra mansioni e trattamento retributivo, Sez. L, n. 12358, Rv. 631040, est. Napoletano, ha chiarito che l'art. 52, comma 5, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, non si applica nell'ipotesi in cui al dipendente siano attribuite mansioni aggiuntive ma compatibili con la qualifica di appartenenza, dovendosi escludere che al lavoratore possa, in mancanza di disposizioni legislative o contrattuali in tal senso, essere riconosciuto un doppio salario, per la duplicità di mansioni conglobate in un'unica prestazione lavorativa, ponendosi eventualmente soltanto un problema di adeguatezza e proporzionalità della retribuzione in relazione alla qualità e quantità della prestazione lavorativa complessivamente svolta. D'altro canto, Sez. L, n. 21243, Rv. 632796, est. Di Cerbo, ha affermato che, in base all'interpretazione letterale, il profilo lavorativo relativo alla posizione economica C3, di cui all'allegato A del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 febbraio 1999, non ricomprende tra le proprie funzioni l'espletamento di quelle di reggenza della superiore posizione lavorativa dirigenziale per vacanza del relativo posto.

Infine, Sez. L, n. 8803, Rv. 630264, est. Bronzini, ha chiarito che l''indennità di vacanza contrattuale prevista dall'Accordo intercategoriale sul costo del lavoro del 23 luglio 1993 e dall'art. 1 del c.c.n.l. Comparto Ministeri, per il quadriennio 1998-2001, costituisce un elemento provvisorio della retribuzione, con la finalità di assicurare una parziale copertura rispetto all'aumento del costo della vita nelle more dello svolgimento delle trattative per i rinnovi contrattuali, sicché essa non è dovuta nel caso di rinnovo contrattuale con effetti economici retroattivi decorrenti sin dalla scadenza del precedente contratto.

13.5. Il settore scuola.

Sulla specifica disciplina del settore scuola, si segnala Sez. L, n. 21827, Rv. 632799, est. Napoletano, secondo cui la deliberazione effettuata, per ogni anno scolastico, della pianta organica - costituita dall'insieme del corpo docente e del personale ATA che il Ministero assegna ad un determinato istituto in base alla popolazione scolastica che istituzionalmente dovrebbe essere iscritta presso lo stesso - é, salvo diversa determinazione, giuridicamente autonoma ed indipendente rispetto alle precedenti deliberazioni, sicché le posizioni dei docenti vanno necessariamente valutate con riferimento alla pianta organica stabilita per l'anno di riferimento e non a quelle precedenti.

Sempre per il personale docente, Sez. L, n. 1035, Rv. 629314, est. Venuti, precisa che l''art. 2 del d.l. 19 giugno 1970, n. 370, convertito in legge 26 luglio 1970, n. 576, riprodotto dall'art. 485 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, che prevede, ai fini giuridici ed economici, il riconoscimento, a favore del personale docente delle scuole elementari, del periodo di insegnamento pre-ruolo prestato nelle scuole materne statali o comunali, attribuisce un beneficio, sicché, rivestendo carattere eccezionale, non è suscettibile di interpretazione analogica o estensiva con riguardo ai servizi prestati presso istituti infantili diversi da quelli statali o comunali.

13.6. Procedure concorsuali.

Fra le numerose le sentenze che hanno affrontato, sotto diversi aspetti, le procedure concorsuali per l'assunzione o l'acquisizione di qualifiche superiori, si ritiene di segnalare Sez. L, n. 18285, Rv. 632296, est. Amoroso, secondo cui il bando di concorso pubblico è "regola" della procedura e - eccettuato il caso della violazione di legge - non può essere modificato a seguito dell'entrata in vigore di una legge successiva, a meno che questa non preveda espressamente la sua applicabilità anche alle procedure concorsuali in atto.

Sempre in ordine alla vincolatività del bando, Sez. L, n. 20735, Rv. 632873, est. Maisano, in conformità a Sez. U, n. 23327 del 2009, Rv. 610353, ha ritenuto illegittimo l'atto di approvazione della graduatoria in contraddizione con la delibera di indizione del concorso e con il bando (lex specialis del concorso), dichiarando nulla la clausola con cui la pubblica amministrazione si sia riservata la facoltà di non procedere all'assunzione perché integra una condizione meramente potestativa ai sensi dell'art. 1355 cod. civ.

Evoca il principio della necessaria comparazione fra i candidati, pur in assenza di una formale procedura concorsuale Sez. L, n. 16247, Rv. 632250, est. Maisano, assumendo che gli atti degli enti locali di assegnazione del personale alle posizioni organizzative debbono essere espressamente motivati anche in base ad una valutazione comparativa degli aspiranti alle posizioni in contestazione.

Sullo specifico tema della cd. riqualificazione, Sez. L, n. 15213, Rv. 631688, est. Bandini, ha escluso la configurabilità del diritto all'inquadramento superiore anteriormente all'utile esaurimento della graduatoria, atteso che, ai sensi dell'art. 15 del contratto collettivo 19982001 del comparto Ministeri, l'acquisizione della qualifica superiore all'interno della medesima area presuppone il superamento di un percorso di qualificazione e aggiornamento professionale, con esame finale e successiva formazione di una graduatoria.

13.7. Orario di lavoro e tempo parziale.

In ordine alla disciplina dell'orario di lavoro, Sez. L, n. 15216, Rv. 631676, est. Bandini, ha precisato che il rapporto si qualifica a tempo parziale orizzontale, giusta applicazione dell'art. 1 del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, come modificato dal d.lgs. 26 febbraio 2001, n. 100, nei casi in cui, a seguito del contratto individuale del dipendente, la riduzione dell'orario rispetto al tempo pieno si riflette su alcuni o tutti i giorni lavorativi, in ciò differenziandosi dal part-time verticale, che ricorre negli altri casi in cui la riduzione dell'orario lavorativo si articola su alcuni soltanto dei giorni della settimana, del mese o dell'anno, così da modificare l'ordine e la successione delle giornate lavorative. In questo senso, la medesima pronuncia - Sez. L, n. 15216, Rv. 631677, est. Bandini - ha qualificato come part-time verticale il rapporto del lavoratore che fornisca la propria prestazione per un numero di ore lavorative inferiori a quelle ordinarie, distribuite su cinque giorni alla settimana a fronte di un orario di servizio articolato, in via generale, su sei giorni alla settimana; con la conseguente determinazione proporzionale (pari ai cinque sesti dei giorni di ferie spettanti al personale con orario pieno) del numero di giorni di ferie spettanti, e ciò a differenza del lavoratore a tempo pieno, ancorché quest'ultimo abbia la facoltà di avvalersi di un orario articolato su cinque giorni alla settimana, con turnazione per la copertura della sesta giornata.

Sempre in tema di orario lavorativo, Sez. L, n. 15074, Rv. 631601, est. Venuti, ha ritenuto che agli ufficiali giudiziari non si applichino le disposizioni in tema di orario di lavoro previste dalla contrattazione collettiva per i dipendenti del comparto Ministeri: infatti, l'attività del personale UNEP, come disciplinata dal d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, è svincolata dai limiti dell'orario di lavoro, con la corresponsione di una retribuzione non commisurata al tempo, ma al numero e alla qualità degli atti compiuti.

13.8. Il diritto alle ferie.

Sul diritto alle ferie, va segnalato che secondo Sez. L, n. 4855, Rv. 630379, est. Manna, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico se l'interessato non prova che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore. Tale pronuncia, invero, sembra postulare un particolare onere probatorio a carico del lavoratore, mentre Sez. L, n. 11462 del 2012, Rv. 623178, poneva piuttosto in evidenza il carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall'art. 36 Costituzione e dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE (v. la sentenza 20 gennaio 2009 nei procedimenti riuniti c-350/06 e c-520/06 della Corte di giustizia dell'Unione europea), anche senza responsabilità del datore di lavoro e salva l'ipotesi del lavoratore che abbia disattesa la specifica offerta della fruizione del periodo di ferie. Su questa linea, sembra porsi anche Sez. L, n. 20947, Rv. 632647, est. Balestrieri, che ha riconosciuto al personale della dirigenza del comparto Regioni ed autonomie locali il diritto all'indennità sostitutiva in caso di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al dirigente, considerato che l'art. 17, comma 8, del c.c.n.l. Regioni ed enti locali, del 10 aprile 1996, esclude l'esistenza di un diritto incondizionato del dirigente della provincia di collocarsi autonomamente e discrezionalmente in ferie, occorrendo pur sempre l'autorizzazione dei vertici dell'amministrazione.

13.9. Contratti a tempo determinato.

In ordine alla complessa questione inerente la disciplina dei contratti a termine nella pubblica amministrazione, è opportuno porre in evidenza Sez. L, n. 13858, Rv. 631661, est. Balestrieri, che, in continuità con Sez. L, n. 13528 del 2002, Rv. 557422, Sez. L, n. 6699 del 2003, Rv. 562553, e con Sez. L, n. 14773 del 2010, Rv. 613932, ha escluso che le assunzioni temporanee effettuate da comuni, province, consorzi e rispettive aziende di tali enti, di cui all'art. 5 del d.l. 10 novembre 1978, n. 702, convertito in legge 8 gennaio 1979, n. 3, possano soggiacere alla disciplina privatistica della legge 18 aprile 1962, n. 230 e possano convertirsi in rapporti a tempo indeterminato, essendo per questi richiesto un concorso o una prova pubblica selettiva, senza che ciò determini alcuna ingiusta disparità di trattamento ex art. 3 Costituzione, in quanto il divieto di conversione risponde a criteri di ragionevolezza, ispirati a tutela di superiori interessi pubblici di natura generale, ed è compatibile con la disciplina delle aziende municipalizzate di cui all'art. 23 della legge 8 giugno 1990 n. 142 (applicabile ratione temporis); con la conseguenza che eventuali clausole dei contratti collettivi di settore, che introducessero deroghe all'art. 5 citato, devono considerarsi nulle per violazione di norma imperativa. Nello stesso senso, Sez. L, n. 15714, Rv. 631691, est. Berrino, che ha esteso il principio anche alle aziende di trasporti pubblici, pur se il loro statuto preveda la possibilità di assumere personale con una modulazione del rapporto di lavoro di natura privatistica; infatti, è stato ritenuto che si applica la medesima disciplina generale dettata dall'art. 5 del d.l. n. 702 cit., con esclusione della conversione a tempo indeterminato. La medesima pronuncia ha affermato che la liquidazione del danno deve essere effettuata in base ai comuni principi posti dall'art. 1223 cod. civ. e segg., senza possibilità di ricorso al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, per la diversa ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato.

In continuità con tale consolidato orientamento, Sez. U, n. 26939, in corso di massimazione, est. Bandini, ha enunciato il seguente principio di diritto "In tema di assunzione di lavoratore già dipendente da un'azienda speciale comunale trova applicazione la disciplina dettata dall'art. 5, commi 15 e 17, del d.l. 10 novembre 1978, n. 702, convertito, con modificazioni, nella Iegge 8 gennaio 1979, n. 3, il cui vigore è confermato dall'art. 8 del d.l. 7 maggio 1980, n. 153, convertito nella legge 7 luglio 1980, n. 299, che, regolando in modo completo ed esauriente l'assunzione del personale a tempo determinato da parte di province, comuni, consorzi e rispettive aziende, esclude che le assunzioni temporanee effettuate dai medesimi enti possano soggiacere alla disciplina privatistica della legge 18 aprile 1962, n. 230, onde tali assunzioni temporanee non sono suscettibili di convertirsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato; tale disciplina è compatibile con la regolamentazione delle aziende speciali dettata dall'art. 23 della legge 8 giugno 1990, n. 142, non rimanendone precluse né la sussistenza di interessi pubblici rispetto alle loro attività, né l'ammissibilità di autorizzazioni e controlli da parte dei pubblici poteri, in attuazione di quanto previsto dall'art. 41, comma 3, della Costituzione, né l'esigenza di stabilizzazione della finanza locale". Di rilievo l'annotazione contenuta in motivazione circa l'assenza di un effettivo contrasto sulla questione, atteso che l'unico precedente apparentemente difforme - Sez. L, n. 23702 del 2013, Rv. 628519 - citato nell'ordinanza interlocutoria di rimessione (Sez. L., 5 maggio 2014, n. 9595) - era stato reso in relazione a fattispecie diversa, concernente contratti a termine conclusi da un'azienda speciale già trasformata in società per azioni e proprio la natura societaria del datore di lavoro era stata posta, in quel caso, a fondamento dell'inapplicabilità sia dell'art. 5 dal n. 702/1978, sia dell'art. 23 legge n. 142/1990.

Sul delicato tema del risarcimento del danno per illegittima apposizione del termine, va segnalata Sez. L, n. 27363, in corso di massimazione, est. Balestrieri, che, nell'ipotesi di illegittima assunzione a temine da parte di una pubblica amministrazione, ha escluso che il danno possa ritenersi in re ipsa, pur potendo il lavoratore fare ricorso alle presunzioni, in modo tale da non rendere eccessivamente difficoltoso l'esercizio del diritto, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea (ordinanza Papalia, c-50/2013 e sentenza Carratù, c-361/2012).

Con tale recentissima pronuncia, dunque, sembrerebbe che la Corte abbia inteso ritornare all'indirizzo aperto da Sez. L, n. 392 del 2012, Rv. 620269, sul necessario rispetto dell'onere probatorio, disattendendo la diversa posizione di Sez. L, n. 19371 del 2013, Rv. 628401, che, nel ritenere applicabile - anche d'ufficio - al rapporto intercorso con una pubblica amministrazione il meccanismo indennitario di cui all'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, ne aveva sottolineato il carattere forfetizzato ed omnicomprensivo "a prescindere dall'intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore". Sennonché, Sez. L, n. 27481, in corso di massimazione, est. Tria, proprio argomentando sul primato del diritto comunitario, con particolare riferimento all'interpretazione della S.C. censurata dalla Corte di giustizia europea nella già citata ordinanza Papalia, nel procedimento n. c-50/2013, ha ritenuto che l'art. 36, comma 5, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 debba essere interpretato nel senso di configurare una specifica figura di "danno comunitario" - da intendere come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro pubblico - per il cui risarcimento può essere utilizzato, come criterio tendenziale di parametrazione, l'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, che, per l'appunto, rappresenta l'indicazione normativa per la liquidazione del danno da perdita del lavoro, non risultando, per converso, attinenti alla fattispecie né il sistema indennitario previsto dall'art. 32 della legge n. 183 del 2010 né quello stabilito dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300; pertanto, secondo tale interpretazione, l'interessato deve limitarsi a provare l'illegittima stipulazione dei contratti a termine, mentre è esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di aver subito un danno effettivo (in tal modo escludendosi anche la detrazione dell'eventuale aliunde perceptum).

Occorrerà, dunque, seguire le ulteriori pronunce che interverranno sulla questione per verificare se verrà seguito o meno tale ultimo arresto, anche in ordine al parametro di liquidazione del danno.

13.10. Il potere disciplinare.

Sull'esercizio del potere disciplinare, fra le diverse pronunce emesse, si evidenzia che Sez. L, n. 19676, Rv. 632272, est. Buffa, ha chiarito che, nell'ipotesi di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio per effetto di procedimento penale, il diritto alle somme non percepite non è disciplinato dall'art. 96 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, concernente la sospensione facoltativa nel procedimento disciplinare, ma dal successivo art. 97, che condiziona i diritti economici del lavoratore alla revoca della sospensione in conseguenza della sentenza di assoluzione con le formule ivi indicate, senza possibilità di una valutazione comparata degli esiti processuali delle diverse imputazioni in relazione alla loro diversa gravità, elementi non contemplati dalla norma.

Ancora, sulla sospensione cautelare dal servizio a seguito di procedimento penale, Sez. L, n. 15449, Rv. 631772, est. Amoroso, ha precisato che l'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 determina in cinque anni la durata massima della sospensione cautelare del pubblico dipendente, in pendenza di procedimento penale, considerando i soli periodi in cui il rapporto di lavoro sia effettivamente sospeso. Sulla stessa questione, Sez. L, n. 18673, Rv. 632628, est. Napoletano, ha affermato che il termine quinquennale di efficacia della sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale, previsto dall'art. 9, comma 2, legge n. 19 cit., si riferisce unicamente alla sospensione obbligatoria, per cui nel relativo computo non può cumularsi la sospensione facoltativa.

Quanto al rispetto dei termini per iniziare o proseguire il procedimento disciplinare, Sez. L, n. 4917, Rv. 629856, est. Ghinoy, ha qualificato come perentorio il termine di 180 giorni previsto dall'art. 5, comma 4, della legge 27 marzo 2001, n.97 (nel testo anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150) per la conclusione del procedimento disciplinare; il predetto termine decorre dalla data di inizio del procedimento o, nel caso in cui questo sia stato già iniziato e poi sospeso per la pendenza del procedimento penale, dalla data in cui viene riavviato dopo la comunicazione della sentenza definitiva all'amministrazione.

In ordine all'individuazione delle condotte disciplinarmente rilevanti, Sez. L, n. 18414, Rv. 632313, est. Amendola, ha ritenuto che l'art. 25, comma 5, lett. d), del contratto collettivo nazionale di lavoro comparto Ministeri del 16 maggio 1995 non contenga una tipizzazione delle condotte disciplinarmente rilevanti, ma riproduca, sostanzialmente, la formula della giusta causa di cui all'art. 2119 cod. civ., con conseguente applicabilità del principio generale dell'irrogazione della sanzione secondo la gravità dell'infrazione.

Infine, merita di essere segnalata Sez. L, n. 20461, Rv. 632633, est. Maisano, secondo cui il divieto previsto dall'art. 23, lett. m), del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, di chiedere o accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altra utilità in connessione con la prestazione lavorativa, prevale quale fonte sovraordinata e successiva, sulla previsione più limitativa, di cui al decreto del Ministero della Funzione Pubblica del 31 marzo 1994.

13.11. Equo indennizzo.

Sul riconoscimento dell'equo indennizzo, vanno poste in evidenza alcune pronunce che hanno chiarito alcuni aspetti di interesse. Sez. L, n. 6048, Rv. 630463, est. Balestrieri, ha precisato che l'art. 1, comma 120, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, prevede che ai procedimenti di riconoscimento iniziati in data antecedente al 1° gennaio 1995, ed alle domande di aggravamento proposte successivamente a detta data (ma con decorrenza anteriore), continuano ad applicarsi, per la determinazione dell'equo indennizzo, le disposizioni previgenti alla legge 23 dicembre 1994, n. 724, sicché in tali casi non si applica, ai fini della misura dell'equo indennizzo, la tabella 1 allegata alla legge n. 662 del 1996.

Invece, Sez. L, n. 22297, Rv. 633050, est. Tria, ha definito i rapporti fra l'accertamento della dipendenza dell'infermità da causa di servizio, ai fini del riconoscimento del beneficio della pensione privilegiata, e quello finalizzato alla concessione dell'equo indennizzo, affermando che essi sono basati su presupposti diversi e regolamentati da norme differenti, con la conseguenza che non può essere attribuito valore di giudicato esterno vincolante, ai fini del riconoscimento del diritto all'equo indennizzo, alla sentenza della Corte dei conti divenuta definitiva, la quale abbia accertato la sussistenza della causa di servizio ai fini della pensione privilegiata.

Infine, Sez. L, n. 586, Rv. 629264, est. Balestrieri, ha affermato che il termine semestrale di decadenza previsto dall'art. 2, comma 1, del d.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461, per la proposizione della domanda diretta all'accertamento della dipendenza da causa di servizio delle lesioni subite o delle infermità contratte, decorre dalla loro conoscenza solo nelle ipotesi in cui esse non siano immediatamente percepibili al momento dell'evento dannoso, che invece, in caso di immediata percepibilità, va identificato come dies a quo del medesimo termine.

13.12. Rimborso delle spese legali.

Sulla questione della rimborsabilità delle spese legali per la difesa in un processo penale, Sez. L, n. 2297, Rv. 630383, est. Marotta, in conformità a Sez. L, n. 5718 del 2011, Rv. 616440, ha ritenuto che il conflitto d'interessi è rilevante indipendentemente dall'esito del giudizio penale e dalla relativa formula di assoluzione, tanto che al dipendente comunale - assolto dall'imputazione di concussione - non compete il rimborso delle spese legali qualora il giudice penale abbia evidenziato che i fatti ascrittigli esulavano dalla funzione svolta e costituivano grave violazione dei doveri d'ufficio.

14. Agenzia.

Con riferimento al contratto di agenzia, va segnalata Sez. L, n. 16487, Rv. 632269, est. Balestrieri, che ha affermato l'inderogabilità ad opera delle parti del termine di preavviso, di cui all'art. 1750 cod. civ. (come sostituito dall'art. 3 del d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303) - che, dunque, non può essere inferiore ad un mese per ogni anno, o frazione di anno, di durata del contratto fino ad un massimo di sei mesi - in quanto il legislatore italiano si è avvalso della facoltà, prevista dall'art. 15 della Direttiva del Consiglio CEE del 18 dicembre 1986, n. 86/653/CEE, di escludere anche per gli anni successivi al primo triennio, di tutela inderogabile, la possibilità di deroga ad opera delle parti.

Quanto alle ipotesi di estinzione del rapporto, secondo Sez. L, n. 11728, Rv. 631050, est. Arienzo, in conformità a Sez. L, n. 14771 del 2008, Rv. 603374, per la valutazione della gravità della condotta, idonea a giustificare il recesso per giusta causa, previsto dall'art. 2119, primo comma, cod. civ. ed applicabile anche al contratto di agenzia, occorre tener conto della maggiore intensità che l'elemento fiduciario assume in questo tipo di rapporto rispetto al lavoro subordinato, avuto riguardo alla maggiore autonomia di gestione dell'attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali; con la conseguenza che, ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata.

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  • liquidazione di società
  • contribuente
  • cooperativa
  • retribuzione del lavoro
  • assicurazione per invalidità
  • artigianato
  • pensionato
  • società in accomandita
  • vaccinazione
  • trasfusione di sangue
  • condizione di pensionamento
  • editoria
  • condono fiscale
  • datore di lavoro
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XVII

PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE

(di Renato Perinu, Francesca Miglio )

Sommario

1 Obbligo contributivo: inquadramento dei datori di lavoro e retribuzione imponibile ai fini previdenziali e assicurativi. - 1.1 Inquadramento dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assicurativi. - 1.2 Lavoro dei soci di società in nome collettivo poste in liquidazione. - 1.3 Lavoro nella società in accomandita semplice. - 1.4 Lavoro nelle cooperative. - 1.5 Lavoratori dello spettacolo. - 1.6 Retribuzione imponibile a fini contributivi e volontà negoziale. - 1.7 Retribuzione in natura ed obbligo contributivo. - 1.8 Lavoro a tempo parziale. - 2 Esenzione dagli obblighi contributivi. - 3 Benefici contributivi. - 3.1 Lavori socialmente utili. - 3.2 Lavoratori esposti all'amianto. - 3.3 Lavoratori esposti a rischio chimico. - 4 Sgravi. - 4.1 Sgravi in favore delle imprese artigiane. - 4.2 Premi dovuti dalle aziende industriali all'INAIL. - 4.3 Agevolazioni per l'incremento occupazionale. - 4.4 Sgravi contributivi e fiscalizzazione degli oneri sociali. - 4.5 Sgravio capitario ex art. 4, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449. - 5 Accertamento e riscossione dei crediti contributivi. - 6 Prescrizione dei crediti contributivi. - 6.1 Decorrenza della prescrizione. - 6.2 Atti interruttivi della prescrizione. - 7 Omissione ed evasione contributiva. - 7.1 Sanzioni civili e somme aggiuntive. - 7.2 Reintegrazione del lavoratore, obblighi contributivi e sanzioni. - 8 Condono e sanatoria. - 9 Tutela del lavoratore in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali. - 10 Classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi INAIL. - 11 Previdenza complementare. - 11.1 Portabilità e riscatto. - 11.2 Contribuzione aggiuntiva. - 12 Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti procedimentali. - 12.1 Decadenza dall'azione giudiziaria. - 12.2 Decadenza ed indennizzo del danno da emotrasfusione e vaccinazione obbligatoria. - 12.3 Ricongiunzione dei periodi assicurativi. - 13 Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti sostanziali. - 13.1 Infortunio in itinere. - 13.2 Indennità di accompagnamento. - 13.3 Elargizione in favore delle vittime di attentati terroristici. - 13.4 Pensioni di invalidità: condizioni per la concessione. - 13.5 Pensioni di anzianità. - 13.6 Trattamento pensionistico degli operai agricoli. - 13.7 Reddito minimo di inserimento: condizioni per la concessione. - 13.8 Cumulo tra pensione e reddito da lavoro. - 14 Previdenza di categoria. - 14.1 Pubblici dipendenti. - 14.2 Provvidenze per l'editoria. - 14.3 Fondo volo. - 15 Trattamenti di fine rapporto e di fine servizio. - 15.1 Dipendenti pubblici. - 15.2 Incarichi di reggenza e determinazione dell'indennità di buonuscita.

1. Obbligo contributivo: inquadramento dei datori di lavoro e retribuzione imponibile ai fini previdenziali e assicurativi.

1.1. Inquadramento dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assicurativi.

La Sezione Lavoro della Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulle problematiche che possono porsi in tema di inquadramento dei datori di lavoro a fini previdenziali, in particolare nelle ipotesi di svolgimento di attività diverse da parte del medesimo imprenditore.

Secondo Sez. L n. 8558, est. Tria, Rv. 630246, qualora una impresa eserciti attività distinte, tali che, di per sé considerate, comporterebbero inquadramenti differenti ai fini previdenziali, è necessario aver riguardo all'elemento concreto del carattere autonomo delle attività (in modo da dare luogo ad aziende separate che potrebbero stare sul mercato anche da sole) e, nel caso in cui tale autonomia sia da escludere (per essere una attività complementare e strumentale rispetto all'altra), deve tenersi conto della attività prevalente in relazione alle finalità economiche perseguite ed operarsi, dunque, l'inquadramento del datore di lavoro ai fini previdenziali esclusivamente sulla base di tale attività.

La medesima sentenza, Rv. 630247, è intervenuta in materia di decorrenza degli effetti dei provvedimenti di classificazione dei datori di lavoro, affermando che l'art. 3 comma 8 della legge 8 agosto 2005 n. 335, nella parte in cui (primo e secondo periodo) stabilisce che i provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro a fini previdenziali, adottati dall'INPS di ufficio o su richiesta dell'azienda, producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento o della richiesta dell'interessato, ha valenza generale ed è quindi applicabile ad ogni ipotesi di rettifica dei precedenti inquadramenti operata dall'Istituto previdenziale dopo la data di entrata in vigore della predetta legge - o anche prima, nel caso in cui la modifica, così come attuata, formi oggetto di controversia in corso a quella stessa data - indipendentemente dai parametri adottati (si tratti cioè dei nuovi criteri di inquadramento introdotti dai primi due commi dell'art. 49 della legge 3 settembre 1989, n. 88, ovvero di quelli applicabili secondo la normativa previgente) in base ad una lettura sistematica e costituzionalmente orientata della norma, volta ad uniformare il trattamento di imprese di identica natura ed attività, ma disomogenee nella classificazione.

Sempre in materia di classificazione dei datori di lavoro, la sentenza citata, Rv. 630248, ha precisato che la previsione di cui all'art. 3, comma 8, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in base alla quale le variazioni hanno effetto dal "periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l'inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro", deve essere estesa, stante l'evidente identità di ratio, alle ipotesi in cui il datore di lavoro abbia omesso di comunicare all'ente previdenziale la variazione della propria attività, in violazione di obbligo imposto sotto comminatoria di sanzione amministrativa, di cui all'art. 2 del d.l. 6 luglio 1978, n. 362, convertito nella legge 4 agosto 1978, n. 467, in quanto, pur se in un momento successivo, si realizza una discrasia tra l'effettività della situazione e le dichiarazioni sulle quali la classificazione iniziale era fondata.

1.2. Lavoro dei soci di società in nome collettivo poste in liquidazione.

Secondo Sez. L, n. 2139, Rv. 629930, est. Arienzo, in tema di inquadramento, ai fini contributivi, dei soci di società in nome collettivo posta in liquidazione, in base all'art. 1, comma 203, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che ha sostituito il primo comma dell'art. 29 della legge 3 giugno 1975, n. 160, l'iscrizione alla gestione commercio conserva validità, con persistenza dell'obbligo contributivo, sia per i soci liquidatori che per gli altri soci che continuino a svolgere attività sociale, anche durante la fase di liquidazione e fino alla cessazione di tutte le attività sociali ed alla cancellazione della società dal registro delle imprese, sempreché l'attività svolta conservi i caratteri dell'abitualità e della prevalenza.

1.3. Lavoro nella società in accomandita semplice.

Nel caso di impresa alberghiera gestita da una società in accomandita semplice, per l'assoggettamento a contribuzione previdenziale della collaborazione lavorativa prestata da un "familiare coadiutore", che sia anche socio accomandante, è stato ritenuto necessario, ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge 22 luglio 1966, n. 613, che la prestazione lavorativa sia abituale, in quanto svolta con continuità e stabilmente, e non in via straordinaria od eccezionale - ancorché non caratterizzata dalla presenza quotidiana e ininterrotta sul luogo di lavoro, essendo sufficiente escluderne l'occasionalità, la transitorietà o la saltuarietà - e prevalente, in quanto resa, sotto il profilo temporale, per un tempo maggiore rispetto ad altre occupazioni del lavoratore (Sez. L, n. 9873, Rv. 630781, est. Venuti).

1.4. Lavoro nelle cooperative.

La Corte, con Sez. L n. 73, est. Maisano, Rv. 628735, confermando la sentenza di merito che aveva riconosciuto rilevanza normativa al d.m. 15 luglio 1987 (il quale, all'art. 2, prevede per i facchini, barocciai, vetturini ed ippotrasportatori, riuniti in cooperative, il pagamento di un premio speciale unitario diversificato nell'importo per attività) ha ritenuto che, in tema di determinazione dell'obbligo contributivo a carico dei datori di lavoro, l'art. 4 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 602, secondo cui i contributi per le varie forme di previdenza e di assistenza sociale sono dovuti su imponibili giornalieri e per periodi di occupazione mensile, da determinarsi con d.m., è norma di carattere generale, al pari dell'art. 42 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, norma che, nel prevedere la possibilità di introdurre, con d.m., "premi speciali unitari", attribuisce a tale decreto il valore di una regolamentazione attuativa o integrativa della legge, con portata innovativa rispetto all'assetto ordinamentale precedente, presentando i relativi precetti caratteri di generalità ed astrattezza.

1.5. Lavoratori dello spettacolo.

In tema di contributi previdenziali per i lavoratori dello spettacolo, Sez. L n. 2464, est. Arienzo, Rv. 629840, ha ritenuto che i compensi corrisposti a titolo di cessione dello sfruttamento del diritto d'autore, d'immagine e di replica, nell'ambito delle prestazioni dirette a realizzare, senza la presenza del pubblico che ne è il destinatario finale, registrazioni (fonografiche o in altra forma) di manifestazioni musicali o di altre manifestazioni a carattere e contenuto (artistico, ricreativo o culturale) di spettacolo, sono soggetti, ai sensi dell'art. 43 della legge 27 dicembre del 2002, n. 289, a contribuzione previdenziale limitatamente alla percentuale che eccede il quaranta per cento dell'importo complessivamente percepito, senza, peraltro, che sia necessario verificare l'effettiva natura e durata della prestazione lavorativa, rispondendo la scelta legislativa - che fonda una presunzione che impedisce di scindere il diritto di autore e/o di immagine dalla prestazione professionale artistica - al dichiarato scopo di ridurre il contenzioso.

Per Sez. L, n. 21829, est. Arienzo, Rv. 632885, l'obbligo di iscrizione all'ENPALS sussiste, ai sensi del d.lgs. C.p.s. del 16 luglio 1947, n. 708 per i lavoratori impiegati a svolgere una attività artistica o tecnica correlata alla realizzazione di uno spettacolo destinato al pubblico con carattere di abitualità e professionalità, con esclusione dei lavoratori che prestino tale attività in via meramente occasionale, senza che rilevi la circostanza che le prestazioni, benchè professionali, siano saltuarie, o di breve durata, né che tale attività lavorativa non sia esclusiva per il soggetto che la espleti.

Nello stesso senso, Sez. L, n. 21245, Rv. 632630, est. Bandini, ha affermato che l'obbligo assicurativo a carico delle imprese dello spettacolo, in favore dei lavoratori elencati nell'art. 3 del d.lgs. C.p.S. 16 luglio 1947, n. 708, sussiste indipendentemente dalla natura autonoma o subordinata della loro collaborazione e vale, oltre che per i contributi di malattia, anche per quelli relativi alla maternità e alla Gescal, atteso che le disposizioni legislative li prevedono senza compiere alcuna distinzione. Secondo la medesima pronuncia, Rv. 632629, il d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1420 si applica esclusivamente ai contributi IVS per i quali è operante la gestione speciale Enpals, pertanto l'Inps, subentrato alla disciolta gestione malattia dell'Enpals, non è legittimato a richiederne il versamento, potendo invece richiedere, anche per i lavoratori dello spettacolo, altri tipi di contributo, quali quelli per l'erogazione delle prestazioni economiche per malattia - e quelli connessi quali i contributi Gescal -, per assistenza sanitaria e per maternità, a far data dal primo gennaio 1980, come previsto dagli artt. 74 e 76 della legge 23 dicembre 1978, n. 833.

1.6. Retribuzione imponibile a fini contributivi e volontà negoziale.

Ha sostenuto Sez. L, n. 2642, Rv. 630384, est. Balestrieri, in fattispecie avente ad oggetto l'obbligo contributivo relativo alle somme dovute dal datore di lavoro al prestatore di lavoro dal momento del licenziamento illegittimo a quello dell'effettiva reintegra, rispetto alle quali era stato concluso un accordo transattivo, che la transazione è inopponibile all'istituto previdenziale, in quanto la retribuzione imponibile (di cui all'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153) deve intendersi come tutto ciò che il lavoratore ha diritto di ricevere dal datore di lavoro. La citata pronuncia ha enunciato tale principio, evidenziando che il rapporto assicurativo e l'obbligo contributivo ad esso connesso sorgono con l'instaurazione del rapporto di lavoro, ma sono del tutto autonomi e distinti, sussistendo l'obbligo del datore di lavoro nei confronti dell'Istituto previdenziale indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d'opera siano adempiuti, in tutto o in parte, o che il lavoratore abbia rinunciato ai propri diritti.

Nello stesso senso, secondo Sez. L, n. 3685, Rv. 630363, est. Venuti, in materia di contributi previdenziali, sul fatto costitutivo dell'obbligazione contributiva non può in alcun modo incidere la volontà negoziale, che regoli diversamente l'obbligazione stessa o risolva con un contratto di transazione la controversia relativa al rapporto di lavoro, precludendo alle parti il relativo accertamento giudiziale. Ne consegue che la somma ricevuta dal singolo lavoratore, dopo che lo stesso abbia impugnato il licenziamento, sulla base di transazione intervenuta con il datore di lavoro, non integra un incentivo all'esodo - ai sensi dell'art. 12, della legge 30 aprile 1969, n. 153, come modificato dall'art. 6, comma 1, d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314 - ma ha natura retributiva ed è, pertanto, assoggettata a contribuzione previdenziale.

1.7. Retribuzione in natura ed obbligo contributivo.

Ha affermato Sez. L, n. 16390, Rv. 631987, est. Napoletano, che qualora la retribuzione del lavoratore subordinato consista, in tutto o in parte, in prestazioni in natura, la determinazione del relativo valore ai fini contributivi è attribuita, a norma dell'art. 29 del d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797 (e dell'art. 30 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 per i premi dovuti all'INAIL), al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, che provvede con apposito decreto, salvo che tale prestazione non abbia un valore monetario certo e facilmente accertabile, senza il ricorso a criteri discrezionali e senza alcuna conseguente discriminazione fra i soggetti tenuti alla contribuzione. Ne consegue che, ove la determinazione ministeriale sia necessaria ma, di fatto, non sia intervenuta, l'obbligazione contributiva non sorge, dovendosi escludere che l'ente previdenziale, sostituendosi al Ministro, possa determinarne direttamente il valore.

1.8. Lavoro a tempo parziale.

Secondo Sez. L, n. 20104, Rv. 632883, est. Manna, in materia di contratto part time, il regime minimale contributivo orario di cui all'art. 5, quinto comma, del d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito nella legge 19 dicembre 1984, n. 63 (vigente ratione temporis) si applica se sia stato osservato il requisito della forma scritta (e gli ulteriori prescritti requisiti formali) e non in caso di accordo orale, dovendosi ritenere irragionevole una interpretazione che imponga, per esigenze solidaristiche, ai datori di lavoro rispettosi della legge, l'osservanza del principio del minimale retributivo - con l'applicazione di parametri commisurati a retribuzioni superiori a quelle in concreto corrisposte - e che, nel contempo, lasci esenti da tali vincoli coloro che, sottraendosi alle prescrizioni legislative, ricorrano al contratto a tempo parziale per il perseguimento di finalità non istituzionali.

2. Esenzione dagli obblighi contributivi.

Secondo Sez. L, n. 8211, Rv. 630024, est. Bandini, l'esenzione dall'assicurazione obbligatoria per la disoccupazione opera, per il personale dipendente delle aziende esercenti pubblici servizi, solo nel caso in cui al medesimo sia garantita la stabilità d'impiego, che, ove non risultante da norme regolanti lo stato giuridico ed il trattamento economico, deve essere accertata dal Ministero competente su domanda del datore di lavoro, con decorrenza dalla data di tale domanda.

3. Benefici contributivi.

3.1. Lavori socialmente utili.

In tema di lavori socialmente utili, Sez. L, n. 15359, Rv. 632547, est. Tria, ha ritenuto che non può essere riconosciuto il beneficio del contributo aggiuntivo a fondo perduto previsto dall'art. 12, comma 5, del d.lgs. 1 dicembre 1997, n. 468, ai lavoratori che hanno già maturato i requisiti contributivi per la pensione di anzianità al momento della domanda, sebbene non anche quelli pensione di vecchiaia, poiché tale norma prevede, a favore dei lavoratori socialmente utili cui manchino meno di cinque anni al raggiungimento dei requisiti per il pensionamento (di anzianità o di vecchiaia) e dietro proseguimento volontario della contribuzione, una sola ipotesi di attribuzione del beneficio, che si configura quale misura straordinaria diretta a consentire a tale categoria di raggiungere un trattamento pensionistico e non anche un trattamento migliore rispetto a quello a cui avevano diritto al momento della domanda. La pronuncia si pone in contrasto con la precedente della medesima sezione (n. 14635 dell'11 giugno 2013, Rv. 617235) secondo la quale l'art. 12 del d.lgs.1°dicembre 1997, n. 468 prevedeva, nella sua originaria formulazione, la concessione di un contributo a fondo perduto solo a fronte dell'onere relativo al proseguimento volontario della contribuzione, la cui finalità era certamente quella di favorire il raggiungimento dei benefici pensionistici, rendendo in parte indenne l'assicurato dai costi sopportati, ma il d.l. 8 aprile 1998, n. 78 ha aggiunto un'ulteriore ipotesi a quella già prevista, ammettendo l'assicurato al contributo anche nel caso di erogazione anticipata del trattamento relativo all'anzianità maturata, per corrispondere alla esigenza di compensare il lavoratore per la percezione di una pensione che, essendo anticipata, è correlata ad una minore contribuzione.

3.2. Lavoratori esposti all'amianto.

Ha ritenuto Sez. L, n. 18008, Rv. 632294, est. Ghinoy, che in tema di benefici previdenziali ai sensi dell'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, gli atti di indirizzo, emanati dal Ministero del Lavoro in forza dell'art. 18, comma 8, della legge 31 luglio 2002, n. 179, per dettare all'INAIL le linee guida generali in materia di maggiorazione contributiva per l'esposizione all'amianto, hanno efficacia presuntiva ai fini della prova dell'esposizione qualificata anche ai fini della concessione della rendita per asbestosi, trattandosi anch'essa di patologia determinata da esposizione ad amianto.

Secondo Sez. L, n. 9457, Rv. 630445, est. Marotta, ai fini della determinazione del periodo di esposizione all'amianto, rilevante per fruire del beneficio di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, sono computabili le cosiddette pause fisiologiche del rapporto, quali quelle dovute a permessi, festività e ferie, mentre non sono utili i periodi di sospensione riferibili ad un singolo lavoratore, in relazione a condizioni soggettive o a particolari vicende del rapporto di lavoro, con la conseguenza che vanno esclusi, ove siano stati di durata significativa ed abbiano comportato in concreto, a cagione del loro protrarsi e dell'eventuale prossimità ad altre sospensioni della prestazione lavorativa, l'effettivo venire meno del rischio tutelato, i periodi in cui il lavoratore è stato assente per malattia e in dipendenza da un infortunio sul lavoro. Nella materia in oggetto, Sez. L, n. 16592, Rv. 632331, est. Marotta, ha affrontato una problematica di natura processuale ricorrente, affermando che nella causa introdotta dal lavoratore per ottenere l'accertamento giudiziale del diritto alla rivalutazione, ai fini pensionistici, del periodo lavorativo nel quale è stato esposto all'amianto, ai sensi dell'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (come modificato dall'art. 1, comma 1, del d.l. 5 giugno 1993, n. 169, conv. in legge 4 agosto 1993, n. 271), l'unico soggetto legittimato a stare in giudizio è l'INPS, difettando l'INAIL della legittimatio ad causam, in quanto soggetto del tutto estraneo al rapporto, di natura previdenziale, che dà titolo alla proposta domanda. La Suprema Corte ha affermato il suddetto principio, ribadendo un orientamento espresso da Sez. L n. 8937 del 2002, Rv. 555184, ed evidenziando che il beneficio dell'accredito figurativo è diretto ad assicurare una più rapida acquisizione dei requisiti contributivi utili per ottenere le prestazioni pensionistiche dell'assicurazione generale obbligatoria e non a facilitare l'accesso alle diverse prestazioni oggetto del regime assicurativo a carico dell'INAIL.

3.3. Lavoratori esposti a rischio chimico.

Secondo Sez. 6 L, n. 7450, Rv. 630193, est. Blasutto, l'art. 3, comma 133, della legge 24 dicembre 2003 n. 350, nel riconoscere benefici previdenziali anche ai lavoratori esposti a rischio chimico da cloro, nitro e ammine, dello stabilimento ex Acna di Cengio, rinvia alla legge 27 marzo 1992, n. 257, anche in ordine al coefficiente di rivalutazione, nella misura pari all'11,25 per cento introdotta dall'art. 47 comma 1, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. in legge 24 novembre 2003, n. 326, dovendosi considerare che il beneficio decorre dall'anno 2004 e, dunque, da epoca successiva alla modifica della legge del 1992 ad opera di quella del 2003.

4. Sgravi.

4.1. Sgravi in favore delle imprese artigiane.

Ha affermato Sez. 6 L, n. 7895, Rv. 630094, est. Pagetta, che il beneficio contributivo in favore delle imprese artigiane e di quelle operanti in circoscrizioni che presentino un rapporto tra iscritti alla prima classe delle liste di collocamento e popolazione residente in età di lavoro superiore alla media nazionale, previsto dall'art. 8, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, può essere riconosciuto unicamente ove concorrano i due requisiti dell'ubicazione delle imprese nell'ambito territoriale indicato e della residenza dei lavoratori nella medesima circoscrizione, dovendosi ritenere che solo tale interpretazione della norma sia coerente con la finalità di rendere occupati i disoccupati di quelle circoscrizioni particolarmente colpite dal fenomeno della disoccupazione, e non anche i disoccupati di altre zone.

4.2. Premi dovuti dalle aziende industriali all'INAIL.

La Corte, in materia di premio dovuto dalle aziende industriali all'INAIL, ai sensi dell'art. 27, primo comma, del d.P.R. 30 giugno 1964, n. 1125, ed ai fini della fruizione dello sgravio contributivo di cui all'art. 14 della legge 2 maggio 1976, n. 183, la cui spettanza è condizionata al requisito di novità dell'azienda, nel caso di spostamento dell'attività in un nuovo stabilimento, ha affermato - Sez. L, n. 477, Rv. 630278, est. Tricomi - che deve aversi riguardo all'azienda in senso oggettivo, senza tenere conto della variazione intervenuta nella titolarità dell'impresa, ma accertando se si tratti di un'impresa effettivamente nuova o di un'impresa derivata - anche solo parzialmente - da un'impresa preesistente, per la cui individuazione assume rilevanza la presenza di significativi elementi di permanenza della preesistente struttura aziendale - o di parti di essa o, comunque, di elementi aziendali funzionalmente collegati - e una sostanziale continuità nell'esercizio dell'impresa, dovendosi escludere, ove invece assuma rilievo il parametro dell'incremento occupazionale, che ne ricorrano i presupposti qualora, malgrado l'assunzione ex novo di personale da parte dell'imprenditore acquirente, il numero complessivo degli occupati non risulti aumentato.

4.3. Agevolazioni per l'incremento occupazionale.

In tema di sgravi contributivi alle imprese industriali operanti nel Mezzogiorno, Sez. L, n. 16246, Rv. 631892, est.Venuti, ha precisato che l'individuazione dei soggetti destinatari dei benefici va operata alla stregua della legislazione d'incentivazione (legge 25 ottobre 1968 n. 1089, applicabile ratione temporis), che si pone in rapporto di specialità rispetto alle successive norme relative all'inquadramento delle imprese ai fini previdenziali (art. 49 della legge 9 marzo 1989, n. 88), sicché, per accertare il carattere industriale della attività, rileva la definizione dell'art. 2195 n. 1 cod. civ, ai sensi del quale è industriale l'attività produttiva non solo di beni ma anche di servizi, purchè finalizzata alla costituzione di una nuova utilità.

Nel medismo ambito, poi, Sez. L, n. 11379, Rv. 630915, est. Berrino, ha precisato che gli sgravi contributivi previsti dall'art. 3, comma 5, legge 23 dicembre 1998, n. 448 (applicabile ratione temporis) hanno lo scopo di favorire lo sviluppo delle imprese operanti nel Mezzogiorno e l'effettiva occupazione di nuovi dipendenti, per cui è condizione per il loro riconoscimento, ai sensi dell'art. 3 comma 6, lett. d) della citata legge, che le aziende operanti in tali territori abbiano realizzato l'effettiva creazione di nuovi posti di lavoro, eccedenti rispetto al personale già occupato nelle stesse attività al 31 dicembre dell'anno precedente. Secondo la medesima pronuncia, non ricorre il requisito dell'effettivo incremento occupazionale ove l'impresa, senza creare nuovi posti di lavoro, si sia limitata a succedere nei rapporti lavorativi, non a rischio, facenti capo ad un'altra azienda.

Si è anche aggiunto - Sez. L, n. 9390, est. Arienzo, Rv. 630440 - che, con riguardo agli sgravi contributivi, di cui all'art. 3, comma 6, della legge 23 dicembre 1998 n. 448 ed all'art. 44, comma 1, della legge 23 dicembre 2001, n. 448, l'incremento occupazionale, sulla base delle raccomandazioni 1996/280/CE e 2003/361/CE, deve essere realizzato con riferimento alla media dei lavoratori dell'impresa occupati nei dodici mesi precedenti l'assunzione di nuova forza lavoro, tenendo presente che il numero dei posti di lavoro corrisponde - secondo le indicazioni comunitarie - al numero di unità lavorative annue (ULA). Ne consegue che nel calcolo dei lavoratori in forza all'azienda, ai fini della media per unità lavorativa annua, sono compresi i lavoratori a tempo pieno, quelli a tempo parziale in proporzione all'orario svolto, quelli con contratto stagionale in frazioni di unità lavorativa annua e i lavoratori in cassa integrazione, dovendosi applicare, nel caso di cifre decimali, l'arrotondamento - per eccesso o per difetto, a seconda che la frazione sia superiore o inferiore a 50 - alla contabilizzazione dei lavoratori che hanno lavorato a tempo parziale, e non al risultato che si otterrebbe per effetto della sottrazione dalla nuova forza lavoro di quella precedente necessaria per determinarne l'aumento.

Per la fruizione dei benefici previsti dall'art. 8, comma 9, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, è necessario, peraltro, secondo Sez. L, n. 9872, Rv. 630760, est. Doronzo, che il datore di lavoro abbia assunto lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o che abbiano fruito, per il medesimo periodo, del trattamento straordinario di integrazione sa- lariale, con richiesta nominativa dall'apposita lista stilata, ai sensi del d.m. 22 marzo 1991, n. 1557, dall'ufficio regionale del lavoro, in quanto lo stato di disoccupazione deve essere non solo reale, ma altresì certificato dall'iscrizione in tale lista, che conferisce certezza alla perduranza di tale stato per il tempo richiesto dalla norma. La portata del beneficio, nella parte ove l'art. 8, comma 9, ultima parte, cit., stabilisce che non sono dovuti i contributi previdenziali e assistenziali per un periodo di trentasei mesi "nelle ipotesi di assunzioni di cui al presente comma effettuate da imprese operanti nei territori del Mezzogiorno di cui al testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1978, n. 218", non si estende - Sez. L, Sentenza n. 17447, Rv. 631910, est. Tria - in quanto norma di stretta interpretazione, anche alle imprese operanti nelle aree svantaggiate del Centro-Nord, come individuate, anno per anno, con decreto del Ministero del Lavoro, nel cui novero il d.m. 25 luglio 1997 ha compreso anche Roma, mentre è sicuramente applicabile alle imprese operanti nei "comuni della provincia di Roma compresi nella zona della bonifica di Latina", poichè espressamente contemplati dall'art. 1 del d.P.R. n. 218 del 1978.

4.4. Sgravi contributivi e fiscalizzazione degli oneri sociali.

Secondo Sez. L n. 17179, Rv. 632652, est. Tria, gli sgravi contributivi, previsti in favore delle imprese operanti nel Mezzogiorno, sono finalizzati a favorire l'aumento dell'occupazione in un determinato territorio, mentre la fiscalizzazione degli oneri sociali, quale beneficio di carattere generale, non è attribuito su base territoriale, con la conseguenza che l'estensione incondizionata del diritto agli sgravi contributivi, previsto dall'art. 3, comma 4, del d.l. 30 dicembre 1987, n. 536, convertito dalla legge 29 febbraio 1988, n. 48, alle società cooperative operanti nel Mezzogiorno, a fronte del riconoscimento alle stesse, qualora vengano assicurati trattamenti economici non inferiori a quelli previsti dalla contrattazione collettiva, del diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali, ai sensi del d.l. 7 febbraio 1977, n. 15, convertito dalla legge 7 aprile 1977, n. 102, alle medesime condizioni prescritte per tutti gli altri datori di lavoro, risponde a criteri di ragionevolezza ed è coerente con i principi della disciplina comunitaria.

In materia di fiscalizzazione degli oneri sociali, Sez. L, n. 26601, in corso di massimazione, est. Napoletano, ha riaffermato il principio secondo il quale le imprese industriali appartenenti ad un settore privo di contrattazione collettiva possono godere del beneficio in esame, previsto dall'art. 6 del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito nella legge 7 dicembre 1989, n. 389, a condizione che osservino l'onere di corrispondere ai propri dipendenti retribuzioni non inferiori a quelle previste dalla legge e dai contratti collettivi applicabili per i dipendenti di imprese similari.

La Corte - Sez. L, n. 26306, in corso di massimazione, est. Bandini - ha inoltre affermato che in ipotesi di una pluralità di attività (manifatturiere e non) svolte da una medesima impresa, condizione per la fruizione del beneficio della fiscalizzazione degli oneri sociali è la prevalenza dell'attività manifatturiera rispetto all'insieme di tutte le attività svolte dalla medesima impresa.

4.5. Sgravio capitario ex art. 4, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449.

Nella materia in oggetto è stato segnalato un contrasto giurisprudenziale, in quanto, secondo Sez. L n. 12552 Rv. 631038, est. Berrino, per l'accesso allo sgravio capitario di cui all'art. 4, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, come modificato dall'art. 3, comma 4, lett. a) della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è necessario che le imprese abbiano già beneficiato del contributo generale, previsto dall'art. 27, comma 1, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito nella legge 28 febbraio 1997, n. 30, riguardante i lavoratori occupati alla data del 1° dicembre 1997, e che abbiano assunto i lavoratori successivamente alla predetta data a seguito di turn over, esclusi i licenziamenti effettuati nei dodici mesi precedenti all'assunzione. Secondo tale pronuncia, che ha privilegiato la interpretazione letterale del dato normativo, la fruizione di tale sgravio capitario presuppone la presenza di manodopera effettivamente occupata alla data del 1° dicembre 1997, cui abbia fatto seguito l'avvicendamento, per turn over, di altri lavoratori per mantenere il livello occupazionale, mentre il beneficio non spetta in caso di assunzione di nuovi lavoratori, in mancanza di manodopera alla data suddetta. Il principio di diritto richiamato, con specifico riferimento al significato da attribuire alla locuzione "imprese già beneficiarie dello sgravio contributivo generale", contenuta nell'art. 4 comma 17 della legge n. 449 del 1997, si pone in contrasto con l'orientamento espresso da Sez. L n. 3036, Rv. 630392, est. Bandini, secondo cui tale espressione, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata e, alla luce della effettiva intenzione del legislatore, deve intendersi riferita alle imprese aventi i requisiti per usufruire, in astratto, dello sgravio generale e non a quelle che ne avessero in concreto già beneficiato. Quest'ultimo orientamento, infatti, afferma che il termine " beneficiano" contenuto nella disposizione in esame non ha un significato univoco, potendosi riferire non solo al soggetto che abbia già goduto del beneficio, ma anche a quello a vantaggio del quale tale beneficio sia stato previsto, pur in assenza di una successiva concreta fruizione dello stesso. Tale ultima pronuncia ha evidenziato - peraltro - che laddove il legislatore avesse voluto effettivamente limitare la concessione del beneficio alle sole imprese già beneficiarie dello sgravio generale, avrebbe utilizzato una diversa e più specifica locuzione.

5. Accertamento e riscossione dei crediti contributivi.

In tema di iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali, Sez. L, n. 8379, Rv. 630243, est. Napoletano, ha affermato che l'art. 24 comma 3, del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, ai sensi del quale non sono iscrivibili a ruolo i crediti previdenziali sino a quando non vi sia il provvedimento esecutivo del giudice, qualora l'accertamento su cui la pretesa creditoria si fonda sia impugnato davanti alla autorità giudiziaria, va interpretato nel senso che l'accertamento, cui la norma si riferisce, non è solo quello eseguito dall'ente previdenziale, ma anche quello operato da altro ente pubblico come l'Agenzia delle Entrate; né è necessario, ai fini della non iscrivibilità a ruolo, che, in quest'ultima ipotesi, l'INPS sia messo a conoscenza della impugnazione dell'accertamento innanzi al giudice tributario. La pronuncia è di particolare rilievo, in quanto non constano precedenti della giurisprudenza di legittimità sulla interpretazione dell'art. 24 comma 3 del d.lgs. n. 46 del 1999.

Ha affermato Sez. L, n. 18034, Rv. 632607, est. Tria, che l'art. 3 comma 20, della legge 8 agosto 1995, n. 335, come modificato dall'art. 3 del d.l. 14 giugno 1996, n. 318, conv. in legge 29 luglio 1996, n. 402, secondo il quale, nel caso di attestata regolarità risultante da accertamenti ispettivi, ovvero di regolarizzazione conseguente all'accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi e contributivi relativi ai periodi di paga anteriori alla data dell'accertamento medesimo non possono essere oggetto di contestazioni in successive verifiche ispettive, si applica agli accertamenti effettuati successivamente alla sua entrata in vigore, pur se relativi a periodi contributivi precedenti, in quanto l'attestazione di regolarità di un accertamento ispettivo incontra limitazioni, sicché la documentazione presa in considerazione in detta sede non può essere riesaminata e rimessa in discussione, se non risultano nuovi elementi sopravvenuti (tra i quali possono includersi le denunce del lavoratore).

