Premessa

Premessa

 

1. La presente Rassegna costituisce esposizione ragionata dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione nel corso dell’anno 2011.

Sono state conservate la nuova sistemazione degli argomenti trattati (con suddivisione in capitoli, secondo la sistemazione codicistica, e trattazione in parti diverse delle questioni oggetto di rimessione e delle altre questioni pure esaminate dalle Sezioni Unite), e la nuova veste grafica, che tanti apprezzamenti hanno ricevuto; per favorirne una consultazione “mirata”, l’ampio testo è stato corredato di dettagliati indici analitico-alfabetico e normativo.

Si è ancora una volta preferito non raccogliere le massime ufficiali estratte dalle decisioni delle Sezioni Unite in un separato allegato, ma riportarle (con particolare evidenza grafica) nel contesto dell’analisi delle decisioni alle quali esse, di volta in volta, si riferiscono, secondo un ordine non cronologico, ma sistematico: e ciò al fine di agevolarne una più immediata fruibilità da parte del lettore.

2. Con riguardo al merito dell’attività delle Sezioni Unite, vale la pena di ricordare che non è stato possibile esaminare due questioni controverse (la prima, perché il difensore ed il rappresentante legale della società ricorrente hanno ritualmente rinunciato all’impugnazione; la seconda, per sopravvenuta carenza di interesse; in entrambi i casi, il ricorso è stato definito con declaratoria di inammissibilità del ricorso), per evidenziare, ancora una volta, come nella Premessa alla Rassegna dello scorso anno, l’esistenza di una ingiustificabile lacuna normativa.

L’art. 363, comma 3, cod. proc. civ. (introdotto dall’art. 4 D. Lgs. n. 40 del 2006) stabilisce che “Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte. ritiene che la questione decisa è di particolare importanza”. Analogo istituto non è previsto dal codice di procedura penale, che al contrario, in presenza di un ricorso inammissibile (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.), privilegia unicamente l’esigenza di rapida definizione del procedimento, attraverso il rito speciale di cui agli artt. 610 s. cod. proc. pen. e la costituzione di apposita sezione.

Il quadro normativo attualmente vigente preclude, pertanto, al Supremo Collegio penale l’esercizio della funzione nomofilattica (al contrario, recuperata e potenziata nel settore civile), differendo, in caso di inammissibilità del ricorso, la risoluzione del contrasto di giurisprudenza ad altra remissione, ed imponendo nelle more il perdurare delle incertezze interpretative[1]. La discrasia appare sistematicamente poco coerente con la funzione istituzionale della Corte di legittimità di enunciare la corretta applicazione della legge, anche allo scopo di assicurarne l’uniforme applicazione.

3. Va, per completezza, dato conto, sia pur necessariamente in sintesi, delle decisioni (note attraverso le sole Notizie di decisione) delle Sezioni Unite intervenute nel corso dell’anno 2011, ma relativamente alle quali non sono state ancora depositate le motivazioni.

In particolare, le Sezioni Unite hanno ritenuto:

- all’ud. 29 settembre 2011, che la domanda del condannato di accertamento dell’inesistenza dell’obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali va proposta al giudice civile nella forma dell’opposizione ex art. 615 cod. proc. civ. Il giudice penale, che ne sia eventualmente investito nelle forme dell’incidente di esecuzione, deve dichiarare l’inammissibilità dell’istanza in quanto non riconducibile a motivi proponibili con tale incidente e può in concreto, ove organo giudiziario diverso da quello competente sull’opposizione ex art. 615 cod. proc. civ., difettare anche di competenza funzionale; non può invece mai dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, non potendosi porre problemi di giurisdizione nell’ambito della giurisdizione ordinaria;

- all’ud. 27 ottobre 2011:

(a) che la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema, posta in essere da soggetto abilitato ma per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita, non integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, salvo che l’accesso o il mantenimento nel sistema integri una violazione dei limiti o delle condizioni dell’abilitazione;

(b) che l’estinzione di ogni effetto penale prevista dall’art. 47, comma 12, Ord. pen., in conseguenza dell’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, comporta che della relativa condanna non possa tenersi conto agli effetti della recidiva;

- all’ud. 24 novembre 2011, che, nei procedimenti per il reato di omesso versamento delle ritenute assistenziali e previdenziali all’I.N.P.S., la notifica del decreto di citazione a giudizio è equivalente (ai fini del decorso del termine di tre mesi per il pagamento di quanto dovuto, che rende non punibile il fatto) alla notifica dell’accertamento della violazione, non effettuata, ma solo se il decreto di citazione, al pari di qualsiasi altro atto processuale indirizzato all’imputato, contiene gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento;

- all’ud. 15 dicembre 2011:

(a) che la nomina di un terzo difensore di fiducia dell'imputato, in assenza di revoca espressa di almeno uno dei due già nominati, resta priva di efficacia, salvo che si tratti di nomina per la proposizione dell'atto di impugnazione, la quale, in difetto di contraria dichiarazione dell'imputato, comporta la revoca dei precedenti difensori;

(b) che l'attività di compilazione delle denunce dei redditi ai fini del pagamento delle imposte, anche se svolta in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare l'apparenza del possesso dell'abilitazione in realtà inesistente, non integrava, alla stregua della disciplina vigente prima del d. lgs. n. 139 del 2005, il reato di esercizio abusivo della professione di ragioniere o perito commerciale o dottore commercialista.

 

4. In corso di redazione di questa Rassegna, è stata depositata la sentenza n. 155 del 29 settembre 2011 – 10 gennaio 2012, Rossi ed altro, non ancora massimata, ma della quale appare opportuno dare, pur brevemente, conto.

Chiamate a decidere «se la regola secondo cui il termine stabilito a giorni, che scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno non festivo, riguardi anche il termine di deposito della sentenza, con conseguenti effetti sull’inizio di decorrenza del termine per impugnare», le Sezioni Unite hanno ritenuto che:

(a) la regola per cui il termine stabilito a giorni, il quale scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo, posta dall’art. 172, comma 3, cod. proc. pen., si applica anche agli atti e ai provvedimenti del giudice, e si riferisce perciò anche al termine per la redazione della sentenza;

(b) nei casi in cui, come nell’art. 585, comma 2, lett. c), cod. proc. pen., è previsto che il termine assegnato per il compimento di una attività processuale decorra dalla scadenza del termine assegnato per altra attività processuale, la proroga di diritto del giorno festivo in cui il precedente termine venga a cadere al primo giorno successivo non festivo, determina lo spostamento altresì della decorrenza del termine successivo con esso coincidente;

(c) tale situazione, tuttavia, non si verifica ove ricorrano cause di sospensione quale quella prevista per il periodo feriale che, diversamente operando per i due termini, comportino una discontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolarsi l’inizio del secondo.

Ai fini della decisione, è stato anche affrontato il delicato tema della configurabilità dell’“abuso del processo”, con riguardo ad una fattispecie relativa ad un reiterato avvicendamento di difensori, realizzato a chiusura del dibattimento (“secondo uno schema non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva”), con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione: il Supremo Collegio, alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, è giunto alla conclusione che l’abuso del processo consiste “in un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all’esercizio di diritti potestastivi, in una frode alla funzione. E quando, mediante comportamenti quali quelli descritti (…), si realizza uno sviamento o una frode alla funzione, l’imputato che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l’ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti”.

Ciò premesso, si è ritenuto che “il diniego di termini a difesa o la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall’art. 108, comma primo, cod. proc. pen., non può dare luogo ad alcuna nullità quando l’esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica o di altri diritti fondamentali dell’imputato non abbia subito, in assoluto, alcuna lesione o menomazione”, ravvisandosi, nel dianzi descritto comportamento processuale del ricorrente, un abuso delle facoltà processuali, inidoneo in quanto tale a legittimare ex post la proposizione di eccezioni di nullità.

Sergio Beltrani

 

[1] Il problema si pone, naturalmente, ma con minori conseguenze negative, anche per le Sezioni semplici penali.

Introduzione

INTRODUZIONE

L’Ufficio del Massimario, nonostante le notevoli carenze di organico, si caratterizza sempre più come protagonista per il rafforzamento della funzione di nomofilachia che costituisce proiezione della garanzia di uguaglianza davanti alla legge, essendo tale uguaglianza offesa da interpretazioni che “impongano a casi uguali assetti diversi”.

La Rassegna costituisce un’analisi volta a delineare il percorso attraverso il quale si realizza il “diritto vivente” e consente sempre più di apprezzare quale sia in concreto la funzione che la Corte di legittimità, mediante la propria giurisprudenza, assegna a se stessa.

L’ampiezza della ricerca realizza il primario obbiettivo di porre in risalto le principali linee di tendenza della giurisprudenza di legittimità su temi quali “il diritto dell’uomo e delle formazioni sociali”, il “giusto processo”, “impresa e mercato”; e soddisfa l’ulteriore esigenza di consentire al lettore di cogliere il progressivo mutamento della funzione del Giudice di legittimità. Oramai, la giurisdizione di legittimità non enuncia “verità” mediante la mera correzione degli “errori”, bensì è la sede in cui i diversi orientamenti giurisprudenziali confluiscono per la ricerca di un confronto diretto all’affermazione dei diritti fondamentali e dei valori di civiltà giuridica.

Un’analisi che lascia intravedere, come già si è posto in rilievo lo scorso anno, l’affascinante proiezione dinamica della funzione di nomofilachia il cui obbiettivo, di sicuro rilievo costituzionale, è la prevedibilità delle decisioni. Ciò in un sistema non più governato solo da fonti interne ma anche da fonti sopranazionali e dalle molteplici pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui attuazione non è ancora normativamente disciplinata.

La Corte di cassazione ha più volte attuato pronunce della Corte europea, realizzando in tal modo un “diritto vivente” di notevole significato per il rispetto dei valori fondamentali e ancor più per l’impulso pressante all’introduzione di fonti normative che diano uniformità e stabilità alle pronunce giurisdizionali.

La “Rassegna” rappresenta dunque uno dei principali approfondimenti - realizzato attraverso una costante e ragionata analisi del lavoro esegetico del giudice di legittimità e dei principi di diritto di volta in volta affermati - utili per l’attuazione degli evocati valori fondamentali di uniformità e di prevedibilità della giurisdizione.

 

Roma, gennaio 2012

(Domenico Carcano)

TOMO I - Anno 2011 -- PARTE I - LE QUESTIONI CONTROVERSE --- SEZIONE I - DIRITTO PENALE 

  • frode fiscale
  • sequestro di beni

Cap. 1

Il concorso apparente di norme

Sommario

1 I rapporti tra la frode fiscale e la truffa aggravata ai danni dello Stato. - 2 I rapporti tra il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a pignoramento o a sequestro e l'illecito amministrativo di messa in circolazione da parte del custode del veicolo oggetto di sequestro amministrativo.

1. I rapporti tra la frode fiscale e la truffa aggravata ai danni dello Stato.

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere

«se sussista o meno rapporto di specialità (o di consunzione) tra i reati di frode fiscale (nella specie, sotto il profilo dell'infedele dichiarazione IVA mediante ricorso a fatturazioni per operazioni inesistenti) e di truffa aggravata ai danni dello Stato».

Sotto la vigenza dell'abrogata legge n. 516 del 1982, la questione giuridica controversa era stata, seppure incidentalmente, affrontata dalla Sezioni Unite penali, a parere delle quali «il delitto di frode fiscale può concorrere, attesa l'evidente diversità del bene giuridico protetto, con quello di truffa comunitaria, purché allo specifico dolo di evasione si affianchi una distinta ed autonoma finalità extratributaria non perseguita dall'agente in via esclusiva; il relativo accertamento, riservato al giudice di merito, se adeguatamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità»[2]. Peraltro, questa condizione non ricorreva nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte; il principio necessitava, comunque, di una ulteriore meditazione all'indomani del D. Lgs. n. 74 del 2000, che ha riformato l'intera disciplina dei reati tributari.

Si erano, al riguardo, formati tre orientamenti:

(a) un orientamento, minoritario, escludeva l'esistenza di un rapporto di specialità tra le due ipotesi di reato in oggetto, ammettendo, pertanto, la configurabilità del concorso tra le due fattispecie: la ragione dell'inapplicabilità del principio di specialità era rinvenuta nella circostanza che si tratta di reati diretti alla tutela di interessi diversi, caratterizzati da elementi costitutivi disomogenei (in quanto la frode fiscale non richiede l'effettiva induzione in errore dell'Amministrazione finanziaria, né il conseguimento dell'ingiusto profitto con danno dell'Amministrazione)[3];

(b) l'orientamento maggioritario sosteneva, al contrario, la sussistenza del rapporto di specialità tra le fattispecie de quibus, concludendo che l'unica fattispecie che poteva formare oggetto di contestazione era quella prevista dalla normativa tributaria. Le ragioni addotte a sostegno dell'esclusione del concorso, e della conseguente configurabilità dei soli reati tributari, erano molteplici: (b1) il reato tributario de quo è connotato da uno specifico artificio (costituito dall'utilizzo di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti) e da una condotta a forma vincolata (l'indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi e alle imposte sul valore aggiunto); (b2) l'evento di danno, consistente nel conseguimento di un indebito vantaggio, non è sufficiente a porre le norme - quella tributaria e quella comune - in rapporto di specialità reciproca, perché il suo verificarsi è stato deliberatamente posto dal legislatore al di fuori della fattispecie oggettiva, rendendo così indifferente che esso si verifichi, e postulandosi come necessaria soltanto la sussistenza del collegamento teleologico sotto il profilo intenzionale; (b3) il reato tributario, quale delitto "speciale", si connota come reato di pericolo o di mera condotta, per il quale la tutela è anticipata, perché la sua consumazione prescinde dal verificarsi dell'evento di danno (l'indebito rimborso: v. art. 1, lett. d), D. Lgs., n. 274 del 2000), posto solo in rapporto teleologico dall'elemento intenzionale, caratterizzato come dolo specifico; (b4) la "specialità" del reato tributario rispetto al reato comune (art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen.) è confermata dai meccanismi della repressione penal-tributaria e dai connessi incentivi al "ravvedimento": in particolare, l'esclusione della rilevanza del tentativo (art. 6 D. Lgs. n. 274 del 2000) e del concorso di persone (art. 9 D. Lgs. n. 274 del 2000) - che escludono che possano ascriversi anche a titolo di truffa ai danni dello Stato quelle condotte che previste e sanzionate nel D. Lgs. n. 274 del 2000 - non hanno altra diretta finalità che l'evasione o l'elusione della obbligazione tributaria; (b5) la negazione della sussistenza del rapporto di specialità tra la frode fiscale e la truffa ai danni dell'erario si porrebbe in palese contrasto con la linea di politica criminale e con la stessa ratio che ha ispirato il legislatore nel dettare le linee portanti della innovativa riforma introdotta con il D. Lgs. n. 74 del 2000: se, infatti, nonostante il cosiddetto condono e la previsione della non punibilità per i delitti di frode fiscale e per tutti quelli commessi per eseguirli od occultarli, residuasse il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, si verserebbe in un'inverosimile ipotesi di istigazione normativa alla commissione del delitto di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale (art. 361 cod. pen.); (b6) la "specialità" del delitto tributario rispetto a quello comune emerge anche dalla considerazione che qualsiasi condotta di frode al fisco, se non intende realizzare obiettivi diversi, non può che esaurirsi all'interno del quadro sanzionatorio delineato dall'apposita normativa: se, invece, l'attività di "cartiera" (circostanza, peraltro, esclusa nel caso sottoposto all'attenzione delle Sezioni Unite), oltre che consentire a terzi l'evasione del tributo (o a permettere indebiti rimborsi) è destinata a finalità ulteriori - tipica l'ipotesi dell'emissione di false fatture per consentire ad un operatore di ottenere indebitamente contributi, comunitari e non -, è evidente che non potrà sussistere alcun problema di rapporto di specialità fra norme, venendo in discorso una condotta finalisticamente "plurima" e tale da ledere o esporre a pericolo beni fra loro differenti[4];

(c) un orientamento intermedio[5] escludeva ugualmente la sussistenza del concorso tra le fattispecie criminose in esame, ma non sulla base del principio di specialità, in quanto mancherebbe l'identità naturalistica del fatto al quale le due norme si riferiscono (l'una, la frode fiscale, richiede un artificio peculiare; l'altra, la truffa, necessita per il suo perfezionamento di elementi - l'induzione in errore ed il danno - indifferenti per il reato tributario), bensì di quello di consunzione, «per il quale è sufficiente l'unità normativa del fatto, desumibile dall'omogeneità tra i fini dei due precetti, con conseguente assorbimento dell'ipotesi meno grave in quella più grave»; «l'apprezzamento negativo della condotta è tutto ricompreso nella prima norma [art. 2 D. Lgs. n. 74 del 2000] che prevede il reato più grave per cui il configurare anche la previsione meno grave [art. 640 cod. pen.], che di per sé integra una diversa fattispecie, comporterebbe un ingiusto moltiplicarsi di sanzioni penali»[6].

La dottrina ravvisava, in prevalenza, la sussistenza del rapporto di specialità tra le due fattispecie, ritenendo conseguentemente contestabile il solo delitto tributario.

Con sentenza del 28 ottobre 2010 - 19 gennaio 2011, n. 1235, Giordano ed altri, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, aderendo all'orientamento in precedenza dominante. I principi affermati sono stati così massimati:

Massime nn. 248864 - 5

In caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità (art. 15 cod. pen.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.

È configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (artt. 2 ed 8, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen.), in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all'interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale, quale l'ottenimento di pubbliche erogazioni. (La Corte, richiamando il cosiddetto principio di assimilazione sancito dall'art. 325 del T.F.U.E., ha precisato che le predette fattispecie penali tributarie, repressive anche delle condotte di frode fiscale in materia di I.V.A., esauriscono la pretesa punitiva dello Stato e dell'Unione Europea perchè idonee a tutelare anche la componente comunitaria, atteso che la lesione degli interessi finanziari dell'U.E. si manifesta come lesiva, in via diretta ed indiretta, dei medesimi interessi).

Il Supremo collegio ha premesso che la soluzione della questione giuridica controversa richiedeva la preliminare specificazione dei presupposti per la configurabilità o meno del concorso di reati. In proposito, sulla scia di precedenti orientamenti delle stesse Sezioni unite, oltre che della giurisprudenza costituzionale, si è osservato che «il criterio di specialità è da intendersi in senso logico-formale, ritenendo, cioè, che il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dal citato art. 15, possa ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse».

Peraltro, secondo un orientamento giurisprudenziale accolto in passato dalle Sezioni unite[7], occorrerebbe verificare se, al di là del principio di specialità, il concorso materiale dei reati debba essere escluso o meno, tenendo conto della volontà normativa eventualmente manifestata di valutare in termini di unitarietà le pur omogenee fattispecie. Si richiamava, in tal modo, il c.d. principio di consunzione (o di assorbimento), che troverebbe riconoscimento legislativo nello stesso art. 15 cod. pen.: detta disposizione, infatti, se, da un lato, sancisce il principio di specialità, dall'altro lato, ammette che esso subisca deroghe in favore della norma che prevede il reato più grave.

Successivamente, le stesse Sezioni unite[8] hanno, peraltro, osservato in senso contrario che «i criteri di assorbimento e di consunzione sono privi di fondamento normativo, perché l'inciso finale dell'art. 15 cod. pen. allude evidentemente alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici, che, in deroga al principio di specialità, prevedono, sì, talora l'applicazione della norma generale, anziché di quella speciale, considerata sussidiaria»; inoltre, «i giudizi di valore che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l'applicazione di una norma penale»: infatti, «un'incertezza incompatibile con il principio di legalità deriva anche dalla mancanza di criteri sicuri per stabilire quali e quante fra più fattispecie, pur ben determinate, siano applicabili».

Concludendo sul punto, si è evidenziato che «certamente, non può trascurarsi l'esigenza sottesa alla giurisprudenza che fa ricorso al criterio della consunzione, cioè il rispetto del principio del ne bis in idem sostanziale, ma tale rispetto è assicurato da una applicazione del principio di specialità, secondo un approccio strutturale, che non trascuri l'utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità», secondo quanto univocamente richiesto anche dalla giurisprudenza della Corte EDU[9], che considera la «prevedibilità» (foreseeability) della sanzione, e prima di essa, dell'interpretazione della norma penale incriminatrice, fatta propria dall'elaborazione giurisprudenziale, e quindi con riferimento (non alla mera, astratta, previsione della legge, bensì) alla norma "vivente" quale risultante dall'applicazione e dall'interpretazione dei giudici[10], alla stregua di un corollario del principio di legalità sancito dall'art. 7 della Convenzione EDU[11]. D'altro canto, anche quella giurisprudenza che fa riferimento al criterio di consunzione[12], lo utilizza ad integrazione o a conferma delle conseguenze applicative del principio di specialità, ed in funzione garantistica rispetto al destinatario della norma penale.

Le Sezioni Unite hanno, pertanto, concluso che, in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità sancito dall'art. 15 cod. pen. richiede che, ai fini dell'individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.

Applicando i principi affermati in generale al caso di specie, il Supremo collegio ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di specialità tra la frode fiscale (lex specialis) e la truffa aggravata ai danni dello Stato (lex generalis). Si è, in particolare, evidenziato che «la frode fiscale è connotata da uno specifico artifizio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Una volta chiarito che la condotta di cui alla frode fiscale è una specie del genere "artifizio", non si può far leva, per affermare la diversità dei fatti, sugli elementi danno e profitto, giacché questi dati fattuali di evento non possono trasformare una tale situazione di identità ontologica dell'azione in totale diversità del fatto»; per quanto riguarda l'evento di danno, esso è specificato nell'art. 1, comma 1, lett. d), D. Lgs. n. 74 del 2000, che include nel "fine di evadere le imposte" anche il fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d'imposta, «e il conseguimento di tale fine è posto come scopo della condotta tipica, cioè come caratterizzante l'elemento intenzionale e non rileva il suo conseguimento, in quanto il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, perché il legislatore ha inteso rafforzare in tal modo la tutela, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica, intendimento ulteriormente confermato dalla misura della sanzione, superiore (sia nel minimo che nel massimo) a quella prevista per il delitto di truffa aggravata».

Una conferma di tale assunto è desumibile dalla Relazione governativa al D. Lgs. n. 74 del 2000, nella quale si osserva che la dichiarazione fraudolenta «si connota come quella ontologicamente più grave: essa ricorre, infatti, quando la dichiarazione non soltanto non è veridica, ma risulta altresì "insidiosa", in quanto supportata da un "impianto contabile", o più genericamente documentale, atto a sviare o ad ostacolare la successiva attività di accertamento dell'amministrazione finanziaria, o comunque ad avvalorare artificiosamente l'inveritiera prospettazione di dati in essa racchiusi»: in tal modo, il legislatore ha mostrato di valutare «che la condotta descritta, oltre che essere connotata di particolare disvalore, è anche oggettivamente idonea a raggiungere lo scopo perseguito, cioè ad esporre concretamente a pericolo il bene tutelato; ciò spiega l'indifferenza dell'evento di danno nell'integrazione della fattispecie oggettiva. Lo stesso legislatore, peraltro, non considera irrilevante l'entità del profitto e del conseguente danno, posto che prevede una diminuzione della sanzione, parametrandola proprio ai suddetti elementi (artt. 2, comma 3, e 8, comma 3, D. Lgs. n. 74 del 2000), con la conseguenza che ritenere la configurabilità in concorso della truffa aggravata significherebbe svuotare di ogni valenza giuridica le soglie sanzionatorie».

La negazione del rapporto di specialità tra frode fiscale e truffa ai danni dell'Erario, si porrebbe, inoltre, in contraddizione con la linea di politica criminale e con la ratio che ha ispirato il legislatore nella riforma di cui al D. Lgs. n. 74 del 2000; la tesi prescelta trova, infine, conferma nella legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), «poiché ai sensi del combinato disposto del comma 6, lett. c), dell'art. 8 ("....il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta.....:...c) l'esclusione ad ogni effetto della punibilità per i reati tributari di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2...") e del comma 12 dello stesso articolo ("La conoscenza dell'intervenuta integrazione dei redditi e degli imponibili ai sensi del presente articolo non genera obbligo o facoltà della segnalazione di cui all'art. 331 cod. proc. pen. L'integrazione effettuata ai sensi del presente articolo non costituisce notizia di reato") deve ritenersi che il legislatore abbia escluso il concorso con il delitto di truffa ai danni dello Stato. Diversamente, non avrebbe stabilito l'esonero dalla denuncia e non avrebbe espressamente disposto che l'integrazione effettuata ai sensi dell'art. 8, legge cit. "non costituisce notizia di reato". D'altro canto, se si facesse rientrare la condotta del soggetto agente nella sfera di punibilità del delitto di truffa ai danni dello Stato, si avrebbe l'effetto di impedire il perseguimento delle finalità a cui l'intervento normativo è rivolto, poiché la legge sul condono ha lo scopo di evitare costi all'Amministrazione finanziaria invitando l'evasore a definire ogni pendenza con l'Erario attraverso il pagamento di una somma di denaro predeterminata».

In definitiva, qualsiasi condotta di frode al fisco non può che esaurirsi all'interno del quadro sanzionatorio delineato dall'apposita normativa; e le novelle legislative sopravvenute rispetto al D. Lgs. n. 74 del 2000[13], dimostrano ulteriormente «che il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all'interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell'interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali».

Si è, pertanto, concluso che «i reati in materia fiscale di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravata a danno dello Stato di cui all'art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen.». Si è anche precisato che, nelle ipotesi nelle quali dalla condotta di frode fiscale derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale, quale l'ottenimento di pubbliche erogazioni, deve ritenersi configurabile il concorso fra il delitto di frode fiscale e quello di truffa, poiché «l'ulteriore evento di danno che il soggetto agente si rappresenta non inerisce al rapporto fiscale, con la conseguenza che se l'attività frodatoria sia diretta non solo a fini di evasione fiscale, ma anche a finalità ulteriori, non sussiste alcun problema di rapporto di specialità tra norme, perché una stessa condotta viene utilizzata per finalità diverse e viola diverse disposizioni di legge e non si esaurisce nell'ambito del quadro sanzionatorio delineato dalle norme fiscali, con la conseguenza della concorrente punibilità di più finalità diverse compresenti nell'azione criminosa»[14].

2. I rapporti tra il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a pignoramento o a sequestro e l'illecito amministrativo di messa in circolazione da parte del custode del veicolo oggetto di sequestro amministrativo.

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere

«se sia configurabile il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro (art. 334 cod. pen.) nella condotta del custode del veicolo oggetto di sequestro amministrativo, ai sensi dell'art. 213 cod. strada, che si ponga alla guida dello stesso».

Con riguardo alla disciplina del concorso tra norme penali incriminatrici e norme amministrative sanzionatorie, introdotta dall'art. 9 legge n. 689 del 1981, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità - riprendendo sostanzialmente la posizione maggioritaria formatasi in relazione all'elaborazione dell'art. 15 cod. pen. con riguardo al concorso di norme penali incriminatrici - si era consolidato un orientamento che intendeva il criterio della specialità evocato dal citato art. 9 in senso logico-formale, ritenendo cioè che il presupposto della convergenza di norme - necessario ai fini dell'applicabilità della regola dell'individuazione della disposizione prevalente posta dall'articolo citato - fosse integrato solo in presenza di un rapporto di continenza strutturale tra le stesse, alla cui verifica doveva procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate. In tal senso, il fatto punito - cui fa riferimento la disposizione menzionata - non sarebbe quello in concreto realizzato dall'agente, bensì quello oggetto di incriminazione, e, pertanto, per accertare se norma penale e norma sanzionatoria amministrativa effettivamente interferiscono dovrebbe esclusivamente effettuarsi la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire la fattispecie tipica dalle stesse configurata. Marginali si sono rivelati invece gli interventi giurisprudenziali favorevoli ad accogliere una concezione della specialità in concreto, che rifugge dal confronto strutturale tra le fattispecie, ed analizza la convergenza tra norma penale ed amministrativa nella prospettiva del fatto concretamente realizzato, al fine di verificare la sua riconducibilità ad entrambe.

Successivamente alla depenalizzazione dell'illecito previsto nell'art. 213, comma quarto, cod. strada, la giurisprudenza di legittimità ha espresso orientamenti tra loro contrastanti sui rapporti tra detta fattispecie e quella di cui all'art. 334 cod. pen.:

(a) un orientamento, sviluppatosi soprattutto nell'ambito della Terza Sezione, e che risultava di gran lunga minoritario, configurava il concorso apparente tra norma incriminatrice penale e norma sanzionatoria amministrativa, risolvendolo, ai sensi del disposto del primo comma dell'art. 9 legge n. 689 del 1981, in favore della seconda, ritenuta speciale rispetto alla prima: la fattispecie sopra descritta integrerebbe soltanto l'illecito amministrativo previsto dall'art. 213 cod. strada e non anche il reato di cui all'art. 334 cod. pen.[15]; il principio veniva argomentato seguendo percorsi differenti, a volte riconoscendo la specialità della norma amministrativa a seguito del riconoscimento di un rapporto di continenza strutturale tra le due disposizioni in giuoco, altre volte presupponendo lo schema della specialità in concreto, o addirittura affermando la specialità dell'illecito amministrativo in ragione della specialità del corpo normativo in cui è configurato rispetto al codice penale;

(b) l'orientamento decisamente maggioritario escludeva qualsiasi relazione di specialità tra l'art. 334 cod. pen. e l'art. 213, comma quarto, cod. strada, ritenendo di conseguenza che la condotta di circolazione abusiva del veicolo sottoposto a sequestro amministrativo poteva integrare anche il delitto previsto dalla prima delle due disposizioni citate, e non solo l'illecito amministrativo configurato dalla seconda, in concorso formale eterogeneo tra illeciti, escludendo il concorso apparente di dette norme. Le pronunzie che si riconoscevano in questo orientamento impostavano il problema dell'eventuale concorso apparente tra le norme menzionate nell'ottica esclusiva del confronto strutturale tra fattispecie astratte, in tal senso giungendo a negare la continenza strutturale tra le medesime, soprattutto in considerazione della diversità delle condotte rispettivamente punite, del differente ambito di applicazione soggettiva dei due illeciti (reato proprio quello penale, illecito comune quello amministrativo), e dell'eterogeneità dei beni giuridici rispettivamente tutelati[16]. Una volta affermata l'astratta configurabilità del concorso tra il reato di cui all'art. 334 cod. pen. e l'illecito amministrativo di cui all'art. 213 cod. strada, nell'ambito dell'orientamento diverse erano le conclusioni quanto alle effettive condizioni di applicabilità della menzionata disposizione penale; alcune decisioni sembravano affermare che la circolazione abusiva del veicolo, punita autonomamente dalla norma amministrativa, integrerebbe in ogni caso la condotta di sottrazione prevista dalla norma penale incriminatrice[17], altre affermavano che, se lo spostamento non più controllabile del bene risultava effettivamente in grado, in astratto, di sottrarlo alla procedura ablatoria cui il sequestro era strumentale, sarebbe poi necessario verificare l'effettiva offensività della condotta concretamente posta in essere dall'agente, nonché l'esistenza in capo al medesimo del necessario dolo, al fine di escludere la rilevanza di quelle condotte che si risolvano nella momentanea e circoscritta utilizzazione del veicolo, e non siano sorrette dall'effettiva volontà di eludere il vincolo cautelare[18].

La questione controversa aveva ricevuto scarsa attenzione dalla dottrina.

Con sentenza del 28 ottobre 2010 - 21 gennaio 2011, n. 1963, P.M. in proc. Di Lorenzo, le Sezioni Unite, hanno risolto il contrasto, aderendo all'orientamento in precedenza minoritario. I principi affermati sono stati così massimati:

Massime nn. 248721 - 2

In caso di concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve trovare applicazione esclusivamente la disposizione che risulti speciale rispetto all'altra all'esito del confronto tra le rispettive fattispecie astratte.

La condotta di chi circola abusivamente con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo, ai sensi dell'art. 213 cod. strada, integra esclusivamente l'illecito amministrativo previsto dal quarto comma dello stesso articolo e non anche il delitto di sottrazione di cose sottoposte a sequestro di cui all'art. 334 cod. pen., atteso che la norma sanzionatoria amministrativa risulta speciale rispetto a quella penale, con la conseguenza che il concorso tra le stesse deve essere ritenuto solo apparente.

Il Supremo collegio ha premesso alcune brevi considerazioni riguardanti il principio di specialità, sia in generale, per quanto riguarda le fattispecie penali, sia con riferimento al concorso tra norme penali e violazioni di natura amministrativa, in particolare precisando che l'art. 15 cod. pen., con l'espressione «stessa materia», intende «la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico di reato nel quale si realizza l'ipotesi di reato», e richiamando un proprio precedente orientamento, che aveva chiarito come «il riferimento all'interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità, perché si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l'ingiuria, offensiva dell'onore, e l'oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell'amministrazione della giustizia»[19].

Si è poi chiarito che, nei casi di specialità c.d. unilaterale, caratterizzati dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale sono ricompresi in quella c.d. speciale, che ne prevede anche di ulteriori, ricorre certamente l'ipotesi del "concorso apparente", per cui deve ritenersi applicabile soltanto la fattispecie speciale: «ma perché possa ritenersi applicabile l'art. 15 cod. pen. è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare tutti la medesima materia ed avere identità di struttura. Tale è, per es., il rapporto tra le fattispecie criminose previste dagli artt. 610 e 611 cod. pen. o tra quelle previste dagli artt. 624 e 626 cod. pen.».

Diversamente, nel caso di specialità bilaterale o reciproca, nel quale entrambe le fattispecie (ma potrebbero essere anche più di due) presentano, rispetto all'altra, elementi di specialità, giurisprudenza e dottrina si rifanno a indici diversi: (a) i diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese (per es. cod. civ. e legge fall.); (b) la specialità tra soggetti (per es. 616 e 619 cod. pen.); (c) la fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti. In tali casi, spesso è la stessa legge ad indicare quale sia la norma prevalente, attraverso una clausola di riserva che può essere: (a) determinata (al di fuori delle ipotesi previste dall'art. ...); (b) relativamente determinata (si individua una categoria: per es.: se il fatto non costituisce un più grave reato); (c) indeterminata (quando il rinvio è del tipo se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge).

Il concorso di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative (e quello tra norme che prevedono violazioni amministrative), è disciplinato dall'art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in base al quale, se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale; l'art. 9 cit., diversamente dall'art. 15 cod. pen., invece di parlare di "stessa materia", fa riferimento allo "stesso fatto": «non è però da ritenere che con questa formula il legislatore abbia inteso fare riferimento alla specialità in concreto dovendosi al contrario ritenere che il richiamo sia fatto alla fattispecie tipica prevista dalle norme che vengono in considerazione evitando quella genericità che caratterizza l'art. 15 cod. pen. con il riferimento alla materia. Valgono infatti, nel caso di concorso tra fattispecie penali e violazioni di natura amministrativa, le medesime considerazioni in precedenza espresse sulla necessità che il confronto avvenga tra le fattispecie tipiche astratte e non tra le fattispecie concrete. Il che, del resto, è confermato dal tenore dell'art. 9 che, facendo riferimento al "fatto punito", non può che riferirsi a quello astrattamente previsto come illecito dalla norma e non certo al fatto naturalisticamente inteso».

Ciò premesso, per risolvere la questione controversa si è preliminarmente proceduto ad esaminare la struttura del reato e della violazione amministrativa del cui concorso si discute.

Si è, in particolare, osservato che l'art. 334 cod. pen. disciplina due ipotesi, l'una prevista dal primo comma (che può essere commessa solo da chi ha in custodia la cosa e si realizza con condotte alternative analiticamente indicate - sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione, deterioramento -), che richiede in capo all'agente l'esistenza del dolo specifico (lo scopo di favorire il proprietario della cosa); l'altra, che viene maggiormente in considerazione, prevista dal secondo comma, nella quale le condotte tipiche già descritte sono realizzate dal proprietario che sia anche custode. Entrambe le ipotesi «sono caratterizzate, rispetto all'ipotesi prevista dal codice della strada, dalla circostanza che si tratta di reati "propri" che possono essere commessi esclusivamente dal custode (comma primo; ma anche l'ipotesi colposa prevista dall'art. 335) o dal proprietario custode (comma secondo); questa è una prima rilevante differenza con l'illecito di carattere amministrativo perché la condotta prevista dal comma 4 dell'art. 213 cod. strada può essere realizzata da "chiunque"».

A loro volta gli elementi specializzanti contenuti nell'art. 213 sono costituiti dalle circostanze che la norma si riferisce al solo sequestro amministrativo previsto dal medesimo articolo e che non ogni condotta prevista dall'art. 334 integra l'ipotesi di illecito amministrativo ma esclusivamente la condotta di chi "circola abusivamente".

Si è poi proceduto a verificare se una delle condotte descritte dalla norma del codice penale sia sovrapponibile alla condotta di chi circola abusivamente, se cioè la circolazione abusiva realizzi anche uno dei fatti tipici descritti nell'art. 334, affermando che tra le condotte descritte nell'art. 334 cod. pen., l'unica per la quale può affermarsi una corrispondenza e sovrapposizione tra i fatti descritti nelle due norme è la sottrazione (amotio), laddove il problema del concorso apparente neppure si pone per quanto riguarda le altre condotte previste dalla norma codicistica (soppressione, distruzione, dispersione e deterioramento), che nulla hanno a che vedere con la circolazione del veicolo. Si è, tuttavia, precisato che la condotta di sottrazione deve essere effettivamente caratterizzata da offensività «che valga a far ritenere esistente una reale sottrazione, eventualmente anche temporanea, non soltanto alla disponibilità del bene ma altresì all'esercizio dei poteri di controllo esercitati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità amministrativa (non deve dunque trattarsi del semplice spostamento del veicolo da un luogo ad un altro senza che lo stesso venga sottratto alla possibilità di esercizio di questi poteri ma si deve trattare di un uso incompatibile con le finalità del sequestro)».

Fatte queste considerazioni, si è ritenuto che nel caso proposto in esame dovesse essere ritenuta l'esistenza della sola violazione amministrativa prevista dall'art. 213 cod. strada: «l'esame della struttura delle due ipotesi di illecito in considerazione conferma l'ipotesi della sola apparenza del concorso; in particolare questo esame consente di escludere che il concorso di norma possa essere inquadrato nella fattispecie della specialità bilaterale o reciproca. Infatti tutti gli elementi specializzanti qualificanti l'illecito sono contenuti nell'art. 213: la circolazione abusiva e la natura amministrativa del sequestro».

Si tratta di elementi specializzanti "per specificazione", essendo entrambi già ricompresi nella fattispecie tipica dell'art. 334 cod. pen. e non si aggiungono al fatto descritto nella norma codicistica: «se la sottrazione si realizza anche con la sola amotio del veicolo questa condotta è prevista dalla norma del codice penale che, sotto il diverso profilo indicato, prevede espressamente anche il sequestro disposto dall'autorità amministrativa».

Nell'art. 213 è individuabile un ulteriore elemento specializzante: «la circostanza che la violazione amministrativa possa essere commessa da "chiunque" e questo elemento può essere ritenuto specializzante "per aggiunta" (l'illecito può essere commesso - in aggiunta ai soggetti indicati nell'art. 334 cod. pen. - anche da persone che non hanno quelle qualità)».

Sulla base di queste considerazioni, la risoluzione della questione controversa è apparsa obbligata: «gli elementi specializzanti sono tutti contenuti nell'art. 213, comma 4, cod. strada e dunque questa norma deve essere ritenuta speciale ai sensi dell'art. 9, comma primo, legge 24 novembre 1981, n. 689 (ma lo sarebbe anche con l'applicazione dell'art. 15 cod. pen.) con la conseguenza che il concorso con l'art. 334 cod. pen. - limitatamente alla condotta di chi circola abusivamente con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo in base alla medesima norma - deve essere ritenuto apparente. Né l'identità del fatto può essere negata in considerazione della (peraltro parziale) diversità dell'oggetto giuridico della tutela nel caso in esame per le considerazioni già svolte sull'irrilevanza di questo criterio che porterebbe ad escludere la specialità nei casi già indicati per i quali è pacificamente da sempre riconosciuta l'apparenza del concorso».

Si è, pertanto, conclusivamente ritenuto che, nel caso in esame, il concorso tra gli artt. 334 cod. pen. e 213, comma quarto, cod. strada fosse solo apparente, risultando configurabile soltanto la violazione amministrativa prevista da quest'ultimo.

  • impunità

Cap. 2

La punibilità

Sommario

1 Le cause di estinzione del reato. La ricusa della remissione di querela in caso di mancata comparizione in udienza.

1. Le cause di estinzione del reato. La ricusa della remissione di querela in caso di mancata comparizione in udienza.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se la mancata comparizione in udienza del querelato, ritualmente citato, integri accettazione tacita della remissione della querela, sia stato, il querelato, preavvertito o meno di detta remissione».

Un orientamento riteneva che, in difetto della prova che l'imputato fosse venuto a conoscenza della remissione di querela, "la mancata comparizione dell'imputato all'udienza non può essere interpretata di per sè sola come volontà di accettare la remissione della querela"[20]; si evidenziava, in particolare, che ogni comportamento deve essere volontario e consapevole, che la mancata prova della conoscenza dell'intervenuta remissione di querela non consente di trarre conseguenze giuridiche da comportamenti involontari ed inconsapevoli, e che la mancata comparizione in giudizio del querelato costituisce espressione neutra del diritto del prevenuto di non partecipare al procedimento rimanendo contumace.

Altro orientamento attribuiva, al contrario, alla mancata comparizione dell'imputato - previamente edotto, con atto notificatogli regolarmente, che la sua assenza all'udienza sarebbe stata considerata come tacita accettazione dell'avvenuta remissione - l'inequivoca valenza di manifestazione della volontà di accettazione della remissione, in quanto, ai fini dell'efficacia giuridica della remissione di querela, non sarebbe indispensabile una esplicita e formale accettazione, cioè una manifestazione positiva di volontà di accettazione, ma sarebbe sufficiente, ex art. 155, comma 1, cod. pen., l'assenza di ricusa in forma espressa o tacita: allorché alla remissione di querela effettuata dalla persona offesa segue l'assenza dell'imputato nella successiva udienza, appositamente fissata, come da avviso notificato regolarmente, in concreto l'imputato pone in essere un comportamento di mancata ricusa della remissione[21].

Alcune decisioni prescindevano dall'accertamento in concreto della consapevolezza da parte dell'imputato dell'intervenuta remissione, considerando la mancata partecipazione dell'imputato al dibattimento come un comportamento di indifferenza alle sorti processuali, costituente espressione di assenza di rifiuto della remissione[22].

Una isolata decisione aveva ritenuto che "la mancata comparizione all'udienza del querelato contumace non integra accettazione tacita della remissione della querela neppure ove egli sia venuto a conoscenza di detta remissione"[23].

Con sentenza del 25 maggio - 13 luglio 2011, n. 27610, P.G. in proc. Marano, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 250201

L'omessa comparizione in udienza del querelato, posto a conoscenza della remissione della querela o posto in grado di conoscerla, integra, ex art. 155, comma primo, cod. pen., la mancanza di ricusa idonea a legittimare la pronuncia di estinzione del reato.

Le Sezioni Unite hanno rilevato che la questione controversa poteva essere «linearmente» risolta sulla base dei dati normativi: «il querelato può accettare espressamente la remissione della querela, con formalità analoghe a quelle previste per l'atto di remissione (art. 340 cod. proc. pen., comma 1). Ma, se non vi è un atto di accettazione espressa, perché si producano nondimeno gli effetti giuridici conseguenti alla remissione, la legge non pone come condizione che vi sia una "accettazione tacita". Infatti, nonostante che la rubrica dell'art. 155 cod. pen. sia intitolata (impropriamente) "Accettazione della remissione", ciò che normativamente si richiede (comma primo) è che il querelato non abbia "espressamente o tacitamente" ricusato la remissione; verificandosi la "ricusa tacita" "quando il querelato ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di accettare la remissione". Il comportamento concludente preso in considerazione dall'art. 155 c.p., comma 1, non è, dunque, quello attraverso cui si renda percepibile una adesione del querelato alla remissione di querela, ma attiene a una tacita manifestazione di volontà diretta a impedirla: non un comportamento positivo - di accettazione - ma uno negativo - di rifiuto -».

Può dirsi, allora, che l'accettazione si presume, purché non vi siano fatti indicativi di una volontà contraria del querelato, purché quest'ultimo si trovi in grado di accettare o rifiutare.

Dalla ricusa della remissione, e corrispondentemente dalla mancata ricusa, derivano conseguenze rilevanti quali la prosecuzione del giudizio (nella prima ipotesi) e la condanna del querelato al pagamento delle spese processuali (nella seconda), come disposto dall'art. 340 cod. proc. pen., comma 4, modificato dalla L. 25 giugno 1999, n. 205, art. 13[24]: «ora, a parte l'eventuale interesse del querelato ad ottenere una positiva affermazione giudiziale della sua innocenza in ordine al fatto addebitatogli dal querelante, la previsione della sua condanna al pagamento delle spese processuali esige razionalmente che colui che la subisce sia posto nelle condizioni di ricusare la remissione della querela. Tale situazione non può dirsi sussistere quando il querelato non sia a conoscenza (o non sia stato messo in grado di essere a conoscenza) della intervenuta remissione; in detta ipotesi egli non può consapevolmente decidere se rifiutare (espressamente o tacitamente) la remissione e quindi proseguire il giudizio, nella prospettiva di ottenere una pronuncia sul merito del fatto-reato addebitatogli e, ad un tempo, di scansare l'onere delle spese processuali».

Per la decisione della questione controversa assume, quindi, rilievo l'accertamento della conoscenza (o, almeno, della conoscibilità) dell'avvenuta remissione nei casi in cui l'imputato-querelato non sia comparso in udienza: «ed invero l'imputato, che sia a conoscenza o sia comunque posto in grado di conoscere l'intervenuta remissione della querela, e che omette di presentarsi in dibattimento non pone in essere un comportamento neutro che è mera espressione del suo diritto di non partecipare al dibattimento rimanendo contumace, ma, disinteressandosi della prosecuzione e dell'esito del procedimento, manifesta la propria volontà di non ricusare la remissione. La disciplina sostanziale che regola diversamente la remissione tacita di querela e la ricusa tacita della remissione non consente di sovrapporre le due fattispecie e di negare conseguenze alla mancata comparizione del querelato (come invece correttamente statuito con le Sez. unite, Viele, per l'omessa comparizione del querelante con riferimento alla remissione tacita)».

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen., il seguente principio di diritto: «la omessa comparizione in udienza del querelato, posto a conoscenza dell'avvenuta remissione della querela o posto in grado di conoscerla, integra mancanza di ricusa idonea per la pronuncia di estinzione del reato per tale causa».

  • circostanza aggravante
  • politica di sicurezza e di difesa comune

Cap. 3

La pericolosità sociale

Sommario

1 La recidiva: natura giuridica e conseguenze in tema di concorso di circostanze aggravanti. - 2 Le misure di sicurezza. I rapporti tra libertà vigilata e ricovero in casa di cura e custodia ove sopravvenga l'infermità di mente del soggetto "prevenuto".

1. La recidiva: natura giuridica e conseguenze in tema di concorso di circostanze aggravanti.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se la recidiva, che può determinare un aumento di pena superiore a un terzo, sia circostanza aggravante ad effetto speciale e se, pertanto, soggiaccia, ove ricorrano altre circostanze aggravanti ad effetto speciale, alla regola dell'applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, con possibilità per il giudice di un ulteriore aumento».

L'orientamento dominante riconosceva alla recidiva natura giuridica di circostanza aggravante ad effetto speciale e, di conseguenza, riteneva applicabile, nel caso di concorso con altre circostanze, la regola dell'applicazione dell'aumento conseguente alla circostanza di maggiore gravità, salvo il potere del giudice di stabilire un ulteriore aumento fino ad un terzo[25]; si riteneva, in particolare, che "la recidiva reiterata, che è circostanza aggravante a effetto speciale, rileva, se contestata e ritenuta dal giudice, ai fini della determinazione del tempo necessario alla prescrizione del reato"[26]. Nell'ambito di questo orientamento era pacifico che la recidiva è circostanza aggravante ad effetto speciale, ma non sempre da questa premessa si traeva la conseguenza ulteriore dell'applicabilità, in caso di concorso con altre circostanze aggravanti ad effetto speciale, della regola codicistica di cui all'art. 63, comma 4, cod. pen.: ed, infatti, dopo aver ribadito che il dato testuale dell'art. 63, comma 3, cod. pen. non offre spunti per tener fuori dall'area delle circostanze aggravanti ad effetto speciale quelle soggettive, che ineriscono alla persona del colpevole, quale la recidiva, si era talora giunti alla conclusione che il disposto di cui all'art. 99, comma 5, cod. pen. in punto di obbligatorietà dell'aumento di pena per la recidiva nel caso in cui rilevi uno dei delitti indicati dall'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen. sancisce l'obbligatorietà di un doppio aumento di pena[27].

Un orientamento minoritario collocava la recidiva nella categoria delle circostanze inerenti alla persona del colpevole, e riteneva che tale qualificazione sarebbe alternativa a quella di circostanza aggravante ad effetto speciale, e, conseguentemente, che non dovesse aversi riguardo alla previsione di cui all'art. 63, comma 4, cod. pen. nel caso di concorso con circostanze aggravanti ad effetto speciale[28].

In dottrina, appariva nettamente prevalente l'orientamento già prevalente nell'ambito della giurisprudenza; le voci più autorevoli precisavano, in particolare, che "il novellato art. 99, comma 5, prevede una nuova figura di recidiva (reiterata) obbligatoria che si riferisce al soggetto recidivo che commette uno dei delitti indicati nell'art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen.": questa disciplina si connota per l'assenza di un qualsivoglia nesso tra le tipologie di reati di cui all'elenco contenuto nella normativa processuale e "il giudizio di maggiore pericolosità legislativamente presunta certamente quando i delitti precedentemente commessi sono di modesta entità ovvero non v'è omogeneità tra i delitti precedenti e quelli successivi".

Con sentenza del 24 febbraio - 24 maggio 2011, n. 20798, P.G. in proc. Indelicato, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, condividendo l'orientamento in precedenza dominante; il principio affermato è stato così massimato:

Massima n. 249664

La recidiva è circostanza aggravante ad effetto speciale quando comporta un aumento di pena superiore a un terzo, e, pertanto, soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo, alla regola dell'applicazione della pena prevista per la circostanza più grave, e ciò pur quando l'aumento che ad essa segua sia obbligatorio, per avere il soggetto, già recidivo per un qualunque reato, commesso uno dei delitti indicati all'art. 407, comma secondo, lett. a), cod. proc. pen. (La Corte ha precisato che è circostanza più grave quella connotata dalla pena più alta nel massimo edittale e, a parità di massimo, quella con la pena più elevata nel minimo edittale, con l'ulteriore specificazione che l'aumento da irrogare in concreto non può in ogni caso essere inferiore alla previsione del più alto minimo edittale per il caso in cui concorrano circostanze, delle quali l'una determini una pena più severa nel massimo e l'altra più severa nel minimo).

Le Sezioni Unite hanno preliminarmente valutato la natura giuridica della recidiva, nei casi in cui essa comporti un aumento di pena superiore ad un terzo: dopo aver ricordato che «in un'ottica sostanziale le circostanze rappresentano altrettanti elementi capaci di incidere sulla gravità del fatto o sulla intensità della capacità criminale del soggetto e assolvono alla funzione di adeguare la risposta sanzionatoria alla gravità del reato, che può dipendere dalla presenza di elementi significativi, diversi e ulteriori rispetto a quelli essenziali», e che «dal punto di vista tecnico formale le circostanze devono essere oggetto di una specifica previsione legislativa, in quanto accedono - integrandosi con essa - ad una fattispecie incriminatrice già costituita nei suoi elementi essenziali e comportano, rispetto ad essa, una variazione di pena che può essere stabilita in modo proporzionale oppure indipendente rispetto alla pena prevista per il reato base cui le circostanze accedono. Quale che sia il sistema di variazione, proporzionale o indipendente, le circostanze hanno, comunque, efficacia extraedittale», sono stati riepilogati i criteri di classificazione delle circostanze, e si è evidenziato che «la recidiva, al pari di altri elementi la cui natura circostanziale non è posta in discussione, esplica un'efficacia extraedittale, atteso che é idonea a condurre la sanzione finale oltre i tetti di pena fissati dalla comminatoria edittale, e, al contempo, assolve alla funzione di commisurazione della pena, fungendo da strumento di adeguamento della sanzione al fatto, considerato sia nella sua obiettiva espressione che nella relazione qualificata con il suo autore».

Si è, inoltre, precisato che la recidiva è «una circostanza pertinente al reato che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status e il fatto che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all'epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale. In coerenza con tale impostazione si ritiene che la recidiva reiterata (art. 99, comma quarto, cod. pen.) sia una circostanza facoltativa nell'an e vincolata nel quantum, e, invece, obbligatoria nell'an e vincolata nel quantum nell'ipotesi prevista dall'art. 99, comma quinto, cod. pen (...). Questa giustificazione costituzionale[29] dell'istituto impone il ripudio di qualsiasi automatismo, ossia dell'instaurazione presuntiva di una relazione qualificata tra status della persona e reato commesso e il recupero della valutazione discrezionale cui è correlato uno specifico obbligo motivazionale».

La piena adesione alla concezione della recidiva quale circostanza aggravante comporta che «essa sia produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi e la dichiari, verificando non solo l'esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna (presupposto che, nel caso di recidiva obbligatoria, è necessario e sufficiente), ma anche, nel caso di recidiva facoltativa, del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente. E' sotto tale profilo che viene in rilievo la distinzione tra riconoscimento della recidiva - per tale dovendosi intendere la verifica dell'esistenza dei presupposti formali e sostanziali della stessa - e applicazione della recidiva, avuto riguardo alla sua effettiva incidenza sul meccanismo di determinazione della pena (...). Una circostanza aggravante deve essere riconosciuta come applicata non solo quando nel processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga, ai sensi dell'art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri e, cioè, quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare per il reato oggetto del giudizio »[30].

Il rifiuto di ogni forma di automatismo nel riconoscimento e nell'applicazione della recidiva, intesa come circostanza aggravante, opera su due piani, quello relativo all'aumento della sanzione e quello concernente gli effetti secondari o indiretti della recidiva: «sotto il primo profilo, le limitazioni al giudizio di valenza imposte dall'art. 69, comma quarto, cod. pen. devono essere interpretate nel senso che le circostanze attenuanti non possono essere dichiarate prevalenti sulle aggravanti soltanto in due ipotesi: qualora sussistano i presupposti della recidiva obbligatoria oppure nel caso in cui il giudice ritenga di applicare la recidiva facoltativa ex art. 99, comma quarto, cod. pen., ravvisando la sussistenza dei relativi presupposti formali e sostanziali (...). Pure nel caso di recidiva reiterata, quindi, la meritevolezza della maggior pena, anche in rapporto al concorso eterogeneo di circostanze, deve essere apprezzata in concreto».

Sotto il secondo profilo, con riferimento agli effetti secondari della recidiva, le Sezioni Unite hanno recentemente ritenuto la necessità dell'aumento di pena in concreto (o, se del caso, della valutazione di meritevolezza) quale presupposto per l'attivazione di varie discipline speciali attualmente operanti nei confronti del recidivo[31].

A parere delle Sezioni Unite, «il giudizio sulla recidiva non riguarda l'astratta pericolosità del soggetto o un suo status personale svincolato dal fatto reato. Il riconoscimento e l' applicazione della recidiva quale circostanza aggravante postulano, piuttosto, la valutazione della gravità dell'illecito commisurata alla maggiore attitudine a delinquere manifestata dal soggetto agente, idonea ad incidere sulla risposta punitiva - sia in termini retributivi che in termini di prevenzione speciale - quale aspetto della colpevolezza e della capacità di realizzazione di nuovi reati, soltanto nell'ambito di una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso, che deve essere concretamente significativo - in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, e avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 cod. pen. - sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo».

Considerazioni in parte diverse devono essere svolte in merito all'ipotesi prevista dall'art. 99, comma quinto, cod. pen., che disciplina un caso di recidiva obbligatoria nell' an e vincolata nel quantum in relazione ad un catalogo di reati che, nelle originarie intenzioni del legislatore, doveva selezionare i casi di indagini fisiologicamente complesse (art. 407, comma 2, lett. a, cod. proc. pen.): detta fattispecie è applicabile nei confronti del soggetto, già recidivo per un qualunque reato, che commetta un delitto riconducibile al catalogo di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., a nulla rilevando che vi rientri anche il delitto per cui vi è stata precedente condanna: «l'incipit della norma ("se si tratta di uno dei delitti indicati all'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.") e la sua stessa collocazione rendono evidente che la previsione contenuta nel quinto comma dell'art. 99 cod. pen. affianca alle diverse forme di recidiva facoltativa, disciplinate dai primi quattro commi, altrettante forme di recidiva obbligatoria, sottoposte, di regola, ai medesimi aumenti di pena previsti per le corrispondenti ipotesi di recidiva facoltativa, salvo che per il caso previsto per la recidiva obbligatoria monoaggravata, per la quale l'aumento di pena spazia da un terzo alla metà (art. 99, commi secondo e quinto, cod. pen.), mentre la corrispondente ipotesi di recidiva facoltativa prevede un aumento fino alla metà».

Una volta chiarita la natura della recidiva quale circostanza del reato e, in particolare, quale circostanza aggravante soggettiva, le Sezioni Unite sono passate a valutare se essa possa essere qualificata come circostanza aggravante ad effetto speciale. Dopo avere esposto le ragioni per le quali l'orientamento minoritario non appare condivisibile[32], si è ricordato che l'art. 63, comma terzo, cod. pen. comprende nella categoria delle circostanze ad effetto speciale le ipotesi in cui sia stabilito un aumento (o una diminuzione) di pena, frazionario o autonomo, superiore ad un terzo: «sotto quest'ultimo profilo, quindi, avuto riguardo alle modalità di previsione legislativa, appare condivisibile l'orientamento maggioritario espresso da questa Corte che qualifica le ipotesi di recidiva disciplinate dal secondo, terzo, quarto e quinto comma dell'art. 99 cod. pen. come circostanze ad effetto speciale, avuto riguardo al criterio edittale».

Non è stato, infine, condiviso l'orientamento formatosi nell'ambito di quello maggioritario, e secondo il quale, pur se la recidiva qualificata rientra tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale, da questa affermazione non conseguirebbe sempre l'applicabilità della regola fissata dall'art. 63, comma quarto, cod. pen., qualora tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale che concorrono sia compresa la recidiva c.d. obbligatoria (art. 99, comma quinto, cod. pen.): «questa opzione interpretativa non appare condivisibile. Innanzitutto delinea una sorta di statuto speciale del quinto comma all'interno dell'art. 99 cod. pen. che non trova adeguati riscontri nell'interpretazione letterale e logicosistematica della norma e ne esaspera la funzione e la portata applicativa, in aperto contrasto con il canone dell'interpretazione conforme alla Costituzione, imposta, innanzitutto, dal principio di offensività, oltre che dal principio di proporzionalità, coniugato con quello di ragionevolezza della pena e dalla funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.). In secondo luogo, in aperto contrasto con le premesse dogmatiche da cui muove, prospetta la creazione di una circostanza aggravante ad effetto speciale sui generis, idonea a superare, pur in assenza di qualsivoglia deroga espressa, la preesistente regola generale posta dall'art. 63, comma quarto, cod. pen. che, in caso di concorso omogeneo di circostanze aggravanti ad effetto speciale, prevede un cumulo giuridico e non materiale».

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen., il seguente principio di diritto: «la recidiva, che può determinare un aumento di pena superiore ad un terzo, è una circostanza aggravante ad effetto speciale e, pertanto, soggiace, ove ricorrano altre circostanze aggravanti ad effetto speciale, alla regola dell'applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, con possibilità per il giudice di un ulteriore aumento».

Si è anche precisato, in accordo con l'orientamento dominante[33], che, al fine di stabilire quale sia la circostanza ad efficacia speciale più grave, «il criterio che appare maggiormente rispettoso dei principi costituzionali di soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma secondo, Cost.) e di uguaglianza (art. 3 Cost.) è quello riferito alle valutazioni astratte compiute dal legislatore per la predeterminazione degli aumenti di pena, seguito anche in altri ambiti, quali, ad esempio, quello della competenza per materia (art. 4 cod. proc. pen.), per connessione (art. 16, comma 1, cod. proc. pen.), nonché dell'applicazione di misure cautelari personali». Di conseguenza, per stabilire, ai fini di cui all'art. 63, comma quarto, cod. pen., quale, fra più circostanze contestate ed effettivamente ritenute dal giudice, sia la più grave si deve avere riguardo al massimo della pena edittale prevista e, in caso di parità del massimo edittale, al maggior minimo e non, invece, alla pena in concreto irrogabile; inoltre, «attesa l'identità di ratio esistente tra il concorso formale e la continuazione fra i reati e il concorso di circostanze aggravanti, istituti tutti volti a mitigare il rigore del cumulo materiale delle pene, è possibile concludere che costituisce un principio di carattere generale, valido anche nel caso disciplinato dall'art. 63, comma quarto, cod. pen., quello in base al quale, in caso di concorso omogeneo di circostanze aggravanti ad effetto speciale, qualora una di esse sia punita con una pena più elevata nel massimo e l'altra con una pena più elevata nel minimo, la sanzione da irrogare in concreto non può essere inferiore a quest'ultima previsione edittale».

Sulla base di tali considerazioni, è stato conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: «in caso di concorso omogeneo di circostanze aggravanti ad effetto speciale (art. 63, comma quarto, cod. pen.), l'individuazione della circostanza più grave sulla base del massimo della pena astrattamente prevista non può comportare, in presenza di un'altra aggravante il cui limite minimo sia più elevato, l'irrogazione di una pena ad esso inferiore».

2. Le misure di sicurezza. I rapporti tra libertà vigilata e ricovero in casa di cura e custodia ove sopravvenga l'infermità di mente del soggetto "prevenuto".

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata in conseguenza della dichiarazione di abitualità nel reato possa essere sostituita, per sopravvenuta infermità di mente, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia».

Un orientamento aveva ritenuto legittima la sostituzione della libertà vigilata con il ricovero in una casa di cura e custodia del condannato che avesse commesso gravi violazioni delle prescrizioni inerenti alla misura di sicurezza non detentiva ed avesse manifestato conclamate e gravi turbe psichiche dopo la condanna, senza che fosse necessario accertarlo mediante perizia psichiatrica.

Una decisione non recente, in contrasto con il motivo di ricorso che affermava l'inapplicabilità, in partenza, della misura del ricovero in casa di cura e di custodia nei confronti di una persona affetta da totale infermità di mente, aveva, in particolare, ritenuto che l'art. 232 cod. pen. stabilisce l'applicabilità della libertà vigilata solo in quanto sia possibile l'affidamento dell'infermo totale di mente ai genitori, a coloro che hanno l'obbligo di provvedere alla sua educazione od assistenza, oppure ad istituti di assistenza: qualora l'affidamento non sia invece possibile, o risulti in concreto inopportuno, il giudice deve ordinare il ricovero in un riformatorio o in una casa di cura e di custodia[34]. Successivamente, in relazione ad una fattispecie di infermità psichica sopravvenuta alla condanna, la Corte di cassazione, disattendendo l'impostazione del ricorrente (che, in caso di violazione della libertà vigilata, riteneva applicabili le sole misure previste dall'art. 231 cod. pen. e non anche la misura del ricovero in casa di cura e di custodia, ritenendo inconferenti gli artt. 148, 212 e 232 cod. pen.), aveva evidenziato in motivazione che "l'art. 232 c.p. esplicitamente prevede quale misura di sicurezza detentiva possa essere applicata, quando un soggetto affetto da problemi psichici violi la libertà vigilata; costituisce quindi norma speciale rispetto all'art. 231 c.p. e ai casi ivi disciplinati ... anche perché consente un trattamento più favorevole al condannato, che in tali strutture può anche essere curato[35].

Altro orientamento (cui l'ordinanza di rimessione mostrava di aderire) escludeva, invece, che, in caso di infermità psichica sopravvenuta, potesse sostituirsi la libertà vigilata con il ricovero in casa di cura e custodia. A sostegno dell'assunto, si evidenziava, in primo luogo, che il sottosistema delle misure di sicurezza detentive per il delinquente pericoloso perché infermo - o seminfermo - di mente, è rigorosamente condizionato all'esistenza di una sentenza che riconosca la colpevolezza, l'infermità dell'agente e la pericolosità conseguente alla predetta infermità, e va nettamente distinto da quello delle misure applicabili al recidivo abituale: ciò sarebbe desumibile dal fatto che l'unica ipotesi espressamente prevista di "trasformazione" della misura di sicurezza applicata a soggetto imputabile in misura di sicurezza correlata ad infermità psichica, è quella prevista dall'art. 212, comma secondo, cod. pen., volutamente limitata al caso di persona sottoposta a "misura di sicurezza detentiva ... colpita da un'infermità psichica". In secondo luogo, si osservava che l'art. 232 cod. pen. si riferisce agli infermi psichici in stato di libertà vigilata e di infermità psichica: la disposizione, letta in combinato con l'art. 212 cod. pen., sembrerebbe chiaramente volta a disciplinare le sole situazioni in cui l'infermità psichica preesista all'applicazione della misura, e non già quelle in cui, applicata la misura per altro titolo di pericolosità, l'infermità sopraggiunga (ipotesi queste, per le quali il secondo comma dell'art. 212 cod. pen. consente la "sostituzione", a causa di una infermità sopravvenuta, della misura imposta per altre ragioni con l'OPG o la casa di cura e custodia, solo ove quella in atto sia già una misura detentiva).

L'opzione interpretativa prescelta troverebbe conferma nei seguenti ulteriori rilievi:

(a) diversamente opinando, l'analoga previsione del terzo comma dell'art. 232 cod. pen., riferita al minore, finirebbe per costituire mera ripetizione di quella contenuta nel secondo comma dell'art. 231 cod. pen., relativa all'aggravamento della libertà vigilata applicata al minore a causa delle violazioni alle prescrizioni imposte;

(b) l'omesso riferimento alla violazione delle prescrizioni della libertà vigilata troverebbe spiegazione, per l'infermo di mente, nel principio, che ispira l'art. 214, comma secondo, cod. pen., secondo cui l'inosservanza della misura di sicurezza da parte di persona inferma non può essere sanzionata;

(c) l'art. 232 cod. pen. non prevede la sostituzione del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario alla libertà vigilata in quanto, secondo l'impianto codicistico originario, la libertà vigilata non poteva mai essere applicata in luogo del ricovero in O.P.G.

La dottrina non aveva specificamente esaminato la questione controversa. Si era, in generale, affermato che l'istituto della trasformazione delle misure di sicurezza, consistente nella sostituzione di una misura ad un'altra, trova il suo fondamento nel principio dell'adeguatezza della specie di misura da applicare allo stato di pericolosità, adeguatezza la quale, secondo le linee che ispirano il sistema delle misure di sicurezza, deve aderire più e meglio possibile ai mutamenti che la personalità del reo può subire durante il corso dell'applicazione di una misura di sicurezza, allo scopo di imprimere la massima efficienza al mezzo curativo o rieducativo prescelto; era stato, talora, criticato negativamente il meccanismo, di cui all'art. 212, comma secondo, cod. pen., relativo alla possibilità di sostituzione della misura di sicurezza detentiva con l'ospedale psichiatrico giudiziario o la casa di cura e di custodia, in quanto caratterizzato da un evidente carattere presuntivo: autorevole dottrina aveva, in proposito, osservato che «il giudizio di pericolosità è strettamente connesso agli indici su cui di volta in volta esso si fonda; così, ad esempio, la pericolosità del delinquente abituale è legata alla reiterazione di una serie di fatti criminosi, quella del delinquente per tendenza si riporta alla sua "indole" e così via dicendo. Di conseguenza, la pericolosità su cui si basa la misura di sicurezza applicata a tali soggetti, non è lo stesso tipo di pericolosità che può dipendere da un'infermità psichica».

Con ordinanza del 28 aprile - 15 settembre 2011, n. 34091, Servadei, le Sezioni Unite, hanno risolto il contrasto, aderendo al secondo orientamento; il principio affermato è stato così massimato:

Massima n. 250349

La misura di sicurezza della libertà vigilata applicata per effetto della dichiarazione di abitualità nel reato non può essere sostituita, per sopravvenuta infermità psichica, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia, essendo inapplicabile a tale ipotesi la disposizione di cui all'art. 232, comma terzo, cod. pen., esclusivamente rivolta a disciplinare la situazione della persona già dichiarata pericolosa per infermità di mente.

Le Sezioni Unite hanno preliminarmente ricostruito il sistema delle misure di sicurezza delineato dal codice, al fine di individuare la corretta soluzione del caso, alla luce del corrispondente quadro normativo di riferimento.

Con specifico riferimento alle ipotesi, rilevanti ai fini della decisione della questione controversa, della pericolosità qualificata del delinquente abituale e di quella dipendente da infermità o seminfermità psichica, si è osservato che «la prima, legata alla reiterazione di una serie di fatti criminosi (art. 103 cod. pen.), si differenzia nettamente dalla seconda, diverse essendo la genesi e le connotazioni strutturali delle due situazioni, con la conseguenza che l'applicazione, il mantenimento e l'eventuale trasformazione delle misure di sicurezza devono conformarsi alle corrispondenti previsioni normative. Alla persona affetta da parziale o totale infermità psichica può essere applicata, a norma degli artt. 219 e 222 cod. pen., rispettivamente la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia ovvero quella del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, fatta salva l'eventuale scelta alternativa di una diversa misura, alla luce di quanto statuito dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 253 del 2003 e n. 208 del 2009. L'applicazione di tali misure presuppone l'accertamento giudiziale della commissione di un reato, dell'infermità psichica dell'agente e della pericolosità da infermità di costui, pur ritenendo scemata l'imputabilità o escludendola del tutto».

Le stesse misure non sono applicabili al delinquente abituale (o professionale o per tendenza), la cui pericolosità deriva dalla notevole attitudine al crimine e non già da una infermità psichica.

La distinzione, nel sistema delineato dal Legislatore del 1930, tra i due titoli di pericolosità emerge dai seguenti rilievi:

(a) «l'inclinazione al delitto originata dall'infermità preveduta dagli artt. 88 e 89 cod. pen. è diversa da quella che trova la sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole e non consente, secondo l'espressa previsione del comma secondo dell'art. 108 cod. pen., l'applicazione della disposizione di cui al primo comma dello stesso articolo, vale a dire la dichiarazione di pericolosità qualificata dalla tendenza a delinquere, ossia da una sorta di "follia morale", che compromette la sola sfera dei sentimenti e non quella intellettiva o volitiva dell'agente»;

(b) «l'unica ipotesi di trasformazione della misura di sicurezza applicata a persona imputabile in misura di sicurezza correlata a infermità psichica è prevista dall'art. 212, comma secondo, cod. pen.».

In ordine a questo secondo aspetto, si è, in particolare, osservato che, ai sensi dell'art. 212, comma secondo, cod. pen., se nel corso dell'esecuzione di una misura di sicurezza detentiva sopravviene un'infermità psichica dell'internato, il giudice deve sostituire alla misura precedentemente disposta (la colonia agricola o la casa di lavoro) quella dell'ospedale psichiatrico giudiziario o della casa di cura e custodia; cessata l'infermità psichica, il giudice deve accertare ex novo, ai sensi del comma terzo del richiamato articolo, la persistenza della pericolosità connessa agli indici su cui essa si fonda e ripristinare, in caso di esito positivo, la precedente misura di sicurezza, a meno che non ritenga più opportuno, per la constatata attenuazione della pericolosità, applicare la libertà vigilata. L'esecuzione di una misura di sicurezza non detentiva cessa nel caso in cui la persona, colpita da infermità psichica, sia ricoverata nello spazio psichiatrico di un ospedale civile per essere sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio, venendosi in tal caso a determinare "condizioni di fatto manifestamente incompatibili"[36]; anche in tale caso, cessato il ricovero ospedaliero, il giudice procede al riesame della pericolosità sulla base degli originari indici di valutazione, attualizzati in relazione anche all'evoluzione dinamica della situazione, e, in caso di accertamento positivo, applica una misura di sicurezza personale non detentiva (art. 212, comma quarto, cod. pen.).

Si è osservato che «è agevole desumere a contrariis che, ove la persona imputabile, già sottoposta a misura di sicurezza non detentiva (libertà vigilata) e colpita, durante l'esecuzione di questa, da infermità psichica, non venisse ricoverata in ospedale, la misura in oggetto continuerebbe ad operare regolarmente. Si coglie chiaramente nelle disposizioni, di carattere generale, della norma codicistica esaminata l'autonomia del titolo su cui riposano tanto la dichiarazione di pericolosità della persona imputabile quanto l'applicazione ad essa della corrispondente misura di sicurezza, la quale - di norma - non può essere trasformata in altra misura che si collega all'eventuale infermità psichica sopravvenuta».

L'eccezione prevista dal comma secondo dell'art. 212 cod. pen. «rimane isolata ed è giustificata dal fatto che l'infermità colpisce un soggetto già internato, anche se l'automatismo della previsione appare - oggi - assai discutibile e scarsamente coordinato con l'evoluzione scientifica e normativa in materia di assistenza e cura ai malati di mente. Sarebbe auspicabile, de iure condendo, che il sopravvenire di un'infermità psichica, anziché giustificare un'automatica e superficiale applicazione del ricovero in struttura psichiatrica giudiziaria, imponesse più coerentemente una rivalutazione dei precedenti indici di pericolosità, onde verificarne l'eventuale perdita di significato».

La diversa regolamentazione del caso di infermità sopravvenuta alla persona (imputabile) sottoposta a misura di sicurezza non detentiva risulta coerente col sistema generale delineato in materia, ed è spiegata dalla già citata Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, per la quale «dare facoltà al giudice di disporre il ricovero in un manicomio giudiziario o in una casa di cura e di custodia sarebbe stato eccessivo, e, d'altro canto, occorreva preoccuparsi della necessità pratica di non ingombrare eccessivamente gli stabilimenti. Il progetto, pertanto, lascia, in questo campo, che agisca l'Autorità amministrativa di polizia o che in altro modo si provveda, ad es., a cura dei parenti dell'infermo, ai sensi della legge sui manicomi»[37].

Si è aggiunto che «l'impianto codicistico risente della disciplina della legge manicomiale del 1904, improntata ad una logica custodialistica per il trattamento del malato di mente, e mal si concilia con la legge 13 maggio 1978, n. 180, che privilegia invece l'intervento terapeutico erogato sul territorio e riduce quello sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera ad intervento del tutto eccezionale, se imposto dalla necessità di garantire il diritto individuale alla salute mentale», e che «il legislatore del 1988, intervenendo sul piano processuale, ha implicitamente tenuto conto dell'evoluzione scientifica e normativa in tema di assistenza e cura agli infermi psichici ed ha conseguentemente circoscritto entro confini molto ristretti la competenza del giudice penale in relazione ai provvedimenti da adottare nei confronti di persone che vengano a trovarsi in tale condizione, stabilendo il principio che detto giudice non è - di regola - autorizzato ad intervenire sul trattamento della malattia mentale».

Si è concluso che «l'art. 212 cod. pen. regolamenta il caso della persona che, sottoposta ad una misura di sicurezza detentiva o non detentiva, perché dichiarata pericolosa in forza di un titolo diverso dalla infermità psichica, sia colpita da tale patologia durante l'esecuzione della misura. La norma si pone nella stessa logica che ispira l'art. 148 cod. pen., che disciplina il caso dell'infermità psichica sopravvenuta al condannato prima dell'esecuzione o durante l'esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale».

Con riguardo alla misura di sicurezza personale non detentiva della libertà vigilata, si è premesso che «la stessa consiste nell'imposizione al soggetto che vi è sottoposto di una serie di prescrizioni limitative della sua libertà personale, non specificamente indicate dal legislatore ma affidate all'ampio margine di discrezionalità del giudice in sede di applicazione della misura (artt. 228 cod. pen.), al fine di adeguare dette prescrizioni alle condizioni personali, familiari e ambientali dell'interessato, onde allontanarlo da occasioni di nuovi reati e promuovere il suo reinserimento sociale, anche attraverso interventi di sostegno e di assistenza da parte del servizio sociale (art. 55 Ord. Pen.)».

Le possibili "mutazioni" della libertà vigilata in altra misura comportano la disamina di due disposizioni speciali:

(a) l'art. 231 cod. pen. disciplina, come si evince dallo stesso titolo, la "trasgressione degli obblighi imposti", normativamente valutata come una possibile nuova manifestazione della pericolosità sociale precedentemente ritenuta, con i conseguenti effetti sanzionatori dalla stessa norma previsti, consistenti, eccettuato il caso previsto dalla prima parte dell'art. 177 cod. pen., nell'imposizione della cauzione di buona condotta in aggiunta alla libertà vigilata (comma primo), oppure, tenuto conto della particolare gravità della violazione o del ripetersi di essa o della mancata prestazione della cauzione, nella sostituzione della libertà vigilata con l'assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro, ovvero, se si tratta di un minore, con il ricovero in un riformatorio giudiziario (comma secondo), da eseguirsi eventualmente nelle forme del collocamento in comunità (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448): «anche l'art. 231 cod. pen. ha chiaramente come destinatari quei soggetti dichiarati pericolosi in forza di un titolo diverso dalla infermità o seminfermità psichica e sottoposti alla misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata, i quali ne violano le relative prescrizioni»;

(b) l'art. 232 cod. pen. detta, invece, alcune regole per il caso in cui la libertà vigilata abbia come destinatari soggetti di età minore ovvero infermi psichici, ritenuti pericolosi per tale loro condizione. La norma parte dal presupposto che costoro, per il proprio stato di immaturità o di incapacità, non sarebbero in grado di provvedere a sé stessi e di realizzare compiutamente l'afflittività delle prescrizioni connesse alla libertà vigilata, stabilendo quindi, al comma primo, come condizione per la stessa applicabilità della misura, la necessità di affidare tali soggetti, durante l'esecuzione della misura medesima, ad una persona o ad un ente che vigili su di loro; il secondo comma della disposizione in esame stabilisce, inoltre, che sia ordinato o mantenuto il ricovero in riformatorio (fatta salva la disciplina ex art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988) per il minore e nella casa di cura e custodia per l'infermo di mente, ove l'affidamento di costoro ai soggetti indicati nel comma primo non sia "possibile" od "opportuno"; il comma terzo, infine, prevede che, "Se, durante la libertà vigilata, il minore non dà prova di ravvedimento o la persona in stato di infermità psichica si rivela di nuovo pericolosa", la misura non detentiva in atto deve essere sostituita rispettivamente con il ricovero in un riformatorio o in una casa di cura e custodia.

Quest'ultima disposizione, pertanto, «opera ove si accerti un aggravamento della pericolosità sociale già manifestata in ragione della minore età o dell'infermità psichica e posta a fondamento dell'applicazione della libertà vigilata».

Il Supremo collegio ha, in proposito, osservato che, diversamente da quanto sostenuto dal primo orientamento, l'art. 232, comma terzo, cod. pen. non si pone in rapporto di specialità rispetto alla norma di cui all'art. 231 cod. pen. ed ai casi ivi disciplinati, poiché le due norme hanno autonomi campi operativi: «l'art. 231 cod. pen. attiene, come si è detto, alla trasgressione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata da parte del soggetto che vi è sottoposto, perché dichiarato pericoloso per ragioni diverse dalla infermità psichica; l'art. 232, comma terzo, cod. pen., che è disposizione speciale rispetto alla norma generale di cui all'art. 212 cod. pen. (relativa al caso di infermità psichica sopravvenuta in soggetto sano) e non già a quella di cui all'art. 231 cod. pen., non collega affatto la trasformazione della libertà vigilata nel ricovero in casa di cura e custodia a violazioni delle prescrizioni imposte con la prima misura, ma prevede tale trasformazione in quanto la persona, già dichiarata pericolosa per infermità psichica, manifesta nuovi e più allarmanti segni di tale pericolosità, sì da imporre l'adozione della più rigorosa misura contenitiva».

Questa interpretazione del comma terzo dell'art. 232 cod. pen., circoscritto alle sole ipotesi in cui occorre rivedere il giudizio di pericolosità che aveva consentito l'applicazione della misura non detentiva, trova conferma, come già sottolineato dall'ordinanza di rimessione, nei seguenti rilievi:

(a) «con riferimento alla posizione del minore che "non dà prova di ravvedimento", la previsione della disposizione in esame, se interpretata nel senso di cui all'ordinanza impugnata e ai richiamati precedenti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, sarebbe mera e irragionevole duplicazione della disposizione di cui al comma secondo dell'art. 231 cod. pen., relativa all'aggravamento, per trasgressione degli obblighi imposti, della libertà vigilata applicata al minore»;

(b) «nessun riferimento la disposizione in esame fa alla violazione delle prescrizioni della libertà vigilata, ma considera solo il fatto che "il minore non dà prova di ravvedimento o la persona in stato di infermità psichica si rivela di nuovo pericolosa", evidenziando così soltanto l'accentuato grado di pericolosità»;

(c) «la disposizione non prevede la sostituzione della libertà vigilata con l'ospedale psichiatrico giudiziario per la ragione che, all'epoca in cui la norma venne scritta, la misura non detentiva non poteva mai essere applicata in luogo di quella detentiva».

Sulla base di tali rilievi, sono stati conclusivamente affermati i seguenti principi di diritto:

- "il giudizio di pericolosità, in quanto strettamente connesso agli indici di valutazione su cui esso di volta in volta di fonda, trova la sua ragion d'essere in titoli diversi e comporta, in forza del principio di legalità, l'applicazione o la sostituzione o il mantenimento o la trasformazione della misura di sicurezza prevista dalle corrispondenti norme di riferimento";

- "l'art. 212 cod. pen. disciplina il caso della persona che, sottoposta a misura di sicurezza detentiva o non detentiva per un titolo diverso dalla infermità psichica, sia colpita da tale patologia durante l'esecuzione della misura";

- "l'art. 231 cod. pen. regolamenta gli effetti che conseguono alla trasgressione degli obblighi imposti al libero vigilato, dichiarato pericoloso per un titolo diverso dalla infermità psichica";

- "l'art. 232 cod. pen. non è norma speciale rispetto all'art. 231 cod. pen. e disciplina - tra l'altro - la diversa ipotesi della persona che, dichiarata pericolosa per infermità psichica e sottoposta alla libertà vigilata per tale titolo, manifesta, in corso di esecuzione della misura, nuovi sintomi di una più accentuata pericolosità, sì da rendere inadeguata la misura non detentiva in atto e da legittimarne la sostituzione con il ricovero in casa di cura e custodia";

- "la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata per effetto della dichiarazione di abitualità nel reato non può essere sostituita, per sopravvenuta infermità psichica, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia, non operando in tale ipotesi la disposizione di cui all'art. 232, comma terzo, cod. pen.".

  • frode fiscale
  • servizio sanitario nazionale

Cap. 4

I reati contro la pubblica amministrazione

Sommario

1 L'indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. La falsa attestazione del privato di trovarsi nelle condizioni di reddito per fruire delle prestazioni del servizio sanitario pubblico in esenzione dal pagamento del c.d. ticket sanitario.

1. L'indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. La falsa attestazione del privato di trovarsi nelle condizioni di reddito per fruire delle prestazioni del servizio sanitario pubblico in esenzione dal pagamento del c.d. ticket sanitario.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«quale sia la corretta qualificazione giuridica del fatto criminoso consistente nella falsa attestazione del privato di trovarsi nelle condizioni di reddito per fruire, a termini di legge, delle prestazioni del servizio sanitario pubblico senza il versamento della quota di partecipazione alla spesa sanitaria».

Un orientamento, che appariva dominante, riteneva che la condotta artificiosa consistente nella falsa attestazione di trovarsi nelle condizioni di legge per beneficiare dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario non potesse essere ricondotta alla previsione di cui all'art. 316-ter cod. pen., perché l'elemento dell'esenzione da un pagamento resta estraneo alla nozione di "contributo, finanziamento o mutuo agevolato", elementi questi ricompresi tutti nella generica accezione di sovvenzione. Essa, piuttosto, essendo connotata dall'artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto, dovrebbe integrare gli estremi della truffa[38].

In senso contrario, altre pronunce ritenevano che, nell'ambito delle erogazioni pubbliche di natura assistenziale, indicate dall'art. 316 ter cod. pen., potessero rientrare anche quelle concernenti l'esenzione dal ticket per prestazioni sanitarie: nel concetto di erogazione è compreso, infatti, non solo l'ottenimento di una somma di denaro a titolo di contributo, ma anche l'esenzione dal pagamento di una somma dovuta ad enti pubblici, perché anche in tal caso il richiedente ottiene un vantaggio che viene posto a carico della comunità[39].

La dottrina non si era occupata della questione controversa.

Con la sentenza del 16 dicembre 2010 - 25 febbraio 2011, n. 7537, Pizzuto, le Sezioni Unite, hanno risolto il contrasto, affermando i principi così massimati:

Massime nn. 249104 - 5

Integra il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per l'esenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere che non induca in errore ma determini al provvedimento di esenzione sulla base della corretta rappresentazione dell'esistenza dell'attestazione stessa. (La Corte ha precisato che si ha erogazione, pur in assenza di un'elargizione, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico che viene posto a carico della comunità).

Il reato di falso di cui all'art. 483 cod. pen. resta assorbito in quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato in tutti i casi in cui l'uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscano elementi essenziali di quest'ultimo, pur quando la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima di erogazione - Euro 3.999,96 -, dia luogo a una mera violazione amministrativa.

Il Supremo collegio ha premesso che nel termine "erogazioni", che si rinviene nell'art. 316-ter cod. pen., «rientrano non solo le somme versate dall'ente pubblico, ma anche le somme non richieste o richieste in misura minore per servizi resi dal predetto ente», ed ha richiamato una propria precedente decisione[40] che, quanto ai rapporti tra il reato di truffa aggravata e quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici, aveva osservato che l'art. 640-bis cod. pen. «prevede una circostanza aggravante del delitto di truffa, che si pone in rapporto di specialità con la circostanza aggravante di cui all'art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen.», e che la circostanza prevista dall'art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen. si applica a qualsiasi truffa commessa "a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare", mentre quella prevista dall'art. 640-bis cod. pen. si applica solo quando la truffa abbia comportato l'indebita erogazione di contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. Nella citata decisione, si osservava, inoltre, che «l'introduzione nel codice penale dell'art. 316-ter ha risposto all'intento di estendere la punibilità a condotte "decettive" (in danno di enti pubblici o comunitari) non incluse nell'ambito operativo della fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche». E, con riguardo alla questione all'epoca controversa[41], si era optato per la soluzione che teneva fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa, riconducendo alla fattispecie di cui all'art. 316-ter le condotte alle quali non conseguiva un'induzione in errore o un danno per l'ente erogatore, con la conseguente compressione dell'art. 316-ter a situazioni del tutto marginali, «come quello del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l'autore della disposizione patrimoniale».

La giurisprudenza costituzionale aveva, d'altro canto, ritenuto che fosse inequivoco il carattere sussidiario e residuale dell'art. 316-ter rispetto all'art. 640bis del codice penale, chiarendo che, alla luce del dato normativo e della ratio legis, l'art. 316-ter assicura una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella offerta agli stessi interessi dall'art. 640-bis, coprendo in specie gli eventuali margini di scostamento - per difetto - del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode; all'interpretazione giurisprudenziale veniva rimesso l'accertamento, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie dell'art. 316-ter integrasse anche la figura descritta dall'art. 640-bis, dovendosi, in tal caso, fare applicazione solo di quest'ultima[42].

Ciò premesso, le Sezioni unite hanno ritenuto che «l'art. 316-ter cod. pen. punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall'uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l'erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l'esistenza della formale attestazione del richiedente».

Si è, al riguardo, evidenziato che la giurisprudenza di legittimità, in relazione al reato di truffa, ha gradualmente svalutato il ruolo della condotta, orientandosi sempre più verso una configurazione del delitto in senso causale, ove ciò che rileva non è tanto la definizione dei concetti di artifici e raggiri, quanto, piuttosto, l'idoneità di quelle condotte a produrre l'effetto di induzione in errore del soggetto passivo. Si è così assistito al consolidarsi della affermazione secondo la quale, ai fini della sussistenza del reato di truffa, l'idoneità dell'artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso. E le Sezioni Unite avevano già messo in risalto la rilevanza della questione «se il concetto di "artifizi e raggiri" sia integrato anche dalla menzogna pura e semplice e cioè dalla menzogna che, senza particolari modalità ingannatorie aggiuntive, abbia determinato l'errore nel soggetto passivo», poiché si poteva ritenere «che la menzogna pura e semplice integra soltanto la condotta che induce in errore, ma non la condotta posta in essere con artifizi e raggiri»[43]. A fronte di tale avvertimento, sempre le Sezioni Unite hanno statuito che «vanno ricondotte alla fattispecie di cui all'art. 316-ter - e non a quella di truffa - le condotte alle quali non consegua un'induzione in errore per l'ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto»[44].

Questo principio è stato ribadito: «alla stregua di esso la truffa va ravvisata solo ove l'ente erogante sia stato in concreto "circuito" nella valutazione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi. La sussistenza della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall'altro, deve formare oggetto (come segnalato dalla Corte Costituzionale) di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda in concreto. Significazioni in tal senso possono trarsi, del resto, dalla stessa collocazione topografica dell'art. 316-ter cod. pen. e dagli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel testo della norma, chiaramente evidenzianti la volontà del legislatore di perseguire sostanzialmente la percezione sine titulo delle erogazioni in via privilegiata rispetto alle modalità attraverso le quali l'indebita percezione si è realizzata».

Il principio dianzi enunciato è stato poi specificato nel senso che: «integra il delitto di cui all'art. 316-ter cod. pen. anche la indebita percezione di erogazioni pubbliche di natura assistenziale, tra le quali rientrano quelle concernenti la esenzione del ticket per prestazioni sanitarie ed ospedaliere, in quanto nel concetto di conseguimento indebito di una 'erogazione da parte di enti pubblici rientrano tutte le attività di 'contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l'elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell'esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perché anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità».

La nozione di "contributo" va intesa, infatti, «quale conferimento di un apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante e tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro».

Quanto ai rapporti della fattispecie di cui all'art. 316-ter cod. pen. con i reati di falso, le Sezioni unite avevano già ritenuto che «il reato di cui all'art. 316-ter assorbe quello di falso previsto dall'art. 483, in quanto l'uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituisce un elemento essenziale per la sua configurazione, nel senso che la falsa dichiarazione rilevante ex art. 483, ovvero l'uso di un atto falso, ne costituiscono modalità tipiche di consumazione»[45].

Nell'ambito del quadro giurisprudenziale delineato, sono stati conclusivamente affermati i seguenti principi:

(a) «il reato di cui all'art. 316-ter cod. pen. assorbe quello di falso previsto dall'art. 483 dello stesso codice in tutti i casi in cui l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscono elementi essenziali per la sua configurazione»: la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici, infatti, si configura come fattispecie complessa, ex art. 84 cod. pen., che contiene tutti gli elementi costitutivi del reato di falso ideologico. Né può attribuirsi rilevo alla diversità del bene giuridico tutelato dalle due norme, considerato che in ogni reato complesso si ha, per definizione, pluralità di beni giuridici protetti, a prescindere dalla collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice;

(b) «l'assorbimento del falso ideologico nel delitto di cui all'art. 316-ter cod. pen. si realizza anche quando la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima dell'erogazione (euro 3.999,96), integri la mera violazione amministrativa di cui al secondo comma dello stesso art. 316ter»: rientra, infatti, nelle valutazioni discrezionali del legislatore la scelta della natura e qualità delle risposte sanzionatorie a condotte antigiuridiche, e quindi l'assoggettabilità dell'autore, in una determinata fattispecie, a sanzioni amministrative, pure se frammenti di queste condotte, ove non sussistesse la fattispecie complessa, sarebbero sanzionabili con autonomo titolo di reato.

  • reato tributario
  • datore di lavoro

Cap. 5

I reati contro il patrimonio

Sommario

1 L'appropriazione indebita. La condotta del datore di lavoro che ometta di versare al cessionario la quota della retribuzione ceduta dal lavoratore al terzo.

1. L'appropriazione indebita. La condotta del datore di lavoro che ometta di versare al cessionario la quota della retribuzione ceduta dal lavoratore al terzo.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se integri il reato di appropriazione indebita la condotta del datore di lavoro che ometta di versare le somme di denaro trattenute sulla retribuzione spettante al lavoratore in vista del versamento in favore di un soggetto creditore di quest'ultimo».

Nel caso di specie, l'imputato, condannato per essersi appropriato di somme trattenute sulla retribuzione di una lavoratrice in vista del versamento ad un istituto finanziario col quale quest'ultima aveva contratto un mutuo, lamentava violazione ed erronea applicazione dell'art. 646 Cp in relazione al requisito dell'altruità della cosa, elemento indefettibile del reato di appropriazione indebita.

Le Sezioni Unite erano già state chiamate a stabilire «se integra il reato di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 c.p. il mancato versamento delle somme "trattenute" dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e da destinare alla Cassa Edile per ferie, gratifiche natalizie, festività, ovvero tale condotta integri soltanto l'illecito amministrativo previsto dagli artt. 1 e 8 della legge 14 luglio 1959, n. 741 e dall'art. 13 del D.lg. 19 dicembre 1994, n. 758», e, con la sentenza n. 1327 del 27 ottobre 2004, dep. 19 gennaio 2005, Li Calzi, rv. 229634, avevano ritenuto che il mancato versamento alla Cassa edile delle somme "trattenute" dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente per ferie, gratifiche natalizie e festività non integrasse il reato di appropriazione indebita, ma solo l'illecito amministrativo previsto dall'art. 13 del D.Lgs. 19 dicembre 1994 n. 758.

Dopo la sentenza Li Calzi, una decisione (riguardante l'omesso versamento, da parte del datore di lavoro, di contributi previdenziali) aveva ritenuto che «integra il reato di appropriazione indebita la condotta del datore di lavoro che omette di versare nel termine assegnato le somme di denaro trattenute a titolo di contributi previdenziali sui compensi spettanti al lavoratore. In motivazione, la Corte aveva sinteticamente osservato che la sentenza Li Calzi delle SS.UU. riguardava l'accantonamento di trattenute, non aventi natura contributiva previdenziale e assistenziale, da versare alle Casse Edili, laddove, con specifico riguardo al caso di specie, doveva, invece, farsi riferimento «al diverso orientamento di questa Suprema Corte secondo cui - per quanto riguarda le trattenute che devono essere periodicamente versate agli istituti previdenziali per il trattamento di fine rapporto del dipendente - commette il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che scientemente lascia trascorrere il termine per il versamento, manifestando in tal modo la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente dispone»[46].

In senso contrario si erano pronunciate le sentenze sopravvenute.

Una prima decisione[47] aveva ritenuto che «non integra il delitto di appropriazione indebita, risolvendosi un mero inadempimento civilistico, la corresponsione della retribuzione ai dipendenti in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga, perché la differenza di denaro che il datore di lavoro trattiene per sé non costituisce parte del patrimonio dei dipendenti», osservando, in motivazione, che «- l'essenza dell'appropriazione indebita consiste nella lesione del diritto di proprietà o di altro diritto reale mediante l'abuso di cosa o denaro altrui; - infatti, come hanno precisato le SSUU con la sentenza n 1327/2005 (Li Calzi), nell'appropriazione indebita "il denaro o la cosa mobile di cui l'agente si appropria, non fanno mai parte ab origine del "patrimonio" del possessore, ma si tratta sempre di denaro o di cose di "proprietà" diretta od indiretta di altri, che pur confluendo per una determinata ragione nel "patrimonio" dell'agente, non divengono, proprio per il vincolo di destinazione che le caratterizza, di sua proprietà, in deroga - come espressamente previsto dall'art. 646 c.p. ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili (...). Sicché, ove l'agente dia alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede, ovvero a richiesta o alla scadenza non restituisca la cosa o il denaro, commette il reato di appropriazione indebita, tutti casi, tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza di legittimità, in cui la somma entra ab extrinseco a far parte del patrimonio del possessore e con questo non si confonde proprio perché connotata da un vincolo specifico di destinazione";

- nel caso di specie, è del tutto evidente che ci si trova di fronte ad un mero inadempimento di natura civilistica per la semplice ragione che la differenza fra quanto risultante nella busta paga e quanto realmente corrisposto, benché trattenuta dall'imputato, era costituita, pur sempre, da denaro di sua proprietà che mai era entrato a far parte del patrimonio dei ricorrenti/lavoratori: di conseguenza, non essendo concepibile la interversio possessionis, neppure è configurabile il reato di appropriazione indebita che la presuppone».

Altra decisione[48] aveva ritenuto, in relazione all'omesso versamento di quote associative spettanti al sindacato di categoria al quale erano iscritti i dipendenti dell'imputata, che era stata delegata ai versamenti dai lavoratori interessati, che «la peculiarità del caso di specie, come di altri analoghi casi esaminati dalla giurisprudenza di questa Corte, è data dalla circostanza che il denaro oggetto della contestata appropriazione è rappresentato da una quota ideale del "patrimonio" del possessore, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo. Si è infatti in presenza del particolare atteggiarsi dell'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore la retribuzione al netto di "ritenute" a vario titolo effettuate, con la conseguenza che le somme "trattenute" o "ritenute" rimangono sempre nella esclusiva disponibilità del "possessore", perché non solo non sono mai materialmente versate al lavoratore, ma soprattutto non potrebbero esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro. Le "trattenute", quindi, si risolvono a ben vedere in una operazione meramente contabile diretta a determinare l'importo effettivo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare al lavoratore, alle scadenze previste, a titolo di retribuzione. In casi del genere, non può quindi ritenersi la sussistenza del requisito della "altruità" del denaro o della cosa mobile, quale che sia il titolo della trattenuta alla fonte (su questi principi, cfr. Cass. Sez. U, n. 1327 del 2005, dove l'esplicito riferimento anche alle trattenute operate dal datore di lavoro in forza di accordi economici o di contratti collettivi)».

I contributi della dottrina sulla specifica questione controversa si limitavano a commenti in massima parte adesivi alla sentenza Li Calzi, senza ulteriori (o successivi) approfondimenti.

Con sentenza del 25 maggio - 20 ottobre 2011, n. 37954, Orlando, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, ribadendo il proprio precedente orientamento; il principio affermato è stato così massimato:

Massima n. 250974

Non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che, in caso di cessione di quota della retribuzione da parte del lavoratore, ometta di versarla al cessionario. (In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che la regola dell'acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell'art. 646 cod. pen. Non potrà, pertanto, ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo).

Le Sezioni Unite hanno preliminarmente ricordato di essere già state chiamate a decidere «se il mancato versamento delle trattenute operate, in percentuale, dal datore di lavoro sulla retribuzione in vista del versamento alle Casse edili integrasse appropriazione indebita, ovvero configurasse unicamente la violazione amministrativa prevista dall'art. 13 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758 (che aveva sostituito integralmente l'art. 8 legge 14 luglio 1959, n. 741)», e di avere risolto il dubbio nel senso che detta condotta poteva configurare esclusivamente la violazione amministrativa, osservando, in particolare, che, "sia per quanto concerne il caso di specie, che per quanto riguarda le altre analoghe forme di ritenute alla fonte, il denaro "trattenuto" dal datore di lavoro al dipendente rimane sempre nel "patrimonio" del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono. Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, ed il datore di lavoro non perde la "proprietà" di tali somme, ma ha soltanto l'obbligo, analogamente a quanto avviene per il sostituto d'imposta, di versarle alla Cassa Edile ed agli Enti di Previdenza nella misura ed alle scadenze previste dalle singole disposizioni".

Ed hanno immediatamente osservato che, alla luce degli argomenti posti a fondamento della sentenza Li Calzi, è evidente «che allorché le Sezioni semplici hanno inteso sostenere, implicitamente o espressamente, che i principi in essa affermati non si riferivano all'omesso versamento di somme trattenute in vista dell'adempimento di obblighi di natura contributiva, previdenziale e assistenziale, hanno obliterato quanto a chiare lettere affermato in detta sentenza a proposito della comune connotazione alla stregua di somme mai uscite dal patrimonio del datore di lavoro delle trattenute imputabili a debiti retributivi, contributivi o d'imposta; della identica natura di accantonamenti puramente contabili della registrazione di tali trattenute; delle analoghe conseguenze che se ne dovevano trarre in punto di non configurabilità dell'appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruità degli importi trattenuti, trattandosi di somme non confluite dall'esterno nel patrimonio dell'obbligato con tale vincolo di destinazione, ma in quello sin dall'origine comprese».