Secondo Sez. L, n. 12631, Rv. 631031, est. D'Antonio, in tema di riscossione mediante ruolo, i termini di decadenza per la notifica della cartella di pagamento previsti dall'art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come modificato dal d.l. 17 giugno 2005, n.106, convertito in legge 31 luglio 2005, n. 156, non sono applicabili ai crediti degli enti previdenziali, in quanto l'art. 18 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, pur prevedendo l'estensione delle disposizioni di cui al capo II del titolo I e del titolo II del d.P.R. n. 602 del 1973 anche alle entrate riscosse mediante ruolo a norma dell'art. 17, tra cui rientrano anche i crediti degli enti previdenziali, fa salvo quanto previsto dagli articoli seguenti e, dunque, anche dagli artt. 24 e 25 del citato decreto legislativo che, con riferimento a tali crediti, dettano una disciplina speciale per l'iscrizione a ruolo e la relativa opposizione.

Ha affermato Sez. L, n. 18208, Rv. 632295, est. Patti, che in materia di opposizione a cartella di pagamento per crediti contributivi, il richiamo, effettuato dall'art. 24, comma 6, d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, all'art. 442, primo comma, cod. proc. civ., che a sua volta richiama il capo I del titolo IV del libro II del codice di rito, comporta l'applicabilità delle disposizioni in materia di impugnazioni, sicché avverso la sentenza pronunciata all'esito del giudizio di opposizione è esperibile l'appello.

6. Prescrizione dei crediti contributivi.

In materia di prescrizione dei crediti contributivi dovuti agli enti previdenziali dai lavoratori e dai datori di lavoro, relativi ai periodi anteriori all'entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335 (che ha ridotto il termine prescrizionale da dieci a cinque anni) e per i quali, a tale data, non sia ancora integralmente maturato il quinquennio dalla scadenza, sono intervenute le Sezioni Unite, affermando, con sentenza n. 15296, Rv. 631287, est. Nobile, che il precedente termine decennale di prescrizione può operare solo nel caso in cui la denuncia prevista dall'art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995 sia intervenuta nel corso del quinquennio dallo loro scadenza.

La pronuncia ha risolto il contrasto giurisprudenziale sollevato con ordinanza interlocutoria n. 17274 del 2013. Nella giurisprudenza di legittimità era, infatti, per lungo tempo prevalsa l'opzione interpretativa sostenuta da Sez. L, n. 4153 del 2006, Rv. 587455, secondo cui, in relazione ai contributi per i quali il quinquennio dalla scadenza fosse integralmente maturato anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 335 del 1995, la denuncia del lavoratore era da considerarsi idonea a mantenere il precedente termine decennale solo qualora fosse intervenuta prima, ovvero comunque entro il 31.12.1995, analogamente a quanto previsto per gli atti interruttivi dall'ente previdenziale. Quanto agli altri contributi, parimenti dovuti per periodi anteriori alla entrata in vigore della legge, ma per i quali, a quest'ultima data, il quinquennio dalla scadenza non fosse integralmente maturato, il termine decennale avrebbe potuto ritenersi operante, secondo tale tesi, solo a seguito di una denuncia intervenuta nel corso del quinquennio dalla data della loro scadenza. L'orientamento richiamato era stato confermato dalla successiva giurisprudenza (Sez. L, n. 73 del 2009, Rv. 607015; Sez. L, n. 29479 del 2008, Rv. 606235; Sez. L n. 948 del 2012, Rv. 620901; Sez. L, n. 2417 del 2012, Rv. 621216).

In contrasto con tale orientamento, si era pronunciata Sez. L, n. 12422 del 2013, Rv. 628158, secondo la quale, ai fini dell'operatività del termine decennale di prescrizione, la denuncia da parte del lavoratore deve essere proposta nel termine di cinque anni a decorrere dal 1° gennaio 1996 e comunque nei limiti del decennio dalla nascita del diritto a contribuzione e non, come affermato dalle precedenti pronunce della Corte, nel termine quinquennale dalla scadenza di contributi. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 15296 citata, hanno risolto il contrasto nel senso indicato, ribadendo il primo orientamento e dando rilievo alla sussistenza della netta cesura tra il vecchio e il nuovo regime, "con effetti estintivi automatici sugli interessi contrapposti considerati dalla norma", ovvero da un lato quello dell'ente creditore alla riscossione dei contributi, dall'altro quello del lavoratore assicurato alla tutela della propria posizione previdenziale "e con decorrenza dal 1° gennaio 1996 della introduzione del nuovo termine ridotto, con "effetto annuncio" idoneo a salvaguardare gli interessi sia dell'istituto previdenziale sia del lavoratore".

In materia di prescrizione è intervenuta anche Sez. L, n. 21830, Rv. 632887, est. Arienzo, affermando il principio secondo il quale nella materia previdenziale, a differenza che in quella civile, il regime della prescrizione già maturata è sottratto, ai sensi dell'art. 3, comma 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, alla disponibilità delle parti anche per le contribuzioni relative a periodi precedenti l'entrata in vigore della nuova normativa e con riferimento a qualsiasi forma di previdenza obbligatoria, con la conseguenza che, una volta esaurito il termine, la prescrizione ha efficacia estintiva (non già preclusiva) - poiché l'ente previdenziale creditore non può rinunziarvi - , opera di diritto ed è rilevabile d'ufficio, senza che l'assicurato abbia diritto a versare contributi previdenziali prescritti e ad ottenere la retrodatazione dell'iscrizione alla Cassa (nella specie, dei dottori commercialisti) per il periodo coperto da prescrizione. La Suprema Corte, nella medesima pronuncia, ha precisato che non rileva l'eventuale inerzia della Cassa nel provvedere al recupero delle somme corrispondenti alle contribuzioni, in quanto il credito contributivo ha una sua autonoma esistenza, che prescinde dalla richiesta di adempimento avanzata dall'ente previdenziale, ed insorge nello stesso momento in cui si perfeziona il rapporto (o, comunque, l'attività) di lavoro, che ne costituisce il presupposto, e da cui decorre il termine prescrizionale dello stesso credito contributivo.

6.1. Decorrenza della prescrizione.

Ha ritenuto Sez. L, n. 4981, Rv. 630395, est. Arienzo, che in materia contributiva previdenziale, la legge 8 agosto 1995, n. 335, ha unificato la durata dei termini di prescrizione dei contributi previdenziali, ma non anche le regole in ordine alla decorrenza dei medesimi. Ne consegue che, con riferimento alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri, trova ancora applicazione l'art. 19 della legge 20 ottobre 1982, n. 773, secondo cui la prescrizione decorre dalla data di trasmissione alla Cassa, da parte dell'obbligato, della comunicazione della dichiarazione dei redditi e del volume d'affari di cui all'art. 17 della medesima legge.

6.2. Atti interruttivi della prescrizione.

Secondo Sez. L, n. 14167, Rv. 631344, est. Bandini, in tema di prescrizione del diritto ai contributi di previdenza ed assistenza obbligatoria, la domanda di condono previdenziale non costituisce riconoscimento del debito e non è idonea ad interrompere la prescrizione, indipendentemente dall'avvenuta apposizione o meno della clausola di ripetizione, che opera soltanto nell'ipotesi in cui la domanda di condono sia stata accolta e la conseguente obbligazione sia stata adempiuta.

7. Omissione ed evasione contributiva.

La Corte, con Sez. L n. 16093, Rv. 631901, est. Mancino, ha ritenuto che ai fini dell'obbligazione contributiva, il principio di irretroattività tempus regit actum, applicabile solo con riferimento alle disposizioni legislative in base alle quali la contribuzione è dovuta, senza che assuma rilievo l'eventuale interpretazione della giurisprudenza successivamente al mancato o ritardato versamento dei contributi, si estende anche all'obbligo relativo alle somme aggiuntive che il datore di lavoro è tenuto a versare, in quanto esso costituisce una conseguenza automatica dell'inadempimento o del ritardo, in funzione di rafforzamento dell'obbligazione contributiva e predeterminazione legale del danno cagionato all'ente previdenziale. Ne consegue che - anche nel caso in cui l'omissione sia indotta da interpretazioni giurisprudenziali o amministrative più favorevoli allo stesso debitore - resta preclusa ogni indagine sull'elemento soggettivo del debitore della contribuzione al fine di escludere o ridurre l'obbligo.

7.1. Sanzioni civili e somme aggiuntive.

Ha ritenuto Sez. L, n. 2643, Rv. 630393, est. Ghinoy, che l'esonero dal pagamento delle somme aggiuntive, delle maggiorazioni e degli interessi legali previsto dall'art. 1, comma 219 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, è applicabile alle sole amministrazioni centrali e periferiche dello Stato e agli enti locali. Ne consegue che dall'ambito di applicazione dell'esonero sono escluse le Aziende Sanitarie Locali, in quanto non ricomprese in alcuna delle due categorie delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato e degli enti locali territoriali, non costituendo la loro esclusione- in conformità a quanto affermato dalla Corte costituzionale (ordinanza n.49 del 2013)- violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Con riferimento alla fattispecie esaminata dalla Suprema Corte nella sentenza richiamata non risultano precedenti della giurisprudenza di legittimità.

In tema di sanzioni per omesso o ritardato versamento di contributi previdenziali, Sez. L n. 8079, Rv. 630501, est. Manna, ha ritenuto che le somme percepite da una Fondazione di diritto privato per le prestazioni sanitarie somministrate in convenzione nell'ambito del Servizio Sanitario Nazionale non rientrano nella nozione di "contributi e finanziamenti pubblici previsti per legge o convenzione", di cui all'art. 1. comma 221, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, la cui ritardata erogazione giustifica la riduzione, al tasso di interesse legale, delle sanzioni civili dovute.

Nella materia in esame deve - inoltre - segnalarsi che, con ordinanza interlocutoria n. 7569 del 1° aprile 2014, la Sezione Lavoro della Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza avente ad oggetto l'efficacia, con riferimento agli accessori, dell'atto interruttivo posto in essere in relazione alla sorte capitale.

Nella giurisprudenza della sezione lavoro e, in generale, nelle pronunce rese in materia di somme aggiuntive ed interessi dalle sezioni civili e tributaria, non è ravvisabile, infatti, un orientamento uniforme sulla questione in oggetto, avendo alcune pronunce ritenuto che l'atto interruttivo della prescrizione posto in essere con riferimento al credito principale si estenda automaticamente agli accessori di esso, e, quindi, alle somme aggiuntive e agli interessi (in tal senso Sez. L, n. 8814 del 2008, Rv. 602854, Sez L, n. 7045 del 1993, Rv. 482915) ed emergendo da altre pronunce, il contrario orientamento, secondo il quale gli atti interruttivi della prescrizione. posti in essere con riferimento al capitale non avrebbero efficacia con riferimento agli accessori di esso, quali ad esempio, gli interessi e le somme aggiuntive (Sez. 1 n. 23746 del 2007, Rv. 600784, Sez. 1 n. 12140 del 2006, Rv. 590448, Sez. 1 n. 2498 del 1998, Rv. 513420, Sez. 5 n. 13080 del 2011, Rv. 618374 e Sez. 3 n. 7127 del 2013, Rv. 625545).

7.2. Reintegrazione del lavoratore, obblighi contributivi e sanzioni.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 19665, Rv. 631875, est. Amoroso, hanno affermato che in tema di reintegrazione del lavoratore per illegittimità del licenziamento, ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, anche prima delle modifiche introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (nella specie, inapplicabile ratione temporis), occorre distinguere, ai fini delle sanzioni previdenziali, tra la nullità o inefficacia del licenziamento, che è oggetto di una sentenza dichiarativa, e l'annullabilità del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, che è oggetto di una sentenza costitutiva: nel primo caso, il datore di lavoro, oltre che ricostruire la posizione contributiva del lavoratore "ora per allora", deve pagare le sanzioni civili per omissione ex art. 116, comma 8, lett. a, della legge 23 dicembre 2000, n. 388; nel secondo caso, il datore di lavoro non è soggetto a tali sanzioni, trovando applicazione la comune disciplina della mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, fermo che, per il periodo successivo all'ordine di reintegra, sussiste comunque l'ordinario obbligo di versare i contributi periodici, oltre al montante degli arretrati, sicché riprende vigore la disciplina ordinaria dell'omissione e dell'evasione contributiva.

La pronuncia ha risolto il contrasto delineatosi nella giurisprudenza di legittimità, che era divisa tra la tesi per cui la fictio iuris di continuità del rapporto, istituita per effetto dell'ordine di reintegrazione del lavoratore pronunciato con sentenza dichiarativa della ille- gittimità del licenziamento, avrebbe dovuto ritenersi operante soltanto per il rapporto di lavoro e la tesi che, viceversa, aveva ritenuto di estendere tale finzione al rapporto assicurativo, con le relative conseguenze in tema di applicazione delle sanzioni civili (illegittima alla luce del primo orientamento e legittima per il secondo).

8. Condono e sanatoria.

Ha affermato Sez. L n. 21579, est. Amendola, Rv. 632804, che, in tema di condono previdenziale, l'art. 81, comma 9, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, norma di portata retroattiva ed applicabile a tutte le domande di condono, attribuisce al soggetto il quale, contemporaneamente a detta domanda, abbia proposto riserva di ripetizione, la possibilità di ottenere l'accertamento negativo in fase contenziosa della sussistenza del relativo debito, con la conseguenza che, in presenza di detta riserva, è preclusa una declaratoria di cessazione della materia del contendere, dovendo il giudice di merito decidere circa la sussistenza dell'obbligazione contributiva dedotta in giudizio.

9. Tutela del lavoratore in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali.

Sez. L n. 2630, Rv. 630373, est. Tria, ha affermato che nel caso di omissione contributiva, sussiste l'interesse del lavoratore ad agire per il risarcimento del danno ancor prima del verificarsi degli eventi condizionanti l'erogazione delle prestazioni previdenziali. In tal caso il lavoratore può proporre la domanda di condanna generica, ammissibile anche nel rito del lavoro, per accertare la potenzialità dell'omissione contributiva a provocare danno, salva poi la facoltà di esperire, al momento del prodursi dell'evento dannoso (coincidente, in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali, con il raggiungimento dell'età pensionabile), l'azione risarcitoria ex art. 2116, secondo comma, cod. civ., oppure quella diversa, in forma specifica, ex art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338.

Secondo Sez. L, n. 19398, Rv. 632322, est. Buffa, l'interesse del lavoratore al versamento dei contributi previdenziali di cui sia stato omesso il pagamento integra un diritto soggettivo alla posizione assicurativa, che non si identifica con il diritto spettante all'Istituto previdenziale di riscuotere il proprio credito, ma è tutelabile mediante la regolarizzazione della propria posizione. Con la pronuncia richiamata, la Suprema Corte, esprimendo un orientamento difforme da quello emergente da sentenze ormai risalenti nel tempo (Sez. L, n. 3144 del 1983, Rv. 428050, Sez. L n. 6070 del 1986, Rv. 448392), ha ritenuto che condizione di ammissibilità della pronuncia condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi all'ente previdenziale sia la partecipazione di quest'ultimo al giudizio instaurato dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro. La Corte è giunta a tale conclusione sulla base del principio generale della esclusione dei provvedimenti nei confronti del terzo e del carattere eccezionale della condanna a favore del terzo (di cui è esempio, nella materia del lavoro, la condanna in favore di terzo prevista dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300).

10. Classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi INAIL.

Ha ritenuto Sez. L, n. 13868, Rv. 631634, est. Bandini, che in tema di determinazione di premi per l'assicurazione contro gli infortuni, qualora l'impresa svolga una pluralità di lavorazioni in materia di carpenteria metallica, la riconducibilità alle voci tariffarie n. 6211 e n. 6212, di cui al d.m. 18 giugno 1988, deve tenere conto che la prima riguarda le lavorazioni "con posa in opera", mentre la seconda concerne quelle "senza posa in opera", e, pertanto, non esauriscono l'ambito delle "costruzioni di carpenteria metallica e lavori in metallo". Ne consegue che, ove la lavorazione non sia espressamente riconducibile ad alcuna voce tariffaria, è necessario, in conformità all'art. 4 del d.m. cit., disporre consulenza tecnica per analizzare le operazioni fondamentali che compongono la lavorazione stessa, così da poterla inscrivere in una determinata previsione tariffaria.

11. Previdenza complementare.

Nella materia in esame sono state pronunciate dalla sezione lavoro numerose ordinanze interlocutorie (n. 7440 del 28.3.2014 + 11), in cui è stato evidenziato un contrasto di orientamenti in ordine alla natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza complementare e, quindi, in ordine alla computabilità dei medesimi ai fini del trattamento di fine rapporto e della indennità di anzianità, limitatamente al periodo precedente alla riforma della previdenza integrativa attuata con il d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124.

Per il periodo successivo al d.lgs. n.124 del 1993 è - infatti - pacifica la natura previdenziale dei versamenti datoriali alla previdenza complementare, avendo la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 421 del 1995, sul punto affermato che, a seguito di tale intervento legislativo (in virtù del quale si è realizzato il pieno inserimento della previdenza complementare nel sistema dell'art. 38 Cost.) "le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi "emolumenti retributivi con funzione previdenziale", ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile ai sensi e per gli effetti dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969, potendo (e dovendo) formare oggetto soltanto di un contributo di solidarietà alla previdenza pubblica, il quale non è un contributo previdenziale in senso tecnico".

Il contrasto che le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere è stato sollevato in relazione ad un primo orientamento, fatto proprio da Sez. L, 12 gennaio 2011, n. 545, Rv. 616071, secondo il quale, in ordine alla natura giuridica dei versamenti effettuati dal datore di lavoro dovrebbero richiamarsi i principi enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza Sez. U, n. 974 del 1994, Rv. 502147, che ha sostenuto la natura retributiva, sia pure con funzione previdenziale, dei medesimi, ritenendo che i trattamenti pensionistici integrativi, erogati a seguito della costituzione di fondi speciali previsti dalla contrattazione collettiva, abbiano natura di debiti di lavoro, anche se esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro. La natura retributiva dei trattamenti pensionistici integrativi, secondo tale orientamento, si rifletterebbe sulla natura dei versamenti effettuati in favore dei fondi, rendendoli computabili ai fini del trattamento di fine rapporto e della indennità di anzianità.

Secondo altro orientamento, espresso da Sez. L, 5 giugno 2012, n. 9016, non massimata, in contrasto con le Sezioni Unite, anche con riferimento al periodo antecedente alla riforma della previdenza complementare del 1993, ai versamenti effettuati in favore di fondi di previdenza non può essere attribuita natura retributiva, per la ragione che tali versamenti non erano corrisposti in favore dei lavoratori, ma direttamente al fondo. A tale conclusione, la Suprema Corte è giunta anche sulla base del regime contributivo-previdenziale di tali fondi, che, a seguito della legge 1° giugno 1991 n. 166, sono stati esclusi dalla contribu- zione ordinaria ed assoggettati solo ad un contributo di solidarietà in misura del 10% in favore delle gestioni pensionistiche di legge cui erano iscritti i lavoratori.

Tale pronuncia è giunta alla conclusione che le somme versate dai datori di lavoro ai fondi di previdenza integrativa e complementare non debbano computarsi né nella indennità di anzianità (maturata sino al maggio 1982), né nel trattamento di fine rapporto, senza alcuna distinzione tra periodo antecedente e periodo successivo alla riforma della previdenza complementare.

La questione rimessa alle Sezioni Unite (per la cui decisione è stata fissata la udienza del 16 dicembre 2014) è di particolare importanza, implicando una opzione ermeneutica che involge in generale il ruolo della previdenza complementare all'interno del sistema previdenziale complessivo e la sua riconducibilità alle forme di previdenza privata (art. 38 Cost., quinto comma) o di previdenza pubblica di base (art. 38 Cost., secondo comma).

11.1. Portabilità e riscatto.

Risulta fissata per la medesima udienza del 16 dicembre 2014, la decisione della questione sollevata con ordinanza interlocutoria n. 1774 del 2014, che ha evidenziato un contrasto all'interno della Sezione Lavoro sulla questione relativa alla configurabilità del diritto alla portabilità o al riscatto della posizione previdenziale, ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124, da un fondo c.d. "a prestazione definita" (che si avvale del meccanismo della ripartizione, preesistente alla riforma della previdenza complementare, ad un fondo a capitalizzazione individuale).

Secondo un primo orientamento, fatto proprio da Sez. L n. 17657 del 2002, Rv. 559160, e da Sez. L, n. 13111 del 2007, Rv. 597232, le tre opzioni stabilite dall'art. 10, d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124 (trasferimento del capitale accumulato ad un altro fondo "chiuso", trasferimento ad un fondo "aperto", riscatto) in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto senza maturazione del diritto a pensione in epoca successiva alla entrata in vigore della legge stessa, si applicano all'intera posizione individuale, che comprende tutti gli accantonamenti previsti dall'art. 8 di detto decreto, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro, effettuati anche in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993, per i "fondi a capitalizzazione" preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti dei fondi prevedano modalità di rimborso dei capitali difformi dalla norma legale. Nel solco di tale orientamento, Sez. L, n. 26804 del 2007, Rv. 600963, ha ritenuto la applicabilità delle opzioni di cui all'art. 10 cit. anche al caso in cui i fondi preesistenti siano alimentati da versamenti a carico della parte datoriale e le loro dotazioni non siano suddivise in conti individuali.

Un diverso orientamento, emergente da Sez. L, n. 4369 del 2010, Rv. 612794, e da Sez. L, n. 18266 del 2013, Rv. 627282, ha ritenuto che qualora il fondo non preveda posizioni individuali soggette a capitalizzazione, deve escludersi la immediata applicabilità dell'art. 10 cit., le cui disposizioni si riferiscono ai nuovi fondi informati obbligatoriamente al principio della capitalizzazione individuale, laddove ai fondi preesistenti è stato demandato il compito di uniformarsi a tale principio, anche mediante adeguamenti statutari, tenendo conto delle proprie caratteristiche strutturali.

In senso difforme a tali ultime due pronunce, Sez. L, n. 7161 del 2013, Rv. 625738, ha sostenuto che, in tema di fondi previdenziali integrativi, devono considerarsi ammessi il riscatto o, in alternativa, la portabilità della posizione previdenziale, ai sensi dell'art.10 d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124, applicabile ratione temporis, da un fondo cosiddetto "a prestazione definita" ad un fondo a capitalizzazione individuale, posto che anche nell'ambito dei fondi a ripartizione è enucleabile e quantificabile una posizione individuale, secondo le metodologie di calcolo elaborate dalla statistica e dalla matematica attuariale.

Nella materia in oggetto, nel 2014 si è pronunciata Sez. L, n. 7814, Rv. 630251, est. Tria, affermando il principio secondo il quale i dipendenti della ex Cassa di risparmio di Macerata collocati in quiescenza per pensionamento volontario, ancora in servizio quando - per effetto degli Accordi sindacali del 15 novembre 1996, del 19 marzo 1997 e del 9 ottobre 1997 - si effettuò la trasformazione del Fondo Integrativo Previdenziale "a prestazione definita" in un nuovo Fondo unico aggiuntivo a capitalizzazione e "a contribuzione definita", e che avevano esercitato il previsto diritto di opzione per accedere a tale ultimo fondo, non possono vantare diritti sul precedente F.I.P. ma solo sul nuovo Fondo, salve eventuali contestazioni riguardanti la quantificazione del trattamento pensionistico integrativo loro attribuito, per erronee operazioni di calcolo sulla consistenza patrimoniale effettiva del vecchio fondo alla data stabilita sul punto dalle organizzazioni sindacali. La medesima pronuncia, Rv. 630250, ha ritenuto che in seguito alla trasformazione del Fondo Integrativo Previdenziale della ex Cassa di risparmio di Macerata, da fondo "a prestazione definita" a fondo "a contribuzione definita", ai dipendenti dell'istituto non possono essere riconosciuti diritti soggettivi sul patrimonio e sulla dotazione del fondo originario, ma soltanto il diritto alla conservazione della integrità patrimoniale di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 2117 cod. civ., in base al quale il datore di lavoro è responsabile nei confronti dei lavoratori qualora si verifichi la distrazione della consistenza patrimoniale del fondo di riferimento.

11.2. Contribuzione aggiuntiva.

In tema di contribuzione previdenziale aggiuntiva, Sez. L, n. 18666, Rv. 632875, est. Tricomi, richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 2014, ha affermato che il principio risultante dal combinato disposto dell'art. 64, comma 5, della legge 17 maggio 1999, n. 144 e della disposizione di interpretazione autentica dell'art. 18, comma 19, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111, è molto chiaro nella previsione che il contributo di solidarietà sia dovuto non solo dagli ex dipendenti sulle prestazioni aggiuntive in godimento, ma anche dai lavoratori ancora in servizio e che, in questo caso, debba essere calcolato sul "maturato" della pensione integrativa al 30 novembre 1999 e trattenuto sulla retribuzione.

Nell'enunciazione di tale principio, la Suprema Corte ha dato rilievo alla interpretazione emergente dalla citata sentenza del Giudice delle Leggi, che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, comma 19, del d.l. n. 98 del 2011, sollevata con riferimento agli artt. 3, 24, 102, 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà individuali, ha affermato che "va riconosciuta la rispondenza della impugnata disposizione interpretativa ad obiettivi di indubbio interesse generale, e di rilievo costituzionale, quali, in primo luogo, quello della certezza del diritto e, parallelamente, quelli del ripristino dell'uguaglianza e della solidarietà, all'interno del sistema di previdenza nel quale l'incremento del "maturato", per effetto della rivalutazione, sarebbe stato, altrimenti, conseguito dai dipendenti in servizio senza contribuzione alcuna, mentre la rivalutazione delle prestazioni erogate ai pensionati trovava copertura nel contributo in questione, con conseguente ingiustificata disparità di trattamento (tra iscritti ai fondi soppressi) e squilibrio finanziario nella gestione della previdenza integrativa".

12. Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti procedimentali.

12.1. Decadenza dall'azione giudiziaria.

La Corte, con Sez. L, n. 9638, Rv. 630763, est. Venuti, ha ribadito che l'azione giudiziale per il riconoscimento di prestazioni assistenziali, concernente fattispecie anteriori all'entrata in vigore dell'art. 42, comma 3, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, non è soggetta al termine di decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, come modificato dall'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438, poiché tale termine di decadenza è riferibile alle sole "controversie in materia di trattamenti pensionistici" mentre, per le controversie concernenti prestazioni assistenziali trova applicazione l'ordinario termine prescrizionale.

In materia di decadenza "sostanziale" di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 (nel testo modificato dall'art. 6 del d.l. 29 marzo 1991 n. 103, come convertito nella legge 1 giugno 1991 n. 166) ed all'art. 4 d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992 n. 438, Sez. L, n. 12878, Rv. 631653, est. Manna, ha confermato che la scadenza dei termini globalmente previsti per la definizione del procedimento amministrativo non configura una nuova ed autonoma ipotesi di decadenza, bensì completa la gamma delle varie eventualità di decorrenza del termine in presenza del comune presupposto rappresentato dall'avvenuto inoltro del ricorso amministrativo; pertanto, nell'ipotesi di mancanza di qualsiasi ricorso, il dies a quo è costituito, ai sensi della seconda parte del primo comma del citato art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, dal giorno di maturazione dei singoli ratei di prestazione. Infatti, la suddetta scadenza costituisce anche il "limite estremo" di utilità dei ricorsi presentati tardivamente, ma pur sempre anteriormente al suo verificarsi, con l'ulteriore conseguenza dell'irrilevanza di ricorsi esperiti solo successivamente, per i quali si porrà, al più, un problema di qualificazione degli stessi alla stregua di una nuova domanda amministrativa.

Secondo Sez. L, n. 7934, Rv. 630093, est. Mancino, la decadenza dall'azione giudiziaria contemplata dall'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, nel testo (applicabile ratione temporis) come sostituito dal d.l. 19 settembre 1992, n. 384, conv. in legge 14 novembre 1992, n. 438, va applicata anche alle controversie concernenti l'accertamento del diritto alla maggiorazione contributiva per esposizione all'amianto, sia nell'ipotesi in cui siano state instaurate da pensionati, sia nel caso in cui l'azione sia stata esercitata da soggetti non titolari di alcuna pensione; ciò in ragione del contenuto generale del citato art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, come successivamente modificato, che fa espresso riferimento alle "controversie in materia di trattamenti pensionistici".

12.2. Decadenza ed indennizzo del danno da emotrasfusione e vaccinazione obbligatoria.

In tema di indennizzo spettante a soggetti danneggiati da emotrasfusioni, Sez. L, n. 4051, Rv. 629787, est. Maisano, ha ritenuto che il termine triennale di decadenza per il conseguimento della prestazione indennitaria per epatite post - trasfusionale, contratta in epoca precedente all'entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238, decorre dalla data di entrata in vigore di detta normativa, dovendosi ritenere che, laddove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina (nella specie la legge n. 238 del 1997) deve trovare applicazione anche ai diritti maturati anteriormente, ma con decorrenza dall'entrata in vigore della intervenuta modifica legislativa. Tale opzione ermeneutica viene enucleata dal principio generale vigente in materia di termini e desunta dal disposto dell'art. 252 disp. att. cod. civ. Si pone in contrasto rispetto al summenzionato orientamento Sez. L, n. 10215, Rv. 630791, est. Arienzo, che, ha, al contrario, affermato l'operatività del termine decadenziale introdotto dall'art. 1, comma 9, della legge 25 luglio 1997, n. 238 solo nell'ipotesi in cui la conoscenza del danno da emotrasfusione sia intervenuta successivamente all'entrata in vigore della legge n. 238 del 1997, mentre, nel caso di conoscenza anteriore, viene ribadito che il diritto all'indennizzo è soggetto all'ordinario termine di prescrizione decennale, anche se detto termine non sia ancora interamente decorso alla data di entrata in vigore della legge, non assumendo alcun rilievo che l'eventuale periodo residuo sia maggiore o minore rispetto al termine decadenziale triennale.

L'indirizzo giurisprudenziale testé richiamato ha trovato ulteriore conferma nell'ambito del procedimento amministrativo finalizzato all'erogazione della prestazione assistenziale in favore dei soggetti danneggiati a seguito di emotrasfusioni: Sez. L, n. 7240, Rv. 630481, est. Arienzo, ha - infatti- ribadito che, anche in sede amministrativa, il termine triennale per la presentazione dell'istanza di liquidazione dell'indennizzo non può decorrere prima che l'avente diritto abbia piena cognizione del fatto lesivo. Tale principio trova applicazione anche per gli eventi dannosi verificatisi prima dell'entrata in vigore della legge 25 febbraio 1992, n. 210, con la conseguenza che il suddetto termine decorre dall'entrata in vigore della legge, esclusivamente nell'ipotesi in cui alla medesima data il soggetto interessato sia consapevole dell'esistenza del danno, anche con riferimento alla relativa eziologia.

Sempre in tema di danni da emotrasfusione, Sez. L, n. 14617, Rv. 631644, est. Arienzo, ha ribadito che, nel procedimento amministrativo relativo alla liquidazione della prestazione assistenziale, la domanda amministrativa diretta ad ottenere l'indennizzo ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210, deve contenere l'indicazione specifica della trasfusione alla quale si riferiscono le conseguenze dannose inerenti la prestazione richiesta. Tale indicazione corrisponde all'esigenza di permettere alla commissione medica ospedaliera di formulare, ai sensi dell'art. 4, comma 3, della legge n. 210 del 1992, il proprio parere in merito alla sussistenza del nesso causale tra le infermità (o lesioni) e le trasfusioni (o la somministrazione di emoderivati).

In linea con tale orientamento, sulla necessità dell'esistenza del nesso causale tra la somministrazione di un vaccino o l'effettuazione di una emotrasfusione e l'evento dannoso eventualmente conseguente, Sez. L, n. 6266, Rv. 630067, est. Fernandes, ha affermato che il diritto all'indennizzo per i danni derivati dalla vaccinazione obbligatoria contro la poliomielite, contemplato dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210, è ammesso solo nei casi in cui sussista un nesso causale tra la somministrazione del vaccino ed il danno subito dal soggetto passivo sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio.

In materia di prestazioni assistenziali in favore dei soggetti colpiti da menomazioni permanenti in dipendenza da vaccinazioni obbligatorie o di trasfusione di emoderivati, Sez. L, n. 10876, Rv. 630921, est. Lorito, ha chiarito che l'indennizzo aggiuntivo di cui all'art. 1, comma 7, della legge 25 luglio 1997, n. 238 (sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata che trova fondamento nel principio di solidarietà collettiva di cui agli artt. 2 e 38 Cost.) è finalizzato a garantire una tutela più adeguata ai soggetti portatori di menomazioni permanenti a causa di vaccinazioni obbligatorie o di trasfusione di emoderivati, con la conseguenza che lo stesso deve essere ragguagliato all'entità complessiva del danno derivante dalle malattie multiple, e, quindi, liquidato con importo maggiorato rispetto a quello riconosciuto ai soggetti colpiti da una singola menomazione irreversibile.

12.3. Ricongiunzione dei periodi assicurativi.

Sez. L n. 21665, Rv. 633202, est. Tricomi, ha stabilito che in tema di anzianità contributiva maturata presso l'INPDAI e presso altri ordinamenti previdenziali diversi dall'INPDAI, la problematica relativa al calcolo del trattamento pensionistico globale conseguente alla ricongiunzione dei diversi periodi contributivi, trova soluzione alla stregua della disciplina che regola la materia. Infatti, sulla base di quanto disposto di cui all'art. 1 del d.P.R. 8 gennaio 1976, n. 58 e all'art. 5 della legge 15 marzo 1973, n.44, sono previsti due distinti sistemi di calcolo, che operano su piani differenti, essendo il primo rilevante per la determinazione dell'ammontare della pensione ed il secondo quale limite all'importo della pensione medesima, nel senso che la misura del trattamento non può, in alcun modo, essere superiore a quella della pensione massima erogabile dall'INPDAI secondo il regime vigente al momento della maturazione del relativo diritto.

13. Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti sostanziali.

13.1. Infortunio in itinere.

La Corte, Sez. L, n. 13733, Rv. 631335, est. Bandini, confermando quanto, in precedenza, stabilito in materia di infortunio in itinere dalla sentenza n. 15266 del 2007, Rv. 598385, ha ribadito che in materia di infortuni sul lavoro, l'art. 12 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, inserendo la fattispecie dell'infortunio in itinere nell'ambito della nozione di occasione di lavoro di cui all'art. 2 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, detta criteri normativi utilizzabili per decidere anche controversie inerenti fatti antecedenti alla sua entrata in vigore.

Nella materia in esame deve inoltre segnalarsi Sez. L, n. 25243, est. Venuti, ordinanza interlocutoria che ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente la individuazione delle regole di indennizzabilità dell'infortunio in itinere ed il rapporto, anche in termini di nesso eziologico, tra attività lavorativa ed infortunio, questione avente il rilievo di massima di particolare importanza, in ordine alla quale è stato evidenziato un contrasto di orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo una prima opzione ermeneutica, sostenuta da Sez. L. n. 11545 del 10 luglio 2012, Rv. 623150, e da Sez. L, n. 3776 del 2008, Rv. 601967, dovrebbe ritenersi indennizzabile l'infortunio in itinere derivato da eventi dannosi anche imprevedibili ed atipici (tra i quali quelli riconducibili al fatto doloso del terzo) indipendenti dalla condotta volontaria dell'assicurato, atteso che il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro è protetto in quanto ricollegabile, anche se in modo indiretto, allo svolgimento della attività lavorativa, con il solo limite del rischio elettivo.

L'opposto orientamento, fatto proprio anche da Sez. L, n. 13733, Rv. 631335, est. Bandini, ritiene che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 12 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, l'inserimento della fattispecie dell'infortunio in itinere nell'ambito della nozione di occasione di lavoro delimita l'operatività della garanzia assicurativa, con conseguente indennizzabilità dell'infortunio solo nei casi in cui ricorra un vincolo "obiettivamente ed intrinsecamente apprezzabile con la prestazione dell'attività lavorativa" e sempre che vi sia una relazione tra attività lavorativa ed il rischio al quale il lavoratore è esposto, indispensabile a concretizzare quel rischio specifico improprio o generico aggravato riconducibile alla ratio dell'art. 2 del d.p.r 30 giugno 1965, n. 1124.

13.2. Indennità di accompagnamento.

Nello specifico ambito Sez. L n. 1778, Rv. 629664, est. Venuti, ha riaffermato il principio, ormai consolidato, secondo il quale i benefici economici conseguenti all'accertamento del requisito sanitario, nell'ipotesi in cui questo insorga successivamente alla proposizione della domanda giudiziale (a mente di quanto disposto dall'art. 149 disp. att. cod. proc. civ.) decorrono a far data dall'accertamento della sussistenza dello stato invalidante.

Anche Sez. L, n. 14610, Rv. 631637, est. Napoletano, conformandosi a quanto, in precedenza, stabilito da Sez. L, n. 7309 del 2009, Rv. 607564, ha ribadito che nel sistema normativo di cui alla legge 22 dicembre 1979, n. 682, confermato dalla legge 4 maggio 1983, n. 165, e ripreso poi da ultimo dalla legge 31 dicembre 1991, n. 429, l'indennità di accompagnamento concessa ai ciechi civili assoluti è equiparata a quella spettante ai grandi invalidi di guerra, con la conseguenza che il quantum dell'indennità base di accompagnamento per i ciechi assoluti va parametrato all'importo stabilito per l'analogo beneficio goduto dai grandi invalidi di guerra.

13.3. Elargizione in favore delle vittime di attentati terroristici.

Secondo Sez. L, n. 11834, Rv. 630968, est. Ghinoy, in tema di trattamenti previdenziali ed assistenziali in favore delle vittime di atti terroristici, il regolamento di cui al d. P. R. 30 ottobre 2009, n. 181, ha lo scopo di dettare una disciplina univoca e generale, tale da rendere applicabile l'art. 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206, che contempla la riliquidazione delle elargizioni per le vittime del terrorismo e loro familiari, da parametrarsi al danno biologico ed a quello morale, con l'ulteriore effetto che tali disposizioni sono immediatamente applicabili ai procedimenti giurisdizionali non conclusi con sentenza definitiva ed anche in sede di legittimità.

13.4. Pensioni di invalidità: condizioni per la concessione.

Secondo Sez. L, n. 9391, Rv. 630730, est. Lorito, l'art. 10, comma 5, del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, conv. in legge 9 agosto 2013, n. 99, ai sensi del quale, per l'accertamento della sussistenza del requisito reddituale finalizzato all'assegnazione della pensione di inabilità agli invalidi civili assoluti, di cui all'art. 12 della legge 20 marzo 1971, n. 118, rileva esclusivamente il reddito personale dell'invalido e non quello degli altri componenti del nucleo familiare, trova applicazione, in ragione dell'art. 12, comma 6 della legge n. 118 del 1971, solo con riferimento alle domande di pensione di inabilità non definite con provvedimento amministrativo o con procedimento giurisdizionale definitivo. Ricorrendo tale ipotesi, è stato però chiarito che il riconoscimento del diritto a tale prestazione assistenziale opera solo dalla data di entrata in vigore della legge n. 99 del 2013, senza peraltro che a ciò consegua la corresponsione di importi arretrati di ratei di pensione.

Sotto altro profilo si è poi ribadito - Sez. 6-L, n. 11198, Rv. 630923, est. Pagetta - che la pensione e l'assegno di invalidità civile, di cui agli artt. 12 e 13 della legge 30 marzo 1971, n.118, non possono essere attribuiti a favore dei soggetti il cui stato di invalidità sia venuto in essere con decorrenza successiva al compimento dei sessantacinque anni (o che abbiano, comunque avanzato richiesta di pensionamento dopo il conseguimento di tale età). Tale orientamento si fonda ed emerge dal complessivo sistema normativo in materia, che, per gli ultrasessantacinquenni, contempla l'alternativo beneficio della pensione sociale (ora assegno sociale), anche in sostituzione delle provvidenze per inabilità già in godimento, come espressamente previsto dall'art. 8 del d. lgs. 23 novembre 1988, n. 59.

13.5. Pensioni di anzianità.

Secondo Sez. L, n. 15356, Rv. 631690, est. Tria, in base all'interpretazione letterale e logico - sistematica dell'art. 1, comma 12, della legge 23 agosto 2004, n. 243, il bonus in esso previsto (possibilità per le categorie di lavoratori contemplati nella normativa di ottenere in busta paga la somma corrispondente ai contributi che il datore di lavoro deve versare agli istituti previdenziali per l'assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti, previa rinuncia da parte del lavoratore all'ordinario accredito dei contributi) non può essere riconosciuto a coloro che siano in possesso dei requisiti per ottenere il pensionamento di vecchiaia. Tale beneficio è, infatti, finalizzato, dalla normativa in esame, all'incentivazione del posticipo del pensionamento ed è destinato a coprire l'arco temporale intercorrente tra il momento in cui il lavoratore interessato esercita la facoltà di beneficiare del bonus e quello in cui si matura il diritto alla pensione di vecchiaia, che comporta - comunque - il ripristino della contribuzione in capo al datore del lavoro.

In materia di pensioni di anzianità, deve inoltre segnalarsi che, con ordinanze n. 25688 e n. 25689, est. Napoletano, la Sezione Lavoro ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza, relativa alle modalità di calcolo della riliquidazione della pensione di anzianità secondo il principio del pro rata, nel regime previsto dall'art. 1, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nella versione antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 763, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, tenuto conto dell'interpretazione autentica di quest'ultima norma, di cui all'art. 1, comma 488, della legge 27 dicembre 2013, n. 147.

La questione si colloca nella scia di un contenzioso seriale, tra assicurati e la Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei ragionieri e periti commerciali, più volte venuta all'esame della Corte di cassazione.

È stata ripetutamente ribadita dalla S.C. (cfr. ex plurimis Sez. 6- L, 14 febbraio 2014, n. 3520, non massimata, est. La Terza) l'opzione ermeneutica favorevole agli assicurati, secondo la quale "nel regime dettato dalla legge 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 12 (di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) prima delle modifiche a tale disposizione apportate dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 763 (legge finanziaria 2007), la garanzia costituita dal principio così detto del pro rata (il cui rispetto è prescritto per le casse privatizzate ex d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509) nei provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico, in termini peggiorativi per gli assicurati, in modo che siano salvaguardate le anzianità già maturate rispetto all'introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti, ha carattere generale e trova applicazione anche in riferimento alle modifiche in peius dei criteri di calcolo della quota retributiva della pensione e non già unicamente con riguardo alla salvaguardia, ratione temporis del criterio retributivo rispetto al criterio contributivo introdotto dalla normativa regolamentare delle casse".

Nel quadro di tale consolidato assetto giurisprudenziale, formatosi sulla portata e sull'ambito di applicazione della clausola di garanzia costituita dalla regola pro rata di cui all'art. 3, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nella sua originaria formulazione, è da ultimo intervenuto il legislatore con una disposizione qualificata di interpretazione autentica - il comma 488 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147- che recita : "l'ultimo periodo dell'art. 1, comma 763 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si interpreta nel senso che gli atti e le deliberazioni in materia previdenziale adottate dagli enti di cui al medesimo comma 763 e approvati dai Ministeri vigilanti prima della data di entrata in vigore della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si intendono legittimi ed efficaci a condizione che siano finalizzati ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine".

La questione è stata oggetto di una prima pronuncia (Sez. L, 12 agosto 2014 n. 17892, est. Balestrieri, non massimata) relativa a trattamenti pensionistici con decorrenza precedente al 1° gennaio 2007 che, nel ribadire il precedente orientamento, ha posto a base della decisione il rilievo secondo il quale alla norma di cui al citato comma 488 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147 non può attribuirsi natura retroattiva, risultando peraltro inapplicabile al giudizio di legittimità, in quanto subordinata ad un accertamento (la finalizzazione degli atti e delle delibere degli enti ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine) in ogni caso non consentito in tale giudizio.

Successivamente, Sez. L, n. 24221, in corso di massimazione, est. Amoroso, ha preso in esame anche i trattamenti pensionistici con decorrenza dal 1°gennaio 2007, affermando il principio secondo cui, in tema di calcolo della pensione di anzianità dei ragionieri e dei periti commerciali, in relazione ai trattamenti pensionistici liquidati fino al 31 dicembre 2006, trova operatività l'art. 3, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335 nella sua formulazione originaria, il quale prescrive il rispetto del principio cosiddetto del pro rata nei provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico, in termini peggiorativi per gli assicurati. Tale garanzia ha carattere generale e deve essere applicata anche in riferimento alle modifiche in peius dei criteri di calcolo della quota retributiva della pensione, e non gia' unicamente con riguardo alla salvaguardia ratione temporis del criterio retributivo, rispetto al criterio contributivo introdotto dalla normativa regolamentare adottata dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali con Delib. 22 giugno 2002, Delib. 7 giugno 2003 e Delib. 20 dicembre 2003. Pertanto, posto che con le citate delibere sono state distinte per gli assicurati al momento della modifica regolamentare la quota A di pensione, calcolata con il criterio retributivo, e la quota B, calcolata con il criterio contributivo, la garanzia del pro rata opera - anche per il calcolo della quota A - per tutti i trattamenti pensionistici liquidati nel predetto periodo temporale. In relazione ai trattamenti pensionistici liquidati a partire dal 1°gennaio 2007, secondo la pronuncia in esame, trova - al contrario - operatività il medesimo art. 3, comma 12, della legge n. 335 del 1995 nella formulazione modificata dall'art.1, comma 763, della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria 2007), il quale prevede che i provvedimenti necessari per la salvaguardia dell'equilibrio finanziario di lungo termine siano adottati dagli enti previdenziali non "nel rispetto del" ma "avendo presente il" principio del pro rata, in relazione alle anzianita' gia' maturate rispetto all'introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti e comunque tenuto conto dei criteri di gradualita' e di equita' fra generazioni. Tale nuovo regime prevede altresi' la salvezza degli atti e delle deliberazioni in materia previdenziale adottati dalla Cassa ed approvati dal Ministero vigilante prima della data di entrata in vigore della legge n. 296 del 2006, i quali, ai sensi della norma di interpretazione autentica introdotta dall'art. 1, comma 488, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilita' 2014), si intendono legittimi ed efficaci a condizione che siano finalizzati ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine. Pertanto, con decorrenza dal 1° gennaio 2007, secondo la pronuncia da ultimo citata, è legittima la liquidazione dei trattamenti pensionistici operata nel rispetto della normativa regolamentare interna della Cassa.

Alla luce del richiamato iter argomentativo, è stata evidenziata l'opportunità dell'intervento delle Sezioni Unite ai fini della definizione della natura e della portata della suddetta modifica normativa.

Come osservato nella ordinanza interlocutoria n. 25689 del 2014, nella pronuncia da ultimo citata, la S.C. ha - infatti - confermato "il precedente orientamento di cui alla sentenza del 12 agosto 2014 n. 17892, ma con riferimento ai trattamenti pensionistici liquidati con decorrenza anteriore al 1°gennaio 2007, in quanto per quelli successivi ha ricostruito una portata applicativa della norma di interpretazione autentica diversa e più ridotta- e tanto sul presupposto che la interpretazione adeguatrice non può risolversi solo nella negazione della interpretazione ritenuta contrastante con un parametro costituzionale, ma implica la scelta di una interpretazione alternativa che valga a fugare i dubbi di costituzionalità, che altrimenti imporrebbero al giudice comune di sollevare la questione di costituzionalità".

13.6. Trattamento pensionistico degli operai agricoli.

Nel conformarsi a precedente sentenza della sezione Lavoro (n. 2509 del 2012, Rv. 621197) in tema di trattamento pensionistico degli operai agricoli a tempo determinato, Sez. L, n. 12639, Rv. 631269, est. Manna, ha ribadito che la base retributiva pensionabile in relazione agli ultimi anni di lavoro va calcolata, ai sensi dell'art. 28 del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, tenendo conto delle determinazioni ministeriali in materia, operate sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale nell'anno precedente. Tale soluzione interpretativa tiene conto del fatto che, nell'impossibilità di individuare un più funzionale sistema di calcolo che non produca effetti negativi sull'equilibrio della gestione previdenziale di settore, pare opportuno fare riferimento ai criteri di calcolo enucleabili dall'art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, concernente l'estensione ai lavoratori agricoli a tempo determinato del sistema di calcolo basato sulla media della retribuzione prevista dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell'anno precedente per i lavoratori agricoli a tempo indeterminato.

Ciò consente, oltretutto, di ricondurre l'intero sistema di settore ad uniformità, in linea con i principi espressi dalla Corte costituzionale nella pronuncia del 30 settembre 2011 n. 257.

13.7. Reddito minimo di inserimento: condizioni per la concessione.

La Corte, con Sez. L, n. 12196, Rv. 631055, est. Berrino, ha espresso il principio secondo cui, in tema di reddito minimo di inserimento, l'attribuzione di tale prestazione presuppone, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. 18 giugno 1998, n. 237, che i soggetti beneficiari siano privi di reddito, ovvero detentori di reddito che, avuto conto di qualsiasi emolumento percepito, non superi la soglia di povertà. Di conseguenza, l'assegno corrisposto per il mantenimento di figli conviventi, a seguito di separazione legale o divorzio, va ricompreso tra i redditi del soggetto che vuole accedere all'integrazione del reddito minimo.

13.8. Cumulo tra pensione e reddito da lavoro.

In tema di cumulo della pensione con i redditi da lavoro dipendente, Sez. L, n. 13853, Rv. 631450, est. Berrino, ha stabilito che, con riferimento a soggetti pensionati non svolgenti attività lavorativa alla data del 30 novembre 2002, l'art. 44, comma 4, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, va interpretato nel senso che l'ammissione al cumulo integrale tra redditi e pensione di anzianità presuppone che il versamento, dopo il 16 marzo 2003, della somma una tantum, di cui all'art. 44, comma 1, della legge n. 289 del 2002, intervenga entro il termine di tre mesi a far data dal primo rapporto di lavoro instaurato dopo il pensionamento.

14. Previdenza di categoria.

14.1. Pubblici dipendenti.

Con riferimento al diritto alla pensione di anzianità dei pubblici dipendenti passati a rapporto di lavoro part time, Sez. 6-L, n. 11332, Rv. 630833, est. Blasutto, ha ribadito un principio ormai consolidato in materia, secondo cui l'art.1, comma 185, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, rappresenta norma eccezionale in quanto permette la prosecuzione del rapporto di impiego del dipendente, in regime non più di lavoro a tempo pieno, bensì a tempo parziale, e, nel contempo, il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico di anzianità in costanza del rapporto di lavoro; ciò in deroga ai principi generali in base ai quali il diritto alla pensione di anzianità è strettamente subordinato alla cessazione dell'attività di lavoro dipendente.

La conseguenza dell'applicazione di tale principio è la non assoggettabilità a deroghe od eccezioni dell'esplicita previsione normativa contenuta nella legge n. 662 del 1996, a mente della quale l'ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti a tempo parziale non può superare l'ammontare della pensione e della retribuzione spettante al lavoratore a tempo pieno che operi a parità di condizioni.

14.2. Provvidenze per l'editoria.

In tema di provvidenze per l'editoria, Sez. L, n. 16244, Rv. 632309, est. Tria, ha chiarito che l'art. 37 della legge 5 agosto 1981, n. 416, ratione temporis applicabile, nella versione testuale antecedente alle modifiche disposte dalla legge 9 maggio 2001, n.198, ha previsto in favore dei giornalisti professionisti, limitatamente al numero di unità autorizzate dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale e per i soli casi di ristrutturazione o riorganizzazione in presenza di crisi aziendale, una duplice serie di benefici: a) la facoltà di optare, nei termini previsti, per il prepensionamento, nell'ipotesi di soggetti ammessi al trattamento di integrazione salariale; b) la possibilità di essere ammessi "a domanda" a godere del prepensionamento, se dipendenti da imprese per le quali è intervenuto un decreto di autorizzazione al trattamento straordinario di integrazione salariale, indipendentemente dall'operatività o meno, per gli stessi, della cassa integrazione guadagni straordinaria. Detti benefici sono stati, però, condizionati al possesso, in capo ai soggetti interessati, dei relativi requisiti contributivi e all'accertamento dello stato di crisi dell'impresa datrice di lavoro e, dunque, alla condizione che la domanda sia stata inoltrata prima della scadenza del periodo per il quale il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, con relativo decreto, abbia riconosciuto la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 2, comma 5, della legge 12 agosto 1977, n. 675.

14.3. Fondo volo.

La problematica relativa alla individuazione dei coefficienti applicabili per il calcolo della quota in capitale della pensione degli iscritti al Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea (ex art. 34 della legge 13 luglio 1965, n. 859) in relazione ai trattamenti pensionistici con decorrenza dal 1° gennaio 1980 aveva determinato una serie di contrasti giurisprudenziali (Sez. L, n. 22049 del 2008, Rv. 605044; Sez. L, n. 1847 del 2013) e di pronunce, in merito delle Sezioni Unite (tra le altre, Sez. U, 20 ottobre 2009 n. 22154, Rv. 609983 ). La questione ha trovato soluzione nella recente sentenza delle Sezioni Unite n. 11907, Rv. 630938, est. Di Cerbo.

Tale pronuncia sul punto, ha chiarito che, "ai fini della liquidazione di una quota di pensione in capitale, prevista dall'art. 34 della legge 13 luglio 1965, n. 859, a favore dei pensionati iscritti al fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, istituito presso l'INPS, devono essere utilizzati, per i trattamenti pensionistici con decorrenza dal 1° gennaio 1980, a norma dell'art. 2, comma 503, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 - quale norma di sanatoria dell'autodeterminazione, ad opera dell'INPS e del Fondo volo, dei coefficienti di capitalizzazione della prevista quota di pensione spettante agli iscritti al Fondo - non solo i coefficienti di capitalizzazione approvati dal Consiglio di Amministrazione dell'INPS con deliberazione n. 302 del 4 agosto 2005, pur senza parere del "Comitato amministratore", ma anche quelli determinati in sede di elaborazione del bilancio tecnico del Fondo volo ed approvati dal Comitato di vigilanza del Fondo con deliberazione 8 marzo 1988, in quanto comunque recepiti nella successiva menzionata delibera del Consiglio di Amministrazione dell'INPS, dovendosi conseguentemente escludere dal novero dei "coefficienti di capitalizzazione in uso", richiamati dall'art. 34, quelli previsti per il calcolo della riserva matematica di cui alla legge 12 agosto 1962 n. 1338, all'art.13, comma 6, come pure quelli contemplati nelle tabelle allegate al r.d. 9 ottobre 1922, n.1403, recante le tariffe per la costituzione delle rendite vitalizie immediate e differite presso quella che all'epoca era la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali".

Tale soluzione postula un'interpretazione dell'art. 2, comma 503, della legge n. 244 del 2007, fondata sull'assoggettabilità ad efficacia sanante anche dei coefficienti di capitalizzazione determinati in sede di elaborazione del bilancio tecnico del Fondo volo ed approvati dal Comitato di vigilanza del Fondo con deliberazione 8 marzo 1988. La citata disposizione (art. 2 della legge n. 244 del 2007) ha, pertanto, secondo il dictum delle Sezioni Unite, efficacia necessariamente retroattiva, ed è comunque legittima anche, ove fosse valutata quale norma in sanatoria, poiché "ragionevolmente giustificata in relazione all'intento di salvaguardare l'equilibrio finanziario del Fondo, destinato innanzi tutto a corrispondere (con la normale periodicità) il trattamento pensionistico per tutta la vita del pensionato (con reversibilità ai superstiti aventi diritto) e, solo in via di ulteriore trattamento di miglior favore per un periodo di tempo ormai superato, anche ad erogare una tantum quote capitalizzate degli stessi".