Si è, pertanto, ritenuto che non vi fossero ragioni per dissentire, in ipotesi quali quella in esame, dagli approdi raggiunti delle Sezioni Unite con la sentenza Li Calzi, poiché «la decisione, benché riferita a fattispecie concreta concernente l'omesso versamento delle trattenute destinate alla Cassa edile, s'attaglia indubbiamente alla situazione oggetto del giudizio a quo, relativa alla cessione di una quota dello stipendio effettuata dalla dipendente pro solvendo a favore di un terzo. La cessione negoziale riguarda, anche in questo caso, una quota della retribuzione che pacificamente eccede i limiti della quota impignorabile, insequestrabile e incedibile, quindi giuridicamente indisponibile o intangibile, della retribuzione; è stata effettuata dalla dipendente all'istituto di credito contestualmente alla anticipazione da parte di questo di una somma per il pagamento di un suo debito; come ogni contratto di sconto, ha comportato il trasferimento della titolarità del credito ceduto - con i privilegi, le garanzie e gli accessori suoi propri - in capo all'ente finanziatore contestualmente all'erogazione dell'anticipazione, indipendentemente dalla notificazione o dalla accettazione della cessione, che, avvenute, hanno semplicemente perfezionato la condizione di opponibilità del negozio al ceduto, rilevante ai fini della sua liberazione all'eventuale atto del pagamento».

Nulla consente di distinguere, perciò, l'omesso pagamento al cessionario della quota di stipendio trattenuta da quanto versato a titolo di retribuzione al lavoratore, dall'omesso pagamento, integrale e parziale, della retribuzione al lavoratore: «in relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista - ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo - la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell'assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall'art. 36 Cost.. Sicché non v'è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita».

Il Supremo Collegio si è dichiarato consapevole delle critiche mosse a questa impostazione da quella parte della dottrina e della giurisprudenza che biasimano da un lato l'adozione di criteri interpretativi assertivamente improntati a canoni troppo marcatamente civilistici, dall'altro la perdita di vista delle ragioni di tutela proprie del diritto penale, ma ha evidenziato che «la soluzione adottata per individuare e circoscrivere il canone dell'altruità della res fungibile, che costituisce il presupposto del reato di indebita appropriazione ad opera di chi di tale cosa ha il possesso o la detenzione qualificata, non s'ispira affatto pedissequamente agli schemi del diritto civile ed appare anzi espressione della condivisa necessità di trarre soluzioni interpretative dai dati positivi normativi e sistematici, privilegiando un approccio esegetico-sperimentale piuttosto che rigide posizioni dommatiche».

Si è, al riguardo, precisato che, di norma, quando la fattispecie penale richiama termini mutuati da un diverso ramo dell'ordinamento, il suo significato non dovrebbe cambiare, "giacché il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l'uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività", e, d'altro canto, la prevedibilità del sistema sanzionatorio costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per l'ordinamento obiettivo, poiché anche l'effetto di prevenzione generale degli illeciti presuppone che il testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati[49].

Il problema interpretativo di cui si era occupata la sentenza Li Calzi, ora riproposto alle Sezioni Unite, concerne in particolare l'individuazione della portata normativa del termine "altrui" impiegato nell'art. 646 cod. pen. per definire l'oggetto della "appropriazione" penalmente rilevante, posta in essere dal "possessore", su denaro o bene fungibile: «nella struttura della norma la condizione di "altruità" del bene si contrappone dunque a quella di mero "possessore" dell'agente, che, appropriandosene, pone in essere, per usare una definizione usuale, una interversione del possesso. La nozione di altruità non può per conseguenza prescindere, in primo luogo, dalla nozione di possesso».

In accordo con l'unanime orientamento di giurisprudenza e dottrina, si è osservato che il termine "possesso" è numerosissime volte adoperato nel codice penale con significato del tutto equivalente a quello di "detenzione": «la promiscuità dell'uso è particolarmente evidente in tutte le disposizioni che si riferiscono ad ipotesi di detenzione o possesso in sé illegali o sanzionati per la provenienza illecita dei beni cui si riferiscono». Analogamente, nell'ambito dei reati che hanno a specifico oggetto la tutela del patrimonio, pubblico o privato che sia, il "possesso" non appare distinguibile, secondo l'esegesi oramai tradizionale, dalla "detenzione", purché autonoma: «i due termini, correlati a quelli di "altruità" e di "patrimonio", lungi dal connotare di significati civilisti le condotte cui si riferiscono, fungono così piuttosto da criteri denotativi, e vanno letti in funzione della delimitazione in negativo, prima ancora che della perimetrazione in positivo, delle condotte incriminate».

Si è, pertanto, osservato che «l'analisi del significato da attribuire nella specifica fattispecie incriminatrice in esame al termine "altrui", riferito a bene fungibile posseduto da altri, richiede, per conseguenza, di considerare altresì le linee di demarcazione tra le varie figure criminose che hanno ad oggetto la tutela del medesimo bene, il patrimonio privato, e i profili di corrispondenza con le fattispecie, analoghe, che concernono il patrimonio pubblico».

Giurisprudenza e dottrina convengono anche sul fatto che, come la sottrazione a chi autonomamente detiene la cosa é elemento costitutivo del furto, così, specularmente, l'autonoma detenzione non derivante da sottrazione integra il possesso rilevante per l'appropriazione indebita: «nella nozione di possesso rilevante per l'appropriazione indebita possono rientrare vari casi di detenzione, ma, perché resti saldo il confine tra fattispecie, il minimo richiesto è che si tratti di detenzione in nome proprio e non in nome altrui, ossia in virtù di un rapporto di dipendenza con il titolare del diritto».

Proprio la considerazione del denaro, che è bene fungibile per eccellenza, come possibile oggetto dell'appropriazione di cosa altrui, rende palese che «il legislatore non ha inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile dalla disponibilità. Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, né in relazione ad esso sono configurabili diritti reali di terzi. Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per impiegarla in un certo modo, incombe sull'accipiente soltanto l'obbligo di rendere o di impiegare l'equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso».

Il riferimento, nell'art. 646 cod. pen., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere indiscriminatamente.

Si è, inoltre, ricordato che, «se nel diritto civile proprietà e diritti reali consistono nella signoria sulla cosa che si acquista nei modi stabiliti dalla legge, mentre il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale (esercitabile direttamente o per mezzo di chi ha la detenzione), non suscettibile di trasferimento per atto tra vivi disgiuntamente dalla proprietà o dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio[50], va da sé che tali nozioni legali interessano poco il diritto penale patrimoniale in generale, e la fattispecie recata dall'art. 646 cod. pen. in particolare, che guarda invece, e sanziona, proprio la rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l'esercizio di essi poteri sulle cose.

Ciò comporta, tuttavia, che, «ferma l'autonomia dell'accezione con la quale le nozioni di "possesso" o bene "altrui" sono usate nella fattispecie in esame, la individuazione delle situazioni che realizzano una rottura degli schemi delle relazioni legali tra titolo e potere esercitato, tanto grave per l'ordine economico da essere punibile a titolo di appropriazione indebita, non può prescindere dal considerare la relazione violata e, perciò, la diversità di natura, nell'ambito del diritto civile, dei rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti».

Si è, pertanto, ritenuto che, nonostante l'ampliamento della nozione di "altruità", nulla consente di ricondurre ad essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile: «impedisce, al contrario, di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un'obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure "vincolata", la dazione a un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l'inadempimento di una mera obbligazione è già sanzionata penalmente - e più lievemente - dall'art. 641 cod. pen., ma esclusivamente nell'ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo stato d'insolvenza».

Proprio la formulazione normativa impone all'interprete di considerare il denaro, al quale l'agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come una qualsiasi altra cosa mobile infungibile: «se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell'inadempiente quando ha assunto l'obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz'altro responsabile con l'intero suo patrimonio per l'inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione né potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa. Se l'inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell'interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (impropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell'art. 646 cod. pen.».

Si è, pertanto, ribadito che «la regola della acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell'art. 646 cod. pen.; ma, non ricorrendo alcuna ipotesi di conferimento di denaro ab externo, il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell'obbligazione di retribuire, con il proprio patrimonio, il dipendente e di far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui richiesta per la configurazione del delitto di cui all'art. 646 cod. pen.».

E, più in generale, si è affermato che «può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l'appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta[51]»; «non potrà invece ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo».

Sulla base di tali rilievi, è stato conclusivamente affermato il seguente principio di diritto:

«non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo».

  • cittadino straniero
  • sicurezza pubblica
  • società
  • fallimento

Cap. 6

La legislazione speciale

Sommario

1 Reati fallimentari. Unità o pluralità di reati di bancarotta. - 2 La responsabilità da reato degli enti. Tassatività dell'elencazione dei reati-presupposto e reato di falsità nelle relazioni o comunicazioni delle società di revisione. - 3 Sicurezza pubblica. La normativa in tema di stranieri: il reato di cui all'art. 6 D. Lgs. n. 286 del 1998.

1. Reati fallimentari. Unità o pluralità di reati di bancarotta.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se i fatti di bancarotta, nel caso in cui siano poste in essere più condotte tipiche nell'ambito di uno stesso fallimento, integrino un unico reato, con l'effetto di un aumento di pena in funzione di circostanza aggravatrice, o se, invece, la pluralità di condotte di bancarotta dia luogo ad un concorso di reati con conseguente esclusione del divieto del bis in idem per l'eventuale giudicato intervenuto su alcune delle indicate condotte».

Nell'ordinanza di rimessione, si evidenziava il contrasto giurisprudenziale sulla natura giuridica del reato di bancarotta, ed, in particolare, tra un orientamento dominante che sosteneva la concezione unitaria del reato, che ravvisava nella pluralità di fatti tipici, commessi nell'ambito della stessa procedura concorsuale, una circostanza aggravante e considerava le diverse violazioni - in deroga alle norme sul concorso materiale di reati e sulla continuazione - come un solo reato (posto che una circostanza non può che aggravare un solo fatto di reato, nel quale essa si innesta), con l'effetto dell'operatività della preclusione di un secondo giudizio[52], ed un orientamento minoritario, che sosteneva la concezione pluralistica del reato, ravvisando nell'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. l'unificazione solo quoad poenam della pluralità dei fatti di bancarotta posti in essere nell'ambito della stessa procedura concorsuale, senza escludere l'autonomia ontologica dei singoli episodi delittuosi: tale unificazione, pur esplicitamente qualificata come aggravante, costituirebbe in realtà un'ipotesi particolare di continuazione derogativa di quella ordinaria, consistendo la deroga nella determinazione dell'aumento di pena fino a un terzo (e non fino al triplo ex art. 81 cod. pen.) e nell'assoggettabilità al giudizio di comparazione di cui all'art. 69 cod. pen.[53].

In questo ambito, assumeva rilevanza centrale l'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall., nel quale si ravvisava, nei contrapposti orientamenti, una vera e propria circostanza aggravante, sia sotto il profilo funzionale che sotto quello strutturale, oppure una norma contenente una peculiare regolamentazione del concorso di reati e dell'istituto della continuazione, nella prospettiva di contenere entro limiti di ragionevolezza la pretesa punitiva dello Stato.

L'ordinanza di rimessione osservava, inoltre, che, se appare razionale la scelta di politica criminale finalizzata a disciplinare in maniera peculiare il concorso di reati ed a contenere il potere sanzionatorio del giudice in relazione a plurime e autonome fattispecie incriminatrici in materia di bancarotta patrimoniale, non appare altrettanto razionale una interpretazione della disciplina speciale che, riconducendo ad unità fatti ontologicamente diversi, ne precluda il completo accertamento ed eventualmente la punizione, ponendosi, in definitiva, in contrasto con la logica del sistema penale e con gli artt. 3 e 112 Cost., sottolineando, infine, che la preclusione connessa al divieto del bis in idem opera soltanto in relazione allo "stesso fatto", che ricorre quando v'è corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso di causalità) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.

La contrapposizione tra concezione unitaria e concezione pluralistica del reato di bancarotta si rifletteva su molteplici problematiche:

(a) in primo luogo, come anticipato, con riguardo alla natura della disciplina ex art. 219, comma 2, n. 1, l. fall.: secondo l'indirizzo largamente consolidato, la norma de qua prevederebbe una fattispecie circostanziale; alcune pronunce segnalavano che l'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. avrebbe "accolto" il principio dell'unitarietà della bancarotta49, e che la configurazione della circostanza aggravante, soggetta - in caso di concorso di circostanze - al giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen., derogherebbe alla disciplina del concorso dei reati e del reato continuato;

(b) quanto alla configurazione delle singole condotte tipiche delineate dall'art. 216 (e dall'art. 217) l. fall., poteva distinguersi tra fatti la cui reiterazione integra "distinte azioni criminose" e fatti che, anche se reiterati, costituiscono una "unica azione con pluralità di atti", in relazione ai quali non esistono le condizioni per l'applicazione della circostanza aggravante[55];

(c) in ordine alla definizione dell'ambito di operatività dell'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall., assumeva rilievo l'applicabilità o meno della disciplina de qua rispetto a fatti di bancarotta fraudolenta e a fatti di bancarotta semplice relativi a un medesimo fallimento;

(d) sempre in ordine alla definizione dell'ambito applicativo della circostanza aggravante in esame, la giurisprudenza aveva affrontato sia la problematica concernente l'applicabilità della norma ai fatti di bancarotta impropria che quella relativa alla riferibilità della disciplina di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. esclusivamente ai reati concernenti un medesimo fallimento ovvero anche a reati concernenti fallimenti diversi;

(e) quanto all'applicabilità ai fatti di bancarotta del divieto del bis in idem, l'orientamento favorevole richiamava la particolare "strutturazione" della fattispecie di cui all'art. 216 operata dalla legge fallimentare, in forza della quale detta fattispecie costituisce un "reato unico" anche se posto in essere con la realizzazione di una pluralità di fatti, configurata come circostanza aggravante dall'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall.[56]; l'orientamento contrario sottolineava, tra l'altro, la natura di circostanza aggravante sui generis rivestita dall'istituto in esame, configurabile come circostanza solo dal punto di vista funzionale, ma non da quello strutturale: in ossequio al favor rei, il legislatore avrebbe introdotto una particolare disciplina della continuazione in tema di reati fallimentari, sicchè "i singoli fatti di bancarotta unitariamente considerati quoad poenam mantengono la loro autonomia ontologica"[57]; nella stessa prospettiva, era stata esclusa la violazione del principio del ne bis in idem, che postula l'identità del fatto addebitato in tutti i suoi elementi costitutivi e, con precipuo riguardo alla condotta, l'identità di luogo, di tempo e di oggetto[58];

(f) alcune pronunce avevano valorizzato la disciplina di cui all'art. 219, comma 2, n. 1 l. fall. al fine di escludere violazioni del principio della correlazione tra imputazione contestata e sentenza, anche richiamando il principio della unitarietà della bancarotta; in altri casi, l'esclusione della violazione del principio della correlazione tra accusa e sentenza era stata argomentata facendo leva sulla ricostruzione del rapporto tra le diverse figure di bancarotta e, quindi, fuori dal riferimento alla disciplina ex art. 219, comma 2 n. 1 l. fall. ed al principio dell'unitarietà della bancarotta.

Il tema dell'unitarietà o della pluralità della bancarotta aveva formato oggetto di approfondite analisi in dottrina, i cui orientamenti riproponevano sostanzialmente la molteplicità di approcci già emersa in giurisprudenza; sul tema si rifletteva, in modo significativo, anche il dibattito in ordine alle cosiddette norme penali miste.

Con sentenza del 27 gennaio - 26 maggio 2011, n. 21039, P.M. in proc. Loy, Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando i principi così massimati:

Massime nn. 249665 - 8

In tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell'ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall'art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all'art. 81 cod. pen.

La disciplina speciale sul concorso di reati prevista dall'art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., si applica anche alle ipotesi di bancarotta impropria.

La disciplina speciale sul concorso di reati prevista dall'art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., si applica sia nel caso di reiterazione di fatti riconducibili alla medesima ipotesi di bancarotta, che in quello di commissione di più fatti tra quelli previsti dagli artt.

216 e 217 della stessa legge.

La condanna definitiva per il reato di bancarotta non impedisce di procedere nei confronti dello stesso imputato per altre e distinte condotte di bancarotta relative alla medesima procedura concorsuale.

Le Sezioni Unite hanno premesso che i contrapposti orientamenti sono entrambi intrinsecamente connessi all'interpretazione della struttura del reato di bancarotta ed in particolare all'individuazione della relazione che intercorre tra la dichiarazione di fallimento e la molteplicità delle azioni tipiche poste in essere dal fallito, e che il principio della cd. unitarietà della bancarotta, secondo il quale il reato resta unico anche se realizzato attraverso una molteplicità di fatti, trova la sua genesi nell'antica concezione del fallimento come evento del reato, al quale si accompagnerebbero, "in secondo piano e quasi in ombra", i fatti di bancarotta.

Per risolvere la questione controversa in aderenza al diritto positivo ed alla ratio che ispira l'intero sistema, si è ritenuto necessario individuare la natura giuridica dell'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall., ed apprezzare la configurazione delle singole condotte tipiche delineate dai precedenti artt. 216, 217 e 218, senza trascurare i riflessi processuali connessi alla disposizione di cui all'art. 649 cod. proc. pen. Dopo avere analizzato il contenuto e la portata degli artt. 216, 217 e 218 l. fall., richiamati dall'art. 219, comma 2, n. 1, stessa legge, la cui interpretazione ha originato il contrasto giurisprudenziale de quo, al fine di stabilire la disciplina applicabile è stata esclusa la possibilità di fare riferimento al sistema generale delineato dal codice penale (artt. 72 e ss.) in tema di concorso di reati, venendo, invece, in rilievo la norma specifica di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. e la sua natura giuridica: «quest'ultima norma dispone che le pene stabilite nei precedenti artt. 216, 217 e 218 "sono aumentate se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati". Tale regolamentazione sembra, almeno formalmente, non discostarsi, in linea di massima, dalla direttiva tradizionale della unitarietà della bancarotta».

Valutando la portata dell'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. in rapporto alla natura ed alla eterogeneità delle fattispecie previste dalle norme incriminatrici ivi richiamate, si è osservato che la predetta norma «postula l'unificazione quoad poenam di fatti-reato autonomi e non sovrapponibili tra loro, facendo ricorso alla categoria teorica della circostanza aggravante, della quale presenta sicuri indici qualificanti: a) il nomen iuris, "circostanze", adottato nella rubrica; b) la generica formula utilizzata per individuare la variazione di pena in aggravamento ("le pene (...) sono aumentate") implica il necessario richiamo all'art. 64 cod. pen., che è l'unica disposizione che consente di modulare la detta variazione sanzionatoria».

È, pertanto, indubbio che, sul piano formale, si è di fronte a una circostanza aggravante, anche se il riferimento formale ed anche quello funzionale a tale categoria giuridica non sono coerenti con la connotazione strutturale della stessa, in difetto del rapporto tra un fatto-base (il fatto del reato) ed un fatto accessorio (il fatto della circostanza): «la L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, disciplina, nella sostanza, un'ipotesi di concorso di reati autonomi e indipendenti, che il legislatore unifica fittiziamente agli effetti della individuazione del regime sanzionatorio nel cumulo giuridico, facendo ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante. Tale scelta appare chiaramente ispirata dall'esigenza, avvertita dal legislatore, di mitigare le conseguenze sanzionatorie e di non pervenire a forme di repressione draconiana dei reati di bancarotta, la cui pluralità in un fallimento è evenienza fisiologica».

La norma non dà vita ad un reato unico nella forma del reato complesso ex art. 84, comma 1, seconda parte, cod. pen., con riferimento all'ipotesi in cui "la legge considera (...) come circostanze aggravanti di un solo reato fatti che costituirebbero, per se stessi, reato", poiché «il reato complesso, certamente costruito come reato unico a tutti gli effetti, è integrato da fatti-reato realizzati contestualmente (si pensi, esemplificativamente, al furto aggravato dalla violazione del domicilio, al danneggiamento aggravato dalla minaccia o dalla violenza concretizzatasi in sole percosse), mentre difetta tale contestualità nei fatti di bancarotta riconducibili a distinte azioni criminose».

Non può parlarsi neppure di reato abituale, «considerato che tale categoria penalistica richiede la reiterazione nel tempo di condotte omogenee e una differenza qualitativa tra la volontà del fatto singolo e la volontà del fatto complessivo, mentre le condotte di bancarotta sono o possono essere eterogenee e la prospettazione soggettiva dell'agente non subisce mutamento alcuno per il moltiplicarsi delle condotte medesime».

In verità, l'ordinamento contempla un'altra fattispecie compatibile con l'interpretazione, che qui si privilegia, della norma in esame: il riferimento è all'art. 589, comma 4, c.p., «che, pur atteggiandosi apparentemente come circostanza aggravante, non è tale e non costituisce neppure un'autonoma figura di reato complesso, ma configura, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte, un'ipotesi di concorso formale di reati, nella quale l'unificazione rileva solo quoad poenam, con la conseguenza che, ad ogni altro effetto, anche processuale, ciascun reato rimane autonomo e distinto»[59].

Si è concluso che l'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. «altro non è che un'ipotesi di concorso di reati, icasticamente definita da una parte della dottrina come una sorta di "continuazione fallimentare", regolamentata in deroga alla disciplina generale sul concorso di reati e sulla continuazione»; d'altro canto, non a caso la norma si caratterizza per un ambito di operatività coincidente con quello dell'art. 81, comma 2, c.p.: «la norma codicistica fa riferimento sia all'inosservanza di ipotesi delittuose diverse, sia alla violazione della medesima disposizione di legge; la norma della legge fallimentare deve intendersi, come meglio si preciserà in seguito, applicabile sia in caso di "più fatti" costituenti reiterazione della medesima fattispecie tipica", sia in caso di "più fatti" rappresentanti la realizzazione di situazioni differenti". La portata derogatoria della disciplina introdotta dalla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, rispetto a quella generale di cui all'art. 81 cod. pen., si apprezza in maniera ancora più evidente, ove sì consideri che, al momento dell'entrata in vigore della legge fallimentare, il reato poteva definirsi "continuato", in base al testo originario dell'art. 81 c.p., comma secondo, soltanto in costanza di "più violazioni della stessa disposizione di legge"».

Il legislatore del 1942, quindi, facendo ricorso alla categoria giuridica della circostanza aggravante, che, come si è detto, è tale solo dal punto di vista funzionale, ma non da quello strutturale, «ha inteso, per ragioni di favor rei, dettare una particolare disciplina della continuazione in tema di reati fallimentari, con l'effetto che i singoli fatti di bancarotta, pur unitariamente considerati quoad poenam, conservano, ove ne ricorrano i presupposti, la loro autonomia sia sul piano ontologico che su quello giuridico».

Si è poi precisato che l'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. opera sia nel caso di reiterazione di fatti riconducibili alla medesima ipotesi di bancarotta che in quello di commissione di più fatti tra quelli previsti indifferentemente dai precedenti artt. 216 e 217.

In relazione al primo profilo, si è ritenuto che «l'espresso richiamo fatto dalla norma in esame anche al reato di cui alla L. Fall., art. 218, che disciplina una sola fattispecie delittuosa (ricorso abusivo al credito), non lascia margini di dubbio sull'operatività della disposizione in caso di reiterazione della stessa condotta tipica. Diversamente opinando, si determinerebbe una interpretatio abrogans del richiamo che l'art. 219 fa all'art. 218.

In relazione al secondo profilo, per superare l'esistente contrasto giurisprudenziale, si è osservato che «di fronte al dato testuale non univoco ("più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli"), l'applicabilità della L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, alla pluralità di fatti di bancarotta commessi, a prescindere se gli stessi siano contemplati nello stesso articolo o in articoli diversi, è imposta dalla necessità di privilegiare un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, perché, diversamente opinando, si determinerebbero, in contrasto con l'art. 3 Cost., situazioni di palese e irragionevole disparità di trattamento: ove si ritenga, infatti, che la norma in esame sia applicabile solo ai casi di concorso interno, quello cioè tra più fatti di bancarotta tutti semplici o tutti fraudolenti, mentre il concorso esterno tra fatti di bancarotta semplice e fatti di bancarotta fraudolenta rientrerebbe nella sfera di operatività dell'art. 81 cod. pen., si finirebbe col "punire con maggiore asprezza chi abbia commesso un fatto di bancarotta fraudolenta e un fatto di bancarotta semplice, rispetto a chi abbia commesso più fatti di bancarotta fraudolenta", dovendo il primo soggiacere al più rigoroso trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 81 cod. pen. Il reato rimane logicamente unico nelle ipotesi, già sopra richiamate, di condotte criminose in rapporto di "alternatività formale" o "alternatività di modi", di condotte espressione di un'unica azione con pluralità di atti, di fattispecie costruite, per espressa previsione normativa, su una base strutturale unitaria, assimilabile a quella del reato abituale ma non coincidente con la stessa».

Si è anche precisato che la peculiare disciplina di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. deve essere estesa anche alle ipotesi di cd. bancarotta impropria, vale a dire ai fatti di reato previsti negli artt. 216, 217 e 218 allorché siano commessi da persone diverse dal fallito (L. Fall., artt. 223, 224 e 225), poiché, se «è vero che, sul piano della interpretazione letterale, tale estensione sembra insostenibile, non contemplando la disciplina della bancarotta impropria la normativa di cui all'art. 219 (e quindi anche del comma 2, n. 1) e non facendo quest'ultimo rinvio agli artt. 223 e segg.», è tuttavia agevole osservare, in aderenza al consolidato orientamento della Suprema Corte, che «il richiamo contenuto nelle norme incriminatrici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull'applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l'aggravante sui generis di cui si discute. D'altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v'è ragione, ricorrendo l'eadem ratio, di differenziare la disciplina sanzionatoria. L'applicazione analogica della L. Fall., art. 219, ai reati di bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione favorevole all'imputato»[60].

La soluzione prescelta, integrando una unità fittizia di reati, che in realtà concorrono tra loro, comporta conseguenze rilevanti sul piano processuale e, per la individuazione di tali effetti, la figura di unificazione legislativa deve necessariamente essere scissa nelle sue componenti.

Si è, in proposito, ricordato che:

- la contestazione nel decreto che dispone il giudizio deve indicare ogni singolo fatto;

- ogni singolo fatto deve essere oggetto di accertamento in sede di istruttoria dibattimentale;

- ogni singolo fatto deve essere oggetto di un autonomo capo della decisione anche ai fini dell'effetto devolutivo in sede di eventuale impugnazione;

- per ogni diverso e autonomo fatto di bancarotta che emerge nel corso di un processo riguardante altro fatto di bancarotta, relativo logicamente alla stessa procedura fallimentare, occorre procedere a nuova contestazione;

- la diversità ontologica dei singoli fatti, unificati fittiziamente dall'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. si riflette sul giudicato e sul connesso problema dell'operatività dell'art. 671 cod. proc. pen. in materia di applicazione in executivis della disciplina del reato continuato.

In particolare, con riguardo a questi ultimi due profili di natura processuale, intimamente connessi tra loro, e rilevanti ai fini della decisione, le Sezioni Unite hanno osservato che, «poiché - secondo la concezione pluralista qui privilegiata - i diversi episodi di bancarotta nell'ambito dello stesso fallimento conservano la loro autonomia e la disciplina dettata dalla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, costituisce, sotto il profilo strutturale, non un'aggravante ma un'ipotesi particolare di continuazione derogativa di quella ordinaria, l'eventuale giudicato intervenuto su uno dei detti fatti non è di ostacolo alla perseguibilità di altro e diverso fatto di bancarotta relativo allo stesso fallimento».

In virtù di queste considerazioni, sono stati conclusivamente affermati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. , i seguenti principi di diritto:

«più condotte tipiche di bancarotta poste in essere nell'ambito di uno stesso fallimento mantengono la propria autonomia ontologica e danno luogo a un concorso di reati, che vengono unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico»;

«la disposizione di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, non integra, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta una peculiare disciplina della continuazione, in deroga a quella ordinaria di cui all'art. 81 cod. pen., in tema di reati fallimentari»;

«deve escludersi, con riferimento a condotte di bancarotta ancora sub iudice, la preclusione dell'eventuale giudicato intervenuto su altre e distinte condotte di bancarotta relative alla stessa procedura concorsuale».

2. La responsabilità da reato degli enti. Tassatività dell'elencazione dei reati-presupposto e reato di falsità nelle relazioni o comunicazioni delle società di revisione.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se permanga la responsabilità da reato dell'ente in riferimento ai fatti criminosi di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione dopo la formale abrogazione dell'art. 2624, comma 2, cod. civ., il cui contenuto di incriminazione è stato riscritto da altra disposizione del decreto legislativo di abrogazione».

La questione controversa rimessa al giudizio delle Sezioni Unite riguardava il significato del rinvio operato dalle norme della parte speciale del D. Lgs. n. 231 del 2001 alle disposizioni incriminatrici che configurano i reati presupposto della responsabilità degli enti. In particolare, il problema riguardava il rinvio effettuato dall'art. 25-ter del citato decreto all'art. 2624 cod. civ. per attrarre i reati di falso in revisione: quest'ultima disposizione era stata, infatti, dapprima depauperata di una parte del suo contenuto, trasferito dalla L. n. 262 del 2005 nell'art. 174-bis TUF, e successivamente abrogata dal recente D. Lgs. n. 39 del 2010, il quale ha, peraltro, abrogato anche la norma del TUF testè menzionata, ed ha, infine, riproposto i contenuti di tutte le disposizioni abrogate (con marginali modifiche) in una nuova norma incriminatrice, senza aggiornare il catalogo dei reati presupposto della responsabilità da reato degli enti.

Si poneva, pertanto, il problema di stabilire se la complessa operazione legislativa appena riepilogata avesse determinato l'abolizione della fattispecie di responsabilità degli enti collegata al reato di falso in revisione, ovvero se detta fattispecie di responsabilità fosse tuttora prevista in relazione alla nuova fattispecie incriminatrice; la soluzione del problema presupponeva l'accertamento della natura del rinvio operato nelle disposizioni del d. lgs. n. 231 del 2001, peraltro governato dal principio di legalità, ed altresì la determinazione del ruolo del reato presupposto (e delle norme che lo definiscono) nella fattispecie complessa che definisce l'illecito amministrativo addebitato alla persona giuridica.

Con riguardo alla questione controversa, la Corte di cassazione non si era mai pronunziata, e la sentenza impugnata era stata la prima decisione di merito che la avesse affrontata; la rimessione era stata legittimata dalla particolare complessità della questione.

In relazione al principio di legalità, sancito in tema di responsabilità da reato degli enti dall'art. 2 D. Lgs. n. 231 del 2001, la giurisprudenza si era limitata a riconoscere che lo stesso riguarda sia il reato presupposto della responsabilità, che quest'ultima[61].

Quanto alla materia dei rinvii normativi, l'elaborazione giurisprudenziale non aveva trovato soluzioni effettivamente condivise o, meglio, non aveva elaborato principi generali tali da guidare l'interprete nella soluzione del caso in esame, poiché ogni singola vicenda esaminata presentava peculiarità conseguenti al contesto normativo di riferimento, che rendevano non facilmente esportabili le soluzioni adottate e non consentivano di enucleare principi suscettibili di generale applicazione.

Di massima, il criterio seguito per stabilire la natura formale o ricettizia del rinvio è stato quello della necessaria ricostruzione della volontà legislativa in concreto, attraverso la valutazione di una pluralità di indici non esclusivamente legati al profilo delle espressioni normative utilizzate; in diverse occasioni la giurisprudenza ha dimostrato di ritenere - anche senza cristallizzare tale convinzione in vere e proprie affermazioni di principio - che l'interpretazione dei richiami normativi sia necessariamente condizionata quando i sistemi normativi richiamanti siano governati dal principio di legalità. In tal senso, potevano essere ricordate le pronunzie che avevano riguardato le vicende normative del delitto di bancarotta impropria societaria, atteso che la struttura del rinvio operato dall'art. 223 legge fall. alle disposizioni penali del codice civile è in qualche modo simile a quello contenuto nelle norme del d. lgs. n. 231 del 2001, ma che, peraltro, non avevano consegnato all'interprete ricostruzioni effettivamente omogenee[62].

La dottrina si è finora espressa sulla questione controversa solo a prima lettura del d. lgs. n. 39 del 2010 e comunque, pur criticando l'operato del legislatore, ha unanimemente concluso nel senso di riconoscere l'abolizione della responsabilità dell'ente per il reato di falso in revisione in conseguenza dell'intervento della novella, ritenendo tale soluzione interpretativa l'unica compatibile con i principi di legalità e di retroattività delle norme abolitrici affermati dagli artt. 2 e 3 d. lgs. n. 231 del 2001.

Nella ordinanza di rimessione, si faceva principalmente riferimento sia all'insegnamento discendente da Sez. U, n. 25887, del 26 marzo 2003, dep. 16 giugno 2003, Giordano, Rv. 224605-8 che, decidendo in materia di successione di leggi nel tempo, aveva escluso la sopravvivenza di norme di cui fosse stata operata l'abrogazione, senza novazione alcuna. Si sottolineava, inoltre, che la tesi sostenuta nel provvedimento impugnato - pur confortata da concorde dottrina - avrebbe determinato un vuoto repressivo in una delicata materia, incidente sul risparmio diffuso, ove maggiore è la necessità di fedeltà informativa; si concludeva, pertanto, prospettando la plausibilità della tesi di un rinvio "mobile" nella lettura del catalogo dei reati dettato dall'art. 25-ter D. Lgs. n. 231 del 2001.

Con sentenza del 23 giugno - 22 settembre 2011, n. 34476, Deloitte Touche s.p.a., le Sezioni Unite hanno affermato il principio così massimato:

Massima n. 250347

Il delitto di falsità nelle relazioni e nelle comunicazioni delle società di revisione, già previsto dall'abrogato art. 174-bis D. Lgs. n. 58 del 1998 ed ora configurato dall'art. 27 D. Lgs. n. 39 del 2010, non è richiamato nei cataloghi dei reati presupposto della responsabilità da reato degli enti, che non menzionano le surrichiamate disposizioni, e conseguentemente non può costituire il fondamento della suddetta responsabilità. (In motivazione la Corte ha altresì precisato che anche l'analoga fattispecie prevista dall'art. 2624 cod. civ., norma già inserita nei suddetti cataloghi, non può essere più considerata fonte della menzionata responsabilità, atteso che il D. Lgs. n. 39 del 2010 ha provveduto ad abrogare anche il citato articolo).

Le Sezioni Unite hanno premesso che il quesito ad esse posto si presentava apparentemente complesso, «a cagione della tormentata vicenda genetica che ha (sinora) contrassegnato, nel nostro ordinamento, la materia della revisione contabile».

Dopo aver ricostruito le vicende normative della fattispecie che punisce le falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione (interessata non già per il suo rilievo penale, bensì per l'idoneità a fondare la responsabilità c.d. "amministrativa" dell'ente nel cui interesse ha agito il soggetto attivo del reato, secondo la previsione introdotta nel nostro ordinamento dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), il Supremo Collegio ha ricordato che «il criterio di imputazione, che permette l'addebito della condotta della persona fisica all'organismo, nel cui interesse/vantaggio questa ha agito, suppone la commissione di illecito (non necessariamente a rilievo penale, cfr. per es. art. 25-sexies d.lgs. n. 231 del 2001 che prevede - secondo autorevole dottrina - un'ulteriore responsabilità, modulata su quella discendente da reato, conseguente alla commissione non già di reato, bensì di violazione amministrativa proprio della disciplina sugli abusi di informazioni privilegiate e sulla manipolazione) nell'ambito di ipotesi tassativamente previste dal legislatore (ed elencate dalle previsioni della Sezione III del Capo I del d.lgs. n. 231 del 2001), secondo una cernita che rinviene la sua filigrana nelle direttive delle convenzioni internazionali e che si articola in un quadro contrassegnato dal principio di legalità (come recita la rubrica dell'art. 2 d.lgs. n. 231 del 2001). Principio che, pertanto, coinvolge, per il tramite di una legge, non soltanto la fattispecie costitutiva dell'illecito (e le sanzioni per essa previste), ma anche il collegamento tra la condotta della persona fisica e la speciale responsabilità para-penale dell'ente».

Fino ad ora, sembrava essere stata favorita nel nostro ordinamento l'espansione della tipologia degli illeciti forieri della responsabilità amministrativa degli enti; tuttavia, proprio con il D. Lgs. n. 39 del 2010, si è avuta per la prima volta l'abrogazione di una di queste fattispecie, senza che il legislatore abbia voluto intervenire direttamente sul catalogo, fonte della responsabilità medesima, cioè, l'art. 25-ter D. Lgs. n. 231 del 2001, «opzione che contraddice anche la legislazione sulle violazioni penali a sfondo economico, ove evidente è apparsa, sino ad oggi, la volontà del legislatore di accompagnare la risposta prettamente penalistica, a quella speciale, nei confronti dell'organismo che si ritiene abbia tratto vantaggio. Il d. lgs n. 39 del 2010 ha, quindi, incrinato l'omogeneità del complessivo disegno normativo, con un mutamento del tratto repressivo, anche se, in tema di tutela del risparmio, la pur recente legge n. 262 del 2005 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) ha apprestato un inasprimento sanzionatorio. Tanto giustifica l'incertezza dell'interprete davanti al segno di forte discontinuità (non compiutamente palesato, mancando - come si è detto - un esplicito intervento sul quadro dell'art. 25-ter d.lgs n. 231 del 2001) relativamente alla responsabilità amministrativa della società di revisione (permanendo quella penale a carico dei suoi esponenti)».

Ogni perplessità viene, peraltro, fugata quando dal quadro sistematico si scende alla diretta lettura della novella: «nel rispetto del principio di legalità a cui si è già fatto cenno e seguendo l'arresto di questa Corte - per cui "qualora il reato commesso nell'interesse o a vantaggio di un ente non rientri tra quelli che fondano la responsabilità ex d. lgs. n. 231 del 2001 di quest'ultimo, ma la relativa fattispecie ne contenga o assorba altra che invece è inserita nei cataloghi dei reati presupposto della stessa, non è possibile procedere alla scomposizione del reato complesso o di quello assorbente al fine di configurare la responsabilità della persona giuridica"[63] - non si offrono possibilità interpretative incerte. In particolare, non vi è spazio per appellarsi ad ipotesi di integrazione normativa della fattispecie, a mezzo di un possibile rinvio c.d. "mobile", poiché - al di là di qualsiasi quesito coinvolgente questa delicata materia - la volontà legislativa risulta evidente, senza postulare ulteriori apporti ermeneutici, quando sia inquadrata nella complessiva operazione riformatrice disposta dal legislatore mediante il d. lgs. n. 39 del 2010».

Nel caso in esame, la norma su cui si fonda l'accusa non appartiene al novero di quelle che consentono l'applicazione della disciplina para-penale verso gli enti, poiché la pubblica accusa, dopo una qualche oscillazione, ha puntualizzato l'addebito nella violazione dell'art. 174-bis del T.U.F., norma scelta in considerazione della peculiare natura delle comunicazioni della società - oggetto della revisione disposta da Deloitte & Touche - ente ammesso alla quotazione di Borsa, cioè società c.d. "aperta", destinata a soggiacere alla disciplina del T.U.F.: «è, pertanto, l'art. 174-bis T.U.F. il cardine che qualifica l'accusa e delimita l'ambito del giudizio, postoché il giudice deve in essa inquadrare l'esatta normativa giuridica che regola la fattispecie ascritta all'ente: anche in questa speciale procedura la contestazione dell'addebito è il referente (che espleta la stessa funzione assegnata, nel processo penale, all'art. 417 cod. proc. pen., verso la persona fisica) mediante cui impostare il sillogismo interpretativo per valutare la condotta oggetto di giudizio».

La citata disposizione può, tuttavia, ritenersi del tutto estranea al meccanismo attributivo della speciale responsabilità amministrativa di cui si tratta: «infatti, la violazione dell'art. 174-bis T.U.F. è estranea al peculiare paradigma che collega l'azione della persona fisica all'ente per cui essa agisce. Pertanto, ogni richiamo che evochi l'art. 174-bis risulta incapace di fornire contenuto precettivo al proposito: (...) è carente di sostegno giuridico ogni integrazione mediante il rinvio ad una disposizione che non è mai esistita nel quadro normativo di riferimento. Invero, la norma non fa parte del codice civile, appartenenza richiesta dalla generale previsione di cui all'art. 25-ter, comma 1, d. lgs. n. 231 del 2001. Inoltre, essa non è mai stata annoverata tra i c.d. "reati-presupposto" idonei ad ascrivere la responsabilità dell'ente: non lo fu al momento della formulazione del testo fondamentale in materia, l'art. 25-ter d. lgs. n. 231 del 2001, né nel contesto del d. lgs. n. 61 del 2002 (che, riformulando l'intera legislazione penale societaria, abbinò al rilievo penale delle violazioni proprie dei revisori anche quello amministrativo a carico degli enti deputati alla revisione), né in epoca successiva, segnatamente quando l'art. 174-bis in esame fu introdotto dall'art. 35 della legge n. 262 del 2005, che intervenne direttamente sulla disciplina in esame».

Ed è privo di rilievo il riferimento alla possibile continuità normativa tra l'art. 2624 cod. civ. e l'attuale testo, uscito dalla riforma della materia della revisione contabile, «postoché la disposizione codicistica è stata espressamente abrogata e, quindi, non è più capace di riferimento ermeneutico di sorta, in funzione di integrazione dell'art. 25-ter d. lgs n. 231 del 2001 e di attribuzione della speciale responsabilità da reato (diverso, chiaramente, il discorso per il piano strettamente penalistico relativo alla persona fisica a cui sia riconducibile l'illecito). Per questi medesimi motivi è inefficace il tentativo (affacciato dal ricorrente) di collegare l'art. 174-bis T.U.F. alla nuova figura dettata dall'art. 27 d. lgs. n. 39 del 2010, intendendo la prima disposizione quale una circostanza aggravante della norma di nuovo conio: l'estraneità della fattispecie incriminatrice propria delle società quotate rispetto al novero di quelle attributive della responsabilità amministrativa ex delicto, sterilizza una simile opzione ermeneutica».

Si è osservato che la conclusione dianzi tratta «pone in luce l'indubbio alleggerimento della tutela para-penale nell'ambito della revisione contabile: sensazione che - in seno al d. lgs n. 39 del 2010 - rinviene conferma, per esempio, nell'omesso richiamo alla confisca "per equivalente", in relazione ai reati qui esaminati, ulteriore prova della discontinuità rispetto al tradizionale orientamento legislativo. Atteggiamento coerente con l'esplicita abrogazione della "parallela" figura dettata dall'art. 2624 cod. civ., propria della responsabilità penale, ma riformulata dall'art. 27 d. lgs n. 39 del 2010 in termini letterali sostanzialmente uguali a quelli già utilizzati dall'abrogata figura, a dimostrazione della consapevole discrasia tra la protezione penalistica, immutata, e quella amministrativa da illecito, sottratta alla disciplina del d. lgs. n. 231 del 2001 (sia pur senza un'espressa modifica dell'art. 25-ter del citato compendio normativo)».

Ciò evidenzia le ragioni dell'impossibilità di introdurre, per via interpretativa, quanto il legislatore ha chiaramente inteso lasciare fuori dalla prensione punitiva del sistema dedicato alla responsabilità degli enti.

Si è, inoltre, precisato che il dubbio che la scelta normativa sia frutto di negligenza o di involontaria svista del legislatore «si dissolve osservando che già la legge n. 262 del 2005 (la quale, per altra parte, arricchì il catalogo dei "reatipresupposto" mostrando interesse a questa leva punitiva) sancì l'estraneità della fattispecie dell'art. 174-bis del T.U.F. dal novero ascrittivo della speciale responsabilità di cui si tratta, e, al contempo, integrò l'ambito dei casi forieri di responsabilità ex delicto in capo all'ente (art. 25-ter, comma 1, lett. r, d. lgs. n. 231 del 2001), con la previsione dell'illecito, di nuovo conio, dettato dall'art 2629bis cod. civ. (Omessa comunicazione del conflitto di interessi, ipotesi introdotta anche con qualche forzatura repressiva, essendo piuttosto problematico ipotizzare che siffatta omissione sia realizzata nell'interesse o a vantaggio della società), a dimostrazione dell'immutato interesse per la disciplina sulla responsabilità da reato degli enti».

Esaminando più in generale le linee guida della riforma della disciplina della revisione contabile, si è ritenuto che sarebbe sicuramente riduttiva ed impropria la sola prospettiva che si limiti ad osservare la mera modifica della disciplina della responsabilità amministrativa da reato dell'ente: il senso complessivo della riforma disposta dal legislatore a mezzo del D. Lgs. n.39 del 2010 (attuativo della Direttiva U.E. 2006/43/CE, che imponeva agli Stati membri la previsione di "sanzioni effettive proporzionate e dissuasive nei confronti dei revisori legali e delle imprese di revisione contabile, qualora le revisioni legali dei conti non siano effettuate conformemente alle disposizioni di applicazione della presente direttiva": art. 30 Direttiva cit.) è, infatti, «assai più incisivo e complesso, qualificandosi come un intervento ampio e pervasivo nel sistema della revisione contabile, risultato di un'opera protesa alla globale razionalizzazione e riordino del dato normativo», ed avendo in definitiva il Legislatore operato «un esteso riordino normativo per il quale non è dato percepire, nel vaglio di legittimità spettante al giudice ordinario, alcuno scompenso valutabile in termini di irragionevolezza, residuando - invece - una scelta politica, contrassegnata dalla discrezionalità, esente da possibile scrutinio in termini di legittimità».

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. , il seguente principio di diritto:

«il d. lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, nell'abrogare e riformulare il contenuto precettivo dell'art. 174-bis T.U.F. (Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione), non ha influenzato in alcun modo la disciplina propria della responsabilità amministrativa da reato dettata dall'art. 25-ter d. lgs. n. 231 del 2001, poiché le relative fattispecie non sono richiamate da questo testo normativo e non possono conseguentemente costituire fondamento di siffatta responsabilità».

3. Sicurezza pubblica. La normativa in tema di stranieri: il reato di cui all'art. 6 D. Lgs. n. 286 del 1998.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se la modificazione dell'art. 6 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, ad opera dell'art. 1, comma 22 lett. h) della legge 15 luglio 2009 n. 94, abbia circoscritto i soggetti attivi del reato - di inottemperanza «all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato» - esclusivamente agli stranieri "legittimamente" soggiornanti nel territorio dello Stato, con conseguente abolitio criminis per gli stranieri extracomunitari clandestini».

Sotto la vigenza della precedente formulazione dell'art. 6, comma terzo, D. Lgs. n. 286/98, che sanzionava la mancata esibizione del passaporto (o di altro documento di identificazione) ovvero del permesso o della carta di soggiorno, le Sezioni Unite[64] avevano ritenuto:

(a) la punibilità della mancata (ed ingiustificata) esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione, commessa dallo straniero (extracomunitario), a prescindere dalla regolarità o meno della sua presenza nel territorio nazionale;

(b) l'irrilevanza penale, invece, dell'omessa esibizione, da parte dello straniero clandestino, del permesso o della carta di soggiorno, ovvero del documento di identificazione per stranieri di cui all'art. 6, comma nono, D. Lgs. cit., trattandosi di un obbligo da lui inesigibile, attesa l'inconciliabilità del possesso di uno di detti ultimi documenti con la condizione stessa di straniero clandestino.

Questo orientamento era stato costantemente ribadito dalle successive decisioni della giurisprudenza di legittimità[65].

Anche a seguito delle modifiche apportate all'art. 6, comma terzo, cit. dall'art. 1, comma 22, lett. h), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (recante "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica")[66], la giurisprudenza di legittimità[67] aveva ribadito i principi in precedenza enunciati dalle Sezioni Unite, ritenendo tuttora esigibile nei confronti dello straniero, che pure abbia fatto ingresso irregolare nel territorio dello Stato, l'obbligo di esibizione dei documenti di identificazione o dei documenti di soggiorno, osservando a) che la novella ha comportato un inasprimento sanzionatorio, ovviamente (ex art. 25 Cost. e art. 2 c.p.) non applicabile ai fatti commessi precedentemente alla sua entrata in vigore, ed un mutamento lessicale dal valore pressoché esclusivamente formale nella descrizione della fattispecie; b) che il problema del valore copulativo o correlativo, ovvero alternativo, della congiunzione "e", posta tra le classi dei documenti dì identificazione e dei documenti di soggiorno da esibire, e adottata nella nuova formulazione in luogo di quella sicuramente disgiuntiva ("o") del testo precedente, «non può incidere sulla condizione di esigibilità dell'ottemperanza che è implicita nella clausola del giustificato motivo, nè, in ogni caso, sulle situazioni pregresse».

Non si registravano pronunce di segno contrario.

Al contrario, nell'ambito della giurisprudenza di merito[68] le prime decisioni sembravano orientate diversamente, nel senso che, in virtù della nuova formulazione della norma in esame, sarebbe ora sanzionata l'omessa, contestuale (e non alternativa), esibizione da parte dello straniero, sottoposto a controllo, sia di un documento idoneo a stabilirne l'identità, sia di un documento idoneo a comprovarne la regolare presenza sul territorio dello Stato. In favore di tale conclusione militava la ratio giustificatrice delle innovazioni apportate dalla l. n. 94 del 2009, attraverso l'introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio italiano (all'art. 10-bis D. Lgs. cit.), che avrebbe dato vita ad un "doppio binario" sanzionatorio: a) l'uno, per gli stranieri regolarmente presenti sul territorio (onerati dell'esibizione contestuale, a richiesta, dei documenti indicati nell'art. 6 D. Lgs. cit.); b) l'altro, per gli stranieri "clandestini punibili - in via gradatamente sempre più grave - con le (nuove) previsioni di cui agli art. 10 - bis, 14, comma 5 - ter, 14, comma 5 - quater, e 13, comma 13, D. Lgs. cit.

Il collegio rimettente riteneva non condivisibile l'orientamento dominante nell'ambito della giurisprudenza di legittimità; secondo la diversa impostazione ermeneutica seguita dal collegio rimettente, la quaestio iuris atteneva alla tipicità, piuttosto che alla esigibilità della condotta, dovendosi verificare, in particolare, se la novella abbia o meno comportato una parziale abolitio criminis con riguardo alla figura del soggiornante irregolare, stante la tipizzazione del "soggiornante regolare" quale esclusivo soggetto attivo del reato proprio in esame. Nella costruzione del precetto normativo risulterebbe, infatti, con evidenza l'estromissione dei clandestini dal novero dei soggetti attivi del reato, poiché gli stessi sono necessariamente privi, proprio per la condizione di clandestinità in cui versano, sia del permesso che di ogni altro titolo di soggiorno, laddove il contenuto del disposto normativo concerne indefettibilmente l'esibizione "del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato".

Due sono essenzialmente le argomentazioni al riguardo sviluppate nell'ordinanza di rimessione: (a) il rilievo storico-sistematico della contestuale introduzione, ad opera della stessa novella, del nuovo reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato; (b) lo stesso tenore letterale della disposizione incriminatrice, che tipizzerebbe chiaramente la fattispecie nel senso che, ai fini dell'integrazione del reato, è necessaria la concorrenza dell'omessa esibizione dei documenti di identificazione e del titolo che abilita al soggiorno.

La dottrina era estremamente divisa:

(a) l'orientamento prevalente riteneva che la modifica introdotta dal legislatore del 2009 comportasse la necessità di un complessivo ripensamento della portata stessa della fattispecie incriminatrice, nel senso che la richiesta del pubblico ufficiale dovrebbe oggi necessariamente avere ad oggetto i documenti identificativi "e" quelli relativi al soggiorno: in questa prospettiva, l'ottemperanza prescritta dalla disposizione in esame si riferirebbe esclusivamente ad una richiesta congiunta dei documenti di entrambi i tipi, con la conseguenza che essa sarebbe esigibile solo dallo straniero regolarmente soggiornante nel territorio. D'altro canto, l'esclusione dal novero dei destinatari della nuova norma incriminatrice di cui all'art. 6, comma terzo, cit., degli stranieri illegalmente presenti in Italia risulterebbe coerente con la contestuale introduzione, ad opera della stessa novella del 2009, del reato di cui all'art. 10-bis cit. Si osservava che «l'aver introdotto il reato di clandestinità rende non punibile per lo straniero il rifiuto di eseguire condotte, come l'esibizione dei documenti, che hanno come necessaria conseguenza quella di autoaccusarsi del nuovo reato»; invero, con la penalizzazione del soggiorno irregolare dello straniero clandestino dai cui documenti emerga lo status di irregolarità, il relativo dovere di esibizione configurerebbe un vero e proprio obbligo di autoincolpazione, che si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale del nemo tenetur se detegere, introducendosi in tal modo in capo allo straniero irregolare, che non ottemperi all'ordine, quel giustificato motivo evocato dalla norma incriminatrice. Nell'ambito di questo orientamento si era anche sostenuto che l'inserimento dell'incriminazione che sanziona penalmente l'ingresso ed il soggiorno illegale dello straniero extracomunitario ex art. 10-bis cit., e la contemporanea modifica dell'art. 6, comma 3, scindono in astratto la coppia dei possibili soggetti attivi (stranieri regolari/irregolari), mantenendo nell'ambito della fattispecie tipica esclusivamente gli stranieri regolari (conseguenza, questa, prodottasi con l'inserimento della congiunzione copulativa "e" fra le classi di documenti da mostrare). Gli extracomunitari irregolari, non colpiti da un precedente ordine di espulsione ovvero di allontanamento, rispondono, invece, esclusivamente del reato di cui all'art. 10-bis: per il passato, dunque, si è verificata una perdita di rilevanza penale della sottofattispecie relativa alla mancata esibizione del documento di identificazione. La riformulazione dell'art. 6, comma 3, ha comportato, infatti, la sostituzione della previgente incriminazione con una nuova che si pone rispetto alla precedente in rapporto di specialità, restringendo il novero dei possibili soggetti attivi del reato ai soli stranieri "regolari", che non esibiscono sia un documento di identificazione sia il permesso di soggiorno. L'indispensabile esibizione di entrambi i documenti (quello identificativo e quello attestante la regolarità della presenza in Italia) specializza, pertanto, la tutela penale, riducendo l'ambito applicativo della menzionata incriminazione rispetto al passato; tuttavia, la delimitazione del perimetro del penalmente rilevante è compensata dall'introduzione della nuova figura di reato di cui all'art. 10-bis, la quale rende non più necessario incriminare la mancata esibizione di un documento di identità da parte dell'immigrato clandestino. Ne consegue che la novella avrebbe abolito quella parte della previgente incriminazione riguardante l'immigrato clandestino il quale non mostrava un documento di identificazione: siffatta condotta, attualmente, deve ritenersi assorbita nel nuovo reato di immigrazione clandestina - che risulta, peraltro, palesemente eterogeneo, sotto il profilo strutturale, rispetto al previgente illecito previsto dall'art. 6, comma 3 - con la conseguenza che, per questa tipologia di fatto, si è prodotta una abolitio criminis quanto alle condotte pregresse, ed una nuova incriminazione per il futuro. Per quanto concerne, invece, la posizione dello straniero regolare (unica classe residua di possibili soggetti attivi), la novella ha unicamente comportato un inasprimento sanzionatorio, con la conseguenza che essa non potrà applicarsi ai fatti anteriormente commessi;

(b) un diverso, ma isolato, orientamento riteneva invece sussistente un'ipotesi di concorso formale tra i reati di cui agli artt. 6, comma 3, e 10-bis, il che avrebbe comportato l'attrazione della competenza al giudice ordinario anche per il reato di cui all'art. 10-bis e l'impossibilità di giudicare lo straniero con il nuovo rito sommario dinanzi al giudice di pace, così come previsto alla l. n. 94/2009 per il reato punito dall'art. 10-bis;

(c) altro orientamento riteneva, infine, che, quand'anche la norma de qua dovesse leggersi secondo il suo significato letterale (poiché potrebbe essersi trattato anche di un mero refuso legislativo), nulla cambierebbe rispetto agli approdi interpretativi cui erano pervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia del 2003; muovendo dal presupposto, delineato dalle stesse Sezioni Unite, secondo cui la "esibizione" di un documento presuppone che lo stesso esista nel mondo fenomenico, apparirebbe evidente che della contravvenzione non poteva (e non potrà nemmeno in futuro) essere chiamato a rispondere l'immigrato clandestino, per il solo fatto di non essere stato in grado di esibire il permesso di soggiorno o altro documento equipollente, atteso che per definizione esso non può esistere.

Con ordinanza del 24 febbraio - 27 aprile 2011, n. 16453, P.M. in proc. Alacev, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 249546

Il reato di inottemperanza all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o dell'attestazione della regolare presenza nel territorio dello Stato è configurabile soltanto nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, e non anche degli stranieri in posizione irregolare, a seguito della modifica dell'art. 6, comma terzo, D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recata dall'art. 1, comma ventiduesimo, lett. h), L. 15 luglio 2009, n. 94, che ha comportato una abolitio criminis, ai sensi dell'art. 2, comma secondo, cod. pen., della preesistente fattispecie per la parte relativa agli stranieri in posizione irregolare.

Il Supremo collegio ha richiamato il proprio precedente orientamento relativo alla previgente formulazione dell'art. 6, comma terzo, cit., ricordando che la ratio decidendi della sentenza Mesky, era dichiaratamente fondata sul contenuto della norma posta dall'art. 6, comma 3, D. Lgs. 286 del 1998, interpretata nel "senso fatto palese dal significato delle parole secondo la connessione di esse, e dall'intenzione del legislatore" (art. 12, comma primo, disp. prel.). La norma, nel testo vigente all'epoca della decisione, indicava quattro tipi di documenti che lo straniero (senza alcuna distinzione tra legittimamente o irregolarmente presente sul territorio nazionale) era abilitato a esibire a richiesta degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza; l'esibizione di uno qualsiasi di tali documenti ("il passaporto o altro documento di identificazione ovvero il permesso di soggiorno o la carta di soggiorno") escludeva la sussistenza del reato. La citata decisione aveva rilevato che i primi due (passaporto o altro documento d'identificazione) non hanno alcun rilievo ai fini della regolarità dell'ingresso e della giustificazione della presenza nel territorio dello Stato, ma attengono solo alla certa identificazione del soggetto; il permesso e la carta di soggiorno attestano, invece, la regolare presenza dello straniero in territorio nazionale e di tale regolarità sono idonei a dare esaustiva contezza, ma valgono nel contempo alla sicura identificazione del soggetto. La locuzione «ovvero» attribuiva agli ultimi due valore di equipollenza e ne derivava che l'esibizione di uno qualsiasi di tali documenti escludeva la sussistenza del reato, con la conseguenza che lo straniero in posizione irregolare aveva l'obbligo di esibire i documenti d'identificazione, mentre non era da lui esigibile l'esibizione dei documenti di soggiorno. La ratio della norma non era quella di consentire agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza di verificare, illico et immediate, attraverso l'esibizione di uno di quei documenti, la regolarità o meno della presenza dello straniero in territorio nazionale, ma solo quella di procedere alla sua documentale identificazione. L'interesse protetto dalla norma veniva individuato non già nella verifica della regolarità della presenza dello straniero in territorio nazionale, ma nell'identificazione dei soggetti stranieri presenti (regolarmente o meno) nel territorio dello Stato, potendo l'accertamento di regolarità del soggiorno essere effettuato in un momento successivo.

La novella del 2009 ha inciso sul testo dell'art. 6, comma terzo, cit. non soltanto inasprendo il trattamento sanzionatorio (aumento del massimo edittale), ma precisando anche la condotta tipica (inottemperanza all'ordine di esibizione, anziché mancata esibizione alla richiesta di ufficiali e agenti di p.s.), in particolare attraverso la sostituzione della locuzione «e» alla disgiunzione «ovvero» relativamente alle due categorie di documenti da esibire: quelli d'identificazione e quelli attestanti la regolarità del soggiorno nel territorio dello Stato.

L'orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo il quale l'intervenuta modificazione normativa non avrebbe determinato mutamenti di alcun genere, in quanto la precisazione della condotta tipica ha valore esclusivamente formale, mentre l'introduzione della congiunzione "e" posta tra le classi dei documenti d'identificazione e dei documenti di soggiorno da esibire, adottata nella nuova formulazione in luogo di quella precedente, sicuramente disgiuntiva ("ovvero"), non può incidere sulla condizione di esigibilità dell'ottemperanza che è implicita nella clausola del giustificato motivo, né, in ogni caso, sulle situazioni pregresse» non è stato condiviso, poiché «il tenore oggettivo della disposizione incriminatrice tipizza la condotta contravvenzionale nel senso che, ai fini dell'adempimento del precetto normativo, è necessaria la concorrenza dell'esibizione dei documenti d'identificazione unitamente a quella del titolo di soggiorno. A tanto conduce l'interpretazione della disposizione di cui all'art. 6, comma 3, d. lgs. cit., seguendo i canoni dettati dall'art. 12 delle preleggi (secondo i criteri seguiti dalla stessa sentenza Mesky), al fine di attribuire significato alla norma per misurarne la precisa estensione e la possibilità di applicazione alla concreta fattispecie. È vero che, in astratto, la congiunzione "e" può essere utilizzata in funzioni di collegamento di tipo copulativo (nel senso di "e anche") sia di tipo disgiuntivo ("e/o"), ma l'analisi testuale del dettato normativo nel suo sviluppo diacronico (rispetto al precedente testo) e sincronico (rispetto alle coppie alternative poste all'interno delle due categorie di documenti) assegna alla congiunzione "e" il significato della necessaria compresenza delle due categorie di documenti: quelli d'identità (passaporto o altro documento identificativo) e quelli di regolarità (permesso di soggiorno o altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato)».

Dalla successione delle congiunzioni emerge che i collegamenti sono di disgiunzione ed alternatività all'interno di ciascuna categoria (stante la fungibilità dei documenti richiamati per attestare rispettivamente l'identità e la regolarità del soggiorno), di addizione e compresenza delle due diverse categorie (essendo palese l'infungibilità tra documenti d'identificazione e quelli relativi al soggiorno): il legislatore ha «consapevolmente operato la sostituzione della congiunzione da disgiuntiva ("ovvero") a congiuntiva ("e"), modificando la connessione delle parole e facendo venir meno l'equipollenza degli adempimenti evidenziata dalla sentenza Meski, così imponendo allo straniero di esibire, oltre ai documenti d'identificazione personale, anche quelli attestanti la regolarità della presenza nel territorio dello Stato. Ciò all'evidente scopo, per parafrasare la motivazione della sentenza Mesky, di consentire agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza non soltanto di procedere all'esatta e compiuta identificazione dello straniero, ma anche "di verificare, illico et immediate, attraverso l'esibizione di uno di quei documenti, la regolarità o meno della presenza dello straniero nel territorio nazionale", al fine di procedere al confronto tra dati identificativi e dati risultanti dai documenti concernenti la legalità dell'ingresso e del soggiorno, in maniera da far subito emergere l'eventuale non corrispondenza tra essi o l'utilizzazione di documenti falsi».

Lo scopo della predetta modifica normativa, volta a porre un freno al diffuso fenomeno dell'uso di documenti di soggiorno falsi o contraffatti, può essere desunto dalla contestuale e coerente introduzione[69] di una nuova fattispecie penale, che estende la pena della reclusione da uno a sei anni anche all'utilizzazione di uno dei documenti, contraffatti o alterati, relativi all'ingresso e al soggiorno.

Si è, pertanto, concluso che, rispetto alla precedente formulazione, secondo cui il reato era integrato per il fatto di non esibire una delle due categorie di documenti (d'identificazione ovvero di regolare soggiorno), a seguito della novella del 2009 la fattispecie contravvenzionale è integrata dallo straniero che, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, omette di esibire entrambe le categorie di documenti: «così ricostruita la fattispecie, ne deriva che essa non può più applicarsi allo straniero in posizione irregolare, cioè a colui che è entrato illegalmente in Italia o qui è rimasto nonostante la scadenza del titolo di soggiorno»; in particolare, la norma incriminatrice non può riguardare tale straniero «perché egli, in quanto irregolarmente presente nel territorio dello Stato, non può, per ciò stesso, essere titolare di permesso di soggiorno; la condotta dello straniero irregolare non può essere ricompresa nella nuova fattispecie di cui all'art. 6, comma 3, D. Lgs. cit. in forza del principio di tipicità, risultando chiaro dal contenuto della norma e dall'interesse da essa tutelato che il soggetto attivo del reato è stato circoscritto allo straniero regolarmente soggiornante».

Queste conclusioni sono avvalorate dall'esame dell'intero contesto normativo in cui il legislatore ha introdotto la modificazione dell'art. 6, comma 3, cit., costituito non soltanto dall'introduzione dell'indicata estensione della fattispecie delittuosa dell'art. 5, comma 8-bis, D. Lgs. n. 286 del 1998, all'utilizzazione dei documenti di soggiorno falsificati o contraffatti, ma anche dall'introduzione nell'ordinamento del delitto di "ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato" e dalle disposizioni penali e processuali che l'accompagnano (art. 10-bis stesso D. Lgs., inserito dall'art. 1, comma 16, lett. a), l. n. 94 del 2009): «con la modificazione del predetto art. 6, comma 3 (inasprimento sanzionatorio per l'omessa esibizione dei documenti da parte dello straniero regolarmente soggiornante), e con l'inserimento nell'art. 5, comma 8-bis della punizione dell'utilizzazione dei documenti di soggiorno falsi o contraffatti, il legislatore ha inteso facilitare, innanzitutto per le forze di polizia, la distinzione tra le due categorie di stranieri (regolari e irregolari), allo scopo di sottoporre quelli in posizione irregolare (la cui condotta integra il reato di cui all'art. 10-bis D. Lgs. 286 del 1998) a sanzione pecuniaria, inflitta dal giudice di pace, a seguito di rapido e semplificato processo penale, finalizzato alla più veloce estromissione dal territorio dello Stato».

Si è osservato che «al legislatore, in effetti, interessa poco la sanzione penale per gli stranieri che sono entrati o soggiornano illegalmente nello Stato; interessa piuttosto attivare il meccanismo rapido volto all'espulsione, tant'è che il reato di cui all'art. 10-bis è sanzionato soltanto con pena pecuniaria, salva la ricorrenza dei più gravi reati, in forza dell'espressa clausola di sussidiarietà, all'evidenza prevista con riferimento ai delitti previsti dai successivi artt. 13 e 14 (non già per la contravvenzione prevista dal precedente art. 6, comma 3)».

Il legislatore ha, pertanto, introdotto un "doppio binario", «sanzionando gli stranieri regolarmente soggiornanti per la mancata esibizione dei documenti con la pena inasprita dall'art. 6, comma 3, cit. (costringendoli a circolare sempre muniti di completa documentazione d'identità e di soggiorno) e gli stranieri in posizione irregolare con un crescendo sanzionatorio-repressivo scandito sulle diverse eventuali condotte illecite in progressione (artt. 10-bis, 14, comma 5-ter, 14, comma 5-quater, 13, comma 13, D. Lgs. cit.), sempre finalizzato all'espulsione dal territorio nazionale nel più breve tempo possibile, obiettivo che rischierebbe di essere compromesso dai tempi processuali di accertamento e di eventuale esecuzione di pena per il reato di cui all'art. 6, comma 3 (per il quale non sono previsti i meccanismi facilitatori dell'espulsione di cui all'art. 10-bis). Al fine di attivare la dinamica repressiva-espulsiva appena indicata è funzionale la stessa previsione dell'art. 6, comma 3, D. Lgs. n. 286 del 1998, nell'interpretazione sopra formulata. Come si è notato, l'interesse protetto da questa norma è quello di procedere immediatamente alla verifica della regolarità della presenza dello straniero in territorio nazionale, per poter il più rapidamente possibile mettere in opera il meccanismo processual-penale e amministrativo volto all'espulsione dal territorio nazionale dello straniero in posizione irregolare».

L'identificazione e l'accertamento di regolare presenza degli stranieri legalmente soggiornanti costituiscono, infatti, attività prodromiche e funzionali a innescare il procedimento di espulsione di quelli in posizione irregolare: «invero, la mancata esibizione di documenti attestanti la regolarità del soggiorno, di per sé, costituisce un indizio del reato di cui all'art. 10-bis, con tutto ciò che consegue in termini di accertamenti di polizia giudiziaria, a cominciare dai poteri d'identificazione di cui all'art. 349 cod. proc. pen. In ogni caso, ritenere che la fattispecie dei cui all'art. 6, comma 3, D. Lgs. cit. escluda come soggetto attivo lo straniero in posizione irregolare, non implica affatto che egli sia sciolto dai vincoli connessi al dovere di farsi identificare, a richiesta anche di ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, applicandosi comunque a tutti gli stranieri (in posizione regolare o irregolare) l'art. 6, comma 4, che consente di sottoporre a rilievi fotodattiloscopici e segnaletici lo straniero (in posizione regolare o irregolare) nel caso che vi sia motivo di dubitare della sua identità personale».

In conclusione, si è conclusivamente ritenuto che, ai sensi dell'art. 2, comma 2, cod. pen., a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 1, comma 22, lett. h), l. n. 94 del 2009 sia intervenuta l'abolitio criminis del reato già previsto dall'art. 6, comma 3, D. Lgs. n. 286 del 1998 nei confronti dello straniero in posizione irregolare.

SEZIONE II PROCEDURA PENALE

  • giudice
  • pubblico ministero
  • ricusazione

Cap. 7

I soggetti

Sommario

1 Il giudice. Astensione e ricusazione: l'efficacia degli atti compiuti medio tempore dal giudice astenutosi o ricusato. - 1.1 Segue. Gli effetti della ricusazione sulla sentenza resa prima dell'adozione dell'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta l'istanza di ricusazione. - 2 Il Pubblico Ministero. La delega per l'udienza di convalida del vice procuratore onorario o del magistrato ordinario in tirocinio.

1. Il giudice. Astensione e ricusazione: l'efficacia degli atti compiuti medio tempore dal giudice astenutosi o ricusato.

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere

«se, in assenza di un'espressa dichiarazione di conservazione di efficacia nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato possano essere utilizzati».

L'orientamento prevalente riteneva che, ai sensi dell'art. 42, comma secondo, cod. proc. pen., la declaratoria di efficacia degli atti (in tutto od in parte) compiuti dal giudice successivamente astenutosi o ricusato fosse imprescindibile, dovendo in difetto ritenersi l'inefficacia di tutti gli atti in precedenza compiuti: il piano dell'efficacia degli atti precedentemente compiuti, cui fa riferimento l'art. 42, comma secondo, non andava confuso con quello dell'utilizzabilità degli stessi mediante il meccanismo delineato dall'art. 511 cod. proc. pen. Si evidenziava anche che, dal contenuto logico della disposizione di cui all'art. 42, comma secondo, « traspare, in termini univoci e concludenti, che, in caso di accoglimento della richiesta di astensione o di ricusazione, non può mai mancare l'accertamento relativo alla conservazione o non dell'efficacia degli atti compiuti dallo judex suspectus, sicchè deve riconoscersi che ogni volta che gli stessi atti trovino una qualche possibilità di utilizzazione (e tale è indubbiamente quella, sussistente nel caso di specie, che ne consente il mantenimento nel fascicolo del dibattimento ai fini della lettura ex art. 511) il giudice che accoglie l'istanza di astensione o di ricusazione non può mai esimersi dall'osservanza del dovere di controllare l'eventuale incidenza sul contenuto dei singoli atti delle specifiche situazioni che hanno dato causa alla stessa astensione o ricusazione »[70]. A fondamento del principio si porrebbe la garanzia dell'imparzialità del giudicante, più volte indicata dalla giurisprudenza costituzionale quale perno centrale del «giusto processo». Non sarebbe conferente richiamare il principio di conservazione degli atti compiuti dal giudice suspectus, «per l'ovvia ragione che (...) può avere senso parlare di conservazione degli atti fino a quando non sia stata accolta l'istanza di astensione o di ricusazione, e che dopo la pronuncia di accoglimento, il riconoscimento della perdurante efficacia degli atti è subordinato alla verifica imposta dal secondo comma dell'art. 42». Si rilevava, infine, che «l'obbligatorietà di una siffatta pronuncia, correlata all'insopprimibile esigenza di imparzialità del giudice, trova significativa conferma nel recente intervento normativo attuato col d.l. 23.10.1996, n. 553, convertito nella l. 23.12.1996, n. 652, il cui secondo comma dell'art. 1 statuisce che conservano efficacia gli atti compiuti anteriormente al provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione per una delle situazioni di incompatibilità stabilite dall'art. 34, comma 2°, del codice, restando, con ciò, inequivocamente confermato che per la altre cause di astensione o di ricusazione è sempre prescritto il controllo di efficacia imposto dal secondo comma dell'art. 42 ». A sostegno dell'orientamento, con implicazioni anche relative alla successiva valutazione di utilizzabilità degli atti, riservata al giudice all'esito del dibattimento, all'esito di un'ampia disamina, si era anche affermato che «qualora la Corte d'appello abbia accolto la dichiarazione di ricusazione del presidente della Corte d'assise, spetta allo stesso giudice della ricusazione e non al nuovo collegio giudicante, indicare, ai sensi dell'art. 42, comma secondo, cod. proc. pen., se e in quale parte, gli atti compiuti precedentemente conservino efficacia, cioè possano essere mantenuti nel fascicolo per il dibattimento, ferma restando la competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini del decidere, sulla scorta di quanto previsto dall'art. 511 in relazione all'art. 525 cod. proc. pen.»[71]. Pertanto, soltanto con riguardo agli atti dei quali sia stata espressamente conservata l'efficacia, l'imputato, in caso di rinnovazione del dibattimento per mutata composizione del collegio, potrà esprimere il consenso alla utilizzabilità, laddove detto consenso non potrebbe essere né richiesto né prestato se il giudice che ha deciso sull'astensione o sulla ricusazione non abbia effettuato la dichiarazione di conservazione dell'efficacia.

L'orientamento era condiviso dalla dottrina dominante. Si riteneva, in particolare, che la formulazione letterale dell'art. 42, comma secondo, cod. proc. pen., generalmente considerato espressione del principio di conservazione degli atti (così espressamente la Relazione al progetto preliminare del Cod. proc. pen., 29, che non contiene ulteriori riferimenti di rilievo ai fini della soluzione della odierna questione controversa), non indicasse «che nel silenzio del giudice competente sopravviva l'intera attività giurisdizionale posta in essere dal ricusato, bensì proprio al situazione opposta, in quanto, come è stato attentamente osservato, ove si fosse voluto attagliare la disposizione al principio di conservazione degli atti la si sarebbe dovuta formulare secondo uno schema antitetico del tipo " se e in quale parte gli atti compiuti perdano efficacia"».

Altro orientamento, inizialmente formatosi sotto la vigenza dell'abrogato codice di rito[72], riteneva che gli atti compiuti dal giudice successivamente astenutosi (o ricusato) sono validi se non sia diversamente disposto nel provvedimento che accoglie l'istanza di astensione (o la dichiarazione di ricusazione)[73]; all'indomani dell'entrata in vigore del nuovo codice di rito, l'orientamento è stato ripreso, con la precisazione che la tesi accolta «si ricollega (...) ai principi della conservazione degli atti e dell'economia processuale, particolarmente sentiti in processi di notevole complessità, in cui sarebbe troppo macchinoso elencare le attività processuali ritenute ancora valide»[74]. Sulla risoluzione della questione controversa potrebbe, pertanto, influire anche la specifica natura dei singoli atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, dei quali, di volta in volta, sia discussa - nel silenzio del provvedimento che ha accolto l'astensione o la ricusazione - l'efficacia.

L'orientamento è stato autorevolmente sostenuto dalla dottrina, per la quale l'ordinanza [che accoglie l'astensione o la ricusazione] «dichiara se e in quale parte» valgano ancora gli atti in precedenza compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, «rectius, li invalida o no; l'ipotesi è che fossero validi»; si precisava che la disciplina vigente «vuole tutelare la continuazione e la conservazione dell'attività processuale del giudice ricusato, salvo interventi diretti del giudice competente a decidere sulla ricusazione ancor prima della decisione e salvo il controllo circa l'efficacia in relazione ad ogni singolo atto prima compiuto, controllo da effettuarsi con l'eventuale provvedimento finale di accoglimento. Pertanto, anche quando le dichiarazioni vengono accolte, gli atti compiuti in precedenza rimangono pienamente efficaci salvo che il giudice competente a decidere sull'astensione o sulla ricusazione ne dichiari espressamente l'inattitudine a produrre effetti giuridici».

Con sentenza del 16 dicembre 2010 - 5 aprile 2011, n. 13626, Di Giacomantonio ed altri, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, aderendo all'orientamento in precedenza prevalente. Il principio affermato è stato così massimato:

Massima n. 249299

In assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci. (La Suprema Corte ha precisato che la nozione di «efficacia» indica, nella specie, la possibilità di inserimento degli atti, compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, nel fascicolo per il dibattimento, e che la valutazione di efficacia od inefficacia, operata dal giudice che decide sull'astensione o sulla ricusazione, pur autonomamente non impugnabile, è successivamente sindacabile, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione).

Le Sezioni unite hanno premesso che gli istituti della incompatibilità, dell'astensione e della ricusazione tutelano specificamente il principio fondamentale della imparzialità del giudice, «principio che implica, come chiarito da autorevole dottrina, non soltanto l'assenza di vincolo di subordinazione rispetto agli interessi delle parti in causa, ma, in una prospettiva più ampia, la non soggezione a condizionamenti di ogni genere che possano prevalere sulla necessità di accertamenti e valutazioni serene ed esclusivamente ispirate dallo scopo di decidere secondo diritto e giustizia», e trova fondamento costituzionale nel vigente testo dell'art. 111 Cost.

E' stato, in primo luogo, valorizzata l'interpretazione letterale dell'art. 42, comma secondo, cod. proc. pen.: «la disposizione, infatti, nello stabilire che "il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia" determina in primo luogo con precisione il giudice che deve adottare il provvedimento. Si tratta, invero, del giudice dell'astensione o della ricusazione, come affermato dalla richiamata sentenza Zuccotti, e come si desume dalla lettera della disposizione. Del resto è proprio il giudice che decide sulla astensione che conosce i profili di incompatibilità del giudice astenutosi e che può quindi valutare con precisione gli effetti di tale rilevata incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti in precedenza. Inoltre, proprio perché si tratta di un profilo molto delicato perché attiene alla imparzialità e terzietà del giudice, il provvedimento che decide la sorte degli atti posti in essere dal giudice astenuto deve essere adottato con la maggiore celerità possibile al fine di evitare dubbi sulla parzialità del giudizio».

Questa affermazione di principio risultava, peraltro, pacifica, laddove vi è contrasto in ordine alla necessità o meno della declaratoria di efficacia degli atti precedentemente assunti dal giudice astenuto; in proposito, le Sezioni unite hanno, peraltro, osservato che «ancora una volta l'interpretazione letterale della disposizione non lascia adito a dubbi perché il comma 2 dell'art. 42 cod. proc. pen. precisa che "il provvedimento [...] dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia". È vero che la disposizione in discussione, che sostanzialmente riproduce quella dell'articolo 70 del codice previgente, viene tradizionalmente considerata espressione del principio di conservazione degli atti (vedi Relazione al Progetto preliminare del cod. proc. pen., 29), ma, come è stato attentamente osservato da autorevole dottrina, ove si fosse voluto attagliare la disposizione al principio di conservazione degli atti la si sarebbe dovuta formulare secondo uno schema antitetico del tipo "se e in quale parte gli atti compiuti perdano efficacia" ».

Vi è quindi una sorta di presunzione di inefficacia degli atti posti in essere dallo iudex suspectus prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione o della ricusazione, che può essere rimossa con la declaratoria di efficacia di tutti o di alcuni atti dal giudice della ricusazione, che abbia verificato se malgrado la riconosciuta carenza di imparzialità del giudice, vi siano atti che non abbiano subito alterazione, così da poter essere conservati.

L'obbligatorietà della declaratoria di efficacia degli atti ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. trova significativa conferma nella disposizione di cui all'art. 1 del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 553, convertito nella legge 23 dicembre 1996, n. 652: «tale decreto-legge intervenne subito dopo la sentenza della Corte cost. n. 371 del 1996, con cui fu dichiarata l'illegittimità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. "nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia stata compiutamente valutata". L'art. 1, comma 2, del citato decreto-legge dispose che conservano efficacia gli atti compiuti anteriormente al provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione del giudice per una delle cause di incompatibilità stabilite dall'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. quando sia già stata dichiarata l'apertura del dibattimento. Si tratta di una norma transitoria e perciò eccezionale che deroga all'art. 42, comma 2, cod. proc. pen., cosicché risulta confermato che la regola non è quella della conservazione di efficacia degli atti, bensì quella contraria della inefficacia degli atti, salva la diversa espressa dichiarazione di cui all'art. 42, comma 2, cod. proc. pen.».

La mancanza di una declaratoria di efficacia degli atti determina, pertanto, l'inefficacia di tutti gli atti compiuti dal giudice prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione o dell'accoglimento della istanza di ricusazione.

Le Sezioni unite hanno, peraltro, rilevato che le parti potrebbero non essere d'accordo con tale decisione, e potrebbero dissentire anche sull'apprezzamento negativo, o parzialmente negativo, del giudice che ha accolto la ricusazione o ha autorizzato l'astensione, sia subito dopo l'adozione del provvedimento, sia, a maggior ragione, dopo l'espletamento della istruttoria dibattimentale e, quindi, causa cognita; d'altro canto, le norme procedurali vigenti non prevedono l'impugnabilità del provvedimento emesso ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen.

Ed, in proposito, si è osservato che «l'inoppugnabilità del provvedimento in discussione, se non temperata da un sistema di rivedibilità o di sindacabilità della decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione, finirebbe con il sottrarre definitivamente gli atti a contenuto probatorio dichiarati erroneamente inefficaci, o ritenuti tali per mancata pronuncia da parte del giudice dell'astensione e/o della ricusazione, all'apprezzamento del giudice del dibattimento che, fondandosi sul contraddittorio tra le parti, è il vero dominus nel sistema processuale vigente degli atti a contenuto probatorio. Del resto, se la decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione non fosse sindacabile dal giudice del processo, le norme processuali, che prevedono la inoppugnabilità del provvedimento ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen., non si sottrarrebbero ad una censura di illegittimità costituzionale».

La giurisprudenza civile ha già avuto modo di affermare che l'illegittimità costituzionale dell'art. 53 cod. proc. civ., derivante dalla inoppugnabilità dei provvedimenti in materia di astensione e ricusazione, è stata esclusa soltanto perché il contenuto del provvedimento è suscettibile di essere riesaminato nel corso del processo: «un siffatto principio di portata generale non può non essere valido anche in materia penale; da ciò discende la necessità di una sindacabilità della declaratoria di efficacia, o della mancata declaratoria, ad opera del giudice del processo proprio per evitare, con una interpretazione costituzionalmente orientata dell'istituto, una illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 24, 25 e 111 Cost.»[75].

Invero, il provvedimento ex art. 42, comma secondo, cod. proc. pen., ha natura non decisoria, ma dichiarativa, essendo fondato su una ricognizione degli atti a contenuto probatorio compiuta, inaudita altera parte, dal giudice della ricusazione, che ha in materia una competenza per così dire interinale, che non può frustrare la competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini del decidere.

Il Supremo collegio ha anche osservato che non bisogna confondere il piano della efficacia degli atti precedentemente compiuti, al quale fa riferimento il secondo comma dell'art. 42 cod. proc. pen., con quello della utilizzabilità degli stessi mediante il meccanismo di acquisizione e di recupero delineato dall'art. 511 dello stesso codice riguardante le letture consentite, ma che è necessario chiarire il significato della espressione "efficacia degli atti" contenuta nel comma 2 dell'art. 42 cod. proc. pen.: «il legislatore mentre definisce con precisione i concetti di inutilizzabilità e nullità degli atti a contenuto probatorio, non chiarisce cosa debba intendersi per inefficacia degli atti. Orbene l'atto a contenuto probatorio ritenuto efficace è quello in grado di produrre effetti giuridici, e, quindi, in materia processuale penale è l'atto che può essere legittimamente mantenuto nel fascicolo per il dibattimento, fatto che costituisce il presupposto logico per una successiva, ed eventuale, utilizzazione dello stesso per la decisione».

Richiamata la giurisprudenza costituzionale per la quale il provvedimento ex art. 42, comma secondo, «vale [...] a delimitare l'area del possibile "recupero" dell'attività istruttoria già espletata»[76], recupero che può avvenire soltanto se gli atti a contenuto probatorio siano stati inseriti nel fascicolo del dibattimento, si è concluso che «sono efficaci gli atti che legittimamente possono essere inseriti nel fascicolo del dibattimento; tali atti possono in una fase successiva essere dichiarati utilizzabili ai fini della decisione».

Si è precisato che «non vi è dubbio che quando venga autorizzata l'astensione o accolta la istanza di ricusazione si assiste necessariamente ad un mutamento dell'organo giudicante, monocratico o collegiale che sia. Ebbene in siffatta ipotesi, in ossequio al principio della immutabilità del giudice di cui all'art. 525, comma 2, cod. proc. pen., il dibattimento deve essere rinnovato e deve essere riproposta tutta la sequenza procedimentale prevista, a meno che le parti non consentano, o meglio non si oppongano alla lettura dei verbali relativi alle prove in precedenza acquisite. Ed è esattamente questo il momento in cui il provvedimento ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. può essere sindacato, perché le parti, prima di prestare il consenso alla lettura dei verbali delle prove già acquisite, ed il giudice, prima di dichiarare utilizzabili le prove stesse secondo il combinato disposto degli artt. 525 e 511 cod. proc. pen., valuteranno le prove acquisite anche per i profili che potrebbero determinarne la inefficacia ai sensi dell'art. 42, comma 2, cod. proc. pen.».

D'altro canto, «la soluzione prospettata di sindacabilità del provvedimento di declaratoria di efficacia degli atti a contenuto probatorio assunti dal giudice poi astenutosi o ricusato elimina i dubbi di costituzionalità dell'art. 42, comma 2, cod. proc. pen. e restituisce alle parti ed al giudice del dibattimento la piena disponibilità del materiale probatorio conformemente alla previsione del sistema processuale vigente».

Si è, pertanto, conclusivamente affermato che «in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbono considerarsi inefficaci»; inoltre, le Sezioni unite hanno stabilito che «la dichiarazione di inefficacia degli atti può essere sindacata, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione, con conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi».

1.1. Segue. Gli effetti della ricusazione sulla sentenza resa prima dell'adozione dell'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta l'istanza di ricusazione.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se il divieto per il giudice ricusato - di pronunciare o concorrere a pronunciare la sentenza o altro provvedimento conclusivo del procedimento fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione - abbia carattere assoluto, determinando in ogni caso un difetto di capacità e quindi una nullità assoluta della decisione, o, invece, abbia carattere solo relativo e alternativo, sì da sussistere soltanto in caso di eventuale accoglimento della dichiarazione di ricusazione».

L'orientamento dominante riteneva in proposito che la decisione emessa in violazione del divieto di partecipazione al giudizio del giudice ricusato fino a che l'istanza di ricusazione non fosse stata dichiarata inammissibile o rigettata, è nulla soltanto nel caso in cui la dichiarazione sia accolta, mentre conserva piena validità tutte le volte che la ricusazione sia stata dichiarata inammissibile o sia rigettata: il divieto dell'art. 37, comma 2, cod. proc. pen., integrerebbe, infatti, un temporaneo difetto di potere giurisdizionale, limitato alla possibilità di pronunciare il provvedimento conclusivo e condizionato all'accoglimento o rigetto della dichiarazione di ricusazione, con la conseguenza che la valutazione di validità o meno della decisione irritualmente adottata dovrebbe avvenire secundum eventum[77]. Pur se nessuna decisione aveva ritenuto di individuare esplicitamente la "fonte" della nullità in oggetto, sembrava logico fare riferimento, tenuto anche conto dei contrari rilievi formulati dall'opposto orientamento, all'ipotesi di cui all'art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. (incapacità del giudice). Tutte le decisioni inseribili nell'ambito di tale orientamento erano intervenute in relazione a fattispecie nelle quali il subprocedimento di ricusazione era pervenuto alla sua definizione (pur in difetto dell'irrevocabilità, in pendenza del ricorso per cassazione), di talché la verifica della sussistenza della "condizione" posta all'operatività della ipotizzata nullità (ovvero, appunto, l'essere intervenuta o meno una pronuncia reiettiva della ricusazione) era estremamente agevole. Diversamente, ove si fosse posto il problema di valutare le conseguenze della violazione del divieto ancor prima che il subprocedimento di ricusazione fosse definito (ipotesi assai improbabile, ma non impossibile), l'adesione all'indirizzo maggioritario comportava sostanzialmente l'impossibilità di inquadrare giuridicamente la violazione del divieto di cui all'art. 37, comma 2, cod. proc. pen. (quanto alla validità o meno del provvedimento ciononostante emesso): la conseguente situazione di stallo sarebbe superabile soltanto rinviando o sospendendo la decisione sull'impugnazione della sentenza in attesa della definizione del procedimento di ricusazione.

Il contrario orientamento, nettamente minoritario (consistendo, con riferimento specifico all'art. 37, comma 2, cod. proc. pen., di una sola pronuncia) qualificava la violazione del divieto come causativa di nullità assoluta del provvedimento conclusivo irritualmente emesso, a norma degli artt. 178, comma primo, lett. a), e 179 cod. proc. pen., indipendentemente dall'esito della decisione sulla istanza di ricusazione; la violazione sarebbe rientrata «fra quelle attinenti alle condizioni di capacità del giudice di cui all'art. 178, lett. a) c.p.p., giacché il senso di quei divieti è appunto quello di privare il giudice, in tutto o in parte, della capacità, che altrimenti egli avrebbe, di condurre il processo e di pronunciare il provvedimento decisorio»; si aggiungeva che, se così non fosse, «l'istituto stesso della ricusazione rischierebbe di essere del tutto vanificato, giacché, non essendo i divieti in questione assistiti da alcuna specifica sanzione processuale in caso di loro violazione, qualora quest'ultima non fosse considerata neppure suscettibile di inquadramento fra quelle alle quali si riferisce l'art. 178, lett. a), c.p.p., ne deriverebbe che il pur vittorioso esperimento della procedura di ricusazione potrebbe, salve le eventuali responsabilità disciplinari in cui potrebbe incorrere il magistrato ricusato, non sortire effetto alcuno sul piano processuale, giacché gli atti e lo stesso provvedimento decisorio posti in essere dal detto magistrato, addirittura dopo l'eventuale accoglimento della dichiarazione di ricusazione, e quindi in dispregio dell'art. 42, comma 1, c.p.p., rimarrebbero comunque processualmente validi»[78].

La dottrina era ancor più divisa, non emergendo alcuna posizione predominante.

Un orientamento, sia pur con specifico riferimento alla ipotesi del giudice che avesse compiuto qualsivoglia atto successivamente all'accoglimento dell'istanza di ricusazione, in violazione del divieto di cui all'art. 42, comma 1, cod. proc. pen., configurava un'ipotesi di nullità assoluta concernente la capacità del giudice ex art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., assumendo che l'espressione "capacità del giudice" evocasse l'insieme dei requisiti necessari per l'esercizio del potere o per l'adempimento del dovere in cui l'atto si risolve, i quali possono variare non solo da soggetto a soggetto, ma addirittura in rapporto ad una determinata vicenda processuale, a seconda che la persona rispetto alla quale i detti requisiti si realizzano abbia la capacità per ogni processo, oppure per uno o alcuni processi soltanto. Tali argomentazioni risultavano mutuabili anche in relazione alla questione controversa.

Altro orientamento evidenziava che l'art. 37, comma 2, cod. proc. pen. non prevede alcuna sanzione processuale in caso di inosservanza del divieto ivi fissato, e che a tale carenza sarebbe possibile porre rimedio unicamente attraverso il meccanismo dell'art. 42, comma 2, cod. proc. pen.; né sarebbe possibile fare riferimento alla nullità conseguente al combinato disposto degli artt. 178, comma 1, lett. a), e 33 cod. proc. pen., riguardante esclusivamente la mancanza delle condizioni di capacità del giudice stabilite dalle leggi di ordinamento giudiziario, che si produrrebbe soltanto al termine del relativo procedimento, ovvero quando, intervenuta l'ordinanza di accoglimento, il giudice ricusato sia sostituito, ex art. 43, comma 1, cod. proc. pen., da altro magistrato dello stesso ufficio designato secondo le leggi di ordinamento giudiziario. Resterebbe, peraltro, ferma la responsabilità disciplinare ex art. 124 cod. proc. pen. del giudice che abbia violato consapevolmente il divieto de quo.

Con sentenza del 27 gennaio - 9 giugno 2011, n. 23122, Tanzi, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando i principi così massimati:

Massime nn. 249733 - 5

Rientra nell'ambito del divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza sino a che non intervenga l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione, ogni provvedimento che, comunque denominato, sia idoneo a definire la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce. (Fattispecie di ordinanza di revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale).

La violazione del divieto, ex art. 42, comma primo, cod. proc. pen., per il giudice la cui ricusazione sia stata accolta, di compiere alcun atto del procedimento comporta rispettivamente la nullità, ex art. 178, lett. a) cod. proc. pen., delle decisioni ciononostante pronunciate e l'inefficacia di ogni altra attività processuale, mentre la violazione del divieto, ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., per il giudice solo ricusato, di pronunciare sentenza, comporta la nullità di quest'ultima solo ove la ricusazione sia successivamente accolta, e non anche quando la ricusazione sia rigettata o dichiarata inammissibile. (In motivazione la Corte ha precisato che il rispetto del divieto di pronunciare sentenza costituisce in ogni caso un preciso dovere deontologico del magistrato ricusato).

Il divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell'organo competente a decidere sulla ricusazione, essendo, tuttavia, la successiva decisione del giudice ricusato, affetta da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto sia annullata dalla Corte di cassazione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell'eventuale giudizio di rinvio.

Le Sezioni unite hanno premesso che pacificamente la violazione del divieto posto dall'art. 37, comma 2, cod. proc. pen.[79] non è accompagnata da alcuna sanzione espressa di nullità: occorre, pertanto, stabilire «se una sanzione discenda in via sistematica dalla disciplina delle nullità di ordine generale o comunque da principi sovraordinati, e, posta la natura di detta nullità, se essa possa ritenersi dipendente dalla semplice violazione di detto divieto o è invece condizionata all'accoglimento della dichiarazione di ricusazione e all'accertamento, dunque, della esistenza di una delle situazioni per la cui rimozione è prevista, ai sensi del medesimo art. 37, comma 1, la dichiarazione di ricusazione».

Ciò premesso, dopo aver ricostruito criticamente i contrapposti orientamenti, è stato condiviso l'orientamento in precedenza dominante, osservando che «le osservazioni che sostengono tale indirizzo ruotano attorno alla considerazione che se, in mancanza di una esplicita sanzione, si ritiene che l'invalidità dell'atto decisorio risiede nell'assenza di terzietà e imparzialità che incide sulla capacità del giudice per e nel singolo processo, deve riconoscersi che la incapacità del giudice non può dipendere dalla mera esistenza di una denunzia di parte ma richiede un accertamento ab externo. In relazione alla ipotesi di imparzialità denunziata da una delle parti, tale accertamento è affidato nel sistema del codice di procedura penale all'instaurazione di una procedura incidentale costituita dal subprocedimento di ricusazione, assistito da garanzie giurisdizionali pari a quelle del procedimento principale. E come non può il giudice, a torto o a ragione sospettato, decidere sulla sua ricusa, nello stesso modo non possono le parti che lo sospettano determinare la sua sostituzione mediante la mera esternazione delle proprie ragioni: giacché in entrambe le ipotesi verrebbe paradossalmente elusa proprio la terzietà (requisito immanente, come si dirà meglio avanti, alla struttura triadica che connota ogni accertamento giurisdizionale) della valutazione sulla ricusa, arbitrariamente anticipandose gli effetti sulla base delle opinioni degli interessati. Che la denunzia di parte non possa di per sè determinare la sostituzione del giudice non costituisce d'altra parte criterio opinabile, ma rappresenta necessità sistematica del processo penale, non potendo rimettersi a iniziative dell'imputato, o di altra parte, che si rivelino pretestuose la scelta del giudice chiamato a decidere sulla sua posizione».

Al contrario, l'opposto orientamento non può essere accolto poiché le ragioni di tutela dalla possibile parzialità del giudice, che costituisce il fondamento dell'istituto della ricusazione non possono condurre al risultato indicato: è, infatti, indubbio, come chiarito anche dalla giurisprudenza costituzionale, che l'imparzialità «è da intendersi connessa dal lato oggettivo all'indipendenza esterna e interna garantita al giudice e comporta sotto il profilo soggettivo assenza di condizionamenti e pregiudizi. Essa implica inoltre la necessità che il giudice sia anche riconoscibile, e appaia dunque, come imparziale, tale obiettiva apparenza essendo condizione di quella fiducia nella giustizia da cui dipende un ordinato vivere civile. In conclusione, all'imparzialità - terzietà, in senso oggettivo e soggettivo, e come apparenza altresì di imparzialità, quale requisito essenziale dell'esercizio della funzione giurisdizionale implicito nel sistema delle garanzie costituzionali, deve sin dall'origine intendersi ispirato il codice di rito del 1988 nel delineare tra l'altro gli istituti in esame». Ciò nonostante, non può dirsi che la formale evocazione del principio di imparzialità e terzietà del giudice nell'ambito di una norma costituzionale nulla muti, neppure sul piano esegetico: «la collocazione della imparzialità-terzietà tra i requisiti fondanti la nozione di giusto processo, comporta quantomeno la necessità di riconoscere che le norme codicistiche deputate a dare in via di normalità attuazione a codesto principio generale e fondamentale non possono ricondursi, con la semplicità di catalogazione che ha sinora contraddistinto le enunciazioni giurisprudenziali, alla categoria delle disposizioni "eccezionali". Non si intende ovviamente contestare che alcuni istituti - come la rimessione - per l'assoluta peculiarità delle situazioni che li giustificano e per gli effetti del tutto atipici che determinano, siano effettivamente da considerare eccezionali. Neppure si vuole negare che l'incidenza che altri istituti - come la ricusazione - comunque hanno su regole volte ad assicurare garanzie di pari valore, quali quella del giudice naturale precostituito per legge, imponga di considerare insuscettibili di integrazione analogica le norme che li regolano, non potendo l'interprete sostituirsi direttamente al legislatore nell'opera di bilanciamento di valori a questo affidata. È però ragionevole ritenere che anche a livello applicativo debba considerarsi il valore costituzionale degli interessi in gioco e che nell'opera di interpretazione conforme vada perciò verificata ogni possibilità di lettura, anche estensiva, se quella strettamente testuale risulta in contrasto con lo scopo di garanzia che il sistema dovrebbe assicurare».

La disciplina della ricusazione serve ad assicurare il rispetto della imparzialitàterzietà del giudice, come prima definita, ed ha, dunque, immediato rilievo costituzionale, mutuando dall'assetto costituzionale valore e forza cogente: «proprio tenendo conto di tale rilievo e del significato delle garanzie che rappresentano ragione e scopo delle disposizioni che regolano gli istituti della incompatibilità-astensione-ricusazione, una invalidità per incapacità da carenza di potere dei provvedimenti decisori assunti dal giudice ricusato, non può che dipendere dalla circostanze che dell'imparzialità - essenziale al giusto processo o al corretto esercizio del potere giurisdizionale in concreto - sia effettivamente accertato il difetto. Fare derivare, invece, la incapacità del giudice, e per conseguenza il necessario annullamento della sua decisione con rinvio ad altro giudice, dalla mera esistenza di una ricusa di parte interessata, pur quando questa sia dichiarata inammissibile o infondata, finirebbe per determinare invece un non giustificato sacrificio dell'ordinato svolgimento del processo e della sua ragionevole durata, oltre che l'irrazionale conseguenza che con la sua sola denunzia la parte incida sulla individuazione del giudice. Anche in questo caso, difatti, alla scelta processuale di parte sarebbe, in definitiva, rimessa la permanenza della titolarità del giudizio in capo al giudice che ne è investito. Esito, questo, non solo irragionevole, ma anche in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge, dal quale la parte verrebbe o potrebbe chiedere di essere distolta».