Sez. L n. 24529 del 18 novembre 2014, in corso di massimazione, si è conformata a siffatto principio, ribadendo che l'art. 2 della legge n. 244 del 2007, "nonostante il testo letterale poco felice - è stato dettato, per la finalità inequivoca di razionalizzare e rendere chiara la disciplina della materia, onde superare la preesistente situazione di oggettiva incertezza interpretativa evidenziata, in modo emblematico, dai plurimi discordanti interventi in materia delle Sezioni Unite, dando base legale alla autodeterminazione dei coefficienti di capitalizzazione".

15. Trattamenti di fine rapporto e di fine servizio.

15.1. Dipendenti pubblici.

In tema di trattamento di fine rapporto nel settore del pubblico impiego privatizzato, nella fattispecie di cessazione da parte del dipendente dal primo rapporto di servizio con immediata e successiva assunzione presso altra amministrazione, occorre segnalare la pronuncia Sez. U, n. 24280, Rv., in corso di massimazione, est. Curzio, che ha risolto il contrasto di orientamenti all'interno della stessa Corte. Secondo il primo indirizzo, risalente a Sez. L, n. 14632 del 1999, Rv. 532564, e Sez. L n. 13328 del 1991, Rv. 474989, nell'ipotesi di successione di plurimi rapporti di lavoro con un'amministrazione pubblica, non è esigibile il pagamento dell'indennità premio di servizio maturata fino al termine del primo rapporto. Una diversa opzione interpretativa è stata fatta propria da Sez. L, n. 226 del 10 gennaio 2002, Rv. 51480, secondo cui il passaggio da un'amministrazione pubblica ad un'altra implica sempre l'immediato pagamento dell'indennità di fine servizio, senza necessità di attendere, quindi, la cessazione del rapporto di lavoro. Le Sezioni Unite, pronunciandosi sull'ordinanza di rimessione della sezione lavoro del 22 novembre 2013, a composizione del contrasto, hanno affermato che, in caso di successione di plurimi rapporti di lavoro con un'amministrazione pubblica, il dipendente ha diritto a percepire l'indennità premio di servizio fin dall'estinzione del primo rapporto, senza che sia necessario attendere anche l'estinzione dell'ultimo rapporto di lavoro.

15.2. Incarichi di reggenza e determinazione dell'indennità di buonuscita.

In materia di determinazione dell'indennità di buonuscita per il dipendente pubblico che abbia svolto funzioni di reggenza dirigenziale, le Sezioni Unite, con Sez. U, n. 10413, Rv. 630642, est. Amoroso, hanno stabilito che nella base di calcolo dell'indennità di buonuscita del dipendente che abbia espletato funzioni di dirigente in situazioni di reggenza non possono ricomprendersi emolumenti diversi da quelli contemplati negli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, in quanto le locuzioni stipendio, paga o retribuzione devono essere riferite al trattamento retributivo afferente la qualifica di appartenenza.

PARTE SESTA IL DIRITTO DEL MERCATO

  • diritto dei marchi
  • diritto d'autore
  • diritto dei brevetti

CAPITOLO XVIII

I DIRITTI DI PRIVATIVA

(di Giuseppe Fichera )

Sommario

1 Il diritto d'autore. - 2 Il marchio. - 3 Il brevetto.

1. Il diritto d'autore.

In tema di protezione del diritto d'autore Sez. 1, n. 13524, Rv. 631378, est. Genovese, ha ribadito che la protezione del diritto d'autore riguardante programmi per elaboratori (il "software", che rappresenta la sostanza creativa dei programmi informatici), al pari di quella riguardante qualsiasi altra opera, postula il requisito dell'originalità, occorrendo pertanto stabilire se il programma sia o meno frutto di un'elaborazione creativa originale rispetto ad opere precedenti, fermo restando che la creatività e l'originalità sussistono anche quando l'opera sia composta da idee e nozioni semplici, comprese nel patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia propria dell'opera stessa, purché formulate ed organizzate in modo personale ed autonomo rispetto alle precedenti.

Nel caso in esame, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto meritevole di tutela il programma "Giava", predisposto per le agenzie di viaggio e composto da una sezione contabile e da una sezione per la vendita dei biglietti, valutandolo originale sia sotto il profilo della funzionalità, sia sotto quello strutturale e algoritmico del "software".

Con riguardo invece al diritto di trasmissione via etere di un opera teatrale, Sez. 1, n. 14470, Rv. 631365, est. Ragonesi, ha confermato che in base all'art. 79 della legge 22 aprile 1941, n. 633, nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dall'art. 11 del d.lgs. 16 novembre 1994, n. 685, secondo cui l'esercente il diritto di radiodiffusione ha il diritto, tra l'altro, "di ritrasmettere l'emissione radiofonica su filo o per radio", l'emittente televisiva che sia stata autorizzata verbalmente alla registrazione ed alla trasmissione di un'opera teatrale ha, altresì, il diritto alla ritrasmissione di quest'ultima.

Quanto alla responsabilità per la riproduzione di un brano musicale senza autorizzazione da parte del titolare dei diritti di sfruttamento economico, Sez. 1, n. 24750, in corso di massimazione, est. Bernabai, afferma che siffatta responsabilità non ha natura oggettiva e, pertanto, nel caso in cui detto brano faccia da sottofondo ad un messaggio pubblicitario, non può essere chiamato a rispondere della violazione del diritto d'autore il beneficiario della pubblicità, a meno che non si provi che egli sia stato autore o compartecipe della detta violazione, non essendo sufficiente la dimostrazione dell'indiretto beneficio goduto per effetto dell'abusiva riproduzione.

2. Il marchio.

In tema di marchi, Sez. 1, n. 6021, Rv. 630508, est. De Chiara, ha ribadito il costante orientamento della S.C. a tenore del quale, ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (codice della proprietà industriale), l'utilizzazione commerciale del nome patronimico, corrispondente al marchio già registrato da altri, non può avvenire in funzione distintiva, ma solo descrittiva, in quanto l'avvenuta modifica normativa, rispetto alla previsione dell'art. 1 bis del r.d. 21 giugno 1942, n. 929 (legge marchi), con la soppressione dal testo normativo delle parole "e quindi non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva", lascia ferma la necessità che l'uso del marchio debba essere conforme ai principi della correttezza professionale.

Quanto alla nota problematica del marchio composto da più parole, Sez. 1, n. 5099, Rv. 630509, est. De Chiara, ha affermato che, la capacità distintiva conseguita per effetto dell'uso (il cosiddetto "secondary meaning") non riguarda, oltre al marchio nel suo complesso, ciascuna delle parole che lo compongono, in quanto è soltanto la capacità in concreto rivelata dall'uso ad attribuire carattere distintivo ad una parola di per sé meramente descrittiva dell'eccellenza della qualità dei prodotti così contrassegnati.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto lecito l'uso del marchio "Selezione Oro Barilla" per distinguere prodotti appartenenti allo stesso settore merceologico del marchio "Oro Saiwa", pure precedentemente registrato.

Non è nullo poi, secondo Sez. 1, n 21588, Rv. 632971, est. Mercolino, il marchio cosiddetto "cromatico", soltanto qualora la sua utilizzazione, oltre a non essere imposta dalla natura del prodotto o necessaria per il raggiungimento di un risultato tecnico, sia affatto avulsa da una funzione ornamentale, ispirandosi a criteri di pura fantasia o di attitudine differenziatrice, fermo restando che il giudizio sulla possibilità di scindere il carattere distintivo dal pregio estetico o dall'utilità funzionale costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione se congruamente e logicamente motivato.

Sulla rilevantissima tematica del cosiddetto esaurimento del marchio, Sez. 1, n. 21847, Rv. 632498, est. Genovese, ribadisce il consolidato orientamento della S.C. a tenore del quale il titolare di un marchio, dopo aver contrassegnato il suo prodotto ed averlo immesso sul mercato, ovvero dopo aver consentito (attraverso, ad esempio, un contratto di licenza) che altri vi apponesse il segno e lo commercializzasse, non può impedire che il cessionario ne usi secondo le proprie scelte, né può opporsi alla circolazione in Italia del prodotto precedentemente messo in commercio da lui stesso.

Il titolare del marchio può, tuttavia, opporsi all'importazione di prodotti provenienti da un paese extracomunitario e contrassegnati (anche legittimamente) con il suo marchio, sempre che egli, ovvero altro soggetto da lui legittimato (si pensi sempre ad un licenziatario), non abbia prestato il consenso alla introduzione ulteriore di quei beni nel mercato europeo.

Sul trasferimento del marchio, Sez. 1, n. 5931, Rv. 630514, est. Ragonesi, ha affermato che per effetto del combinato disposto dell'art. 15 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929 (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480), e dell'art. 2567 cod. civ., il marchio può essere trasferito solo in occasione del trasferimento dell'azienda o di un ramo particolare di questa - principio peraltro abrogato, com'è noto, dall'attuale art. 23 del codice della proprietà industriale - e, in tal caso, non sono implicitamente trasferiti anche la ditta o la denominazione.

Solo nell'ipotesi, prevista dall'art. 2573, secondo comma, cod. civ., della denominazione di fantasia o della ditta derivata, si presume che il diritto all'uso esclusivo del marchio sia trasferito insieme con l'azienda.

La medesima pronuncia, poi, ha riaffermato un principio, già enunciato in una datata sentenza della S.C. (n. 1078 del 1968), secondo cui la denominazione sociale, investendo la sua funzione distintiva la stessa soggettività della società di capitali, non può essere oggetto di autonoma circolazione, neppure insieme all'azienda, sia perché la cessione di quest'ultima non estingue la persona giuridica, la cui continuità ed identità è preservata proprio dal mantenimento della denominazione, sia perché l'art. 2567 cod. civ., in tema di denominazione sociale, non richiama l'art. 2565 cod. civ., dettato in tema di impresa individuale, in forza del quale, invece, la ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda.

In ordine, infine, alle ricorrenti problematiche concernenti la quantificazione del danno da contraffazione del marchio, Sez. 1, n. 13025, Rv. 631348, est. Genovese, ha precisato che il pregiudizio cagionato all'impresa titolare del marchio contraffatto non consiste necessariamente in una riduzione delle vendite o in un calo del fatturato rispetto al periodo precedentemente considerato, potendo esso manifestarsi anche solo in una riduzione del potenziale di vendita e, quindi, in una minore crescita delle vendite, senza che si abbia una corrispondente riduzione rispetto agli anni precedenti.

3. Il brevetto.

Sul brevetto la S.C. si è occupata di alcune questioni processuali di particolare rilievo, affermando con Sez. 1, n. 15350, Rv. 631817, est. Ragonesi, che in materia di invenzioni industriali la legittimazione ad agire in giudizio in caso di contraffazione del brevetto spetta non solo al licenziatario con esclusiva, il quale acquista un diritto di sfruttamento di contenuto identico a quello del concedente e fruisce della medesima tutela processuale, ma anche - in coerenza con quanto previsto dalla normativa comunitaria (art. 4 della direttiva n. 48 del 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale) - a chi, subendo gli effetti negativi della contraffazione, abbia l'interesse a proporre l'azione.

E invero, nel caso in esame, la S.C. ha ritenuto la legittimazione anche della società distributrice dei prodotti brevettati, in quanto titolare di un proprio interesse economico alla tutela dei prodotti da essa distribuiti.

Ancora, secondo Sez. 1, n. 13915, Rv. 631350, est. Lamorgese, con riferimento ai soggetti legittimati passivi nelle cause di invalidità dei brevetti, l'art. 122, comma 4, del codice della proprietà industriale, come modificato dall'art. 54 del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 131, va interpretato nel senso che l'azione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale ivi prevista, deve essere esercitata nel contraddittorio di tutti coloro che risultano annotati nel registro quali "aventi diritto", senza che l'aggiunta "in quanto titolari di esso", introdotta dal citato d.lgs. 131 del 2010, comporti l'esclusione di coloro che abbiano ceduto i diritti sul titolo, trattandosi pur sempre di soggetti iscritti nel registro "in quanto titolari".

Non sussiste, quindi, la prospettata irragionevole disparità di trattamento tra titolari attuali ed originari del brevetto, portatori anch'essi di interessi patrimoniali qualificati e dipendenti dalla validità di quest'ultimo, i quali, diversamente, resterebbero, vulnerati da una declaratoria di nullità o di decadenza resa a conclusione di un giudizio di cui non abbiano avuto conoscenza pur essendo annotati nel registro.

Quanto alla legittimazione attiva nelle cause cosiddette industrialistiche, Sez. 1, n. 3885, Rv. 630330, est. Ragonesi, ribadisce la sussistenza dell'interesse ad agire con un'azione di mero accertamento negativo della propria condotta di contraffazione di un brevetto altrui, posto che tale azione mira a conseguire, mediante la rimozione di uno stato di incertezza oggettiva, un risultato utile giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l'intervento del giudice.

Nella vicenda portata all'esame della S.C., un imprenditore chiedeva di accertare che il proprio prodotto - un rubinetto valvolato - non costituiva la contraffazione di un altro, in tal modo chiarendo una situazione di incertezza relativamente alla possibilità di produrlo e distribuirlo lecitamente.

Sul tema dei diritti nascenti dalle cosiddette invenzioni in azienda occasionali, previste dall'art. 24 del r.d. 29 giugno 1939, n. 1127, trasfuso con modifiche nell'art. 64, comma 3, del codice della proprietà industriale, Sez. 1, n. 19009, Rv. 631929, est. Lamorgese, ha precisato che il diritto del lavoratore ad un corrispettivo per l'invenzione sorge soltanto qualora il datore di lavoro manifesti, nel termine di tre mesi dalla data di comunicazione dell'avvenuto deposito della domanda di brevetto, la propria volontà di volerne profittare mediante una dichiarazione negoziale recettizia, che deve indicare l'oggetto ed il corrispettivo offerto, cui segua l'accettazione del lavoratore, non potendosi considerare sufficiente l'eventuale uso di fatto dell'invenzione da parte del datore di lavoro.

  • consumatore
  • organizzazione della professione
  • norme giuridiche sulla concorrenza
  • concorrenza

CAPITOLO XIX

IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA

(di Aldo Ceniccola )

Sommario

1 Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge n. 287 del 1990. - 2 Divieto di concorrenza e concorrenza sleale. - 3 Il consumatore e il professionista.

1. Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge n. 287 del 1990.

L'idea secondo cui la disciplina antitrust, apprestata dalla legge n. 287 del 1990, nel sanzionare i comportamenti anticompetitivi, mira a tutelare la struttura concorrenziale del mercato, sicchè, apprestando una tutela di un interesse superindividuale, si pone non come la legge del solo imprenditore ma del mercato nel suo complesso, onde il singolo contratto è solo il mezzo attraverso il quale si realizzano gli effetti del comportamento vietato, continua a ricevere, con continuità, attuazione nella giurisprudenza annuale della Corte.

La questione si è posta specialmente con riferimento alle illecite intese restrittive della concorrenza tra compagnie assicuratrici, snodandosi nei due consueti filoni problematici, afferenti da un lato all'attitudine probatoria ricollegabile al provvedimento sanzionatorio adottato dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato riguardo ai fatti accertati, con i conseguenti riflessi sul piano del riparto dell'onere probatorio tra l'impresa e l'assicurato, e dall'altro ai criteri da adoperare in sede di liquidazione del danno.

Sotto il primo aspetto, Sez. 6-3, n. 9116, Rv. 630686, est. De Stefano, ha evidenziato che gli atti del procedimento svoltosi innanzi all'autorità indipendente costituiscono una prova privilegiata sia in ordine alla condotta anticoncorrenziale sia in relazione alla sua astratta idoneità a procurare un danno ai consumatori, scaturendone per l'effetto una presunzione che nel danno subito dalla generalità degli assicurati è ricompreso quello lamentato dal singolo assicurato. La conseguenza che se ne trae sul piano probatorio nel singolo giudizio, anche in conformità al principio della vicinanza della prova, è che mentre l'assicurato può limitarsi ad allegare la polizza assicurativa ed il provvedimento sanzionatorio, l'impresa assicurativa dovrà dimostrare l'intervento di sopravvenienze esterne, idonee di per sé a determinare l'aumento del premio e dunque a provocare una frattura eziologica tra l'illecito anticoncorrenziale ed il danno subito.

Più precisamente, quanto al contenuto dell'onere probatorio dell'impresa, Sez. 6-3, n. 9116, Rv. 630684, est. De Stefano, ha rimarcato il fondamentale limite secondo cui l'impresa assicuratrice, lungi dal poter avvalersi di generiche argomentazioni, tese a rimettere in discussione i fatti già valutati dall'Autorità Garante, deve offrire "precise indicazioni su situazioni e comportamenti relativi ad essa e all'assicurato, idonei a dimostrare che il livello del premio non è stato determinato dalla partecipazione all'intesa illecita, ma da altri fattori".

Sotto il profilo della quantificazione del danno, Sez. 1, n. 11904, Rv. 631487, est. Di Amato, ha legittimato l'utilizzo di una regola di giudizio equitativa, a cagione dell'eccezionale difficoltà per l'assicurato di dimostrare con precisione il danno subito, sicchè il risarcimento può essere liquidato in una percentuale del premio pagato (nella specie è stata ritenuta congrua una determinazione effettuata nella misura del quindici per cento).

Le Sezioni Unite, Sez. U, n. 1013, Rv. 629196, est. Rordorf, si sono particolarmente occupate della questione dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica delle autorità amministrative indipendenti, con particolare riguardo ai provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

La questione, com'è noto, oscilla tra due coordinate ermeneutiche opposte: da un lato la tesi del c.d. sindacato estrinseco, secondo la quale il giudice amministrativo potrebbe limitare il proprio esame ai soli vizi di legittimità dell'atto amministrativo, potendo al più, tramite le figure sintomatiche dell'eccesso di potere (travisamento dei fatti e motivazione irragionevole), verificare la corretta ricostruzione dei fatti posti dall'Amministrazione a fondamento del giudizio tecnico, ovvero la ragionevolezza delle conseguenze che ne sono state ricavate; dall'altro la tesi del sindacato intrinseco c.d. forte, secondo la quale il giudice, avvalendosi dei maggiori poteri istruttori riconosciuti dalle riforme intervenute sul versante processuale, potrebbe operare un sindacato diretto sulle valutazioni di tipo tecnico, sostituendo il proprio convincimento a quello espresso dall'Amministrazione.

Le Sezioni Unite, nella decisione sopra indicata, confermano l'adesione ad una impostazione mediana, largamente prevalente in giurisprudenza, secondo cui il sindacato del giudice amministrativo si estende ai profili tecnici il cui esame sia necessario per giudicarne la legittimità, salvo che tali profilli non includano valutazioni ed apprezzamenti che, come avviene appunto negli accertamenti di fatti c.d. complessi e dunque nei casi di discrezionalità tecnica, presentano un oggettivo margine di opinabilità, giacchè in tali casi il sindacato deve limitarsi ad un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, altrimenti risultando violato il principio di separazione dei poteri che impedisce al giudice di sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità Garante.

2. Divieto di concorrenza e concorrenza sleale.

La ragione sottesa al divieto di concorrenza posto dall'art. 2557 cod. civ. a carico dell'alienante dell'azienda è stata ravvisata da Sez. 1, n. 14471, Rv. 631495, est. Ragonesi, nello scopo di disciplinare, nel modo più congruo, la portata degli effetti connaturati al rapporto contrattuale intercorso tra le parti; non essendo il divieto teso a derogare al principio di libera concorrenza, deve negarsi che la norma abbia carattere eccezionale, sicchè può estendersi analogicamente all'ipotesi in cui il cedente abbia intrapreso un'attività concorrente avvalendosi della partecipazione di un'impresa familiare onde dissimulare la propria posizione.

Sempre a proposito del divieto di concorrenza e con riferimento a quella specifica preclusione posta a carico del lavoratore subordinato dall'art. 2105 cod. civ., Sez. L, n. 18459, Rv. 632326, est. Lorito, ha ritenuto che essa riguardi non già la concorrenza che il prestatore svolga dopo la cessazione del rapporto nei riguardi del precedente datore di lavoro, ma quella posta in essere illecitamente in pendenza del rapporto, mediante lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto di quest'ultimo.

In tema di concorrenza sleale, poi, la clausola di apertura contenuta nell'art. 2598, n. 3, cod. civ. risulta particolarmente valorizzata da Sez. 1, n. 1110, Rv. 629797, est. Ragonesi, che ha precisato che anche la sola acquisizione, avvenuta tramite lo storno di dipendenti, di notizie riservate di pertinenza di un'impresa concorrente, poiché consente di risparmiare i costi dell'investimento e di ricerca e per questa via di alterare significativamente la correttezza della competizione sul mercato, costituisce atto di concorrenza sleale, a prescindere dall'accertamento dell'eventuale presenza sul mercato dei prodotti ottenuti mediante lo sfruttamento di tali notizie.

Sulla portata applicativa dell'art. 2598, n. 3, cod. civ. si sofferma pure Sez. 1, n. 25652, in corso di massimazione, est. Ragonesi, che, partendo dal presupposto che la fattispecie in esame si riferisce a mezzi distinti e diversi da quelli relativi ai casi tipizzati di cui ai nn. 1 e 2, riguardando casi alternativi per i quali occorre la prova della concreta attitudine pregiudizievole, ha statuito che nell'ipotesi in cui a fondamento della domanda vengano allegati atti di imitazione servile, intrinsecamente idonei a creare confusione con i prodotti e l'attività del concorrente, il giudice non può sostituire la "causa petendi" posta a fondamento della domanda né porre i medesimi fatti, invocati dall'attore come atti di imitazione servile, a fondamento dell'accertamento della concorrenza sleale sotto il diverso profilo dell'art. 2598, n. 3, cod. civ.

La necessità di contemperare la potenziale atipicità dell'illecito concorrenziale con le principali libertà riconosciute dalla carta costituzionale, ha indotto, inoltre, Sez. 1, n. 11515, Rv. 631322, est. Bisogni, a specificare, con riferimento ad una controversia riguardante l'esclusione di un socio da una cooperativa teatrale per lo svolgimento di un'attività concorrente, che la disposizione statutaria, che tale esclusione preveda, debba essere interpretata in conformità ai principi costituzionali di libertà di espressione artistica e di manifestazione del pensiero, sì da escludere dall'area della sanzionabilità condotte non strettamente imprenditoriali, quali la costituzione di un'altra associazione culturale, sia pure operante nel campo della valorizzazione teatrale, e la partecipazione a spettacoli prodotti da terzi.

Sotto il profilo più generale della legittimazione ad agire, poi, Sez. 1, n. 17792, Rv. 631997, est. Bisogni, ha precisato che la società di fatto, benchè non dotata di personalità giuridica, costituisce nondimeno un soggetto di diritto ed in quanto tale legittimata ad esercitare l'azione di concorrenza sleale e la connessa azione risarcitoria.

Circa le misure adottabili all'esito del giudizio, Sez. 1, n. 5722, Rv. 630411, est. Ragonesi, ribadendo la piena autonomia, rispetto alla misura del risarcimento del danno, della sanzione costituita dall'ordine di pubblicazione della sentenza, ex art. 2600, secondo comma, cod. civ., ha affermato che quest'ultima costituisce una misura discrezionale ed insindacabile e mira a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso da atti concorrenziali "contra legem", onde ricostruire l'immagine del titolare del marchio.

3. Il consumatore e il professionista.

Uno dei problemi principali posti all'attenzione della giurisprudenza ha riguardato l'esatta decodificazione delle nozioni di professionista e consumatore, già tratteggiate in generale dall'art. 3 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 e rilevanti ai fini di verificare il perimetro applicativo delle norme contenute nel c.d. codice del consumo.

Varie le tesi generalmente prospettate al riguardo: quella soggettiva, che considera rilevante esclusivamente l'intenzione da parte dell'agente di destinare o meno il bene all'esercizio dell'attività professionale; quella oggettiva, che invece assume come elemento decisivo l'obiettiva riconducibilità dell'atto negoziale - e dunque del suo oggetto - all'attività professionale eventualmente svolta dal soggetto; quella funzionale che, infine, considera quale elemento di discrimine l'appartenenza del contratto, stipulato in concreto, a quelli tipici della professione eventualmente svolta dal contraente.

Ad una prospettiva più marcatamente finalistica, che pone l'accento sugli scopi connessi al contratto stipulato tra le parti, accede Sez. 6-3, n. 5705, Rv. 630541, est. Amendola, specificando che la qualifica di consumatore spetta alle sole persone fisiche che "concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata" e che la qualifica di professionista compete al soggetto "che stipuli il contratto nell'esercizio di siffatta attività o per uno scopo a questa connesso", escludendosi qualsiasi rilevanza alla qualifica formalmente spesa dall'agente al momento della conclusione del contratto.

Sempre in una prospettiva finalistica si colloca pure Sez. 6-2, n. 17466, Rv. 631788, est. Bianchini, con la precisazione che al fine di ritenere integrata la qualifica di professionista non occorre che il contratto risulti stipulato nell'esercizio dell'attività di impresa o della professione, essendo semmai sufficiente che il contratto risulti concluso al fine di soddisfare le esigenze dell'attività imprenditoriale o professionale.

Con particolare riferimento al rapporto tra avvocato e cliente, Sez. 6-3, n. 1464, Rv. 629961, est. Segreto, ha riconosciuto in capo a quest'ultimo la qualifica di consumatore, non ritenendosi decisivo né l'"intuitu personae", che normalmente connota tale rapporto, né la circostanza che la relazione intersoggettiva sia qualificabile in termini di collaborazione (quanto ai rapporti con i terzi) e non di contrapposizione.

Numerose sono poi le pronunce rese a proposito del foro speciale della residenza o del domicilio esclusivo del consumatore, previsto dall'art. 33, comma 2, lettera u, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206.

Che le esigenze di tutela che sono alla base dello statuto del consumatore si riflettano chiaramente anche sul versante processuale, è un dato che emerge chiaramente da Sez. 6-3, n. 5703, Rv. 630504, est. Amendola, con la conseguenza che la regola del foro del consumatore si traduce in una forma di competenza speciale ed esclusiva, destinata a prevalere su ogni altra; perciò, nell'ipotesi in cui un legale abbia presentato un ricorso al fine di ottenere un decreto ingiuntivo per il mancato pagamento del proprio compenso, avvalendosi del foro speciale di cui agli artt. 637, terzo comma, cod. proc. civ. e 14, secondo comma, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, il rapporto tra quest'ultimo ed il foro del consumatore va risolto in favore del secondo.

Lo stesso principio, che conduce all'affermazione della prevalenza in ogni caso del foro del consumatore, è espresso in Sez. 6-3, n. 5705, Rv. 630540, est. Amendola, con riferimento all'ipotesi in cui il foro previsto dall'art. 10 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, in materia di trattamento dei dati personali nei confronti del titolare del trattamento, venga invocato nell'ambito di un rapporto di consumo.

Trattandosi, poi, di una regola posta nell'esclusivo interesse del consumatore, Sez. 6-3, n. 13944, Rv. 631822, est. Frasca ha precisato che qualora quest'ultimo, nell'agire in giudizio, non si avvalga del foro a lui riferibile in tale qualità, la violazione della regola della competenza non è rilevabile né dalla controparte né dal giudice d'ufficio; nondimeno, ove il giudice adito, accogliendo l'eccezione del convenuto, declini la propria competenza in favore di uno dei fori ordinari, nemmeno il giudice innanzi al quale la causa è stata riassunta può rilevare l'applicazione del foro del consumatore, sicchè l'ordinanza con cui elevi il conflitto ex art. 45 cod. proc. civ. va dichiarata inammissibile.

Con riferimento, poi, ai rapporti intercorrenti tra la verifica dell'effettiva sussistenza di un rapporto di consumo e l'eccezione sulla competenza territoriale sollevata dal convenuto, tesa a contrastare tale qualifica e a negare l'assoggettabilità della controversia a quel foro, Sez. 6-3, n. 3539, Rv. 630354, est. Frasca ha precisato che, dovendo in tal caso trovare applicazione le regole sulla competenza territoriale derogabile, la parte è tenuta a contestare la sussistenza, in capo al giudice adito, di tutti i possibili fori concorrenti per ragione di territorio derogabile e ad indicare il diverso giudice competente secondo ognuno di essi, dovendo altrimenti ritenersi l'eccezione di incompetenza "tamquam non esset", anche nel caso in cui il giudice adito ritenga che effettivamente la controversia non sia soggetta al foro del consumatore.

Passando ad esaminare gli aspetti rimediali, l'ultima questione affrontata sulla tematica generale in oggetto concerne la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori ed utenti attraverso lo speciale rimedio dell'inibitoria di cui all'art. 140 del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206.

In proposito, Sez. 2, n. 15825, Rv. 631847, est. Giusti, ha escluso la possibilità, da parte delle associazioni dei consumatori e degli utenti, di richiedere l'adozione di un ordine a carico di un'amministrazione comunale di astenersi dall'applicare le maggiorazioni per il ritardo in sede di riscossione di sanzioni amministrative conseguenti a verbali di accertamento di infrazioni al codice della strada, sul rilievo che, da un lato, il destinatario della sanzione amministrativa non è l'utente preso in considerazione dagli artt. 3, primo comma, lettera a) e 101 del d.lgs. n. 206 cit., ma il "civis" che, nell'utilizzazione della rete stradale, è l'autore della specifica condotta vietata e che, dall'altro, la potestà sanzionatoria in oggetto non costituisce esercizio di un servizio pubblico ma "rappresenta la reazione autoritativa alla violazione di un precetto con finalità di prevenzione, speciale e generale".

La stessa sentenza, Rv. 631846, ha ulteriormente precisato che l'ordinanza emessa in sede di reclamo avverso il diniego di inibitoria richiesta, in via d'urgenza, ai sensi dell'art. 140, comma 8, del d.lgs. cit., non è ricorribile per cassazione a norma dell'art. 111 Cost., venendo in rilievo un provvedimento reso all'esito di un procedimento cautelare che, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo, non statuisce su di esse con la forza dell'atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità di cosa giudicata.

Con riferimento, infine, alle forme contrattuali speciali previste dalla normativa consumeristica e con particolare riguardo ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali, Sez. 6, n. 22863, Rv. 633234, est. Lanzillo, ha precisato che l'art. 1, comma 1, lett. c, del d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 50, va interpretato in coerenza con le finalità della direttiva comunitaria di cui è attuazione (ossia di evitare negoziazioni che possano cogliere di sorpresa il consumatore), sicché non rientrano fra i contratti e le note d'ordine sottoscritti in "area pubblica o aperta al pubblico" quelli sottoscritti in "stand" allestiti all'interno di fiere o saloni di esposizione.

  • liquidazione di società
  • cooperativa
  • responsabilità
  • diritto delle società

CAPITOLO XX

IL DIRITTO DELLE SOCIETA'

(di Paolo Fraulini )

Sommario

1 La società di fatto. - 2 I soci illimitatamente responsabili. - 3 I conferimenti. - 4 Quote e azioni. - 5 Diritto di recesso. - 6 L'assemblea. - 7 Gli amministratori. - 8 I sindaci. - 9 Scioglimento e liquidazione. - 10 I gruppi. - 11 Trasformazione. - 12 Società cooperative. - 13 Società a partecipazione pubblica.

1. La società di fatto.

In tema di società irregolare o di fatto prosegue l'orientamento della S.C. volto a individuare i contorni della soggettività di diritto dell'ente. Sez. 2, n. 18409, Rv. 631862, est. Bursese, e Sez. 1, n. 17792, Rv. 631997, est. Bisogni, sottolineano che la società di fatto, ancorché irregolare e non munita di personalità giuridica, è tuttavia un soggetto di diritto, in quanto titolare di un patrimonio formato con i beni conferiti dai soci, e come tale può agire direttamente per la tutela dei propri diritti, senza l'intermediazione delle persone dei soci che per essa hanno agito. Un orientamento che si colloca in un filone interpretativo consolidato: in riferimento alla legittimazione autonoma, già Sez. 3, n. 12833 del 1999, Rv. 531293 e Sez. 1, n. 5757 del 1998, Rv. 516302.

Sotto simmetrico profilo Sez. 3, n. 19735, Rv. 632355, est. Scarano, sottolinea come l'imprenditore possa agire in rappresentanza dell'impresa individuale anche in proprio, senza spendere la propria qualità.

Merita di essere segnalata, poi, Sez. 1, n. 26209 (Rv. 633967), est. Di Amato, che giudica insufficiente a far venir meno il vincolo societario l'iscrizione di un socio di fatto nel registro delle imprese come ditta individuale, necessitando lo scioglimento volontario il consenso unanime di tutti i soci, non ricavabile da fatti o atti estranei a tale forma di manifestazione della volontà.

2. I soci illimitatamente responsabili.

La proiezione della soggettività giuridica della società di persone sui rapporti con i soci è indagata da Sez. 1, n. 6293, Rv. 630520, est. Bisogni, che rammenta come la responsabilità solidale e illimitata dei soci per le obbligazioni sociali è posta a tutela dei creditori della società e non di quest'ultima, sicché solo i creditori possono agire nei confronti dei soci per il pagamento dei debiti sociali e non anche la società.

In tema di esclusione del socio Sez. 1, n. 6829, Rv. 630578, est. Bisogni, ribadisce la retroattività degli effetti della reintegrazione nella compagine in esito all'annullamento della delibera conseguente all'esperimento dell'azione prevista dall'art. 2287 cod. civ. (vedi già Sez. 1, n. 16150 del 2000, Rv. 542874).

3. I conferimenti.

Peculiare la fattispecie da esaminata da Sez. 6-1, n. 12138, Rv. 631354, est. Cristiano, che, in ipotesi di costituzione di società, ha qualificato come negozio fiduciario l'accordo con il quale i due soci fondatori avevano convenuto di effettuare i conferimenti, ma di intestare ad uno solo di essi le partecipazioni dell'altro.

4. Quote e azioni.

Sez. 3, n. 10826, Rv. 631001, est. Lanzillo, ribadisce l'efficacia dichiarativa dell'iscrizione nel libro soci dell'atto di cessione di quota di s.r.l. (fattispecie anteriore alla riforma del diritto societario del 2003), statuendo che il pignoramento della quota è opponibile al terzo acquirente solo se la notifica del vincolo sia avvenuta in epoca precedente all'iscrizione del trasferimento della partecipazione.

In tema di patto di prelazione in s.r.l., Sez. 1, n. 12370, Rv. 631374, est. Scaldaferri, ricostruendo la ratio dell'istituto, ne ricorda la funzione binaria, tra interesse dei soci al mantenimento della compagine soggettiva e interesse della società a garantire continuità alla propria struttura organizzativa e ne fa derivare l'insegnamento che non ogni violazione del patto prelativo determina ex sé un danno risarcibile al socio, che ha invece uno specifico onere di allegazione e di relativa prova del danno eventualmente sofferto, escludendosi che sia configurabile una tutela reale sulla quota sotto forma di riscatto.

5. Diritto di recesso.

Il profilo organizzativo dell'impresa è valorizzato anche da Sez. 1, n. 16168, Rv. 632085, est. Scaldaferri, in tema di valutazione della quota in ipotesi di recesso da società di capitali (cui espressamente viene assimilato quella di prelazione mortis causa), che ha giudicato legittima, valorizzando il detto profilo, la clausola statutaria che preveda la valutazione dei cespiti secondo il criterio della continuità aziendale (c.d. going concern).

6. L'assemblea.

In tema di impugnazione delle deliberazioni assembleari Sez. 1, n. 8867, Rv. 630944, est. Bisogni, giudica sussistente l'interesse dei soci a impugnare una deliberazione assembleare avente per oggetto l'approvazione preventiva di una decisione rientrante nella competenza gestionale degli amministratori. Nonostante la natura non vincolante della deliberazione e la conseguente possibilità per l'organo gestorio di disattenderla liberamente, sussiste pur sempre un interesse dei soci a far valere l'illegittimità dell'opzione gestionale che ne costituisce il fondamento.

In tema di diritto intertemporale conseguente all'entrata in vigore della riforma societaria del 2003, Sez. 1, n. 13013, Rv. 631361, est. Bisogni, ha esteso anche alle s.r.l. la previsione dell'art. 223-sexies disp. att. cod. civ. in materia di maggioranze assembleari per l'impugnazione delle delibere anche anteriori 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma.

7. Gli amministratori.

In tema di determinazione dell'oggetto dell'attività gestoria degli amministratori, Sez. 1, n. 2320, Rv. 629729, est. Nazzicone, valuta legittima l'attuazione di una deliberazione assembleare che pure esuli dall'oggetto sociale (fattispecie ante-riforma del 2003).

Sez. 1, n. 10109, Rv. 631383, est. Ceccherini, ha qualificato in conflitto di interessi l'amministratore di due società, una delle quali abbia prestato garanzia fideiussoria in favore dell'altra per la quale l'amministratore abbia già prestato a sua volta fideiussione personale, escludendo la configurabilità del delitto previsto dall'art. 2624 cod. civ. che, nel testo in vigore prima della riforma del 2003, puniva gli amministratori delegati, che, sotto qualsiasi forma, sia direttamente, sia per interposta persona, avessero contratto prestiti con la società amministrata.

La responsabilità degli amministratori è indagata da Sez. 1, n. 8458, Rv. 630877, est. Bisogni, che - confermando un recente orientamento (Sez. 1, n. 6870 del 2010, Rv. 612226), subordina la legittimità dell'azione di risarcimento del danno proposta dal socio o dai creditori - dopo il fallimento della società - nei confronti dell'organo amministrativo alla deduzione di un danno direttamente riconducibile alla propria sfera soggettiva, restando esclusa l'ipotesi in cui esso derivi in via mediata da una lesione del patrimonio dell'ente.

In ordine al compenso dell'amministratore, Sez. L, n. 8897, Rv. 630237, est. Venuti, qualifica come diritto soggettivo perfetto la relativa pretesa dell'amministratore alla determinazione del proprio compenso, a conferma di un orientamento ormai consolidato (Sez. 1, n. 1647 del 1997, Rv. 502623, e Sez. L, n. 2895 del 1991, Rv. 471320).

8. I sindaci.

La Corte, con Sez. 1, n. 13517, Rv. 631305, est. Piccininni, indagando la responsabilità dei sindaci, sottolinea come il dovere di vigilanza su di essi incombente a mente dell'art. 2407, secondo comma, cod. civ., non richieda l'individuazione di specifiche condotte, essendo sufficiente la mancata segnalazione all'assemblea o al pubblico ministero di comportamenti dell'organo gestorio potenzialmente causativi di danno. La pronuncia si pone in linea con la recente Sez. 1, n. 22911 del 2010, Rv. 614697, e con Sez. 1, n. 24362 del 2013, Rv. 628207, che peraltro ricorda la necessità di prova del nesso causale tra l'inerzia dell'organo di controllo e le conseguenze dannose che si assumono derivate.

9. Scioglimento e liquidazione.

Va segnalata Sez. 3, n. 4699, Rv. 630076, est. Frasca, che, in ipotesi di avvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese, ricorda che i crediti verso la società cancellata - secondo la disciplina dell'art 2495 cod. civ. (al pari dell'art. 2456 cod. civ. nel testo anteriore alla riforma del 2003) - sono esercitabili prima nei confronti dei soci e solo in un secondo momento nei confronti dei liquidatori, ma sempre previo autonomo giudizio di accertamento, non essendo possibile far valere direttamente nei loro confronti in fase esecutiva un titolo maturato nei confronti della società, seppur in via definitiva.

In tema di società di persone, Sez. 1, n. 14449, Rv. 631446, est. Di Virgilio, giudica legittimati a chiedere la messa in liquidazione della società gli eredi dell'unico socio, quale unico atto a loro disposizione per poter maturare il proprio diritto nei confronti dei preesistenti soci.

Del regime transitorio connesso all'entrata in vigore della riforma societaria del 2003 si occupa Sez. 1, n. 19214, Rv. 631877, est. Di Virgilio, a mente della quale la revoca, dopo il 1° gennaio 2004, dello stato di liquidazione di società di capitali deliberato anteriormente a tale data postula il consenso dell'unanimità dei soci, e non della sola maggioranza, atteso che l'art. 218 disp. att. cod. civ. si riferisce alla normativa antecedente la riforma per tutto il corso della liquidazione, di cui la revoca costituisce parte integrante, seppur eventuale.

10. I gruppi.

Fa applicazione dell'interesse di gruppo Sez. 1, n. 9475, Rv. 631122, est. Scaldaferri, che individua l'esistenza della strumentalità dell'atto di gestione rispetto all'oggetto sociale anche in ipotesi di valutazione dell'interesse non della singola società, ma del gruppo di cui essa fa parte.

11. Trasformazione.

Sui limiti delle agevolazioni assembleari alla trasformazione, previste dall'artt. 223 bis, secondo comma, disp. att. cod. civ. in concomitanza dell'entrata in vigore della riforma del diritto societario del 2003, Sez. 1, n. 4388, Rv. 630058, est. Cristiano, secondo cui le modificazioni possibili con le maggioranze semplificate sono solo quelle strettamente connesse alla modifica del tipo sociale e non si estendono anche ad ambiti estranei, al fine di evitare un abuso di potere della maggioranza, che sarebbe in ipotesi sempre deducibile dai soci dissenzienti, non risultando sanato dall'iscrizione nel registro delle imprese ai sensi dell'art. 2500 bis cod. civ., i cui effetti sono limitati alla stabilizzazione dei soli effetti trasformativi.

12. Società cooperative.

In tema di esclusione del socio, Sez. 1, n. 7877, Rv. 630138, est. Cristiano, statuisce che il socio escluso che contesti la validità della clausola compromissoria contenuta nello statuto per l'ipotesi dell'esclusione, ha l'onere di impugnare nel termine decadenziale la deliberazione assembleare e non può invece decidere di promuovere un'azione di accertamento dell'invalidità della clausola compromissoria, riservandosi di far valere l'illegittimità dell'esclusione in un momento successivo alla sua definizione.

Altre decisioni riguardano ulteriori profili: Sez. 1, n. 4386, Rv. 629920, est. De Chiara, ricorda, in particolare, che, in tema di cooperative edilizia, la mera consegna dell'alloggio, non assistita dalla stipula del relativo contratto traslativo della proprietà, non determina la fine del rapporto associativo e non impedisce quindi di deliberare l'esclusione del socio, mentre Sez. 1, n. 11515, Rv. 631322, est. Bisogni, rammenta che il giudizio di congruenza dell'esclusione del socio di cooperativa giustificata dall'esercizio di attività concorrenziale, sebbene statutariamente prevista, va fatto tenendo conto della peculiarità dell'attività svolta dal sodalizio mutualistico; pertanto, in tema di cooperative teatrali, non può essere inibito al socio di esprimere il proprio diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero e della personalità attraverso la partecipazione a spettacoli organizzati da terzi, né può essergli addebitata la costituzione di un'associazione culturale.

Sempre in tema di cooperative edilizie, Sez. 2, n. 6882, Rv. 630163, est. Manna, ricorda che l'assegnazione ad uso esclusivo ad un socio di un bene di proprietà comune, non risultando del tutto incompatibile con l'oggetto sociale, rende la relativa deliberazione annullabile e non nulla.

Una ulteriore specificità caratterizza le società cooperative atteso che, per Sez. 1, n. 26222 (Rv. 633871), est. Didone, non si applica alle società cooperative il principio generale di invalidità dei contratti, poiché nelle prime - a differenza degli altri tipi societari - le prestazioni tra il socio e la società vedono la preponderanza del profilo sinallagmatico su quello della comunione di scopo.

13. Società a partecipazione pubblica.

Va da ultimo posta in evidenza Sez. U, n. 5491, Rv. 629863, est. Nobile, che ribadisce e consolida il recente orientamento secondo cui solo il superamento dell'autonomia della personalità giuridica della società in house rispetto all'ente pubblico che la partecipa può radicare la giurisdizione contabile nei giudizi di responsabilità (in senso conforme a Sez. U, n. 26283 del 2013, Rv. 628437).

  • diritto bancario
  • servizi finanziari

CAPITOLO XXI

IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI

(di Aldo Ceniccola )

Sommario

1 I contratti bancari. - 2 I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria.

1. I contratti bancari.

La negazione dell'esistenza di usi normativi idonei a legittimare la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, ha indotto la giurisprudenza ad interrogarsi circa la presenza di consuetudini in grado di giustificare l'anatocismo su basi temporali più ampie.

Esclusa l'esistenza di usi normativi in ordine ad una capitalizzazione da operare su base annuale [sul punto non può non richiamarsi l'arresto di Sez. U, n. 24418 del 2010, Rv. 615490)], anche l'ipotesi della capitalizzazione semestrale, da fondarsi eventualmente sull'applicazione dell'art. 1831 cod. civ. al contratto di conto corrente bancario, è stata esclusa, sicchè deve ritenersi che gli interessi a debito del correntista debbano essere calcolati senza alcuna forma di capitalizzazione.

Nel solco di questa conclusione si pone Sez. 1, n. 15135, Rv. 631492, est. Didone, che ha ribadito l'inapplicabilità, al contratto di conto corrente bancario, dell'art. 1831 cod. civ., dettato in materia di conto corrente ordinario, sia perchè il primo si presenta diverso per struttura e funzione, sia perchè la predetta norma non è tra quelle specificamente richiamate dall'art. 1857 cod. civ.; ne consegue che, in tema di anatocismo, il rapporto di conto corrente bancario resta soggetto ai principi generali di cui all'art. 1283 cod. civ.

L'applicabilità delle limitazioni previste dalla norma da ultimo richiamata è ribadita anche da Sez. 1, n. 11400, Rv. 631434, est. Cristiano, con riferimento ai crediti di natura fondiaria; infatti, il mutamento morfologico avvenuto con il d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (cosiddetto t.u.b.), che ha trasformato il credito fondiario in un finanziamento a medio e lungo termine garantito da ipoteca di primo grado, ha determinato il venir meno delle ragioni sottese alla sottrazione di tale forma di finanziamento al divieto di anatocismo, sicchè il mancato pagamento di una rata non determina più l'obbligo di corrispondere gli interessi moratori sull'intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, non sussistendo al riguardo nemmeno un uso normativo contrario.

Interessante è poi la produzione giurisprudenziale riferita alla forma dei contratti bancari ed alle formalità talvolta richieste a scopo probatorio.

Così, con particolare riguardo al contratto di mutuo fondiario, Sez. 3, n. 18325, Rv. 632034, est. Barreca, ha escluso la violazione dell'onere della forma scritta nell'ipotesi in cui vengano pattuite per iscritto, nel contratto di mutuo e nell'atto di erogazione e quietanza, clausole che prevedano la possibilità, da parte dell'istituto di credito, di utilizzare una provvista in valuta estera, raccolta attraverso l'assunzione di un prestito in ECU, non potendosi ravvisare, in tale eventualità, il recepimento del contenuto di un diverso contratto, ma venendo in rilievo semplicemente la considerazione di quest'ultimo quale presupposto del contratto di mutuo.

Sempre in tema di forma e stavolta con riferimento ai libretti di deposito a risparmio, vanno registrate due pronunce che intercettano un sostanziale indebolimento dell'efficacia probatoria prevista dall'art. 1835, secondo comma, cod. civ., secondo cui le annotazioni apposte sul libretto, firmate dall'impiegato che appaia addetto al servizio bancario, fanno piena prova nei rapporti tra l'istituto di credito ed il depositante.

Così, in primo luogo, è stato negato [Sez. 3, n. 13643, Rv. 631180, est. Scarano] che siffatta efficacia probatoria integri un meccanismo presuntivo legale di carattere assoluto circa il compimento delle sole operazioni oggetto di annotazione, ben potendo dimostrarsi che un'operazione, di versamento o prelevamento di somme, benchè non annotata sul libretto, sia stata effettivamente eseguita.

Secondo Sez. 1, n. 2122, Rv. 629798, est. Nazzicone, poi, l'efficacia probatoria ricollegata dalla norma alle annotazioni in oggetto, va negata in radice allorchè il documento non presenti i requisiti minimi formali che ne consentono la sussunzione nel modello legale tipizzato, come nel caso in cui tali annotazioni siano state dichiarate false in seguito a giudizio penale.

Con riferimento alle operazioni regolate in conto corrente, allorchè si debba valutare l'efficacia probatoria delle annotazioni degli accreditamenti e dei prelevamenti, deve tenersi conto, secondo Sez. 1, n. 17732, Rv. 632650, est. Nazzicone, che tali atti non sono qualificabili come autonomi negozi giuridici, ma si presumono, fino a prova contraria, atti di utilizzazione dell'unico contratto ad esecuzione ripetuta; i relativi documenti, dunque, non costituiscono prova di debito o di credito, ma solo della correttezza della posta contabile che concorre alla formazione del saldo esigibile, sicchè può esserne dimostrata l'erroneità senza i limiti previsti, per la prova per testi, per presunzioni ed in tema di confessione, rispettivamente, dagli artt. 2725, 2726, 2729, secondo comma, e 2732 cod. civ.

Un certo ridimensionamento dell'incidenza degli oneri formali si registra anche in tema di sconto bancario delle cambiali, allorchè queste siano emesse in favore del venditore di macchinari industriali ricorrendo al finanziamento previsto dalla legge 28 novembre 1965, n. 1329 (cosiddetta legge Sabatini); in tal caso la trascrizione sulle cambiali del contrassegno, del prezzo della macchina e degli estremi del contratto, formalità prevista dall'art. 10 della legge n. 1329 cit., incide unicamente sulla riconoscibilità del privilegio speciale sui beni oggetto del trasferimento, non precludendo alle parti, nell'esercizio della propria autonomia negoziale, di concludere validamente un contratto di sconto anche in assenza delle richiamate formalità. Tali considerazioni hanno pertanto indotto Sez. 1, n. 14226, Rv. 631247, est. Acierno, a negare l'esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di sconto bancario ed il contratto traslativo della proprietà dei beni, e ad escludere che la validità di quest'ultimo condizioni la validità del primo.

Su un piano più generale, infine, è stato precisato che costituiscono requisiti formali convenzionali, previsti "ad substantiam", le regole sulla forma delle comunicazioni contrattuali previste, in tema di comunicazioni telematiche tra banche, dal manuale ufficiale di funzionamento del sistema ("swift user handbook"); partendo da tale presupposto, Sez. 1, n. 13020, Rv. 631366, est. Didone, ha ritenuto affetto da nullità il messaggio di "swift" (acronimo di "society for worldwide interbank financial telecomunication") privo del codice informatico alfanumerico previsto per ciascuna operazione bancaria.

2. I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria.

I criteri di buona fede e correttezza continuano, nel settore della responsabilità degli intermediari finanziari, ad essere fortemente valorizzati dalla giurisprudenza. Trattasi, infatti, di criteri volti a garantire che il risparmiatore esprima una scelta sempre pienamente consapevole, in ossequio al principio del consenso informato.

Tale percorso già in passato aveva indotto la giurisprudenza di legittimità ad individuare nelle asimmetrie informative, intervenute nella fase antecedente o coincidente con la stipula del "contratto quadro", la fonte della responsabilità precontrattuale dell'intermediario ed a ritenere pienamente compatibile tale forma di responsabilità con la validità del contratto conseguente, potendo la nullità virtuale essere ricollegata alla violazione solo di norme-atto e non già di norme-comportamento.

Questa soluzione, che intercetta il precedente più importante in Sez. U, n. 26724 del 2007, Rv. 600329, ha consentito di dare un'esauriente risposta ad interrogativi rilevanti sia sul problema dell'effettivo perimetro della responsabilità precontrattuale, sia sulla questione dell'idoneità delle scorrettezze comportamentali ad incidere sul piano della validità del contratto, dovendosi più precisamente verificare, nell'ipotesi di asimmetrie informative, da un lato, l'ipotizzabilità di una responsabilità precontrattuale nell'ipotesi in cui il successivo contratto resti valido e, dall'altro, la sussistenza di ipotesi nelle quali i doveri informativi siano inseriti tra i requisiti di validità del contratto, sì da determinarne la nullità in caso di inosservanza.

Anche Sez. 1, n. 8462, Rv. 630886, est. Didone, si inquadra, secondo una logica di piena continuità, in tale percorso. Viene precisato, in particolare, che la violazione dei doveri di informazione del cliente da parte dell'intermediario finanziario dà luogo a responsabilità precontrattuale ove tali violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (precisandosi che le violazioni riguardanti, invece, la fase successiva dell'esecuzione del "contratto quadro" sono fonte di responsabilità contrattuale e possono condurre alla risoluzione del contratto). La circostanza, poi, che tali doveri informativi siano posti a carico dell'intermediario finanziario da precise disposizioni normative, non comporta necessariamente che il contratto, stipulato violando i predetti doveri informativi, sia nullo per contrarietà a norme imperative; dovendosi all'uopo verificare se tali doveri informativi costituiscano regole attizie o piuttosto regole comportamentali, solo nel primo caso le asimmetrie informative saranno suscettibili di determinare la nullità virtuale, dovendosi, nel secondo ordine di casi, optare per il rimedio della responsabilità precontrattuale (salvo le ipotesi, previste dalla legislazione speciale, nelle quali il legislatore non abbia assunto i doveri comportamentali tra le regole di validità del contratto, prevedendo apposite forme di nullità di protezione).

Una delle speciali ipotesi in cui l'asimmetria informativa è in grado di generare forme di nullità protettiva (così trasformandosi le regole comportamentali in requisiti di validità dell'atto), è costituita dall'omessa informazione della facoltà di recesso di cui all'art. 30, comma 7, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.

In proposito Sez. 3, n. 7776, Rv. 630712, est. Rossetti, ha evidenziato che l'art. 56 quater del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 - inserito dalla legge di conversione 9 agosto 2013, n. 98, il quale, novellando l'art. 30, comma 6, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, ha previsto che il diritto di recesso per l'offerta fuori sede dei servizi di investimento trova applicazione anche con riferimento ai contratti di negoziazione di titoli per conto proprio, stipulati dopo il 1° settembre 2013 -, non costituisce norma di interpretazione autentica e dunque non ha avuto l'effetto di sanare la nullità dei precedenti contratti privi dell'avviso di recesso accordato all'investitore.

Che il comportamento degli operatori finanziari debba essere improntato alle regole della correttezza e della trasparenza, risulta ribadito in Sez. 3, n. 15224, Rv. 631741, est. Lanzillo, precisandosi che tali doveri hanno, in virtù della complessiva disciplina del mercato borsistico, un ambito applicativo più ampio rispetto a quello previsto in generale dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ., in quanto mirano a garantire la regolare formazione dei prezzi degli strumenti finanziari sul mercato a vantaggio di chiunque si trovi a contrattare sulla base di quei valori, in un dato momento, pur se in posizione indipendente dall'operatore deviante; ne consegue che del danno derivante da un'asimmetria informativa subita dagli investitori, costituito dal minor valore del titolo rispetto all'importo pagato per l'acquisto, rispondono le banche in via solidale, indipendentemente da un rapporto diretto con gli stessi.

La stessa sentenza, Rv. 631740, ha rimarcato che l'intento speculativo normalmente perseguito nelle operazioni di borsa non esime l'altro contraente dai doveri di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., sicchè la banca che si trovi in posizione di vantaggio informativo, comunque acquisito, ha il dovere di non approfittarne in danno altrui, pena altrimenti la propria responsabilità.

La necessità di una completa informazione, diretta a rendere l'investitore più consapevole dei rischi derivanti dall'investimento e dal mandato gestorio conferito all'intermediario, è avvertita anche da Sez. 1, n. 3889, Rv. 629599, est. Lamorgese, evidenziandosi la connessione tra tale esigenza e la necessità che il contratto di gestione di portafoglio di investimento venga stipulato per iscritto a pena di nullità ai sensi dell'art. 23, comma 1, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 e dell'art. 30, primo comma, del Regolamento Consob del 1° luglio 1998, n. 11522.

L'esigenza della dimostrazione di uno scrupoloso adempimento degli obblighi informativi, onde escludere la responsabilità dell'intermediario, è posta da Sez. 3, n. 20178, Rv. 632017, est. Cirillo, a fondamento dell'affermazione per cui la dichiarazione resa dal cliente, sul modulo predisposto dall'istituto di credito e da lui sottoscritto, in ordine alla propria consapevolezza circa la natura di "operazione non adeguata" rispetto al suo profilo di investitore dell'investimento effettuato dalla banca, non costituisce dichiarazione confessoria e non è sufficiente a far ritenere dimostrato, da parte dell'intermediario, l'adempimento dei predetti doveri informativi.

Al di là dei predetti doveri di carattere generale, poi, non deve trascurarsi l'ulteriore compito posto, a carico dei prestatori di servizi ed attività di investimento, dall'art. 21, comma 1, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58: secondo Sez. 2, n. 1065, Rv. 629027, est. San Giorgio, tale norma, che impone di "disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l'efficiente svolgimento dei servizi e delle attività", lungi dall'atteggiarsi come un precetto generico ed indeterminato, prevede, sia pure in modo elastico, degli obblighi chiaramente individuabili, in un contesto "caratterizzato dall'esigenza di massima tutela del risparmiatore", sicchè la questione di legittimità, posta in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., appare manifestamente infondata.

La questione della responsabilità dell'intermediario risulta approfondita anche con riferimento a quanto disposto dall'art. 5, comma 4, della legge 2 gennaio 1991, n. 1, e dall'art. 31, comma 3, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, circa la responsabilità solidale con i promotori finanziari.

In proposito, Sez. 3, n. 5020, Rv. 630645, est. Ambrosio, ha precisato che il meccanismo di estensione della responsabilità all'intermediario opera a condizione che il fatto illecito del promotore sia legato da un nesso di occasionalità necessaria con l'esercizio delle mansioni cui sia adibito, nesso che va certamente escluso nell'ipotesi in cui l'investitore, contravvenendo alle più elementari regole di prudenza, abbia incautamente comunicato al promotore i codici di accesso al proprio conto corrente, rendendo così possibile il compimento di indebite operazioni di bonifico da parte di quest'ultimo.

La peculiare "vis espansiva" degli obblighi informativi a carico dell'intermediario va, poi, posta in relazione con la latitudine causale che gli strumenti di intermediazione finanziaria possono assumere. Significativa in tal senso appare Sez. 3, n. 7776, Rv. 630710, est. Rossetti, secondo cui la causa in concreto dell'operazione con la quale le somme erogate a titolo di mutuo siano state impiegate per l'acquisto di strumenti finanziari predeterminati ed emessi dall'istituto di credito mutuante, a loro volta costituiti in pegno a garanzia della restituzione del finanziamento, va rintracciata nello scopo di realizzare un lucro finanziario, sicchè tale contratto, di natura unitaria ed atipica, va ricondotto ai "servizi di investimento" ex art. 1, comma 5, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.

Significativa è, infine, nello specifico settore in oggetto, la produzione giurisprudenziale in tema di sanzioni amministrative.

La particolare natura afflittiva di tali sanzioni (già posta in evidenza dall'importante sentenza della Corte europea diritti dell'uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. gov. Italia) ha posto il problema se nel relativo procedimento di irrogazione, previsto dall'art. 187 septies del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, debbano trovare applicazione i principi del diritto di difesa e del giusto processo.

Secondo Sez. 2, n. 18683, Rv. 632302, est. Petitti, la richiamata normativa impone solo che, prima dell'irrogazione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell'addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell'interessato, sicchè "non è violato il principio del contraddittorio nel caso di mancata trasmissione all'interessato delle conclusioni dell'Ufficio sanzioni amministrative della Consob o di sua mancata audizione innanzi alla Commissione, non trovando d'altronde applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo al procedimento giurisdizionale".

Sotto il profilo più propriamente sostanziale, poi, Sez. 2, n. 18682, Rv. 632299, est. Petitti, ha precisato, che la disposizione contenuta nell'art. 190 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, che commina una sanzione amministrativa per inosservanza delle "disposizioni generali o particolari impartite dalla CONSOB o dalla Banca d'Italia", a carico di coloro che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione presso imprese d'investimento, banche o altri soggetti abilitati nonché dei relativi dipendenti, non determina alcuna indeterminatezza della norma, venendo al contrario in rilievo solo un'ipotesi di etero integrazione del precetto, permessa in via generale dalla riserva di legge sancita dall'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

  • credito
  • responsabilità sociale dell'impresa
  • fallimento

CAPITOLO XXII

PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI

(di Aldo Ceniccola )

Sommario

1 Il fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio. - 2 Lo stato di insolvenza ed i requisiti soggettivi. - 3 Gli organi della procedura. - 4 Gli effetti del fallimento nei riguardi dei creditori e la formazione dello stato passivo. - 4.1 I creditori muniti di decreto ingiuntivo. - 4.2 L'insinuazione al passivo dei crediti tributari. - 4.3 I creditori privilegiati. - 4.4 I cessionari del credito. - 4.5 Il creditore di coobbligati solidali. - 5 La revocatoria fallimentare. - 6 Le prededuzioni.

1. Il fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio.

Varie sono le decisioni che si soffermano sul tema della cancellazione dal registro delle imprese e sul problema della cessazione dell'impresa, onde individuare con precisione il dies a quo del termine annuale di cui all'art. 10 legge fall.

Premesso in linea di principio che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento decorre, in ogni caso, dalla cancellazione dal registro delle imprese, solo in tal momento portandosi formalmente a conoscenza dei terzi la cessazione dell'attività, salva la dimostrazione, in punto di fatto, della continuazione dell'impresa anche successivamente [Sez. 6-1, n. 12338, Rv. 631407, est. Ragonesi], ha ulteriormente precisato Sez. 1, n. 10105, Rv. 631178, est. Nazzicone, che, ai fini della decorrenza del termine annuale, occorre avere riguardo non già al momento in cui la domanda di cancellazione sia stata presentata presso il registro delle imprese ma al diverso momento in cui sia avvenuta l'effettiva cancellazione.

Con riferimento, poi, alla possibilità concessa al creditore istante o al pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività dell'imprenditore individuale, Sez. 6-1, n. 16107, Rv. 632088, est. Ragonesi, ha evidenziato che la dismissione della qualità di imprenditore deve essere correlata al mancato compimento di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle normalmente poste in essere nel corso dell'impresa, sicchè il relativo apprezzamento compiuto dal giudice di merito, se regolarmente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (nella specie la S.C. ha ritenuto che l'intervenuto pagamento di debiti pregressi in epoca successiva alla cancellazione dal registro delle imprese e la permanenza su di un sito internet del marchio della ditta non fossero elementi sufficienti a dimostrare la continuazione dell'attività).

Con riferimento ad una fattispecie nella quale, revocata in sede di reclamo una prima dichiarazione di fallimento, ne era stata emessa una seconda da parte del tribunale, Sez. 1, n. 10113, Rv. 631233, est. Di Amato, ha evidenziato che l'idea che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento possa decorrere dalla iscrizione nel registro delle imprese della prima dichiarazione di fallimento appare del tutto estranea al sistema delineato dalla legge fallimentare e ciò sia per la diversa funzione da assegnare a questa diversa forma di pubblicità, sia per la considerazione che, nel caso in cui non vi sia stata revoca del fallimento, non avrebbe senso un termine per la dichiarazione di fallimento di chi è già fallito, mentre, nel caso in cui la revoca sia intervenuta, l'imprenditore, rispetto ai terzi, si trova nella stessa situazione in cui si trovava prima del fallimento.

Sotto il profilo strettamente terminologico, Sez. 6-1, n. 20394, Rv. 632471, est. De Chiara, ha precisato che l'espressione "impresa collettiva" contenuta nell'art. 10 legge fall. deve intendersi riferita a tutte le forme di esercizio collettivo dell'impresa, senza alcuna limitazione, sicchè la nozione si presta ad abbracciare tutte le società, con o senza limitazione della responsabilità dei soci.

Premessa l'applicabilità dell'art. 10 legge fall. anche alle società non iscritte nel registro delle imprese, Sez. 1, n. 26209, in corso di massimazione, est. Di Amato, ha precisato che il termine di un anno decorre, in tal caso, dal momento in cui la cessazione dell'attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, o comunque sia stata dagli stessi conosciuta, ritenendosi irrilevanti, ai fini della decorrenza dell'indicato termine annuale, sia l'iscrizione di uno dei soci nel registro delle imprese come ditta individuale, sia la data della dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale.

2. Lo stato di insolvenza ed i requisiti soggettivi.

La valutazione dell'impotenza patrimoniale del debitore, rilevante ai fini del sindacato di cui all'art. 5 legge fall., appare particolarmente enfatizzata in Sez. 1, n. 7252, Rv. 630136, est. Genovese, secondo cui lo stato di insolvenza va identificato con quella situazione di incapacità, non transitoria, di soddisfare le obbligazioni inerenti all'impresa, traducendosi nell'incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (ed in primo luogo al pagamento dei debiti) e nell'impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza cioè rovinose decurtazioni patrimoniali; in quest'ottica, dunque, lo stato di insolvenza non è escluso dalla circostanza che l'attivo sia superiore al passivo e che non esistano conclamati inadempimenti.

È stato poi precisato, anche ai fini dell'ampiezza del sindacato che il giudice è chiamato ad operare in sede di istruttoria prefallimentare, che la ragionevole contestazione dei crediti, che va dunque accertata sia pure in via incidentale, sottrae all'inadempimento del debitore il significato indicativo dell'insolvenza, ai fini della dichiarazione di fallimento [Sez. 1, n. 6306, Rv. 630452, est. Di Amato].

Con riferimento al criterio da adottare per valutare lo stato di insolvenza quando la società è in liquidazione, Sez. 1, n. 5402, Rv. 630479, est. Didone, ha ribadito il principio per cui, ai fini dell'applicazione dell'art. 5 legge fall., l'indagine deve essere diretta ad appurare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto, non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come unico obiettivo quello di dover provvedere al soddisfacimento dei creditori ed alla distribuzione dell'eventuale residuo ai soci, non occorre che essa disponga di credito, risorse e liquidità necessari per soddisfare le obbligazioni assunte.

Secondo Sez. 1, n. 6835, Rv. 630547, est. Nazzicone, in caso di insolvenza, anche la società cooperativa, pur se operante solo nei confronti dei propri soci, può essere assoggettata alla dichiarazione di fallimento, non costituendo indefettibile requisito della qualità di imprenditore commerciale lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo), essendo all'uopo necessaria l'obiettiva economicità dell'attività esercitata, ossia la proporzionalità tra costi e ricavi (c.d. lucro oggettivo).

3. Gli organi della procedura.

Il progressivo ridimensionamento del ruolo del giudice delegato, al quale la riforma ha riservato il compito di effettuare solo un controllo di legittimità (e non anche del merito) sull'operato del curatore, costituisce un dato espressamente rimarcato da Sez. 1, n. 12947, Rv. 631376, est. Cristiano, per trarne la conseguenza che l'iniziativa per l'estensione del fallimento, che spetta al curatore, non richiede l'autorizzazione del giudice delegato, trattandosi, da un lato, di attività doverosa per la quale la legittimazione del curatore è espressamente prevista dalla legge, sicchè la predeterminazione legislativa di tale fattispecie rende superfluo il controllo di legittimità riservato al giudice delegato e dall'altro, di un procedimento non propriamente riconducibile all'idea di un processo a parti contrapposte cui fa, invece, riferimento l'art. 25 n. 6 legge fall.

A questa logica si ispira pure l'affermazione per cui l'autorizzazione a costituirsi in giudizio può ritenersi implicita nell'attestazione della mancanza di fondi, effettuata dal giudice delegato, ai fini dell'ammissione al gratuito patrocinio, implicando tale attestazione una preventiva valutazione di legittimità dell'iniziativa promossa dal curatore [Sez. 1, n. 12947, Rv. 631375, est. Cristiano].

La necessità di un'autorizzazione del giudice delegato è stata esclusa da Sez. 6-1, n. 3706, Rv. 630016, est. Bernabai, anche con riferimento all'ipotesi in cui un terzo, corresponsabile dei danni arrecati alla massa fallimentare, abbia provveduto al risarcimento del danno e, tramite la surrogazione di cui all'art. 1203 n. 3 cod. civ. o l'azione di regresso di cui all'art. 1299 cod. civ., abbia agito nei confronti del curatore revocato, non trovando al riguardo applicazione il disposto di cui all'art. 38, secondo comma, legge fall.

Un'altra serie di decisioni si sofferma, poi, sulla tematica della liquidazione dei compensi.

Riguardo alla liquidazione del compenso in favore del curatore, è stato precisato che tale operazione presuppone che l'attività di quest'ultimo sia stata esaminata ed approvata, onde tale fase si colloca cronologicamente dopo l'approvazione del conto della gestione, escludendosi, per altro, che in quest'ultimo procedimento possa introdursi il tema relativo all'individuazione del soggetto sul quale, anche in caso di revoca del fallimento, deve gravare il relativo onere [Sez. 1, n. 6553, Rv. 630600, est. Di Virgilio].

Dalla diversa collocazione cronologica del decreto con il quale il tribunale concede o nega al curatore l'acconto sul compenso, Sez. 6-1, n. 18494, Rv. 631948, est. De Chiara, ricava la conseguenza che, intervenendo tale decreto in una fase processuale anteriore alla presentazione del conto della gestione, esso non assume efficacia di cosa giudicata e non pregiudica, dopo la presentazione del rendiconto, la futura e definitiva decisione sul compenso.

Allorchè si tratti, poi, di liquidare il compenso al curatore revocato, Sez. 1, n. 10455, Rv. 631248, est. Di Amato, ha ribadito il principio secondo il quale occorre attendere l'avvio delle operazioni di chiusura del fallimento, solo allora potendosi valutare il contributo prestato da ciascun curatore nei riguardi dell'intera procedura e potendosi, prima di tale momento, liquidare somme solo a titolo di acconto.

In caso di revoca del fallimento, le somme liquidate a titolo di acconto sul compenso nel corso della procedura non possono essere domandate in restituzione, nei confronti del curatore, da parte dell'imprenditore tornato in bonis: è quanto statuito da Sez. 1, n. 6553, Rv. 630601, est. Di Virgilio, con la precisazione che quest'ultimo può solo agire, per ottenere il rimborso di quanto detratto dall'attivo, nei confronti del soggetto sul quale tali oneri devono gravare per avere colpevolmente dato causa al fallimento.

Il decreto con il quale il giudice delegato determina il compenso spettante al coadiutore del curatore va, come statuito da Sez. 1, n. 23086, Rv. 632759, est. Di Virgilio, impugnato nelle forme del reclamo ex art. 26 legge fall. e non già mediante l'opposizione di cui all'art. 170 del d.P.R. 20 maggio 2002, n. 115.

4. Gli effetti del fallimento nei riguardi dei creditori e la formazione dello stato passivo.

4.1. I creditori muniti di decreto ingiuntivo.

Con riferimento ai rapporti tra procedimento monitorio e sopravvenuta dichiarazione di fallimento dell'ingiunto, Sez. 6-1, n. 11811, Rv. 631611, est. Cristiano, ha specificato che, nel caso in cui l'apertura della procedura concorsuale intervenga nelle more del giudizio di opposizione, il decreto ingiuntivo, anche se provvisoriamente esecutivo, non è equiparabile ad una sentenza non ancora passata in giudicato e deve pertanto considerarsi totalmente privo di efficacia nei confronti del fallimento, al pari dell'ipoteca giudiziale conseguentemente iscritta.

Nel caso in cui, invece, il decreto ingiuntivo non sia stato opposto, occorre considerare, secondo quanto statuito da Sez. 1, n. 1650, Rv. 629156, est. Nazzicone, che il provvedimento monitorio acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, verificata la regolarità della notifica, ne pronuncia con decreto l'esecutività ai sensi dell'art. 647 cod. proc. civ., sicchè, nell'ipotesi in cui siffatto decreto sia stato emesso successivamente alla dichiarazione di fallimento, il provvedimento monitorio deve considerarsi inopponibile alla procedura concorsuale ed il credito va accertato secondo le regole del concorso ai sensi dell'art. 52 legge fall.

4.2. L'insinuazione al passivo dei crediti tributari.

Particolarmente significativa appare poi la produzione giurisprudenziale in tema di insinuazione al passivo dei crediti aventi natura tributaria.

È stato, in primo luogo, particolarmente valorizzato il disposto dell'art. 87, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel testo introdotto dal d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, da Sez. 1, n. 6126, Rv. 630545, est. De Chiara, sicchè l'ammissione al passivo dei crediti tributari è richiesta dal concessionario per la riscossione sulla base del semplice ruolo, senza che occorra, in difetto di espressa previsione normativa, anche la previa notifica della cartella esattoriale, ferma restando la necessità, in presenza di contestazioni del curatore, di ammettere al passivo il credito con riserva, da sciogliere poi, ai sensi dell'art. 88, secondo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973, allorchè sia stata definita l'impugnativa innanzi al giudice tributario.

Interessante è poi, in tema di opponibilità, il principio enunciato da Sez. 6-5, n. 12789, Rv. 631115, est. Cicala, secondo cui sono opponibili alla curatela solo gli atti del procedimento tributario formati in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento del contribuente, laddove quelli formati in epoca successiva devono indicare quale destinataria l'impresa assoggettata alla procedura concorsuale e, quale legale rappresentante della stessa, il curatore; conseguentemente è stato deciso che l'accertamento notificato alla società fallita, dopo la dichiarazione di fallimento, non costituisce valido presupposto per l'emissione della cartella esattoriale a carico del fallimento.

Qualora il fallimento del contribuente sia intervenuto dopo la notifica dell'avviso di accertamento e l'instaurazione del relativo giudizio di impugnazione, ove il processo non sia stato interrotto ed il curatore non si sia in esso costituito, Sez. 6-5, n. 22809, Rv. 632909, est. Cicala, ha statuito che la sentenza che conclude il processo tributario è inopponibile alla procedura concorsuale, onde è illegittima la cartella esattoriale su di essa fondata e notificata al fallimento, su cui incombe, peraltro, l'onere di impugnarla innanzi al giudice tributario per evitarne la definitività.

Inoltre, allorchè l'accertamento tributario sia inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento o nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, Sez. 5, n. 9434, Rv. 630585, est. Crucitti, ha precisato che la notifica deve essere effettuata non solo nei riguardi del curatore, ma anche nei confronti del contribuente il quale, potendo risentire dei riflessi, anche di carattere sanzionatorio, conseguenti alla definitività dell'atto impositivo, resta eccezionalmente abilitato ad impugnarlo, nell'inerzia degli organi fallimentari.

Lo stesso principio è stato enunciato, sia pure sotto diversa angolazione, da Sez. 6-1, n. 6248, Rv. 629870, est. Ragonesi, con riferimento alla possibilità da parte del fallito, in caso di inerzia del curatore, di presentare l'istanza di definizione agevolata delle liti fiscali pendenti, prevista dall'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sul rilievo che il fallito non è privato, per effetto della dichiarazione di fallimento, della qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, restando esposto ai riflessi anche sanzionatori che conseguono alla definitività dell'atto impositivo.

Circa la qualità del credito vantato dal concessionario, merita rilievo quanto deciso da Sez. 1, n. 7868, Rv. 630747, est. Mercolino, secondo cui, costituendo l'aggio il compenso spettante al concessionario esattore per l'attività svolta su mandato dell'ente impositore e non mutando, dunque, la sua natura di corrispettivo per il servizio reso, il corrispondente credito non può in alcun modo essere considerato inerente al tributo riscosso e, pertanto, non è assistito dal relativo privilegio.

Considera l'eventualità che l'Amministrazione finanziaria possa essere debitrice nei confronti della procedura concorsuale Sez. 6-5, n. 6478, Rv. 630643, est. Caracciolo, con la precisazione, però, che il credito scaturito dalla presentazione, da parte del curatore, della dichiarazione finale dei redditi in favore della massa dei creditori non può essere compensato con il credito vantato dall'Amministrazione finanziaria nei confronti dell'imprenditore ritornato "in bonis" per effetto della chiusura del fallimento, essendo diversi i soggetti delle opposte ragioni di dare ed avere (in particolare, il credito fatto valere dal fallimento si atteggia come un credito della massa, mentre il credito opposto dall'Erario ha come soggetto passivo l'imprenditore).

4.3. I creditori privilegiati.

Sez. 1, n. 17270, Rv. 632473, est. Cristiano, dando piena continuità all'indirizzo inaugurato da Sez. U, n. 21045 del 2009, Rv. 609335, ha statuito che nell'ipotesi in cui il curatore del fallimento della società costruttrice di un immobile opti per lo scioglimento del contratto preliminare, ai sensi dell'art. 72 legge fall., il credito del promissario acquirente, avente ad oggetto la restituzione della caparra versata contestualmente alla stipula del preliminare, benchè assistito dal privilegio speciale di cui all'art. 2775 bis cod. civ., va collocato con grado inferiore, in sede di ripartizione dell'attivo, rispetto a quello dell'istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull'immobile ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice, non trovando in tal caso applicazione l'art. 2748, secondo comma, cod. civ. ma le ordinarie regole in tema di pubblicità degli atti.

La problematica dell'operatività delle cause di prelazione è, poi, presa in considerazione, in linea generale, da Sez. 1, n. 17710, Rv. 631999, est. Mercolino, che, sebbene relativamente ad una fattispecie anteriore al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e partendo dal principio secondo il quale l'oggetto della domanda giudiziale va sempre determinato alla stregua delle complessive indicazioni contenute in quest'ultima e dei documenti alla stessa allegati, ha tratto la conseguenza che la volontà del creditore di ottenere il riconoscimento del privilegio può comunque desumersi, anche in mancanza di un'espressa istanza di riconoscimento della prelazione, dalla chiara esposizione della causa del credito in relazione alla quale essa è richiesta.

Ai fini del riconoscimento della causa di prelazione, in una fattispecie relativa al riconoscimento del privilegio speciale di cui all'art. 2758, secondo comma, cod. civ., Sez. 1, n. 7414, Rv. 630140, est. Ragonesi, ha ritenuto necessaria la sussistenza del bene oggetto della prelazione al momento dell'accertamento del credito o, almeno, la sua individuabilità, cosicchè non possa escludersi la successiva acquisizione all'attivo fallimentare, costituendo onere del creditore, da adempiersi in sede di formulazione della domanda di ammissione al passivo, l'indicazione non solo del titolo del privilegio speciale richiesto, ma anche del bene costituente l'oggetto specifico del diritto di prelazione.

Si è invece soffermata - Sez. 6-1, n. 1740, Rv. 629813, est. De Chiara - sul tema del privilegio generale sui mobili dovuto sui compensi per le prestazioni professionali rese dall'avvocato, laddove, in caso di pluralità di incarichi svolti dal professionista, il limite temporale degli "ultimi due anni di prestazione", di cui all'art. 2751 bis, n. 2, cod. civ., va determinato con riferimento al rapporto professionale nel suo complesso, restando invece esclusi dal privilegio i corrispettivi degli incarichi portati a termine in data anteriore al biennio precedente la cessazione del complessivo rapporto.

La problematica dell'estensione del diritto di prelazione agli interessi è presa in considerazione da Sez. 1, n. 16927, Rv. 631893, est. Napoletano, che, dopo aver premesso che, alla luce della sentenza n. 204 del 1989 della Corte Costituzionale, sui crediti di lavoro è dovuta la rivalutazione monetaria anche per il periodo successivo al fallimento e fino alla dichiarazione di esecutività dello stato passivo, gli interessi legali sono dovuti, ai sensi degli artt. 54, terzo comma, e 55, primo comma, della legge fall. dalla maturazione sino al saldo.

La Corte, con Sez. 1, n. 6738, Rv. 630577, est. Di Virgilio, con riferimento ad una fattispecie anteriore alla riforma, partendo dal presupposto secondo cui l'accertamento del credito conseguente al decreto di esecutività, pur non avendo valore di giudicato al di fuori del fallimento, ma solo l'effetto preclusivo durante la procedura, impedisce che, nel corso della stessa, possano essere proposte dal creditore, ad un giudice differente da quello fallimentare, le questioni relative all'esistenza ed alla collocazione del credito ammesso, nonché alla validità ed opponibilità del titolo da cui lo stesso deriva, ha concluso che, in materia di credito fondiario, la collocazione del creditore in via chirografaria nello stato passivo del fallimento del debitore, preclude la collocazione in via ipotecaria del medesimo credito nel progetto di distribuzione del ricavato predisposto dal giudice dell'esecuzione.

Diverse coordinate ermeneutiche devono essere utilizzate con riferimento al concordato preventivo, riguardo all'efficacia della sentenza di omologazione circa l'accertamento dell'esistenza, dell'entità e del rango (privilegiato o chirografario) dei crediti.

In proposito Sez. 1, n. 20298, Rv. 632470, est. Mercolino, ha statuito che tale sentenza, per le peculiari caratteristiche della procedura che ad essa conduce, determina un vincolo definitivo sulla riduzione quantitativa dei crediti, ma non comporta la formazione di un giudicato sulla loro qualità o sul loro ammontare, presupponendone un accertamento non di carattere giurisdizionale ma soltanto amministrativo, di tipo delibativo e volto al solo scopo di consentire il calcolo delle maggioranze richieste ai fini dell'approvazione della proposta, sicchè non è esclusa la possibilità di far valere in via ordinaria, nei confronti dell'impresa in concordato, il proprio credito ed il privilegio che lo assiste.

Sempre in tema di trattamento dei crediti privilegiati nel concordato preventivo, Sez. 1, n. 14447, Rv. 631445, est. Scaldaferri, è intervenuta sul dibattuto tema della possibilità di estendere al concordato preventivo la disposizione contenuta nell'art. 182 ter, primo comma, legge fall. (come modificato dall'art. 32 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2), che esclude la falcidia concordataria sul capitale dell'Iva, dando così continuità a quell'orientamento, già espresso in anni precedenti dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la norma, attenendo allo statuto concorsuale di quel particolare credito, si applica ad ogni forma di concordato; trattasi in definitiva di una norma eccezionale che incide sull'ordine delle clausole legittime di prelazione ed attribuisce al credito Iva un trattamento peculiare ed inderogabile dall'accordo delle parti.

Altra questione particolarmente dibattuta in ordine al trattamento dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, riguarda la necessità di coordinare la promessa di un integrale pagamento di questi ultimi con l'aspetto tempistico normalmente connesso alla liquidazione dei beni.

Sul punto, Sez. 1, n. 10112, Rv. 631228, est. Didone, ha precisato che il principio generale del pagamento immediato dei creditori privilegiati può tollerare solo quelle marginali deviazioni imposte, nel concordato liquidativo, dai tempi tecnici strettamente necessari per addivenire alla cessione dei beni, sicchè l'adempimento con una tempistica superiore a quella reputata "normale", equivale a soddisfazione non integrale; sarà il giudice i merito, dunque, a dover determinare in concreto la perdita subita da tali creditori, anche alla luce della relazione giurata ex art. 160, secondo comma, legge fall. e degli eventuali interessi offerti ai creditori, rilevando tale accertamento ai fini del computo del voto ex art. 177, terzo comma, legge fall.

La necessità del rispetto delle cause legittime di prelazione è un principio che opera anche all'esito della risoluzione del concordato preventivo e della conseguente dichiarazione di fallimento, allorchè si tratti di verificare la portata applicativa dell'art. 140, terzo comma, legge fall. (dettato in tema di concordato fallimentare ma applicabile, in via analogica, anche a quello preventivo), a mente del quale i creditori anteriori alla riapertura della procedura fallimentare sono esonerati dalla restituzione di quanto hanno riscosso in base al concordato risolto o annullato, purchè si tratti di riscossioni valide ed efficaci.

Facendo applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 16738, Rv. 631885, est. Didone, ha dunque affermato l'obbligo dei creditori chirografari di restituire somme, ottenute nel corso del concordato poi risolto e senza il previo soddisfacimento di creditori privilegiati (quali l'INPS e l'Esattoria comunale).

4.4. I cessionari del credito.

I rapporti tra la procedura fallimentare ed il fenomeno della cessione del credito sono stati oggetto di esame sotto una duplice angolazione.

Con particolare riferimento all'ipotesi del fallimento del debitore ceduto, Sez. 1, n. 10454, Rv. 631230, est. Di Amato, ha precisato che la cessione di un credito concorsuale è opponibile al curatore anche se ha luogo nel corso della procedura; pertanto, nell'ipotesi in cui il credito ceduto sia stato già ammesso al passivo del fallimento, il cessionario potrà limitarsi a seguire la procedura prevista dall'art. 115 legge fall., mentre nell'ipotesi in cui il credito ceduto non sia stato ancora ammesso al passivo, il cessionario dovrà fornire la prova del credito e della sua opponibilità al fallimento. Il cessionario dovrà inoltre fornire la prova che la cessione è stata stipulata anteriormente al fallimento solo ai fini di un'eventuale compensazione (art. 56, secondo comma, legge fall.) ovvero ai fini di un eventuale concordato fallimentare (art. 127, ultimo comma, legge fall.).

Nella diversa ipotesi in cui a fallire sia il cedente, alla relativa procedura concorsuale potranno essere opposte solo le cessioni di credito notificate al debitore ceduto, ovvero dal medesimo accettate, con atto avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, in forza del disposto di cui all'art. 2914, primo comma, numero 2, cod. civ., che opera anche in caso di fallimento del cedente e sancisce l'inefficacia, nei confronti del creditore pignorante e degli interventori, delle cessioni di credito che, sebbene anteriori al pignoramento, sono state notificate al debitore o da lui accettate dopo il pignoramento [Sez. 1, n. 9831, Rv. 631123, est. Mercolino].

Lo stesso principio si trova ribadito in Sez. 1, n. 19199, Rv. 632487, est. Mercolino, con la precisazione che ove la cessione del credito sia inopponibile (in mancanza della notifica al debitore o dell'accettazione da parte di quest'ultimo), con atto avente data certa anteriore all'apertura della procedura concorsuale, il debitore ceduto, anche se a conoscenza dell'avvenuta cessione, è tenuto ad eseguire il pagamento al curatore del fallimento e non al cessionario.

Sempre con riferimento all'ipotesi del fallimento del cedente, Sez. 3, n. 18316, Rv. 632100, est. D'Amico, ha preso in considerazione l'ipotesi in cui la cessione del credito sia realizzata, anteriormente alla dichiarazione di fallimento, attraverso un mandato in rem propriam, precisando che in tal caso, salva l'esperibilità della revocatoria fallimentare, non solo non trova applicazione la disposizione di cui all'art. 78 legge fall. (che, nella formulazione anteriore alla riforma, prevedeva, in ogni caso, lo scioglimento del contratto di mandato), ma neppure l'art. 1723, secondo comma, cod. civ. che consente la revoca del mandato per giusta causa.

4.5. Il creditore di coobbligati solidali.

La posizione del creditore di condebitori solidali, dei quali uno sia stato dichiarato fallito, è stata presa in considerazione dalla Cassazione in due diverse occasioni.

In particolare, Sez. 6-1, n. 11811, Rv. 631612, est. Cristiano, ha evidenziato che il creditore ha diritto di concorrere nel fallimento del coobbligato fallito per l'intero debito per capitale e accessori sino all'integrale pagamento, anche nell'ipotesi in cui, in data successiva al fallimento, abbia ricevuto un pagamento parziale da altro coobbligato (in tale occasione la S.C. ha cassato il decreto del tribunale che, respingendo l'opposizione allo stato passivo, aveva confermato l'ammissione del credito "con riserva di detrazione di quanto eventualmente ricavato sui beni del terzo garante responsabile in solido").

Invece Sez. 1, n. 22043, Rv. 632585, est. Didone, ha preso in considerazione l'ipotesi in cui, avendo intrapreso il creditore l'azione esecutiva sull'immobile appartenente pro indiviso a due coobbligati, uno di essi sia stato dichiarato fallito e nel procedimento esecutivo contro costui sia subentrato, ex art. 107 legge fall., il curatore del fallimento: in tal caso la separazione della quota in natura spettante al debitore esecutato va esclusa, poiché ai sensi degli artt. 599, 600 e 601 cod. proc. civ. la separazione è possibile solo se i comproprietari dei beni indivisi non siano tutti condebitori solidali del creditore procedente.

5. La revocatoria fallimentare.

Per quanto concerne i presupposti della revocatoria fallimentare, particolarmente significativa appare Sez. 1, n. 15606, Rv. 631842, rel. Nazzicone, che incentra il proprio percorso argomentativo sulla pretesa avanzata dalla curatela fallimentare di ottenere la dichiarazione di inefficacia della vendita dell'immobile ipotecato, avvenuta nell'ambito dell'esecuzione individuale promossa dal creditore fondiario; in tal caso, mancando radicalmente uno dei presupposti della revocatoria fallimentare, costituito dall'impossibilità di assoggettare direttamente il bene all'esecuzione concorsuale, e ponendosi la vendita del bene nell'ambito dell'esecuzione individuale come alternativa a quella in sede fallimentare, l'unico strumento a disposizione del curatore consiste nella richiesta del versamento della somma, ricavata dalla vendita, consegnata all'istituto, ma solo ove quest'ultimo abbia omesso di conseguire l'ammissione al passivo, neppure potendo pretendere dal terzo acquirente la differenza tra il valore venale del bene ed il minor importo ricavato dalla vendita forzata.

Ulteriore presupposto della revocatoria fallimentare è la pendenza della procedura concorsuale: secondo Sez. 1, n. 17709, Rv. 632149, est. Mercolino, tale presupposto di traduce in una condizione di proseguibilità dell'azione, in quanto la declaratoria di inefficacia relativa dell'atto impugnato, cui essa è preordinata, ha come termini soggettivi, da un lato, le parti dell'atto e, dall'altro, i creditori concorsuali, sicchè, ove la procedura fallimentare si chiuda senza bisogno di liquidare il bene oggetto dell'atto dispositivo, viene meno l'interesse ad ottenere la declaratoria di inefficacia, con conseguente cessazione della materia contesa.

Sempre con riferimento ai presupposti oggettivi, sia pure nell'ambito della revocatoria aggravata di cui all'art. 69 legge fall., Sez. 1, n. 6028, Rv. 630538, rel. Bernabai, in un'ipotesi di estensione del fallimento di una s.r.l. al suo socio unico cagionata dell'inosservanza dell'obbligo pubblicitario di cui agli artt. 2462 e 2470 cod. civ., ha escluso la revocabilità dell'atto pubblico di divisione, con il quale il socio, poi fallito in estensione, aveva attribuito la metà dell'immobile al proprio coniuge, già comproprietario dell'altra metà, sul rilievo che la mancata osservanza del predetto adempimento pubblicitario non comporta la trasformazione ipso jure del socio in imprenditore individuale, con conseguente difetto del presupposto oggettivo della fattispecie speciale di cui all'art. 69 legge fall.

Quanto all'individuazione del momento rilevante ai fini del computo del c.d. periodo sospetto, Sez. 1, n. 13908, Rv. 631401, est. Nazzicone, ha precisato che nell'ipotesi in cui il creditore concorsuale si sia già soddisfatto mediante il ricorso a procedure esecutive individuali, gli atti soggetti a revocatoria si identificano non nei provvedimenti del giudice dell'esecuzione (si pensi ad esempio all'assegnazione di un credito vantato dal fallito presso terzi), ma nei successivi e distinti atti di pagamento coattivo in tal modo conseguiti, per cui, ai fini della determinazione del periodo sospetto, occorre fare riferimento alla data in cui il creditore sia stato concretamente soddisfatto ricevendo la somma ricavata dall'esecuzione. Rilevando, dunque, in ogni caso, sia nel pagamento volontario, quanto nel pagamento coattivo, l'atto solutorio lesivo della par condicio, risulta fugato ogni sospetto di incostituzionalità dell'art. 67, secondo comma, legge fall., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.

Gli elementi oggettivi della revocatoria fallimentare, poi, assumono una particolare colorazione in tema di revocabilità dell'ipoteca volontaria costituita nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, occorrendo, ai sensi dell'art. 67, primo comma, n. 3, legge fall. che la garanzia riguardi debiti preesistenti non scaduti.

Al riguardo Sez. 1, n. 23081, Rv. 632831, est. Cristiano ha preso in considerazione l'ipotesi in cui il debito nei confronti dell'istituto di credito tragga origine dalla revoca di un affidamento per anticipi. Dopo aver premesso che mediante il contratto di affidamento per anticipi, la banca, avendo posto anticipatamente a disposizione del cliente gli importi dei crediti vantati verso terzi e documentati da carta commerciale, provvede alla loro riscossione attraverso lo schema del mandato in rem propriam, conferito contestualmente alla stipula del contratto, la pronuncia in esame ha precisato che, ove sia intervenuta la revoca dell'affidamento - con correlata rinunzia della banca al mandato all'incasso - il cliente è tenuto all'immediato pagamento di tutte le somme anticipategli, sicchè l'ipoteca volontaria concessa in data successiva a garanzia del debito, in quanto conseguita per debiti già scaduti ed esigibili, non è revocabile in base alla norma richiamata.

Passando in rassegna poi le pronunce rese in ordine all'elemento soggettivo della scientia decoctionis, la rilevanza degli indici presuntivi è confermata da Sez. 1, n. 17286, Rv. 631936, est. Didone, anche con riferimento all'ipotesi prevista dall'art. 67, primo comma, n. 1, legge fall., allorchè, dovendosi fornire la prova contraria idonea a vincere la presunzione, va attribuito rilievo a fattori (quali la contiguità territoriale del luogo in cui opera l'impresa, l'occasionalità ovvero la continuità dei rapporti commerciali con essa, la loro importanza) in grado di far luce sui concreti collegamenti tra il convenuto ed i sintomi conoscibili per una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza.

Nell'ipotesi in cui l'atto revocabile sia stato posto in essere dopo la chiusura di una precedente procedura fallimentare (e naturalmente nel periodo sospetto calcolato a ritroso rispetto alla nuova procedura), la circostanza che il fallimento sia stato chiuso per mancanza di domande di ammissione al passivo costituisce un elemento sintomatico del fatto che l'imprenditore è stato soddisfatto fuori della procedura concorsuale e dunque è tornato a godere di credito; tale circostanza, unitamente all'ulteriore considerazione basata sulla successiva messa in liquidazione della società (che non implica di per sé uno stato di insolvenza), dovendosi in tal caso verificare la sufficienza o meno del patrimonio sociale ad assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori, consentono di formulare un giudizio negativo circa la sussistenza della "scientia decoctionis" [Sez. 1, n. 18596, Rv. 631964, est. Nazzicone].

Ai fini dell'azione revocatoria di cui all'art. 67, primo comma, n. 3 legge fall., Sez. 1, n. 26746, in corso di massimazione, est. De Marzo, partendo dal presupposto che l'ipoteca volontaria si ha per costituita con l'iscrizione nei registri immobiliari e non invece con l'atto di concessione, il quale ha efficacia solo inter partes e non fa sorgere la prelazione, ha concluso che al momento dell'iscrizione ipotecaria debba farsi riferimento per l'accertamento della scientia decotionis (nonché della preesistenza e scadenza del credito).

Allorchè gli indici sintomatici dell'elemento soggettivo vengano desunti dalla considerazione di comportamenti usuali, Sez. 1, n. 4190, Rv. 630027, est. Genovese, ha precisato che la valutazione della prassi da parte del giudice trova il proprio limite nel divieto di scienza privata di cui agli artt. 115 cod. proc. civ. e 97 disp. att. cod. proc. civ., contravvenendo in particolare a tale divieto la sentenza che, al fine di accertare l'elemento soggettivo nella revocatoria fallimentare, neghi che, in un determinato periodo, la prassi, anche bancaria, abbia fatto ricorso all'uso di taluni indici economici-finanziari idonei a palesare utili di bilancio solo apparenti.

Quando poi nell'azione revocatoria sia convenuto un istituto di credito, Sez. 1, n. 17208, Rv. 632472, est. Di Amato, ha evidenziato che la qualità di operatore economico qualificato, pur non integrando, da sola, la prova dell'effettiva conoscenza dei sintomi dell'insolvenza, impone di considerare la professionalità ed avvedutezza con cui normalmente gli istituti di credito esercitano la loro attività, sicchè la scientia decoctionis non può escludersi per il solo fatto che, in sede di concessione o di rinnovo del fido, la banca abbia effettuato un qualunque esame dei bilanci della correntista poi fallita, dovendosi semmai verificare se sia stato svolto un esame critico e scrupoloso della effettività, della coerenza e della congruità delle singole voci esposte nei bilanci, e se i criteri di giudizio in concreto adoperati corrispondano o meno alla prassi degli istituti nella concessione del credito.

Diverse sono, poi, le pronunce rilevanti in materia di revocatoria di rimesse bancarie.

Con la prima è stato ribadito, con riferimento ad operazioni di sconto di titoli cambiari con accredito del ricavo netto sul conto corrente, l'ormai consolidato principio secondo cui le rimesse sul conto corrente sono revocabili quando il conto, all'atto della rimessa, risulti "scoperto", onde, al fine di accertare se una rimessa abbia funzione solutoria ovvero valga a ripristinare la provvista del conto corrente, occorre avere riguardo non al "saldo contabile", che è idoneo solo a riflettere la registrazione delle operazioni in ordine puramente cronologico, né al "saldo per valuta", risultante dal posizionamento delle partite in base all'epoca di maturazione degli interessi, bensì al "saldo disponibile" del conto, da determinarsi in ragione delle epoche di effettiva esecuzione di incassi ed erogazioni da parte della banca [Sez. 1, n. 15605, Rv. 631762, est. Nazzicone].

Invece Sez. 1, n. 3181, Rv. 630224, est. Di Amato, si occupa della distribuzione dell'assetto probatorio, con riferimento ai documenti bancari necessari a dimostrare la situazione del conto al momento delle rimesse, escludendo, salvo l'ordine del giudice, che l'istituto di credito sia onerato alla relativa produzione in giudizio.

A sua volta Sez. 1, n. 20810, Rv. 632699, est. Mercolino, ha precisato che la negazione della natura solutoria delle rimesse impugnate non costituisce un'eccezione in senso proprio, risolvendosi nella contestazione del titolo posto a fondamento della domanda, la cui mancanza, dunque, può essere rilevata d'ufficio ed eccepita anche in sede di gravame, purchè le circostanze da cui risulti emergano da atti ritualmente acquisiti nelle precedenti fasi processuali e la relativa deduzione, in quanto diretta ad ottenere la riforma della sentenza appellata, sia contenuta nel relativo atto di impugnazione.

L'irrevocabilità delle rimesse bancarie in conto corrente, in quanto dipendenti da operazioni bilanciate, è un principio ribadito da Sez. 1, n. 17195, Rv. 632175, est. Di Virgilio, specificandosi, al riguardo, che la natura bilanciata dell'operazione presuppone l'esistenza di precisi accordi, intercorsi tra il solvens e l'accipiens, diretti a "costituire la provvista di coeve o prossime operazioni di prelievo o di pagamenti mirati in favore di terzi, così da potersi escludere che la banca abbia beneficiato dell'operazione sia prima, all'atto della rimessa, sia dopo, all'atto del suo impiego".

Per quanto riguarda, infine, la tematica degli effetti dell'azione revocatoria, Sez. 1, n. 15123, Rv. 631504, est. De Chiara, aderisce alla tesi, consolidata in giurisprudenza, secondo cui nel caso in cui il bene non sia più presente nel patrimonio del convenuto, a causa dell'alienazione da questi operata in favore del subacquirente, salvo l'esercizio dell'azione nei confronti di questi ultimi, l'effetto recuperatorio si trasferisce sull'equivalente pecuniario dell'alienazione successiva, da qualificarsi come debito di valore.

6. Le prededuzioni.

Una delle questioni più interessanti affrontate in tema di prededucibilità riguarda l'ambito applicativo dell'art. 111, secondo comma, legge fall., nel testo novellato prima dal d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 e poi dall'art. 8 del d.lgs. 12 settembre 2007 n. 169, che riconosce la prededuzione, oltre che nei casi previsti dalla legge, anche ai crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali. Il problema principale ha riguardato la possibilità di assegnare natura prededucibile al credito vantato dal professionista nel corso del concordato preventivo, o svolgendo attività di assistenza, consulenza ed eventualmente redazione della proposta di concordato preventivo oppure in virtù di incarichi precedentemente conferiti ed ancora in corso al momento della domanda di concordato preventivo.

La tesi negativa, sicuramente prevalente con riferimento alle procedure regolate dal cd. vecchio rito, fondava il proprio percorso argomentativo sulla circostanza che i crediti sorti durante il concordato preventivo non fornivano alcuna utilità sostanziale rispetto alla conseguente procedura fallimentare, atteso il carattere meramente liquidatorio del concordato che non consentiva, di regola, la continuazione dell'esercizio dell'impresa da parte del debitore. Ulteriore resistenza a riconoscere carattere prededucibile ai crediti in oggetto nasceva dall'assenza di un controllo del giudice delegato, necessario al fine di verificare se l'attività professionale corrispondesse o meno agli interessi della massa dei creditori.

L'orientamento formatosi più di recente ha sovvertito con convincenti argomentazioni l'impostazione tradizionale.

La Corte con Sez. 1, n. 8958, Rv. 630943, est. Mercolino, in riferimento al credito del professionista per prestazioni rese in giudizi già pendenti al momento della domanda di concordato preventivo, ha rilevato che il nuovo art. 111, secondo comma, legge fall., perseguendo lo scopo di incentivare il ricorso a moduli concorsuali diversi dal fallimento, riconosce natura prededucibile ai crediti sorti in occasione o in funzione della procedura concorsuale, sicchè occorre avere riguardo non tanto al nesso cronologico o teleologico, tra l'insorgere del credito e gli scopi della procedura, ma anche alla circostanza che il pagamento del credito, ancorchè avente natura concorsuale, rientra negli interessi della massa e dunque risponde alle finalità della procedura, recando vantaggi o in termini di accrescimento dell'attivo o di salvaguardia della sua integrità, indipendentemente dalla presenza o meno di una preventiva autorizzazione del giudice delegato.

La stessa soluzione è stata desunta da Sez. 1, n. 19013, Rv. 632086, est. Bernabai, con riferimento all'attività resa dal professionista in sede di assistenza, consulenza e redazione della proposta di concordato preventivo, da una serie di indici normativi, quali: l'esclusione dell'azione revocatoria in ordine al pagamento del compenso del professionista ex art. 67, comma terzo, lett. g, legge fall.; l'intervenuta abrogazione dell'art. 182 quater, quarto comma, legge fall., che riconosceva la prededuzione (se espressamente prevista nel decreto di ammissione al concordato preventivo) al solo credito del professionista attestatore; l'interpretazione autentica dell'art. 111, secondo comma, legge fall. fornita dall'art. 11, comma 3 quater, del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, che ha esteso la prededuzione anche ai crediti sorti in occasione ed in funzione delle procedure di concordato con riserva, ai sensi dell'art. 161, sesto comma, legge fall.

Il nuovo volto assunto dalla prededucibilità è pure confermato da Sez. 6-1, n. 18922, Rv. 631883, est. Bernabai, secondo cui il credito del professionista che abbia assistito il debitore nella preparazione della documentazione per la proposizione dell'istanza di fallimento in proprio, costituisce un credito sorto in funzione della procedura e dunque prededucibile ai sensi dell'art. 111, secondo comma, legge fall., trattandosi di attività che, pur potendo essere svolta personalmente dal debitore, quest'ultimo ha scelto, per ragioni di opportunità e convenienza, di affidare ad un esperto del settore.

Espressiva del nuovo orientamento ampliativo è, infine, Sez. 1, n. 1513, Rv. 629257, est. Di Amato, che ha riconosciuto carattere prededucibile, ai sensi del nuovo art. 111, secondo comma, legge fall., in quanto sorto in occasione della procedura, al credito vantato dal proprietario dei locali occupati "sine titulo" dai beni ceduti dal debitore ai creditori nell'ambito di un concordato preventivo con cessione dei beni, caratterizzandosi tale credito sia per l'elemento cronologico (avendo il liquidatore giudiziale continuato a mantenere i beni nei locali), sia per un implicito elemento soggettivo caratterizzato dalla riferibilità agli organi della procedura (in quanto il liquidatore avrebbe dovuto procedere alla loro liquidazione).

PARTE SETTIMA DIRITTO TRIBUTARIO

  • imposta locale
  • imposta sull'incremento di valore
  • contribuente
  • abuso di potere
  • attività bancaria
  • particella catastale
  • detrazione fiscale
  • reato tributario
  • dazi doganali
  • valore aggiunto
  • incremento produttivo
  • imposta di registro
  • azione per accertamento della responsabilità
  • dichiarazione d'imposta
  • diritto tributario
  • condono fiscale
  • telefono mobile
  • rimborso fiscale
  • esenzione fiscale
  • abuso di diritto
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XXIII

IL DIRITTO TRIBUTARIO

(di Andrea Nocera, Paolo Di Marzio, Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 La soluzione del contrasto circa la decorrenza del termine di decadenza del diritto al rimborso di tributi pagati in applicazione di una norma incompatibile con il diritto dell'Unione europea. - 2 L'emersione di un nuovo contrasto: la cristallizzazione (o no) del credito richiesto a rimborso con la dichiarazione dei redditi qualora l'amministrazione non provveda sulla richiesta nel termine previsto per l'accertamento. - 3 I princípi dello statuto dei diritti del contribuente. - 4 L'abuso del diritto. - 5 L'abuso del processo. - 6 Le dichiarazioni tributarie. - 7 Le sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie. - 8 Le esenzioni e le agevolazioni fiscali. - 9 Il condono. - 10 Gli accertamenti tributari. - 10.1 La competenza territoriale degli uffici finanziari. - 10.2 Gli accertamenti fiscali: le forme. - 10.3 Gli accertamenti fiscali: la motivazione. - 10.4 Gli accertamenti fiscali: le movimentazioni bancarie. - 10.5 Gli accertamenti fiscali: accessi, ispezioni e verifiche. - 10.6 Gli accertamenti fiscali: le presunzioni e l'onere della prova. - 10.7 Gli accertamenti fiscali: l'elusione fiscale. - 10.8 Gli atti di accertamento: la notificazione, forme e destinatari. - 11 Il sostituto d'imposta. - 12 Le imposte sui redditi: le plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili. - 13 L'imposta di registro, la qualificazione dell'atto e le conseguenze. - 14 L'IVA. - 14.1 Le fatture soggettivamente inesistenti. - 14.2 L'IVA. Le violazioni degli obblighi di registrazione e di fatturazione. - 14.3 L'IVA. Detrazioni ed esenzioni. - 14.4 L'IVA. Il credito al rimborso: diniego e sospensione. - 15 Il classamento catastale. - 16 L'imposta di successione. - 17 L'imposta di registro. - 18 Le sanzioni amministrative in materia tributaria. - 19 Le imposte doganali. - 20 La TARSU. - 21 L'ICI. - 22 L'IRAP. - 23 La tassa di concessione governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari. L'orientamento "conservativo" delle Sezioni Unite. - 24 La riscossione delle imposte statali. L'iscrizione a ruolo. - 24.1 Il recupero dei crediti per tributi sorti negli Stati membri. - 25 La cartella esattoriale: natura impositiva e obbligo di motivazione. - 25.1 La cartella esattoriale: la successione "ex lege" nei rapporti controversi di Equitalia s.p.a. - 25.2 La cartella esattoriale: la notificazione. - 25.3 I termini di decadenza. - 25.4 L'impugnazione della cartella esattoriale. - 26 L'iscrizione di ipoteca. Le Sezioni Unite e la soluzione di un contrasto. - 27 La riscossione delle imposte locali. La pronuncia delle Sezioni Unite sull'obbligo del concessionario di pagamento del corrispettivo per la gestione del conto corrente postale. - 28 La prescrizione e la decadenza.

1. La soluzione del contrasto circa la decorrenza del termine di decadenza del diritto al rimborso di tributi pagati in applicazione di una norma incompatibile con il diritto dell'Unione europea.

Il contrasto in ordine alla questione della decorrenza del termine di decadenza per l'esercizio del diritto al rimborso di somme versate in applicazione di una norma impositiva interna ritenuta, successivamente al pagamento, in contrasto con il diritto dell'Unione europea da una sentenza della Corte di giustizia, è stato risolto dalle Sezioni unite.

Sul punto, le sezioni semplici avevano espresso orientamenti difformi. Quello prevalente e più antico era nel senso della decorrenza del detto termine di decadenza dalla data del pagamento del tributo, a nulla rilevando che, in quel momento, non fosse stata ancora dichiarata l'incompatibilità della norma impositiva interna con il diritto dell'Unione (Sez. U, n. 3458 del 1996, Rv. 496970; Sez. 5, n. 4670 del 2012, Rv. 621769; Sez. 5, n. 13087 del 2012, Rv. 623918). Con la sentenza n. 22282 del 2011, Rv. 620082, la stessa sezione tributaria aveva invece ritenuto che, in virtù dei principi affermati dalla Corte in tema di overruling − in base ai quali l'imprevedibile mutamento di giurisprudenza, che introduca una decadenza o una preclusione prima escluse, non può andare a svantaggio del cittadino che ha fatto affidamento sul precedente consolidato orientamento − il dies a quo della decorrenza del termine andava individuato nella data di deposito della sentenza della Corte di giustizia. Con l'ordinanza interlocutoria Sez. 6-5, n. 959 del 2013, est. Cosentino, aveva quindi rimesso gli atti al Primo Presidente.

Il contrasto è stato risolto con la sentenza n. 13676, Rv. 631442 e 631443, est. Virgilio. Al riguardo, le Sezioni unite hanno affermato che il termine di decadenza per l'esercizio del diritto al rimborso, nella specie quello per il rimborso delle imposte sui redditi previsto dall'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e decorrente "dalla data del versamento" o da quella "in cui la ritenuta è stata operata", opera anche nel caso in cui l'imposta sia stata pagata sulla base di una norma successivamente dichiarata in contrasto con il diritto dell'Unione europea da una sentenza della Corte di giustizia, in quanto l'efficacia retroattiva di tale pronuncia - così come quella che connota le sentenze declaratorie di illegittimità costituzionale − incontra il limite dei rapporti esauriti, ricorrente, appunto, quando sia maturata una causa di prescrizione o di decadenza, costituendo questi istituti posti a presidio del principio della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche (Rv. 631442). Né, afferma ancora la Corte, i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di overruling sono invocabili al fine di giustificare la decorrenza del termine decadenziale dalla data della pronuncia della Corte di giustizia, anziché da quella in cui venne effettuato il versamento o operata la ritenuta. Tale giurisprudenza, infatti, non è direttamente riferibile alla fattispecie, mentre, quanto alla ratio della stessa, e al valore in essa attribuito all'affidamento incolpevole del cittadino, anche a volere ritenere la configurabilità di un affidamento incolpevole nella "legittimità" eurounitaria della norma impositiva vigente, deve considerarsi prevalente, rispetto alla tutela di tale affidamento, l'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, tanto più cogente nella materia delle entrate tributarie, la quale risulterebbe vulnerata dalla sostanziale protrazione a tempo indeterminato dei relativi rapporti (Rv. 631443).