D'altronde, considerato che le disposizioni in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione non sono le uniche funzionali ad assicurare l'imparzialità del giudice, è dalla stessa natura di tale valore che discende la necessità di dare alla disciplina del divieto per il giudice sospettato di pronunziare sentenza, una lettura, per quanto possibile, coerente all'interno dell'ordinamento; in quest'ottica, giustamente le sentenze dell'indirizzo maggioritario hanno fatto riferimento agli argomenti sviluppati dalla giurisprudenza a proposito dell'analogo divieto di pronunzia del giudice investito da richiesta di rimessione del processo, in particolare nella parte in cui si osserva che il divieto di pronuncia integra un difetto temporaneo di potere giurisdizionale limitato alla pronuncia della sentenza e condizionato dalla decisione che dichiara la sussistenza o meno delle condizioni che giustificano lo spostamento del processo; con la conseguenza che, se la richiesta è dichiarata inammissibile (anche per motivi formali) o rigettata, deve ritenersi la validità della sentenza pronunciata dal giudice naturale, come precostituito, ed in caso contrario, ovvero di accoglimento della richiesta, la nullità della sentenza: così verificandosi una tipica valutazione (di validità o nullità) secundum eventum. Si è anche evidenziato che tale interpretazione è la sola che consenta di escludere il risultato, privo di razionalità, che porterebbe, pur essendo stata riconosciuta la manifesta infondatezza o l'inammissibilità della richiesta di mutamento del giudice (in tal modo confermandosi la competenza e la idoneità al giudizio di quello a quo), a doversi egualmente dichiarare la nullità della sentenza con rinvio ad altro giudice per un nuovo giudizio.

In virtù di questi rilievi, è apparsa ancora più stringente, attesa la riferibilità allo stesso istituto della ricusazione e la matrice unitaria della patologia, l'esigenza di individuare in senso uniforme la portata degli effetti dell'accoglimento della ricusazione rispetto alla decisione assunta dal giudice ricusato: «dopo l'accoglimento della ricusazione la regola è, ai sensi dell'art. 42 c.p.p., comma 1, che il giudice "non può compiere alcun atto del procedimento". Benché null'altro si aggiunga nella norma, sul significato di tale disposizione dottrina e giurisprudenza sostanzialmente convergono: l'accoglimento della ricusazione rende il giudice incapace ad ogni effetto in quel procedimento».

Se il giudice pronunzia addirittura sentenza, un orientamento[80], afferma che essa è "affetta da nullità radicale", altro orientamento ritiene che si tratti di nullità assoluta ai sensi dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a), cod. proc. pen.[81].

Per chiarire la natura della nullità così individuata, si è osservato che «nel sistema del codice di procedura penale ne' le incompatibilità predefinite dal legislatore nell'art. 34 c.p.p. ne', tantomeno, i motivi di astensione che possono dar luogo a ricusazione e quelli ulteriormente previsti in via autonoma per la ricusazione, costituiscono mai, di per sè, cause dirette di nullità della pronunzia del giudice che si trovi in una delle situazioni descritte, potendo le parti farle valere esclusivamente mediante la tempestiva instaurazione della procedura dell'art. 37 c.p.p., e segg.[82]. E detta disciplina è stato più volte ritenuta indenne da vizi di legittimità costituzionale[83], sul rilievo che il legislatore ben può ritenere più appropriati, per evitare il protrarsi di situazioni di incertezza, gli strumenti dell'astensione e della ricusazione del giudice che versi in situazione di incompatibilità, "sempreché ponga la parte interessata in condizione di dedurla"; l'incompatibilità inficiando "l'idoneità al corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali solo in relazione ad uno specifico procedimento" e potendo perciò essere ragionevolmente differenziata da quelle situazioni "che ostano in via generale alla capacità di esercizio di tali funzioni"».

D'altro canto, non assume rilievo neanche l'art. 33, comma 2, cod. proc. pen., perché il vizio, non collegabile ad una incapacità generale del giudice, non può neanche ritenersi che discenda direttamente dalla violazione di norme o disposizioni sulla destinazione o designazione del giudice e sull'assegnazione dei processi, ma consiste nel difetto di imparzialità - reale o apparente - in relazione ad un certo processo, accertato in concreto attraverso forme vincolate a seguito della specifica procedura incidentale a ciò dedicata: «ove il giudice nei cui confronti è stata proposta dichiarazione di ricusazione accolta, decida, ciò nonostante, sulla regiudicanda a lui originariamente assegnata, il vizio dipende in conclusione esclusivamente dalla accertata sua inidoneità al corretto esercizio della funzione giurisdizionale in relazione ad una specifico procedimento, e attiene perciò non all'attribuzione in astratto di potestà giurisdizionale bensì ai modi e limiti del potere esercitabile in un determinato giudizio. Ricondotta l'imparzialità a requisito essenziale della funzione giurisdizionale, siffatta inidoneità in concreto derivante da difetto d'imparzialità altro non è però che un difetto di capacità particolare a giudicare, che esigenze sistematiche impongono di ricondurre alla previsione dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a)».

Si è aggiunto che le decisioni invalide (perché non rispondenti allo schema legale) non si prestano ad essere nel sistema positivo considerate "inefficaci" (come gli atti propulsivi o i negozi processuali o le prove malamente acquisite): «per esse, non essendo superabile la regola che divengono definitive se non impugnate, la categoria della inidoneità a produrre effetti riconducibile nella genesi storica delle invalidità alla nozione di atto nullo (quod nullum est nullum producit effectum), tramuta in ogni caso in annullabilità, ovverosia nella categorie delle nullità codicistiche che costituiscono condizioni per l'annullabilità, mentre la radicalità del vizio può incidere unicamente ai fini della assenza di preclusioni alla rilevabilità in ogni stato e grado del processo: ferma la forza del giudicato. Deve convenirsi, pertanto, che la previsione "se la dichiarazione (...) è accolta il giudice non può compiere alcun atto del procedimento", contenuta nell'art. 42, comma 1, individua un difetto di capacità che rende nulle ai sensi dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a), le decisioni del giudice ricusato, mentre consente di ritenere semplicemente priva di efficacia ogni altra attività processuale dallo stesso compiuta».

Ed, alla luce di tali considerazioni, la definizione in termini analoghi del vizio che affligge la decisione nel caso in cui il giudice l'abbia assunta pendendo l'incidente della ricusazione e una volta che questa sia accolta, è sembrata obbligata: «appurata la mancanza della precondizione dell'imparzialità e terzietà, fondante il legittimo esercizio del potere di giudicare, la pronunzia che definisce il giudizio eventualmente emessa dal giudice fondatamente ricusato è da considerare viziata dalla carenza in concreto del potere di decidere sulla regiudicanda. A parità di difetto e di divieto, il vizio non può che avere identica natura vuoi nel caso in cui la pronunzia che rappresenta la manifestazione definitiva dell'esercizio della potestà giurisdizionale nel processo sia stata resa dopo che la decisione che ha accolto la ricusazione è divenuta definitiva, vuoi nel caso in cui sia stata assunta nelle more del procedimento di ricusazione risoltosi poi con l'accertamento della fondatezza della ricusa e il riconoscimento del difetto. Mentre analoghe ragioni per ritenere tale incapacità particolare non ricorrono se il divieto di astenersi dal pronunziare sentenza pendendo la ricusazione è stato violato, ma la ricusazione è dichiarata inammissibile o rigettata. Nè, se la ricusazione è stata dichiarata inammissibile o riconosciuta infondata, la sanzione di nullità assoluta rilevabile in ogni stato e grado, che secondo l'indirizzo minoritario da detta incapacità dovrebbe discendere ai sensi dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), può trovare giustificazione nella lesione di altro diritto o interesse processuale o legittima aspettativa della parte ricusante».

Le conclusioni raggiunte trovano conferma nell'aspetto, strettamente connesso, dell'esonero dal divieto per il caso di ricusazione sostanzialmente ripetitiva di altra già respinta, e nella durata del divieto istituito dall'art. 37, comma 2, cod. proc. pen., riferibile alla sola fase di merito del giudizio sulla ricusazione. Si è, peraltro, evidenziato che il rispetto del predetto divieto costituisce un preciso dovere deontologico (ex art. 124 c.p.p.) del magistrato ricusato, e che non può dubitarsi che esso si estenda, oltre che alla sentenza, come espressamente previsto, ad ogni tipo di provvedimento idoneo a definire la regiudicanda cui si riferisce la dichiarazione di ricusazione (come nel caso pratico devoluto all'esame delle Sezioni unite, concernente un provvedimento decisorio diverso dalla sentenza, reso dal Tribunale di Sorveglianza).

In virtù del complesso dei rilievi che precede, sono stati conclusivamente affermati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto:

(a) «la decisione che definisce il procedimento, assunta dal giudice nei cui confronti è stata proposta ricusazione in violazione del divieto istituito dall'art. 37 c.p.p., comma 2, conserva validità se la ricusazione è dichiarata inammissibile o infondata dall'organo competente ex art. 40 c.p.p.»;

(b) «la decisione che definisce il procedimento, assunta dal giudice nei cui confronti è stata proposta ricusazione è viziata invece da nullità assoluta nel caso in cui la ricusazione sia accolta, e ciò indipendentemente dalla circostanza che essa sia intervenuta in pendenza della procedura incidentale di ricusazione o dopo il suo accoglimento».

2. Il Pubblico Ministero. La delega per l'udienza di convalida del vice procuratore onorario o del magistrato ordinario in tirocinio.

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere

«se il vice procuratore onorario, delegato dal procuratore della Repubblica a partecipare all'udienza di convalida dell'arresto in flagranza e al contestuale giudizio direttissimo, abbia il potere di richiedere l'applicazione di una misura cautelare personale in assenza di una specifica ed espressa delega».

Un orientamento affermava che al vice procuratore onorario delegato a partecipare all'udienza di convalida ed al conseguente giudizio direttissimo, dovesse riconoscersi anche il potere di richiedere in quell'udienza l'applicazione della misura cautelare personale: l'art. 72 ord. giud., nel prevedere espressamente la possibilità per il Pubblico Ministero onorario di partecipare all'udienza di convalida ed al contestuale giudizio direttissimo, attribuirebbe evidentemente allo stesso soggetto anche la competenza a richiedere l'applicazione della misura cautelare, trattandosi di una fase concettualmente e strutturalmente collocata all'interno della procedura attraverso la quale si articola la convalida dell'arresto ed il conseguente giudizio direttissimo[84].

Altro orientamento escludeva che la delega alla partecipazione all'udienza di convalida racchiudesse in sé il conferimento dei poteri di richiesta delle misure coercitive[85].

Una volta ritenuto che la delega per la convalida non possa fondare il potere del v.p.o. di richiedere l'applicazione di misure coercitive, si porrebbe il problema delle conseguenze in ordine alla misura ciononostante emessa: le Sezioni Unite[86] avevano in precedenza ritenuto che, «ove si verifichi l'inosservanza della preclusione nascente dal principio della domanda cautelare, si configura, sul piano interpretativo ... la nullità, di ordine generale ed assoluta, insanabile e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, dell'ordinanza del giudice, riferita, ai sensi degli artt. 178 lett. b) e 179, comma 1 cod. proc. pen. , all'iniziativa indefettibile e riservata in via esclusiva al pubblico ministero nell'esercizio dell'azione cautelare». Una successiva decisione della III sezione[87], pronunciata in fattispecie analoga a quella attualmente devoluta alle Sezioni Unite, aveva inquadrato gli eventuali vizi derivanti dalla carenza della delega nell'ambito delle nullità a regime intermedio, con conseguente onere di eccezione tempestiva nell'udienza di convalida.

Con ordinanza del 24 febbraio - 6 aprile 2011, n. 13716, Fatihi, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto. I principi affermati sono stati così massimati:

Massime nn. 249301 - 2

La delega conferita dal procuratore della Repubblica al vice procuratore onorario e al magistrato ordinario in tirocinio da almeno sei mesi per lo svolgimento delle funzioni di Pubblico Ministero nella udienza di convalida dell'arresto o del fermo, nei rispettivi ambiti stabiliti dall'art. 72, comma secondo, lett. b), ord. giud., comprende la facoltà di richiedere l'applicazione di una misura cautelare personale.

In tema di delega conferita dal procuratore della Repubblica al vice procuratore onorario e al magistrato ordinario in tirocinio per lo svolgimento delle funzioni di Pubblico Ministero, devono considerarsi come non apposte le condizioni o restrizioni non previste dalla legge ivi eventualmente inserite, delle quali, quindi, il giudice non deve tenere alcun conto.

Dopo aver riepilogato le norme inerenti alla posizione giuridica del vice procuratore onorario, il Supremo collegio ha evidenziato che «è proprio la delega ad instaurare quel nesso di immedesimazione organica che, per i magistrati ordinari, si rinviene nell'inserimento nell'ordinamento giudiziario; detta delega è l'atto con il quale il procuratore della Repubblica affida a soggetti esterni l'esercizio di determinate attività e la rappresentanza del pubblico ministero in udienza conservando la piena titolarità delle funzioni delegate».

Ciò premesso, si è osservato che «la legittimazione derivata del magistrato onorario trae il suo fondamento giuridico non dalla volontà delle parti, ma dalle norme dell'ordinamento giudiziario e del codice di procedura penale alle quali l'interprete deve fare riferimento. Infatti, pur partendo dalla considerazione della estraneità del pubblico ministero onorario all'ordine giudiziario, nessuna disposizione giustifica la conclusione di una sua subordinazione gerarchica rispetto al procuratore della Repubblica». Invero, una simile ipotesi ricostruttiva dell'istituto è testualmente sconfessata dall'art. 162, comma terzo, disp. att. cod. proc. pen., che prevede solo la facoltà (non l'obbligo) che il delegato si consulti con il procuratore della Repubblica prima di prestare il consenso alla applicazione di pena su richiesta o se deve procede a nuove contestazioni. Questa facoltà ha, peraltro, una limitata rilevanza processuale dal momento che la sospensione della udienza a tale fine è lasciata alla discrezionalità del giudice (art. 162, comma quarto, disp. att. cod. proc. pen): «dall'art. 162 si ricava di conseguenza il principio che il pubblico ministero onorario, anche quando deve prendere posizioni di particolare rilevanza, non ha il dovere di confrontarsi con il procuratore della Repubblica, e che l'avviso del delegante, ove sollecitato dal delegato, non è vincolante».

Il procuratore della Repubblica può, peraltro, dare direttive di carattere generale alle quali devono attenersi tutti i rappresentanti del pubblico ministero dell'ufficio, di carriera od onorari: «è quindi ben possibile che il procuratore della Repubblica dia indicazioni di massima al magistrato onorario delegato, al quale, tuttavia, compete la prerogativa di esercitare le sue funzioni in udienza con la piena autonomia garantita dall'art. 70, comma quarto, ord. giud. e dall'art. 53, comma primo, cod. proc. pen., che non include eccezioni per gli onorari». Quest'ultima norma (che attua l'art. 68 della legge-delega n. 81 del 1987) sancisce infatti la piena autonomia del magistrato del pubblico ministero designato nelle udienze penali; questi non riceve e non è tenuto ad eseguire eventuali particolari istruzioni del capo dell'ufficio, fermo restando il suo dovere deontologico di recepire le direttive sulle modalità operative dell'ufficio impartite in via generale.

La ratio della previsione è ordinamentale e processuale: «il rappresentante del pubblico ministero deve essere indipendente non solo verso l'esterno, ma anche verso l'interno dell'ufficio, e deve potersi determinare liberamente sulla base degli sviluppi e delle risultanze acquisite nel corso della udienza. Tale autonomia, non essendo riscontrabile alcuna previsione di segno contrario, deve dunque trovare applicazione anche rispetto al magistrato onorario; e la circostanza che l'atto di delega non crei un rapporto di dipendenza tra delegato e delegante e che anche il primo agisca in piena autonomia in udienza secondo il disposto dell'art. 53, comma 1, cod. proc. pen., è stata evidenziata dalla Corte cost. con la sentenza n. 333 del 1990».

Alla luce di questi rilievi, si è concluso che «la funzione del pubblico ministero, sia esso magistrato di carriera od onorario, implica un medesimo status di tale organo in udienza»; da questa affermazione conseguono i seguenti principi:

- il contenuto della delega è circoscritto per materia dall'ordinamento giudiziario e non dalle disposizioni del procuratore della Repubblica (il quale, ad esempio, non potrebbe conferire al vice procuratore onorario il potere di proporre appello, in quanto non normativamente previsto);

- la delega costituisce il fondamento per il legittimo esercizio delle funzioni requirenti, ma non segna il confine entro il quale l'onorario può determinarsi in modo autonomo in udienza;

- le condizioni o restrizioni eventualmente inserite nella delega devono considerarsi come non apposte, per cui il giudice non deve tenerne alcun conto, spettandogli solo di controllare se la delega sia conferita con il rispetto degli artt. 72 ord. giud. e 162 disp. att. cod. proc. pen.

Tanto premesso quanto al contenuto della delega, con più specifico riguardo alla questione controversa si è ritenuto che il potere di sollecitare l'applicazione di una misura cautelare non possa dirsi inibito dalla mancanza, in capo al magistrato onorario, di uno specifico titolo autorizzatorio.

La giurisprudenza ha affermato che l'oggetto del contraddittorio nella udienza prevista dall'art. 391 cod. proc. pen. deve ritenersi esteso all'intero tema della decisione, che comprende non solo la valutazione sulla legittimità dell'operato della polizia, ma, anche, e se del caso, la richiesta di applicazione di una misura cautelare personale[88]: «questa constatazione è decisiva per la risoluzione del caso. Si deve, infatti, prendere atto che il legislatore ha permesso al magistrato onorario di partecipare alle udienze previste dagli artt. 391 e 558 cod. proc. pen., che si svolgono secondo la seguente sequela procedimentale: controllare retroattivamente se sussistevano i presupposti per l'arresto in flagranza e chiederne, o meno, la convalida, indi, verificare se siano riscontrabili i requisiti richiesti in via generale per l'applicazione di una misura cautelare personale».

Ne deriva che implicitamente, ma chiaramente, il legislatore ha attribuito al magistrato onorario la possibilità di interloquire in relazione a tutte le attività da espletare nelle menzionate udienze in rapporto alla peculiare procedura: «tale conclusione è confortata dal testo dell'art. 72 ord. giud., che non opera alcun riferimento alle funzioni che l'onorario svolge nel procedimento e non distingue tra i momenti della convalida dell'arresto e del giudizio direttissimo, tra i quali si pone in modo eventuale, ma fisiologico, la richiesta di una misura cautelare personale».

Nessuna norma richiede che, per il procedimento applicativo di tale misura, il magistrato onorario sia munito di una specifica delega e, quindi, nessuna norma prevede l'invalidità della misura non preceduta dall'assenso del delegante; la necessità di una specifica autorizzazione al magistrato onorario, non imposta dalla legge e non desumibile dal sistema, non può essere affermata in via interpretativa: «di conseguenza, si deve ritenere che quanto già detto sulla non possibilità di introdurre limitazione alla delega e sulla autonomia del procuratore onorario in udienza valga anche per quanto concerne la richiesta di applicazione di misure cautelari personali».

Si è anche osservato che l'imposizione al magistrato onorario di seguire le istruzioni del delegante equivarrebbe a vincolarlo ad una condotta processuale e ad una richiesta cautelare eventualmente incongrua, in palese violazione della funzione che il pubblico ministero deve esercitare quale custode della legge, e che il rilievo, secondo cui la richiesta sulla libertà deve essere ponderata in esito ai risultati della udienza, si desume, in modo inequivoco, dalla norma ordinamentale (inserita con l'art. 3, commi 1 e 2, d.lgs. n. 106 del 2006) che non prevede la necessità dell'assenso scritto del procuratore capo ai sostituti per le misure applicabili in occasione della convalida dell'arresto o del fermo.

D'altro canto, non a caso «il legislatore ha garantito per i processi più impegnativi il massimo livello di professionalità del rappresentante del pubblico ministero, che deve essere di carriera; e ha ammesso la facoltà di delega solo per una fascia di reati, ritenuti meno gravi, facendo una ponderazione preventiva sulla normale capacità del magistrato onorario, dopo il necessario periodo di formazione e tirocinio, a trattare i relativi procedimenti. Il giudizio sulla idoneità del delegato passa attraverso la valutazione astratta del legislatore e quella concreta del procuratore della Repubblica, che, prima di rilasciare la delega, deve considerare il livello di cultura giuridica e di esperienza del magistrato onorario e la sua capacità di fare fronte alle emergenze processuali non prevedibili».

Si è, pertanto, conclusivamente affermato che «la delega conferita al vice procuratore onorario dal procuratore della Repubblica, a norma degli artt. 72, comma primo, lett. b), ord. giud. e 162 disp. att. cod. proc. pen., per lo svolgimento delle funzioni di pubblico ministero nella udienza di convalida dell'arresto o del fermo (art. 391 cod. proc. pen.) o in quella di convalida dell'arresto nel contestuale giudizio direttissimo (artt. 449 e 558 cod. proc. pen.), comprende la facoltà di richiedere l'applicazione di una misura cautelare personale, dovendosi altresì considerare prive di effetto giuridico limitazioni a tale iniziativa eventualmente contenute nell'atto di delega».

Si è inoltre precisato che ad analoghe conclusioni, valendo la stessa ratio, deve pervenirsi con riferimento alla posizione dei magistrati ordinari in tirocinio (già "uditori giudiziari"), i quali, in base all'art. 72, comma primo, lett. b), ord. giud., possono essere delegati a svolgere le funzioni di pubblico ministero nella udienza di convalida dell'arresto o del fermo (art. 391 cod. proc. pen.).

  • traduzione

Cap. 8

Gli atti

Sommario

1 La traduzione degli atti. Le cause di incompatibilità dell'interprete. - 2 La nullità derivante da omessa notificazione dell'avviso di udienza ad uno dei due difensori dell'imputato.

1. La traduzione degli atti. Le cause di incompatibilità dell'interprete.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se sussista incompatibilità a svolgere le funzioni di interprete per il soggetto che, nell'ambito del conferimento ad altri - nello stesso procedimento - del compito della trascrizione delle intercettazioni, sia stato incaricato di effettuare, contestualmente e unitamente al trascrittore, la traduzione delle conversazioni intercettate e registrate in lingua straniera».

Nel caso in esame, lo stesso soggetto aveva dapprima ricevuto l'incarico di tradurre in italiano alcune conversazioni intercettate, avvenute in parte in lingua benin-edo (mentre altro soggetto aveva contestualmente ricevuto l'incarico di trascrivere le conversazioni così tradotte), e successivamente l'incarico di fungere, nel corso dell'istruzione dibattimentale, da interprete per assistere due testimoni.

L'orientamento dominante[89] negava che l'incarico conferito al trascrittore fosse formalmente e sostanzialmente equiparabile a quello peritale, l'unico idoneo a cagionare l'insorgere della successiva causa di incompatibilità; si osservava, in particolare, che la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l'acquisizione di alcun contributo tecnico-scientifico, e che l'attività trascrittiva - attinente ad un mezzo di ricerca della prova - non rappresenta un mezzo di assunzione anticipata della prova stessa. Il trascrittore, sia pure officiato, ai sensi dell'art. 268, comma settimo, cod. proc. pen., diversamente dal perito (che è chiamato ad esprimere un "giudizio" tecnico), pone in essere solo una "operazione" tecnica che non implica alcun contributo tecnico-scientifico ed è connessa a finalità di tipo solo ricognitivo; pertanto, il richiamo, contenuto nella predetta disposizione a "forme, modi e garanzie" previste per la perizia, opera limitatamente alla tutela del contraddittorio e dell'intervento della difesa rispetto all'attività di trascrizione, ed è solo funzionale ad assicurare che la trascrizione delle registrazioni avvenga nel modo più corretto possibile[90].

Nell'ambito dell'orientamento minoritario, si sosteneva che sussisterebbe la causa di incompatibilità prevista dall'art. 144, lett. d), cod. proc. pen. a prestare l'ufficio di interprete nei confronti di chi, nell'ambito dello stesso procedimento, abbia provveduto a tradurre e a trascrivere, con incarico peritale, il contenuto di intercettazioni telefoniche: il richiamo, operato dall'art. 268, comma settimo, cod. proc. pen. alle forme, ai modi ed alle garanzie previsti per l'espletamento delle perizie estenderebbe chiaramente alle attività di trascrizione integrale delle registrazioni le norme di garanzia previste per le perizie, ivi comprese quelle contenute nell'art. 144 cod. proc. pen.[91].

La dottrina non si era specificamente interessata della questione controversa.

Con sentenza del 24 febbraio - 10 maggio 2011, n. 18268, E. S., le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 249483

Sussiste incompatibilità con l'ufficio di interprete per il soggetto che, nello stesso procedimento, abbia svolto il compito di trascrizione delle registrazioni delle comunicazioni intercettate. (In motivazione la Corte ha precisato che analoga incompatibilità sussiste per il soggetto in precedenza incaricato di effettuare la traduzione in lingua italiana delle conversazioni intercettate, la cui trascrizione sia stata affidata, con incarico contestuale, ad un terzo).

Le Sezioni unite, premesso che la materia è disciplinata dagli artt. 144 e 222 cod. proc. pen.[92], e che la ratio del divieto di commistione tra le funzioni di interprete e di perito, è stata generalmente individuata nell'esigenza di evitare possibili influenze dell'una attività sull'altra, entrambe esplicazioni di una funzione ausiliaria del giudice, hanno risolto la questione controversa aderendo all'orientamento in precedenza minoritario.

Al riguardo, si è in primo luogo, osservato, da un punto di vista formale, «che la prescrizione contenuta nell'art. 268 c.p.p., comma 7, relativa all'osservanza delle "forme" (oltre che dei modi e delle garanzie) "previste per l'espletamento delle perizie" non può che estendersi alle formalità di nomina (stabilite per il perito, per l'appunto), di cui all'art. 221 c.p.p., e al relativo conferimento dell'incarico, di cui all'art. 226 c.p.p.; con la conseguenza che il "trascrittore", accantonata per un momento la discussione sul contenuto ontologico della sua attività, deve essere nominato e ricevere l'incarico con il rispetto delle riferite disposizioni relative alle perizie disposte dal giudice».

In occasione del conferimento dell'incarico, dunque, il soggetto officiato dal giudice deve recitare la prescritta dichiarazione rituale: «parrebbe arduo ritenere che un soggetto che riceve un incarico con il rispetto delle formalità previste per il perito, e con le comminatorie relative, possa non essere assoggettato al relativo status, solo perché il contenuto dell'incarico conferitogli viene in concreto considerato tale da non implicare, stando all'orientamento prevalente, "conoscenze tecnico-scientifiche che sfocino in un parere o un giudizio"».

E proprio questa riduttiva considerazione sostanzialistica dell'attività del trascrittore, consegnato a un ruolo di un mero esecutore tecnico, non appare sostenibile; in proposito, la giurisprudenza costituzionale ha osservato che "la qualità delle registrazioni delle intercettazioni può non essere perfetta ed imporre una vera e propria attività di interpretazione delle parole e delle frasi registrate, specie se nelle conversazioni vengano usati dialetti o lingue straniere"; che l'incaricato a norma dell'art. 268 c.p.p., comma 7, "fornisce una trascrizione letterale, ma anche indicazioni ulteriori, quando necessarie (intonazione della voce, lunghezza di una pausa etc.), che possono incidere sul senso di una comunicazione"; e che "la trascrizione peritale può contenere anch'essa componenti interpretative, ma è garantita dalla estraneità del suo autore alle indagini e dal contraddittorio"[93]. Osservano in proposito le Sezioni Unite che «il "trascrittore", nel riprodurre i suoni vocali (talvolta meri fonemi) in orditi sintattici, non solo deve possedere un'adeguata professionalità nella interpretazione degli elementi lessicali, delle pause e delle intonazioni espressi dai soggetti colloquianti, avuto riguardo alla inflessione, alle forme gergali e dialettali, ai ritmi e alle interruzioni proprie di ogni colloquio, al numero dei loquenti e alle varie condizioni di tempo e di luogo che interferiscono con la traccia fonica, ma deve essere anche in grado di rappresentarli per iscritto, utilizzando ogni appropriato segno grafico che rispetti il più efficacemente possibile il senso delle reciproche interlocuzioni in relazione al contesto. Egli, dunque, più che un mero trascrittore, è, come osservato dalla Corte costituzionale, un "interprete" del contenuto e del senso, particolare e complessivo, dei dati vocali (cui possono aggiungersi, dovendosene se del caso dare conto, suoni di fondo, anche materiali)».

In virtù di ciò, e considerato che può assumersi comunemente accettato l'assioma per cui ogni attività di "interpretazione", nel senso sopra specificato, esprime una valutazione, e quindi un "giudizio", «deve concludersi che anche da un punto di vista sostanziale l'attività del trascrittore è assimilabile a quella di un perito, e che quindi pure per essa sia richiesta una "specifica competenza tecnica", come previsto, in relazione all'oggetto della perizia, dall'art. 220 c.p.p.».

Data tale assimilazione - e diversamente da quanto deve ritenersi in riferimento ai compiti di trascrizione di atti compiuti alla presenza del giudice, come nel caso di cui all'art. 141-bis c.p.p. - «non vi è dunque ragione per non estendere alla figura del trascrittore di conversazioni intercettate, nominato a norma dell'art. 268 c.p.p., comma 7, le disposizioni sui casi di incompatibilità allo svolgimento di ulteriori funzioni che riguardino il perito, e in particolare, per quello che qui interessa, quella concernente la funzione di interprete, a norma dell'art. 144 c.p.p., comma 1, lett. d)», il quale, nello stabilire la incompatibilità alla funzione di interprete, fa riferimento, usando il tempo presente, alla situazione di chi è "chiamato a prestare ufficio ... di perito nello stesso procedimento".

Si è anche osservato che «l'incarico di perito non si esaurisce nel compimento della relativa attività, perché il soggetto che l'ha svolta conserva questa qualità nel corso dell'intero procedimento, potendo essere chiamato a rendere esame, a norma dell'art. 501 c.p.p., e art. 511 c.p.p., comma 3. Trattandosi dunque di una qualità immanente, l'espressione "chi è chiamato a prestare ufficio..." deve intendersi equivalente a quella "chi è stato chiamato a prestare ufficio..."; e del resto l'uso del tempo passato, verosimilmente per un impreciso raccordo con il testo del codice del 1930 (art. 328) da parte del legislatore del 1988, che lo ha sostanzialmente riprodotto, è impiegato nell'ambito della medesima lettera d) con riferimento all'analoga incompatibilità introdotta dall'attuale codice per chi "è stato nominato consulente tecnico nello stesso procedimento", per la quale non può che valere la stessa ratio».

In virtù dei rilievi che precedono, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «sussiste incompatibilità a svolgere successivamente nello stesso procedimento la funzione di interprete per il soggetto che abbia svolto il compito di trascrizione delle registrazioni delle comunicazioni intercettate a norma dell'art. 268 c.p.p., comma 7».

Con specifico riferimento all'attività del traduttore-interprete che collabori con il trascrittore, le Sezioni unite hanno ritenuto che «essa non possa essere distinta da quella di quest'ultimo, e anzi assuma un ruolo primario, non solo perché, come osservato nella ordinanza di rimessione, nel caso di specie "l'opera dell'interprete e quella del trascrittore sono state contestuali e sinergiche e sono state partecipi di una unica natura, trascrivendo il trascrittore ciò che contestualmente o antecedentemente il traduttore aveva ascoltato e riversato in lingua italiana", sicché, in un tale contesto, sarebbe arduo "sceverare in concreto un'attività del traduttore che non fosse contestualmente determinante e costitutiva ai fini della trascrizione"; ma anche perché, in via più generale, il trascrittore recepisce e prende a base della sua attività la traduzione in italiano precedentemente fatta dall'interprete, sicché è proprio quest'ultimo ad avere un ruolo decisivo non solo nella mera traduzione ma anche nella elaborazione del senso dei colloqui».

Se ne è desunto che, nel caso di specie, l'attività di traduttrice-interprete, «per le condizioni in cui è stata svolta, e per la contestualità dell'incarico ricevuto, deve considerarsi sostanzialmente assimilabile a quella di un perito, essendosi esplicata in unione sinergica con il trascrittore e avendo avuto anzi un ruolo preponderante rispetto all'attività di quest'ultimo».

Ed al riguardo è stato conseguentemente enunciato il seguente principio di diritto: «sussiste incompatibilità a svolgere successivamente nello stesso procedimento la funzione di interprete per il soggetto che, nell'ambito del conferimento ad altri del compito della trascrizione delle registrazioni delle conversazioni in lingua straniera intercettate, sia stato incaricato di effettuare, contestualmente e unitamente al trascrittore, la traduzione in lingua italiana di dette conversazioni».

Nella specie risultava, pertanto, integrata l'ipotesi prevista dall'art. 144, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.; si è anche precisato che, come previsto dall'alinea dell'art. 144, comma 1, l'incompatibilità dell'interprete è causa di nullità relativa, non rientrando in alcuna delle ipotesi considerate dall'art. 178 c.p.p., ed il mezzo per dedurla è la dichiarazione di ricusazione (art. 145 c.p.p.), che deve di regola essere proposta "fino a quando non siano esaurite le formalità di conferimento dell'incarico"; ma, trattandosi di incidente che deve essere risolto dallo stesso giudice che procede e vertendosi in una causa di nullità (a differenza di quanto è da dire per i casi di ricusazione del giudice), per la dichiarazione non occorrono particolari formalità, equivalendo ad essa la mera deduzione della causa di incompatibilità.

2. La nullità derivante da omessa notificazione dell'avviso di udienza ad uno dei due difensori dell'imputato.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«quale sia il termine ultimo di deducibilità della nullità derivante dall'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza del procedimento camerale ad uno dei due difensori dell'imputato, e se nell'individuazione di detto termine rilevi, o meno, la circostanza dell'assenza in udienza sia dell'imputato che del difensore ritualmente avvisato. (Fattispecie relativa all'omessa notificazione al secondo difensore dell'avviso di fissazione di udienza in camera di consiglio del giudizio d'appello avverso la pronuncia di primo grado resa all'esito di giudizio abbreviato)».

La giurisprudenza è ormai ferma nel configurare una nullità a regime intermedio nell'ipotesi in cui uno dei due difensori di fiducia dell'imputato non riceva la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza (pubblica o camerale, relativa al giudizio o ai provvedimenti de libertate); vi era, al contrario, contrasto in ordine all'interpretazione dell'art. 180 c.p.p., a norma del quale le nullità a regime intermedio "non possono più essere rilevate né dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo", ed il problema era dibattuto non solo con riferimento all'udienza camerale (come nel caso devoluto all'esame delle Sezioni unite), ma anche con riguardo all'udienza pubblica fissata per la celebrazione del dibattimento. In difetto di una specifica regolamentazione per le nullità a regime intermedio verificatesi nella fase degli atti preliminari al giudizio, permaneva il dubbio sulla possibilità di applicare alla relativa eccezione il limite temporale della deliberazione della sentenza di primo grado ovvero quello (stabilito per le nullità verificatesi nel corso del giudizio) della deliberazione della sentenza del grado successivo.

Un orientamento riteneva che la nullità a regime intermedio conseguente all'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza ad uno dei difensori dell'imputato dovesse essere dedotta prima della definizione dello stesso grado del procedimento[94]; si evidenziava, in proposito, che l'emissione del decreto di citazione appartiene ad una fase antecedente e distinta rispetto alla fase del giudizio, anche nel caso del rito camerale; si rilevava, inoltre, che l'omessa citazione del codifensore nel giudizio camerale costituisce nullità intermedia, e che il codice di rito prevede che tale tipo di nullità venga dedotta, in quanto intervenuta prima del giudizio, prima della deliberazione della sentenza che chiude il grado: nessuna eccezione è prevista per il giudizio camerale, e nessuna norma positiva subordina l'efficacia del termine all'effettiva presenza delle altre componenti dell'unica "parte". Nell'ambito di questo orientamento, una decisione aveva, in generale, ritenuto che "la natura intermedia di una nullità verificatasi nella fase degli atti preliminari al dibattimento, funzionalmente e strutturalmente distinta dallo stesso, a norma della prima parte dell'art. 180 cod. proc. pen. deve essere dedotta prima della deliberazione della sentenza di primo grado. Non può infatti sostenersi l'intima compenetrazione tra le due fasi per la loro vicinanza topografica (titoli 1 e 2 del libro settimo) e temporale, giacché l'autonomia di quella degli atti preliminari al dibattimento deriva da precisi riscontri normativi (artt. 469 e 181, commi terzo e quarto cod. proc. pen.)".

Altro orientamento sosteneva che la nullità a regime intermedio conseguente all'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza a uno dei difensori dell'imputato potrebbe essere dedotta anche nel corso del successivo grado del procedimento; esso fondava principalmente sulla motivazione di Cass., Sez. Un., 25 giugno 1997 n. 6, Gattellaro, Rv. 208163, dalla quale sarebbe possibile trarre il principio secondo cui, nel procedimento camerale relativo alla proroga della custodia cautelare, svolto con il rito di cui all'art. 127 c.p.p. oppure con libertà di forme, l'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza ad uno dei due difensori dell'indagato determina una nullità a regime intermedio, che va dedotta nel successivo grado dell'iter procedimentale (rappresentato dall'appello ai sensi dell'art 310 c.p.p.).

Nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, la tesi che applica il limite temporale del successivo grado di giudizio per la deduzione della predetta nullità a regime intermedio era stata sostenuta in particolare con riferimento all'udienza camerale[95].

Questo secondo orientamento interpretativo sosteneva, altresì, che tale nullità dovrebbe ritenersi sanata qualora non venga eccepita immediatamente dall'altro difensore comparso in udienza. Tale ultima questione, per lungo tempo controversa nella giurisprudenza di legittimità, è stata risolta positivamente da Cass., Sez. Un., 16 luglio 2009 n. 39060, Aprea, Rv. 244187 - 8, la quale - con riferimento all'udienza pubblica fissata per la celebrazione del dibattimento (ipotesi che si differenzia da quella dell'udienza camerale per la partecipazione necessaria del difensore di fiducia o di ufficio) - ha precisato che la nullità a regime intermedio, derivante dall'omesso avviso dell'udienza ad uno dei due difensori dell'imputato, è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione a opera dell'altro difensore comparso, il quale ha l'onere di sollevarla immediatamente dopo gli atti preliminari, prima delle conclusioni qualora il procedimento non importi altri atti, in quanto il suo svolgersi (in udienza preliminare, riesame cautelare o giudizio) presume la rinuncia all'eccezione; il difensore presente, di fiducia o di ufficio, ha l'onere di verificare se sia stato avvisato anche l'altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata comparizione, eventualmente interpellando il giudice.

Le indicazioni contenute nei lavori preparatori al codice di procedura penale sembravano avvalorare la fondatezza del primo orientamento; in particolare, la Relazione al progetto preliminare, con riguardo all'art. 180 c.p.p. ed ai termini entro i quali le nullità di ordine intermedio vanno eccepite o rilevate, precisa che la nuova norma, a differenza dell'art. 185 del codice di rito previgente, "protrae il termine per le nullità incorse nelle fasi che hanno preceduto l'apertura del dibattimento, alla chiusura del dibattimento di primo grado; se si sono verificate nel giudizio, il termine scade con la chiusura del dibattimento del grado successivo". Ulteriori argomenti a sostegno del primo orientamento giurisprudenziale potevano essere tratti dalla motivazione dell'ordinanza n. 159 del 14 aprile 2006 della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 180 c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui sottopone alla disciplina delle nullità c.d. a regime intermedio anche le nullità concernenti le notificazioni o gli avvisi all'imputato che ha eletto domicilio presso il difensore; in particolare, il Giudice delle leggi aveva ritenuto non scontato che la nullità della notificazione del decreto che dispone il giudizio debba considerarsi verificata "nel giudizio", dato che tale notificazione rappresenta un incombente anteriore e prodromico all'instaurazione di detta fase processuale.

In dottrina erano enucleabili le stesse divisioni emerse in giurisprudenza; appariva, peraltro, dominante il secondo orientamento, ovvero la deducibilità nel grado successivo di giudizio, a sostegno del quale si osservava che, ai fini dei limiti di deducibilità delle nullità a regime intermedio, la nozione di nullità verificatesi nel "giudizio" ricomprenderebbe tanto gli atti preliminari al dibattimento, quanto il dibattimento, e che la nullità determinata dall'omessa notifica dell'avviso dell'udienza ad uno dei difensori può essere rilevata fino a quando non sia concluso il grado successivo del giudizio. Alle stesse conclusioni giungeva la dottrina più autorevole, ma limitatamente alle nullità che ricadono nel predibattimento in appello, le quali potrebbero essere dedotte fino alla decisione nel grado seguente.

Con sentenza del 27 gennaio - 1° giugno 2011, n. 22242, Scibè, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 249651

Il termine ultimo di deducibilità della nullità a regime intermedio, derivante dall'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale di appello ad uno dei due difensori dell'imputato, è quello della deliberazione della sentenza nello stesso grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell'imputato che dell'altro difensore, ritualmente avvisati. (Fattispecie relativa a giudizio abbreviato in grado di appello).

Le Sezioni unite hanno preliminarmente riepilogato i propri interventi aventi ad oggetto le questioni giuridiche sollevate dall'omesso avviso dell'udienza ad uno dei due difensori di fiducia nominati, ed i principi affermati in argomento dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, che possono ritenersi consolidati, e che si applicano trasversalmente a tutte le fasi processuali e le tipologie procedimentali (udienza dibattimentale, udienza camerale in genere, udienza di riesame in particolare):

(1) qualora l'imputato sia assistito da due difensori, l'avviso della data dell'udienza deve essere dato ad entrambi, con la conseguenza che l'omesso avviso ad uno solo dei due difensori da luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio[96];

(2) La nullità a regime intermedio, derivante dall'omesso avviso dell'udienza ad uno dei due difensori dell'imputato, è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione a opera dell'altro difensore comparso, pur quando l'imputato non sia presente, ovvero anche del difensore nominato d'ufficio in sostituzione di quello di fiducia regolarmente avvisato e non comparso, il quale ha l'onere di verificare se sia stato avvisato anche l'altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata comparizione, eventualmente interpellando il giudice[97].

Peraltro, resta irrisolto il problema delle modalità e dei termini per la deduzione della suddetta nullità quando la partecipazione del difensore al procedimento camerale non sia obbligatoria (art. 179, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.), come nel caso in esame (art. 599, comma 1, cod. proc. pen., in fine, ed art. 127, comma 3, cod. proc. pen.: "i difensori sono sentiti se compaiono"), sicché il giudice non è tenuto a nominare un difensore d'ufficio, il quale sarebbe gravato dell'onere di eccepire tempestivamente la nullità dell'omesso avviso dell'udienza ad uno dei difensori di fiducia. Nemmeno è necessaria la presenza dell'imputato la cui mancata comparizione, salvo che sia legittimamente impedito e abbia manifestato la volontà di essere presente e di essere sentito personalmente, è priva di rilevanza.

Le Sezioni Unite hanno osservato che sulla soluzione del problema incide l'affermazione contenuta nella sentenza delle Sezioni Unite n. 6 del 1997, cit., secondo la quale "se è richiesto l'avviso ad entrambi i difensori e ad uno di essi non sia stato dato, non si può pretendere che l'altro si presenti all'udienza camerale per eccepirne la nullità ... se la parte, tramite i difensori, non assiste al compimento dell'atto per vizio di comunicazione, non si può chiedere che ne eccepisca la nullità; l'avverbio tempestivamente è generico, restando da stabilire quando l'eccezione sia tempestiva. Non resta che porre attenzione alla seconda parte dell'art. 180 c.p.p., unico comma: se le nullità si sono verificate nel giudizio, devono essere dedotte dopo la deliberazione della sentenza nel grado successivo".

Peraltro, questa soluzione interpretativa «è stata formulata in termini generici, ma con riferimento ad una specifica fattispecie, quella della deliberazione in camera di consiglio, in forma semplificata, al di fuori del procedimento di cui all'art. 127 c.p.p., sulla richiesta del p.m. di proroga della custodia cautelare (art. 305 c.p.p., comma 2); d'altro canto, tale soluzione deve essere saggiata alla luce della successiva giurisprudenza delle stesse Sezioni Unite di cui si è detto».

A parere delle Sezioni Unite, vanno tenuti distinti i limiti temporali di deducibilità delle nullità a regime intermedio di cui all'art. 180 c.p.p., da quelli per la formulazione dell'eccezione di cui all'art. 182, comma 2, c.p.p.: «nel primo caso si individua uno spazio procedimentale nell'ambito del quale od oltre il quale è possibile "dedurre" o rilevare le nullità, nel secondo caso, invece, si stabilisce una correlazione temporale tra il compimento di un atto nullo e la relativa "eccezione" di parte».

Ciò significa non solo che in questo secondo caso la mancanza dell'eccezione consente al giudice di non "rilevare" la nullità di ordine generale, perché essa deve intendersi sanata, ma anche che, pur non essendo ancora decorso lo spazio temporale di cui al citato art. 180, la nullità, essendo stata sanata, non può più essere "dedotta": «pertanto, la circostanza che il difensore non abbia assistito all'atto non può portare alla conclusione che deve applicarsi la seconda parte dell'unico comma del citato art. 180, ma deve portare soltanto alla constatazione che non si è verificata una sanatoria per omessa formulazione della relativa eccezione, rimanendo doveroso verificare se per la "deduzione" siano stati rispettati i limiti temporali di carattere generale posti dall'art. 180 c.p.p.».

Sulla scia degli orientamenti consolidati in giurisprudenza, si è, pertanto, affermato che, nei procedimenti in cui è obbligatoria la presenza del difensore, «l'omesso avviso della data fissata per l'udienza ad uno dei due difensori di fiducia dell'imputato deve essere eccepita ai sensi dell'art. 182 c.p.p., comma 2, dall'altro difensore di fiducia presente o, in caso di assenza anche di quest'ultimo, dal difensore d'ufficio nominato ai sensi dell'art. 97 c.p.p., comma 4; ciò significa che è irrilevante verificare il limite di deducibilità di cui all'art. 180 c.p.p., poiché o l'eccezione non è stata formulata e la nullità deve intendersi sanata, oppure l'eccezione pur essendo stata sollevata è stata rigettata dal giudice e può essere riproposta anche con atto di impugnazione». Diversamente, nel caso (ricorrente nella specie) in cui i difensori sono sentiti solo se compaiono (ex art. 127, comma 3, cod. proc. pen.), «l'omesso avviso della data dell'udienza ad uno dei due difensori di fiducia non determina, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza sopra citata, l'assenza della difesa, poiché il difensore avvisato, anche se non compaia in udienza "formalmente è come se fosse presente" (Sez. Un. 6 del 1997, cit.), ma proprio il carattere formale di tale presenza non consente di applicare il disposto dell'art. 182 c.p.p., comma 2, mentre è necessario verificare quale sia il limite temporale di deduzione della nullità conseguente al suddetto omesso avviso ex art. 180 c.p.p.».

Si è poi ricordato che, ai sensi dell'art. 180 cod. proc. pen., le nullità di ordine generale, come quella in esame, "non possono più essere rilevate ne' dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo"; la giurisprudenza[98] ha chiarito che l'omesso avviso a uno dei difensori di fiducia dell'imputato è causa di nullità ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., che si colloca "in quel segmento procedimentale che sta tra il decreto dispositivo del giudizio (art. 429 c.p.p.) o il decreto di citazione diretta a giudizio (art. 552 c.p.p.) e la prima udienza di comparizione davanti al giudice"; come tale è una nullità che, non essendosi verificata "nel giudizio", non può essere più rilevata o dedotta dopo la deliberazione della sentenza di primo grado. Tale termine di deducibilità della nullità riferito alla deliberazione della sentenza di primo grado «deve considerarsi applicabile anche al giudizio di appello "anche se in questo processo gli atti precedenti al giudizio, comprendenti le notifiche delle citazioni delle parti e dei difensori, sono denominati nella rubrica dell'art. 601 c.p.p., "atti preliminari al giudizio": il segmento procedimentale è analogo a quello di primo grado, e la terminologia diversa si spiega perché nel secondo grado è lo stesso giudice deputato al giudizio d'appello che provvede agli adempimenti, e non, come nel primo grado, il giudice dell'udienza preliminare o il pubblico ministero. Ma i diritti processuali delle parti e il connesso regime delle nullità si configurano nello stesso modo"».

Il suddetto termine di deducibilità è, pertanto, applicabile anche al giudizio camerale di appello previsto dall'art. 599 c.p.p., «in cui, analogamente, può affermarsi che l'omesso avviso ad uno dei due difensori si collochi nella fase intercorrente tra la fissazione dell'udienza e l'udienza di comparizione in camera di consiglio, come si desume dall'art. 601 c.p.p., comma 2, che espressamente riconduce l'attività preliminare all'udienza camerale ex art. 599 cit. alle formalità previste per la valida instaurazione del giudizio dibattimentale di appello. Che la nullità in questione non attenga alla fase del giudizio si desume chiaramente dal successivo art. 181 c.p.p., che distingue le "nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio" (comma 3) dalle nullità verificatesi "nel giudizio" (comma 4) e trova conforto in autorevoli pronunce».

Una volta individuato il termine di deducibilità della nullità in questione, si è risposto in senso positivo alla domanda se il difensore regolarmente avvisato e non comparso avesse l'onere di dedurla entro quel termine e si è affermato che la medesima nullità deve essere dedotta prima della deliberazione della sentenza di appello pronunciata ex art. 599 c.p.p., a cura del difensore di fiducia regolarmente avvisato e, in tal modo, messo in condizione di sollevare la relativa eccezione: «se il difensore che compare deve formulare la eccezione di nullità se non vuole che la nullità si sani, la mancata comparizione del difensore regolarmente avvisato è espressione di una scelta difensiva le cui ragioni non rilevano ai fini del decorso del termine ultimo per la "deduzione", cioè quello della deliberazione della sentenza del grado, anche tenendo presente che la deduzione della nullità non richiede necessariamente la comparizione, potendo essere formulata con un atto scritto (art. 121 c.p.p.). L'onere del difensore regolarmente avvisato di accertare la sussistenza di nullità verificatesi prima del giudizio non muta a seconda che egli compaia oppure non compaia in udienza».

Invero, la ratio dell'art. 180 c.p.p. è quella di apprestare un rimedio alle nullità intermedie verificatesi prima del giudizio al fine di garantire il regolare svolgimento del giudizio stesso e di impedire il compimento di ulteriori attività processuali viziate (art. 185 c.p.p.), «con la conseguenza che una interpretazione che consenta alla difesa di riservare l'eccezione di nullità al grado successivo sarebbe lesiva dell'interesse costituzionalmente protetto della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2); mentre la nullità verificatasi in giudizio può essere rilevata e dedotta dopo la conclusione del grado, perché ormai l'unico rimedio possibile è l'impugnazione della sentenza».