Con riguardo alla medesima vicenda che ha dato origine alla controversia risolta con la sentenza n. 13676, va ricordata anche l'ordinanza Sez. 6-5, n. 2032, Rv. 629289, est. Cosentino, con la quale la Corte ha affermato che il dimezzamento dell'aliquota dell'IRPEF sulle somme corrisposte, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, a titolo di incentivo all'esodo, va riconosciuto sia alle donne che agli uomini che abbiano superato i cinquant'anni, in quanto il giudice nazionale, per effetto delle pronunce della Corte di giustizia 21 luglio 2005, in causa C-207/2004, e 16 gennaio 2008, nelle cause riunite C-128/07 e C-31/07 − che avevano accertato una discriminazione incompatibile con il diritto dell'Unione europea − deve disapplicare ogni disposizione discriminatoria, attribuendo alla categoria sfavorita il trattamento più favorevole riservato alle persone dell'altra categoria.

2. L'emersione di un nuovo contrasto: la cristallizzazione (o no) del credito richiesto a rimborso con la dichiarazione dei redditi qualora l'amministrazione non provveda sulla richiesta nel termine previsto per l'accertamento.

Con l'ordinanza interlocutoria Sez. 5, n. 23529, est. Di Iasi, è stata rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, un ricorso che poneva la questione - già decisa in senso difforme dalla Sezione tributaria della Corte − se, qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale, ai fini dell'imposta sui redditi, esponendo un credito di rimborso, l'amministrazione finanziaria sia tenuta, o no, a provvedere sulla richiesta di rimborso nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all'accertamento in rettifica, con la conseguenza che, decorso il termine predetto senza che sia stato adottato alcun provvedimento, il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza, oppure no, nell'an e nel quantum.

La Corte ha evidenziato che la soluzione negativa a tale questione − nel senso, cioè, dell'insussistenza dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere al rimborso del credito d'imposta richiesto in sede di dichiarazione entro il termine di decadenza previsto per l'accertamento in rettifica della stessa e della conseguente mancata cristallizzazione del diritto al rimborso per effetto dello spirare del detto termine senza che sia stato adottato alcun provvedimento - è stata sostenuta dalla Sezione tributaria con riguardo sia alle imposte dirette (n. 9524 del 2009, Rv. 607965; n. 2918 del 2010, Rv. 611875; n. 11444 del 2011, Rv. 617247) che a quelle indirette (n. 194 del 2004, Rv. 569366; n. 29398 del 2008, Rv. 605973; n. 8642 del 2009, Rv. 607848). L'ordinanza interlocutoria evidenzia tuttavia come l'opposto avviso sia stato, più di recente, consapevolmente e motivatamente espresso dalla stessa Sezione tributaria con la sentenza n. 9339 del 2012, Rv. 622962, est. Olivieri, la quale ha ritenuto inammissibile, alla stregua dei princípi della collaborazione e della buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria, della certezza dei rapporti giuridici e dell'efficienza dell'amministrazione, che, a fronte dell'istanza di rimborso formulata dal contribuente con la presentazione della dichiarazione annuale, l'amministrazione finanziaria possa postergare sine die il relativo provvedimento, avanzando, eventualmente, contestazioni in ordine alla sussistenza del diritto al rimborso e negando, di conseguenza, lo stesso a distanza di anni dall'istanza; possibilità che, in effetti, determinerebbe una ingiustificata perdurante incertezza in ordine alla definizione del rapporto tributario, idonea a incidere negativamente non solo nei confronti del contribuente - che non può fare affidamento in tempi brevi sulla liquidità della somma chiesta in restituzione - ma anche della stessa amministrazione finanziaria che, ai fini della programmazione e dello svolgimento delle attività rientranti nella propria competenza, deve potere conoscere in tempo utile le effettive necessità finanziarie con le quali fare tempestivamente fronte all'adempimento delle proprie obbligazioni ed evitare i maggiori oneri patrimoniali determinati dall'eventuale ritardo colpevole. La stessa sentenza n. 9339 del 2012 era quindi giunta ad affermare che, nel caso in cui il rimborso sia richiesto con la dichiarazione annuale, le norme tributarie "sembrano ricollegare l'obbligo di provvedere della PA in ordine alla richiesta di rimborso ai medesimi termini stabiliti per l'esercizio del potere di controllo della dichiarazione e di accertamento della maggiore imposta".

3. I princípi dello statuto dei diritti del contribuente.

Posta di fronte a previsioni legislative di cui si deduceva il contrasto con lo statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), la Corte ha anzitutto ribadito, in due diverse occasioni, quanto da essa già ripetutamente affermato in ordine alla collocazione dello stesso nel sistema delle fonti.

Una prima pronuncia ha riguardato la proroga del termine (previsto dall'art. 76, comma 1 bis, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131) per la rettifica e la liquidazione delle maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastale disposta dall'art. 11, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289. La Corte ha chiarito che essa non è impedita dal divieto di proroga dei termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti d'imposta stabilito dall'art. 3, comma 3, dello statuto né, in generale, dalle disposizioni dello stesso, in quanto queste, pur costituendo criteri guida per il giudice nell'interpretazione ed applicazione delle norme tributarie, anche anteriori, non hanno rango superiore alla legge ordinaria, sicché ne è ammessa la modifica o la deroga ad opera di questa, purché espressa (come era avvenuto nella specie) e non a mezzo di leggi speciali e non può disporsi la disapplicazione di una disciplina con esse in (asserito) contrasto (Sez. 5, n. 1248, Rv. 629480, est. Sambito).

Una seconda pronuncia ha riguardato la sospensione dell'utilizzo del credito d'imposta per investimenti nelle aree svantaggiate (art. 8, della legge 23 dicembre 2000, n. 388) stabilita dall'art. 1 del d.l. 12 novembre 2002, n. 253, e dall'art. 62, comma 7, della legge n. 289 del 2002. Anche in questo caso la Corte ha negato che la detta sospensione sia preclusa dalla legge n. 212 del 2000, ribadendo che le disposizioni della stessa costituiscono dei meri criteri guida per il giudice, in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, ma non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, essendone, invero, ammessa la modifica o la deroga purché espressa e non ad opera di leggi speciali, con la conseguenza che la previsione legislativa che sia in contrasto con lo statuto senza che ricorrano le dette condizioni non è suscettibile di disapplicazione né può essere di per sé oggetto di questione di legittimità costituzionale, non potendo lo statuto fungere direttamente da norma parametro di costituzionalità (Sez. 5, n. 4815, Rv. 630059, est. Sambito).

Quanto all'obbligo di motivazione degli atti dell'amministrazione finanziaria previsto dall'art. 7 dello statuto, va anzitutto segnalata la sentenza n. 15327, in tema di motivazione per relationem, la quale ha precisato che l'art. 7, comma 1, secondo periodo, della legge n. 212 del 2000, nel prevedere che all'atto deve essere allegato ogni documento da esso richiamato nella motivazione, si riferisce esclusivamente a quegli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza (Sez. 5, n. 15327, Rv. 631550, est. Virgilio).

In tema di contenuto e di finalità della motivazione, la sentenza n. 9810 ha precisato che la motivazione dell'avviso di accertamento o di rettifica, assicurata dall'art. 7 della legge n. 212 del 2000, ha la funzione di delimitare l'ambito delle contestazioni proponibili dall'ufficio nell'eventuale successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in condizione di conoscere l'an ed il quantum della pretesa tributaria in modo da potere approntare un'idonea difesa, con la conseguenza che il relativo obbligo deve ritenersi assolto con l'enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti all'idoneità del criterio applicato in concreto attengono al diverso piano della prova della pretesa tributaria (Sez. 5, n. 9810, Rv. 630679, est. Terrusi).

Assai numerose sono state le pronunce che hanno riguardato la garanzia riconosciuta dall'art. 12, comma 7, dello statuto al contribuente sottoposto a verifiche fiscali (i primi due periodi di tale comma stabiliscono, in particolare, che, "Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza").

Diversi arresti hanno affrontato il problema dell'ambito applicativo di tale disposizione.

La garanzia da essa prevista è applicabile - con specifico riguardo al necessario rispetto del termine dilatorio per l'emanazione dell'avviso di accertamento di cui al secondo periodo dell'art. 12, comma 7 - non solo nell'ipotesi di verifica ma anche di accesso, concludendosi anche questo con la sottoscrizione del processo verbale delle operazioni svolte e la consegna dello stesso al contribuente, a norma dell'art. 52, sesto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 o dall'art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Sez. 5, n. 2593, Rv. 629383, Bruschetta).

Lo stesso termine dilatorio decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, a prescindere dal loro contenuto e denominazione formale, in quanto esso ha lo scopo di garantire il contraddittorio anche a séguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo. Sulla scorta di tale principio, la Corte ha escluso la nullità di un avviso di accertamento che era stato notificato nel rispetto del detto termine dilatorio decorrente dal rilascio della copia di un verbale di accesso, nonostante la mancanza di un successivo processo verbale di constatazione (Sez. 6-5, n. 15010, Rv. 631563, est. Iacobellis).

L'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 è poi applicabile a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell'impresa, compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all'acquisizione di documentazione, atteso che tale disposizione non prevede distinzioni e che l'art. 52, sesto comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, stabilisce la redazione di un processo verbale di chiusura delle operazioni anche nel caso degli indicati atti di accesso istantanei (Sez. 5, n. 15624, Rv. 631980, est. Meloni, che ribadisce un orientamento già precedentemente espresso dalla Corte).

L'applicabilità del termine dilatorio di sessanta giorni dalla conclusione della verifica fiscale è stata ancora affermata con riguardo all'avviso di recupero del credito d'imposta, in ragione della sostanziale equiparazione tra tale atto accertativo della pretesa tributaria, con natura impositiva, e l'avviso d'accertamento, con la conseguente affermazione dell'illegittimità dell'avviso di recupero del credito d'imposta emesso ante tempus, essendo l'indicato termine dilatorio posto a garanzia del dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, primaria espressione dei princípi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente e diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva (Sez. 5, n. 15634, Rv. 632109, est. Ferro).

L'impossibilità di emanare l'avviso di recupero del credito d'imposta, salvo particolari ragioni di urgenza, prima del decorso del termine dilatorio in considerazione, è ribadita, in base a considerazioni sostanzialmente analoghe a quelle della sentenza n. 15634, anche dalla sentenza n. 19561 (Sez. 5, Rv. 632449, est. Crucitti).

Lo stesso art. 12, comma 7, è invece ritenuto inapplicabile (come, anche in questo caso, la Corte aveva già avuto occasione di chiarire) agli avvisi di rettifica in materia doganale, atteso che, in tale àmbito, opera la disposizione speciale dell'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 (nel testo applicabile ratione temporis), preordinata a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all'impugnazione in giudizio dei detti avvisi, come confermato anche dal sopravvenuto d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, che, nel disporre - aggiungendo un terzo periodo al citato comma 7 − che gli accertamenti in materia doganale sono disciplinati esclusivamente dall'art. 11 del d.lgs. n. 374 del 1990, ha introdotto un meccanismo di contraddittorio assimilabile a quello previsto dallo statuto del contribuente (Sez. 5, n. 15032, Rv. 631845, est. Olivieri).

Significativa è, ancora, l'esclusione dell'applicabilità dell'art. 12, comma 7 - sempre con riferimento al termine per l'emanazione dell'avviso di accertamento previsto dal secondo periodo dello stesso − anche agli accertamenti standardizzati mediante parametri e studi di settore, atteso che, anche in tale caso, è già prevista, a pena di nullità, una fase necessaria di contraddittorio procedimentale che garantisce pienamente la partecipazione e l'interlocuzione del contribuente anteriormente all'emissione dell'accertamento (Sez. 5, n. 7960, Rv. 629967, est. Virgilio).

Pure da segnalare è la negazione dell'assoggettamento al termine dilatorio in questione degli avvisi di accertamento emessi ai sensi degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, per effetto del controllo delle dichiarazioni e della documentazione contabile del contribuente, atteso che l'applicazione del detto termine postula lo svolgimento di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali del contribuente e non si estende al caso in cui la pretesa impositiva scaturisca dall'esame di atti sottoposti all'amministrazione dallo stesso contribuente e da essa esaminati d'ufficio (Sez. 6-5, n. 21391, Rv. 632381, est. Conti).

Per le stesse ragioni, la Corte ha infine affermato − in conformità al precedente costituto dalla sentenza n. 16354 del 2012 (Sez. 5, Rv. 623835, Olivieri) − l'esclusione dell'applicabilità del termine dilatorio del secondo periodo del comma 7 dell'art. 12 all'emissione dell'avviso di pagamento dell'accisa di cui all'art. 14, comma 1, del d.lgs 26 ottobre 1995, n. 504 (Sez. 5, n. 7598, Rv. 630223, est. Perrino).

La stesso termine dilatorio e, in genere, le garanzie dell'art. 12 della legge n. 212 del 2000, sono apprestate esclusivamente a favore del contribuente sottoposto a verifica presso i locali di sua pertinenza destinati all'esercizio dell'attività e non anche a favore del terzo a carico del quale possano emergere, dalla detta verifica, informazioni od elementi utili per l'emissione di un avviso di accertamento nei suoi confronti (Sez. 5, n. 26493, in corso di massimazione, est. Scoditti).

Non sussiste, peraltro, alcuna violazione dell'art. 12, comma 7, nel caso in cui l'atto sia stato formato e sottoscritto prima dello spirare del termine dilatorio da esso previsto ma sia stato notificato dopo la scadenza dello stesso, atteso che l'inosservanza di tale termine postula la notifica dell'atto impositivo al destinatario o, in ogni caso, l'avvenuta conoscenza legale da parte di lui (Sez. 5, n. 15648, Rv. 632232, Napolitano).

Quanto al contenuto dispositivo del comma 7 dell'art. 12 dello statuto, la Corte si è soffermata, in specie, sulle ragioni di "particolare e motivata urgenza" che, a norma dello stesso comma, consentono l'emanazione dell'avviso di accertamento prima del decorso del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio al contribuente della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

Secondo la sentenza Sez. 5, n. 2587, Rv. 629354, est. Botta, tali ragioni di urgenza − in grado di evitare l'illegittimità dell'accertamento emanato ante tempus − debbono essere specifiche e riferite al contribuente o al rapporto tributario controverso, mentre l'onere di provarne la ricorrenza grava sull'amministrazione finanziaria. In base a tale principio, la Corte ha ritenuto che le reiterate condotte penali tributarie del contribuente, unitamente alla sua asserita partecipazione ad una frode fiscale, costituissero valide ragioni d'urgenza ai fini della legittima notificazione anticipata dell'avviso di accertamento.

Si è poi precisato che le indicate specifiche ragioni di urgenza, riferite al contribuente o al rapporto tributario controverso, non possono essere costituite dall'imminente spirare del termine di decadenza per la notificazione dell'accertamento previsto, nella specie, dall'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto ciò comporterebbe la generalizzata convalida di tutti gli atti in scadenza dei termini di notificazione, mentre è invece dovere dell'amministrazione attivarsi tempestivamente per consentire il dispiegarsi del contraddittorio procedimentale (Sez. 5, n. 2592, Rv. 629300, est. Sambito).

Con la successiva sentenza Sez. 5, n. 9424, Rv. 630583, est. Meloni, la Corte ha ulteriormente precisato che le particolari ragioni di urgenza non possono consistere nell'imminente scadenza del termine decadenziale per l'accertamento qualora ciò sia dovuto esclusivamente ad inerzia o negligenza dell'ufficio e non anche ad altre circostanze che abbiano incolpevolmente ritardato l'accertamento o che abbiano reso difficoltoso con il passare del tempo - come avviene nel caso in cui il contribuente versi in un grave stato di insolvenza - il pagamento del tributo e necessario procedere senza rispettare il termine dilatorio.

Passando alla previsione dello statuto relativa all'esimente delle "obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria" (art. 10, comma 3, primo periodo, della legge n. 212 del 2000), va rammentata l'ordinanza Sez. 6-5, n. 4394, Rv. 629969, est. Di Blasi, la quale ha chiarito che l'obiettiva incertezza − che preclude l'irrogazione delle sanzioni − può ricorrere quando la disciplina da applicare si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso, per l'equivocità del loro contenuto, con conseguente insicurezza del risultato interpretativo ottenuto, riferibile non ad un contribuente generico o professionalmente qualificato o all'ufficio, ma al giudice, unico soggetto cui l'ordinamento attribuisce il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto sussistente un'obiettiva incertezza in ordine alla rilevanza impositiva del reddito professionale ai fini dell'IRAP, con riguardo ai presupposti dell'attività autonomamente organizzata, oggetto di contrasti dottrinali e giurisprudenziali sino all'affermarsi di un orientamento univoco a partire solo dall'anno 2007.

A conclusione dell'esame delle pronunce riguardanti la legge n. 212 del 2000, deve segnalarsi la sentenza Sez. 5, n. 16331, Rv. 632522, est. Olivieri, che, con riguardo all'interpello previsto dall'art. 11 di tale legge, ha affermato che il contribuente è tenuto a proporlo prima di porre in essere, nell'esercizio della propria attività economica, la condotta oggetto della richiesta di informazioni all'amministrazione finanziaria, non trovando giustificazione, in caso contrario, l'efficacia vincolante, per entrambe le parti del rapporto tributario, dell'interpretazione fornita dalla medesima amministrazione delle norme applicabili alla fattispecie concreta.

4. L'abuso del diritto.

La Corte ha proseguito l'opera diretta a precisare il fondamento del principio del divieto dell'abuso del diritto in materia tributaria ed a definirne la nozione ed il regime probatorio, ampliando, al contempo, la casistica già formatasi negli anni precedenti.

Con la sentenza Sez. 5, n. 3938, Rv. 629732, est. Terrusi, ha anzitutto ribadito l'esistenza di un generale principio antielusivo che, in tema di tributi non armonizzati (quali le imposte dirette), trova la propria fonte nei princípi costituzionali che informano l'ordinamento tributario ed in base al quale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali mediante l'uso distorto, ancorché non contrastante con alcuna disposizione specifica, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. È stato altresì escluso che tale principio contrasti − come sostenuto invece anche da una parte della dottrina − con quello della riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali, atteso che esso non si traduce nell'imposizione di obblighi patrimoniali ma nel disconoscimento degli effetti di negozi posti in essere al solo fine di eludere l'applicazione di norme fiscali. Quanto alle conseguenze del generale principio antielusivo, esso comporta l'inopponibilità all'amministrazione finanziaria di ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di fare discendere dall'operazione elusiva, anche se diverso da quelli presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore successivamente all'operazione. Con la stessa sentenza (Rv. 629733) la Corte ha ulteriormente precisato che integra una condotta abusiva l'operazione economica che abbia quale suo elemento − non necessariamente unico ma, comunque, predominante e assorbente − lo scopo elusivo del fisco, e che l'operazione è, perciò, vietata, quando non possa spiegarsi altrimenti (o, in ogni caso, in modo non marginale) che col mero intento di conseguire un risparmio d'imposta. A proposito del riparto dell'onere della prova, incombe sull'ufficio la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l'onere di allegare l'esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino l'operazione. Nella fattispecie, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva negato che costituisse condotta abusiva un'operazione di riorganizzazione societaria, realizzata col concorso di tre società, che aveva comportato il risultato finale del vantaggio fiscale per una di esse costituito da un'eccedenza d'imposta portata in compensazione di quanto dovuto a titolo di IRPEG ed ILOR.

Con la sentenza Sez. 5, n. 4604, Rv. 630063, est. Greco, la Corte, premessi i presupposti della sussistenza dell'abuso del diritto − ricostruiti in termini sostanzialmente analoghi alla citata sentenza n. 3938 − ha affermato che da essi consegue che il carattere abusivo va escluso qundo sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali dell'operazione, le quali non si identificano necessariamente in un'immediata redditività della stessa, potendo consistere in esigenze di natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda. Nella specie, ha ritenuto non motivata adeguatamente l'esclusione di valide ragioni economiche dell'acquisto, da parte di una società contribuente, delle azioni di una società estera, ancorché esso rientrasse in un più ampio progetto di riorganizzazione strutturale e funzionale di un gruppo societario di cui la prima società era "capogruppo".

Sempre sulla base dell'ormai consolidata nozione di condotta abusiva, la Corte ha negato che l'acquisto di tutte le altre azioni di una società da parte della contribuente che già era socia della stessa e la successiva vendita, previo incasso dei dividendi, della predetta partecipazione totalitaria fossero state poste in essere al solo scopo di trasformare in dividendi la plusvalenza che sarebbe stata realizzata con l'immediata cessione delle azioni originariamente possedute dalla contribuente, avendo invece configurato i menzionati acquisto e successiva vendita come una serie di operazioni vere e reali, concluse con soggetti diversi dalla contribuente e dai suoi soci nonché rispondenti ad una precisa strategia di investimento finanziario (Sez. 5, n. 4603, Rv. 629749, est. Greco).

La Corte ha invece escluso la stessa astratta applicabilità dei princípi in tema di elusione fiscale in un caso in cui i termini giuridici della questione erano tutti desumibili dall'art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, (secondo cui "L'imposta [di registro] è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente"). Nella fattispecie, si trattava di un conferimento di azienda con contestuale cessione, in favore di un socio della conferitaria, delle quote ottenute in contropartita dal conferente, fenomeno che la Corte ha ritenuto avere carattere unitario − in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva ed all'evoluzione della prestazione tributaria dal regime della tassa a quello dell'imposta − ed essere configurabile come cessione di azienda, ai sensi del citato art. 20. L'applicazione di tale articolo e la conseguente indicata inapplicabilità dei princípi in tema di elusione fiscale comportano l'esclusione dell'onere dell'amministrazione finanziaria di provare i presupposti dell'abuso del diritto (Sez. 5, n. 3481, Rv. 630075, est. Terrusi).

Va infine segnalata una pronuncia relativa ad una specifica disposizione antielusiva. Si tratta, in particolare, dell'art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408 − il cui comma 1 prevede che "È consentito all'amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti o cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d'imposta" − nel cui ambito applicativo è stato ritenuto rientrare l'acquisto di terreni edificabili, da parte di una società immobiliare, realizzato tramite una cessione in suo favore, esente da IVA ma priva di reali giustificazioni economiche, delle quote di una società a tale scopo costituita dall'alienante (Sez. 5, n. 653, Rv. 629233, est. Perrino).

5. L'abuso del processo.

Da segnalare, al riguardo, due pronunce, entrambe in materia di accesso alla chiusura delle liti fiscali pendenti ai sensi dell'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e dell'art. 2, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, con riguardo al quale la Corte ha precisato che la formale pendenza della lite non osta al diniego dell'istanza di condono fiscale quando il contribuente, in evidente violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede, nonché dei princípi di lealtà processuale e del giusto processo, abbia abusato di questo impugnando l'atto impositivo ben oltre (nella specie, quasi quattro anni dopo) la scadenza del termine previsto dalla legge (Sez. 5, n. 201, Rv. 628851, est. Virgilio), o impugnando dilatoriamente la sentenza a lui sfavorevole già divenuta definitiva (Sez. 5, n. 1271, Rv. 629444, est. Ferro), senza nulla argomentare in ordine alla perdurante ammissibilità delle dette impugnazioni, ciò che conferma l'assenza di intenti diversi da quello, esclusivo, di precostituirsi un presupposto per potere usufruire del beneficio.

6. Le dichiarazioni tributarie.

La Corte si è occupata sia di emendabilità della dichiarazione dei redditi in senso favorevole al contribuente che delle modalità di presentazione delle dichiarazioni.

Quanto al primo aspetto, l'ordinanza n. 3754 ha ribadito che, in conformità all'art. 53 Cost., l'emendabilità della dichiarazione dei redditi, da parte del contribuente, allegando errori di fatto o di diritto commessi nella redazione della stessa, può essere esercitata non solo nei limiti in cui la legge, a norma dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, prevede il diritto al rimborso, ma anche in sede contenziosa, al fine di opporsi alla maggior pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria, con la conseguenza che, nel caso di specie relativo a redditi di partecipazione, la dichiarazione erronea della società non ostacola il diritto del socio di essere soggetto ad imposizione solo in relazione a quanto effettivamente percepito (Sez. 6-5, n. 3754, Rv. 629589, est. Cicala).

Diversamente − con riguardo, tuttavia, al quadro normativo antecedente all'aggiunta, ad opera dell'art. 2, comma 1, lett. d, del d.P.R. 12 luglio 2001, n. 435, del comma 8-bis dell'art. 2 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 − la Corte ha affermato che il contribuente che non si sia avvalso di un'agevolazione fiscale nella dichiarazione relativa all'anno in cui essa avrebbe determinato un miglior risultato d'imposta, e che abbia altresì omesso di presentare l'istanza di rimborso del relativo credito d'imposta, ai sensi ed entro i termini previsti dall'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, perde anche la facoltà di riporto di tale credito, ove egli intenda completare la vicenda rettificativa della dichiarazione dei redditi con un effetto economico analogo e sia pure nel termine di cui all'art. 9, ottavo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, e quanto al credito maggiore (Sez. 5, n. 6392, Rv. 630587, est. Ferro).

Quanto alle modalità di presentazione della dichiarazione, sono da segnalare due pronunce.

Con la prima, concernente, in particolare, le dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all'IRAP ed all'IVA, la Corte ha chiarito che l'invio telematico delle stesse, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, richiede il conferimento, da parte del contribuente, di uno specifico incarico all'intermediario, trattandosi di un adempimento distinto da quello di tenuta della contabilità e di consulenza fiscale in generale, con la conseguente necessità, in caso di contestazione da parte dello stesso contribuente, di accertare la sussistenza dell'incarico (Sez. 5, n. 13138, Rv. 631107, est. Federico).

Con la seconda, è stato invece precisato che l'obbligo di redazione delle dichiarazioni dei redditi sugli stampati conformi ai modelli previsti legislativamente esclude che il contribuente possa integrare il contenuto della dichiarazione con elementi o affermazioni contenuti in documenti separati ad essa allegati, in quanto ciò renderebbe impraticabile il controllo automatizzato, con la conseguenza che l'amminisrtazione finanziaria, nel corso di tale controllo, non deve esaminare le indicate eventuali allegazioni (Sez. 5, n. 13467, Rv. 631313, est. Crucitti).

7. Le sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie.

Quanto ai soggetti responsabili per la sanzione amministrativa per la violazione di norme tributarie, la sentenza Sez. 5, n. 16848, Rv. 632236, est. Marulli, ha chiarito che l'art. 19, comma 2, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si limita ad enunciare l'applicabilità delle sanzioni nei confronti di coloro, diversi dalle persone fisiche, "nell'interesse dei quali ha agito l'autore della violazione", senza introdurre, in favore di quest'ultimo, qualora sia anche concorrente nel reato tributario, nessuna riserva d'impunità, la quale sarebbe irragionevole e contrastante con il principio di personalizzazione delle sanzioni tributarie. In tale ipotesi, resta solo sospesa sino all'esito del procedimento penale, per ovvie ragioni di connessione con il reato, l'esecuzione della sanzione amministrativa, ai sensi dell'art. 21, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 74 del 2000.

Quanto all'elemento soggettivo, l'applicabilità della sanzione amministrativa per l'illecito tributario presuppone che l'inadempimento o l'inesatto adempimento del contribuente sia almeno colposo, cioè connotato da una sua negligenza o imperizia o inosservanza di obblighi tributari. Su tale premessa, la Corte ha affermato che deve reputarsi tempestivo, in base ai comuni canoni di correttezza e buona fede, e di per sé sufficiente ad escludere la colpevolezza, l'adempimento dell'obbligazione tributaria mediante delega bancaria, nel caso in cui il ritardo nell'esecuzione della prestazione non sia imputabile al delegante, per essere stato l'ordine trasmesso con congruo anticipo e in presenza delle "normali" condizioni richieste per il buon esito dell'operazione (nella specie, il ritardo di un solo giorno era stato peraltro causato dall'erronea indicazione della scadenza da parte della stessa amministrazione finanziaria su cui, ancorché contra legem, è lecito fare affidamento) (Sez. 5, n. 17626, Rv. 632148, est. Pivetti).

Quanto alle sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie commesse dal rappresentante o dall'amministratore di società, in mancanza di dolo e colpa grave e di un diretto vantaggio dell'autore, l'esecuzione della sanzione nei suoi confronti non è esclusa in toto, ma solo per la somma eccedente euro 51.645,69 (pari a lire cento milioni), ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, interpretato alla luce del suo tenore testuale, letto nel contesto normativo complessivo, come è confermato dal fatto che lo stesso comma fa salva, per l'intero, la responsabilità a carico della società (Sez. 5, n. 22912, Rv. 632745, est. Crucitti).

In caso di cessione di azienda, l'art. 14 del d.lgs. n. 472 del 1997, che introduce misure antielusive a tutela dei creditori tributari, è norma speciale rispetto all'art. 2560, secondo comma, cod. civ., volta ad evitare, tramite la previsione della responsabilità, solidale e sussidiaria, del cessionario per i debiti tributari (imposta e sanzioni) gravanti sul cedente, che, mediante il trasferimento, venga dispersa la garanzia patrimoniale del contribuente con pregiudizio del pubblico interesse. Ne deriva che, nel caso di cessione conforme alla legge (commi 1, 2 e 3 dell'art. 14), ed in virtù del criterio incentivante diretto a premiare la diligenza nell'assumere, prima della conclusione del contratto, informazioni sulla posizione debitoria del cedente, la responsabilità del cessionario ha carattere sussidiario, con beneficium excussionis, ed è limitata nel quantum (entro il valore della cessione) e nell'oggetto (imposte e sanzioni relative a violazioni commesse nel triennio antecedente al contratto ovvero anche anteriormente, se già irrogate o contestate nel trienio, ovvero entro i limiti del debito risultante, alla data del contratto, dagli atti degli uffici finanziari e degli enti prepositi all'accertamento dei tributi). Se, invece, la cessione è stata attuata in frode al fisco, la responsabilità è presunta iuris tantum quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante, senza che si applichino le limitazioni stabilite dai primi tre commi dell'art. 14 (Sez. 5, n. 5979, Rv. 630640, est. Olivieri).

Degna di nota è la sentenza Sez. 5, n. 15665, Rv. 632227, est. Vella, secondo cui, in tema di IVA, il diritto alla riscossione delle sanzioni pecuniarie che derivi da un provvedimento definitivo per acquiescenza del contribuente (e non da sentenza passata in giudicato), si prescrive − anche là dove non sia applicabile la nuova disciplina dell'art. 20 del d.lgs. n. 472 del 1997 − in cinque anni, in virtù del combinato disposto degli artt. 75 del d.P.R. n. 633 del 1972 e 17 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, quest'ultimo da ritenersi non abrogato implicitamente dall'art. 58 del d.P.R. n. 633, atteso che questo fissa il termine di decadenza per la notificazione del provvedimento di irrogazione della sanzione e non quello di prescrizione del diritto di riscossione della pena pecuniaria.

In tema di ravvedimento operoso, si è precisato che l'istituto previsto dall'art. 13, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 472 del 1997, si applica esclusivamente in caso di omesso pagamento del tributo, purché il contribuente, nel termine ivi sancito, effettui l'integrale pagamento dell'imposta e della sanzione, mentre non comprende il mero tardivo pagamento del tributo che, se effettuato nel rispetto dei termini di legge, costituisce di per sé una modalità del ravvedimento operoso. In applicazione del detto principio, la Corte ha riformato la sentenza impugnata, resa con riguardo ad una fattispecie riguardante un tardivo pagamento dell'IVA, ritenendo applicabile, in luogo della discplina del ravvedimento operoso, la sanzione dell'art. 17, comma 3, dello stesso d.lgs. n. 472 del 1997, mediante l'iscrizione a ruolo della stessa senza previa contestazione (Sez. 5, n. 8296, Rv. 630145, est. Tricomi).

8. Le esenzioni e le agevolazioni fiscali.

Assai Numerose sono state le pronunce in tema di esenzioni ed agevolazioni fiscali.

Sul piano generale assume anzitutto rilievo la sentenza Sez. 5, n. 17294, Rv. 631972, est. Cirillo, pronunciata, specificamente, con riguardo alle agevolazioni cosiddette per l'acquisto della prima casa. La Corte ha affermato che non è consentito usufruire di tali agevolazioni dopo che si è rinunciato ad un precedente analogo beneficio, in ragione sia del divieto di reiterazione interna derivante dalla legge sia dal carattere negoziale, non revocabile per definizione, della precedente dichiarazione di voler fruire del beneficio (ratio, quest'ultima, che appare assumere rilievo, appunto, anche sul piano generale).

Significativa anche la sentenza Sez. 5, n. 16450, Rv. 632072, est. Valitutti, che, in tema di IVA, ha affermato che, ricorrendo i presupposti dell'art. 15 della Sesta direttiva del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari (direttiva 15 maggio 1977, n. 77/388/CEE) e, cioè, in presenza di una cessione di beni trasportati o spediti, dal venditore o per suo conto, fuori dall'Unione europea, il diritto del contribuente all'esenzione dall'imposta sussiste anche qualora l'esportazione risulti illecita e a fortiori formalmente irregolare secondo il diritto nazionale, il quale va disapplicato se in contrasto con il principio comunitario di neutralità fiscale, diretto ad equiparare le esenzioni nazionali degli Stati membri. La Corte ha quindi riconosciuto il diritto all'esenzione dall'IVA in presenza di una cessione all'esportazione nella Repubblica di San Marino, ancorché la società contribuente non avesse provveduto, come richiesto dall'art. 4, comma 1, lett. b, del d.m. 24 dicembre 1993, alla "presa nota a margine" nel registro IVA delle fatture di vendita.

Assume parimenti rilievo anche sul piano generale la sentenza Sez. 5, n. 22673, Rv. 632760, est. Virgilio, la quale ha precisato che il credito d'imposta, volto a incentivare la ricerca scientifica, previsto dall'art. 5 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, che non è autonomamente rimborsabile e rileva unicamente ai fini della compensazione con i debiti ributari, va indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d'imposta nel corso del quale è concesso il beneficio, in virtù del richiamo operato dal detto art. 5 al d.m. 22 luglio 1998, n. 275, successivamente adottato, con la conseguenza che il contribuente che abbia omesso tale indicazione non può invocare il principio di emendabilità della dichiarazione fiscale, il quale non permette di superare il limite delle dichiarazioni destinate a rimanere irretrattabili a causa delle sopravvenute decadenze previste dalla legge.

A proposito delle ONLUS, la Corte, precisato che l'art. 10, comma 1, lett. h, del d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460 - decreto che reca la disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale − impone che lo statuto preveda espressamente l'effettività del diritto di voto per gli associati ed i partecipanti con riguardo alla nomina degli organi direttivi, a garanzia della democraticità dell'associazione, ciò che costituisce condizione essenziale per potere fruire delle agevolazioni tributarie, ha ritenuto che, nella specie, la previsione statutaria di due membri di diritto nel consiglio di amministrazione della ONLUS e la conseguente accertata impossibilità, da parte di tale organo, di decidere in mancanza del voto di almeno uno di tali membri violasse il principio di democraticità di cui al citato art. 10 (Sez. 5, n. 22644, Rv. 632762, est. Meloni).

La Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, quinto comma, della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in riferimento all'art. 3 Cost. ed ai principi di non arbitrarietà, logicità e ragionevolezza, nella parte in cui prevede l'applicazione dell'aliquota dell'uno per cento ai soli casi di imprese che acquistano da soggetti passivi IVA, in quanto la differenza tra acquisti esenti dall'IVA ed operazioni non imponibili e, quindi, la soggezione o no di un'operazione al regime dell'IVA, giustifica la diversa imposizione e costituisce ragione sufficiente ad escludere l'irrazionalità o l'arbitrarietà della norma, attesa l'ampia discrezionalità del legislatore nell'individuazione dei presupposti per il godimento delle agevolazioni (Sez. 5, n. 859, Rv. 629305, est. Sambito). Con la stessa pronuncia, la Corte aveva infatti affermato che l'acquisto di immobili da venditori non soggetti ad IVA, effettuato da una società immobiliare, non beneficia dell'aliquota dell'uno per cento ai sensi del citato art. 1, quinto comma, della Tariffa, atteso che tale agevolazione è riconosciuta solo nell'ipotesi di trasferimenti immobiliari esenti dall'IVA e non anche per le operazioni non imponibili, tanto più che, in materia di IVA, la non imponibilità dell'operazione si distingue dall'esenzione d'imposta perché, mentre nel primo caso manca il presupposto impositivo, nel secondo esso esiste, ma, per scelta del legislatore, l'imposta non viene applicata, (Rv. 629304).

Con riguardo alle agevolazioni concesse in ragione della natura del contribuente beneficiario, la sentenza Sez. 5, n. 7311, Rv. 630651, est. Crucitti, ha affermato, a proposito, in particolare, dell'art. 10, secondo comma, lett. a, del d.lgs. n. 460 del 1997, che tale disposizione deve essere interpretata restrittivamente, trattandosi di previsione relativa ad esenzioni, sicché la nozione di "persone svantaggiate" in essa contenuta va riferita a categorie di individui in condizioni oggettive di disagio per situazioni psico-fisiche particolarmente invalidanti, ovvero per stati di devianza, degrado, grave precarietà economico-familiare, emarginazione sociale, essendo la norma diretta a colmare una siffatta condizione deteriore in cui si trovi, negli àmbiti specifici da essa individuati, una particolare categoria di soggetti rispetto alla generalità dei consociati, ma non può intendersi sino a ricomprendere una finalità di prevenzione dell'insorgere delle situazioni di patologia o di devianza sociale.

La sentenza Sez. 5, n. 17669, Rv. 631967, est. Federico, ha ritenuto che l'esonero dalla ritenuta d'acconto sui dividendi riconosciuto dall'art. 10 bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745 alle persone giuridiche pubbliche o fondazioni, esenti dall'imposta sulle società, che hanno esclusivamente scopo di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica, deriva esclusivamente dal possesso di tali requisiti soggettivi, che sono condizione necessaria ai fini del riconoscimento del beneficio, con la conseguenza che l'attestazione, prevista dallo stesso art. 10 bis, da parte del rappresentante legale dell'ente, che gli utili sono di esclusiva pertinenza dell'ente non ha efficacia costitutiva né è in alcun modo preclusiva del potere di accertamento dell'ufficio.

La sentenza Sez. 5, n. 13164, Rv. 631174, est. Di Blasi, ha escluso che le Aziende territoriali per l'edilizia residenziale (ATER) godano di esenzione dall'obbligo contributivo in favore dei consorzi di bonifica con riguardo alle aree ed ai fabbricati di loro proprietà, ove esse traggano effettivo vantaggio dalle opere consortili in termini di sicurezza e di prevenzione del rischio di esondazioni ed allagamenti, stante la generale previsione del detto obbligo posta a carico degli enti pubblici dall'art. 10 del r.d. 13 febbraio 1933, n. 215, e l'assenza nell'ordinamento di disposizioni che prevedano una tale esenzione.

La Corte, con la sentenza Sez. U, n. 9560, Rv. 630841, est. Botta, dopo avere affermato la persistente assoggettabilità dell'uso del telefono cellulare alla tassa di concessione governativa di cui all'art. 21 della Tariffa allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641 (aspetto sul quale si rinvia al paragrafo relativo a tale tassa), ha stabilito che anche gli enti locali sono tenuti al pagamento della tassa, in quanto non si estende agli stessi l'esenzione riconosciuta dall'art. 13-bis, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, a favore dell'amministrazione dello Stato, trattandosi di norma agevolatrice di stretta interpretazione ed attesa l'inesistenza, ai sensi dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, di una generalizzata assimilazione tra amministrazioni pubbliche, la cui configurabilità presuppone una specifica scelta legislativa, nella specie non adottata.

In tema di ICI, è stato precisato che l'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lett. i, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 − norma agevolatrice e, quindi, di stretta interpretazione − non opera in caso di utilizzo indiretto dell'immobile da parte dell'ente proprietario, ancorché per finalità di pubblico interesse. Sulla scorta di tale principio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso l'applicabilità dell'esenzione agli immobili di proprietà di una congregazione religiosa locati ad un comune (Sez. 5, n. 12495, Rv. 631092, est. Napolitano).

In tema di scioglimento del matrimonio, l'esenzione dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa prevista dall'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi, sotto il controllo del giudice, per regolare i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, spetta solo se i soggetti che li pongono in essere sono gli stessi coniugi che hanno concluso i suddetti accordi e non anche terzi (Sez. 5, n. 860, Rv. 629247, est. Sambito).

Con riguardo alle agevolazioni concesse in ragione della natura del bene che viene in rilievo ai fini dell'imposizione, la sentenza Sez. 5, n. 5167, Rv. 630455, est. Bruschetta, in tema di ruralità dei fabbricati ai fini dell'esenzione dall'ICI, ha affermato che, per la dimostrazione di detta ruralità, rileva la classificazione catastale con attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), con la conseguenza che l'immobile iscritto come rurale non è soggetto all'imposta ai sensi dell'art. 23, comma 1 bis, del d.l. 30 dicembre 2008, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14, e dell'art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 504 del 1992. Ne consegue che, qualora l'immobile sia iscritto in una diversa categoria catastale, è onere del contribuente che chiede l'esenzione dall'imposta impugnare l'atto di classamento, mentre, allo stesso modo, il comune, per potere pretendere l'assoggettamento del fabbricato all'ICI, deve impugnare l'attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10. Nella specie, la Corte ha escluso che i fabbricati utilizzati per l'esercizio dell'agriturismo debbano, per ciò solo, ritenersi rurali e siano, quindi, esenti dall'imposta. Nello stesso senso si era espressa anche l'ordinanza Sez. 6-5, n. 422, Rv. 629507, Cosentino. Va segnalata l'esistenza, sul punto, oltre che di precedenti conformi, anche di quello difforme costituito dalla sentenza Sez. 5, n. 24299 del 2009, Rv. 614851.

A proposito dell'agevolazione prevista dall'art. 33, comma 3, della legge n. 388 del 2000, secondo cui i trasferimenti di beni immobili collocati in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati "comunque denominati" sono soggetti all'imposta di registro nella misura dell'uno per cento ed alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa a condizione che l'utilizzazione edificatoria avvenga entro cinque anni dal trasferimento, la Corte ha precisato che con tale disposizione non si è inteso dare rilievo al riscontro formale dell'insistenza dell'immobile in area soggetta a piano particolareggiato ma al fatto che esso si trovi in un'area in cui, come quelle soggette a piano particolareggiato, sia possibile edificare, con la conseguenza che il beneficio spetta anche nel caso in cui l'immobile si trovi in un'area non inclusa in un piano urbanistico particolareggiato ma per la quale sono previsti interventi attuativi diretti, e anche se l'atto d'obbligo del contribuente intervenga dopo il trasferimento dell'immobile, non assumendo rilievo che la procedura amministrativa prevista per i due strumenti urbanistici (piano particolareggiato e intervento attuativo diretto) sia differente (Sez. 5, n. 15974, Rv. 632119, est. Chindemi).

A proposito delle agevolazioni concesse a favore di popolazioni colpite da eventi catastrofici, da segnalare la sentenza Sez. 5, n. 15330, Rv. 631567, est. Vella, con la quale si è affermato che il regime di esenzione dall'IVA previsto dall'art. 5 del d.l. 5 dicembre 1980, n. 799 (Ulteriori interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dal terremoto del novembre 1980, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 1980), n. 875, si applica, in coerenza con la ratio di tale normativa, a tutte le prestazioni di servizi strumentali alla ricostruzione degli immobili danneggiati, con la conseguenza che il beneficio va riconosciuto, a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto tra consorzio ed imprese consorziate e dalla doppia fatturazione, in favore dell'impresa consorziata esecutrice dei lavori, in quanto tutti i diritti, gli obblighi, gli oneri e le responsabilità dell'operazione sono riconducibili a quest'ultima, ancorché parte del contratto di appalto sia il consorzio, la cui funzione, tuttavia, è meramente strumentale e di servizio.

Con riguardo ai benefici per l'acquisto della prima casa, oltre alla già menzionata sentenza n. 17294, va rammentata la sentenza Sez. 5, n. 7069, Rv. 629941, est. Sambito, secondo cui i benefici di cui all'art. 1, nota II-bis, lett. b, della Tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, spettano solo a chi dimostri, in base a risultanze certificate, di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge, dei diritti di proprietà, usufrutto o uso di un altro immobile ubicato nel medesimo comune, senza che possano rilevare situazioni di fatto contrastanti con le risultanze del dato anagrafico. In base a tale principio, la Corte ha escluso la compatibilità delle agevolazioni de quibus con la separazione di fatto tra i coniugi.

L'agevolazione per l'acquisto della prima casa non è preclusa al titolare di una quota particolarmente esigua di un altro immobile (nella specie, pari al 5%), atteso che tale titolarità non comporta il potere di disporre dell'immobile come propria abitazione ed è perciò assimilabile ad una proprietà inidonea per le esigenze abitative, tranne l'ipotesi della quota di un immobile in comunione legale tra i coniugi (Sez. 6-5, n. 21289, Rv. 632662, Conti).

Con la sentenza Sez. 5, n. 13177 Rv. 631202, Bruschetta, è stato chiarito che la forza maggiore idonea ad impedire la decadenza dai detti benefici dell'acquirente di un immobile ubicato in comune diverso da quello di residenza qualora egli non abbia colà trasferito la stessa entro il termine perentorio di diciotto mesi dall'acquisto, deve consistere in un evento non prevedibile, che sopraggiunge inaspettato, e sovrastante la volontà del contribuente di "abitare" nella prima casa entro tale termine. In base a tale principio, la Corte ha ritenuto inidonea la circostanza, già nota all'acquirente al momento del rogito, che lo sfratto per finita locazione nei confronti del precedente inquilino fosse stato intimato per una data posteriore.

Ancora con riguardo al caso del trasferimento di residenza, entro diciotto mesi, nel comune dove si trova l'immobile acquistatato usufruendo dei benefici, la sentenza Sez. 5, n. 7067, Rv. 630591, est. Sambito, ha affermato che tale trasferimento costituisce un vero e proprio obbligo del contribuente nei confronti del fisco, con conseguente decadenza dal beneficio, provvisoriamente accordato, nel caso di inosservanza, salvo che ricorra una situazione di forza maggiore, caratterizzata dalla non imputabilità al contribuente e dall'inevitabilità ed imprevedibilità dell'evento, la cui ricorrenza va esclusa in caso di mancata ultimazione di un appartamento in costruzione, atteso che, in assenza di disposizioni specifiche, non v'è ragione di differenziare il regime fiscale di un siffatto acquisto rispetto a quello di un immobile già edificato.

La Corte ha poi opportunamente chiarito che, sempre nel caso di mancato trasferimento della residenza nel temine di diciotto mesi dall'acquisto (con conseguente decadenza dal beneficio), decorre, per l'amministrazione, il termine triennale per l'emissione dell'avviso di liquidazione dell'imposta ordinaria e della soprattassa di cui all'art. 76, secondo comma, del d.P.R. n. 131 del 1986, il cui dies a quo, in tale caso, non è costituito dalla data della registrazione dell'atto ma dal momento in cui il dichiarato proposito di trasferimento, inizialmente attuabile, sia successivamente rimasto ineseguito o ineseguibile e, quindi, al più tardi, dal diciottesimo mese successivo alla registrazione dell'atto (Sez. 6-5, n. 2527, Rv. 629739, est. Iacobellis).

Significativo anche il principio affermato dalla sentenza n. 3931 (Sez. 5, Rv. 629628, est. Sambito), in base al quale, al verificarsi della separazione legale, la comunione tra coniugi di un diritto reale su di un immobile, ancorché originariamente acquistato in comunione legale, va equiparata alla contitolarità indivisa tra soggetti estranei, che è compatibile con l'agevolazione in quanto la facoltà di usare il bene comune, che non impedisca agli altri comunisti di "farne parimenti uso", prevista dall'art. 1102 cod civ., non consente di destinare la casa comune ad abitazione di uno solo dei comproprietari, con la conseguenza che la titolarità della quota è analoga a quella di un immobile non idoneo a soddisfare le esigenze abitative.

Ancora con riguardo alla separazione dei coniugi, secondo l'ordinanza Sez. 6-5, n. 3753, Rv. 629984, est. Cicala, l'attribuzione ad uno di essi della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza dai benefici "prima casa", ma una modalità di utilizzo dell'immobile per la migliore sistemazione dei coniugi in vista della cessazione della loro convivenza.

Da menzionare, ancora, la sentenza Sez. 5, n. 2266, Rv. 629438, est. Bruschetta, secondo cui, ai fini dell'applicazione dell'art. 1 della nota II-bis, quarto comma, della più volte citata Tariffa - che prevede che il contribuente che non voglia perdere le agevolazioni ed abbia venduto l'immobile entro cinque anni dall'acquisto deve procedere, entro un anno dall'alienazione, all'acquisto di un altro immobile da adibire ad abitazione principale - non hanno alcun rilievo le situazioni di mero fatto contrastanti con gli atti dello stato civile, dovendo farsi, invece, esclusivo riferimento alla residenza anagrafica.

Infine, è stato precisato che il contribuente che abbia venduto l'immobile entro cinque anni dall'acquisto, per evitare di decadere dal beneficio, deve acquistare, entro un anno dall'alienazione, un altro immobile da adibire a propria abitazione principale, non essendo sufficiente, a tale fine, la stipula di un contratto preliminare, che ha effetti obbligatori, visto che, per acquisto, a norma dell'art. 1, nota II-bis, quarto comma, della Tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, si deve intendere l'acquisizione del diritto di proprietà e non la mera insorgenza del diritto di concludere un contratto di compravendita (Sez. 6-5, n. 17151, Rv. 632443, est. Cosentino).

Quanto alle agevolazioni per l'assunzione di nuovi dipendenti, la sentenza Sez. 5, n. 11170, Rv. 630813, est. Iofrida, ha stabilito, con riguardo, in particolare, al credito d'imposta previsto dall'art. 4, comma 1, della legge n. 449 del 1997, che, ai fini del riconoscimento dello stesso, non basta che ricorrano tutte le condizioni richieste dalla legge, essendo, invece, necessaria un'attività discrezionale da parte del Centro di servizio delle imposte dirette di Pescara volta all'ulteriore verifica della sussistenza della disponibilità finanziaria ed affiancandosi, altresì, a tale verifica formale, un'attività di controllo e recupero da parte degli uffici locali dell'amministrazione finanziaria delle agevolazioni indebitamente fruite. Il principio è stato ribadito dalla successiva sentenza Sez. 5, n. 20909, Rv. 632518, est. Iofrida.

Si riferisce invece al credito d'imposta per incremento occupazionale previsto dall'art. 7 della legge n. 388 del 2000, la sentenza Sez. 5, n. 9124, Rv. 630770, est. Perrino, secondo la quale tale credito può essere fruito dalla società alla quale sia stata conferita l'azienda dell'imprenditore individuale che aveva maturato il relativo diritto.

Lo stesso art. 7, là dove stabilisce, tassativamente, i requisiti soggettivi ed oggettivi per la fruizione del credito, non contempla l'insussistenza di rapporti familiari tra il datore di lavoro e il lavoratore assunto, con la conseguenza che lo stesso credito spetta anche nel caso di assunzione di un familiare (Sez. 5, n. 3120, Rv. 629740, est. Virgilio).

A proposito delle agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate, oltre alla sentenza n. 4815, già ricordata al par. 3, va menzionata la sentenza Sez. 5, n. 3948, Rv. 630061, est. Bruschetta, secondo cui il credito d'imposta maturato ai sensi dell'art. 8, comma 5, della legge n. 388 del 2000, pur dovendo essere indicato nella dichiarazione dei redditi, non fa parte dell'imponibile, e può, perciò, essere utilizzato solo come "strumento" di pagamento a mezzo della "compensazione" prevista dall'art. 17, comma 1, del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, atteso che il meccanismo stabilito dal combinato disposto delle norme citate assolve alla duplice finalità di evitare il successivo trascinamento e rimborso del credito fiscale derivato dall'agevolazione e ne impone l'immediata utilizzazione quale "strumento" di pagamento, anche al fine di assicurare certezza al bilancio statale.

Sempre a proposito del credito d'imposta di cui all'art. 8 della legge n. 388 del 2000, la concessione a terzi, mediante contratto di affitto di azienda o di ramo di azienda, del diritto di utilizzare beni, per il cui acquisto al concedente spetti il credito, per lo svolgimento della medesima attività di impresa, non comporta la decadenza dall'agevolazione, perché non rientra in alcuna delle ipotesi previste dalla norma antielusiva del comma 7 dello stesso articolo, la cui ratio è quella di evitare l'immissione temporanea dei beni nell'impresa al solo fine di fruire dell'agevolazione (Sez. 5, n. 3114, Rv. 629862, est. Virgilio).

Ancora sul tema, Sez. 5, n. 23559, Rv. 633139, est. Tricomi, ha chiarito che il credito d'imposta dell'art. 8, comma 2, della legge n. 388 del 2000 è riconosciuto per l'intero costo dell'investimento solo se, in applicazione del rapporto di inerenza previsto dagli artt. 75 (ora 109) e 121-bis (ora 164) del d.P.R. n. 917 del 1986, il contribuente fornisce la prova dell'esclusiva strumentalità del bene acquistato all'esercizio dell'impresa.

In tema di IVA, si è poi chiarito che il contribuente non perde il diritto alla maggiorazione della detrazione, ai sensi dell'art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, stabilita, per i territori del Mezzogiorno, dall'art. 14, terzo comma, della legge 1° marzo 1986, n. 64, qualora la richieda nell'esercizio in cui gli sono stati consegnati i beni acquistati anziché in quello precedente in cui sono state emesse e registrate le relative fatture, dato che un'interpretazione costituzionalmente orientata di tale normativa impone di ritenere necessaria, al fine di evitare un'irragionevole disparità di trattamento, la prova della consegna dei beni ai fini del riconoscimento dell'agevolazione, come espressamente stabilito dalla legge per gli anni 1982 e 1983 (Sez. 5, n. 3108, Rv. 629292, est. Conti).

In tema di agevolazioni in favore della piccola proprietà contadina, Sez. 5, n. 8326, Rv. 630171, est. Botta, ha chiarito che il giudice tributario può valutare autonomamente la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per l'accesso alle stesse, a prescindere dall'esistenza di un parere negativo della comunità montana (ente deputato a svolgere gli accertamenti previsti dalla legge 6 agosto 1954, n. 604), sulla cui legittimità non si può pronunciare. Ne deriva che, qualora l'organo competente non abbia rilasciato il prescritto parere favorevole e, quindi, non sia stato prodotto nei termini il certificato di cui all'art. 4 della legge citata, non può essere dichiarata la decadenza dal beneficio, potendo, invece, il contribuente fare valere, con libertà di prova, l'esistenza dei presupposti per l'agevolazione richiesta.

Secondo la sentenza Sez. 5, n. 6689, Rv. 630528, est. Terrusi, il certificato dell'Ispettorato provinciale agrario non costituisce un provvedimento amministrativo disapplicabile dal giudice ma un documento, richiesto ai fini della dimostrazione del presupposto soggettivo ed oggettivo del beneficio, la cui idoneità probatoria deve essere valutata dalla commissione tributaria ove l'amministrazione contesti l'effettiva ricorrenza dei requisiti di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1954. Sotto altro profilo, la Corte ha chiarito che l'amministrazione finanziaria non si può discostare dalle risultanze del certificato né può sostituirsi all'Ispettorato ai fini della verifica dei presupposti per il godimento del beneficio (Sez. 6-5, n. 12008, Rv. 630976, est. Cosentino).

Va ricordata, infine, la sentenza Sez. 5, n. 6688, Rv. 630529, est. Terrusi, secondo la quale l'affitto del fondo rustico entro il quinquennio dal suo acquisto, anche se di durata limitata e strumentale ad una coltivazione intercalare, determina la perdita delle agevolazioni, a norma dell'art. 7 della legge n. 604 del 1954, in quanto sintomatico della cessazione della coltivazione diretta da parte del proprietario, salvo che l'affitto sia a favore del coniuge, dei pareenti entro il terzo grado o degli affini entro il secondo che, ai sensi dell'art. 11 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, esercitino, a loro volta, l'attività di imprenditore agricolo ex art. 2135 cod. civ.

9. Il condono.

La Corte ha affermato che, ai fini della definizione delle liti fiscali secondo la disciplina prevista dall'art. 16 della legge n. 289 del 2002 e dall'art. 49, comma 49, della legge n. 350 del 2003, la pendenza formale della lite non impedisce la correttezza del provvedimento di diniego dell'istanza di condono fiscale quando il contribuente, violando i principi di lealtà processuale e del giusto processo nonché i canoni generali della correttezza e buona fede, abbia fatto un uso abusivo del processo. Questa ipotesi ricorre quando il contribuente abbia impugnato l'atto impositivo ben oltre la scadenza del termine previsto dalla legge (nel caso di specie quasi quattro anni dopo), senza argomentare sulle ragioni che lo inducono a ritenere l'opposizione ancora tempestiva, al solo fine di precostituirsi una lite pendente per accedere al condono, Sez. 5, n. 210, Rv. 628851, est. Virgilio. Nello stesso senso si è pronunciata Sez. 5, n. 1271, Rv. 629444, est. Ferro, specificando che una lite tributaria deve considerarsi "pendente anche in ipotesi di ritenuta inammissibilità del ricorso", ma deve pur sempre trattarsi di "liti reali, che abbiano, cioè, ancora un margine processuale (e cioè formale) di incertezza". Quando invece il contribuente abbia impugnato una sentenza in un processo già definito in modo a lui sfavorevole, così dimostrando l'assenza di intenti diversi dall'uso strumentale ed opportunistico del gravame, tale condotta si configura come un abuso del processo, finalizzata al solo scopo di precostituirsi il presupposto per poter fruire dell'ammissione al suddetto beneficio.

La Corte ha quindi evidenziato che il termine del 30 settembre 2012, entro cui ai sensi dell'art. 39, comma 12, lett. d, del d.l. n. 98 del 2011, come conv. con modd. dalla legge n. 111 del 2011, l'Ufficio finanziario deve comunicare al richiedente (la regolarità della domanda di definizione oppure) il diniego di definizione della lite fiscale sospesa, non è perentorio, perché "il legislatore non considera la sua eventuale scadenza idonea per ritenere la regolarità della domanda e, di conseguenza, l'avvenuta produzione degli effetti sia sostanziali che processuali della stessa sulla lite pendente", Sez. 6-5, n. 272, Rv. 629350, est. Cosentino. Con la stessa decisione il Giudice di legittimità ha pure specificato che il concetto di lite "pendente" di cui all'art. 39, comma 12, prima parte, del d.l. n. 98 del 2011, come conv. con modd. dalla legge n. 111 del 2011, deve riferirsi a quelle controversie in relazione alle quali, seppure sia intervenuta decisione, essa possa ancora essere contestata servendosi degli ordinari mezzi di impugnazione, mentre non rileva a questo fine l'astratta esperibilità della revocazione straordinaria o la mera proposizione della relativa domanda avverso una sentenza passata in giudicato. Soltanto la pronuncia rescindente di revocazione, infatti, ove intervenga, importa la revivescenza della lite fiscale, che dovrà allora considerarsi (nuovamente) pendente, Sez. 6-5, n. 272, Rv. 629350, est. Cosentino.

In materia di sospensione dei termini di adempimento degli obblighi tributari prevista dall'art. 4 del d.l. n. 245 del 2002 (Interventi urgenti a favore delle popolazioni colpite dalle calamità naturali, conv. con modd. dalla legge n. 286 del 2002), e dall'art. 9, comma 2, della legge n. 212 del 2000, la Corte ha stabilito che la sospensione trova applicazione anche in relazione alle rate di condono fiscale non pagate ed iscritte a ruolo, perché la normativa citata, in base ad una interpretazione letterale, logica e costituzionalmente orientata, considerato che la sua ragion d'essere consiste nel favorire i contribuenti interessati da eventi eccezionali ed imprevedibili, non permette di limitarne la portata generale introducendo eccezioni non contemplate, Sez. 6-5, n. 1074, Rv. 629385, est. Di Blasi.

L'art. 16 del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1982 n. 516, disciplina un'ipotesi di condono fiscale ed è stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 175 del 1986, per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui consentiva la notifica di accertamenti dei redditi, in rettifica o d'ufficio, fino alla data di presentazione della dichiarazione integrativa, anziché fino a quella della entrata in vigore del provvedimento normativo, pertanto il 14 luglio 1982. Il Giudice di legittimità ha ora precisato che la decisione della Corte costituzionale non ha determinato automaticamente l'annullamento di tutti gli avvisi di accertamento notificati successivamente al 14 luglio 1982, bensì l'invalidità degli stessi nei rapporti tributari (originati dal condono del 1982), e pure nei relativi giudizi ancora pendenti alla data della pubblicazione della pronuncia di incostituzionalità, ma a condizione che il contribuente avesse presentato dichiarazione integrativa ai sensi del suddetto art. 16 e, ciononostante, avesse anche tempestivamente impugnato l'avviso stesso per quel medesimo motivo di illegittimità della legge di condono poi riconosciuto fondato dalla Corte costituzionale. In difetto di uno dei due requisiti, secondo il Giudice di legittimità, dovrebbe invece affermarsi l'incontestabilità dell'obbligazione tributaria in conseguenza del congiunto effetto: della irrevocabilità della dichiarazione, sancita dall'art. 32, primo comma, del d.l. n. 429 del 1982, e della definitività dell'accertamento per omessa tempestiva impugnazione, Sez. 5, n. 1273, Rv. 629481, est. Ferro. Pochi giorni dopo la Corte è tornata ad occuparsi di analoga problematica, e questa volta ha specificato che la dichiarazione d'incostituzionalità del ricordato art. 16 del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1982 n. 516, nei limiti innanzi precisati, non ha comportato l'inesistenza o la nullità dell'avviso di accertamento notificato successivamente al 14 luglio 1982, ma solo la sua annullabilità, che può essere fatta valere dal contribuente soltanto se il rapporto giuridico amministrativo non sia ancora esaurito, non essendo ancora scaduto il termine per l'impugnazione o essendo pendente il relativo giudizio. Pertanto, nel caso in cui il contribuente, invece di impugnare l'avviso di accertamento, abbia proposto istanza di definizione agevolata ai sensi del citato art. 16, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale non incide sulla validità ed efficacia della dichiarazione integrativa, con la conseguenza che restano validi anche l'avviso di liquidazione e la cartella di pagamento emessi in accoglimento della volontà del contribuente, Sez. 6-5, n. 2012, Rv. 629321, est. Iacobellis.

La Corte è quindi intervenuta a precisare, in tema di INVIM ed in riferimento alla possibilità di definizione agevolata della lite tributaria non ancora conclusa di cui agli artt. 44 e 53 della legge n. 413 del 1991, che la pur accertata pendenza della controversia in relazione all'imposta complementare - dovuta dal contribuente per l'ipotesi di rideterminazione dei valori dichiarati ai fini dell'incremento rappresentativo della base imponibile - non sortisce alcun effetto in relazione all'imposta principale, la quale non risulti anch'essa oggetto di pendenza giudiziale, Sez. 5, n. 3482, Rv. 629954, est. Terrusi.

Il Giudice di legittimità ha pure chiarito, con riferimento alla definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti ai sensi del condono disciplinato dalla legge 30 dicembre 1991, n. 413, che "l'irrevocabilità" della dichiarazione integrativa, prevista dall'art. 57 della legge, deve essere intesa nel senso che essa non è modificabile da parte dell'Ufficio né contestabile da parte del contribuente, e non anche nel senso che essa comporti la novazione del rapporto tributario originario, il quale rimane in essere, impedendo l'estinzione del relativo giudizio (ove il rapporto sia già sub iudice) finché il debito d'imposta non sia stato saldato, Sez. 6-5, 13.2.2014, n. 3301, Rv. 629379, est. Bognanni. Con la stessa decisione il Giudice di legittimità ha avuto occasione di specificare che in materia di condono fiscale le dichiarazioni integrative non hanno, diversamente dalle ordinarie dichiarazioni fiscali, natura di mere dichiarazioni di scienza e di giudizio, come tali modificabili, né costituiscono un momento dell'iter procedimentale volto all'accertamento dell'obbligazione tributaria, ma integrano un atto volontario, frutto di scelta e di autodeterminazione del contribuente. Gli effetti della dichiarazione integrativa, però, non sono rimessi alla volontà del singolo, ma sono indicati dalla legge come conseguenza dell'osservanza delle specifiche norme che reggono ciascuna scelta. Ne consegue che, occorrendo verificare quale dichiarazione integrativa il contribuente abbia effettivamente posto in essere, tenuto conto che le differenze formali e strutturali di ciascuna impedisce qualsiasi conversione dell'una nell'altra, qualora la dichiarazione integrativa prevista dall'art. 49 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (cosiddetto condono tombale) sia stata ritenuta dal giudice di merito "errata" e "non valida", per avere omesso il contribuente uno specifico adempimento nella compilazione del modello, essa non è idonea a produrre i più limitati effetti della dichiarazione integrativa cosiddetta semplice prevista dal successivo art. 50, Sez. 6-5, n. 3301, Rv. 629380, est. Bognanni.

La Corte ha poi deciso che pure il fallito è legittimato a proporre istanza di definizione agevolata delle liti tributarie pendenti, in caso d'inerzia del curatore, ai sensi del condono disciplinato dall'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. Il fallito, infatti, non è privato, per effetto della dichiarazione di fallimento, della qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, restando esposto ai riflessi anche sanzionatori che conseguono alla definitività dell'atto impositivo, ed essendo per tale motivo legittimato, nell'inerzia degli organi fallimentari, anche a ricorrere alla tutela giurisdizionale. La perdita della capacità processuale derivante dalla dichiarazione di fallimento ha infatti carattere relativo, potendo essere fatta valere soltanto dal curatore nell'interesse della massa dei creditori, Sez. 6-1, n. 6248, Rv. 629870, est. Ragonesi.

La Corte ha quindi affermato che il contribuente, il quale abbia aderito ad un condono e provveduto al versamento dell'importo dovuto, non può presentare una nuova domanda di agevolazione per la medesima fattispecie. L'irrevocabilità dell'accordo con cui lo Stato rinuncia ad una parte della pretesa fiscale accertata ed il contribuente ottiene un risparmio conveniente, infatti, costituisce il presupposto indefettibile alla base dei provvedimenti di condono fiscale, atteso che l'Erario si serve di questi ultimi anche per liberare risorse di uomini e mezzi da destinare ad attività diverse dal contenzioso, Sez. 5, n. 6699, Rv. 629991, est. Meloni.

Il Giudice di legittimità ha chiarito che pure un dipendente condannato dalla Corte dei conti al versamento di somma per aver provocato un danno erariale può avvalersi della speciale procedura (e delle agevolazioni) previste dall'art. 12 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, per la definizione dei carichi inclusi in ruoli emessi da uffici statali ed affidati ai concessionari del servizio nazionale della riscossione fino al 31 dicembre 2000. Deve infatti tenersi conto dell'ampia formulazione della norma interpretativa della citata disposizione, contenuta nell'art. 1, comma 2 decies del d.l. 24 giugno 2003, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 agosto 2003, n. 212, e la lettura costituzionalmente orientata fornitane dalle ordinanze della Consulta n. 433 del 29 dicembre 2004 e n. 305 del 22 luglio 2005, che hanno escluso l'utilizzabilità della suddetta procedura per le sole somme iscritte a ruolo per sanzioni pecuniarie di natura penale, Sez. 5, n. 8303, Rv. 630050, est. Perrino.

Ancora in tema di condono fiscale, la Corte ha affermato che della proroga dei termini di pagamento delle due rate di cui all'art. 9, comma 12, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, deve ritenersi possano giovarsi anche coloro che abbiano effettuato il versamento iniziale anteriormente all'entrata in vigore del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. La formula adottata del d.m. 8 aprile 2004, art. 1, comma 2, lett. e, che ha disposto la proroga limitandola ai soli contribuenti che, a quella data, non avessero effettuato versamenti "utili" per la definizione degli adempimenti e degli obblighi tributari di cui al citato art. 9 (tra gli altri, deve intendersi nel senso che i versamenti "utili" sono solo quelli immediatamente estintivi degli obblighi, ossia quelli effettuati in un'unica soluzione). Occorre infatti fornire un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa, che non svantaggi il contribuente più diligente, Sez. 6-5, n. 8615, Rv. 630117, est. Cosentino.

Riaffermato il principio dell'autonomia di ogni avviso di accertamento la Corte, con particolare riferimento ai rapporti tra il socio e la società cui partecipa ha affermato che, qualora l'avviso di accertamento emesso ai fini IRPEF nei confronti del socio sia divenuto definitivo, esso rimane insensibile alle vicende del parallelo accertamento esperito nei confronti della società. Deve considerasi esclusa, pertanto, la possibilità da parte del socio di invocare a titolo personale la sussistenza del presupposto (pendenza del giudizio) per la definizione agevolata di cui all'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, anche qualora il socio abbia impugnato l'avviso di accertamento emesso nei confronti della società, ex art. 40, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in quanto, nonostante il modello unitario di rettifica che in questo caso ricorre, la pretesa tributaria si esplica con una duplicità di avvisi, diretti a soggetti diversi (soci e società) e per imposte differenti (ILOR e IRPEF), Sez. 5, n. 9419, Rv. 630310, est. Cigna.

L'art. 11, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, consente la definizione agevolata delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, sulle successioni e donazioni e sull'incremento di valore degli immobili, ammettendo quale base di calcolo il valore dei beni come dichiarato dai contribuenti. La Corte ha avuto occasione di evidenziare che la stessa norma impone di considerare definite le imposte per i valori dichiarati dei beni, ed è pertanto ostativa all'emissione, da parte dell'Ufficio, di un atto successivo alla presentazione dell'istanza di definizione agevolata che - pur formalmente qualificato come atto di liquidazione - abbia in realtà natura di accertamento di maggiore imposta, presupponendo la determinazione della base imponibile in esso indicata, diversa rispetto a quella dichiarata dal contribuente ed accertata in sede di liquidazione dell'imposta principale. valutazioni consistenti non in una mera rilevazione dei dati emergenti dall'atto o in un calcolo matematico, Sez. 5, n. 9806, Rv. 630652, est. Napolitano.

In tema di condono fiscale, ai sensi degli artt. 49 e 50 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, in caso di mancato o insufficiente versamento delle somme dovute, nella specie per IVA, a seguito della dichiarazione integrativa presentata dal contribuente, l'Ufficio deve - in ragione dell'art. 51, comma 8, della medesima legge - iscrivere in ruolo speciale gli importi prescritti (con soprattassa e interessi). La Corte ha precisato, in proposito, che il debitore non decade dal beneficio del condono per il mero mancato pagamento della somma dovuta in ragione della dichiarazione integrativa, ma solo, come confermato dalla norma interpretativa di cui all'art. 18 della legge 8 maggio 1998, n. 146, quando questa non sia corrisposta dopo la sua iscrizione a ruolo, integrando detta iscrizione il presupposto per chiedere la riscossione di quanto dovuto, il cui pagamento è idoneo alla produzione degli effetti del condono. Ne consegue, inoltre, che, in caso di lite giudiziaria, incombe all'Amministrazione finanziaria dedurre il mancato pagamento da parte del contribuente ed allegare e provare la regolare e tempestiva formazione del ruolo speciale, Sez. 6-5, n. 10575, Rv. 630889, est. Di Blasi.

L'art. 15, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (come modificato dall'art. 5 bis, comma 1, lett. i, del d.l. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27) prevede come causa ostativa all'ammissione al condono fiscale disciplinato dalla stessa disposizione, l'essere stata esercitata l'azione penale nei confronti del contribuente per gli illeciti previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. La Corte ha allora precisato che la norma trova applicazione (anche) in riferimento alla persona giuridica, qualora nei confronti del suo legale rappresentante sia già stata esercitata l'azione penale, di cui abbia avuto formale conoscenza, non essendo necessaria la cosiddetta "doppia conoscenza formale", sia dell'indagato sia della società, ed a nulla rilevando l'avvenuto mutamento della persona del legale rappresentante all'epoca di presentazione dell'istanza di condono, Sez. 5, n. 10499, Rv. 630864, est. Federico.

Ancora in relazione alla disposizione di cui all'art. 15, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (come succ. mod.), la Corte ha ritenuto che il contribuente non può beneficiare del condono in tutti i casi di esercizio dell'azione penale per i reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, di cui egli abbia avuto formale conoscenza. La causa ostativa all'applicazione del condono, pertanto, non ricorre solo nelle ipotesi in cui vi sia una stretta e diretta connessione tra la fattispecie di reato contestata ed i rilievi oggetto dell'atto tributario definibile in via agevolata. Tale interpretazione risponde alla "ratio" della norma, diretta a precludere l'accesso al beneficio del condono a chiunque, in quanto imputato di un qualsiasi reato tributario, si riveli "indegno" a fruirne, Sez. 5, n. 11926, Rv. 631097, est. Virgilio.

10. Gli accertamenti tributari.

10.1. La competenza territoriale degli uffici finanziari.

La Corte ha statuito, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, che la variazione del domicilio fiscale del contribuente deve essere effettuata con un atto specificamente indirizzato all'Amministrazione finanziaria. In caso contrario, permane la competenza territoriale dell'ufficio individuato in riferimento al "precedente" domicilio. In applicazione di tale principio, il Giudice di legittimità ha escluso che integrasse una (valida) variazione di domicilio ai fini fiscali, l'indicazione della nuova residenza contenuta in un contratto di compravendita di un immobile, solo occasionalmente conosciuto dall'ufficio in sede di verifica, Sez. 6-5, n. 21290, Rv. 632457, est. Conti.

10.2. Gli accertamenti fiscali: le forme.

Intervenendo su una problematica che ha visto nel passato, anche recente, pronunce contrastanti, anche da parte del Giudice di legittimità, la Corte ha innanzitutto confermato il proprio consolidato orientamento secondo cui l'avviso di accertamento è nullo, in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell'art. 56 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (che, nel rinviare alla disciplina sulle imposte dei redditi, richiama implicitamente il citato art. 42), se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Ha quindi affermato che, se la sottoscrizione non appartiene al titolare dell'ufficio, incombe all'Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore e la presenza della delega del titolare dell'ufficio, Sez. 5, n. 18758, Rv. 631925, est. Cirillo.

10.3. Gli accertamenti fiscali: la motivazione.

La Corte ha affermato, in tema di INVIM ed in considerazione di quanto disposto dall'art. 52, comma 2 bis, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, che è nullo l'avviso di accertamento con il quale l'Agenzia delle Entrate abbia rettificato il valore di un immobile oggetto di compravendita sulla base di una stima UTE, qualora la motivazione dell'avviso di accertamento faccia riferimento ad altri atti, non conosciuti né ricevuti dal contribuente, non riprodotti nell'avviso stesso e neppure allegati, senza che possano trovare rilievo eccezioni riferite alla tutela della privacy, trattandosi di un adempimento obbligatorio ex lege, Sez. 5, n. 11967, Rv. 630978, est. Merone.

Il Giudice di legittimità ha però anche ribadito che una corretta interpretazione del principio dettato all'art. 7, comma 1, dello Statuto del contribuente, laddove dispone che l'amministrazione finanziaria debba allegare agli atti d'imposizione ogni documento richiamato, qualora la motivazione sia espressa per relationem, impone di ritenere che la previsione si riferisca esclusivamente ai documenti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza, Sez. 5, n. 15327, Rv. 631550, est. Virgilio.

Pronunciando in un ambito specifico, quello della revisione del classamento catastale degli immobili urbani, la Corte ha colto l'occasione per dettare un principio suscettibile di vasta applicazione in materia di completezza della motivazione dell'accertamento tributario. Il Giudice di legittimità ha affermato che la motivazione dell'atto, a pena di nullità, non può limitarsi a contenere, come previsto dall'art. 3, comma 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, l'indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall'Agenzia del territorio, ma deve specificare, ai sensi dell'art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto del contribuente), a quale presupposto la modifica debba essere associata, se cioè al non aggiornamento del catasto o alla palese incongruità rispetto a fabbricati similari. In quest'ultima ipotesi, inoltre, il provvedimento deve indicare quali siano i fabbricati presi a parametro, quale sia il loro classamento e quali le caratteristiche analoghe da considerare ai fini del giudizio di similarità rispetto all'unità immobiliare oggetto di classamento, così rispondendo alla funzione di delimitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio nella successiva fase contenziosa. Nell'ambito di quest'ultima il contribuente, nell'esercizio del proprio diritto di difesa, potrà poi chiedere la verifica dell'effettiva correttezza della riclassificazione. Peraltro, ha aggiunto la Corte, la specifica indicazione dei singoli elementi presi in considerazione può essere soddisfatta anche mediante l'allegazione di altro atto che tali specificazioni contenga, quale ad esempio la nota del Comune con la quale sono stati segnalati gli immobili suscettibili di essere sottoposti all'operazione di verifica, purché il documento abbia un contenuto completo ed esaustivo, Sez. 5, n. 17322, Rv. 632285, est. Terrusi.

Il Giudice di legittimità ha quindi proposto un principio di indubbio rilievo, sempre in materia di motivazione dell'atto tributario, evidenziando che la estensione e completezza che è ad essa richiesta dipendono anche dalla natura propria dell'atto cui afferisce. La Corte ha specificato in proposito che la cartella esattoriale - la quale non costituisce il primo e l'unico atto con cui l'Amministrazione finanziaria esercita la pretesa tributaria, perché la notificazione della cartella è (di regola) preceduta dalla notifica di altro atto propriamente impositivo - non può essere annullata per vizio di motivazione, neppure qualora non contenga l'indicazione del contenuto essenziale dell'atto presupposto, purché quest' ultimo sia stato regolarmente portato a conoscenza del contribuente. La fattispecie esaminata atteneva a contributi consortili di bonifica, in relazione ai quali la notificazione della cartella di pagamento era stata preceduta dalla notifica di un avviso bonario di pagamento, atto autonomamente impugnabile e, nella specie, era stato anche effettivamente impugnato dal contribuente, Sez. 5, n. 21177, Rv. 632486, est. Napolitano.

La Corte, premesso che non si riscontra incompatibilità nella scelta difensiva di chi contesti il vizio di motivazione di un atto e contestualmente si difenda nel merito avverso lo stesso, ha quindi affermato che il vizio di motivazione dell'accertamento tributario non può essere sanato, ai sensi dell'art. 156 cod. proc. civ., per raggiungimento dello scopo, in quanto tale atto ha la funzione di garantire al contribuente una difesa certa anche con riferimento alla delimitazione del thema decidendum, Sez. 5, n. 21997, Rv. 632767, est. Bruschetta.

Il Giudice di legittimità ha avuto anche occasione di precisare che, nel procedimento tributario, la motivazione dell'avviso di accertamento assolve ad una pluralità di funzioni. Essa, infatti, in primo luogo garantisce il diritto di difesa del contribuente, delimitando l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio nella successiva fase processuale contenziosa. Inoltre, la motivazione dell'atto consente una corretta dialettica processuale, perché l'onere di enunciare i motivi nell'atto introduttivo del giudizio, imposta al ricorrente a pena di inammissibilità, presuppone la presenza di leggibili argomentazioni dell'atto amministrativo, contrapposte a quelle fondanti l'impugnazione. Infine la motivazione dell'accertamento assicura, in ossequio al principio costituzionale di buona amministrazione, un'azione amministrativa efficiente e congrua alle finalità della legge, permettendo di comprendere la ratio della decisione adottata, Sez. 5, n. 22003, Rv. 632769, est. Terrusi.

10.4. Gli accertamenti fiscali: le movimentazioni bancarie.

L'art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ha rilevato la Corte a proposito dell'accertamento delle imposte sul reddito, sancisce per l'Ufficio finanziario la mera facoltà, e non l'obbligo, di invitare il contribuente a fornire dati e notizie in ordine agli accertamenti bancari. In conseguenza rimane priva di sanzione la stessa omissione dell'invito, e tanto meno può comportare l'invalidità dell'accertamento induttivo sintetico - operato dall'Amministrazione finanziaria ai sensi dell'art. 39, secondo comma, lett. d bis, del citato decreto - la presenza di eventuali difformità dell'invito stesso rispetto al modello legale. Tanto deve affermarsi, in particolare, quando l'invito risulti comunque idoneo a garantire al contribuente l'esercizio del diritto di difesa. Proprio questo, ha ritenuto la Corte, era avvenuto nel caso di specie, essendo stato recapitato al contribuente un invito per più motivi irregolare, ma che conteneva pur sempre il chiaro invito - cui il contribuente non aveva ritenuto di aderire, neppure nel corso dei diversi gradi del giudizio - a produrre la documentazione contabile ed amministrativa relativa all'anno di imposta oggetto di verifica, Sez. 5, n. 1857, Rv. 629463, est. Valitutti. In senso analogo si è espresso il Giudice di legittimità in ordine a verifica in materia di IVA, Sez. 5, n. 1860, Rv. 629513, est. Valitutti.

Ancora in tema di accertamenti tributari, il Giudice di legittimità ha sancito che grava sul contribuente l'onere di dedurre e dimostrare che la provvista dei prelievi di conto corrente coincide con fondi contabilizzati come redditi o non imponibili. In mancanza della relativa prova - che non può essere offerta mediante la sola registrazione in contabilità della movimentazione bancaria, perché inidonea a dimostrare il titolo del versamento o l'origine della provvista - ciascun prelievo e ciascun versamento deve presumersi corrispondere ad un ricavo non contabilizzato, Sez. 5, n. 14045, Rv. 631520, est. Pivetti.

Pronunciando in tema di accertamento dell'IVA, La Corte ha deciso che i movimenti bancari operati sui conti personali di soggetti legati al contribuente da stretto rapporto familiare o da particolari rapporti contrattuali (nella specie, l'amministratore unico della società, il suo gestore di fatto e la figlia di quest'ultimo nonché socia) possono essere senz'altro riferiti al contribuente al fine di determinarne i maggiori ricavi non dichiarati, salva la prova contraria a suo carico. Questo perché tali rapporti di contiguità rappresentano elementi indiziari che assumono consistenza di prova presuntiva legale, ove il soggetto formalmente titolare del conto non sia in grado di fornire indicazioni sulle somme prelevate o versate e non disponga di proventi diversi o ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla gestione dell'attività imprenditoriale, Sez. 5, n. 20668, Rv. 632458, est. Olivieri.

10.5. Gli accertamenti fiscali: accessi, ispezioni e verifiche.

L'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, dispone che, a seguito di ogni accesso, ispezione o verifica fiscale: "Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza". La Cassazione è ripetutamente intervenuta, nel corso dell'anno, per precisare l'esatto ambito di applicazione della norma. In primo luogo ha chiarito che se l'accertamento è stato effettuato in modo standardizzato mediante parametri e studi di settore, il termine dilatorio previsto dall'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, che deve necessariamente intercorrere tra il rilascio al contribuente del verbale di chiusura delle operazioni (accessi, ispezioni o verifiche eseguite nei locali destinati all'esercizio dell'attività) e l'emanazione del relativo avviso di accertamento, non è applicabile essendo già prevista, a pena di nullità, una fase necessaria di contraddittorio procedimentale, che garantisce pienamente la partecipazione e l'interlocuzione del contribuente prima dell'emissione dell'accertamento, Sez. 5, n. 7960, Rv. 629967, est. Virgilio.

Il Giudice di legittimità è quindi tornato ad occuparsi dell'istituto specificando che il termine dilatorio di sessanta giorni di cui all'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo. Nel caso di specie la Corte ha escluso la nullità dell'avviso di accertamento, notificato nel rispetto del termine de quo con riferimento ad un verbale di accesso, nonostante l'assenza di un successivo processo verbale di constatazione, Sez. 6-5, n. 15010, Rv. 631563, est. Iacobellis.

Infine, il Giudice di legittimità ha deciso che la garanzia del termine dilatorio riconosciuto al contribuente ai sensi dell'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, si applica a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell'impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all'acquisizione di documentazione, in quanto la citata disposizione non prevede alcuna distinzione ed è, comunque, necessario redigere un verbale di chiusura delle operazioni anche nel caso descritto, come prescrive l'art. 52, sesto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, Sez. 5, n. 15624, Rv. 631980, est. Meloni.

10.6. Gli accertamenti fiscali: le presunzioni e l'onere della prova.

Sono risultate numerose nel corso dell'anno, come di consueto, le pronunce della Suprema Corte in tema di natura ed utilizzabilità delle presunzioni nell'accertamento tributario. Il Giudice di legittimità ha statuito innanzitutto che, al fine della validità dell'accertamento tributario, gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi - benché l'art. 2729, primo comma, cod. civ., l'art. 38, quarto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e l'art. 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 si esprimano al plurale - potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell'ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria, Sez. 5, n. 656, Rv. 629325, est. Conti.

La Corte ha quindi deciso che qualora l'Amministrazione finanziaria invochi, ai fini della regolare applicazione delle imposte, la simulazione assoluta o relativa di un contratto stipulato dal contribuente, non è dispensata dall'onere della relativa prova che, in quanto terzo, può peraltro fornire con ogni mezzo, anche mediante presunzioni. Resta fermo che la prova deve riguardare non solo elementi di rilevanza oggettiva, ma anche dati idonei a rilevare convincentemente i profili negoziali di carattere soggettivo, riflettentisi sugli scopi perseguiti in concreto dai contraenti. Nel caso di specie il Giudice di legittimità ha confermato la sentenza impugnata che, a fronte dell'unico dato documentale certo, costituito da fatture per provvigioni relative ad un rapporto di procacciamento di affari, ha ritenuto non essere stata dimostrata l'asserita dissimulazione, tra le parti, di un contratto di commissione finalizzato ad evitare alla commissionaria la fatturazione ed il conseguente versamento dell'I.V.A. sulle cessioni operate in favore della committente, Sez. 5, n. 1568, Rv. 629503, est. Valitutti.

In particolare, poi, la Corte ha dovuto occuparsi ripetutamente di chiarire le condizioni che devono ricorrere perché l'Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento fiscale, possa correttamente servirsi di presunzioni semplici fondate su accertamenti induttivi e studi di settore. Il Giudice di legittimità ha statuito che, in tema di IVA, l'art. 62 sexies, comma 3, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, nel prevedere che gli accertamenti condotti ai sensi dell'art. 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, possono essere fondati anche sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell'art. 62 bis dello stesso d.l. n. 331 cit., autorizza l'ufficio finanziario, allorché ravvisi siffatte "gravi incongruenze", a procedere all'accertamento induttivo anche fuori delle ipotesi previste dall'art. 54. Tanto deve affermarsi, ha precisato la Corte, anche in presenza di una contabilità formalmente in regola, con conseguente ammissibilità dell'accertamento induttivo oltre le ipotesi già previste dal successivo art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972. I cosiddetti studi di settore introdotti dagli artt. 62 bis e 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993, direttamente derivanti dai "redditometri" o "coefficienti di reddito e di ricavi" previsti dal d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 aprile 1989, n. 154, idonei a fondare semplici presunzioni sono, infatti, da ritenere supporti razionali offerti dall'amministrazione al giudice, paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato o ai notiziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti, che possono essere utilizzati dall'ufficio anche in contrasto con le risultanze di scritture contabili regolarmente tenute, finché non ne sia dimostrata l'infondatezza mediante idonea prova contraria, il cui onere è a carico del contribuente, Sez. 6-5, n. 3302, Rv. 629956, est. Bognanni. L'affermazione di fondo contenuta nella decisione, secondo cui in tema di accertamento dell'IVA il ricorso al metodo induttivo è ammissibile pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, ed anche mediante il ricorso a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, è stato confermato da Sez. 5, n. 14068, Rv. 631528, est. Tricomi, e da Sez. 5, n. 23551, Rv. 633065, est. Valitutti.

Sempre in materia di IVA, il Giudice di legittimità, pronunciando ancora in ordine alla possibilità di utilizzazione dell'accertamento induttivo ai fini della determinazione del reddito imponibile, ha sostenuto che il mancato rinvenimento, nei locali in cui il contribuente esercita la sua attività, di beni risultanti in carico all'azienda in forza di acquisto, importazione o produzione, pone, ai sensi dell'art. 53 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e dell'art. 2728 cod. civ., una presunzione legale di cessione senza fattura dei beni medesimi, che può essere vinta solo se il contribuente fornisca la prova di una diversa destinazione, e che legittima il ricorso, da parte dell'ufficio, al metodo di accertamento induttivo ex art. 55, secondo comma, n. 2, del citato d.P.R. n. 633 del 1972, principio affermato da Sez. 5, n. 17298, Rv. 632349, est. Valitutti.

Il rilievo che la corretta istaurazione del contraddittorio con il contribuente assume, nell'ambito di un sistema che consente il ricorso alle presunzioni semplici da parte dell'Amministrazione finanziaria, è stato evidenziato dalla Corte affermando che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente. In tale fase, infatti, quest'ultimo ha la facoltà di contestare l'applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l'ufficio - ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte - ad integrare la motivazione dell'atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento. Tuttavia, ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi, ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l'ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri, Sez. 5, n. 17646, Rv. 631951, est. Marulli.

Ancora in tema di presunzioni in materia tributaria si è espressa la Corte in un caso particolare in cui, servendosi del servizio postale ed in particolare della raccomandata con avviso di ricevimento, al contribuente erano state notificate in un unico plico una pluralità di cartelle di pagamento. Il destinatario aveva affermato di riconoscerne solo una, ed il Giudice di legittimità ha premesso essere necessario, perché operi la presunzione di conoscenza posta dall'art. 1335 cod. civ., che l'autore della comunicazione fornisca la prova che l'involucro conteneva anche quel certo documento tra gli altri, atteso che, secondo l'id quod plerumque accidit, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione. A tale fine però, ha ritenuto la Corte, l'indicazione dei numeri delle cartelle sull'avviso di ricevimento, in quanto sottoscritto dal destinatario ex art. 12 del d.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, pur non assumendo fede privilegiata, visto che vi provvede non l'agente postale ma lo stesso mittente, ha comunque valore sul piano presuntivo ed ai fini del giudizio sul riparto dell'onere della prova, Sez. 6-5, n. 20786, Rv. 632712, est. Perrino.

Sul rilievo che le presunzioni (pur) semplici possono assumere, quale fondamento dell'accertamento tributario, il Giudice di legittimità è tornato per affermare che in materia di accertamento delle imposte sui redditi, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza ai fini della formazione del proprio convincimento e la "contabilità in nero", costituita da documenti informatici (cosiddetti files, estrapolati dai computers nella disponibilità dell'imprenditore), costituisce elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, legittimamente valutabile, in relazione all'esistenza di operazioni non contabilizzate. Ne deriva che tali documenti informatici non possono essere ritenuti dal giudice, di per sé, probatoriamente irrilevanti, senza che a tale conclusione conducano l'analisi dell'intrinseco valore delle indicazioni da essi promananti e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente, Sez. 5, n. 20902, Rv. 632521, est. Tricomi.

Sempre in tema di possibilità di fare ricorso alle presunzioni in materia di accertamento tributario, la Corte si è espressa confermando che il beneficio goduto dal contribuente a seguito dell'attività svolta dal consorzio di bonifica si presume, in ragione della comprensione dei fondi dell'onerato nel perimetro d'intervento consortile e dell'avvenuta approvazione del piano di classifica, salva la prova contraria da parte del contribuente. Per giungere a questa conclusione la Corte ha spiegato che in materia di contributi di bonifica l'onerato, anche qualora non abbia impugnato innanzi al giudice amministrativo gli atti generali presupposti (e cioè il perimetro di contribuenza), il piano di contribuzione ed il bilancio annuale di previsione del consorzio, che riguardano l'individuazione dei potenziali contribuenti e la misura dei relativi obblighi, può contestare, nel giudizio avente ad oggetto la cartella esattoriale dinanzi al giudice tributario, la legittimità della pretesa impositiva dell'ente assumendo che gli immobili di sua proprietà non traggono alcun beneficio diretto e specifico dall'opera del consorzio. In tal caso, però, quando vi sia un piano di classifica approvato dalla competente autorità, l'ente impositore è esonerato dalla prova di avere assicurato detto beneficio operando la predetta presunzione che può essere vinta dalla prova contraria offerta dal contribuente, Sez. 5, n. 21176, Rv. 633055, est. Napolitano.

10.7. Gli accertamenti fiscali: l'elusione fiscale.

Ripetuti e rilevanti gli interventi della Suprema Corte in materia di elusione fiscale, più volte, specie quando attuata mediante operazioni di per sé assolutamente lecite, ricondotta al fenomeno dell'abuso del diritto. In primo luogo, in materia specifica, il Giudice di legittimità ha chiarito che integra operazione elusiva, ai sensi dell'art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408, l'acquisto di terreni edificabili da parte di una società immobiliare, realizzato tramite una cessione in suo favore di quote di società a tale scopo costituita dall'alienante, operazione esente da I.V.A. ma priva di reali giustificazioni economiche. Deve infatti escludersi che il contribuente possa conseguire indebiti vantaggi fiscali mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili dell'operazione che non siano la mera aspettativa di quei benefici, Sez. 5, n. 653, Rv. 629233, est. Perrino.

La Corte ha affrontato nuovamente il problema, ancora con riferimento ad una normativa specifica anche se diversa, ed ha colto l'occasione per evidenziare che non qualsiasi operazione imprenditoriale inconsueta può essere considerata elusiva, occorrendo ben discernere caso per caso. In tema di imposta di registro, infatti, il Giudice di legittimità ha sottolineato che l'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, attribuisce prevalenza alla "intrinseca natura ed agli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente", e tanto impone, nella relativa loro qualificazione, di considerare preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni. Non si rivela perciò decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto. In caso di conferimento di azienda con contestuale cessione, in favore di un socio della conferitaria, delle quote ottenute in contropartita dal conferente, il fenomeno ha, a tal fine, carattere unitario (in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva ed all'evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell'imposta) ed è configurabile come cessione di azienda. Non ci troviamo pertanto in presenza di un'operazione elusiva, ed in conseguenza non grava sull'Amministrazione l'onere di provare i presupposti dell'abuso di diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui al citato art. 20, Sez. 5, n. 3481, Rv. 630075, est. Terrusi.

La Corte ha poi affrontato il problema dell'elusione fiscale anche attraverso una prospettiva meno specifica. Ha quindi affermato che in materia tributaria vige un generale principio antielusivo - la cui fonte, in tema di tributi non armonizzati (quali le imposte dirette), va rinvenuta negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano - secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio non contrasta con il canone di riserva di legge, non traducendosi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali, e comporta l'inopponibilità del negozio all'Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione. Tanto premesso, l'operazione economica che abbia quale suo elemento (non necessariamente unico ma comunque) predominante e assorbente lo scopo elusivo del fisco costituisce condotta abusiva ed è, pertanto, vietata allorquando non possa spiegarsi altrimenti (o, in ogni caso, in modo non marginale) che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta. Incombe peraltro sull'Amministrazione finanziaria la prova: sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l'onere di allegare l'esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate. Nel caso di specie, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di una condotta abusiva con riguardo ad un'operazione di riorganizzazione societaria, realizzata mediante il concorso di tre società che aveva comportato, come risultato finale, un vantaggio fiscale per una di esse, costituito da un'eccedenza di imposta portata in compensazione di quanto dovuto a titolo di IRPEG ed ILOR, Sez. 5, n. 3938, Rv. 629732 e 629733, est. Terrusi; in senso analogo cfr. anche Sez. 5, n. 4603, Rv. 629749, est. Greco.

Ancora una portata generale assume il principio di diritto dettato in materia di elusione fiscale in un'ulteriore decisione del Giudice di legittimità. La Corte, esprimendosi con grande chiarezza, ha infatti evidenziato che, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Posta questa premessa, ne discende che il carattere abusivo della condotta va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali dell'agire che non necessariamente si identificano in una redditività immediata, potendo consistere in esigenze di natura organizzativa ed in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda. Nel caso di specie, in applicazione dell'enunciato principio il Giudice di legittimità ha ritenuto inadeguatamente motivata, da parte del giudice dell'impugnazione, l'esclusione delle valide ragioni economiche dell'acquisto, da parte della contribuente, delle azioni di una società estera, benché rientrante in più ampio progetto di riorganizzazione strutturale e funzionale di un gruppo societario di cui la prima era "capogruppo", Sez. 5, n. 4604, Rv. 630063, est. Greco.

La Corte è tornata ad occuparsi dell'elusione fiscale sul finire dell'anno, nell'ambito di un giudizio avente ad oggetto un accertamento in rettifica dei redditi e coinvolgente l'istituto della interposizione fittizia di persona, ed ha confermato l'orientamento espresso in materia l'anno precedente (cfr., Sez. 5, n. 449 del 2013, Rv. 625134, e Sez. 5, n. 25671 del 2013, Rv. 628458). Il Giudice di legittimità ha deciso, infatti, che la disciplina antielusiva dell'interposizione, prevista dall'art. 37, terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l'applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d'imposta. Da tanto discende che il fenomeno della simulazione relativa, nell'ambito della quale può ricomprendersi l'interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali. Nel caso esaminato la Corte ha cassato la sentenza della commissione tributaria regionale che, in presenza di una donazione di terreni edificabili conclusa fra familiari, seguita a breve dalla vendita dei beni a terzi, con corresponsione dell'acconto del prezzo al donante, aveva escluso la strumentalità di tale donazione allo scopo di evitare il pagamento delle imposte sulla plusvalenza maturata da quest'ultimo, Sez. 5, n. 21794, Rv. 632659, est. Cappabianca.

10.8. Gli atti di accertamento: la notificazione, forme e destinatari.

La Corte, pronunciando in materia di natura giuridica della notificazione dell'avviso di accertamento, ha confermato l'orientamento secondo cui la notificazione è una mera condizione di efficacia dell'atto amministrativo di imposizione tributaria, e non un elemento costitutivo di esso. In conseguenza il vizio di nullità ovvero di inesistenza della stessa è irrilevante ove l'atto abbia raggiunto lo scopo. Nel caso di specie il Giudice di legittimità ha ritenuto sanato il vizio della notificazione perché l'atto irregolarmente portato a conoscenza del contribuente era stato impugnato dallo stesso destinatario in data antecedente alla scadenza del termine fissato dalla legge per l'esercizio del potere impositivo, Sez. 5, n. 654, Rv. 629235, est. Terrusi.

Ancora in materia tributaria ed in relazione alle modalità di notificazione dell'avviso di accertamento, in una fattispecie in cui la notifica doveva effettuarsi ai sensi delle disposizioni dettate in materia dal codice di rito, la Corte ha affermato che la notificazione dell'atto eseguita mediante consegna a persona che, pur coabitando con il destinatario, non sia a lui legata da rapporto di parentela, o non sia addetta alla casa, non è assistita dalla presunzione di consegna a quest'ultimo, con conseguente nullità della notificazione stessa. Nel caso di specie il Giudice di legittimità ha confermato la decisione impugnata, la quale aveva escluso la ritualità della notifica di un avviso di accertamento, afferente un'imposta di successione, perché effettuata mediante la consegna dell'atto ad una "coinquilina" del destinatario, Sez. 6-5, n. 2705, Rv. 629976, est. Iacobellis.

La Corte ha poi chiarito - in materia di IVA, ma il principio assume valenza generale - che l'accertamento tributario, se inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore - in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione dei beni e delle attività acquisiti al fallimento - ma anche al contribuente fallito. Quest'ultimo, infatti, restando esposto ai riflessi conseguenti alla definitività dell'atto impositivo, anche di carattere sanzionatorio, è eccezionalmente abilitato ad impugnarlo, nell'inerzia degli organi fallimentari, Sez. 5, n. 9434, Rv. 630585, est. Crucitti.

La Corte è poi tornata ad occuparsi del problema delle corrette modalità di notifica dell'accertamento tributario a mezzo posta, ma questa volta in un'ipotesi in cui non occorreva effettuare la notificazione in base alla disciplina dettata dal codice di rito, potendo invece utilizzarsi la disciplina specifica e semplificata prevista in generale dalla legge. Il Giudice di legittimità ha statuito che in caso di notificazione a mezzo posta dell'atto impositivo, eseguita direttamente dall'Ufficio finanziario ai sensi dell'art. 14 della legge 20 novembre 1982, n. 890, si applicano le norme concernenti la consegna dei plichi raccomandati. Le disposizioni dello stesso testo normativo che operano riferimento a particolari modalità della notifica, infatti, concernono esclusivamente la notifica eseguita a mezzo ufficiale giudiziario ai sensi dell'art. 149 cod. proc. civ. Ne consegue che all'atto della notificazione dell'avviso di accertamento non va redatta alcuna relata di notifica, o annotazione specifica sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., superabile solo se il contribuente dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell'impossibilità di prenderne cognizione, Sez. 5, n. 15315, Rv. 631551, est. Crucitti.

La Corte ha quindi affermato con chiarezza che l'avviso di accertamento del reddito di società di persone, pur se divenuto irretrattabile per mancanza di impugnazione da parte di quest'ultima, non può considerarsi definitivo in pregiudizio dei soci ai quali l'atto non sia stato notificato, Sez. 6-5, n. 17360, Rv. 632352, est. Perrino.

Il Giudice di legittimità ha avuto occasione di pronunciarsi anche in materia di corrette modalità di notifica dell'accertamento tributario in ipotesi di decesso del contribuente. La Corte ha deciso che, non essendo configurabile la regolare notificazione di un atto tributario indirizzato a soggetto inesistente, l'avviso di accertamento intestato ad un contribuente deceduto, può essere validamente notificato nell'ultimo domicilio dello scomparso solamente indirizzando la notifica agli eredi collettivamente e impersonalmente e purché questi, almeno trenta giorni prima, non abbiano comunicato all'ufficio delle imposte del domicilio fiscale del de cuius le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale. L'avviso di accertamento indirizzato al defunto e che sia stato notificato nell'ultimo suo domicilio, nonché la stessa notificazione dell'avviso, pertanto, sono affetti da nullità assoluta e insanabile, Sez. 5, n. 18729, Rv. 631876, est. Greco.

11. Il sostituto d'imposta.

La Corte è intervenuta ripetutamente anche in materia di obblighi del sostituto d'imposta e conseguenze della sostituzione quando prevista dalla legge come necessaria. In tema di rimborso delle imposte sui redditi, in particolare, e nell'ipotesi in cui l'importo del quale si chiede la restituzione fosse da considerarsi dovuto al prestatore di lavoro, nel momento in cui è stato corrisposto, ancorché in base ad un titolo precario e provvisorio da verificare integralmente all'atto della concretizzazione nella sua effettiva misura, il termine di decadenza di diciotto mesi, previsto dall'art. 38 del d.P.R. 22 settembre 1973, n. 602, per la proposizione della relativa istanza di rimborso, decorre dalla data di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi, tanto più in caso di ritenute IRPEF operate dal datore di lavoro quale sostituto d'imposta, poiché solo a seguito dell'analisi del CUD il contribuente viene a conoscenza dell'importo delle ritenute effettuate, e solo con la dichiarazione, nella quale vengono trasfusi i dati del CUD, il prestatore di lavoro è posto in grado di verificare se vi sono somme per le quali ha diritto al rimborso, Sez. 5, n. 5653, Rv. 630328, est. Di Iasi.

Il Giudice di legittimità ha quindi ritenuto che il sistema della ritenuta d'acconto implica che il datore di lavoro, sostituto necessario del prestatore di lavoro nell'adempimento dell'obbligo tributario di versamento dell'imposta sui redditi, è tenuto ad accertare lui la sussistenza dei presupposti di tale obbligo. In conseguenza sull'Amministrazione finanziaria non grava alcun onere di controllare l'effettiva rispondenza di quanto versato alle previsioni normative delle ritenute alla fonte effettuate dal datore di lavoro ex art. 23 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, e senza che l'eventuale dissenso del lavoratore circa l'assoggettabilità di specifici emolumenti all'imposta influisca sull'obbligo del datore di lavoro. Ne consegue che, qualora il sostituto d'imposta ometta la relativa dichiarazione ed il corrispondente versamento, l'Amministrazione finanziaria deve comunicargli, agendo nei suoi confronti quale obbligato solidale, l'ammontare del reddito e dell'imposta, ma non è tenuta ad indicargli anche l'aliquota applicata, in quanto identica a quella che lo stesso già avrebbe dovuto applicare e, dunque, facilmente verificabile, Sez. 5, n. 9763, Rv. 630676, est. Cigna.

Ancora in tema di conseguenze dell'applicazione della disciplina della sostituzione d'imposta e conseguente solidarietà tributaria, la Corte ha affermato che la facoltà per il destinatario di un atto impositivo, coobbligato in quanto sostituito d'imposta, di avvalersi del giudicato favorevole formatosi in un giudizio promosso da altro coobbligato (nella specie sostituto d'imposta), secondo la regola generale stabilita dall'art. 1306 cod. civ., non è preclusa per il solo fatto di non essere rimasto inerte e di avere autonomamente impugnato l'avviso di accertamento, essendo di ostacolo al suo esercizio solo la definitiva conclusione del giudizio da lui instaurato con sentenza sfavorevole passata in giudicato, Sez. 5, n. 19580, Rv. 632444, est. Cigna.

Riprendendo un filone giurisprudenziale che aveva visto il Giudice di legittimità pronunciarsi più volte, in materia di rapporti tra la (illegittima) intermediazione di manodopera e gli obblighi che gravano sul sostituto d'imposta (cfr. ad es. Sez. 5, sent. 3795 del 2013, Rv. 625305), la Corte ha chiarito che ai sensi dell'art. 1, ultimo comma, della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, nel testo vigente ratione temporis, i lavoratori occupati in violazione del divieto di intermediazione di manodopera sono alle esclusive dipendenze dell'appaltante o interponente che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni. Soltanto su di lui ricadono, pertanto, gli obblighi retributivi, previdenziali, assicurativi e normativi del datore di lavoro, ivi compresi quelli del sostituto d'imposta per le ritenute d'acconto sulle retribuzioni. Ne consegue che la fatturazione di tali prestazioni da parte dell'intermediario non legittima l'appaltante o interponente a detrarre l'IVA relativa o a dedurre tali costi ai fini della determinazione del reddito imponibile, mancando alla base un valido rapporto contrattuale con l'intermediario, Sez. 5, n. 22020, Rv. 632765, est. Cirillo.

12. Le imposte sui redditi: le plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili.

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione a titolo oneroso di un'unità immobiliare, il Giudice di legittimità ha evidenziato che l'onere di fornire la prova che l'operazione è parzialmente (quanto al prezzo di vendita) simulata, spetta all'Amministrazione finanziaria, la quale adduca l'esistenza di maggiori ricavi, e può essere adempiuto, ai sensi dell'art. 39, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. Non è di ostacolo, in proposito, la operatività del divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con un'altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale, rimanendo a carico del contribuente l'onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato, Sez. 5, n. 245, Rv. 629081, est. Iofrida.

La Corte ha poi chiarito che, in tema di imposta comunale sull'incremento di valore degli immobili, attesa l'inderogabilità del presupposto soggettivo del tributo, rappresentato dal godimento della plusvalenza immobiliare, la nullità del patto di traslazione dell'imposta, che è comminata dall'art. 27 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643, non vale solo per il rapporto con l'Amministrazione finanziaria, ma anche per quello tra i contraenti, Sez. 2, n. 7501, Rv. 630232, est. Falaschi.

Il Giudice di legittimità ha pure chiarito, in materia di imposta sui redditi, che sono soggette a tassazione separata quali "redditi diversi", le "plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione" (cfr. artt. 81, comma 1, lett. b) (ora 67) e 16 (ora 17, comma 1, lett. g) bis), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), e non anche le cessioni di terreni sui quali insiste un fabbricato e quindi, già edificati. Questo perché la ragione ispiratrice dell'art. 81 del d.P.R. n. 917 del 1986, è nel senso di assoggettare ad imposizione la plusvalenza che tragga origine non da un'attività produttiva del proprietario, o possessore, ma dall'avvenuta destinazione edificatoria del terreno in sede di pianificazione urbanistica. In conseguenza il ricordato regime fiscale non troverà applicazione neppure qualora l'alienante abbia presentato domanda di concessione edilizia per la demolizione e ricostruzione dell'immobile e, successivamente alla compravendita, l'acquirente abbia richiesto la voltura nominativa dell'istanza, Sez. 5, n. 15629, Rv. 632045, est. Crucitti.

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi, in materia di modalità di calcolo della plusvalenza, anche in un caso di cessione di terreni edificabili nell'ambito di una articolata vicenda negoziale che traeva origine da una successione ereditaria. Il Giudice di legittimità ha statuito che in materia di imposte sui redditi, in caso di cessione di terreni edificabili originariamente pervenuti per successione ed inclusi in un progetto di lottizzazione, il calcolo della plusvalenza va ragguagliato, ai sensi dell'art. 68 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, al prezzo dell'acquisto (e, quindi, al valore assegnato alla particella in sede di riordino immobiliare) intervenuto tra il contribuente e gli altri proprietari consorziati nell'ambito della convenzione afferente alla lottizzazione, la cui finalità perequativa tra i consorziati - sì da ripartire le aree edificabili, mediante cessione gratuita di aree al Comune, secondo un rapporto di proporzionalità tra le superfici e la capacità edificatoria del lotto di spettanza - ne comporta il carattere oneroso, nonostante la normale assenza di un corrispettivo, sussistendo un rapporto almeno di compensazione tra l'assegnazione del lotto redistribuito ed il maggiore onere a cui il proprietario lottizzante è stato assoggettato in virtù delle cessioni gratuite al Comune. La S.C. ha pertanto cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ragguagliato al valore della particella così come indicato nella dichiarazione di successione, con deduzione dei relativi costi, il calcolo della plusvalenza derivante dalla cessione di terreno edificabile assegnato al contribuente a seguito di redistribuzione immobiliare, strumentale ad una lottizzazione, e trattavasi di superficie non coincidente con quella originariamente acquisita in virtù della successione ereditaria, Sez. 6-5, n. 21981, Rv. 632863, est. Perrino.

13. L'imposta di registro, la qualificazione dell'atto e le conseguenze.

La Corte ha sentenziato che, in materia di imposta di registro, l'art. 50 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, interpretato alla luce della disciplina comunitaria di cui costituisce attuazione (Direttiva CEE n. 335/69) impone, qualora siano conferiti in società immobili, diritti reali immobiliari o aziende, di ritenere deducibili, ai fini della determinazione della base imponibile, le sole passività ed oneri inerenti al bene o diritto trasferito, con esclusione di quelli che, anche se gravanti sul conferente e assunti dalla società cessionaria, non sono collegati all'oggetto del trasferimento. Nel caso di specie la Corte, nel cassare la decisione impugnata, ha ravvisato la necessità di verificare la sussistenza del "collegamento" tra la passività e l'acquisizione del bene da parte del cedente e del cessionario, al fine di evitare la riduzione dell'imposta attraverso la deduzione di mutui ipotecari costituiti in funzione di elusione del carico tributario, Sez. 6-5, n. 3444, Rv. 629968, est. Iacobellis.