Si è precisato che «l'onere imposto alla "parte" di dedurre la nullità di cui si parla entro il termine di decadenza di cui all'art. 180 c.p.p., prima parte non elide il diritto dell'imputato (o dell'indagato) di fruire dell'assistenza di due difensori, salvaguardato appunto dalla possibilità di tempestiva deduzione della nullità, a fronte della quale il giudice non può che disporre il rinvio dell'atto».

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, osservato che grava sui difensori un dovere di leale collaborazione al regolare svolgimento del procedimento, e che, in tale ottica, va ritenuta l'esistenza di vincoli di solidarietà fra i codifensori, tra i quali «non deve mancare quel reciproco obbligo di comunicazione che è aspetto tipico e istituzionale della cooperazione nell'esercizio della difesa».

Trattasi di affermazioni che trovano conforto anche nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha avuto modo di occuparsi del necessario rapporto informativo che deve intercorrere all'interno della posizione difensiva93, enucleando l'esistenza a carico del difensore uno specifico onere informativo, deplorando la mancanza di comunicazione, nel caso di specie, tra l'imputato e i suoi avvocati, e concludendo che "non si può tuttavia imputare ad uno Stato la responsabilità di tutte le lacune di un avvocato".

Anche il codice deontologico forense (art. 23, comma 5) prevede, nel caso di difesa congiunta, il dovere del difensore di consultare il codifensore "in ordine ad ogni scelta processuale", quale è certamente la partecipazione all'udienza del giudizio di impugnazione, anche se camerale, "al fine della effettiva condivisione della strategia processuale": «l'approccio deontologico nella interpretazione delle norme processuali assume un particolare rilievo nella dimensione di un processo accusatorio; esso riguarda tutti i soggetti processuali e, per quanto concerne il ruolo del difensore, si concentra soprattutto nel dovere di lealtà, non solo oggetto di una disposizione di natura deontologica del codice relativo (art. 5), ma anche sancito in una norma di diritto processuale (art. 105 c.p.p., comma 4). Se il processo penale è contraddistinto dalla dialettica delle parti (art. 111 Cost., commi 1 e 2), la lealtà del difensore diventa un canone di regolarità della giurisdizione. Il dovere di lealtà implica, tra l'altro, che una norma processuale non possa essere utilizzata, e, quindi, anche interpretata, per raggiungere finalità diverse da quelle per le quali è stata dettata, con il risultato non solo di tutelare interessi non meritevoli di protezione, ma anche di ledere interessi costituzionalmente protetti. La stessa Corte costituzionale ha avuto modo di utilizzare il bene costituzionale dell'efficienza del processo quale parametro per censurare la razionalità di norme processuali che consentivano il perseguimento di intenti dilatori (sentenze n. 353 del 1996 e n. 10 del 1997). La lealtà non implica collaborazione con l'autorità giudiziaria per il raggiungimento di uno scopo comune, ma certamente comporta che anche l'attività della difesa debba convergere verso la finalità di un processo di ragionevole durata, poiché si tratta di un risultato il cui perseguimento deve essere a carico di tutti i soggetti processuali, una volta rispettate le insopprimibili garanzie difensive, le quali perdono il loro connotato di garanzie se sono interpretate in modo distorto rispetto alla loro essenza».

In virtù dei rilievi che precedono, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «nell'udienza camerale di appello il termine ultimo di deducibilità della nullità derivante dall'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza ad uno dei due difensori dell'imputato è quello della deliberazione della sentenza nel grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell'imputato che del codifensore ritualmente citati».

  • carcerazione
  • arresto
  • detenzione preventiva

Cap. 9

Le misure precautelari e cautelari

Sommario

1 Le misure precautelari. La rilevanza della recidiva reiterata ai fini della determinazione della pena stabilita per l'arresto facoltativo in flagranza. - 2 Le misure cautelari personali. Le esigenze cautelari: la rilevanza della custodia cautelare presofferta. - 2.1 Segue. La scelta della misura e la sopravvenienza di modifiche normative in peius. - 2.1.a Segue. L'applicabilità o meno al reato di cui all'art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309 del 1990 della presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere. - 2.2 Segue. Nuova domanda cautelare del P.M. per il medesimo fatto, in pendenza del giudizio di rinvio a seguito di annullamento della revoca della misura. - 2.3 Segue. I termini di custodia cautelare nel giudizio abbreviato. - 2.4 Segue. La sospensione dei termini di custodia cautelare in pendenza del termine per il deposito dei motivi. - 2.5 Segue. L'estinzione delle misure coercitive dopo il giudicato. - 2.6 Segue. Le impugnazioni in materia de libertate. Forme particolari di notificazione.

1. Le misure precautelari. La rilevanza della recidiva reiterata ai fini della determinazione della pena stabilita per l'arresto facoltativo in flagranza.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se, nel computo della pena edittale, ai fini della verifica della facoltatività dell'arresto in flagranza, e più in generale per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, debba tenersi conto o meno della recidiva reiterata contestata».

L'ordinanza di rimessione[100], nell'enucleare la questione controversa, aveva evidenziato che, nella specie, la sanzione per il delitto tentato ascritto all'indagato raggiungeva la soglia che legittima l'intervento precautelare soltanto se nel calcolo si teneva conto della recidiva reiterata, che - a norma dell'art. 99, comma 4, cod. pen. (come novellato dalla legge n. 251 del 2005) - comporta un aumento della metà della pena edittale.

Un orientamento era favorevole al riconoscimento, per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, della rilevanza della recidiva reiterata specifica infraquinquennale[101]; altre decisioni[102] richiamavano l'art. 278 cod. proc. pen., evidenziando l'esclusione della recidiva nella determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, ma non affrontando la questione in esame, né facendo ad essa implicito riferimento.

Con sentenza del 24 febbraio - 5 maggio 2011, n. 17386, Naccarato, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 249482 Ai fini della verifica dei limiti edittali stabiliti per l'arresto in flagranza, e, più in generale, della determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, non si deve tener conto della recidiva reiterata.

Le Sezioni Unite hanno premesso che «ai fini della soluzione della specifica questione in oggetto, e per quanto di seguito si avrà modo di chiarire ulteriormente, la natura giuridica della recidiva reiterata risulta irrilevante»; si è, peraltro precisato, per completezza argomentativa, che la recidiva, nelle ipotesi in cui comporta un aumento della pena superiore ad un terzo, determina certamente gli effetti propri di una circostanza aggravante ad effetto speciale[103]: «il che non è assolutamente incompatibile con la natura di "circostanza inerente alla persona del colpevole" che il legislatore (art. 70 c.p.) ha espressamente attribuito alla recidiva (in genere)».

Per quanto riguarda la questione controversa, si è ritenuto che essa potesse essere risolta valorizzando la lettera delle norme di riferimento, ovvero gli artt. 278 c.p.p. (che indica i criteri per la "determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari") e 379 c.p.p. (che richiama espressamente lo stesso art. 278 c.p.p., ai fini della determinazione della pena agli effetti delle disposizioni del Titolo Sesto del codice di rito, in cui sono contenute le disposizioni che disciplinano l'arresto in flagranza ed il fermo): «il dato testuale della formulazione dell'art. 278 c.p.p., non lascia spazio a dubbi di sorta laddove è previsto che "ai fini dell'applicazione delle misure .., non si tiene conto della recidiva", mentre occorre tener conto "delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale". Nella norma in esame risultano dunque specificamente indicate sia la recidiva che le circostanze ad effetto speciale, con valenza opposta ai fini del calcolo della pena agli effetti dell'applicazione delle misure: di tal che, qualsiasi interpretazione finalizzata a far rientrare - agli effetti specifici dell'art. 278 c.p.p. - la recidiva reiterata nella categoria delle circostanze ad effetto speciale, risulta irrimediabilmente inficiata dall'inequivocabile dato letterale».

Inoltre, rilevato che il secondo periodo dell'art. 278 c.p.p. consta a sua volta di due parti, la prima - di carattere generale - applicabile alla recidiva, la seconda - speciale, e che inizia dalle parole "fatta eccezione" - riguardante solo alcune circostanze tra le quali rientrano anche quelle ad effetto speciale, si è osservato che «è ragionevole ritenere che se il legislatore, nel formulare l'art. 278 c.p.p., avesse voluto attribuire rilievo alla recidiva, allorché essa comporta un aumento di pena superiore ad un terzo (così considerandola quale aggravante ad effetto speciale anche ai fini specifici dell'art. 278 c.p.p.), non vi sarebbe stata alcuna necessità di un espresso riferimento alla stessa nella prima parte (del secondo periodo) della disposizione, posto che la norma speciale (seconda parte del secondo periodo) include nel computo della pena le aggravanti ad effetto speciale. A ciò aggiungasi che, costituendo la seconda parte (del secondo periodo) della disposizione una regola speciale che fa eccezione alla regola generale di cui alla prima parte, la stessa, ai sensi dell'art. 14 preleggi - e come osservato anche nell'ordinanza di rimessione - non può essere applicata oltre i casi in essa considerati: ulteriore ragione per escludere un'interpretazione estensiva».

Se ne è desunto che «il riferimento alle circostanze ad effetto speciale, contenuto nella seconda parte del secondo periodo dell'art. 278 c.p.p., deve essere interpretato restrittivamente, nel senso che esso riguarda le circostanze diverse dalla recidiva, che è espressamente disciplinata solo dalla parte generale».

Nè può ritenersi che il significato e la portata dell'art. 278 c.p.p. siano stati implicitamente modificati dalla nuova disciplina sulla recidiva introdotta dalla L. n. 251 del 2005: «ed invero, appare del tutto condivisibile quanto in proposito argomentato nell'ordinanza di rimessione, laddove è stato evidenziato che le innovazioni introdotte con tale novella non offrono alcun aggancio per ritenere che la modifica dell'art. 99 c.p., abbia determinato anche una significativa e sostanziale modifica dell'art. 278 c.p.p.»; e, d'altro canto, anche la natura facoltativa della recidiva reiterata induce ad escludere che della stessa debba tenersi conto nel computo della pena edittale ai fini dell'arresto in flagranza e, più in generale, per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, «essendo consentito al giudice di negare la rilevanza aggravatrice della recidiva reiterata ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione; e, con specifico riferimento all'arresto facoltativo in flagranza - che qui direttamente rileva in relazione al proposto ricorso - mette conto evidenziare che riconoscere valenza alla recidiva reiterata, ai fini del computo della pena edittale, comporterebbe, contro ogni logica giuridica per tutto quanto sopra argomentato (oltre che contro il buon senso), l'attribuzione alla polizia giudiziaria del potere di reputare sussistente un'aggravante che - tenuto conto della natura facoltativa della stessa, nei termini dianzi precisati - il giudice potrebbe poi addirittura escludere (aggravante che peraltro implica una conoscenza dei precedenti penali del reo che di norma non si ha al momento della flagranza del reato)».

Si è, infine, evidenziato che la soluzione prescelta non trova ostacolo nell'orientamento giurisprudenziale secondo cui ai fini della prescrizione si dovrebbe tener conto della recidiva reiterata in quanto circostanza aggravante ad effetto speciale: «ed invero, è sufficiente sottolineare che, a differenza dell'art. 278 c.p.p., l'art. 157 c.p., non menziona nominativamente la recidiva nell'ambito delle circostanze di cui si debba o meno tener conto (ai fini della individuazione della pena stabilita dalla legge per determinare il tempo necessario a prescrivere), limitandosi ad attribuire invece rilievo alle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale"; di tal che, ai fini della prescrizione, alla recidiva - nei casi in cui la stessa comporta un aumento di pena superiore ad un terzo - sono stati dalla giurisprudenza riconosciuti gli effetti propri di ogni circostanza ad effetto speciale (come del resto si ricava implicitamente dall'art. 161 c.p., comma 2)[104]».

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «nel computo della pena edittale, ai fini della verifica della facoltatività dell'arresto in flagranza, e più in generale per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, non si deve tener conto della recidiva reiterata».

2. Le misure cautelari personali. Le esigenze cautelari: la rilevanza della custodia cautelare presofferta.

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere

«se le esigenze cautelari, ai fini della prosecuzione della custodia in carcere, abbiano, come parametro di riferimento, la sanzione in concreto inflitta o che si ritiene possa essere inflitta».

A fronte dell'orientamento espresso dalla giurisprudenza di merito (soprattutto dal Tribunale del riesame di Bologna), secondo il quale un presofferto cautelare corrispondente ai 2/3 della pena già inflitta nel corso del processo di merito costituirebbe presupposto autonomo che comporta la revoca della misura applicata allo stesso, la giurisprudenza di legittimità era orientata in assoluta prevalenza nel senso che la creazione, in via interpretativa, di siffatta regola, non prevista dalla normativa vigente e non ricavabile dalla stessa, finirebbe per contraddire lo stesso principio di proporzionalità, che invece in tal modo si intenderebbe attuare, atteso che è proprio quest'ultimo - nella sua più genuina essenza - ad imporre una valutazione globale e complessiva della vicenda cautelare, impedendo di prescindere ai fini della revoca della custodia dall'analisi comparativa delle circostanze addotte a sostegno della persistenza del periculum libertatis[105]. In tal senso, si sottolineava che il tempo trascorso in custodia cautelare dall'imputato ed il suo raffronto con l'entità della pena inflitta non fossero elementi estranei alla valutazione prodromica alla decisione sul mantenimento della restrizione della libertà, e che indubbiamente i parametri menzionati dovessero essere presi in considerazione alla luce del canone di proporzionalità posto dall'art. 275, comma secondo, cod. proc. pen.; non è, invece, accettabile, perché non giustificata dal sistema normativo di riferimento, la configurazione di una regola che imponga di esaurire la suddetta valutazione nella ponderazione del rapporto tra presofferto cautelare e pena inflitta, addirittura ricorrendo ad una rigida proporzione aritmetica e pretermettendo così ogni considerazione sulla permanenza delle esigenze cautelari. In ultima analisi le pronunzie menzionate evidenziavano che gli illustrati parametri non rilevassero ex se, ma potevano risultare sintomatici di un mutamento della complessiva situazione cautelare dell'imputato, facendo emergere il ridimensionamento o l'esaurimento delle esigenze cautelari originariamente poste a fondamento della misura in corso di esecuzione.

In alcuni sporadici casi, la giurisprudenza di legittimità aveva, peraltro, confermato le pronunzie di merito che avevano accolto l'interpretazione del Tribunale del riesame di Bologna, osservando che, se l'entità della pena detentiva irrogata costituisce il limite massimo inderogabile della custodia cautelare, ai fini della delibazione di istanze di revoca o sostituzione della cautela deve necessariamente tenersi conto, oltre che degli elementi di valutazione di cui agli artt. 273, 274 e 275 cod. proc. pen., anche del criterio della proporzionalità, onde evitare che, prima del giudicato, la custodia cautelare superi la pena irrogata, obbligando l'Amministrazione a risarcire i danni conseguenti all'ingiusta detenzione. Secondo tali pronunzie, il criterio della proporzionalità assumerebbe rilievo dirimente, specie quando la differenza tra il presofferto e la reclusione irrogata con la sentenza di condanna sia esigua, rendendo manifesto il pericolo di espiazione anticipata, se non di ingiusta eccedenza del sofferto, rispetto al giudicato[106].

In realtà, anche a parere dell'indirizzo indicato come minoritario nessuna disposizione specifica legittimerebbe il principio costantemente affermato dal Tribunale della libertà di Bologna per cui la custodia cautelare deve cessare allorché dal suo inizio sia decorso un periodo pari ad almeno due terzi della pena in concreto inflitta. In altri termini, anche per l'orientamento in esame, il ricorso al canone di proporzionalità non sembrava giustificare tout court la costruzione in via interpretativa di un inedito termine "massimo" di custodia cautelare da aggiungere a quelli positivamente configurati dalla legge processuale, ed in grado di provocare in maniera automatica ed autonoma la cessazione dello stato detentivo. Piuttosto, la proporzione tra presofferto cautelare e pena già irrogata (ancorchè non in via definitiva) veniva considerata quale elemento idoneo a concorrere alla formazione della piattaforma cognitiva sulla cui base effettuare la valutazione circa la necessità della protrazione della detenzione, in una prospettiva assai diversa. Ed infatti, le pronunzie richiamate in precedenza sostanzialmente si limitavano a respingere il ricorso della pubblica accusa rilevando la non intrinseca irragionevolezza della valutazione compiuta nelle diverse occasioni dal Tribunale della libertà sulla base del parametro costituito dall'entità assunta nel concreto della vicenda dal presofferto cautelare.

Non vi sono contributi della dottrina sulla questione controversa.

Con sentenza del 31 marzo - 22 aprile 2011, n. 16085, P.M. in proc. Khalil, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto. I principi affermati sono stati così massimati:

Massime nn. 249323 - 4

E' illegittimo il provvedimento di revoca della custodia cautelare motivato esclusivamente in riferimento alla sopravvenuta carenza di proporzionalità della misura in ragione della corrispondenza della durata della stessa ad una percentuale, rigidamente predeterminata ricorrendo ad un criterio aritmetico, della pena irroganda nel giudizio di merito e prescindendo da ogni valutazione della persistenza e della consistenza delle esigenze cautelari che ne avevano originariamente giustificato l'applicazione.

Il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale.

Le Sezioni unite hanno preliminarmente richiamato la giurisprudenza costituzionale[107] per la quale sia l'applicazione che il mantenimento delle misure cautelari personali non può in nessun caso fondarsi esclusivamente su una prognosi di colpevolezza, né mirare a soddisfare le finalità tipiche della pena - pur nelle sue ben note connotazioni di polifunzionalità - né, infine, essere o risultare in itinere priva di un suo specifico e circoscritto "scopo", cronologicamente e funzionalmente correlato allo svolgimento del processo. Il necessario raccordo che deve sussistere tra la misura e la funzione cautelare che le è propria, comporta, poi - sul versante del quomodo attraverso il quale si realizza la compressione della libertà personale - che questa abbia luogo secondo un paradigma di rigorosa gradualità, così da riservare alla più intensa limitazione della libertà, attuata mediante le misure di tipo custodiale - "fisicamente" simmetriche rispetto alle pene detentive, e, dunque, da tenere nettamente distinte sul piano funzionale - il carattere residuale di extrema ratio.

Questo principio è stato affermato in termini netti anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale, in riferimento alla previsione dell'art. 5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica solamente allorchè tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti»[108].

L'aspetto qualificante che caratterizza il sistema appena delineato e che lo rende conforme a Costituzione, è dunque quello di rifuggire da qualsiasi elemento che introduca al suo interno fattori che ne compromettano la flessibilità, attraverso automatismi o presunzioni: «esso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per l'applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piana "individualizzazione" della coercizione cautelare»[109].

Ed, a parere del Supremo collegio, «è del tutto evidente che i postulati della flessibilità e della individualizzazione che caratterizzano l'intera dinamica delle misure restrittive della libertà, non possono che assumere connotazioni "bidirezionali", nel senso di precludere tendenzialmente qualsiasi automatismo - che inibisca la verifica del caso concreto - non soltanto in chiave, per così dire, repressiva, ma anche sul versante "liberatorio"».

Da questi rilievi si è desunto anzitutto che la vicenda cautelare «presuppone una visione unitaria e diacronica dei presupposti che la legittimano, nel senso che le condizioni cui l'ordinamento subordina l'applicabilità di una determinata misura devono sussistere non soltanto all'atto della applicazione del provvedimento cautelare, ma anche per tutta la durata della relativa applicazione. Adeguatezza e proporzionalità devono quindi assistere la misura - "quella" specifica misura - non soltanto nella fase genetica, ma per l'intero arco della sua "vita" nel processo, giacché, ove così non fosse, si assisterebbe ad una compressione della libertà personale qualitativamente o quantitativamente inadeguata alla funzione che essa deve soddisfare: con evidente compromissione del quadro costituzionale di cui si è innanzi detto».

In tal modo, è stato immediatamente superato quell'orientamento minoritario, secondo il quale la valutazione sulla proporzionalità della custodia cautelare alla pena irrogata o irrogabile andrebbe operata esclusivamente nel momento applicativo della misura e non anche successivamente, nel corso della sua esecuzione, escludendosi, dunque, che la misura stessa possa essere revocata quando sia trascorso un termine ritenuto congruo dal giudice: è ben vero che a favore di tale soluzione, per così dire drastica, è stato evocato, quale argomento testuale indubbiamente suggestivo, il disposto dell'art. 299, comma 2, cod. proc. pen., «ma si tratta di argomento sistematicamente flebile, sia perché contrastato dal tenore della direttiva 59 della legge-delega (al cui espresso tenore deve, come è noto, conformarsi la lettura della disposizione delegata, altrimenti contra constitutionem) secondo la quale si sancisce la "previsione della sostituzione o della revoca della misura della custodia cautelare in carcere, qualora l'ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionata alla entità del fatto ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata"; sia perché in contrasto con la logica del "minor sacrificio possibile" per la libertà personale, che informa, come si è accennato, non soltanto la "statica" del sistema cautelare, ma anche la relativa "dinamica"; sia, infine, perché in antitesi con la stessa tradizione del principio che viene qui in discorso».

La proporzionalità costituisce, infatti, «canone di commisurazione della "ragionevolezza" della compressione della libertà personale, non soltanto al momento della scelta "se" emettere una misura cautelare e "quale" misura concretamente prescegliere, ma anche nel corso della relativa applicazione, in rapporto alla durata della privazione della libertà già subita, ancora una volta da orientare non soltanto sul quomodo, ma anche sull'an della coercizione».

Rispetto alla storia dell'istituto della proporzionalità, risulterebbe, quindi, palesemente regressivo un sistema che, in presenza di una misura divenuta "sproporzionata", consentisse al giudice soltanto di affievolirne l'incidenza sulla libertà (sostituendola con altra meno grave o disponendone l'applicazione con modalità meno gravose), ma non di rimuoverla in toto: «d'altra parte, se è indubitabile che, ove nel corso del procedimento muti in senso sfavorevole all'imputato il giudizio prognostico circa il quantum di pena irrogabile in caso di condanna, sia senz'altro consentita l'applicazione ex novo di una misura cautelare, non v'è ragione alcuna per ritenere preclusa l'ipotesi reciproca, ammettendo, dunque, la revocabilità di qualsiasi misura, ove lo scrutinio del caso conduca a ritenere funzionalmente superfluo il perdurare della cautela, in rapporto al "tipo" di condanna che si prevede verrà pronunciata».

Si è, peraltro, osservato che "adeguatezza" e "proporzionalità" non costituiscono parametri autodefiniti ed indipendenti, giacché, entrambi, si riflettono - proprio perché iscritti nel panorama delle scelte circa l'an ed il quomodo della cautela - sull'esistenza e sulla qualità delle specifiche esigenze che possono ravvisarsi tanto all'esordio che nel divenire della vicenda cautelare: «è ben vero che l'origine storica del principio di proporzionalità (...) tradisce il suo intimo raccordo con l'istituto della "carcerazione preventiva" e con la finalità di impedire che la custodia ante iudicium possa comunque rivelarsi inutiliter data, alla luce della non eseguibilità della condanna, o quando risulti aver integralmente consumato la quantità di pena irrogabile o irrogata. Ed è altrettanto vero, come è stato osservato, che la funzione del principio risulti nel nuovo codice non poco sminuita, alla stregua della corposa gamma di presidi che mirano, appunto, ad impedire una "sproporzionata" applicazione o mantenimento della misura in rapporto alla condanna che si prevede possa essere inflitta, quali quelli delineati dagli artt. 273, comma 2, 275, comma 2-bis, 280, comma 2, 299, comma 2, e 300 cod. proc. pen. Ma tutto ciò non toglie che i criteri di commisurazione delle misure cautelari tracciati dall'art. 275, comma 2, cod. proc. pen., non possono far perdere di vista quella che è l'essenza cautelare delle misure e che ne giustifica l'applicabilità al lume dei già ricordati principi costituzionali: vale a dire l'inderogabile necessità che ogni misura - per non essere indebita anticipazione di pena - soddisfi funzionalmente una delle esigenze tassativamente previste dall'art. 274 cod. proc. pen.».

"Adeguatezza" e "proporzionalità" rappresentano, quindi, paradigmi di apprezzamento che si chiariscono solo nel quadro delle specifiche esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e nel momento in cui lo scrutinio di adeguatezza e proporzionalità viene ad essere compiuto: «ove si postulasse, infatti, come il Tribunale a quo mostra di ritenere, che l'ipotetico raggiungimento del limite della proporzionalità sconti ex se l'automatica (e perciò stesso inammissibile, per quel che si è detto) dissoluzione delle esigenze cautelari che potessero comunque residuare, ne deriverebbe che l'altrettanto automatico venir meno della cautela, risulterebbe del tutto privo di "causa normativa", posto che - nel quadro del sistema, come positivamente delineato - il permanere intonso delle condizioni di applicabilità della misura (ivi compresi, evidentemente, i relativi limiti di durata) non soltanto legittima, ma impone il relativo mantenimento».

D'altra parte, che il canone della proporzionalità non possa essere semplicisticamente risolto sulla base di una supposta, quanto arbitraria, verifica di tipo aritmetico tra la durata della misura e l'entità della pena che in via di prognosi potrà essere applicata all'esito del giudizio, è dimostrato dalla circostanza che il legislatore colloca - in termini perfettamente simmetrici ed equivalenti ai fini del relativo scrutinio - accanto alla "entità della sanzione", anche la "entità del fatto": a sottolineare, quindi, come sia imposta una verifica non soltanto quantitativa ma anche qualitativa del fatto e, dunque, delle esigenze che la relativa gravità può continuare a far emergere.

L'approdo ermeneutico cui ha ritenuto di pervenire il Tribunale di Bologna è stato considerato erroneo anche in relazione alla scelta (ritenuta «eccentrica») di evocare il criterio dei due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza, di cui al comma 6 dell'art. 304 cod. proc. pen.: «la proporzionalità, come parametro di apprezzamento, è, infatti, principio tendenziale, che non sopporta automatismi aritmetici, sia perché, ove così fosse, sarebbe chiamato ad operare soltanto in chiave di durata della misura (surrogando, contra ius, la disciplina dei termini di cui agli artt. 303 e 304 cod. proc. pen.) e non anche in fase di prima applicazione, sia perché, concettualmente, il sindacato sulla "proporzione" non può non refluire sulle esigenze cautelari e viceversa. Se, per disposto costituzionale, al legislatore è fatto obbligo di prevedere dei termini di durata massima dei provvedimenti che limitano la libertà personale, è del tutto evidente che ove si ravvisino (in ipotesi anche al massimo grado) le condizioni e le esigenze che impongono il permanere della misura cautelare, risulterebbe addirittura contraddittorio rispetto alla garanzia costituzionale circa i limiti massimi di durata, un sistema che consentisse provvedimenti liberatori automatici anticipati (e senza "causa" cautelare) rispetto al relativo spirare».

Peraltro, l'intero sviluppo della vicenda cautelare deve essere sottoposto a costante ed attenta verifica circa la effettiva rispondenza dei tempi e dei modi di limitazione della libertà personale al quadro delle specifiche esigenze, dinamicamente apprezzabili, proprio alla stregua dei criteri di adeguatezza e proporzionalità, «posto che, se, da un lato, l'approssimarsi di un limite temporale di applicazione della misura custodiale a quello della pena espianda non può risolversi nella automatica perenzione della misura stessa, è peraltro elemento da apprezzare con ogni cautela, proprio sul versante della quantità e qualità delle esigenze che residuano nel caso di specie e sulla correlativa adeguatezza della misura in corso di applicazione».

Si è conclusivamente affermato che «il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza di cui all'art. 275, comma 2, cod. proc. pen., opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità di quella specifica misura a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale».

2.1. Segue. La scelta della misura e la sopravvenienza di modifiche normative in peius.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se la misura cautelare applicata prima della novella codicistica che ha ampliato il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia carceraria, possa subire modifiche per effetto del nuovo e più sfavorevole trattamento normativo».

La tematica della successione di leggi processuali nel tempo (con applicazioni proprio in tema di misure cautelari) era stata esaminata da una non recente, ma tuttora attuale, decisione della Corte costituzionale104, che aveva ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10 ed 11 del decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625, convertito con modificazioni nella legge 6 febbraio 1980 n. 15), osservando che «l'applicabilità della norma che dispone il prolungamento della custodia preventiva ai procedimenti penali in corso non contrasta con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione perché: a) i lavori preparatori della Costituzione non offrono argomento a favore della tesi che l'irretroattivita` della legge penale debba estendersi alle norme processuali e l'interpretazione della giurisprudenza e` concorde in tal senso; b) nessun argomento a favore dell'irretroattivita` delle norme processuali puo` trarsi dal confronto tra l'art. 1 del codice penale e l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, i quali assumono lo stesso significato; c) e` arbitrario ritenere che l'adozione di una apposita disposizione per disporre la retroattivita` sia il sintomo della convinzione del legislatore che la norma sulla carcerazione preventiva non avrebbe carattere processuale; d) il riconoscimento che l'art. 25, secondo comma, Cost. stabilisce una garanzia per l'imputato e appaga l'esigenza di certezza non giustifica la deduzione che nel campo penale devono ritenersi retroattive non solo le norme sostanziali ma anche quelle processuali; e) che la giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale «la carcerazione preventiva ben può legittimamente essere disposta in vista di esigenze di carattere cautelare e strettamente inerenti il processo» induce a non accogliere la concezione della custodia cautelare come istituto di diritto sostanziale».

Questo orientamento è stato più volte richiamato, in relazione alla odierna questione controversa, dalle decisioni che, nell'ambito dell'orientamento assolutamente dominante, hanno ritenuto che la novella introdotta con decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in legge 23 febbraio 2009, n. 38 (il cui art. 2, comma 1, ha ampliato il novero dei reati per i quali, in presenza di esigenze cautelari, è normativamente presunta l'adeguatezza della sola misura della custodia in carcere), trovi applicazione anche con riguardo alle misure cautelari già in corso di applicazione per reati anteriormente commessi[111].

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate in più occasioni ad esaminare il problema della successione di norme processuali nel tempo, ritenendo di massima legittima (non sic et simpliciter la retroattività della norma processuale sopravvenuta sfavorevole, bensì) la efficacia della norma sopravvenuta sfavorevole con riguardo alle situazioni già in corso, ma non ancora esaurite, nell'ambito di procedimenti aventi ad oggetto reati anteriormente commessi.

In particolare, la sentenza n. 20 del 01/10/1991, dep. 28/10/1991, Alleruzzo ed altri, Rv. 188525, ritenne che «la protrazione dei termini di durata massima della custodia cautelare prevista in un provvedimento legislativo modificativo delle norme precedentemente vigenti può trovare applicazione nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento stesso solo se a tale data lo stato di detenzione sia legittimamente in atto, cioè se i termini siano ancora pendenti, mentre non può dar luogo al mantenimento, o al ripristino, della custodia nei confronti di chi abbia già maturato il diritto alla scarcerazione secondo la normativa anteriore, anche se, per un eventuale errore del giudice, non sia stato ancora liberato».

Successivamente il problema fu esaminato dalla sentenza n. 8 del 27/03/1992, dep. 18/04/1991, Di Marco, Rv. 190246, inerente ad una situazione del tutto analoga a quella oggetto dell'odierna controversia, e così massimata: «la modifica dell'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., operata dall'art. 1 del decreto legge 9 settembre 1991 n. 292, in seguito alla quale, per taluni piu' gravi delitti ove sussistano gravi indizidi colpevolezza, e' disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non si ravvisano esigenze cautelari, trova applicazione anche per le misure custodiali ordinate in base alla normativa precedentemente vigente che siano ancora pendenti, per le quali cioe' non siano ancora scaduti i termini di fase, o quelli massimi»[112]. Trattasi di argomentazioni che l'orientamento dominante ha ritenuto riproponibili con riguardo alla situazione in esame, nella quale proprio nella presunzione legislativa in tema di adeguatezza della misura da applicarsi nei confronti dell'indagato del reato ex art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990 / 575 cod. pen., deve ravvisarsi la causa di illegittimità della misura in atto, devoluta dal legislatore, a mente dell'art. 299 c.p.p., alla valutazione del giudice che procede in riferimento alla situazione cautelare che possa dirsi pendente.

In seguito, le Sezioni Unite (sentenza n. 19 del 25/10/1994, dep. 12/12/1994, De Lorenzo, Rv. 199392) avevano nuovamente evidenziato che, «allorche' la misura cautelare della custodia in carcere sia stata sostituita con gli arresti domiciliari in forza di norma di legge sopravvenuta, al ripristino di essa, seguito alla caducazione di tale norma, non si applica il disposto dell'art. 299 comma quarto cod. proc. pen., che impone al giudice di indicare le sopravvenute circostanze giustificatrici della sostituzione della meno gravosa misura degli arresti domiciliari con quella piu' gravosa della custodia in carcere».

Infine, la sentenza n. 3 del 28/1/1998, dep. 08/04/1998, Budini ed altri, Rv. 210258[113], aveva incidentalmente affermato in motivazione che «è assai agevole osservare che il richiamo alla regola tempus regit actum è, nel caso in esame, del tutto inconferente. Tale regola, invero, ha valore solo procedurale, mentre all'interrogatorio di garanzia sono legati interessi di natura prettamente sostanziale, e, primo fra tutti, quello alla libertà del cittadino».

I principi espressi dalle sentenze Alleruzzo e Di Marco erano stati in più occasioni ribaditi dalla successiva giurisprudenza delle sezioni[114]; in senso nettamente difforme rispetto all'orientamento che appariva ormai consolidato a seguito della sentenza Di Marco, si era sostenuto che «le norme che disciplinano l'applicazione di misure cautelari hanno carattere processuale, ma, per la loro influenza immediata sullo status libertatis, hanno rilevanza sostanziale, con la conseguenza che, in tale materia, si applicano le norme sulla successione di leggi nel tempo proprie delle disposizioni sostanziali. Pertanto, in caso di norme piu' favorevoli introdotte con decreto legge non convertito, si applicano le disposizioni vigenti nel momento della commissione del fatto, per effetto dell'art. 77, comma terzo, cost. e della sentenza della Corte costituzionale 19 febbraio 1995, n. 51, che ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 2, comma quinto, c.p., nella parte in cui rende applicabili, nel caso di decreto legge non convertito, le disposizioni dei commi secondo e terzo dello stesso articolo (I principi anzidetti sono stati affermati in una fattispecie relativa all'art. 2 del decreto legge 14 luglio 1994, n. 440, non convertito, che aveva introdotto il comma 3 bis nell'art. 275 c.p.p., con il quale si era inibita l'adozione di provvedimenti di custodia cautelare per delitti diversi da quelli indicati nel comma 3 dello stesso articolo e dell'art. 380 c.p.p.: la Corte ha conseguentemente valutato corretta la soluzione dei giudici di merito che non avevano ritenuto caducati gli effetti di una misura cautelare per effetto della entrata in vigore del decreto-legge citato)»[115].

Sempre sul presupposto della non assoggettabilità delle modifiche in peius della disciplina della custodia cautelare al principio di irretroattività, in considerazione della natura processuale e non sostanziale, si era più recentemente sostenuto che «la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere rispetto ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis cod. pen. ha natura processuale, sicche' trova applicazione anche per la misura cautelare adottata in relazione a fatti anteriori all'introduzione di detto reato»[116].

La dottrina, nella vigenza del codice di rito del 1930, era in prevalenza orientata, sulla scia dell'art. 68 disp. att., nel senso che, con riguardo alle restrizioni della libertà personale dell'imputato, ragioni di convenienza ed equità suggerissero di regolare la materia della successione di leggi processuali nel tempo secondo la normativa sostanziale[117]: questo orientamento fu, peraltro, sconfessato dalla in precedenza citata giurisprudenza costituzionale.

La sentenza Di Marco era stata generalmente condivisa, pur se talora erano emerse perplessità in ordine alla praticabilità del ricorso al meccanismo di cui all'art. 299, comma primo, cod. proc. pen.

Come anticipato, in ordine alla questione controversa, l'orientamento assolutamente dominante riteneva, nel solco dell'orientamento già accolto dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8 del 1992, che la novella trovasse applicazione anche con riguardo alle misure cautelari già in corso di applicazione per reati anteriormente commessi.

La prima decisione in tal senso era stata Sez. 3, n. 23691 del 20/05/2009, dep. dep. 11/06/2009, Kaddouri, Rv. 244080; nel medesimo senso, si erano successivamente orientate, tra le altre:

- Sez. 3, n. 30786 del 02/07/2009, dep. 23/07/2009, P.M. in proc. V., Rv. 244573: in motivazione, il collegio aveva, tra l'altro, osservato che «l'art. 11 preleggi, secondo cui le leggi non hanno effetto retroattivo, non incide sulla questione, in quanto la modifica del tipo di custodia implica la sua applicazione ex nunc, non potendosi naturalmente trasformare ex tunc la custodia domiciliare in quella carceraria; nessun contrasto sussiste con l'art. 299 c.p.p., comma 4, che prevede la sostituzione della misura con una maggiore allorquando le esigenze cautelari risultino aggravate, in quanto nella specie l'aggravamento è previsto dalla legge per la natura del reato in sè e non per le trasgressioni di cui all'art. 276 c.p.p. o per mutate situazioni di fatto; la tesi secondo cui la modifica inciderebbe sui criteri di valutazione dell'adeguatezza della misura e non sulle esigenze cautelari appare del tutto infondata sia perché l'innovazione ha inteso rafforzare dette esigenze, sia perché nello stabilire l'adeguatezza della misura occorre ad esse fare riferimento, come eccepito dal P.M.; il non avere esplicitamente disposto il legislatore l'applicabilità della modifica alle misure cautelari in atto non comporta una lacuna del provvedimento normativo avente effetto negativo, apparendo conforme ai principi di diritto interpretare il punto controverso nel senso sopra specificato: laddove, per ritenere il contrario, sarebbe stata necessaria una disposizione transitoria escludente l'aggravamento per le misure in corso»;

- Sez. 3, n. 41107 del 29/09/2009, dep. 26/10/2009, G., Rv. 244956: in motivazione, il collegio aveva richiamato la precedente giurisprudenza delle Sezioni Unite, e la giurisprudenza comunitaria, ricordando che «le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che si sono espresse sul principio di non retroattività della norma di sfavore lo abbiano sempre fatto con riferimento alla "pena", e cioè affermato l'esistenza di un divieto di applicare con la condanna un trattamento sanzionatorio più grave di quello previsto al momento della commissione del reato contestato. Tale è anche il contenuto della decisione assunta dalla Grande Chambre il 17 Settembre 2009 nel caso Scoppola c/ Italia (ricorso n. 10249/03), ove era in discussione la modifica della disciplina del regime di ergastolo conseguente all'applicazione del nuovo regime dell'art. 442 c.p.p., comma 2, ultimo periodo come introdotto dal D.L. n. 341 del 2000. Pur avendo ad oggetto una disposizione contenuta nel codice di rito, la decisione non ne esamina i possibili effetti endoprocessuali, ma riflessi diretti che essa ha sul contenuto della "pena" quale consegue alla decisione di condanna giunta al termine di rito abbreviato. Ciò è tanto vero che la decisione, con cui la Corte ha ritenuto sussistere la violazione dei diritti dell'imputato, opera un esplicito riferimento alle previsioni dell'art. 7 (nulla poena sine lege) e dell'art. 6 (giusto processo) della Convenzione Europea, mentre non ritiene che vengano in considerazione i principi fissati dall'art. 5 con riferimento alle misure cautelari»;

- Sez. 5, n. 35677 del 15/07/2010, dep. 04/10/2010, Dammacco, Rv. 248879: in motivazione, dopo avere adesivamente ripreso l'orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite con la sentenza Di Marco, il collegio aveva espressamente confutato l'orientamento minoritario nelle more emerso, osservando che esso «è incentrat[o] sul tema della intangibilità, res sic stantibus, del giudizio sulla gravità delle esigenze cautelari ma non affronta quello, invece ritenuto dirimente nella citata sentenza delle Sezioni Unite, della sopravvenuta illegittimità della misura cautelare in atto, misura infatti diversa da quella individuata come unica congrua dal legislatore: e sempre che, ovviamente, non risulti la sopravvenuta insussistenza delle medesime esigenze cautelari».

La più recente riaffermazione dell'orientamento senz'altro dominante si doveva a Sez. 6, n. 41717 del 04/11/2010, dep. 25/11/2010, Cucumazzo, Rv. 248807, così massimata: «è legittimo il provvedimento di ripristino della custodia cautelare in carcere adottato, nei confronti dell'indagato per il delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, in forza della sopravvenuta estensione anche a tale reato, per novella codicistica, della presunzione di inadeguatezza delle altre misure cautelari». Dato atto dell'esistenza, nell'ambito della stessa sesta sezione, di un orientamento contrario, pur minoritario, la decisione aderiva a quello dominante, evidenziando che «in realtà, il successivo orientamento del Supremo collegio (...) si è allineato nel senso di ritenere legittimo il provvedimento con cui si confermi - nei confronti dell'imputato del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, già sottoposto a custodia cautelare in carcere successivamente sostituita con gli arresti domiciliari - il ripristino della più grave misura carceraria in virtù della sopravvenienza della modifica normativa dell'art. 275 c.p.p., comma 3 - introdotta con il D.L. n. 11 del 2009, art. 2, comma 1, lett. a-bis, convertito con modificazioni in L. n. 38 del 2009 - la quale estende la presunzione di inadeguatezza di misure cautelari diverse dalla custodia cautelare in carcere per i reati ivi indicati, tra i quali è compreso quello di cui al predetto D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Detta modifica normativa, infine, trattandosi di materia processuale e in assenza di diversa disposizione transitoria, va applicata anche con riguardo ai procedimenti in corso, sulla base del principio tempus regit actum. In conclusione: l'obbligo di applicare la misura cautelare della custodia in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza, salva l'acquisizione di elementi dai quali risulti l'insussistenza di esigenze cautelari, introdotto in riferimento ad alcuni reati dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 2, comma 1, lett. a), si applica, trattandosi di disposizione di natura processuale, anche nei procedimenti relativi ai reati commessi prima dell'entrata in vigore del summenzionato decreto, con la conseguenza che il giudice, se in tal senso richiesto dal pubblico ministero, è tenuto a sostituire in tali ipotesi la misura cautelare meno grave eventualmente adottata in precedenza con quella carceraria»[118].

Quanto al meccanismo processuale utilizzabile per disporre la sostituzione in peius, nell'ambito dell'orientamento maggioritario, pur essendo costante il riferimento alla sentenza Di Marco, non si dubitava, peraltro, che la sostituzione in peius postulasse una richiesta ad hoc del P.M., e non potesse essere disposta d'ufficio dal giudice[119].

La prima voce dissonante rispetto all'orientamento dominante è costituita da Sez. 6, n. 31778 del 08/07/2009, dep. 31/07/2009, Torelli, Rv. 244264, così massimata: «la modifica dell'estensione della presunzione legale di inadeguatezza di misure cautelari diverse da quella carceraria introdotta dal D.L. n. 11 del 2009 (convertito con modificazioni dalla L. n. 38 del 2009) è previsione di carattere processuale, che, in quanto tale, si applica ai soggetti i quali abbiano commesso uno dei delitti indicati dalla novella anche in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, ma soltanto con riguardo alle misure cautelari che in riferimento agli stessi reati devono ancora essere adottate e non anche a quelle già applicate prima della stessa data, le quali, dunque, non devono subire alcuna trasformazione in ragione della novità legislativa». In motivazione, la decisione - che non si confrontava in alcun modo con l'orientamento contrario, non evocato, né con l'autorevole, pur se non recente, pronuncia delle Sezioni Unite, neanche citata - osservava che l'applicazione retroattiva della novella riguardava pacificamente le misure che dovevano essere adottate per la prima volta per reati anteriormente commessi, in forza del principio tempus regit actum, ma non anche le misure meno afflittive della custodia in carcere già in corso di applicazione: «la norma, pur essendo applicabile a soggetti che abbiano commesso uno dei delitti indicati nel nuovo inciso, in epoca anteriore alla introduzione dello stesso, non può che gravare sulle future misure cautelari da adottare, ma non anche per quelle già applicate, perché ciò comporterebbe un'inammissibile regressione nella fase procedimentale cautelare, oltre che una lesione dei diritti del cittadino, di indubbia valenza costituzionale. Invero, l'indagato, sottoposto ad un trattamento cautelare meno affittivo della massima misura, consolidatosi, per sua stessa acquiescenza o per decisione del giudice della cautela, ma comunque vagliato quanto ai presupposti (indiziari e cautelari) si troverebbe, con una sorta di automatismo regressivo, posto in una situazione deteriore, comunque basata sugli stessi presupposti di cui all'art. 275 c.p.p., valutati in precedenza in sede di emissione della misura meno affittiva; essi cioè, seguendo il postulato dell'automatismo, varrebbero a determinare l'aggravamento, senza bisogno di una concreta ed attuale verifica, in una sorta di meccanismo "ora per allora" determinato dalla estensione della presunzione di pericolosità ad opera della nuova disposizione. Una siffatta soluzione interpretativa però impingerebbe nell'anzidetto richiamato principio del giudicato cautelare, che pur se strumentale alla continuazione del processo, in quanto trova la propria ragione d'essere esclusivamente in un principio elementare di economia processuale, copre tutte le questioni che sono state effettivamente decise (...) al fine di evitare defatiganti ripetizioni [di] procedimenti incidentali con lo stesso contenuto, fra le quali rientra appunto anche la già compiuta valutazione dell'affievolimento delle ragioni cautelari»[120].

L'ordinanza di rimessione mostrava di aderire all'orientamento minoritario; peraltro, le perplessità del collegio rimettente si incentravano non sulla legittimità o meno dell'applicazione retroattiva di una disposizione processuale sopravvenuta sfavorevole, né tantomeno sulla natura processuale o sostanziale delle disposizioni sopravvenute de quibus, bensì, in dettaglio, unicamente sull'assenza di un meccanismo processuale atto a legittimare nella specie la sostituzione della misura meno afflittiva già in corso di applicazione con quella più afflittiva necessitata dalla normativa sopravvenuta (le Sezioni Unite avevano suggerito il ricorso all'art. 299, comma primo, cod. proc. pen.), così argomentata: «A) Lo stesso articolo 299 c.p.p., nella ipotesi data, ai rispettivi commi 2 e 4 non prevede la possibilità di una "revoca" bensì quella, processualmente tutta diversa, della "sostituzione". B) La revoca di cui al primo comma dell'art. 299 c.p.p. è prevista in via generale come una revoca in melius e non in peius. C) Il mutamento legislativo rientra molto a fatica nella nozione giuridica di "fatto sopravvenuto" ed una novella normativa non appare neppure idonea a determinare l'aggravamento di esigenze cautelari le quali, soltanto, possono condurre alla sostituzione di una misura meno grave con altra più severa. Di qui la conclusione che l'oggettiva, mancata previsione nel nostro sistema processuale (in particolare nell'ambito dell'art. 299 c.p.p.) di uno strumento adatto a tal fine, esclude la possibilità di applicare alle misure ancora in corso per i reati introdotti nella nuova tipizzazione dell'art. 275 co. 3 c.p.p., il regime di presunzione in precedenza non praticabile».

La dottrina aveva tendenzialmente condiviso le perplessità riguardanti la possibilità di impiego del meccanismo processuale indicato dalle Sezioni Unite Di Marco, evidenziando che esso «appariva, invero, piuttosto anomalo, se non addirittura elusivo del dato normativo (...) ove si consideri che, laddove si tratti di applicare una nuova misura a modifica di altra precedente, più grave o meno grave, lo strumento fisiologicamente indicato dallo stesso art. 299 c.p.p., nei rispettivi commi 2 e 4, è unicamente la "sostituzione" di misura, essendo invece la revoca relativa ai soli provvedimenti destinati ad obliterare del tutto il regime limitativo proprio della misura restituendo il soggetto interessato al pieno godimento di tutti i suoi diritti. Al contrario, revocare la misura originaria unicamente in vista della successiva applicazione di altra più grave, non poteva non comportare una evidente "distorsione" della finalità dell'istituto, fisiologicamente concepito dal legislatore a vantaggio e non in danno dell'indagato». Si riteneva, pertanto, l'impossibilità di procedere «alla sostituzione della misura più lieve in atto con quella più grave imposta dalla novella giacché, da un lato, il comma 2 dell'art. 299 impone, in evidente favore dell'indagato, la sostituzione nel caso in cui le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura non appare più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata e, dall'altro, il comma 4 dello stesso articolo, in una logica esattamente opposta, contempla la sostituzione della misura con altra più grave ove "le esigenze cautelari risultano aggravate" e non anche, quando, immutate le esigenze cautelari, cambi unicamente, per legge, la corrispondenza ed esse del tipo di misura da adottare». In definitiva, «l'oggettiva non rinvenibilità, all'interno del codice (e in particolare nell'art. 299 c.p.p.) di uno strumento adatto a tal fine escluderebbe la possibilità di applicare, alle misure ancora in corso per i reati individuati dalla nuova versione dell'art. 275 comma 3 c.p.p., il regime di presunzione in precedenza non praticabile».

Si imponeva, inoltre, all'attenzione delle Sezioni Unite anche la valutazione della legittimità costituzionale della novella con riguardo al regime di presunzione introdotto con riguardo, tra gli altri, al reato di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990: la questione assumeva rilevanza ancora maggiore, all'indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 265 del 07/07/2010, dep. 21/07/2010, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Con sentenza del 31 marzo - 14 luglio 2011, n. 27919, P.G. in proc. Ambrogio, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando i principi così massimati:

Massime nn. 250195 - 6

In tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo il quale, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato, non costituisce un principio dell'ordinamento processuale, nemmeno nell'ambito delle misure cautelari, poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell'ordinamento processuale.

In assenza di una disposizione transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione, disposta prima dell'entrata in vigore del D.L. n. 11 del 2009, convertito, con modd., in l. n. 38 del 2009 (che ha modificato l'art. 275 cod. proc. pen., ampliando il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia carceraria), non può subire modifiche unicamente per effetto della nuova e più sfavorevole normativa.

Le Sezioni Unite hanno premesso che la questione controversa era pregiudiziale rispetto a quello afferente alla costituzionalità della disciplina: e, proprio in considerazione della prescelta soluzione della questione controversa, quella di costituzionalità è risultata assorbita.

Dopo avere ricostruito i contrapposti orientamenti, il Collegio ha ritenuto che la soluzione del problema prospettata dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite Di Marco, e dalla successiva giurisprudenza che vi ha aderito, dovesse essere riconsiderata, precisando, peraltro, che «naturalmente, non è in discussione il canone tempus regit actum utilizzato in quella pronunzia quale prima base per orientare la soluzione del problema. Anzi, la vitalità del principio deve essere ribadita ed ulteriormente esplicitata. L'antica regola costituisce la traduzione condensata dell'art. 11 delle preleggi. Essa enuncia che la nuova norma disciplina il processo dal momento della sua entrata in vigore; che gli atti compiuti nel vigore della legge previgente restano validi; che la nuova disciplina, quindi, non ha effetto retroattivo. L'indicato canone corrisponde ad esigenze di certezza, razionalità, logicità che sono alla radice della funzione regolatrice della norma giuridica. Esso, proprio per tale sua connotazione, è particolarmente congeniale alla disciplina del processo penale».

Si è, inoltre, osservato che di solito non emergono questioni problematiche quando l'atto si compie e si esaurisce istantaneamente; i problemi possono più facilmente insorgere, invece, quando il compimento dell'atto, o lo spatium deliberandi o ancora gli effetti si protraggono, si estendono nel tempo: «in taluni casi, e l'ambito cautelare è tra questi, alle tradizionali logiche di carattere tecnicoformale si sovrappongono tematiche valoriali, assiologiche (...). In breve, si pongono problemi diversi l'uno dall'altro, ben presenti nell'esperienza giuridica, rispetto ai quali la logica atomistica (un atto, una norma) può in alcuni casi risultare di difficile applicazione o apparire insufficiente, inappagante. I problemi in questione, sebbene rinvengano una comune, vaga matrice nel susseguirsi di norme differenti entro un medesimo campo d'azione, presentano solitamente tratti distintivi irriducibili in relazione ai diversi istituti. Dunque, piuttosto che cercare soluzioni di carattere generale, conviene considerare che il superamento di alcuni problemi può essere favorito da una attenta disamina della complessiva disciplina legale della materia cui ci si interessa e dall'individuazione del concreto, reale ruolo che la nuova norma è chiamata a svolgervi alla luce delle diverse possibili soluzioni dei problemi di diritto intertemporale».

Da questo punto di vista, l'approccio al tema in esame cui le Sezioni Unite si sono ispirate differisce da quello assunto dalla pronunzia del 1992, e conduce, come si vedrà, ad un esito opposto.

Dopo aver ricostruito i tratti più essenziali della disciplina processuale delle misure cautelari personali, precisando che l'ordinanza che dispone l'applicazione di una misura cautelare è atto istantaneo, ed è naturalmente destinata a produrre effetti protratti nel tempo («una situazione pendente fino al momento della cessazione, per qualunque causa, della restrizione»), ma che in relazione allo status indotto da tale provvedimento, tuttavia, non vi è alcuna fissità («al contrario, si impone una continua verifica circa il permanere delle condizioni che hanno determinato la limitazione della libertà personale e la scelta di una determinata misura cautelare»), le Sezioni Unite hanno osservato che «l'aggravamento della condizione cautelare in atto deve essere sempre senz'altro ricondotto all'ambito dell'art. 299, comma 4, cod. proc. pen.; con la conseguenza che si richiede, normalmente, un rinnovato, equilibrato apprezzamento del complessivo quadro processuale e quindi delle contingenze che in divenire lo caratterizzano: sempre, dunque, nel segno della concretezza. Non può essere quindi condivisa la ricostruzione che, come si è visto, individua un virtuale momento di revoca della precedente misura, affiancato dalla contestuale adozione della più severa cautela. Si tratta di un approccio che snatura artificiosamente l'istituto della revoca che, come si è visto, definisce inequivocabilmente una situazione in cui la limitazione di libertà deve cessare del tutto. Tale interpretazione, d'altra parte, sottrae una situazione come quella in esame, caratterizzata (al di là di qualunque espediente argomentativo) dalla sostituzione di una misura con altra più grave, alla sua naturale disciplina che, conviene ripeterlo, è quella dell'art. 299, comma 4, cod. proc. pen; e richiede, normalmente, un concreto apprezzamento in fatto, quello stesso apprezzamento che nel momento genetico aveva consentito di ritenere appropriata, nel procedimento in esame, la misura degli arresti domiciliari».

Quanto al concreto ruolo che va affidato alla nuova normativa, «l'applicazione della nuova, più severa disciplina alla custodia già in corso, con la conseguente introduzione della custodia in carcere, travolge l'apprezzamento discrezionale compiuto dal giudice nel momento genetico, sulla base della normativa del tempo, che quell'apprezzamento discrezionale gli richiedeva. Per tale via, se si alza il velo delle finzioni giuridiche, si finisce con l'intaccare retroattivamente lo "statuto" normativo che aveva governato l'atto genetico e ne aveva definitivamente determinato le condizioni di legittimità. Insomma, l'applicazione ope legis della disciplina più severa, e della presunzione che essa comporta, alle situazioni in cui la misura cautelare era già in corso ed era stata adottata alla stregua della disciplina più favorevole, che implicava un apprezzamento discrezionale, comporta l'applicazione retroattiva del novum ad un contesto già definito nelle sue coordinate fattuali e normative. Si tratta di operazione che, in mancanza di una disposizione transitoria, non è consentita proprio per la violazione che comporta del principio tempus regit actum: l'architettura del sistema processuale e considerazioni di carattere logico e tecnico conducono univocamente a tale conclusione».

Con riguardo alle interferenze tra i principi dell'ordinamento penale e la disciplina del processo, ed in particolare alle possibili interazioni tra la disciplina delle misure cautelari ed i principi che regolano la legalità penale, desunti dall'art. 25 Cost., dall'art. 7 della Convenzione EDU e dagli artt. 1 e 2 cod. pen., per la giurisprudenza costituzionale la pena e la misura cautelare detentiva sono somiglianti quanto alla loro materialità, alla limitazione di libertà ed al carico di sofferenza che comportano, ma diverse quanto agli scopi ed ai presupposti. Queste diversità chiamano in campo principi costituzionali importanti ma distinti. L'argomento è stato sviluppato nella importante sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 1982, relativa al tema, connesso ma distinto, delle norme che ridefiniscono i termini di durata della custodia cautelare: «si è considerato che l'art. 25, comma secondo, Cost. stabilisce una garanzia per l'imputato, che trova la sua ratio in un'esigenza di certezza. Tuttavia, la "carcerazione preventiva" può essere disposta solo in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare e strettamente inerenti al processo. Ciò ha indotto a non accogliere la tesi della natura di diritto sostantivo dell'istituto della carcerazione preventiva. Secondo detta sentenza, la natura strumentale dell'istituto in parola, oltre che impedire l'assimilazione tra il fatto e lo strumento per accertarne l'esistenza e la conformità al diritto, "consente di cogliere nella sua completa prospettiva la funzione di garanzia della carcerazione preventiva, e del processo in genere, nel senso che non è garanzia solo dell'imputato, ma anche - e prima - dell'attuazione della legge, della ordinata convivenza, della salvezza delle istituzioni"". E successivamente, con la sentenza n. 265 del 2010, la Corte costituzionale, proprio in relazione alla novella codicistica de qua, ha affermato che, affinché la restrizione della libertà personale nel corso del procedimento sia compatibile con la presunzione di non colpevolezza, è necessario che essa assuma connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento definitivo della responsabilità; e ciò ancorché si tratti di misura ad essa corrispondente sul piano del contenuto afflittivo: «la custodia cautelare deve soddisfare esigenze proprie del processo, diverse da quelle di anticipazione della pena, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva».

Dal canto suo, la giurisprudenza della Corte EDU ha fortemente valorizzato la centralità dell'art. 7 della Convenzione, che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene, pronunziandosi da ultimo[121] sulla controversa costituzionalizzazione del principio di retroattività della lex mitior enunciato nell'art. 2 cod. pen., con riguardo alla quale ha affermato che il richiamato art. 7 «non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge meno severa. Questo principio si traduce nelle norme secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato».

Le Sezioni Unite hanno, peraltro, osservato che «tale principio, enunciato quale riconosciuto frutto di un lento progresso del pensiero giuridico, non diviene, però, per ciò solo, al contempo, un principio dell'ordinamento processuale, tanto meno nell'ambito delle misure cautelari. E' la stessa Corte che si perita di chiarire che resta ragionevole l'applicazione del principio tempus regit actum per quanto riguarda l'ambito processuale, pur dovendosi accuratamente definire di volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o meno alla sfera del diritto penale materiale. Dunque, alla luce della giurisprudenza indicata, occorre ritenere che non esistano principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell'ordinamento processuale. La soluzione del problema in esame resta perciò affidata alla ricostruzione del sistema processuale».

In sintesi, «l'indirizzo espresso dalla pronunzia Di Marco del 1992, come si è già esposto, faceva leva esclusivamente sul novum normativo e al suo servizio poneva un artificioso, virtuale momento di revoca della precedente ordinanza cautelare. La differente interpretazione qui adottata, invece, parte dalla lettura complessiva della disciplina della restrizione personale, considera come autonomo il momento modificativo disciplinato dall'art. 299, commi 2 e 4, cod. proc. pen., rileva soprattutto che l'automatica applicazione della nuova, più severa disciplina travolge "retroattivamente" l'atto genetico della privazione di libertà e la disciplina legale che in quel tempo ne aveva legittimamente regolato l'adozione, modificando in senso deteriore la situazione preesistente e finendo col pregiudicare proprio il principio tempus regit actum».

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto:

«in assenza di una disposizione transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione disposta prima della novella codicistica che ha ampliato il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia in carcere non può subire modifiche solo per effetto della nuova, più sfavorevole normativa».

2.1.a. Segue. L'applicabilità o meno al reato di cui all'art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309 del 1990 della presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere.

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere

«se la presunzione di adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere operi, sussistendo di gravi indizi di colpevolezza, in riferimento all'imputazione per il reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti quando l'associazione sia costituita al fine di commettere fatti di lieve entità».

La Corte di cassazione non si era mai direttamente pronunciata in ordine alla questione controversa, ai fini della risoluzione della quale era necessario chiarire se il generico rinvio, operato dall'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. (sia pure per il tramite dell'art. 51, comma 3-bis, stesso codice) all'art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 includesse anche la fattispecie di lieve entità prevista dal comma sesta del citato art. 74: assumevano, pertanto, rilievo i contrastanti orientamenti formatisi in relazione a tutte le fattispecie caratterizzate, come l'art. 275, comma terzo, cit., da un generico rinvio, diretto od indiretto, all'art. 74 cit.

In proposito, un orientamento escludeva che il riferimento generico all'art. 74 potesse essere inteso nel senso di richiamare anche l'ipotesi di lieve entità. Con riferimento, in particolare, alla disciplina dell'art. 1, comma terzo, lett. a), L. legge n. 207 del 2003, si era affermato che, pur se l'art. 4 bis Ord. penit., richiamato dall'art. 1 cit., si riferisce ai delitti previsti dall'art. 74 d. P.R. n. 309 del 1990 senza prevedere esclusioni di sorta, tuttavia l'art. 74, comma sesto, prevede che, se l'associazione è costituita per commettere i fatti descritti dall'art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990, si applica l'art. 416 c.p., commi primo e secondo, e tale ultimo riferimento non può ritenersi effettuato solo quoad poenam; di qui la conclusione che "l'esclusione dai benefici operata dall'art. 4- bis ord. penit. riguarda tutte le ipotesi previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ma non anche quella di cui al comma 6, che, per effetto del richiamo operato all'art. 416 c.p., segue il regime giuridico previsto per tale tipo di reato"[122]. Analoga conclusione veniva adottata con riferimento alla sospensione della esecuzione della pena ex art. 656, comma nono, cod. proc. pen.[123], e con riferimento al regime di esclusione del patteggiamento c.d. "allargato" previsto, per taluni, più gravi reati, dall'art. 444 cod. proc. pen., per il rilievo che la fattispecie di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, costituita per commettere fatti illeciti di lieve entità "non è di per sè ostativa all'applicazione del rito speciale di cui all'art. 444 c.p.p., in quanto tale norma, nell'escludere l'applicabilità dell'istituto a tutte le ipotesi delittuose elencate nell'art. 51, comma 3 bis, non contempla analoga esclusione per i delitti cui sia impresso il regime giuridico previsto per il delitto di cui all'art. 416 c.p."[124].

Altro orientamento, con riferimento al richiamo effettuato dall'art. 4-bis Ord. penit. all'art. 74 nella sua interezza, aveva escluso la possibilità di assimilare il regime giuridico dell'associazione di lieve entità a quello dell'associazione per delinquere di cui all'art. 416 cod. pen., osservando come, attesa la diversità dell'oggetto giuridico dei due reati (l'art. 416 cod. pen. tutela l'ordine pubblico, l'art. 74, comma sesto, invece, la salute individuale e collettiva contro l'aggressione della droga e la sua diffusione) e la natura specializzante dei reatifine programmati dal secondo tipo di associazione, "la giurisprudenza di legittimità abbia costantemente ritenuto configurabile il concorso formale delle autonome norme incriminatici, quando il programma criminoso della pur unica associazione comprenda, oltre i fatti di illecito traffico di stupefacenti - anche se di lieve entità, - altri delitti comuni"; si aggiungeva che "lo spettro delle figure soggettive di cui al primo comma dell'art. 74 d.p.r. 309/90 è più ampio di quello delineato nel primo comma dell'art. 416 c.p., non essendo fra queste annoverate chi "dirige" o "finanzia" l'associazione: di guisa che la pretesa omologazione del regime giuridico comporterebbe l'irragionevole esclusione dalla specifica previsione attenuata di cui al citato art. 74 comma 6 delle condotte di direzione e di finanziamento dell'associazione finalizzata a fatti di illecito traffico di stupefacenti di lieve entità"[125].

La questione controversa non risultava specificamente trattata neppure dalla dottrina, che aveva, tuttavia, affrontato il profilo della natura giuridica della fattispecie di cui all'art. 74, comma sesto, dividendosi.

Un orientamento riteneva che detta fattispecie configurerebbe un'ipotesi autonoma di reato, poiché il richiamo effettuato dall'art. 74, comma sesto, all'art. 416 cod. pen. non andrebbe inteso soltanto quoad poenam ma riguarderebbe la stessa struttura del delitto associativo, e ciò tanto più in quanto la norma richiamerebbe, integralmente, il primo e il secondo comma dell'art. 416 cod. pen. e non solo la pena per essi prevista; alla medesima conclusione della natura autonoma del reato giungevano quanti, diversamente, valorizzavano l'analisi strutturale del comma quinto dell'art. 73, deducendone che gli elementi caratterizzanti la fattispecie dell'associazione "lieve" non costituiscono mera variante d'intensità, bensì elementi descrittivi ulteriori che originano una nuova fattispecie.

Altro orientamento, premesso che le conclusioni cui perveniva l'opposto orientamento dovrebbero comportare, incongruamente, l'inapplicabilità, all'associazione di lieve entità, delle condotte di "direzione" e "finanziamento" di cui al comma primo dell'art. 74, non richiamate dai commi primo e secondo dell'art. 416 cod. pen., riteneva che il richiamo all'associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen. dovesse essere inteso unicamente quoad poenam, affermando conseguentemente l'associazione di cui al comma sesto dell'art. 74 costituisce mera ipotesi attenuata della fattispecie base di cui al primo comma dello stesso art. 74. Si aggiungeva che, a ritenere il contrario, nel caso in cui il programma criminoso di una associazione comprendesse anche reati comuni, l'unica fattispecie applicabile sarebbe quella dell'art. 416 cod. pen., con conseguente esclusione del concorso formale, che diversamente s'imporrebbe in tutte le altre ipotesi di associazione per delinquere con finalità criminose composite, comuni e speciali; tale rilievo evidenzierebbe le ragioni per le quali sarebbe, in realtà, necessario ricomprendere, nell'ambito dell'art. 74 (richiamato dall'art. 51, comma-terzo bis, cod. proc. pen., a sua volta richiamato dall'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., oltre che da altre disposizioni) anche l'ipotesi lieve.

Con sentenza del 23 giugno - 22 settembre 2011, n. 34475, Valastro, le Sezioni Unite hanno affermato i principi così massimati:

Massime nn. 250351 - 2

Il reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti costituita al fine di commettere fatti di lieve entità ex art. 74, comma sesto, d.P.R. n. 309 del 1990 costituisce fattispecie autonoma di reato e non mera ipotesi attenuata del reato di cui all'art. 74, comma primo, d.P.R. cit.

La presunzione di adeguatezza esclusiva della misura della custodia cautelare in carcere di cui all'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. non opera in relazione al reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti costituita al fine di commettere fatti di lieve entità.

Le Sezioni Unite hanno ricordato che sulla specifica questione controversa non risultano precedenti decisioni della Corte di cassazione, ma che, in relazione ad essa, assumono rilievo i termini del contrasto insorto in altri ambiti, concernenti soprattutto la valenza dei richiami operati da alcune norme al fine di escludere l'applicabilità di taluni istituti ad alcune fattispecie criminose.

Riepilogati gli orientamenti formatisi in relazione alle specifiche questioni insorte con riguardo alle materie caratterizzate da rinvii (diretti od indiretti) all'art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990, generalmente inteso, il Supremo Collegio è pervenuto alla conclusione che il richiamo all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 operato per il tramite dell'art. 51, comma 3-bis, dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (laddove, in presenza di esigenze cautelari, si impone per talune fattispecie criminose l'applicazione della sola custodia cautelare in carcere) non sia comprensivo della fattispecie contemplata dal comma 6 del citato art. 74.

Le Sezioni Unite hanno, in proposito, condiviso l'orientamento consolidato a parere del quale la fattispecie da ultimo citata costituisce ipotesi autonoma di reato e non mera ipotesi attenuata (sia pure con determinazione autonoma della pena) del reato di cui al comma 1 dell'articolo 74 d.P.R. n. 309 del 1990: «il disposto rinvio ai commi primo e secondo dell'art. 416 cod. pen. - nei termini usati dal legislatore - riconduce infatti l'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di fatti di lieve entità in materia di droga all'associazione per delinquere comune di cui all'art. 416 cod. pen., ciò imponendolo la chiara dizione della norma ("si applicano il primo ed il secondo comma dell'art. 416 del codice penale"), espressione di un rinvio quoad factum e non di un mero rinvio quoad poenam (atteso che in tale caso sarebbe stata utilizzata la diversa dizione "si applicano le pene previste da commi primo e secondo dell'art. 416 cod. pen.") ed indicativa della volontà del legislatore di riservare all'ipotesi criminosa in questione, in ragione del minor allarme sociale suscitato dai fatti e della minore pericolosità degli autori degli stessi, un regime diverso da quello previsto per l'ipotesi criminosa contemplata dal comma 1 dell'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990».

Si è anche evidenziato che, se il legislatore avesse inteso disciplinare la fattispecie di cui all'art. 74, comma sesto, come fattispecie circostanziata attenuata, avrebbe previsto una semplice riduzione di pena rispetto alle ipotesi associative più gravi previste dai commi precedenti, senza operare quel generale richiamo - nei termini di cui si é detto - all'art. 416 cod. pen.: «l'applicazione all'ipotesi criminosa di cui al comma 6 dell'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 del regime giuridico previsto per il delitto di cui all'art. 416 cod. pen. impone dunque di ritenere il generico rinvio all'art. 74 cit. come non comprensivo della fattispecie criminosa di lieve entità, non contemplando le norme richiamate al fine di escludere l'applicazione di benefici ed istituti ovvero di regolare determinati istituti i delitti per i quali é riservato il regime giuridico previsto per il delitto di cui all'art. 416 cod. pen.».

Si è, inoltre, aggiunto che, in ogni caso, non potrebbe sostenersi che il richiamo senza limitazioni di sorta all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 non consentirebbe di escludere dal rinvio la fattispecie criminosa lieve: «una tesi siffatta non tiene conto della irragionevolezza di una scelta legislativa - e quindi della poca persuasività di una tale interpretazione - che, dopo aver assimilato tale fattispecie criminosa all'associazione per delinquere di cui all'art. 416 cod. pen., riservi ad essa nelle materie qui considerate, nonostante il ritenuto minore disvalore della condotta criminosa contemplata al comma 6 dell'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 (sia rispetto alle ipotesi di cui ai commi precedenti del detto articolo sia rispetto a molte delle condotte riconducibili nell'ambito dell'art. 416 cod. pen.) un trattamento differenziato e maggiormente afflittivo di quello previsto per l'associazione per delinquere comune. E poiché é obbligo dell'interprete, tra le possibili interpretazioni della norma, privilegiare quella che non presenti profili di irragionevolezza e non confligga con i principi costituzionali, deve convenirsi sulla correttezza di quell'orientamento giurisprudenziale per primo illustrato nell'ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite e qui condiviso».

A ciò induce anche la ratio della disposizione di cui all'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., volta ad introdurre un più severo regime custodiale tramite la presunzione - relativa - di sussistenza delle esigenze cautelari e la presunzione - assoluta - di esclusiva adeguatezza della misura della custodia in carcere per determinati reati: «la natura derogatoria della disposizione rispetto al regime ordinario (caratterizzato dalla previsione di una pluralità di misure incidenti in maniera differenziata e graduale sulla libertà personale e di criteri idonei a consentire una scelta del trattamento cautelare adeguata alle esigenze configurabili nei singoli casi concreti) nonché i principi costituzionali di riferimento (eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, inviolabilità della libertà personale, presunzione di non colpevolezza, riserva di legge e giurisdizione in materia, ex artt. 3, 13, 27 Cost.) impongono invero di adottare in ordine all'ambito del generico rinvio all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, operato tramite il richiamo dell'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. dall'art. 275, comma 3, dello stesso codice, un criterio di interpretazione restrittiva - e costituzionalmente orientato - anche in relazione all'individuazione dei singoli reati in esso compresi».

La conclusione cui sono giunte le Sezioni Unite, risulta, peraltro, avvalorata anche:

(a) dalla ratio dell'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., «volta ad introdurre una deroga all'ordinaria regola di attribuzione delle funzioni di pubblico ministero per determinati procedimenti, rispondente a ragioni di opportunità organizzative, senza alcun riferimento alla problematica delle esigenze cautelari e senza alcun intendimento di omologazione a tali fini dei reati per i quali la deroga é stabilita»;

(b) del recentissimo orientamento della giurisprudenza costituzionale, che ha ricordato come le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie ed irrazionali e se sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione[126].

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto:

«la presunzione di adeguatezza della misura della custodia carceraria prevista dall'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. non opera, sussistendo i gravi indizi di colpevolezza, in riferimento all'imputazione per il reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti quando l'associazione sia costituita al fine di commettere fatti di lieve entità».

2.2. Segue. Nuova domanda cautelare del P.M. per il medesimo fatto, in pendenza del giudizio di rinvio a seguito di annullamento della revoca della misura.

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere

«se il pubblico ministero, dopo l'annullamento con rinvio della decisione del tribunale del riesame di revoca della misura cautelare, abbia il potere di richiedere nuovamente l'emissione di misura cautelare nei confronti dello stesso soggetto, per i medesimi fatti, sulla base di nuovi elementi prospettabili anche nel giudizio di rinvio».

L'ordinanza di rimessione aveva evidenziato che la sussistenza di una preclusione alla reiterazione dell'azione cautelare nella pendenza del giudizio di riesame sul precedente provvedimento applicativo della misura cautelare (giudizio celebrato a seguito di rinvio disposto in sede di legittimità all'esito dell'annullamento della pregressa decisione del Tribunale di segno sfavorevole al pubblico ministero) fosse ricavabile dal dictum di Cass., Sez. un., 31 marzo 2004, dep. 20 aprile 2004, n. 18339, Donelli, rv. 227357 - 8, per la quale il pubblico ministero, in pendenza di un appello cautelare da lui stesso promosso contro il rigetto della richiesta di una misura restrittiva della libertà, può valutare se proporre nuovi elementi di prova nello stesso giudizio impugnatorio o se utilizzare quegli stessi elementi per una nuova richiesta al giudice cautelare e che, tuttavia, nel caso di proposizione di nuova domanda, sussiste una preclusione per il giudice destinatario a provvedere, fino a quando non intervenga la decisione sull'appello. Nondimeno, sempre secondo l'ordinanza di rimessione, i principi della sentenza Donelli andrebbero coordinati con quelli affermati dalla successiva Cass., Sez. Un., 28 giugno 2005, dep. 28 settembre 2005, P.g. in proc. Donati, rv. 231800, che aveva, invece, ritenuto la sussistenza della preclusione all'esercizio dell'azione penale, anche prima della sentenza irrevocabile in un precedente giudizio per lo stesso fatto nei confronti della medesima persona, avuto riguardo solo all'ufficio di procura che aveva già promosso la prima azione. E ciò in quanto la preclusione al nuovo esercizio del potere di azione consumato andrebbe riferita anche al potere d'iniziativa di qualunque procedura incidentale, compresa dunque quella cautelare.

La giurisprudenza successiva ai due interventi delle Sezioni Unite ha applicato i principi affermati dal Supremo Collegio in maniera non univoca.

In alcuni casi, la sentenza Donelli era stata interpretata restrittivamente, ancorando rigidamente il principio in essa affermato alla fattispecie oggetto della decisione e negandone l'applicabilità nelle altre situazioni che possono verificarsi nell'incidente cautelare (appello proposto dall'imputato, ricorso per cassazione avverso provvedimento del giudice del riesame, assenza di nuovi elementi probatori)[127].

In altri si era, per converso, interpretata l'alternatività tra gli strumenti cautelari offerti al pubblico ministero in senso "biunivoco", affermando che la preclusione può comportare altresì la soccombenza dell'impugnazione[128].

Un orientamento si era posto in contrasto con i principi sanciti dalla sentenza Donelli, sostanzialmente tesa a negare la stessa sussistenza della preclusione a nuove iniziative cautelari della pubblica accusa[129].

Altro orientamento aveva esteso la portata della preclusione in oggetto anche al rapporto tra nuova azione cautelare e giudizio di riesame[130].

Infine, alcune pronunzie, formalmente aderendo al dictum di Sezioni Unite Donelli, ma in realtà distaccandosene in parte, avevano ritenuto che la preclusione alla nuova azione cautelare fosse determinata anche dall'esercizio dell'azione penale, e che in tal caso essa assumesse valenza temporanea fino alla pronunzia dell'eventuale sentenza di condanna di primo grado, successivamente alla quale la richiesta del pubblico ministero potrebbe essere accolta[131].

La prospettazione, operata dall'ordinanza di rimessione, della litispendenza come causa di preclusione dell'azione cautelare nell'ottica dei principi affermati dalla sentenza Donati era stata proposta anche da Cass., sez. 1, 13 maggio 2010, dep. 27 maggio 2010, n. 20297, De Simone, rv. 247659.

Il tema del c.d. "giudicando cautelare" era stato scarsamente elaborato alla dottrina, che generalmente aveva preso atto degli approdi interpretativi raggiunti dalla giurisprudenza, limitandosi a respingere la configurabilità della preclusione da litispendenza ovvero a condividerne le ragioni fondanti, osservando come il suo riconoscimento, in riferimento alla fattispecie decisa dalla sentenza Donelli, non avrebbe pregiudicato le ragioni di eventuale urgenza cautelare del pubblico ministero, che avrebbe potuto ovviare alla paralisi di nuove iniziative rinunziando all'impugnazione.

Con sentenza del 16 dicembre 2010 - 1° marzo 2011, n. 7931, Testini, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 249001

In tema di misure cautelari, qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori "nuovi", può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fondamento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata, la scelta gli preclude la possibilità di coltivare l'altra iniziativa cautelare.

Le Sezioni unite, dopo avere preliminarmente riepilogato la portata dei principi dalle stesse già affermati nelle sentenze Donelli e Donati, hanno osservato che, per cogliere con esattezza i limiti di operatività del c.d. "giudicando cautelare", in relazione anche alle implicazioni realmente derivanti dalle citate sentenze Donelli e Donati, è indispensabile partire dalla considerazione che la relativa problematica è inscindibile dal tema - di cui è in qualche modo una diramazione - del c.d. "giudicato cautelare".

Quanto a quest'ultimo, si è ricordato che le condizioni e i limiti di operatività nell'incidente cautelare dei principi fissati dagli artt. 648 e 649 cod. proc. pen. sono stati via via affermati e precisati da una serie di pronunzie delle Sezioni Unite[132], alla luce della cui complessiva elaborazione il c.d. "giudicato cautelare" va inteso come «una preclusione endoprocessuale operante esclusivamente allo stato degli atti e con riguardo soltanto alle questioni esplicitamente o implicitamente dedotte». In tal senso, si è riconosciuto che le decisioni assunte a seguito delle impugnazioni cautelari, «in quanto accertamenti interni al procedimento de libertate, assumono un'efficacia preclusiva, che vincola il giudice e le parti ad assumere per definite le questioni effettivamente esaminate»[133], fermo restando che tale preclusione non può essere tout court assimilata a quella conseguente all'assunzione dell'autorità di cosa giudicata dei provvedimenti irrevocabili del giudizio principale di cognizione, e ciò in ragione della naturale instabilità di quelli adottati nell'incidente cautelare, riflesso dell'esigenza, espressamente sancita dalle disposizioni del codice di rito, del costante adeguamento dell'intervento cautelare all'eventuale evoluzione dei presupposti di fatto che legittimano la restrizione della libertà.

La preclusione del giudicato cautelare, dunque, «opera esclusivamente rebus sic stantibus, e cioè solo in caso di sostanziale immutazione della situazione presupposta, e solo in riferimento alle questioni dedotte e non anche a quelle deducibili (ma non dedotte)».

Coerentemente a tale impostazione, le Sezioni unite[134] hanno già avuto modo di chiarire anche che la preclusione del giudicato cautelare attiene propriamente alle singole questioni, potendo in particolare il procedimento cautelare essere sempre attivato dall'interessato, attraverso l'istituto della revoca ex art. 299 cod. proc. pen., inteso come strumento teso a consentire non solo la valutazione ex ante delle condizioni di applicabilità delle misure, ma altresì quella ex post della persistenza delle medesime condizioni, nell'ottica (già evidenziata) di garantire la costante corrispondenza dello status libertatis dell'imputato all'effettiva attualità dei presupposti edittali, probatori o cautelari che legittimano l'adozione delle misure. Conseguentemente il giudice adito con la richiesta di revoca, o con la successiva impugnazione di una decisione di diniego della revoca, può limitarsi, per la giurisprudenza dominante, a richiamare le decisioni conclusive di precedenti procedure de libertate, qualora rilevi la riproposizione di questioni già valutate in precedenza, ma è sempre tenuto ad accertare d'ufficio la sussistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospettate dall'interessato, indicative dell'insussistenza dei presupposti della misura[135].

La riconduzione del problema degli effetti delle pronunce sui provvedimenti cautelari alla categoria, non del "giudicato" in senso proprio (evocante una situazione di immutabilità e definitività, ritenuta, come detto, incompatibile con la natura contingente dei provvedimenti cautelari), ma della (mera) preclusione processuale (mirante ad impedire ulteriori interventi giudiziari in assenza di un mutamento del quadro procedimentale di riferimento), ha comportato anche la conseguenza che tale «effetto preclusivo viene ad essere determinato solo dall'esistenza di un provvedimento decisorio non più impugnabile», in riferimento al quale siano stati cioè esauriti i previsti mezzi di impugnazione, «e non anche nell'ipotesi della mancata attivazione degli strumenti processuali di controllo»[136].

Con riguardo agli effetti del giudicato cautelare sul potere d'iniziativa del pubblico ministero, è ormai consolidato in giurisprudenza l'orientamento per il quale l'ulteriore esercizio dell'azione cautelare per lo stesso fatto, ed immutato lo stato degli atti, è precluso dalla caducazione del precedente provvedimento cautelare per ragioni non formali e cioè da una decisione negativa sui presupposti applicativi della misura assunta all'esito dei giudizi incidentali di impugnazione[137]; quanto all'immutazione dello stato degli atti, che legittima invece la reiterazione dell'iniziativa cautelare (con le limitazioni previste dall'art. 297 cod. proc. pen. in ordine alla durata della custodia cautelare), si è precisato che la stessa può essere determinata anche da sviluppi investigativi relativi a circostanze maturate prima della deliberazione del giudice del gravame[138].

All'esito di questo ampio ed articolato excursus giurisprudenziale, le Sezioni unite hanno osservato che, «se, da un lato, appaiono senza dubbio stringenti e pienamente condivisibili le argomentazioni della sentenza Donati circa l'immanenza nell'ordinamento processualpenalistico di un generale principio di preclusione, di cui la regola dell'art. 649 cod. proc. pen. è solo una particolare pregnante espressione, e che opera quindi anche in altri ambiti procedurali, dall'altro è intuitivo che ai caratteri e meccanismi di tali ambiti esso si adegui nell'esplicazione dei propri effetti».

In particolare, deve ritenersi insita nella ratio del procedimento cautelare la natura contingente dei provvedimenti e la necessità del loro tendenziale adeguamento al mutare delle situazioni: «ciò è evidente, e di forte significato garantistico, per le tutele poste a presidio dell'indagato, attivabili e reiterabili con grande facilità e adottabili in vari casi anche d'ufficio. Ma vale, seppure in termini non sovrapponibili, anche dalla parte dell'accusa».

Ne consegue che l'«idem» il cui «bis» è precluso «non può concretarsi ed esaurirsi, in ambito cautelare, come avviene invece nel processo cognitivo, nella mera identità del fatto (...), ma ricomprende necessariamente anche l'identità degli elementi posti (e valutati) a sostegno o a confutazione di esso e della sua rilevanza cautelare».

Tale conclusione, pacificamente accolta per la determinazione dei limiti del giudicato cautelare, non può non valere simmetricamente, per comunanza di ratio, anche in tema di giudicando cautelare: «sarebbe, invero, oltremodo illogico, e contrario alle esigenze di tempestività tipiche del settore in discorso, negare, a causa di una pendenza in atto, l'immediato utilizzo dei nova utili a sostenere una determinata posizione, rinviandolo ex lege alla cessazione di quella pendenza. E' del resto prassi corrente, della cui legittimità non si dubita, la proposizione, da parte dell'indagato, di istanze di revoca o sostituzione della misura, purché basate su elementi nuovi, mentre è in corso, non importa in quale fase, un procedimento cautelare relativo alla stessa contestazione; con quanto poi ne può conseguire, in termini di interesse, sulla sorte di quest'ultimo».

La soluzione non può essere diversa quando i nova siano fatti valere dal pubblico ministero: «le esigenze di una pronta tutela della collettività, costituenti il pendant di quelle che presidiano il favor libertatis, sono parimenti incompatibili con improprie ed inutili dilazioni, quali quelle che deriverebbero da intralci di tipo procedurale, a volte anche di lunga durata, e magari non nella disponibilità dell'accusa».

Le situazioni che si possono presentare nella realtà sono evidentemente le più varie e possono condizionare le scelte concrete del p.m. e riflettersi sulle conseguenze delle medesime sulla sorte dei procedimenti; resta, peraltro, fermo che l'autonomo utilizzo dei nova non può essere paralizzato da una pendenza in atto sullo stesso fatto, mentre a sua volta ne determina la non riversibilità dei medesimi in essa, operando, nell'identità degli elementi addotti, il meccanismo preclusivo.

Questa conclusione è in armonia con la sentenza Donati, «che, muovendosi sul filo del processo cognitivo e dovendo risolvere un problema ad esso specificamente pertinente, è sì risalita a un principio generale che lo trascende ma ne ha lasciato impregiudicata la definizione di limiti e modalità operative in altri ambiti procedurali e, in particolare, in riferimento al settore cautelare», nonché, «malgrado qualche ingannevole apparenza», all'effettivo tenore della sentenza Donelli.

Si è, conclusivamente, affermato che «qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori "nuovi", preesistenti o sopravvenuti, può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio o porli a base di una nuova richiesta di misura cautelare personale, ma la scelta così operata gli preclude di coltivare l'altra iniziativa cautelare».

Le Sezioni unite hanno, peraltro, evidenziato che vi sono situazioni «in cui la facoltà di scelta del p.m. presenta in concreto una sfasatura temporale, nel senso che, al momento del maturato intento di utilizzare i nova, il procedimento impugnatorio può trovarsi in una fase (ad es. quella che va dall'esaurimento del gravame di merito alla chiusura del successivo giudizio di legittimità) che non consente tale immediato utilizzo. E' evidente che in tali casi il paralizzare la nuova iniziativa del p.m. fino alla definizione della pendenza in atto striderebbe in maniera ancora più grave con le esigenze proprie dell'intervento cautelare».

2.3. Segue. I termini di custodia cautelare nel giudizio abbreviato.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se i termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, non subordinato ad integrazione probatoria e disposto in seguito alla richiesta di giudizio immediato, decorrano dall'emissione del decreto di fissazione dell'udienza in esito alla menzionata richiesta o dal provvedimento con cui, in detta udienza, si disponga di procedere nelle forme del giudizio abbreviato».

Nella specie, si trattava di una richiesta di rito abbreviato proposta a seguito dell'emissione del decreto di giudizio immediato.

Una decisione[139] aveva ritenuto che, una volta emesso il decreto di giudizio immediato, e proposta dall'imputato una tempestiva richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad integrazione probatoria, la fissazione della relativa udienza da parte del giudice non dovesse essere intesa come atto introduttivo del rito, ma costituisse unicamente una decisione positiva sull'ammissibilità di esso (sotto il profilo formale e dell'osservanza dei termini), che non preclude il rigetto dell'istanza, qualora, all'esito dell'udienza, l'integrazione probatoria risulti non necessaria o incompatibile con l'esigenza di semplificazione propria del rito medesimo: il combinato disposto degli artt. 438, commi 2 e 5, e 458 cod. proc. pen. evidenzierebbe che la sequenza procedimentale che porta alla celebrazione del rito abbreviato è costituita da un preliminare controllo di formale ammissibilità dell'istanza, cui segue, in caso di scrutinio positivo, la fissazione dell'udienza, nella quale si valuterà se, alla stregua degli atti già acquisiti, l'integrazione probatoria sia necessaria e compatibile con l'esigenza di semplificazione che caratterizza il rito; dall'esito della verifica dipende se il processo prosegue nelle forme del giudizio abbreviato o, previa indicazione della data, di quello immediato. Siffatta disciplina, del resto, è ritenuta pienamente coerente con quella del giudizio abbreviato tipico, nel quale la richiesta e la relativa decisione di accoglimento o rigetto possono intervenire nel corso dell'udienza preliminare fino alla precisazione delle conclusioni. Ne discende che la verifica preliminare compiuta dal G.I.P. in caso di istanza di giudizio abbreviato ex art. 458 cod. proc. pen. riguarda esclusivamente i requisiti di ammissibilità "della richiesta" (sotto il profilo formale e dell'osservanza dei termini), e non già quelli del rito, sui quali - nel solo caso di istanza condizionata - deciderà con provvedimento di accoglimento o "di rigetto" ai sensi del co. 5 dell'art. 438 (cfr. la letterale espressione usata nel comma successivo); ciò in coerenza con la natura della valutazione, che si sostanzia in una delibazione degli esiti dell'indagine onde verificare se l'integrazione "risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili".

Altra decisione[140] aveva ritenuto che il decreto di fissazione dell'udienza, successivo alla richiesta di giudizio abbreviato incondizionato proposta dall'imputato dopo la notificazione del decreto di giudizio immediato, equivale all'ordinanza di disposizione del giudizio abbreviato e segna, pertanto, l'inizio della fase di computo dei termini di durata massima della custodia cautelare: nel caso di richiesta di rito abbreviato non condizionato, formulata successivamente all'emissione del decreto di giudizio immediato, il provvedimento con cui il G.i.p. fissa l'udienza camerale ai sensi dell'art. 458, comma 2, cod. proc. pen., non avrebbe carattere interlocutorio, ma sarebbe anzi emesso nel rispetto del principio del contraddittorio; il diritto di interlocuzione del P.M. sarebbe assicurato dalla notifica, a cura dell'imputato (imposta dall'art. 458, comma 1, c.p.p.) dell'istanza di rito abbreviato. Prima di fissare l'udienza camerale, il G.i.p. deve accertare l'ammissibilità della richiesta, operando "una verifica "anticipata" che non consente di attribuire al decreto una mera funzione introduttiva del procedimento camerale e che, nel caso di istanza di giudizio abbreviato non condizionata, esaurisce in sostanza il potere-dovere di controllo del GIP". Soltanto quando l'istanza di giudizio abbreviato proposta ex art. 458 cod. proc. pen. venga subordinata ad integrazioni probatorie, il decreto di fissazione dell'udienza camerale non può essere considerato atto che introduce il giudizio abbreviato, per la diversità delle condizioni legittimanti, in questo caso, l'accesso al rito premiale, sia sotto il profilo della compatibilità delle richieste di integrazione istruttoria con le esigenze di celerità del rito, che per la necessità di assicurare, in questo caso, più ampi margini di interlocuzione al P.M., anche con riferimento al suo potere di proporre prova contraria.

Nell'ordinanza di rimessione, la Prima Sezione, dopo avere rilevato che, a ben vedere, le due sentenze richiamate in precedenza non erano in contraddizione, aveva ritenuto necessario prevenire la concreta possibilità dell'insorgere di un contrasto di giurisprudenza in ordine alla individuazione del dies a quo - decreto di fissazione dell'udienza o ordinanza ammissiva del rito - del termine di fase di cui all'art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b- bis). In particolare, il Collegio rimettente non condivideva l'indirizzo giurisprudenziale che proponeva uno schema procedurale differente a seconda che la richiesta di rito abbreviato sia o meno condizionata, in base all'assunto che in caso di richiesta non condizionata il momento iniziale di decorrenza del termine di fase sia individuabile nella emissione del decreto di fissazione dell'udienza, dovendosi il giudice limitare alla sola valutazione dei requisiti formali di ammissibilità - rispetto del termine per la richiesta del rito abbreviato di quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato e legittimazione alla richiesta -, mentre in caso di richiesta condizionata ad integrazione probatoria sia da individuare nella emissione dell'ordinanza ammissiva del rito, richiedendosi in tal caso anche una valutazione in ordine alla necessità della integrazione probatoria e della sua compatibilità con le esigenze proprie del rito; il Collegio rimettente non condivideva neanche la tesi secondo la quale la fissazione dell'udienza assorbirebbe, anche in caso di richiesta probatoriamente condizionata, ogni valutazione di ammissibilità del rito, poiché, in realtà, in ogni caso e per ogni tipologia di richiesta, il momento iniziale del termine di fase andrebbe individuato nell'ordinanza ammissiva del rito pronunciata nella udienza fissata con il precedente decreto. Molti elementi militerebbero in favore di questa ricostruzione:

(a) il dato letterale, perché il Legislatore, nell'art. 303, comma 1, lett. b-bis), cod. proc. pen., ha fatto riferimento alla "ordinanza", che costituisce una forma tipica di provvedimento del giudice, ben distinta dal decreto, senza nulla disporre in merito ad una eventuale equiparazione tra il decreto di fissazione dell'udienza e l'ordinanza ammissiva del rito abbreviato;

(b) il dato sistematico, perché, secondo i principi affermati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, esisterebbe una sostanziale differenza tra l'ordinanza ammissiva del rito abbreviato ed il decreto di fissazione dell'udienza a norma dell'art. 458 cod. proc. pen., comma 2, dal momento che il giudice - necessariamente diverso a norma dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. - chiamato ad ammettere il rito con ordinanza ed a celebrare l'udienza non può essere condizionato nella valutazione della sussistenza dei requisiti necessari per il rito abbreviato dalle indicazioni contenute nel decreto;

(c) l'interesse dell'imputato alla non equiparazione tra decreto di fissazione e successiva ordinanza per non vedersi privato della possibilità di precisare in udienza, con il supporto della difesa tecnica, la sua richiesta, trasformandola, eventualmente, da condizionata ad incondizionata.

Con sentenza del 28 aprile - 28 luglio 2011, n. 30200, P.M. in proc. Ohonba, le Sezioni Unite hanno affermato il principio così massimato:

Massima n. 250348

I termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, anche nella ipotesi di rito non subordinato ad integrazione probatoria e disposto a seguito di richiesta di giudizio immediato, decorrono dall'ordinanza con cui si dispone il giudizio abbreviato e non dall'emissione del decreto di fissazione dell'udienza di cui all'art. 458, comma secondo, cod. proc. pen.

Premessa una ricostruzione dello schema procedimentale previsto per alcune ipotesi di cd. rito abbreviato atipico, ovvero del giudizio abbreviato, profondamente modificato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479 - c.d. legge Carotti , che si instaura in conversione da altri riti speciali, e, in particolare, dal giudizio immediato e dal decreto penale di condanna, le Sezioni Unite hanno ritenuto fondato l'indirizzo secondo il quale, ai fini del computo dei termini di decorrenza della custodia cautelare, non è possibile una differenziazione del regime del rito abbreviato, che è disciplinato in modo unitario, a seconda del tipo di richiesta, condizionata o meno ad integrazione probatoria e che, pertanto, il termine di fase del giudizio abbreviato debba avere inizio con la adozione della ordinanza ammissiva del rito: «milita a favore di tale soluzione in primo luogo il dato letterale dell'art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b-bis), secondo il quale i termini di fase della custodia cautelare per il rito abbreviato decorrono "dalla emissione dell'ordinanza" ammissiva del rito. Il riferimento è, quindi, ad un provvedimento tipico del giudice - art. 125 cod. proc. pen., che è ben distinto dal decreto e che deve essere motivato a pena di nullità. Argomento questo di sicuro rilievo perché (...) la norma in questione è stata introdotta dal D.L. 7 aprile 2000, n. 82, convertito dalla L. 5 giugno 2000, n. 144, testo legislativo che ha apportato modifiche all'art. 458 cod. proc. pen., comma 2 - che disciplina appunto le modalità della instaurazione del giudizio abbreviato cd. "atipico" conseguente alla richiesta del pubblico ministero di giudizio immediato - con riguardo alle conseguenze delle eventuali nuove contestazioni formulate dal pubblico ministero ex art. 441-bis cod. proc. pen. sulla scelta del rito abbreviato ed ha contestualmente modificato l'art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a). Ebbene, pur avendone l'opportunità, il legislatore non ha disposto alcunché in merito ad una eventuale equiparazione tra il decreto di fissazione dell'udienza previsto dall'art. 458 c.p.p., comma 2 e l'ordinanza ammissiva del rito abbreviato». Sarebbe stato, infatti, logico attendersi una tale equiparazione qualora i due provvedimenti - decreto ed ordinanza, previsti entrambi dall'art. 458, comma 2, cod. proc. pen. - avessero rivestito analoga valenza ai fini della decorrenza dei termini custodiali.

Anche l'interpretazione letterale e quella sistematica dell'art. 458 cod. proc. pen. militano a favore della tesi della non equiparazione ai fini in discussione del decreto di fissazione dell'udienza con l'ordinanza ammissiva del rito abbreviato; in particolare, è stato ritenuto non significativo il fatto che l'art. 458, comma 2, cod. proc. pen., nel richiamare le disposizioni applicabili "nel giudizio" abbreviato instaurato a seguito di richiesta di giudizio immediato del pubblico ministero, abbia omesso il riferimento all'art. 438, comma 4, cod. proc. pen., mentre ha richiamato espressamente l'art. 438, commi 3 e 5, e gli artt. 441, 441-bis, 442 e 443 cod. proc. pen.: «l'omesso riferimento all'art. 438 cod. proc. pen., comma 4 (...), secondo il quale "sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato", non può implicare che della ordinanza ammissiva del rito non vi sia necessità nelle ipotesi di rito abbreviato "atipico", essendo del tutto pacifico in dottrina ed in giurisprudenza che per iniziare il giudizio abbreviato vi sia bisogno di un provvedimento ammissivo del rito emesso a conclusione di apposita udienza caratterizzata dall'oralità, nel corso della quale, in contraddicono delle parti, si valuteranno i requisiti formali di ammissibilità del rito e quelli sostanziali concernenti la fondatezza della richiesta di abbreviato ed. "condizionato". È da ritenere perciò che la disposizione si limita a regolare per relationem le forme da seguire "nel giudizio" che segue al provvedimento ammissivo, dato per presupposto. Una siffatta conclusione è peraltro confortata dal fatto che lo stesso art. 458 cod. proc. pen., comma 2 nell'ultima parte stabilisce che "nel caso di cui all'art. 441-bis, comma 4, il giudice, revocata l'ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato, fissa l'udienza per il giudizio immediato". Si tratta dell'ipotesi di nuove contestazioni del pubblico ministero e della facoltà dell'imputato in siffatta situazione di chiedere la revoca dell'ordinanza con la quale era stato disposto il giudizio abbreviato. Ebbene se è possibile revocare l'ordinanza ammissiva del rito è del tutto evidente che una ordinanza che lo disponga deve necessariamente esservi, nonostante il mancato espresso richiamo del comma 4 dell'art. 438 cod. proc. pen.».

Inoltre l'art. 458, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce che "se la richiesta è ammissibile, il giudice fissa con decreto l'udienza": «ciò significa che il giudice per emettere il decreto deve valutare soltanto la esistenza dei requisiti di ammissibilità della richiesta, ovvero la tempestività della stessa, la legittimazione del richiedente, che non potrà accedere al rito abbreviato quando abbia lui stesso richiesto il giudizio immediato (458 c.p.p., comma 3), e la riferibilità della richiesta all'intero processo a carico dell'imputato; non anche la "fondatezza" della istanza, ovvero la compatibilità della integrazione probatoria richiesta con il rito prescelto (...), valutazione che è, invece, demandata al giudice dell'udienza che potrà, all'esito del contraddittorio, accogliere o rigettare la richiesta dell'imputato.

In verità, il legislatore non chiarisce cosa debba intendersi con l'espressione, riferita alla proposizione della richiesta di giudizio abbreviato, "se è ammissibile", «ma appare del tutto ragionevole individuare il contenuto del giudizio di ammissibilità nella valutazione della presenza dei requisiti formali della istanza, come dinanzi indicati, da tenere ben distinto dal giudizio sulla fondatezza della istanza, ovvero sulla compatibilita della integrazione probatoria richiesta con la specialità del rito abbreviato. Ed appare anche del tutto ragionevole ritenere che il giudizio sulla ammissibilità, caratterizzato dai limiti sopra indicati, possa essere affidato anche ad un giudice "incompatibile" che adotterà il decreto de plano, ovvero senza contraddittorio, mentre quello concernente la "fondatezza" della richiesta debba essere affidato al giudice competente a giudicare con il rito abbreviato, che pronuncerà la ordinanza ammissiva all'esito della udienza celebrata in contraddittorio tra le parti».