Di grande rilievo risultano poi gli interventi della Corte in relazione al disposto di cui all'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, liddove prevede che, ai fini dell'imposta di registro, occorre attribuire la prevalenza alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente. Ne discende che, nella qualificazione degli atti da sottoporre a tassazione, occorre considerare preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni, non rivelandosi decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto. Pertanto, in caso di conferimento di azienda con contestuale cessione, in favore di un socio della conferitaria, delle quote ottenute in contropartita dal conferente, il fenomeno ha a tal fine carattere unitario (in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva ed all'evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell'imposta), è configurabile come una cessione di azienda e non costituisce operazione elusiva. In conseguenza non grava sull'Amministrazione l'onere di provare i presupposti dell'abuso di diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui al ricordato art. 20, Sez. 5, n. 3481, Rv. 630075, est. Terrusi.

La corretta applicazione del disposto di cui all'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, risulta notoriamente complessa nell'ipotesi in cui ci si trovi in presenza di una pluralità di operazioni negoziali ed occorra stimare se il fine perseguito sia unitario e l'operazione economica realizzata possa dirsi una sola. La Corte, ad esempio, ha affermato che in materia di imposta di registro l'Amministrazione finanziaria, nel procedere alla riqualificazione ai fini impositivi dell'atto negoziale, ai sensi dell'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n.131, deve apprezzare il collegamento tra i contratti, nonché tra le operazioni societarie, al fine di valutarne l'unico effetto giuridico finale e da valorizzare la causa reale e complessiva dell'operazione economica rispetto alle forme contrattuali utilizzate dalle parti. Merita di essere segnalato che in questo caso la Corte ha cassato la sentenza impugnata che, per la determinazione dell'imposta complementare di registro, non aveva considerato ai fini del conseguimento dell'unico loro effetto giuridico finale, da ricondursi a quello di una compravendita, il collegamento tra il conferimento ad una neocostituita società di un bene immobile e l'avvenuta successiva cessione, a breve distanza, delle quote societarie della stessa, da parte dei medesimi conferenti ad altra società, già facente capo agli altri soci della prima, così divenuta titolare della quota maggioritaria di quest'ultima, Sez. 5, n. 3932, Rv. 629963, est. Terrusi, in senso analogo cfr. Sez. 5, n. 6405, Rv. 630589, est. Napolitano. Tuttavia occorre particolare attenzione per discernere quando un'operazione economica possa dirsi unitaria sebbene realizzata attraverso una pluralità di negozi, come si evidenzia esaminando ulteriori decisioni della Suprema Corte. Ad esempio il Giudice di legittimità ha anche affermato che in tema di imposta di registro, nel caso di contestuali cessioni di quote di società di persone, ciascuna di esse è soggetta ad imposta ai sensi dell'art. 21, primo comma, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, poiché non viene in rilievo un negozio complesso, soggetto, ai sensi del secondo comma del citato art. 21, ad un'unica tassazione, ma dei "negozi collegati", ognuno dei quali adeguatamente giustificato sotto il profilo causale ed estraneo all'effetto modificativo del contratto sociale che, ai sensi dell'art. 2252 cod. civ., sorge in forza del successivo consenso di tutti i soci, Sez. 5, n. 22899, Rv. 632744, est. Perrino.

Ancor maggiore aderenza alla realtà dell'economia, piuttosto che alla natura formale dei contratti ma anche degli atti di normazione secondaria, ha poi mostrato il Giudice di legittimità nell'indicare i criteri di valutazione dell'edificabilità di un'area. La Corte ha premesso che in ordine all'imposta di registro, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 36, comma 2, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, di interpretazione autentica del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), l'edificabilità di un'area, ai fini dell'inapplicabilità del sistema di valutazione automatica previsto dall'art. 52, quarto comma, del d.P.R. n. 131 del 1986, è desumibile dalla qualificazione attribuita nel piano regolatore generale adottato dal Comune, anche se non ancora approvato dalla Regione ovvero in mancanza degli strumenti urbanistici attuativi. Ha quindi affermato doversi ritenere che l'avviso del procedimento di trasformazione urbanistica sia sufficiente a far lievitare il valore venale dell'immobile, senza che assumano alcun rilievo eventuali vicende successive incidenti sulla sua edificabilità, quali la mancata approvazione o la modificazione dello strumento urbanistico, in quanto la valutazione del bene deve essere compiuta in riferimento al momento del suo trasferimento, che costituisce il fatto imponibile, avente carattere istantaneo. L'impossibilità di distinguere, ai fini dell'inibizione del potere di accertamento, tra zone già urbanizzate e zone in cui l'edificabilità è condizionata all'adozione dei piani particolareggiati o dei piani di lottizzazione non impedisce, peraltro, secondo il Giudice di legittimità, di tener conto nella determinazione del valore venale dell'immobile, della maggiore o minore attualità delle sue potenzialità edificatorie, nonché della possibile incidenza degli ulteriori oneri di urbanizzazione, Sez. 5, n. 11182, Rv. 630853, est. Botta.

14. L'IVA.

14.1. Le fatture soggettivamente inesistenti.

I corrispettivi relativi alle prestazioni tipiche verso la clientela, oggetto dell'attività di impresa, misurano i ricavi e costituiscono la grandezza più significativa per esprimere le dimensioni del reddito di impresa ed assumono rilevanza a fini IVA in termini di "fatturato" o di "operazioni attive". Le fatture costituiscono i principali supporti documentali dell'esistenza delle operazioni commerciali di impresa ed esprimono, al contempo, il ricavo per il fornitore/cedente, oggetto di dichiarazione a fini IVA, ed il costo per il cliente, suscettibile di detrazione ai fini della medesima imposta.

La giurisprudenza della Corte si è occupata, in particolare, delle modalità di accertamento delle forme di evasione dell'imposta che si siano sostanziate nell'utilizzo di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti e dei criteri di imputazione dell'onere della prova.

Con la decisione Sez. 5, n. 13803, Rv. 631553, est. Olivieri, si è affermato che, nel caso in cui l'amministrazione contesti la soggettiva inesistenza dell'operazione oggetto di fatturazione passiva - emessa dal cedente e versata in rivalsa dal cessionario - l'esigenza della tutela della buona fede del contribuente comporta che spetta all'amministrazione finanziaria, la quale contesti il diritto del contribuente a portare in detrazione l'IVA pagata su fatture emesse da soggetto diverso dall'effettivo cedente del bene o servizio, l'onere di provare, anche in via presuntiva, ai sensi dell'art. 2727 cod. civ., la interposizione fittizia del cedente ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell'operazione, eventualmente da altri soggetti, nonchè la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa. Di contro, spetta al contribuente, che intende esercitare il relativo diritto alla detrazione o al rimborso, provare la corrispondenza anche soggettiva della operazione di cui alla fattura con quella in concreto realizzata ovvero l'incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale, ingenerato dalla condotta del cedente.

Quanto ai mezzi di prova della fittizia interposizione soggettiva nell'emissione delle fatture, la Sez. 5, n. 15044, Rv. 631542, est. Valitutti, ha ritenuto che la prova della conoscenza della frode commessa possa essere data dall'amministrazione finanziaria anche attraverso attendibili riscontri indiziari circa l'assenza di buona fede del cessionario, desumibile, nel caso concreto esaminato, dal disconoscimento, da parte dell'asserito vettore, della sottoscrizione dei documenti di trasporto, dal pagamento, tramite la consegna degli assegni, da parte del cessionario, al cedente effettivo, nonché dalla circostanza che i tabulati autostradali del giorno di ritiro della merce rivelassero l'assenza di pagamenti per passaggi di mezzi del cessionario, diretti verso la sede dell'asserito cedente, ma ve ne fossero al casello corrispondente alla sede della ditta di effettivo acquisto. In tal caso, grava sul soggetto cessionario l'onere di dimostrare di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra cedente e fatturante in ordine al bene ceduto oppure di non aver potuto abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni, anche se a tal fine non è da ritenersi sufficiente dedurre che la merce è stata effettivamente consegnata e che la fattura è stata pagata. In senso conforme al principio espresso, si segnala anche Sez. 5, n. 20059, Rv. 632476, est. Valitutti, secondo cui grava sull'Amministrazione accertante, che contesti che la fatturazione attenga ad operazioni (solo) soggettivamente inesistenti e neghi il diritto del contribuente a portare in detrazione la relativa imposta, l'onere di provare, anche in via indiziaria, che la prestazione non è stata resa dal fatturante, spettando, di contro, al contribuente l'onere di dimostrare, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all'attività professionale svolta, di non essere stato in grado di superare l'ignoranza del carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti coinvolti (a tal fine, non è sufficiente dedurre che la merce sia stata consegnata e rivenduta e la fattura, IVA compresa, effettivamente pagata, poiché trattasi di circostanze pienamente compatibili con la frode fiscale perpetrata).

Con la citata sentenza n. 13803, Rv. 631553, est. Olivieri si è anche espresso il principio secondo cui osta al riconoscimento del diritto alla detrazione in favore del cessionario non solo la prova del coinvolgimento dello stesso nella frode fiscale, ma anche quella della mera conoscibilità dell'inserimento dell'operazione in un fenomeno criminoso, volto all'evasione fiscale, che deve ritenersi sussistente ove il cessionario, pur essendo estraneo alle condotte evasive, ne avrebbe potuto acquisire consapevolezza mediante l'impiego della specifica diligenza professionale richiesta all'operatore economico, avuto riguardo alle concrete modalità e alle condizioni di tempo e di luogo in cui si sono svolti i rapporti commerciali, non occorrendo a tal fine anche il conseguimento di un effettivo vantaggio.

Quanto alla determinazione dell'imposta dovuta nel caso di accertata emissione di fatture per operazioni inesistenti, ai sensi dell'art. 21, settimo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 l'imposta stessa è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura (in senso conforme, Sez. 5, n. 23551, Rv. 633066, est. Valitutti).

Inoltre, anche in considerazione della rilevanza penale della condotta consistente nell'emissione di fatture per operazioni inesistenti, la decisione Sez. 5, n. 1565, Rv. 629515, est. Valitutti, ha interpretato il suddetto art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972 nel senso che il corrispondente tributo deve essere considerato "fuori conto" e la relativa obbligazione "isolata" da quella risultante dalla massa delle plurime operazioni effettuate, senza che possa operare, per tale fatto, il meccanismo di compensazione, tra I.V.A. "a valle" ed I.V.A. "a monte", che presiede alla detrazione d'imposta di cui all'art. 19 del citato d.P.R. n. 633 del 1972.

Infine, la Corte si è occupata ancora una volta di una particolare combinazione fraudolenta di interposizione soggettiva (nota come "frode carosello") posta in essere per far sì che una stessa operazione, mediante strumentali interposizioni anche di cosiddette società filtro, passi attraverso una catena di soggetti che si avvalgono in vario modo del mancato versamento dell'IVA da parte di un cedente, e caratterizzata, quindi, nei vari passaggi, sia da fatturazioni per operazioni oggettivamente inesistenti, sia da fatturazioni per operazioni solo soggettivamente inesistenti, nonché dal fatto che un singolo operatore, che abbia realmente acquistato la merce da un fornitore formalmente effettivo, sia inconsapevole di essere stato inserito in un circuito fraudolento ideato da altri. Con la richiamata sentenza Sez. 5, n. 13803, Rv. 631555, est. Olivieri, si è ritenuto che la partecipazione alla frode carosello o la mera consapevolezza della stessa, da parte del cessionario, non determina ex se il venire meno dell'"inerenza" all'attività d'impresa del bene di cui all'operazione soggettivamente inesistente. Non è esclusa, pertanto, la deducibilità dell'operazione, dovendosi tenere distinti gli effetti della condotta del contribuente in relazione alla disciplina dell'IVA e a quella delle imposte dirette. Nel primo caso, infatti, la condotta dolosa o consapevole del cessionario, a cui è parificata l'ignoranza colpevole, impedisce l'insorgenza del diritto alla detrazione per mancato perfezionamento dello scambio, non essendo l'apparente cedente l'effettivo fornitore; di contro, ai fini delle imposte dirette, l'illecito o la mera consapevolezza di esso non incide sulla realtà dell'operazione economica e sul pagamento del corrispettivo in cambio della consegna della merce, per cui il costo dell'operazione, ove imputato al conto economico, può concorrere nella determinazione della base imponibile ai fini delle imposte dirette nella misura in cui il bene o servizio acquistato venga reimpiegato nell'esercizio dell'attività d'impresa e sempre che non venga utilizzato per il compimento di un delitto non colposo.

14.2. L'IVA. Le violazioni degli obblighi di registrazione e di fatturazione.

Gli artt. 23 e 25 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 stabiliscono tempi e precise modalità della registrazione delle fatture e costituiscono espressione di un generalizzato obbligo di annotazione che grava sul soggetto passivo di imposta. Si tratta, per le operazioni attive, dei registri delle fatture emesse e/o dei corrispettivi e del registro degli acquisiti. Le modalità e i tempi registrazione delle fatture emesse e degli acquisiti sono funzionalmente collegati alle scansioni temporali prefissate per i versamenti dell'imposta (cd. "liquidazione periodica"), derivante dal confronto dell'IVA a debito sulle operazioni attive e l'IVA detraibile.

La documentazione utilizzata nella fiscalità delle imprese e la contabilità corrispondono ad un preciso modello di riferimento e, ai fini tributari, si presentano come un adempimento di diritto amministrativo. Con sentenza Sez. 5, n. 656, Rv. 629327, est. Conti, si è affermato che tanto l'omissione della suddetta annotazione entro il termine previsto dal citato art. 23 del d.P.R. n. 633 del 1972, quanto la mancata contabilizzazione delle fatture nella dichiarazione relativa all'esercizio di competenza, costituiscono "irregolarità sostanziali" ed assumono rilevanza ai fini della determinazione del "volume d'affari" previsto dall'art. 20 del medesimo d.P.R. e, conseguentemente, dell'imposta dovuta. Il riconoscimento di operazioni soggette a registrazione non contabilizzate giustifica, inoltre, la puntuale applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 42, 43 e 44 dell'indicato d.P.R.

Su tale ultimo tema, quanto ai profili di imputazione soggettiva delle sanzioni connesse alla violazione dell'obbligo di registrazione degli acquisti, con sentenza Sez. 5, n. 4621, Rv. 629988, est. Valitutti, si è ritenuto che, nell'ipotesi di operazione imponibile posta in essere dal cedente o dal prestatore d'opera senza emissione di fattura o con fattura irregolare, l'inosservanza dell'obbligo di regolarizzare l'operazione imponibile, posto a carico del cessionario o del committente, sanzionata dall'art. 41, quinto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (norma poi abrogata dall'art. 16 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e sostituita con le disposizioni di cui all'art. 6 di quest'ultimo), configura un autonomo illecito omissivo e non trasforma il cessionario o committente in soggetto passivo del tributo, che resta il solo cedente o prestatore. La norma sanzionatoria, infatti, persegue il duplice scopo di individuare l'autore della violazione dell'obbligo di fatturazione e di ottenere il pagamento dell'imposta dal soggetto, il cessionario o committente, tenuto comunque a corrisponderla in via di rivalsa.

Il contenuto dell'obbligo di regolarizzare l'operazione imponibile deve essere individuato in funzione della "esigibilità" della condotta del cessionario/committente, tenuto a verificare il dato formale della ricezione della fattura nei termini di legge e la sussistenza dei suoi requisiti essenziali, individuati dall'art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (tra cui, natura, qualità, quantità dei beni e servizi, l'ammontare del corrispettivo, l'aliquota, l'ammontare della imposta e dell'imponibile e l'eventuale annotazione di non imponibilità dell'operazione con indicazione della tipologia del servizio esente), ma non il profilo sostanziale della corretta qualificazione fiscale dell'operazione (Sez. 5, n. 26183, in corso di massimazione, est. Olivieri).

Il contenuto dell'obbligo di regolarizzare l'operazione imponibile deve essere individuato in funzione della "esigibilità" della condotta del cessionario/committente, tenuto a verificare il dato formale della ricezione della fattura nei termini di legge e la sussistenza dei suoi requisiti essenziali, individuati dall'art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (tra cui, natura, qualità, quantità dei beni e servizi), l'ammontare del corrispettivo, l'aliquota, l'ammontare della imposta e dell'imponibile e l'eventuale annotazione di non imponibilità dell'operazione con indicazione della tipologia del servizio esente), ma non il profilo sostanziale della corretta qualificazione fiscale dell'operazione (Sez. 5, n. 26183, in corso di massimazione, est. Olivieri).

In applicazione del principio espresso, l'omessa indicazione, nella dichiarazione annuale del cessionario o del committente, degli acquisti non regolarizzati non consente di ravvisare la condotta di infedele dichiarazione, sanzionata dall'art. 43, secondo comma, del citato d.P.R. n. 633 del 1972. Deve, di contro, ritenersi configurabile un autonomo illecito a carico del cessionario o committente, che rende insufficiente, al fine di escludere l'applicabilità delle relative sanzioni, l'indicazione di maggiori corrispettivi in dichiarazione ed il pagamento della maggiore imposta dovuta.

Nondimeno, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, è ammesso il ricorso all'accertamento con metodo induttivo, ai sensi dell'art. 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, anche in base ad "altri documenti" o ad "altre scritture contabili" o ad "altri dati e notizie" raccolti nei modi prescritti dal suddetto d.P.R. n. 633 del 1972, ove esprimano elementi di prova presuntiva (Sez. 5, n. 23551, Rv. 633065, est. Valitutti).

14.3. L'IVA. Detrazioni ed esenzioni.

La Corte si è occupata di definire, in ordine a specifiche materie, i presupposti per le detrazioni di imposta e per le esenzioni dal pagamento, individuando i casi in cui non deve essere applicata l'IVA sulle operazioni attive.

a) Con la sentenza Sez. 5, n. 7606, Rv. 630170, est. Tricomi, si è ritenuto che resta soggetta alla disciplina dell'IVA la cessione di quote di produzione di prodotti agricoli effettuata da una associazione di produttori per conto dei propri associati, in quanto ha ad oggetto il diritto di coltivazione di un determinato prodotto (nella specie, il tabacco) e, pertanto, si configura come una prestazione di servizi strumentali alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico della coltura. L'individuazione di attività di impresa costituisce presupposto per l'applicazione dell'imposta. Non assume, di contro, rilievo il regime speciale di imposizione per i produttori agricoli previsto dall'art. 34 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, che, in sé, concretizza un regime di detrazione senza tradursi in alcuna esenzione, e che, in ogni caso, è inapplicabile alle prestazioni di servizi afferenti beni immateriali, quali le quote, non comprese nelle operazioni da assoggettare ad aliquota ridotta ai sensi della tabella A, allegata al citato d.P.R. n. 633 del 1972;

b) con la sentenza Sez. 5, n. 7647, Rv. 630174, est. Valitutti, si è esclusa l'applicabilità del regime dell'esclusione dalla detrazione previsto dalle lettere e)-ter ed e)-quinquies dell'art. 19, secondo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (nel testo, applicabile ratione temporis, vigente prima della sua sostituzione da parte dell'art. 2 del d.lgs. 2 settembre 1997, n. 313), alle spese di acquisto e/o di ristrutturazione di immobili destinati ad uso promiscuo, in quanto adibiti in parte ad abitazione del custode, dovendo, in tale ipotesi, utilizzarsi il criterio della detraibilità nella misura del 50 per cento, dettato dal legislatore in tema di imposte dirette con riferimento alla deducibilità delle spese di impiego dell'immobile (art. 67, comma 10, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nella numerazione anteriore al d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344).

c) con la sentenza n. 18764, Rv. 631957, est. Cirillo, si è affermata la non assoggettabilità ad IVA di una transazione circoscritta alla rinuncia di contenziosi pendenti, in applicazione dei principi dettati dalla giurisprudenza comunitaria, secondo la quale l'obbligo di non fare assunto da un imprenditore non configura ipotesi di prestazione di servizi. In caso di imposizione alternativa, il contribuente ha l'obbligo di corrispondere il tributo previsto dalla legge e non quello da lui scelto in base a sue considerazioni soggettive. Di qui, l'assunto secondo cui, allorché l'amministrazione finanziaria, come nel caso descritto, abbia escluso la detraibilità dell'IVA erroneamente pagata, indicando l'imposta di registro quale unico tributo dovuto, non sono risultati violati i principi di alternatività dell'imposta e del divieto di doppia imposizione, ai sensi dell'art. 40 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 e dell'art. 67 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600;

d) con sentenza Sez. 5, n. 20713, Rv. 632621, est. Marulli, si è affermato che soggetto pas-sivo di imposta è chiunque eserciti un'attività economica che, ai sensi dell'art. 4 della Direttiva 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE (norma oggi sostituita senza apprezzabile variazioni dall'art. 9 della Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE), comprende ogni operazione di "sfruttamento" del bene, da intendersi come possibilità di trarre da esso in modo stabile un'utilità sotto forma di corrispettivo;

e) con sentenza Sez. 5, n. 26183, in corso di massimazione, est. Olivieri, è stato pre-cisato l'ambito di operatività del regime di esenzione, per difetto del requisito di territorialità, previsto dall'art. 7, sesto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per i servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali, di cui all'art. 9 del citato d.P.R. n. 633 del 1972, come integrato dall'art. 3, comma 13 del d.l. 27 aprile 1990 n. 90, che opera in ragione della prestazione di servizio, identificata secondo la natura dei lavori ("rifacimento, ampliamento, ammodernamento, ristrutturazione e riqualificazione"), dello scopo degli stessi (lavori "riflettenti direttamente il funzionamento e la manutenzione degli impianti") e del luogo di esecuzione ("porti, autoporti, aeroporti e scali ferroviari, di confine"), essendo irrilevante, ai fini della non imponibilità, la qualificazione soggettiva del prestatore e le eventuali modalità di esecuzione in subappalto, ove questo abbia ad oggetto i medesimi servizi dell'appalto principale.

La Corte ha anche esaminato il profilo della "inerenza" dei costi, quale limite per la deduzione a fini IVA.

Di rilievo, in argomento, è la sentenza Sez. 5, n. 16480, Rv. 631928, est. Cirillo, intervenuta con riferimento a servizi resi dalla società capofila di un gruppo di imprese alle società affiliate, al fine di coordinare le scelte operative delle aziende formalmente autonome e ridurre i costi di gestione attraverso economie di scala, aventi ad oggetto la cura diretta delle attività di interesse comune alle società del gruppo, così ripartendone i costi fra le affiliate. Affinché il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia detraibile, ai sensi dell'art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, occorre che la controllata tragga dal servizio remunerato un'effettiva utilità e che quest'ultima sia obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata. Sulla medesima società affiliata che affermi aver ricevuto il servizio incomberà l'onere della prova in ordine all'esistenza ed all'inerenza dei costi sopportati.

Nel medesimo solco si pone la sentenza Sez. 5 n. 1859, Rv. 629498, est. Valitutti. Il caso posto all'attenzione della Corte riguarda la possibilità di riconoscimento ad una società immobiliare del diritto al rimborso di un credito d'imposta per le spese di ristrutturazione di un immobile concessole in comodato dal suo amministratore, ove questa abbia dimostrato di aver effettivamente intrapreso, al termine dei relativi lavori, l'attività di locazione immobiliare rientrante nel proprio oggetto sociale. Si è osservato, in proposito, che un'operazione economica isolata non diretta al mercato, pur compiuta da una società commerciale, quand'anche l'atto costitutivo o lo statuto sociale prevedano che il sodalizio possa compiere operazioni di acquisto, ristrutturazione, vendita e locazione d'immobili, non può valere, di per sé sola, a dare consistenza ad un'attività imprenditoriale capace di giustificare l'inerenza dell'operazione passiva all'attività svolta, salvo che il contribuente dimostri che la suddetta operazione, apparentemente singola, rientri in una specifica attività imprenditoriale, oppure che essa si inserisca in un'attività immobiliare vera e propria, così che, in entrambi i casi, sia destinata, almeno in prospettiva a procurargli un lucro.

Il profilo della "inerenza" all'attività di impresa è stato analizzato anche con la sentenza Sez. 5, n. 5970, Rv. 630739, Valitutti, che, con riferimento alle operazioni soggette ad imposta, ha identificato il citato requisito in base a criteri di regolarità causale e non di mera occasionalità nell'attività propria dell'impresa. Ove tali operazioni, poste in essere promiscuamente dal contribuente, non abbiano contribuito a definire l'entità delle cessioni dei beni o delle prestazioni dei servizi che costituiscono l'oggetto dell'attività imprenditoriale non rientrano nel calcolo del pro-rata di riduzione delle detrazioni - analogamente, sia pure con meccanismo inverso, a quanto succede per le operazioni passive per l'insorgenza del diritto a detrazione.

Tali arresti si collocano nell'alveo del consolidato orientamento della Corte (da ultimo ribadito con sentenza Sez. 5, n. 25777, in corso di massimazione, est. Vella), secondo cui non è sufficiente il rivestimento formale della qualifica di imprenditore societario per giustificare la detraibilità o il rimborso dell'IVA assolta sulle operazioni passive, dovendosi verificare in concreto l'inerenza e la strumentalità del bene acquistato rispetto alla specifica attività di impresa, la cui definizione a fini tributari, alla luce della normativa comunitaria, non coincide necessariamente con quella civilistica di cui agli artt. 2082 e 2195 cod. civ. (fattispecie relativa all'acquisto di un immobile destinato a sede della società e, quindi al suo sfruttamento a fini locatizi; con riferimento alla medesima tematica si segnala la coeva Sez. 5, n. 25986, in corso di massimazione, est. Olivieri).

Al riconoscimento della esenzione a fini IVA delle operazioni attive deve corrispondere, simmetricamente, l'indetraibilità dell'imposta sugli acquisiti. Per usufruire della detrazione a fini IVA non è sufficiente che le operazioni attive attengano all'oggetto dell'impresa, ma è necessario che esse siano a loro volta assoggettabili all'imposta. In applicazione del suddetto principio, la Corte, con sentenza Sez. 5, n. 17299, Rv. 632361, est. Valitutti, ha esaminato il caso dell'acquisto di un immobile assoggettabile ad IVA, per il quale era stata riconosciuta la detraibilità solo parziale dell'imposta, poiché il fabbricato, prima della cessione, era stato destinato in parte ad uso abitativo - con conseguente esenzione dall'IVA - e in parte ad uso strumentale. Si è ritenuto, nel caso di specie, non ammissibile la detrazione dell'imposta pagata a monte per l'acquisto o l'importazione di beni o servizi utilizzati ai fini di attività esenti o, comunque, non soggette ad imposta, ai fini dell'esenzione prevista dall'art. 19, secondo comma, del d.P.R. 23 ottobre 1972, n. 633, ed in conformità con l'art. 17 della direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE.

Per usufruire della detrazione dal versamento dell'imposta, i costi deducibili seguono il principio generale "di cassa" per l'imputazione all'anno di competenza. La Corte ha fornito una interpretazione costituzionalmente orientata di tale criterio, individuando correttivi per casi particolari. Con la sentenza Sez. 5, n. 3108, Rv. 629292, est. Conti, si è ritenuto che, qualora l'imprenditore richieda il riconoscimento dell'agevolazione della maggiorazione della detrazione ex art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sancito, per i territori del Mezzogiorno, dall'art. 14, terzo comma, della legge 1° marzo 1986, n. 64, nell'esercizio in cui gli sono stati consegnati i beni acquistati, invece che in quello precedente in cui sono state emesse e registraste le relative fatture, onde evitare un'irragionevole disparità di trattamento, occorre anche la prova della consegna dei beni ai fini del riconoscimento dell'agevolazione, come espressamente stabilito, per gli anni 1982 e 1983, dagli artt. 55 della legge 7 agosto 1982, n. 526 e 15 della legge 26 aprile 1983, n. 130.

Le operazioni da portare in detrazione a fini IVA devono essere oggetto di dichiarazione d'imposta.

Ai sensi dell'art. 201, comma 3, del Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992 (Codice doganale comunitario), che disciplina la nascita dell'obbligazione doganale, il soggetto obbligato, ai fini IVA, ad adempiere gli obblighi relativi all'importazione - nel caso di specie, di energia - è il dichiarante in dogana e non il "cliente idoneo", individuato secondo la definizione normativa contenuta nell'art. 2, comma 6, del d.lgs. 16 marzo 1999 n. 79 (Sez. 5, n. 19749, Rv. 632462, est. Pivetti).

La tardiva presentazione della dichiarazione da parte del contribuente equivale, "a tutti gli effetti", all'omessa presentazione ai sensi art. 37, ultimo comma, del d.P.R. n. 633 cit. nel testo modificato dall'art. 1 del d.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24). Sulla base di tale assunto, con la sentenza Sez. 5, n. 1845, Rv. 629500, est. Olivieri, è stato escluso che il credito di imposta eventualmente esposto nella dichiarazione tardivamente presentata, anche se formatosi anteriormente e derivante da precedenti dichiarazioni ritualmente presentate, possa essere riportato nella dichiarazione annuale IVA relativa all'anno successivo, ostando all'utilizzo di detto credito in detrazione, prevista dall'art. 30, secondo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, il principio di contiguità temporale dei periodi di imposta cui è subordinata la operatività della compensazione tra il credito ed il debito tributario.

Il regime della non imponibilità ai fini IVA delle operazioni per esportazione, senza limiti alla detrazione dell'imposta sui correlativi acquisti, con eventuale rimborso, discende dal principio generale secondo cui nelle imposte sui consumi la tassazione deve collocarsi nel paese del compratore- consumatore finale. In tema di cessioni intracomunitarie e prestazioni di servizi nei confronti di soggetti passivi di altro Stato membro, non soggette ad imposta, la sentenza Sez. 5, n. 15059, Rv. 631546, est. Scoditti, ha ritenuto che, ai fini dell'esenzione di cui all'art. 2, comma 2, della legge 18 febbraio 1997 n. 28, che prevede la possibilità di effettuare acquisti ed importazioni con esonero dell'imposta, in ciascun anno, nel limite dell'ammontare complessivo delle cessioni e prestazioni di cui agli artt. 8, comma 1, lett. a) e b, 8 bis e 9 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e succ. mod., tali cessioni e prestazioni di servizi, ove siano registrate a norma dell'art. 23 del d.P.R. n. 633 cit. per l'anno solare precedente, non comportino il superamento del principio di effettività della cessione e prestazione di servizi. In tal senso, l'onere di annotazione delle fatture in apposito registro integra, al fine di fruire dell'esenzione, solo un requisito necessario ma non sufficiente a fronte della mancanza di effettività dell'operazione.

Ai fini della non imponibilità in Italia delle merci soggette ad accisa oggetto di cessione intracomunitaria, il documento di trasporto - e, in particolare, la lettera di vettura internazionale - recante la firma del trasportatore che l'ha presa in carico e del destinatario per ricevuta costituisce idonea prova dell'operazione. Devono, sul punto, ritenersi irrilevanti sul piano dell'eventuale illecito, trattandosi di mere irregolarità formali, la mancata esibizione della terza copia di ritorno del documento rilasciato dallo speditore per la circolazione delle merci e l'indicazione di un codice identificativo cessato, in quanto la non imponibilità dell'operazione è legata al requisito sostanziale della soggettività passiva del cessionario comunitario (Sez. 5, n. 26466, in corso di massimazione, est. Cirillo).

Con riferimento a tale tipologia di operazioni, il pagamento mediante il meccanismo del reverse charge previsto per l'IVA intracomunitaria dall'art. 17 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, costituisce violazione delle disposizioni tributarie e legittima, quindi, l'applicazione delle sanzioni al riguardo previste, anche se, trattandosi della medesima imposta, sia pure assoggettata a termini, modalità e sanzioni diverse, non consente la richiesta di un nuovo pagamento, eccettuati i casi di evasione o di tentata elusione, in ragione del divieto generale di duplicazione (Sez. 5, n. 19749, Rv. 632463, est. Pivetti).

Con la sentenza Sez. 5, n. 21183, Rv. 632439, est. Marulli, si è posto l'accento sulla territorialità dell'imposta, quale criterio cui ancorare il divieto di doppia imposizione (nel paese di origine dei beni ed in quello di destinazione degli stessi). In particolare, il regime di non imponibilità per le cessioni intracomunitarie, ex art. 50, commi 1 e 2, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, per le quali è consentito il pagamento dell'imposta nel solo Stato dell'Unione Europea nell'ambito del quale il bene è destinato al consumo, opera anche nel caso in cui negli elenchi riepilogativi che gli operatori intracomunitari sono tenuti a compilare ai sensi dell'art. 50, comma 6, del citato d.l. venga riportata una partita IVA del corrispondente comunitario cessata, atteso che una siffatta indicazione, così come l'ipotesi della sua omissione, non è sanzionata dalla legge.

14.4. L'IVA. Il credito al rimborso: diniego e sospensione.

L'art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede il diritto del contribuente al rimborso dell'eccedenza detraibile. In merito, con sentenza Sez. 5, n. 8998, Rv. 630299, est. Valitutti, si è affermato che l'eventuale provvedimento con cui l'amministrazione finanziaria neghi il diritto del contribuente al rimborso non deve avere una motivazione simile a quella prevista da specifiche disposizioni di legge per gli atti costituenti esercizio della potestà impositiva, per l'insussistenza dei relativi fatti costitutivi indicati nella norma citata. L'atto di contestazione di un'eccedenza d'imposta dovuta non ha, neppure sostanzialmente, natura di avviso di accertamento (che presuppone, come tale, necessariamente una pretesa tributaria nuova). Ne deriva che è legittimo il diniego di rimborso opposto al contribuente ed il successivo ed accessorio atto di contestazione delle sanzioni poiché la motivazione del primo si fondava sull'omessa indicazione, nella istanza di rimborso, della sussistenza del presupposto indicato dall'art. 30, secondo e terzo comma. del d.P.R. 633 del 1972 per l'esercizio del diritto.

Il rimborso dell'IVA, inoltre, può essere oggetto di sospensione in presenza di contestazioni penali, come nel caso delle fattispecie di reato previste dall'art. 4, primo comma, n. 5, del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516. Con riferimento a tali ipotesi la Corte, con sentenza Sez. 5, n. 8295, Rv. 630144, est. Tricomi, ha tracciato le differenze applicative tra la disciplina dell'art. 38 bis, terzo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, che prevede la sospensione in argomento anche quando l'attività investigativa sia ancora in corso e fino alla definizione del procedimento penale, e quella dettata dall'art. 23 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in tema di violazioni amministrative, che richiede, invece, quale presupposto della sospensione l'intervenuta notifica di atti di contestazione o di irrogazione di sanzioni, ancorché non definitivi. In particolare, l'ambito applicativo penalistico del menzionato art. 38 bis non è venuto meno a seguito della abrogazione del titolo primo della citata legge n. 516 del 1982 ad opera dell'art. 25 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, avendo l'art. 2 di quest'ultimo previsto, in sostituzione di quello abrogato, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (il caso esaminato dalla Corte ha riguardato la sospensione del rimborso disposta ex art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972, a fronte di una segnalazione di indagini per il reato di cui all'art. 2 del d.lgs. 74 del 2000, ma concretamente motivata facendo applicazione dei requisiti di cui all'art. 23 del d.lgs. 472 del 1997).

15. Il classamento catastale.

Gli aspetti più controversi in tema di classamento catastale riguardano i limiti intrinseci ed estrinseci del potere di determinazione del valore dell'immobile, con relativa attribuzione della rendita catastale, alla cui stima l'Amministrazione finanziaria procede direttamente, a seguito della procedura disciplinata dall'art. 2 del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 1993, n. 75, e del d.m. 19 aprile 1994, n. 701 (cosiddetta procedura DOCFA).

Quale atto endoprocedimentale richiesta del Comune agli uffici provinciali dell'Agenzia del territorio per la revisione del classamento catastale ai sensi dell'art. 1, comma 335, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, assume natura di atto interno, non costituendo il fondamento dell'azione amministrativa, in quanto previsto al solo fine di facilitarla. Di qui l'impossibilità per il contribuente di far valere eventuali vizi attinenti la sua legittima provenienza, profilo disponibile esclusivamente per l'ente, la cui volontà si assume non validamente espressa e soggetta ad eventuale ratifica.

La Corte, con sentenza Sez. 5, n. 2268, Rv. 629511, est. Bruschetta, ha ritenuto che l'obbligo della motivazione dell'avviso di classamento dell'immobile deve ritenersi osservato anche mediante la semplice indicazione dei dati oggettivi acclarati dall'ufficio e della classe conseguentemente attribuita all'immobile. Si tratta di elementi che, in ragione della struttura fortemente partecipativa dell'avviso stesso, sono conosciuti o comunque facilmente conoscibili per il contribuente, il quale, quindi, mediante il raffronto con quelli indicati nella propria dichiarazione, può comprendere le ragioni della classificazione e tutelarsi mediante ricorso alle commissioni tributarie (sul punto, in senso conforme, Sez. 5, n. 23237, Rv. 633140, est. Sambito, che impone un obbligo di motivazione "più approfondita" in caso di discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita).

In particolare, con sentenza Sez. 5, n. 17322, Rv. 632285, est. Terrusi, si è ribadito che la motivazione dell'avviso di classamento deve contenere l'indicazione del presupposto cui la modifica è associata, se cioè al non aggiornamento del catasto o alla palese incongruità rispetto a fabbricati similari, non essendo sufficiente la mera indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall'Agenzia del territorio, in conformità con l'art. 3, comma 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662. La necessità dell'indicazione del presupposto per la modifica rileva a pena di nullità dell'atto, ai sensi dell'art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212. In caso di ritenuta palese incongruità della stima posta a base del classamento, il provvedimento di modifica deve indicare quali siano i fabbricati presi a parametro, quale sia il loro classamento e quali le caratteristiche analoghe da considerare ai fini del giudizio di similarità rispetto all'unità immobiliare oggetto di classamento, così rispondendo alla funzione di delimitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio nella successiva fase contenziosa, nella quale il contribuente, nell'esercizio del proprio diritto di difesa, può chiedere la verifica dell'effettiva correttezza della riclassificazione. La specifica indicazione dei singoli elementi presi in considerazione può essere soddisfatta anche mediante l'allegazione di altro atto che tali specificazioni contenga, quale ad esempio la nota del Comune con la quale sono stati segnalati gli immobili suscettibili dell'operazione di verifica, purché questa abbia un contenuto completo ed esaustivo.

Sul medesimo tema dell'obbligo di motivazione dell'avviso di liquidazione e dell'atto determinativo di nuovo classamento, si richiama la sentenza Sez. 5, n. 9008, Rv. 630302, est. Terrusi, che ha affermato il principio secondo cui, qualora il contribuente abbia dichiarato di volersi avvalere della determinazione automatica del valore di un immobile sulla base della rendita catastale, ai sensi dell'art. 34, comma 6, del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, in relazione ad immobile, oggetto di successione, non ancora iscritto in catasto con attribuzione di rendita ed il successivo atto di classamento non sia stato notificato all'interessato, ai sensi dell'art. 12 del d.l. 14 marzo 1988, n. 70 (conv., con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154), l'avviso di liquidazione emesso dall'ufficio finanziario deve avere un contenuto tale da consentire al contribuente di controllare eventuali errori di calcolo nell'applicazione dei coefficienti e delle aliquote. A tal fine, l'atto deve includere, oltre all'importo del tributo, anche gli ulteriori elementi posti a base dell'imposizione ed in particolare i dati di classamento, consistenti nell'indicazione della zona censuaria, della categoria, della classe, della consistenza e della rendita (in senso conforme, Sez. 5, n. 21765, Rv. 632861, est. Chindemi).

16. L'imposta di successione.

La Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 1554, Rv. 629445, est. Terrusi, ha definito gli elementi differenziali tra l'imposta di successione e l'imposta di registro su atti giudiziari, che hanno presupposti diversi, rispondendo a diverse finalità di politica tributaria. Nella specie, è stato ritenuto che le due imposte concorrono anche quando l'imposta di successione consegua a sentenza di usucapione emessa a conclusione di un processo proseguito dagli eredi della parte originaria, ai sensi degli artt. 110 e 300 cod. proc. civ., non sussistendo contrasto con il divieto della doppia imposizione. Invero, l'imposta conseguente alla sentenza ha come presupposto l'atto giudiziale accertativo della proprietà, a titolo originario, in capo al defunto, mentre l'imposta di successione ha la funzione di colpire il trasferimento di ricchezza a titolo derivativo, mortis causa, in capo all'erede, sicchè, ove vi sia stata la prosecuzione del processo di usucapione a opera degli eredi della parte defunta la concorrenza delle due imposte è da ritenersi legittima.

Con la richiamata decisione Sez. 5, n. 9008, Rv. 630303 (cfr. sub par. 15), si è affermato il principio secondo cui, nel vigore del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, qualora il contribuente, all'atto della denuncia di successione, per la determinazione del valore di un immobile, compreso nell'asse, non ancora iscritto in catasto, abbia chiesto, ai sensi dell'art. 12 del d.l. 14 marzo 1988, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154, di volersi avvalere del criterio di valutazione automatica sulla base della rendita catastale, la maggiore imposta successivamente liquidata dall'ufficio, a seguito dell'attribuzione della rendita, ha natura principale (e non complementare). Ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 si deve, infatti, intendere come imposta "applicata al momento della registrazione" - id est, per l'imposta di successione, quella liquidata dall'ufficio in base alla dichiarazione di successione - anche quella per la quale in tale momento sussista la mera individuazione concreta dei presupposti per la successiva quantificazione del tributo. Sulla base di tale assunto, la Corte ha affermato che il contribuente è tenuto a corrispondere gli interessi sulla differenza di imposta determinata dall'Amministrazione a seguito dell'attribuzione della nuova rendita catastale all'immobile, in quanto si è in presenza pur sempre del tardivo pagamento di un'imposta che, per la sua natura di imposta principale, andava corrisposta al momento stesso della dichiarazione di successione.

Con riferimento al presupposto dell'imposta di successione, si è ribadito (Sez. 6-5, n. 21394, Rv. 632358, est. Conti) il principio secondo cui esso è costituito dalla chiamata all'eredità e non già l'accettazione. Ne consegue che, allorché la successione riguardi anche l'eredità devoluta al dante causa e da costui non ancora accettata, l'erede è tenuto al pagamento dell'imposta anche relativamente alla successione apertasi in precedenza a favore del suo autore, la cui delazione sia stata a lui trasmessa ai sensi dell'art. 479 cod. civ.

17. L'imposta di registro.

Nell'imposta di registro la capacità economica del contribuente non emerge da una struttura aziendale, né dalla visibilità materiale del bene, bensì dalla visibilità giuridica di un atto "solenne". L'imposta colpisce il segmento della capacità economica immobiliare o di quella che - per motivi di certezza giuridica - si esprime in atti solenni (atti notarili e sentenze).

Sul tema, appare degna di segnalazione la sentenza Sez. 5, n. 16818, Rv. 632233, est. Meloni, secondo cui la sentenza ex art. 2932 cod. civ., che abbia disposto il trasferimento di un immobile in favore del promissario acquirente, subordinatamente al pagamento del corrispettivo pattuito, è soggetta ad imposta in misura proporzionale e non fissa, trovando applicazione l'art. 27 del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 13, alla stregua del quale non sono considerati sottoposti a condizione sospensiva gli atti i cui effetti dipendano, in virtù di condizione meramente potestativa, dalla mera volontà dell'acquirente, poiché la controprestazione, ossia il pagamento del prezzo, è già stata seriamente offerta dall'acquirente all'atto dell'introduzione del giudizio. La Corte ha ritenuto dirimente la considerazione che la controprestazione, costituita dal pagamento del prezzo da parte dell'acquirente che ha agito ex art. 2932 cod. civ., è già stata seriamente offerta, nell'ambito di valutazioni di convenienza da questo operate all'atto dell'introduzione del giudizio, e, pertanto, il pagamento del prezzo è circostanza che dipende in senso giuridico esclusivamente dalla volontà dell'acquirente, che si è già manifestata in tal senso.

Dall'assunto deriva che la sentenza che, ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., abbia disposto il trasferimento di un immobile in favore del promissario acquirente, subordinatamente al pagamento da parte sua del corrispettivo pattuito, ai fini dell'imposta di registro è di per sé soggetta ad imposta proporzionale, in quanto applicabile l'art. 27, comma 3, del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131.

Con la richiamata sentenza n. 16818 la Corte ha inteso riproporre ed aderire al principio - definito "tradizionale" - espresso dalla sentenza Sez. 5, n. 6116 del 2011, Rv. 617170) e, ancor prima, da Sez. 5, Sentenza n. 4627 del 2003, Rv. 561527).

La decisione appare interessante in quanto l'orientamento affermato è in netto contrasto con quello espresso con sentenza 6 giugno 2012, n. 9097, Rv. 622940, che aveva riconosciuto la natura potestativa della condizione costituita da un atto di esercizio della volontà dipendente da un complesso di motivi connessi ad apprezzabili interessi, che, pur essendo rimessi all'esclusiva valutazione di una parte, incidano sulle sue scelte, come quando la decisione attenga al pagamento di un prezzo di notevole importo, principio peraltro ribadito con successiva Sez. 6-5, n. 18180 del 2013, Rv. 628291.

Quanto al profilo della solidarietà dell'obbligazione prevista dall'art. 57 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 per il pagamento dell'imposta dovuta in relazione ad una sentenza emessa in un giudizio con pluralità di parti, si è ribadito il principio secondo cui oggetto dell'imposta, quale indice di capacità contributiva, non la sentenza in quanto tale, ma il rapporto sostanziale in essa racchiuso, con conseguente esclusione del vincolo di solidarietà nei confronti dei soggetti ad esso estranei (Sez. 5, n. 25790, in corso di massimazione, est. Chindemi, che, nella specie, ha ritenuto non estraneo al rapporto processuale ed obbligato al pagamento dell'imposta, il soggetto, chiamato in giudizio da una delle parti, che abbia formulato domande aventi rilievo nella causa).

18. Le sanzioni amministrative in materia tributaria.

In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, la Corte, come detto (sub par. 14.4), ha evidenziato, con la richiamata sentenza Sez. 5, n. 8295, Rv. 630144, est. Tricomi, le differenze tra il provvedimento di sospensione in tema di violazioni amministrative, che presuppone la necessaria notifica degli atti di contestazione o di irrogazione di sanzioni, ancorché non definitivi, e la quello di sospensione del rimborso dell'IVA, previsto dall'art. 38 bis, terzo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in presenza di contestazioni penali, anche quando l'attività investigativa sia ancora in corso e fino alla definizione del procedimento penale.

In sostanza, le sanzioni esprimono la potestà punitiva connessa all'inadempimento o non corretto e tempestivo adempimento alle obbligazioni tributarie (gli uffici finanziari possono infliggere sanzioni secondo il modello tipico delle autorità amministrative) e realizzano una piena "coercitività" del diritto, che non può essere assicurata in pieno solo dalla esecuzione coattiva e dal pagamento degli interessi per ritardato pagamento del tributo.

Le sanzioni tributarie amministrative sono regolate da un sistema organico di principi generali - paralleli a quelli del sistema penale - sull'elemento soggettivo, l'errore, il concorso di persone e violazioni, il principio di specialità e di irretroattività della norma meno favorevole ecc.

Con riferimento all'elemento soggettivo ed alla rilevanza dell'error iuris occorre segnalare l'arresto giurisprudenziale (Sez. 5, n. 4394, Rv. 629969, est. Di Blasi) che ha riconosciuto l'esenzione del contribuente da responsabilità per causa di incertezza normativa obiettiva, quando la disciplina normativa da applicare si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso, per l'equivocità del loro contenuto, con conseguente insicurezza del risultato interpretativo ottenuto. L'oscurità o incertezza del dato normativo applicabile appare rilevante se riferito non già ad un contribuente generico o professionalmente qualificato o all'Ufficio finanziario, bensì al giudice, unico soggetto dell'ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione. Il caso esaminato ha riguardato l'obiettiva incertezza, in materia di rilevanza impositiva IRAP del reddito professionale, dei presupposti per riconoscere una attività autonomamente organizzata, materia oggetto di contrasto giurisprudenziale e dottrinale, sino all'affermarsi sul punto, solo a decorrere dal 2007, di un orientamento univoco.

Con riferimento alla non retroattività delle norme introduttive di nuove sanzioni, occorre segnalare la sentenza Sez. 5, n. 8848, Rv. 630297, est. Valitutti, che ha escluso l'efficacia retroattiva dell'art. 7, comma 1, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, norma che pone a carico, in via esclusiva, di società o enti con personalità giuridica le sanzioni relative al rapporto fiscale delle stesse, stante l'espressa previsione contenuta nel secondo comma della medesima norma. Ne consegue che, in ipotesi di inapplicabilità ratione temporis del citato art. 7, trova spazio l'art. 11 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in forza del quale, nel caso di violazione incidente sulla determinazione o sul pagamento del tributo, l'ente collettivo è responsabile di tale violazione in solido con l'autore materiale di essa. Tale solidarietà è configurabile anche per le eventuali violazioni contestate alla sola persona giuridica prima dell'entrata in vigore del d. l. n. 269 del 2003, essendo opponibile, ai sensi dell'art. 1310 cod. civ., l'atto di esercizio della pretesa al rappresentante legale o all'amministratore (Sez. 5, n. 25993, in corso di massimazione, est. Cirillo).

Il citato orientamento giurisprudenziale è ribadito con la sentenza Sez. 5, n. 9122, Rv. 630689, est. Perrino, che, con riferimento alle violazioni tributarie contestate o le sanzioni irrogate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, ha affermato la responsabilità diretta dell'amministratore di fatto di una società, alla quale sia riferibile il rapporto fiscale, stante l'indicata disposizione di diritto transitorio di cui all'art. 7, comma 2, del menzionato decreto e la disciplina precedentemente vigente dettata dagli articoli 3, comma 2, e 11 del d.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472.

Infine, con riferimento all'istituto del ravvedimento operoso di cui all'art. 13, comma 1, lett. a, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, la Corte ha chiarito che l'istituto trova applicazione esclusivamente in caso di omesso pagamento del tributo, purché il contribuente effettui l'integrale versamento dell'imposta e della sanzione entro il termine ivi sancito. Resta escluso dalla sfera applicativa della disposizione di favore di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 472 del 1997, di contro, il mero tardivo pagamento del tributo stesso, che, ove effettuato nel rispetto dei termini di legge, costituisce di per sé una modalità del ravvedimento operoso. In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto applicabile al tardivo versamento di IVA la sanzione di cui all'art. 17, comma 3, del medesimo d.P.R. n. 472, mediante sua iscrizione al ruolo senza previa contestazione, in luogo della disciplina del ravvedimento operoso (Sez. 5, n. 8296, Rv. 630145, est. Tricomi).

19. Le imposte doganali.

Sul piano generale, va segnalata la sentenza Sez. 5, n. 15032, Rv. 631845, est. Olivieri, che ha ribadito la "specialità" della disciplina normativa dell'accertamento doganale. In particolare, è stato ritenuto inapplicabile l'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 in tema di avvisi di rettifica in materia doganale, operando in tale ambito lo jus speciale di cui all'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, nel testo utilizzabile ratione temporis, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno, in un momento comunque anticipato rispetto all'impugnazione in giudizio del suddetto avviso. L'assunto trova, del resto, conferma nella normativa sopravvenuta (art. 1, comma 2 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27) che, nel disporre che gli accertamenti in materia doganale sono disciplinati in via esclusiva dall'art. 11 del d.lgs. n. 374 cit., ha introdotto un meccanismo di contraddittorio assimilabile a quello previsto dallo Statuto del contribuente.

Il sistema dell'accertamento dell'imposta doganale si fonda sulle dichiarazioni sulle merci provenienti dai soggetti interessati dall'operazione di importazione. La violazione degli obblighi di dichiarazione è sanzionata dall'art. 303 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, applicabile ratione temporis (prima della modifica del d. l. 2 marzo 2012 n. 16, convertito con legge 26 aprile 2012 n. 44), che contempla un'unica fattispecie sanzionatoria, per la quale sono determinate le sanzioni per le relative violazioni. Ove le dichiarazioni doganali si presentino difformi per qualità, quantità e valore delle merci importate non è prevista (art. 303, comma 3 del d.P.R. n. 43 del 1973) una fattispecie legale diversa, ma configurata una mera circostanza aggravante, che comporta una maggiorazione dell'entità della stessa sanzione (comminata per "le dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci" non corrispondenti all'accertamento degli Uffici finanziari). In tale fattispecie aggravata ricadono anche le dichiarazioni sull'origine (o la provenienza) della merce stessa, in quanto sintomatiche della specificità del prodotto, poiché nel concetto di "qualità" di una merce rientra qualsiasi caratteristica, proprietà o condizione che serva a determinarne la natura ed a distinguerla da altre simili (Sez. 5, n. 3467, Rv. 630066, est. Conti).

Soggetti passivi dell'imposta doganale e delle relative sanzioni per irregolare introduzioni di merci in ambito comunitario, sono tutti i soggetti che, a qualsiasi titolo, abbiano preso parte o contribuito a realizzare le operazioni di importazione. In particolare, la Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 15034, Rv. 631569, est. Olivieri, ha delineato la soggettività passiva dei tributi doganali con riferimento alla disciplina comunitaria di cui all'art. 202, comma 3, del codice doganale comunitario di cui al Reg. CEE del 12 ottobre 1992, n. 2913/92. Dell'obbligazione doganale relativa ai dazi all'importazione, sorta in seguito all'irregolare introduzione di merce in ambito comunitario, è chiamato a rispondere, oltre all'importatore, chiunque abbia, comunque e a qualsiasi titolo, partecipato o contribuito a realizzare tale introduzione irregolare, così ritenendo la responsabilità solidale della società capogruppo della affiliata che ha effettuato l'operazione doganale di irregolare introduzione di merci.

20. La TARSU.

La tassazione locale è rivolta a capacità economiche fortemente legate al territorio, come gli immobili o mobili registrati, oppure a varie forme intermedie tra tasse e tariffe. Per la TARSU, la natura di tassa connessa al servizio di raccolta rifiuti si rileva dalla commisurazione del prelievo in base all'occupazione, a titolo di proprietà o in base a contratti di locazione, di immobili situati sul territorio del comune impositore, in ragione delle dimensioni, della destinazione, del numero di occupanti l'immobile.

Tale principio generale è espresso dalla sentenza Sez. 5, n. 9141, Rv. 630769, est. Terrusi. La Corte muove dall'assunto secondo cui la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU, in virtù dell'art. 62, comma 1, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, che costituisce previsione di carattere generale), è dovuta unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti (ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie ad abitazioni). L'art. 68 del citato d.lgs. n. 507 del 1993 detta i criteri ai quali i comuni devono attenersi per l'applicazione della tassa e la determinazione delle tariffe, e, nell'indicare, al riguardo, le categorie di locali ed aree con omogenea potenzialità di rifiuti, con riferimento ai campeggi (di cui alla lett. b, del comma 2 della citata norma), li considera come categoria unitaria di utilizzazione di aree, non autorizzandone, quindi (né, a fortiori, imponendone), l'ulteriore sub-articolazione ai fini dell'applicazione di diversi criteri di tassazione in sede di regolamenti comunali.

Sempre ai fini del riferimento alle categorie di immobili previste dal regolamento comunale ai sensi dell'art. 68, comma 2, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, inoltre, si è ritenuto (Sez. 5, n. 12776, Rv. 631201, est. Terrusi) che non rilevi la mera considerazione della veste soggettiva assunta dall'ente che usa le superfici (se, cioè, ente pubblico economico o società per azioni), in quanto la tariffa suppone la considerazione del tipo di uso desunto dalla destinazione dei locali e/o delle aree tassabili, ai sensi dell'art. 65, comma 1, del d.lgs. citato. Nel caso concreto, con riferimento a Poste Italiane s.p.a., la Corte ha ritenuto illegittima, ai fini della Tarsu, la classificazione operata dall'ente accertatore - nella categoria delle imprese commerciali, piuttosto che in quella riservata agli enti pubblici ed alle istituzioni pubbliche non esercitate in forma d'impresa - perchè fondata sulla mera constatazione della variazione della natura giuridica soggettiva della contribuente, benchè fosse rimasta immutata l'attività da quest'ultima concretamente svolta ed indimostrata l'incidenza di una tale modificazione sulla destinazione dei locali utilizzati per i servizi postali e sulla correlata capacità di produzione di rifiuti.

Il principio è stato riaffermato con la sentenza Sez. 5, n. 13153, Rv. 631279, est. Terrusi, che, sempre con riferimento al pagamento della TARSU relativa ad immobile avente destinazione di ufficio postale, ha ritenuto che deve applicarsi la tariffa corrispondente alla categoria degli "uffici pubblici" e non quella relativa alla categoria degli "uffici commerciali e studi professionali, banche" e similari, atteso che l'attività cui gli uffici postali sono destinati si inserisce all'interno della rete del corrispondente servizio postale, che necessariamente deve essere assicurato, indipendentemente dalla veste giuridica dell'ente a cui compete, in condizioni di accessibilità a tutti i potenziali utenti secondo i canoni dei servizi di interesse generale garantiti ed individuati anche a livello della normativa europea.

La determinazione delle tariffe relative alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani è effettuata con regolamento comunale ai sensi del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, che costituisce previsione di carattere generale. La delibera comunale di determinazione della tariffa di cui all'art. 65 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507 non è soggetta ad obbligo di motivazione, poiché atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, che si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se determinabile ex post, di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili. Sulla base della riconosciuta natura di atto generale, la Corte (Sez. 5, n. 7044, Rv. 629885, est. Sambito) ha ritenuto non correttamente esercitato nel giudizio di merito il potere di disapplicazione della delibera di fissazione della tariffa con riferimento all'aumento previsto dall'art. 77 del citato d.lgs. n. 507 del 1993.

Quanto alle modalità di esercizio del diritto al rimborso della tassa, la Corte (Sez. 6-5, n. 6900, Rv. 630533, est. Caracciolo) ha affermato che nell'ordinamento tributario vige, per la ripetizione dell'indebito, un regime speciale basato sull'istanza di parte, da presentare, a pena di decadenza, nel termine previsto dalle singole leggi di imposta o, in difetto, dalle disposizioni sul contenzioso tributario (artt. 19, comma 1, lett. g, e 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). In applicazione dell'anzidetto principio, si è ritenuto illegittima la richiesta di rimborso presentata dal contribuente per ottenere la restituzione degli importi differenziali pagati, a titolo di TARSU, in virtù di una delibera comunale annullata dal Consiglio di Stato che ne aveva determinato un incremento, sul presupposto che le norme che contemplano il rimborso ufficioso - che, ove applicabili, escludono la necessità dell'istanza - vanno considerate di stretta interpretazione, attesa la loro natura eccezionale.

21. L'ICI.

L'ICI è la principale imposta locale sugli immobili, imposta ordinaria comunale, la cui capacità economica di riferimento è il patrimonio immobiliare esistente sul territorio del comune, essendo commisurata al valore degli immobili determinato con i moltiplicatori della rendita catastale.

La Corte si è occupata delle tematiche concernenti l'individuazione e determinazione della capacità economica, affidata alla rilevazione del patrimonio immobiliare soggetta a tassazione.

In particolare, le questioni affrontate riguardano il regime impositivo per le aree edificabili, i fabbricati rurali e gli interventi di sopraelevazione di fabbricati.

Con la sentenza Sez. 5, n. 5161, Rv. 629722, est. Bruschetta, in tema di aree edificabili, si è ritenuto che, ai fini dell'applicabilità del criterio di determinazione della base imponibile fondato sul valore venale, la destinazione edificatoria deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione dello stesso da parte della Regione e dall'adozione di strumenti urbanistici attuativi. Il quadro normativo di riferimento, richiamato dalla Corte, è quello tracciato dall'art. 11 quaterdecies, comma 16, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, e dell'art. 36, comma 2, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, norme che hanno fornito l'interpretazione autentica dell'art. 2, comma 1, lettera b, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504.

L'inapplicabilità del criterio fondato sul valore catastale dell'immobile impone, peraltro, di tener conto, nella determinazione della base imponibile, della maggiore o minore attualità delle sue potenzialità edificatorie e, pertanto, la presenza di vincoli o destinazioni urbanistiche che condizionino, in concreto, l'edificabilità del suolo, pur non sottraendo l'area su cui insistono al regime fiscale proprio dei suoli edificabili, incide sulla valutazione del relativo valore venale e, conseguentemente, sulla base imponibile.

In applicazione del medesimo principio, nell'ipotesi di conflitto tra strumento paesistico regionale e comunale, la Corte (Sez. 6-5 n. 15726, Rv. 631685, est. Cosentino) ha affermato che, per la qualificazione di un'area come edificabile ai fini tributari, le disposizioni dei piani regolatori comunali devono essere integrate con quelle dei piani paesaggistici regionali, strumento sovraordinato rispetto a quello comunale, ai sensi dell'art. 27 della legge reg. Lazio 6 luglio 1998, n. 24, recepito dalla legislazione nazionale con l'art. 145 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio).

Con riferimento al trattamento esonerativo previsto per i fabbricati rurali, la Corte (Sez. 5, n. 5167, Rv. 630455, est. Bruschetta) ha ritenuto che, ai fini della dimostrazione della natura rurale dei suddetti, è rilevante l'oggettiva classificazione catastale con attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), per cui l'immobile che sia stato iscritto come "rurale"), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dall'art. 9 del d.l. 30 dicembre 1993, n. 557 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133), non è soggetto all'imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1 bis, del d.l. 30 dicembre 2008, n. 207 (convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14) e dell'art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504. Il principio è stato affermato con riferimento a fabbricati utilizzati per l'esercizio di attività agrituristica, per i quali si è ritenuto che non siano, per ciò solo, da ritenersi rurali, e dunque esclusi dal campo di applicazione dell'ICI. Ne deriva che, quando l'immobile sia iscritto in una diversa categoria catastale, grava sul contribuente, che pretenda l'esenzione dall'imposta, l'onere di impugnare l'atto di classamento per la ritenuta ruralità del fabbricato, restandovi, altrimenti, quest'ultimo assoggettato; allo stesso modo, il Comune deve impugnare autonomamente l'attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10, al fine di poter legittimamente pretendere l'assoggettamento del fabbricato all'imposta.

Sempre in ordine alla ripartizione dell'onere della prova, con la decisione Sez. 6-5, n. 422, Rv. 629407, est. Cosentino, si è ritenuto che spetta al contribuente, interessato ad ottenerne l'esenzione dall'imposta per la ruralità dell'immobile, impugnare l'atto di diverso classamento del cespite, mentre il Comune, onde poterla legittimamente pretendere, deve impugnare autonomamente l'attribuzione della categoria catastale "rurale". Resta salva la rilevanza, in ogni stato e grado di giudizio, dello jus superveniens, la cui applicazione compete al giudice del rinvio ove comporti la necessità di accertamenti di fatto preclusi in sede di legittimità. Nel caso esaminato dalla Corte, successivamente al deposito della sentenza gravata era intervenuto l'art. 7, comma 2 bis, del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, che aveva sancito la retroattività delle variazioni annotate negli atti catastali a seguito di domanda presentata in forza della suddetta normativa, i cui effetti, in forza dell'art. 2, comma 5 ter, del d.l. 31 agosto 2013, n. 102, convertito con la legge 28 ottobre 2013, n. 124, erano stati fatti decorrere dal quinquennio antecedente alla presentazione della domanda stessa.

Per l'ipotesi di edificazione di nuova abitazione eseguita mediante sopraelevazione di un preesistente fabbricato, la Corte, con sentenza Sez. 5, n. 10082, Rv. 630831, est. Bruschetta, ha identificato la base imponibile nel valore dell'area utilizzata a scopo edificatorio, ai fini del calcolo dell'imposta, in applicazione dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504. Invero, il meccanismo impositivo disegnato dal legislatore non considera ai fini ICI il fabbricato in corso di ristrutturazione, ma l'area su cui lo stesso insiste, che, per tale motivo, ridiventa fabbricabile ab origine fino a quando la ristrutturazione dell'immobile non sia stata completata.

Degni di rilievo sono, inoltre gli arresti giurisprudenziali, intervenuti in tema di esenzione dall'imposta o agevolazione, che hanno ribadito la natura di norme di stretta interpretazione delle disposizioni agevolatrici.

In particolare, con sentenza Sez. 5, n. 12495, Rv. 631092, est. Napolitano, è stata esclusa l'applicabilità dell'esenzione agli immobili di proprietà di una congregazione religiosa locati ad un comune, in quanto si è ritenuto che l'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lett. i, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 non opera in caso di utilizzo indiretto dell'immobile da parte dell'ente proprietario, ancorchè per finalità di pubblico interesse.

Ad analoghe conclusioni è giunta la Corte (Sez. 5, n. 19053, Rv. 632450, est. Terrusi) con riferimento ai beni demaniali nella disponibilità dei consorzi di bonifica per l'espletamento della loro attività istituzionale, da assoggettarsi all'imposta ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, trattandosi di beni affidati in uso per legge ai consorzi in qualità di soggetti obbligati alla esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere realizzate per finalità di bonifica e di preservazione idraulica.

Inoltre, in tema di agevolazioni previste dall'art. 9 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, previste per gli imprenditori agricoli che esplicano la loro attività a titolo principale, si è ritenuto che le stesse si applicano unicamente agli imprenditori individuali e non anche alle società cooperative a responsabilità limitata che svolgono attività agricola, non rientrando queste ultime nella definizione di imprenditore agricolo a titolo principale risultante dall'art. 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153 (attuativa delle direttive CE nn. 72/159, 72/160 e 72/161 del Consiglio, del 17 aprile 1972). La Corte (Sez. 6-5, n. 14734, Rv. 631557, est. Caracciolo) ha evidenziato che l'interpretazione in senso restrittivo della portata applicativa della disposizione, limitata agli imprenditori agricoli individuali, ha trovato conforto nelle scelte operate successivamente dal legislatore che, anzi, ne ha ulteriormente ristretto lo spettro con la previsione del presupposto della necessaria iscrizione delle persone fisiche negli appositi elenchi comunali, ai sensi dell'art. 58, comma 2, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.

Le decisione della Corte hanno riguardato anche le forme di espressione del potere determinativo dell'imposta comunale, nei rapporti con l'atto presupposto di accertamento della rendita catastale dell'immobile, valore base per il calcolo dell'imposta. In particolare, con la decisione Sez. 6-5, n. 5621, Rv. 630532, est. Iacobellis, si è affermato che per l'esercizio della potestà amministrativa relativa alla determinazione dell'ICI, ai sensi dell'art. 74 della legge 21 novembre 2000, n. 342, la notificazione costituisce condizione di efficacia degli atti "attributivi e modificativi delle rendite catastali per terreni e fabbricati" adottati a decorrere dal primo gennaio 2000, mentre, per gli atti di liquidazione dell'imposta adottati entro il 31 dicembre 1999, il Comune può legittimamente richiedere l'imposta dovuta in base al classamento, che ha effetto dalla data di adozione e non da quella di notificazione.

Sul medesimo tema è intervenuta anche la sentenza Sez. 5, n. 12753, Rv. 631169, est. Bruschetta, che ha interpretato la disposizione di all'art. 74, comma 1, della legge 21 novembre 2000, n. 342, norma che detta la disciplina degli atti attributivi o modificativi delle rendite catastali per terreni o fabbricati, nel senso di ritenere giuridicamente impossibile utilizzare una rendita catastale prima della notifica del suo corrispondente atto attributivo, al fine di individuare la base imponibile della suddetta imposta. Ne deriva che il proprietario, dal momento in cui ne abbia fatto richiesta di attribuzione, diventa titolare di una situazione giuridica nuova, derivante dall'adesione al sistema generale della rendita catastale, per cui potrà essere tenuto a pagare una somma maggiore, qualora intervenga un accertamento in proposito, ovvero potrà aver diritto di pagare una somma minore se abbia fatto richiesta di rimborso nei termini.

22. L'IRAP.

L'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) colpisce i flussi reddituali generati da società o imprese, operando su una base imponibile molto ampia, costituita dalla differenza tra i ricavi o compensi dell'attività imprenditoriale o professionale ed i costi per l'acquisto di materie prime, beni strumentali, servizi professionali e d'impresa.

Il presupposto per l'applicazione dell'IRAP, secondo la previsione dell'art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, è l'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. Con la sentenza Sez. 5 n. 2589, Rv. 629355, est. Ferro, sono stati ribaditi i criteri per individuare il requisito dell'autonoma organizzazione. Tale requisito ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture riferibili ad altri; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Il caso posto all'attenzione della Corte ha riguardato l'attività un medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale che si era avvalso di lavoro dipendente e di lavoro autonomo di terzi, per il quale è stata riconosciuta l'applicabilità dell'imposta, restando irrilevante la prevalenza della sua opera sugli altri fattori produttivi e la sua insostituibilità, denegando l'assunto della invocata illegittimità del silenzio rifiuto opposto dall'Amministrazione finanziaria ad istanze di rimborso IRAP formulate dal professionista.

Di contro, non costituisce elemento che, di per sé, provi la sussistenza di una "stabile organizzazione" la presenza di un dipendente part time a supporto all'attività del contribuente, con riguardo all'attività del medico di base, tenuto, nell'interesse della sanità pubblica, ad un servizio continuo ed efficiente (Sez. 6-5, n. 3755, Rv. 629982, est. Cicala, ma anche, Sez. 6-5, n. 26982, in corso di massimazione, est. Iacobellis). In senso conforme, si segnala Sez. 5, n. 21150, Rv. 632663, est. Greco, che ha escluso la sussistenza del presupposto di imposta con riferimento allo svolgimento della professione legale di avvocato all'interno di struttura altrui. In ogni caso, i "fatti indice"di elementi di organizzazione, tali da significare un apporto del lavoro altrui che eccede l'ausilio minimo indispensabile, si risolvono in una definizione di criteri empirici volti ad orientare un accertamento in fatto che pertiene al giudice di merito (Sez. 6-5, n. 26991, in corso di massimazione, est. Cosentino).

Nello stesso solco si colloca la sentenza Sez. 5, n. 1575, Rv. 629315, est. Ferro, che ha valutato l'applicabilità dell'imposta in ipotesi di esercizio in forma associata dell'attività di amministratore di condominio. La Corte ha riconosciuto la sussistenza del presupposto di imposta nello svolgimento della suddetta attività in forma associata, sebbene senza dipendenti o collaboratori e, comunque, con beni strumentali di esiguo valore, in quanto l'utilizzo di una forma associata è circostanza di per sé idonea a far presumere l'esistenza di una autonoma organizzazione di strutture e mezzi, nonché dell'intento di avvalersi della reciproca collaborazione e delle rispettive competenze, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio. Il medesimo principio è stato espresso con riguardo al caso del professionista che ricorra in modo non occasionale a società di servizi, retribuita a percentuale dal per prestazioni afferenti l'esercizio della propria attività (Sez. 5, n. 22674, Rv. 632761, est. Iofrida).

Quanto alla determinazione della base imponibile, con la sentenza Sez. 5, n. 11147, Rv. 630990, est. Iofrida, si è ritenuto che dalla stessa devono essere esclusi i contributi pubblici erogati per l'anno di imposta, ai sensi dell'art. 11, comma 3, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, nel testo, vigente ratione temporis, anteriore alle modifiche apportategli dai d.lgs. 10 giugno 1999, n. 176, e 30 dicembre 1999, n. 506, solo in presenza di una esplicita previsione, nella legge istitutiva, della correlazione tra il contributo ed un componente negativo non deducibile. In applicazione del principio normativo richiamato la Corte ha riconosciuto la deducibilità della quota del 20% dei contributi del Fondo Unico per lo spettacolo (FUS) erogati alle Fondazioni liriche-sinfoniche in quanto correlata, ex lege, ai costi sostenuti per il personale dipendente.

È stata ritenuta non irragionevole, in ossequio a quanto affermato con la sentenza n. 21 del 1997 della Corte costituzionale, la previsione, sia pur in via transitoria, di aliquote differenziate per settori di attività (nella specie, svolta da società di consulenza e assistenza nel settore finanziario), nonostante la diversità di criteri di computo della base imponibile, contenuta nell'art. 45, comma 2, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. Tale regime trova giustificazione nella necessità di tener conto delle diverse regole che disciplinano la rappresentazione della situazione economico-patrimoniale e reddituale per ciascuna categoria di soggetti (Sez. 5, n. 16465, Rv. 632524, est. Iofrida).

23. La tassa di concessione governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari. L'orientamento "conservativo" delle Sezioni Unite.

In tema di tassa di concessione governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari devono essere segnalate le pronunce delle Sezioni Unite - sentenze n. 9560 e 9561, Rv. 630840, 630841, 630854, est. Botta - che hanno confermato, da un lato, l'assoggettabilità dell'uso del "telefono cellulare" alla tassa governativa di cui all'art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, ritenendo che l'intervenuta abrogazione dell'art. 318 del d.P.R. 28 marzo 1973, non abbia prodotto alcun effetto sull'assoggettabilità alla tassa di concessione dell'uso di cellulari e, dall'altro, che gli enti locali sono tenuti al pagamento della tassa governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari.

In particolare, giova evidenziare che il citato art. 21 della Tariffa individua l'atto oggetto della tassa nella "Licenza o documento sostitutivo per l'impiego delle apparecchiature terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione", mentre l'art. 318 del d.P.R. 28 marzo 1973, n. 156 stabiliva che presso ogni singola stazione radioelettrica di cui sia stato concesso l'esercizio deve essere conservata l'apposita licenza rilasciata dalla Amministrazione delle poste e telecomunicazioni. Tale norma è stata reiterata nell'art. 160 del nuovo Codice delle comunicazioni elettroniche, introdotto con d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 (codice delle comunicazioni elettroniche). Invero, a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 259 del 2003 il settore delle comunicazioni è stato privatizzato e la fornitura di servizi di comunicazione elettronica è stata qualificata come attività libera dall'art. 3 comma 2 del citato d.lgs. n. 259 del 2003, ma nel rispetto delle condizioni di legge, essendo tenuto il soggetto interessato allo svolgimento di tale attività a presentare dichiarazione di inizio della fornitura del servizio che è soggetto ad "autorizzazione generale" (dovendo essere verificata dalla Amministrazione statale la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge).

Le Sezioni Unite, con la richiamata sentenza n. 9560, Rv. 630840) hanno ritenuto che, in tema di radiofonia mobile, l'abrogazione dell'art. 318 del d.P.R. 28 marzo 1973, n. 156, ad opera dell'art. 218 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259, non ha fatto venire meno l'assoggettabilità dell'uso del "telefono cellulare" alla tassa governativa di cui all'art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, in quanto la relativa previsione è riprodotta nell'art. 160 del citato d.lgs. n. 259 del 2003.

La Corte ha ritenuto che, in buona sostanza, attraverso un continuum normativo - art. 318 del d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, D.M. 3 agosto 1985 (regolamento concernente il servizio radiomobile terrestre pubblico veicolare), D.M. 13 febbraio 1990, n. 33 (Regolamento concernente il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione, art. 3, d.l. 13 maggio 1991, n. 151) - la disciplina dei "telefoni cellulari", con riferimento all'applicabilità della tassa di concessione governativa, emerge come necessitato sviluppo (anche in relazione all'evoluzione delle tecnologie della comunicazione "mobile") della disciplina delle "stazioni radioelettriche". Si estrapola in tal modo un "contenuto implicito" per adeguare le scelte normative del "vecchio" Codice postale alla nuova più complessa realtà del sistema delle comunicazioni "radiomobili".

Il sistema non è mutato, rispetto alla questione della tassa in discussione, con la riforma conseguente all'attuazione delle direttive comunitarie, avvenuta per la disciplina dei telefoni con il d.lgs. n. 269 del 2001 (attuativo della direttiva n. 5/99) e per le stazioni radioelettriche con il d.lgs. n. 259, del 2003, attuativo della "direttiva accesso" e "direttiva autorizzazioni".

Anche alla luce della norma interpretativa introdotta con l'art. 2, comma 4, del d.l. 24 gennaio 2014, n. 4, conv. con modif. in legge 28 marzo 2014, n. 50, che ha inteso la nozione di stazioni radioelettriche come inclusiva del servizio radiomobile terrestre di comunicazione - deve essere esclusa una differenziazione di regolamentazione tra "telefoni cellulari" e "radio-trasmittenti", risultando entrambi soggetti, quanto alle condizioni di accesso, al d.lgs. 259, del 2003, (attuativo, in particolare, della direttiva 2002/20/CE, cosiddetta direttiva autorizzazioni), e, quanto ai requisiti tecnici per la messa in commercio, al d.lgs. 5 settembre 2001, n. 269 (attuativo della direttiva 1999/5/CE). Ne discende che il rinvio - di carattere non recettizio - operato dalla regola tariffaria deve intendersi riferito attualmente all'art. 160 della nuova normativa, tanto più che, ai sensi dell'art. 219 del medesimo d.lgs. 259 del 2003, dalla liberalizzazione del sistema delle comunicazioni non possono derivare "nuovi o maggiori oneri per lo Stato", e, dunque, neppure una riduzione degli introiti anteriormente percepiti. Né, in ogni caso, l'applicabilità di siffatta tassa si pone in contrasto con la disciplina comunitaria attesa l'esplicita esclusione di ogni incompatibilità affermata dalla Corte di giustizia (CGCE, 12 dicembre 2013 in C-335/2013).

Peraltro, con le medesime sentenze nn. 9560 e 9561 del 2014, le Sezioni Unite hanno confermato che gli enti locali sono tenuti al pagamento della tassa governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari, non estendendosi ad essi l'esenzione riconosciuta dall'art. 13 bis, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, a favore dell'Amministrazione dello Stato, trattandosi di norma di agevolazione fiscale di stretta interpretazione. Del resto, ai sensi dell'art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, deve essere dedotta l'inesistenza di una generalizzata assimilazione tra amministrazioni pubbliche, la cui configurabilità presuppone una specifica scelta (nella specie, non adottata) legislativa.

Sul medesimo tema è da segnalarsi anche la sentenza Sez. 5, n. 20197, Rv. 632335, est. Cicala, che, sul presupposto dell'attuale sistema di "controllo diffuso" in tema di radiofonia mobile, ha ritenuto non applicabile al concessionario gestore del servizio, che non assume la qualifica di pubblico ufficiale, la disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 9, secondo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 641, in caso di omessa riscossione da parte sua della tassa di concessione nei confronti di utenti erroneamente ritenuti esenti.

24. La riscossione delle imposte statali. L'iscrizione a ruolo.

L'attitudine degli atti di accertamento e degli altri atti emessi dagli uffici tributari, ad imporsi ai destinatari/contribuenti, se non impugnati, costituisce espressione di potere autoritativo. L'autoritatività degli atti di imposizione ne rende necessaria la notifica e la realizzazione di condizioni che ne assicurino una coscienza legale. Alla definitività dell'atto impositivo segue la successiva fase dell'esecuzione coattiva, rimessa all'agente per la riscossione (esattore), che riceve gli elenchi dei tributi formati dagli uffici (cd. "ruoli").

La Corte ha più volte affermato che possono essere iscritte a ruolo solo le imposte basate su accertamenti definitivi. Di qui la necessità, che l'iscrizione a ruolo e la successiva emissione della cartella di pagamento siano precedute dalla comunicazione dell'esito del controllo ai sensi dell'art. 36 ter del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Con sentenza Sez. 5, n. 15311, Rv. 631537, est. Crucitti, è stata ritenuta nulla la cartella di pagamento non preceduta da tale comunicazione, che assolve ad una funzione di garanzia e realizza la necessaria interlocuzione tra l'Amministrazione finanziaria ed il contribuente prima dell'iscrizione al ruolo. In ciò la comunicazione dell'esito del controllo si differenzia dalla comunicazione della liquidazione della maggiore imposta ai sensi dell'art. 36 bis del medesimo decreto, che avviene all'esito di una verifica meramente cartolare ed ha il solo scopo di evitare al contribuente la reiterazione di errori e di consentirgli la regolarizzazione di aspetti formali, per cui l'eventuale omissione non incide sull'esercizio del diritto di difesa e non determina alcuna nullità.

Sul punto, giova richiamare anche l'ordinanza Sez. 6-5, n. 11000, Rv. 630986, est. Iacobellis, che ha riconosciuto in capo all'Agenzia delle Entrate la sussistenza di uno specifico obbligo di comunicazione al contribuente, ai sensi dell'art. 1, comma 412, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e in esecuzione di quanto sancito dall'art. 6, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212, circa l'esito dell'attività di liquidazione effettuata ai sensi dell'art. 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, quando abbia ad oggetto redditi soggetti a tassazione separata, sicchè l'omissione di tale comunicazione determina la nullità del provvedimento di iscrizione a ruolo, indipendentemente dalla ricorrenza, o meno, di incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione.

Come rilevato, l'iscrizione a ruolo costituisce il presupposto per richiedere la riscossione del credito tributario accertato o liquidato. Tale assunto è stato ribadito dalla Corte con riferimento ai casi di mancato o insufficiente versamento delle somme dovute a seguito di dichiarazione integrativa presentata dal contribuente per beneficiare del condono fiscale ai sensi degli artt. 49 e 50 della legge 30 dicembre 1991, n. 413. Con ordinanza Sez. 6-5, n. 10575, Rv. 630889, est. Di Blasi, nell'ipotesi di mancato o insufficiente versamento delle somme dovute, relative ad IVA, l'Ufficio deve - in ragione dell'art. 51, comma 8, della medesima legge n. 413, del 1991 - iscrivere in un ruolo speciale gli importi prescritti (con soprattassa e interessi). Ne consegue che il debitore non decade dal beneficio del condono per il mero mancato pagamento della somma dovuta in ragione della dichiarazione integrativa, ma solo, come confermato dalla norma interpretativa di cui all'art. 18 della legge 8 maggio 1998, n. 146, quando questa non sia corrisposta dopo la sua iscrizione a ruolo, integrando detta iscrizione il presupposto per chiedere la riscossione di quanto dovuto, il cui pagamento è idoneo alla produzione degli effetti del condono. Ne consegue, inoltre, che, in caso di lite giudiziaria, incombe all'Amministrazione finanziaria dedurre il mancato pagamento da parte del contribuente ed allegare e provare la regolare e tempestiva formazione del ruolo speciale.

Di estremo interesse, inoltre, è la sentenza Sez. 5, n. 2190, Rv. 629861, est. Chindemi, intervenuta in tema di presupposti per l'iscrizione coattiva di ipoteca sugli immobili del contribuente per debiti tributari. La Corte ha affermato che, per il raggiungimento della soglia minima di ottomila euro a tal fine prevista dall'art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, occorre fare riferimento a tutti i crediti iscritti a ruolo, anche se oggetto di contestazione da parte del contribuente, atteso che, ai sensi degli artt. 49 e 50 del citato d.P.R., il ruolo costituisce "titolo esecutivo" sulla base del quale il concessionario può procedere ad esecuzione forzata, ovvero può promuovere azioni cautelari conservative, nonché ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore, purché sia inutilmente trascorso il termine di 60 giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, senza che assuma alcuna rilevanza la contestazione dei crediti posti a fondamento dello stesso.

Quanto ai rapporti tra ruolo e cartella esattoriale, per l'analisi della questione circa il riconoscimento di una autonoma impugnabilità del ruolo, quale atto dell'Amministrazione finanziaria e strumento fondamentale della riscossione, oggetto di rimessione alle Sezioni Unite con ordinanza interlocutoria Sez. 6-5, n. 16055, est. Caracciolo, non massimata, si rinvia alla sezione di questa rassegna dedicata all'esame degli atti impugnabili.

24.1. Il recupero dei crediti per tributi sorti negli Stati membri.

La procedura di riscossione delle imposte ha ad oggetto anche i crediti per tributi sorti negli Stati membri della Comunità europea. La Corte (Sez. 3, n. 19238, Rv. 632996, est. Barreca) ha affermato che, ove la richiesta contenga l'indicazione della data di esigibilità del credito, la dichiarazione di non contestazione del credito e del titolo esecutivo nello Stato emittente, nonché quella del mancato integrale recupero del credito in quello Stato malgrado l'azione esecutiva in esso intrapresa, l'Amministrazione italiana può dare corso all'azione di recupero, fermo restando che le contestazioni concernenti il merito dei suddetti elementi vanno indirizzate all'organo competente dello Stato creditore, poiché riguardano il titolo esecutivo estero e non la procedura di riscossione del credito in Italia. L'assunto si fonda sul presupposto che le condizioni previste dall'art. 346 bis, secondo comma, lett. b, del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (ratione temporis applicabile) non vanno accertate dall'Amministrazione italiana prima di procedere ad esecuzione forzata, ma devono essere solo attestate nella richiesta di assistenza reciproca avanzata dalla Amministrazione finanziaria dello Stato che ha emesso il titolo esecutivo.

25. La cartella esattoriale: natura impositiva e obbligo di motivazione.

La Corte anche nel 2014 ha ribadito la natura di atto impositivo della cartella esattoriale, quando questa non segua uno specifico atto impositivo già notificato al contribuente, ma costituisca il primo ed unico atto con il quale l'ente impositore esercita la pretesa tributaria.

Quale atto dotato di autonoma efficacia impositiva, la cartella deve consentire al destinatario una piena comprensione delle ragioni di fatto o di diritto su cui si fonda l'imposizione tributaria. In tal senso, la Corte, Sez. 5, n. 28276, Rv. 629561, est. Perrino, ha affermato che la cartella esattoriale deve essere motivata alla stregua di un atto propriamente impositivo, e contenere, quindi, gli elementi indispensabili per consentire al contribuente di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell'imposizione. Ne deriva l'illegittimità della cartella di pagamento che non contiene le informazioni necessarie e sufficienti per consentire al contribuente la verifica dell'applicazione dei criteri di liquidazione dell'imposta, indicati nel caso sottoposto all'attenzione della Corte da una sentenza passata in giudicato, a seguito della quale la cartella stessa era stato emessa; né, in relazione al contenuto della suddetta sentenza, si è ritenuto che l'obbligo di motivazione della cartella con efficacia impositiva possa essere soddisfatto quale motivazione "per relationem", con il mero rinvio ad altro atto presupposto dell'imposizione.

In conformità con il principio espresso si segnala Sez. 5, n. 21177, Rv. 632486, est. Napolitano, che ha escluso l'annullabilità per vizio di motivazione della cartella esattoriale che non costituisca il primo e l'unico atto con cui si esercita la pretesa tributaria, essendo stata preceduta dalla notifica di altro atto propriamente impositivo, anche qualora non contenga l'indicazione del contenuto essenziale dell'atto presupposto, conosciuto e impugnato dal contribuente.

La natura di atto impositivo della cartella esattoriale è stata ribadita anche con sentenza Sez. 5, n. 1263, Rv. 629155, est. Iofrida, con riferimento all'ipotesi di cartella esattoriale emessa ai sensi dell'art. 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che si è ritenuta impugnabile, ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non solo per vizi propri ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva, poiché non rappresenta la mera richiesta di pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento, autonomamente impugnabili e non impugnati, ma riveste anche natura di atto impositivo, trattandosi del primo ed unico atto con cui la pretesa fiscale è stata esercitata nei confronti del dichiarante.

Tale natura, nondimeno, non implica che la cartella debba essere provvista della sottoscrizione autografa del soggetto responsabile. Con sentenza Sez. 5, n. 25773, in corso di massimazione, est. Marulli, è stato ribadito il consolidato principio secondo cui la mancanza di sottoscrizione da parte del funzionario competente non comporta l'invalidità dell'atto, in quanto l'esistenza della cartella dipende dalla inequivocabile riferibilità, desumibile da elementi formali dell'atto, dall'organo amministrativo titolare del potere, e tale requisito formale non è previsto nel modello approvato con decreto del Ministro competente, per il quale è sufficiente l'intestazione per verificarne la provenienza, e l'indicazione della somma da pagare e della causale.

25.1. La cartella esattoriale: la successione "ex lege" nei rapporti controversi di Equitalia s.p.a.

La Corte si è occupata, in particolare, della successione nei rapporti controversi di Equitalia s.p.a. e delle altre società del gruppo rispetto alle precedenti società concessionarie. In merito, con la sentenza Sez. 5, n. 7318, Rv. 630626, est. Terrusi, si è affermato che, per effetto del trasferimento di funzioni operato dall'art. 3 del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, la neocostituita Equitalia s.p.a. (già Riscossioni s.p.a.) e le altre società dell'omonimo gruppo, che ne sono articolazioni territoriali, sono subentrate ex lege nei rapporti controversi facenti capo alle anteriori concessionarie del servizio di riscossione, così verificandosi, sul piano processuale, un fenomeno successorio riconducibile non all'art. 110 cod. proc. civ., bensì all'art. 111 del medesimo codice di rito, ed il cui titolo è costituito dalla soppressione, per legge, del precedente sistema di affidamento in concessione del servizio, che il giudice, pertanto, è tenuto a conoscere d'ufficio in virtù del principio iura novit curia, prescindendo da questioni inerenti all'onere della prova.

Il principio è stato ribadito da Sez. 5, n. 21773, Rv. 632730, est. Chindemi: l'entrata in vigore del d.l. 30 settembre 2005 n. 203, convertito, con modificazioni, in legge 2 dicembre 2005, n. 248, che ha attribuito la funzione di riscossione nazionale all'Agenzia delle Entrate, che la esercita tramite Equitalia s.p.a., non ha comportato l'estinzione delle anteriori concessionarie del servizio di riscossione, le quali, essendo state parti nel giudizio di primo grado hanno interesse all'impugnazione e conservano la legittimazione processuale ai sensi della art. 111 cod. proc. civ., con eventuale legittimazione concorrente e non sostitutiva del successore a titolo particolare.

25.2. La cartella esattoriale: la notificazione.

La notificazione della cartella esattoriale costituisce l'atto con il quale in genere viene esternalizzata la procedura esecutiva esattoriale, funzionale ad intimare al debitore il pagamento del ruolo sottostante e alla aggressione del suo patrimonio per ricavare coattivamente le somme sufficienti a pagare il debito per cui ci procede.

Quanto alle modalità e forme della notifica della cartella, la Corte, con sentenza Sez. 5, n. 6395, Rv. 630819, est. Valitutti, ha ritenuto che per la riscossione delle imposte la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del comma 1 dell'art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all'ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall'avviso di ricevimento, senza necessità di un'apposita relata, visto che è l'ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l'esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l'effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella. Tale assunto trova implicita conferma nella lettera del penultimo comma del citato art. 26, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o con l'avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell'amministrazione.

La Corte ha, inoltre, ribadito il principio secondo cui la tempestiva proposizione del ricorso del contribuente avverso la cartella di pagamento produce l'effetto di sanare ex tunc la nullità della relativa notificazione, per raggiungimento dello scopo dell'atto, a norma dell'art. 156, secondo comma, cod. proc. civ. Tale effetto sanante si fonda sul postulato che alla notifica invalida sia comunque seguita la conoscenza dell'atto da parte del destinatario, conoscenza che può desumersi anche dalla tempestiva impugnazione, ad opera di quest'ultimo, dell'atto invalidamente notificato, ma non certo dalla impugnazione di un atto diverso che trovi nella definitività del primo solo il suo presupposto. In applicazione del suddetto principio, la Corte ha escluso che la impugnazione della cartella esattoriale emessa per la riscossione dell'importo risultante da un avviso di accertamento fosse idonea a sanare la nullità della notifica di quest'ultimo atto (Sez. 5, n. 1238, Rv. 629468, est. Greco).

Quanto ai soggetti destinatari della notifica della cartella di pagamento, la Corte, con sentenza Sez. 5, n. 228, Rv. 629246, est. Iofrida, ha affermato che nel caso in cui l'Ufficio delle Entrate proceda nei confronti degli eredi per la riscossione di tributo dovuto da contribuente defunto, la formazione del ruolo, disciplinata dall'art. 12 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, va operata a nome del contribuente pur dopo il suo decesso, mentre la notifica della cartella esattoriale deve essere effettuata agli eredi personalmente e nel loro domicilio nel solo caso in cui essi abbiano tempestivamente provveduto alla comunicazione prescritta dall'art. 65, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, potendo altrimenti avvenire nei loro confronti, collettivamente ed impersonalmente nel domicilio del defunto, senza limiti di tempo.

Con riferimento al regime delle notificazioni degli atti impositivi nei confronti di impresa fallita, la Corte (sez. 6-5, n. 12789, Rv. 631115, est. Cicala) ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento non comporta il venir meno dell'impresa, ma solo la perdita della legittimazione sostanziale e processuale da parte del suo titolare, nella cui posizione subentra il curatore fallimentare. Ne consegue che gli atti del procedimento tributario formati in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento del contribuente, ancorché intestati a quest'ultimo, sono opponibili alla curatela, mentre quelli formati in epoca successiva debbono indicare quale destinataria l'impresa assoggettata alla procedura concorsuale e, quale legale rappresentante della stessa, il curatore (nel caso di specie, si è affermato che l'accertamento notificato, dopo la dichiarazione di fallimento, alla società fallita non costituisce valido presupposto per una cartella esattoriale emessa a carico del fallimento).

25.3. I termini di decadenza.

Il potere di riscossione delle imposte sui redditi è soggetto a precisi termini di decadenza per la notifica degli atti impositivi o delle cartelle di pagamento.

Per la pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni occorre aver riguardo alla disciplina detta dall'art. 1 del d.l. 17 giugno 2005, n. 106, convertito con modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n. 156. L'art. 5 bis del suddetto d.l. 106 del 2005 ha fissato diversi termini decadenziali a seconda dell'anno in cui sono state presentate le dichiarazioni. Il successivo art. 5 ter, sostituendo il comma 2 dell'art. 36 del d.lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, ha stabilito che, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento per le dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001 deve essere notificata, a pena di decadenza, non oltre il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello della presentazione. Secondo quanto affermato dalla Corte, con sentenza Sez. 5, n. 15329, Rv. 631562, est. Tricomi, detta norma ha un inequivoco valore transitorio e trova applicazione a tutte le situazioni tributarie anteriori alla sua entrata in vigore, ivi comprese quelle sub iudice.

Il principio da ultimo esposto è stato ribadito dalla pronuncia Sez. 5, n. 15661, Rv. 632506, est. Cirillo, che, in tema di termine decadenziale per eseguire la notifica delle cartelle di pagamento, ha posto l'accento sul valore di disposizione transitoria di cui all'art. 1, commi 5 bis e 5 ter, del d.l. 17 giugno 2005, n. 106, introdotti dalla legge di conversione del 31 luglio 2005, n. 156 e sulla sua operatività retroattiva non solo per le situazioni tributarie anteriori all'entrata in vigore, ma anche a quelle non ancora definite con sentenza passata in giudicato, in quanto diretta ad ovviare ad una lacuna normativa derivante dalla sentenza n. 280 del 2005 della Corte costituzionale e ad evitare un termine talmente ristretto da pregiudicare la riscossione dei tributi. Da tale approccio ermeneutico deriva l'inapplicabilità del più breve termine di quattro mesi dalla consegna del ruolo al concessionario, previsto a pena di decadenza, dall'art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel testo vigente anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46. In difformità dalla pronuncia si segnalano le sentenze Sez. 5, n. 19544 del 2011, Rv. 619086 e n. 22159 del 2013, Rv. 628464. Nondimeno, il principio espresso si presenta conforme a quello di cui alle sentenze Sez. 5, n. 15786 del 2012, Rv. 623766, e n. 16990 del 2012, Rv. 623837.

Con riferimento, in particolare, all'imposta di registro, con l'ordinanza Sez. 6-5, n. 15619, Rv. 631684, est. Caracciolo, la Corte ha ritenuto che, qualora l'avviso di liquidazione sia notificato entro il termine di tre anni di cui all'art. 76, comma 2, del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, l'adempimento di tale onere da parte dell'Agenzia delle Entrate comporta la legittimità della cartella di pagamento emessa successivamente al termine decadenziale predetto, che risulta, in tal modo, rispettato, ed entro il termine decennale di prescrizione di cui all'art. 78 del medesimo d.P.R.

25.4. L'impugnazione della cartella esattoriale.

Come qualsiasi atto della procedura esecutiva per la riscossione del tributo, destinato al debitore, la cartella esattoriale è soggetta ad impugnazione. La Corte, in particolare, ha esaminato i rapporti tra l'atto di riscossione e l'atto presupposto di accertamento del tributo, ove sussistente, di cui il primo costituisce atto esecutivo. Con sentenza Sez. 5, n. 1238, Rv. 629468, est. Greco, la Corte ha escluso che l'impugnazione della cartella esattoriale emessa per la riscossione dell'importo risultante da un avviso di accertamento, a suo tempo non correttamente notificato, fosse idonea a sanare la nullità della notifica di quest'ultimo atto. Invero, l'effetto sanante della nullità della notificazione dell'atto impositivo, a norma dell'art. 156, secondo comma, cod. proc. civ., per il raggiungimento del suo scopo, postula che alla notifica invalida sia comunque seguita la conoscenza dell'atto da parte del destinatario, ciò che può desumersi anche dalla tempestiva impugnazione, ad opera dell'interessato, dell'atto invalidamente notificato, non certo dalla impugnazione di un atto diverso, che trovi nella definitività del primo solo il suo presupposto.

Inoltre, la Corte, con sentenza Sez. 5, n. 10477, Rv. 630892, est. Cigna, ha ritenuto che la tardività della notificazione della cartella non costituisce vizio proprio di questa, tale da legittimare in via esclusiva il concessionario a contraddire nel relativo giudizio. La legittimazione passiva spetta, pertanto, all'ente titolare del credito tributario e non già al concessionario, sul quale, se è fatto destinatario dell'impugnazione, incombe l'onere di chiamare in giudizio l'ente predetto, se non vuole rispondere all'esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d'ufficio l'integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile nella specie un litisconsorzio necessario.

26. L'iscrizione di ipoteca. Le Sezioni Unite e la soluzione di un contrasto.

Nell'intento di contrastare il fenomeno della "evasione da riscossione" il legislatore ha riconosciuto all'agente per la riscossione poteri parasanzionatori, come l'iscrizione di ipoteche su immobili, nel caso di mancato pagamento.

Sul tema, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto insorto in relazione alla sussistenza dell'obbligo per il concessionario alla riscossione, ove sia decorso un anno dalla notifica della cartella di pagamento, prima di procedere all'iscrizione di ipoteca, di notificare al debitore un avviso che contenga l'intimazione ad adempiere entro cinque giorni l'obbligo risultante dal ruolo, fissato dall'art. 50, comma 2, del d. P. R. n. 602 del 1973.

In particolare, con le sentenze Sez. U., n. 19667, Rv. 632586, e Sez. U., n. 19668, Rv. 632616, est. Botta, si è affermato il principio - valido anche per il periodo antecedente l'entrata in vigore del comma 2 bis dell'art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, introdotto con d. l. 13 maggio 2011, n. 70 - secondo cui in tema di iscrizione di ipoteca su beni immobili ai sensi del citato art. 77 (nella formulazione ratione temporis), l'Amministrazione finanziaria, prima di iscrivere l'ipoteca, deve comunicare al contribuente che procederà alla suddetta iscrizione, concedendo al medesimo un termine - che può essere determinato, in coerenza con analoghe previsioni normative (da ultimo, quello previsto dall'art. 77, comma 2 bis), in trenta giorni - per presentare osservazioni od effettuare il pagamento. L'iscrizione ipotecaria costituisce senza dubbio un atto che limita fortemente la sfera giuridica del contribuente e, come tale, ai sensi dell'art. 21 bis della legge n. 241 del 1990 è soggetto all'obbligo generale di comunicazione al destinatario, comunicazione che costituisce presupposto imprescindibile per la stessa impugnabilità dell'atto, in particolare nel processo tributario che è strutturato come processo di impugnazione di atti in tempi determinati rigidamente.

La pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una "decisione partecipata" mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella "fase precontenziosa" o "endoprocedimentale", al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell'obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto dei destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell'emanazione di questo, realizza l'inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e il buon andamento dell'amministrazione, presidiato dall'art. 97 Cost. Da tale assunto, deriva che l'omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale comporta la nullità dell'iscrizione ipotecaria per violazione del diritto alla partecipazione al procedimento, garantito, oltre che dal complesso di norme sul procedimento amministrativo, anche dagli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea, fermo restando che, attesa la natura reale dell'ipoteca l'iscrizione mantiene la sua efficacia fino alla sua declaratoria giudiziale d'illegittimità.

27. La riscossione delle imposte locali. La pronuncia delle Sezioni Unite sull'obbligo del concessionario di pagamento del corrispettivo per la gestione del conto corrente postale.

In tema di riscossione delle imposte locali, deve essere segnalata la sentenza Sez. U, n. 7169, Rv. 629693, est. Spirito, con cui si è data soluzione al contrasto giurisprudenziale insorto circa il riconoscimento dell'obbligo per i concessionari provinciali del servizio di riscossione dell'imposta comunale sugli immobili di pagare, per ogni versamento ICI effettuato dai contribuenti sull'apposito conto corrente postale intestato all'agente della riscossione, una commissione, a remunerazione del servizio di tenuta del conto. La citata sentenza muove dall'interpretazione letterale dei commi 18 e 19 dell'art. 2 della legge n. 662 del 1996 e dell'art. 10 del d.lgs. n. 504 del 1992, secondo cui la facoltà di stabilire commissioni a carico dei correntisti postali viene esclusa nelle ipotesi in cui l'Ente poste agisca in regime di monopolio legale. Deve, pertanto, ritenersi che nell'ambito della riscossione dell'ICI, il versamento sul conto corrente che il legislatore impone al concessionario di aprire presso Poste Italiane è solo una delle modalità a disposizione del contribuente per versare l'imposta (basti pensare alla possibilità di effettuare il versamento tramite il sistema bancario). Si è osservato, sul punto, che manca una disciplina normativa che esoneri il concessionario dal pagamento di un corrispettivo per la gestione del conto corrente, pur obbligatoriamente aperto presso Poste Italiane.

Alla luce di tali argomentazioni le Sezioni Unite hanno espressamente riconosciuto l'obbligo per il concessionario della riscossione dell'imposta comunale sugli immobili di pagare a Poste Italiane s.p.a. un corrispettivo per l'accensione e la tenuta del conto corrente sul quale i contribuenti possono versare l'imposta, atteso che, pur essendo il concessionario obbligato ad aprire tale conto, ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e pur operando, quindi, Poste Italiane in regime di monopolio legale, ai sensi dell'art. 2597 cod. civ., nessuna disposizione normativa o contrattuale afferma la gratuità del servizio di accensione e tenuta del conto corrente.

28. La prescrizione e la decadenza.

L'istituto della prescrizione in materia tributaria è stato esaminato dalla Corte con riferimento all'Amministrazione e al contribuente, anche per affermare una sostanziale parificazione delle rispettive posizioni.

Giova sul punto richiamare quanto osservato dalla Corte con riferimento al diritto al recupero dei rimborsi indebitamente erogati al contribuente dal Concessionario del servizio per la riscossione o dagli Uffici finanziari, disciplinato dall'art. 38 bis, comma 6, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. La Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 6659, Rv. 630531, est. Olivieri, ha osservato che la norma non prevede uno specifico termine di prescrizione per il credito accessorio degli interessi moratori dovuti all'erario in ipotesi di ritardo nella restituzione. In mancanza di una disciplina speciale derogatoria, non ravvisabile nella legge 26 gennaio 1961 n. 29 (riferita alla diversa fattispecie di omesso pagamento del tributo), trova applicazione il termine ordinario decennale di prescrizione, in quanto non si giustificherebbe, alla luce del principio costituzionale di ragionevolezza, un trattamento differenziato tra il fisco ed il contribuente, il cui credito di interessi, accessorio rispetto al credito principale di rimborso, è espressamente assoggetto all'art. 2946 cod. civ., ai sensi dell'art. 1, comma 16, del d.l. 30 dicembre 1991, n. 417, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1992, n. 66.

In via generale, la Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 842, Rv. 629226, est. Terrusi, ha escluso che il diritto alla riscossione di un'imposta definitivamente accertata con sentenza passata in giudicato sia assoggettato al termine decadenziale di cui all'art. 17 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, concernente la messa in esecuzione dell'atto emanato nell'esercizio del potere impositivo. Tale diritto è soggetto esclusivamente a quello generale di prescrizione, atteso che il titolo in base al quale viene intrapresa l'esecuzione non è più l'atto originario, ma la sentenza che ne ha confermato la legittimità pronunciando sul rapporto. La decisione ha avuto riguardo ad una cartella esattoriale notificata, per INVIM straordinaria, nel gennaio 2005, sul valore accertato di un immobile, compravenduto nel 1992, divenuto definitivo a seguito di sentenza passata in giudicato nel 2002, della quale la Corte di merito aveva ritenuto l'illegittimità ritenendo applicabile il termine decadenziale.

Il principio è stato ribadito con sentenza Sez. 6-5, n. 20153, Rv. 632343, est. Cosentino, in tema d'imposta di registro e di INVIM, che analizza i rapporti e le differenze tra il termine decennale di prescrizione del credito erariale, decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza, ai sensi dell'art. 78 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, e quello decadenziale di cui all'art. 76 dello stesso d.P.R. n. 131 del 1986, di estensione triennale, a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza, che ha carattere residuale, concernendo la sola ipotesi in cui l'Amministrazione finanziaria debba procedere ad un ulteriore accertamento. Nel senso della residualità del termine previsto dall'art. 76, comma 2, lett. b, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza, in caso di decisione sul ricorso del contribuente avverso l'avviso di rettifica e liquidazione del tributo, si segnala la sentenza Sez. 5, n. 13179, Rv. 631203, est. Bruschetta.

Sul tema giova richiamare anche la decisione Sez. 5, n. 9158, Rv. 630416, est. Bruschetta, per la quale il termine decennale di prescrizione di cui all'art. 41, comma 2, del d.lgs., 31 ottobre 1990, n. 346, come richiamato dall'art. 31, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643, inizia a decorrere - riferendosi la norma alla prescrizione dell'imposta "definitivamente accertata" - dal giorno in cui l'imposta (INVIM) diventa definitiva a seguito dello spirare del termine per proporre impugnazione avverso l'atto impositivo notificato al contribuente.

Per l'imposta di registro, invece, è stata esclusa l'applicazione del termine di decadenza sancito dall'art. 17, terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in quanto si tratta di imposta non inclusa nell'ambito di operatività del citato art. 17, non essendo ricompresa nei tributi cui fa riferimento il d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, che, successivamente al d.P.R. 28 gennaio 1988 n. 43, ha nuovamente escluso dai ruoli e dalla decadenza tutte le imposte diverse da quelle sul reddito e dall'IVA (Sez. 5, n. 12748, Rv. 631117, est. Meloni). L'accertamento dell'imposta è, dunque, soggetto al termine di prescrizione decennale previsto dall'art. 78 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.

Di contro, qualora il contribuente, ai fini dell'imposta di registro, abbia manifestato la volontà di avvalersi del criterio di valutazione automatica previsto dall'art. 12 del d. l. 14 marzo 1988, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154, in riferimento ad un immobile non ancora iscritto in catasto, si è ritenuto che la maggiore imposta liquidata dall'Ufficio a seguito dell'attribuzione della rendita catastale ha natura d'imposta complementare, dal momento che la sua determinazione non ha luogo sulla base di elementi desunti dall'atto o comunque indicati dalle parti, ma richiede un'attività ulteriore dell'Amministrazione, avente rilevanza non meramente interna, e produttiva di atti autonomamente impugnabili (Sez. 5, n. 13149, Rv. 631175, est. Bruschetta). La Corte, muovendo da tale assunto, ha riconosciuto in tale ipotesi l'applicabilità del termine di decadenza previsto dall'art. 76, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, ai fini della notifica dell'avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta, termine che è soggetto alla sospensione di cui all'art. 11, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, per la definizione agevolata ad istanza del contribuente.

Per la riscossione della tassa di circolazione di autoveicoli, con sentenza Sez. 5, n. 10067, Rv. 630856, est. Meloni, la Corte ha ritenuto che il termine di prescrizione triennale del relativo credito erariale inizia a decorrere non dalla scadenza del termine sancito per tale pagamento, ma dall'inizio dell'anno successivo, in virtù della previsione di cui all'art. 3 del d.l. 6 gennaio 1986, n. 2 (convertito, con modificazioni, dalla legge 7 marzo 1986, n. 60). Il legislatore, infatti, non si è limitato a disporre in via generale l'allungamento del termine biennale originariamente previsto dalla previgente disciplina (ex art. 5, trentunesimo comma, del d.l. 30 dicembre 1982, n. 953, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1983, n. 53), ma ha inteso assicurare in ogni caso la riscossione, entro il nuovo termine di tre anni, della tassa di circolazione, dovuta nel caso esaminato per il 1983, con applicazione retroattiva.

In tema di IVA, si è affermato che l'esposizione di un credito d'imposta nella dichiarazione dei redditi non deve essere seguito da alcun altro adempimento del contribuente per ottenere il rimborso, spettando all'Amministrazione finanziaria l'esercizio del potere-dovere di controllo sui dati esposti in dichiarazione. Ne deriva che il relativo credito del contribuente è soggetto all'ordinaria prescrizione decennale, mentre non è applicabile il termine biennale di decadenza previsto dall'art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto l'istanza di rimborso non integra il fatto costitutivo del diritto ma solo il presupposto di esigibilità del credito per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso stesso. In difformità dalla pronuncia si segnalano le sentenze Sez. 5, n. 18915 del 2011, Rv. 618795, e n. 18920 del 2011, Rv. 619203. Nondimeno, il principio espresso si presenta conforme a quello di cui alle sentenze Sez. 5, n. 7684 del 2012, Rv. 622909 e n. 15229 del 2012, Rv. 623772.

Per l'ipotesi in cui il contribuente abbia presentato istanza di rimborso dell'IVA ex art. 38 bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, vigente ratione temporis, con sentenza Sez. 5, n. 26513, in corso di massimazione, est. Scoditti, si è ribadita l'interpretazione secondo cui il termine di prescrizione decennale decorre a partire da due anni e tre mesi dalla data di presentazione annuale della dichiarazione, termine composto dai due anni per il consolidamento del credito al rimborso dell'imposta versata in eccesso, ai sensi dell'art. 38 bis cit., e degli ulteriori tre mesi per la sua esigibilità.

La prescrizione è interrotta, a norma dell'art. 2944 cod. civ., dall'atto con cui l'amministrazione richieda al contribuente, anche la prestazione di una garanzia fideiussoria. Tale richiesta implica inequivocabilmente, benché tacitamente, l'ammissione della pretesa creditoria, con effetti interruttivi della prescrizione, a differenza della mera richiesta di documentazione che, effettuata al fine di verificare la fondatezza della pretesa stessa, difetta del requisito dell'univocità (Sez. 6-5, n. 4799, Rv. 629987, est. Bognanni).