Si è anche osservato che il giudice chiamato a valutare la fondatezza della domanda di rito abbreviato proposta nell'ambito del giudizio immediato ed a celebrare poi il relativo procedimento speciale, non può essere, per ragioni di incompatibilità ex art. 34, comma 2, cod. proc. pen., lo stesso che abbia decretato l'accoglimento della richiesta del pubblico ministero di giudizio immediato, poiché l'espressione "giudizio", che compare nella citata disposizione, non comprende solo la forma dibattimentale del giudizio stesso, ma si estende ad ogni procedimento di definizione del merito, e dunque anche al rito abbreviato[141]: «ecco allora individuata la funzione del "decreto di fissazione dell'udienza" di cui all'art. 458, comma 2, che è di mero impulso processuale. Il giudice, investito dalla richiesta di giudizio abbreviato, che, come detto, non può celebrarlo, valutata la tempestività e l'esistenza degli altri requisiti formali della richiesta, rimetterà le parti dinanzi al giudice competente a valutare l'ammissibilità e la fondatezza del rito richiesto ed a celebrare, eventualmente, il giudizio abbreviato.

In effetti se la valutazione della esistenza dei requisiti formali della richiesta in caso di richiesta di rito abbreviato incondizionato appare semplice, di sicuro complessa è quella relativa ad una richiesta subordinata ad integrazione probatoria perché in tal caso occorre verificare se l'integrazione probatoria richiesta sia necessaria e compatibile con le esigenze di semplificazione che caratterizzano il rito abbreviato. Da tale verifica dipenderà con quali forme dovrà proseguire il giudizio, se in quelle del rito abbreviato o secondo lo schema del giudizio immediato; valutazione, quindi, molto delicata per le rilevanti conseguenze per l'imputato, che non può che essere assunta, tenuto conto dei principi generali che disciplinano il nostro sistema processuale, in udienza e in contraddittorio tra le parti, dal giudice competente per il rito. Ciò, in definitiva, significa che soltanto all'esito del contraddittorio sul punto può essere emessa l'ordinanza di accoglimento - o di rigetto - della richiesta di rito abbreviato e soltanto da questo momento può considerarsi iniziato il relativo giudizio; l'inizio di tale giudizio non potendo, invero, essere individuato nel momento della adozione del decreto che fissi l'udienza anche perché emesso, come già detto, de plano, e, quindi, senza facoltà di interlocuzione per le parti interessate, da un giudice incompatibile a celebrare il rito abbreviato».

Si è conclusivamente ritenuto che, nella ipotesi di giudizio abbreviato che si innesti su una richiesta di giudizio immediato (o di emissione di decreto penale di condanna), vi sarà prima un vaglio, operato dal giudice che ha accolto la richiesta di giudizio immediato del pubblico ministero, di ammissibilità concernente i requisiti formali della richiesta, e, in caso di ritenuta ammissibilità, alla udienza fissata con decreto de plano si procederà, da parte di un diverso giudice, in contraddittorio, al vaglio della fondatezza della richiesta con adozione della ordinanza ammissiva del rito abbreviato.

Con specifico riguardo ai termini di custodia cautelare applicabili nella specie, dopo aver ricordato che le rilevanti modifiche apportate al giudizio abbreviato con la previsione di possibili integrazioni probatorie, hanno reso altresì possibile una dilatazione, anche notevole, dei tempi necessari per lo svolgimento del giudizio, che ha reso necessario un intervento normativo al fine di adeguare i termini di custodia cautelare previsti dall'art. 303 cod. proc. pen. alla realtà del "nuovo" giudizio abbreviato, e ricostruito l'evoluzione della normativa de qua, precisando che il momento dal quale fare decorrere i termini di fase è stato individuato dal legislatore nel provvedimento ammissivo del giudizio abbreviato, si è ritenuto che «il legislatore ha senza dubbio individuato nella "ordinanza che dispone il giudizio abbreviato" il dies a quo per la durata della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, fase che si conclude con la emissione della sentenza», evidenziando che, in presenza di un decreto che dispone il giudizio, ordinario o immediato che sia, si apre la fase del giudizio e, quindi, il decreto costituisce termine ad quem per la fase delle indagini preliminari e termine a quo per la fase del giudizio: «nel caso in cui al termine della udienza preliminare venga emessa l'ordinanza con cui il giudice disponga il rito abbreviato, costituirà tale provvedimento il momento di discrimine tra la fase delle indagini preliminari e quella del giudizio, come è lecito desumere dal combinato disposto di cui all'art. 303 cod. proc. pen., lett. a) e b-bis). Nelle ipotesi di rito abbreviato che si innesti dopo che sia già stato adottato un decreto che dispone il giudizio, come è nel caso di specie, non vi è dubbio che si apra la fase del giudizio e che inizino a decorrere i termini di custodia cautelare previsti per tale fase. Se successivamente al decreto che dispone il giudizio venga emessa ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, i termini di custodia relativi alla fase del giudizio si commisurano a quelli propri di questo rito; si tratta di termini che, come si è già rilevato, sono più brevi di quelli previsti per il giudizio dibattimentale, con la precisazione che, essendo in precedenza decorsi quelli della normale fase di giudizio (a seguito del decreto che lo dispone), da tale momento non può decorrere un tempo maggiore rispetto a quello che la legge assegna a tale fase (termini indicati, nelle varie articolazioni, dall'art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b)» Anche l'esame delle norme dettate in materia di durata dei termini della custodia cautelare conferma che l'inizio della fase del giudizio abbreviato non può che farsi decorrere, in ogni caso, dalla ordinanza che ammetta il rito abbreviato, provvedimento, pertanto, necessario sia per la introduzione del rito abbreviato ordinario che di quello "atipico".

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «i termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, anche nella ipotesi di rito non subordinato ad integrazione probatoria e disposto a seguito di richiesta di giudizio immediato, decorrono dall'ordinanza con cui è disposto il giudizio abbreviato».

2.4. Segue. La sospensione dei termini di custodia cautelare in pendenza del termine per il deposito dei motivi.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se il provvedimento di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare per il tempo di redazione della sentenza possa essere assunto d'ufficio senza che le parti abbiano la possibilità di interloquire».

L'orientamento prevalente[142] riteneva che l'ordinanza di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, in pendenza dei termini per la redazione della motivazione della sentenza, potesse essere disposta de plano e, pertanto, potesse essere adottata in assenza di contraddittorio, trattandosi di un caso di sospensione obbligatoria - previsto dall'art. 304, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. - la cui pronunzia ha natura dichiarativa e, in quanto tale, non esige altra motivazione che il richiamo al combinato disposto degli artt. 304, comma 1, lett. c), e 544, comma 3, cod. proc. pen.: la determinazione dei tempi necessari per la redazione della sentenza è, infatti, rimessa all'esclusiva valutazione del giudice, e le parti non possono in alcun modo interloquire, sicché la decisione non è sindacabile né modificabile, con la conseguenza di dover ritenere sostanzialmente inutile anche il contraddittorio differito (posto che l'ordinanza di sospensione è impugnabile mediante appello ex art. 310 cod. proc. pen.); si evidenziava, inoltre, che non vi è alcuna analogia con il provvedimento previsto dall'art. 304, commi 2 e 3, cod. proc. pen., concernente la complessità del dibattimento ed avente natura discrezionale (adottabile solo su richiesta del Pubblico Ministero e previa interlocuzione delle parti), e che nessuna disposizione normativa prevede espressamente le forme e le modalità della camera di consiglio per l'adozione dell'ordinanza in questione.

Altro orientamento, senz'altro minoritario, riteneva, al contrario, che il provvedimento di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare in pendenza dei termini di deposito della sentenza fissati dal giudice a norma dell'art. 544 c.p.p., comma 3, quantunque imposto dalla legge, non potesse essere adottato ex officio, ma dovesse essere disposto, a pena di nullità a regime intermedio dell'ordinanza di sospensione, nel contraddittorio delle parti, al fine di consentire loro la verifica della particolare complessità della motivazione, che è presupposto di natura discrezionale della sospensione stessa; secondo questo indirizzo, il principio del contraddittorio, già affermato dalle Sezioni Unite[143] per l'ipotesi di particolare complessità del dibattimento (art. 304, comma 2, cod. proc. pen.), doveva essere applicato anche nell'ipotesi di sospensione per particolare complessità della motivazione, posto che in entrambi i casi la sospensione presuppone una valutazione - di complessità della istruttoria e discussione dibattimentale o di complessità della motivazione - che non può che essere discrezionale, e come tale richiede il contributo dialettico delle parti, o almeno la possibilità del loro contributo[144].

Con sentenza del 31 marzo - 13 luglio 2011, n. 27361, Ez Zyane, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 249969

È legittimo il provvedimento di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, in pendenza dei termini per la redazione della sentenza, ex art. 304, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., assunto d'ufficio, senza il previo contraddittorio delle parti.

Le Sezioni Unite, richiamando consolidato orientamenti giurisprudenziali, hanno premesso, quanto alla possibilità di differire il termine per la redazione della sentenza ed agli effetti che conseguono dal deposito differito della motivazione:

- che l'art. 544, comma 3, cod. proc. pen. affida l'esercizio del potere in esame e il dimensionamento temporale della dilazione alla discrezionalità del giudice, in modo insindacabile ("se ritiene di non poter depositare")[145];

- che ammettere un sindacato circa il differimento ex art. 544, comma 3, del termine di deposito della sentenza comporterebbe una inammissibile invasione di campo nello stesso ius dicere;

- che, di conseguenza, il differimento del termine di deposito della sentenza è subordinato alla mera indicazione in dispositivo dell'intendimento di avvalersi del termine lungo in ragione della complessità della stesura della motivazione, senza ulteriori specificazioni circa le ragioni o circostanze che determinano tale complessità;

- che solo dall'espressa indicazione del differimento del termine di deposito (per la complessità della stesura della motivazione) e dall'inserimento di tale indicazione in dispositivo conseguono determinati effetti ed, in particolare, l'operatività dell'art. 585, comma 1, lett. c), e comma 2, lett. c), cod. proc. pen., nonché dell'art. 548, commi 1 e 2, cod. proc. pen.;

- che tali effetti sono automatici e rigidi, sicché "qualora il giudice ritardi il deposito della motivazione della sentenza, senza avere preventivamente indicato un termine nel dispositivo letto in udienza, ai sensi dell'art. 544 c.p.p., comma 3, il termine di impugnazione è quello di trenta giorni previsto dall'art. 585 c.p.p., comma 1, lett. b), decorrente dalla data di notificazione o di comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza"[146], mentre, ove il giudice abbia ritenuto particolarmente complessa la stesura della motivazione ed abbia, esplicitando siffatto giudizio di complessità, formalmente indicato in dispositivo un termine di stesura superiore a quello ordinario di 15 giorni, consegue (ma solo in siffatto caso e senza possibilità di surroga in presenza di una qualsivoglia dilazione di fatto) per l'impugnante il termine più favorevole di 45 giorni, atteso che "detto termine, con decorrenza prefissata, trova il presupposto nel provvedimento con il quale il giudice contestualmente alla lettura del dispositivo manifesta la volontà di avvalersi del potere discrezionale di prolungare il termine per il deposito della sentenza".

In conclusione, «ai sensi della disciplina normativa in questione, il differimento lungo del deposito della sentenza è demandato all'esclusiva discrezionalità del giudice; la complessità della stesura della motivazione assume rilievo solo a seguito di esplicita affermazione in tal senso del giudice; il provvedimento con il quale si precisa che il giudice si avvarrà del termine lungo - provvedimento redatto e sottoscritto nel segreto della camera di consiglio - deve essere inserito in dispositivo ed assume efficacia senza che il giudice abbia ad indicare le circostanze che determinano la complessità all'origine del differimento; e, infine, in virtù di tale provvedimento si determinano effetti automatici, segnatamente con riguardo ai termini per proporre impugnazione».

Ciò premesso, tenuto conto del tenore testuale dell'art. 304, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.[147], che risulta significativamente difforme dal tenore del comma 2 del medesimo articolo[148], deve necessariamente pervenirsi alla conclusione che il provvedimento di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare per il tempo di redazione della sentenza può essere assunto di ufficio, senza previo contraddittorio con le parti: «ed infatti, da un lato, ben difficilmente potrebbe raccordarsi con un procedimento di sospensione in contraddittorio la scelta assolutamente discrezionale del termine differito per la stesura della motivazione ritenuta complessa, non potendo - in via generale - il provvedimento del giudice che si richiama alla complessità della motivazione determinare di per sè effetti sul piano dei termini di impugnazione della sentenza e non avere eventualmente effetto, a seguito della interlocuzione delle parti, ai fini della sospensione dei termini di durata della custodia cautelare. Dall'altro lato, poi, non può non valorizzarsi la differenziazione, anche lessicale, ravvisabile tra il disposto dell'art. 304 c.p.p., comma 1 lett. c), ed il disposto di cui ai commi 2 e 3 del medesimo articolo, pacificamente comportante l'adozione del provvedimento sospensivo non ex officio e previa interlocuzione delle parti; la locuzione "sono sospesi" si contrappone alla locuzione "possono altresì essere sospesi" e la contrapposizione appare non certo casuale ma di univoco significato, ove si consideri che il legislatore ha utilizzato le due locuzioni in questione nel medesimo articolo e per la regolarizzazione di casi peculiari, fra loro difformi, ivi contemplati (sicché è evidente l'intendimento perseguito di differenziare, appunto, fra loro la regolamentazione delle ipotesi previste nei primi due commi dell'articolo in questione). Di qui la correttezza dell'interpretazione che ravvisa nelle ipotesi previste dal comma 1 dell'art. 304 c.p.p. casi di "sospensione obbligatoria", sia pure operante dopo apposita ordinanza sospensiva appellabile ai sensi dell'art. 310 c.p.p., e nelle ipotesi previste dal comma 2 del medesimo articolo casi di "sospensione facoltativa" subordinata a richiesta del p.m. ed a valutazione discrezionale del giudice previa interlocuzione delle parti».

Questa conclusione risulta, d'altro canto, in armonia con le considerazioni già svolte in tema dalle Sezioni Unite nella sentenza Panella[149], la cui ratio decidendi è che la sospensione dei termini di custodia cautelare per la particolare complessità del dibattimento implica una valutazione di tipo discrezionale, ed è subordinata ad istanza di parte del p.m., in ordine alla quale, prima di decidere, il giudice deve sentire la difesa; a detta ratio non sono, pertanto, riconducibili le ipotesi di sospensione previste nell'art. 304, comma 1, c.p.p., le quali - come afferma il citato precedente - "sono obiettivamente rilevabili dal giudice senza margini di discrezionalità", con la conseguenza che "egli procede di sua iniziativa ed è tenuto, una volta accertati i dati che la legittimano, a pronunciare la sospensione".

La soluzione prescelta trova, inoltre, conferma nella diverse locuzioni adoperate dal legislatore nei commi 1 e 2 dell'art. 304, cui corrisponde la diversità di presupposti e valutazioni richieste nelle plurime ipotesi contemplate dalla norma: «ed infatti la statuizione di sospensione pronunciata ai sensi dell'art. 304 c.p.p., comma 1, ha natura sostanzialmente ricognitiva e dichiarativa in quanto subordinata al mero verificarsi di una delle condizioni ivi previste, sicché la valutazione richiesta per l'adottabilità del provvedimento rimane limitata all'accertamento della sussistenza dei presupposti richiesti (nel caso sub lett. e: la pendenza dei termini previsti dall'art. 544 c.p.p., commi 2 e 3,) e, quindi, dell'elemento fattuale, nella specie costituito dall'adozione del termine lungo per le ragioni normativamente previste, senza alcun margine per ulteriori valutazioni discrezionali, trattandosi di situazioni del tutto oggettive che, una volta verificatesi in concreto, comportano la sospensione dei termini (sia pure previa declaratoria al proposito da parte del giudice)». Diversamente, nei casi di cui al comma 2 dell'art. 304, «si impone, per l'applicazione della sospensione, una valutazione discrezionale assai più ampia avente ad oggetto la condivisibilità o meno delle ragioni prospettate dal p.m. circa la complessità del dibattimento, ossia di una fase processuale alla quale partecipano attivamente la parte pubblica e le parti private e non assegnata in via esclusiva - come la pronuncia di decisione e la redazione della motivazione a sostegno della stessa- al solo giudice; da ciò consegue la necessità di un preventivo contraddittorio tra le parti».

La delineata disciplina di sospensione dei termini di custodia cautelare durante i termini indicati per la redazione della sentenza non appare in contrasto con il dettato costituzionale e la Convenzione EDU: «innanzi tutto, la previsione di un contraddittorio differito (essendo previsto anche in relazione alle ipotesi di cui all'art. 304 c.p.p., comma 1 - alla pari di quanto disposto per le ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo - che l'ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare sia appellabile ai sensi dell'art. 310 c.p.p.), risponde al principio per il quale in materia di provvedimenti de libertate è sempre prevista l'interlocuzione delle parti, pur rimanendo nell'ambito della discrezionalità legislativa tempi e modi di attuazione di siffatta interlocuzione. Inoltre, la disciplina di cui all'art. 304 c.p.p., riservando nei commi 1 e 2 procedure diverse quali più sopra delineate, non pare collidere con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., comma 1, in quanto le ipotesi contemplate in detti commi richiedono presupposti e condizioni differenti che, quindi, giustificano la diversa scelta in punto di contraddittorio (differito e preventivo)».

Nè la disciplina in questione appare in contrasto con il principio di inviolabilità del diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost. e con i principi di cui all'art. 111 Cost., essendo garantito, con la possibilità dell'appello, l'esercizio di difesa ed essendo nella specie rispettata la doverosa condizione di parità tra le parti. Ed a tale proposito, è stata ritenuta inconsistente la critica inerente alla presunta inutilità dell'appello (e, quindi, del contraddittorio differito) avverso l'ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare prevista dalla norma in disamina, in ragione della inesistenza in essa di reali margini di discrezionalità: «ed invero, se l'appello non può mai assumere a legittima critica il sindacato sulla antecedente scelta di differimento del termine di redazione della sentenza per la ritenuta complessità della stesura della motivazione della sentenza, non di meno deve essere certamente ammessa la censura dell'uso contra legem (fissazione di termine eccedente il massima previsto dall'art. 544 c.p.p., comma 3) o distorto della scelta stessa (differimento collegato a ragioni organizzative dell'ufficio o personali del giudice): deve, infatti, ritenersi ammessa la sindacabilità della scelta del termine differito - ai fini della sospensione della custodia cautelare - le volte in cui sia la stessa motivazione dell'assegnazione del maggior termine a confessare l'uso distorto della facoltà di differimento del termine di deposito della sentenza perché correlata a ragioni estranee alla complessità del momento motivazionale».

Si è anche precisato che, in caso di deposito anticipato (rispetto al prefissato termine differito) della sentenza, «la sospensione dei termini di custodia cautelare sarà temporalmente limitata al periodo effettivamente utilizzato per la redazione della motivazione: la sottolineata necessità di correlazione della sospensione dei termini di custodia cautelare al corretto uso della facoltà di differimento del termine di deposito della sentenza e l'esigenza di contenere quanto più possibile l'incidenza di siffatta facoltà sulla limitazione della libertà personale impongono, infatti, di ricondurre temporalmente la detta sospensione al periodo di tempo effettivamente utilizzato e rivelatosi idoneo per la stesura della motivazione».

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «il provvedimento di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare per il tempo di redazione della sentenza - ordinano o differito per le ragioni normativamente previste - può essere assunto di ufficio senza che le parti interloquiscano in proposito».

2.5. Segue. L'estinzione delle misure coercitive dopo il giudicato.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva non sospesa o non altrimenti estinta comporti la caducazione automatica della misura coercitiva non restrittiva (nella specie l'obbligo di dimora) applicata al condannato e se, ove sia necessario un provvedimento giudiziale che ne dichiari la cessazione di efficacia, la competenza a provvedere spetti al giudice dell'esecuzione o al magistrato di sorveglianza».

L'orientamento largamente maggioritario[150] escludeva che il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva non dichiarata estinta né condizionalmente sospesa determinasse la caducazione automatica della misura coercitiva non detentiva applicata al condannato, osservando che:

(a) l'art. 300, comma 3, cod. proc. pen., stabilendo che le misure cautelari perdono immediatamente efficacia solo quando la pena irrogata con la sentenza di condanna è dichiarata estinta ovvero condizionalmente sospesa (cioè in casi nei quali la stessa sentenza di condanna esclude in radice ogni prospettiva di applicazione della pena), evidenzierebbe che, negli altri casi, le misure cautelari sono destinate a conservare la loro efficacia nella fase che precede l'esecuzione; dunque, in presenza di una sentenza di condanna diversa da quelle espressamente indicate dall'art. 300, comma 3, la misura cautelare rimarrebbe funzionalmente predisposta alla formale instaurazione della fase esecutiva ad iniziativa del pubblico ministero;

(b) l'art. 656 cod. proc. pen., ai commi 5 e 9, lett. b), ricollega la concedibilità o meno della sospensione delle pene brevi al fatto che sia in corso di applicazione una misura cautelare, e, al comma 10, prevede che fino alla decisione del giudice di sorveglianza, il condannato permanga nello stato detentivo nel quale si trova; inoltre, l'art. 657, comma 1, cod. proc. pen., include la custodia cautelare ancora in corso nel computo della pena detentiva da eseguire;

(c) sussiste l'esigenza di evitare il paradosso della cessazione automatica ed immediata delle misure cautelari nello stesso momento nel quale viene pronunciata una sentenza di condanna suscettibile di effettiva esecuzione;

(d) la ragione che giustificherebbe il perdurare della restrizione alla libertà personale in esame risiederebbe nella necessità di evitare che il fisiologico iato temporale intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza e l'attivazione del Pubblico ministero in funzione di organo dell'esecuzione possa produrre soluzioni di continuità in relazione a quelle esigenze di controllo del condannato che la vigenza della misura coercitiva fa presumere ancora esistenti all'atto della condanna.

Altro orientamento[151] riteneva che il passaggio in giudicato della sentenza condanna determinasse in ogni caso, come effetto automatico, l'estinzione delle misure coercitive di natura non custodiale, adducendo a sostegno del proprio assunto i seguenti argomenti di ordine logico-sistematico:

(a) le esigenze cautelari vengono automaticamente meno nel momento in cui, esauritosi il giudizio di cognizione, si deve passare all'esecuzione del giudicato;

(b) la funzione strumentale rispetto al processo di cognizione, svolta dalla custodia cautelare, non può più dispiegarsi dopo il passaggio in giudicato della sentenza, che determina l'inizio dell'esecuzione penale, a prescindere da qualsiasi atto formale;

(c) nella disciplina dei termini massimi di durata delle misure cautelari personali non è contenuto alcun riferimento alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza;

(d) nessun riferimento a tale fase è contenuto neanche nell'art. 91 disp. att. c.p.p., per il quale la competenza del giudice di merito a decidere sulle misure cautelari si estende sino alla fase in cui pende il giudizio in Cassazione;

(e) la legge ha dettato una puntuale disciplina riferibile alla protrazione di una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere solo in relazione gli arresti domiciliari, ai sensi dell'art. 656, comma 10, cod. proc. pen.;

(f) il legislatore ha predisposto una disciplina relativa alla fungibilità delle pene esclusivamente con riguardo alla custodia cautelare - ex art. 657 cod. proc. pen. - ed alle pene accessorie - ex art. 662 cod. proc. pen. - escludendo da un tale regime le misure coercitive diverse da quelle custodiali;

(g) ammettere, in assenza di esplicita previsione, che una misura cautelare non custodiale si protragga oltre il giudizio di cognizione senza alcun collegamento con le esigenze di questo e senza che le limitazioni della libertà possano essere scomputate dalla pena da espiare, soltanto a causa della minore solerzia del pubblico ministero nel porre in esecuzione la sentenza, comporterebbe non soltanto la negazione della funzione servente delle misure cautelari, ma la sottrazione delle stesse dall'alveo dei principi di necessità, di proporzione e di legalità.

L'ordinanza di rimessione[152] rilevava anzitutto che la competenza del Tribunale di sorveglianza parrebbe da escludere, difettando nella situazioneconsiderata l'attualità di un procedimento di sorveglianza: d'altro canto, l'art. 670 cod. proc. pen. demanda al giudice dell'esecuzione ogni questione sul titolo esecutivo, e la particolare ipotesi individuata dall'art. 656, comma 10, cod. proc. pen. si riferisce alla sola situazione della permanenza della misura cautelare degli arresti domiciliari. Tuttavia la risoluzione del conflitto di competenza sottostante all'ordinanza di rimessione presuppone che si escluda che una volta formatosi il giudicato di condanna, la misura coercitiva in corso di applicazione possa ritenersi automaticamente caducata. L'automatica caducazione della misura era stata esclusa dal prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, cui l'ordinanza di rimessione ha peraltro ritenuto di non aderire, osservando che nessuna norma sembra prevedere che quando diviene inoppugnabile la sentenza di condanna a pena detentiva non sospesa o non altrimenti estinta, pronunziata nei confronti di persona sottoposta a misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere o nel domicilio, la restrizione della libertà debba permanere in forza della predetta sentenza di condanna. Il legislatore ha dettato una puntuale disciplina riferibile al protrarsi dell'applicazione di una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere solo in relazione gli arresti domiciliari (art. 656, comma 10, cod. proc. pen.), preoccupandosi inoltre di predisporre una disciplina relativa alla fungibilità delle pene esclusivamente con riguardo alla custodia cautelare (art. 657 cod. proc. pen.), ed alle pene accessorie (art. 662 cod. proc. pen.), escludendo da tale regime le misure coercitive diverse da quelle custodiali[153]: ammettere, in assenza di esplicita previsione, che una misura cautelare non custodiale si protragga oltre il giudizio di cognizione senza alcun collegamento con le esigenze di questo, e senza che le limitazioni della libertà in tal modo patite possano in alcun modo essere scomputate dalla pena da espiare, soltanto a causa della minore solerzia del P.M. nel porre in esecuzione la sentenza, comporterebbe, dunque, non soltanto la totale negazione della funzione servente delle misure cautelari, ma la sottrazione delle stesse dall'alveo dei principi di necessità, di proporzione e, in ultima analisi, di legalità. Ad avviso del collegio rimettente, pertanto, andrebbe di conseguenza privilegiata un'interpretazione sistematica, che riconosca il venir meno della misura coercitiva applicata per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna: tuttavia, considerato che tale soluzione si porrebbe in contrasto con l'orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità, si è ritenuto opportuno rimettere alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto.

Nell'ambito della dottrina emergevano analoghe divisioni.

Per quanto riguarda la competenza a decidere in materia de libertate dopo il passaggio in giudicato della sentenza, la giurisprudenza[154] la attribuiva al magistrato di sorveglianza soltanto nei casi in cui il condannato si trovava agli arresti domiciliari ed il pubblico ministero aveva attivato la procedura esecutiva, disponendo la sospensione dell'ordine di carcerazione: in tale situazione, infatti, la competenza del magistrato di sorveglianza, chiamato a provvedere sulla eventuale applicazione delle misure alternative, è determinata dalle disposizioni generali (art. 279 cod. proc. pen.), secondo cui in materia cautelare la competenza è del giudice che procede all'atto della domanda.

Privi di decisivo rilievo apparivano gli scarni contributi della dottrina.

Con ordinanza del 31 marzo - 11 maggio 2011, n. 18353, Confl. comp. in proc. Maida, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando i principi così massimati:

Massime nn. 249480 - 1

Il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale (nella specie, obbligo di dimora) già applicata al condannato; in tal caso, l'estinzione della misura opera di diritto, senza che sia necessario alcun provvedimento che la dichiari.

Nel periodo intercorrente fra il passaggio in giudicato della sentenza e l'inizio della fase di esecuzione della pena, la decisione sulle questioni relative alle misure coercitive non custodiali è di competenza del giudice dell'esecuzione.

Nell'aderire alla tesi dell'incompatibilità delle misure coercitive non custodiali con la fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, le Sezioni Unite hanno preliminarmente valorizzato il principio di tassatività di cui all'art. 13, comma secondo, della Costituzione (per il quale non è ammessa "restrizione della libertà personale, se non [...] nei soli casi e modi previsti dalla legge"): «l'assunto che una misura cautelare coercitiva applicata a un soggetto rimanga in vita, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti, deve dunque basarsi sull'esistenza di una positiva previsione di legge in tal senso», al contrario inesistente. Ed anzi, «il sistema processuale offre, nel suo complesso, indicazioni contrarie alla tesi della sopravvivenza delle misure non custodiali in atto nel momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna».

Non appaiono, infatti, utilmente invocabili i dati normativi valorizzati dal contrario orientamento, i quali, in realtà, forniscono contrario ulteriore e decisivo conforto alla tesi dell'incompatibilità: «la prima, agevole, considerazione da fare è, invero, che il cit. art. 300 non è affatto rivolto a regolare in via generale il rapporto fra sentenze irrevocabili e misure cautelari in corso. Esso infatti si preoccupa, all'evidenza, soltanto di indicare determinati epiloghi decisori comportanti per sé, e del tutto indipendentemente dal connotato della irrevocabilità, l'immediata perdita di efficacia delle misure cautelari in atto. Al contrario, del rapporto fra sentenze irrevocabili di condanna e misure cautelari in corso si occupa senza dubbio l'art. 656 cod. proc. pen., e lo fa con riferimento alle sole misure custodiali, stabilendo, al comma 9, la non concedibilità della sospensione dell'esecuzione in favore del condannato che si trovi in stato di custodia cautelare in carcere (che quindi non viene interrotta) e, al comma 10, la concedibilità della stessa sospensione in favore del condannato che si trovi agli arresti domiciliari, dei quali dispone esplicitamente la persistenza fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, con contestuale riconoscimento del tempo corrispondente "come pena espiata a tutti gli effetti"».

Le misure custodiali presentano due caratteristiche strettamente correlate, da un punto di vista funzionale, all'esecuzione della pena, e cioè, da un lato, la concreta idoneità a scongiurare il pericolo di fuga, e, dall'altro, la computabilità del periodo di applicazione (secondo la regola fissata in via generale dall'art. 657 cod. proc. pen.) ai fini della determinazione della pena detentiva da espiare: computabilità che, inoltre, il cit. comma 10 dell'art. 656 espressamente riconosce, in relazione al tempo corrispondente alla permanenza degli arresti domiciliari, "a tutti gli effetti" e, quindi, anche in rapporto alle eventuali pene alternative alla detenzione: «è del tutto razionale, quindi, collegare causalmente le previsioni di "persistenza" operate dall'art. 656 cod. proc. pen. alle dette caratteristiche. Considerati tale logica esplicazione della ratio e il tenore testuale, non certo ostativo, della disciplina de qua, la sua interpretazione in chiave di deliberata scelta limitatrice, una volta sgombrato il campo dalla riferita erronea lettura dell'art. 300 cod. proc. pen., s'impone in maniera piana».

Si è quindi affermato, in accordo con i rilievi contenuti nell'ordinanza di rimessione, «che la disciplina in parola, lungi dal supportare o presupporre una presunta (e inesistente) regola di generale sopravvivenza delle misure cautelari dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna da eseguire, costituisce in realtà, alla stregua della sua illustrata ratio, puntuale conferma del fatto che per le misure non custodiali, sfornite delle ricordate caratteristiche di efficacia e fungibilità che tale ratio sorreggono (...), vale l'opposta regola, discendente dal sistema e dal principio costituzionale di tassatività, e rispondente in definitiva all'elementare necessità di preservare la libertà personale da compressioni ultronee e sproporzionate, del loro immediato venir meno al verificarsi del citato passaggio in giudicato».

Seguendo tale linea ricostruttiva, restano evidentemente superati anche i rilievi, su cui parimenti fa perno l'orientamento qui respinto, inerenti alla esigenza di evitare la cessazione delle misure nel momento in cui la sentenza di condanna diviene irrevocabile, posto che, come emerge dalle considerazioni che precedono, è proprio della suddetta esigenza che ha inteso, in sostanza, farsi carico il legislatore nelle citate previsioni dell'art. 656 cod. proc. pen., ritenendola meritevole di positiva tutela con esclusivo riferimento alle misure custodiali, secondo una scelta strettamente correlata alle loro connotazioni di efficacia e fungibilità e che, come tale, non può essere estesa alle altre misure.

In virtù di queste considerazioni, è stato affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata al condannato».

Quanto alle concrete modalità con le quali si determina tale fenomeno, si è osservato che, alla stregua dei principi sopra illustrati, la cessazione della misura, essendo correlata all'oggettivo venir meno dei relativi presupposti giustificativi, non può che operare di diritto, con la conseguenza, in mancanza di previsioni specifiche, che non occorre alcun provvedimento che la dichiari e l'interessato è immediatamente esonerato dall'osservanza degli obblighi già su di lui gravanti; è stato, pertanto, formulato, al riguardo, il seguente principio di diritto: «la cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari».

Le Sezioni Unite hanno anche precisato che, «al fine di evitare equivoci e incertezze, in particolare nel personale tenuto ai controlli, sarà opportuno che allo stesso venga data tempestiva comunicazione della cessazione, e a ciò - al di là di possibili specifici accorgimenti organizzativi adottabili all'interno degli uffici giudicanti, in analogia al regime previsto, per l'estinzione delle misure coercitive intervenuta in corso di procedimento, dagli artt. 306 cod. proc. pen., 97 e 98 disp. att. cod. proc. pen. - potrà normalmente provvedere il pubblico ministero (secondo un principio di intervento che trova legittimazione sistematica nelle previsioni di cui al comma 4 dell'art. 667 e al comma 3 dell'art. 672 cod. proc. pen.) nel momento in cui viene notiziato dalla competente Cancelleria, a sensi dell'art. 28 reg. esec. cod. proc. pen., e negli stretti termini ivi previsti, del passaggio in giudicato della sentenza di condanna da eseguire».

Si è, infine, ritenuto che, «ove insorgano questioni in ordine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente fra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio della fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderle spetta al giudice dell'esecuzione».

2.6. Segue. Le impugnazioni in materia de libertate. Forme particolari di notificazione.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se la notificazione all'imputato (o all'indagato) dell'avviso dell'udienza di riesame possa essere eseguita, in caso di consegna al difensore per impossibilità di notificazione al domicilio dichiarato o eletto, per mezzo del telefax».

Un orientamento negava legittimità all'uso del telefax per le notificazioni dirette all'imputato, o indagato, ed effettuate con consegna di copia al difensore domiciliatario[155].

Altro orientamento riconosceva, al contrario, la legittimità all'uso del telefax per le notifiche in favore dell'imputato, o indagato, ma che hanno come destinatario il difensore, perché, ad es., è divenuta impossibile la notificazione al domicilio dichiarato o eletto[156].

La dottrina era rimasta silente in ordine alla questione controversa.

L'ordinanza di rimessione individuava il contrasto circa la legittimità dell'uso del telefax per la notificazione al difensore di atti destinati all'imputato, o indagato, con specifico riguardo alle procedure di riesame, ritenendo, in particolare, che non potesse diversificarsi la soluzione in punto di legittimità del ricorso al telefax per le notificazioni a seconda che venga in rilievo la figura del difensore domiciliatario o del difensore nell'esercizio delle sue funzioni sostitutive.

Con sentenza del 28 aprile - 19 luglio 2011, n. 28451, Pedicone, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 250121

La notificazione di un atto all'imputato o ad altra parte privata, in ogni caso in cui possa o debba effettuarsi mediante consegna al difensore, può essere eseguita con telefax o altri mezzi idonei a norma dell'art. 148, comma secondo-bis, cod. proc. pen.

Per un corretto ed esaustivo inquadramento normativo della questione, le Sezioni Unite sono partite dall'interpretazione dell'art. 148, comma 2-bis, cod. proc. pen., individuando il rapporto di tale norma con quella di cui all'art. 150 c.p.p.: «la natura innovativa di quanto previsto dall'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, emerge evidente dal raffronto tra le due norme, che induce altresì ad escludere che si tratti, come affermato in varie sedi, di una mera duplicazione di disposizioni in materia di notificazioni già previste dal codice di rito fin dall'origine. Una prima differenza tra le due norme, di particolare rilevanza, è data dalla previsione contenuta nell'art. 150 c.p.p., comma 1, che le forme diverse di notificazione siano consigliate da "circostanze particolari". Nulla dispone invece in proposito l'art. 148, comma 2 bis, codice di rito. Ai sensi dell'art. 150, inoltre, l'impiego, per la notificazione, "di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell'atto" deve essere stabilita dal giudice con decreto motivato, che indichi (comma 2) "le modalità necessarie per portare l'atto a conoscenza del destinatario". L'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, rimette, invece, alla discrezionalità dell'autorità giudiziaria, comprendendo quindi anche il pubblico ministero, il disporre che le notificazioni o (anche) gli avvisi "siano eseguiti con mezzi tecnici idonei", senza che sia necessario emettere un provvedimento che lo giustifichi. Le modalità diverse di notificazione o comunicazione degli avvisi stabilite dall'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, sono utilizzabili esclusivamente per gli atti che devono essere ricevuti dai difensori, mentre le notificazioni previste dall'art. 150 c.p.p., possono essere disposte nei confronti di qualunque persona diversa dall'imputato».

Talora la giurisprudenza ha evidenziato, in base al raffronto tra le due norme, il carattere di specialità della previsione contenuta nell'art. 148, comma 2-bis, rispetto a quella dell'art. 150[157]: «a ben vedere, però, la specialità della previsione contenuta nel comma 2 bis deve essere piuttosto riferita alla disciplina generale in materia di organi e forme delle notificazioni dettata dall'art. 148 c.p.p., mentre, a sua volta, l'art. 150 c.p.p., costituisce una norma speciale rispetto alla disciplina delle forme e mezzi ordinari di notificazione di cui allo stesso art. 148. Pertanto, la prima delle disposizioni citate risulta esclusivamente applicabile per gli atti che devono essere ricevuti dai difensori e prescinde dalle prescrizioni formali dettate dal legislatore del 1988 per rendere certa la ricezione dell'atto da parte del suo destinatario, evidentemente in considerazione delle qualità professionali del difensore, nonché presumibilmente della maggiore affidabilità dei mezzi tecnici di trasmissione degli atti intervenuta nel frattempo».

La norma, peraltro, ripete sostanzialmente il contenuto di quanto già previsto dall'art. 54 disp. att. c.p.p., comma 2, per la trasmissione all'ufficiale giudiziario degli atti da notificare: «sicché deve essere ravvisato un parallelo, di non secondaria importanza, tra l'omogeneità della disciplina prevista per la trasmissione degli atti tra organi dell'amministrazione giudiziaria e tra questi ultimi e la categoria professionale degli avvocati».

Inoltre, il contenuto normativo del comma 2-bis è stato inserito nell'art. 148 c.p.p., che disciplina gli "organi e le forme delle notificazioni" con disposizione di carattere generale: «si può, quindi, inferire da tale rilievo di natura sistematica e dal dato letterale, che il legislatore ha previsto l'uso di mezzi tecnici idonei per le notificazioni o gli avvisi ai difensori quale sistema ordinario, generalizzato, alternativo all'impiego dell'ufficiale giudiziario o di chi ne esercita le funzioni (comma 1), purché sia assicurata l'idoneità del mezzo tecnico. La mancata individuazione, in sede normativa, dei mezzi tecnici idonei ad assicurare la effettiva conoscenza dell'atto (cosiddetta norma aperta) è evidentemente legata all'esigenza di non rendere necessario il continuo aggiornamento legislativo degli strumenti utilizzabili, ne' in qualche modo obbligatorio il loro utilizzo, tenuto conto della evoluzione scientifica e dell'effettivo grado di diffusione di nuovi mezzi tecnici di trasmissione».

A parere delle Sezioni Unite, l'individuazione della categoria dei difensori quali "naturali" possibili destinatari o consegnatari delle notificazioni o avvisi con l'uso di mezzi tecnici idonei è evidentemente legata all'esigenza di tale categoria professionale di farne uso, come avviene generalmente con il telefax[158], per lo svolgimento della propria attività: «peraltro, va ribadito che nessun obbligo è imposto dalla legge circa la utilizzazione di particolari mezzi tecnici, quali il telefax, essendone possibile l'impiego solo allorché il destinatario della notificazione ai sensi dell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, abbia comunicato all'autorità giudiziaria il proprio numero di telefax o lo abbia comunque reso di pubblico dominio».

Dall'interpretazione dell'art. 148, comma 2-bis, cod. proc. pen. quale disposizione di carattere generale in ordine alle modalità di notificazione degli atti o degli avvisi che devono essere ricevuti dai difensori, e dalla individuazione dei rapporti di tale norma con l'art. 150 stesso codice, deriva necessariamente che anche le notificazioni effettuate nei confronti del difensore, nella qualità di domiciliatario, a qualsiasi titolo, dell'imputato o indagato, possono essere eseguite ai sensi della disposizione citata: «tale interpretazione trova un riscontro, difficilmente sormontabile, nell'art. 157 c.p.p., comma 8 bis, aggiunto dal D.L. 21 febbraio 2005, n. 17, art. 2, comma 1, recante "Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna", convertito, con modificazioni, dalla L. 22 aprile 2005 n. 60. L'articolo citato, nel prevedere che le notificazioni all'imputato non detenuto, successive alla prima, sono eseguite, in caso di nomina di difensore di fiducia, mediante consegna ai difensori, stabilisce che per "le modalità della notificazione si applicano anche le disposizioni previste dall'art. 148, comma 2 bis". Orbene, il riferimento all'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, non può essere inteso come espressione della volontà del legislatore di escludere la possibilità di effettuare la notificazione con mezzi tecnici idonei, eseguita presso il difensore ma diretta all'assistito, in ogni altro caso diverso da quello previsto dall'art. 157, comma 8 bis, ma piuttosto nel senso di chiarire che tale modalità di notificazione è generalmente impiegabile per le notifiche successive alla prima di cui sia destinatario l'imputato e consegnatario il difensore».

La Corte costituzionale, chiamata a valutare la legittimità dell'art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen., ha avuto modo di evidenziare che la norma "si ispira all'esigenza di bilanciare il diritto di difesa degli imputati e la speditezza del processo, semplificando le modalità delle notifiche e contrastando eventuali comportamenti dilatori e ostruzionistici", e che il rapporto fiduciario, che lega l'imputato al suo difensore, implica "l'insorgere di un rapporto di continua e doverosa informazione da parte di quest'ultimo nei confronti del suo cliente, che riguarda ovviamente, in primo luogo, la comunicazione degli atti"[159], ponendo in rilievo l'onere di diligenza a carico del difensore che sia consegnatario delle notificazioni[160]; peraltro, come implicitamente affermato dalla citata pronuncia della Corte costituzionale, l'ordinamento giuridico non può farsi carico dell'eventuale disinteresse dell'imputato per il processo, allorché questi sia stato adeguatamente avvisato, cosa che avviene mediante la prima notificazione eseguita ai sensi dell'art. 157 cod. proc. pen. ovvero è dimostrata dalla intervenuta nomina di un difensore di fiducia: «sicché, tenuto conto delle qualità professionali del difensore e degli obblighi derivanti dal mandato fiduciario ricevuto ovvero per disposizione di legge, nel caso di nomina di ufficio per l'imputato che ne sia sprovvisto, non sussistono ragioni per valutare diversamente la sua idoneità a rendere adeguatamente edotto l'imputato della natura giuridica dell'atto di cui sia destinatario, a seconda che egli sia consegnatario dello stesso ai sensi dell'art. 157 c.p.p., comma 8 bis, ovvero quale domiciliatario nominato ai sensi dell'art. 161 stesso codice, indipendentemente dalle modalità con cui l'atto è stato notificato al consegnatario. La prima disposizione citata attribuisce, in ogni caso, al difensore la facoltà di comunicare immediatamente all'autorità giudiziaria che non intende accettare le notificazioni per conto del suo assistito ed all'imputato di porre nel nulla gli effetti della norma, provvedendo alla dichiarazione o elezione di domicilio».

Non risulterebbe, pertanto, comprensibile, in ipotesi di una diversa interpretazione, «la ratio del sistema processuale in materia di notificazioni che consenta la notifica dell'atto di cui sia destinatario l'imputato presso il difensore, non domiciliatario ed al di fuori delle ipotesi di irreperibilità, latitanza o della inidoneità di altra elezione di domicilio, mediante l'uso di mezzi tecnici idonei, ai sensi dell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, mentre non lo consenta allorché l'imputato abbia anche eletto domicilio presso il difensore. Ovviamente ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento alle notificazioni da eseguirsi presso i difensori, ai sensi dell'art. 154 c.p.p., comma 4, nei confronti delle altre parti del processo».

In virtù di queste considerazioni, è stato affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «La notificazione di un atto di cui sia destinatario l'imputato o altra parte privata, in ogni caso in cui esso possa o debba essere consegnato al difensore, può essere eseguita con telefax o altri mezzi idonei a norma dell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis».

  • testimonianza

Cap. 10

Il giudizio

Sommario

1 L'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale che legittima l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti.

1. L'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale che legittima l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se l'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale, richiesta per l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti, consista o meno nella totale e definitiva impossibilità di ottenere la presenza del dichiarante».

L'orientamento dominante riteneva che "il recupero probatorio mediante lettura delle dichiarazioni predibattimentali della persona residente all'estero è condizionato alla rituale citazione in dibattimento e al tentativo, anch'esso infruttuoso, di assumere la prova mediante rogatoria concelebrata"[161]; a tal fine, si affermava che "non è sufficiente l'omessa comparsa in dibattimento in quanto l'impossibilità assoluta di svolgere l'esame in contraddittorio presuppone che il giudice abbia esplorato senza successo ogni possibilità di ovviare all'ostacolo frappostosi all'acquisizione della prova in dibattimento", e quindi che "deve essere verificata la possibilità di svolgere l'esame mediante rogatoria internazionale concelebrata secondo il modello previsto dall'art. 4 della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria" - firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 e ratificata dall'Italia il 23 agosto 1961 su autorizzazione della legge n. 215 del 1961 - per la quale "l'autorità richiedente e le parti processuali assistono all'esecuzione della rogatoria, se l'autorità richiesta lo consente"; con la conseguenza che, "se è vero che è pur sempre l'autorità straniera richiesta a compiere l'atto istruttorio secondo le regole previste dalla legge locale, è anche vero che è pur sempre l'autorità italiana richiedente, che è titolare del processo, e le parti dello stesso processo, che possono essere ammesse, secondo le convenzioni internazionali e la disponibilità della stessa autorità straniera, a formulare o suggerire domande secondo lo spirito del modello accusatorio". Se ne desumeva che "la constatazione di difficoltà logistiche, di spese elevate, di intralci burocratici, connessi alle procedure volte ad ottenere la ripetizione delle risultanze investigative in giudizio, non autorizza di per sé la deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova dibattimentale che l'art. 111 Cost. configura non più come semplice diritto individuale ma come condizione di regolarità del processo". Pertanto, considerato che "il giudice italiano non ha il potere di ordinare l'accompagnamento coattivo del testimone residente all'estero, ex art. 133 cod. proc. pen.", l'assoluta impossibilità, "insuperabile per il giudice, di assumere la prova nel contraddittorio delle parti" si verifica "solo quando il giudice abbia inutilmente citato il testimone a comparire in dibattimento e abbia altrettanto inutilmente tentato di fare assumere la prova per rogatoria internazionale 'mista' con garanzie simili a quelle del sistema accusatorio". In sintesi, "non si può ritenere impossibile l'esame quando può essere esperita la rogatoria internazionale".

In senso contrario, una sola decisione[162] aveva affermato che "la lettura di dichiarazioni dibattimentali rese da persona residente all'estero è consentita quando appaia realisticamente impossibile ottenere in tempi ragionevoli la presenza del dichiarante in dibattimento, oppure quando non vi siano strumenti atti a vincere coattivamente la sua riluttanza a deporre: la 'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale' non va, infatti, intesa nel senso della totale e definitiva impossibilità materiale"; il disposto dell'art. 512-bis c.p.p., laddove fa riferimento 'al caso in cui non sia assolutamente possibile l'esame dibattimentale', andrebbe inteso nel senso della concretezza e della ragionevolezza, non della totale e definitiva impossibilità materiale"; in sostanza, sarebbe lecito "dare lettura dei verbali delle dichiarazioni anteriori quando sia realisticamente impossibile ottenere in tempi ragionevoli la presenza del teste al dibattimento, oppure quando non vi siano strumenti atti a vincere coattivamente la sua riluttanza a deporre".

La Corte costituzionale, con sentenza n. 440 del 2000, ha dichiarato non fondata, in riferimento all'art. 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 512, nella parte in cui, alla stregua dell'interpretazione indicata nella sentenza n. 179 del 1994, consente di dare lettura dei verbali delle dichiarazioni rese alla p.g. o al p.m. nel corso delle indagini preliminari da prossimi congiunti dell'imputato che si avvalgano della facoltà di non rispondere: in particolare, la Corte ha precisato che l'interpretazione estensiva dell'art. 512 - già espressa con la sentenza n. 179 del 1994 - non è più compatibile con il nuovo quadro normativo e specificamente con l'ipotesi di deroga al contraddittorio 'per accertata impossibilità di natura oggettiva' di cui all'art. 111, comma 5, Cost., poiché il richiamo all'impossibilità di natura oggettiva non può che riferirsi a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le dichiarazioni rese in precedenza, a prescindere dall'atteggiamento soggettivo.

Secondo la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, i diritti della difesa sono ristretti in modo incompatibile con l'art. 6 della Convenzione EDU quando una condanna si fonda, unicamente o in modo determinante, sulla deposizione resa da un testimone che l'accusato non ha potuto interrogare o far interrogare nel corso dell'istruzione o nel corso del dibattimento[163]; trattasi di principi accolti anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità[164].

La dottrina dominante, valorizzando l'estremo rigore della locuzione impiegata dal legislatore ("solo nel caso in cui non ne sia assolutamente possibile l'esame dibattimentale"), riteneva che "soltanto quando siano stati (infruttuosamente) utilizzati tutti gli strumenti giudiziari tesi a conseguire l'escussione del testimone nel contraddittorio delle parti (sia che essa avvenga ad opera dell'autorità procedente italiana, sia che avvenga in concelebrazione con l'autorità giudiziaria straniera o, infine, al solo cospetto di quest'ultima), potrà ritenersi giustificabile l'istanza di lettura"; si evidenziava, inoltre, che, "mancando il giudice di qualunque potere coattivo nei confronti del teste residente all'estero, il suo adoperarsi al fine di assicurare il contraddittorio sui dicta del teste, deve assumere tratti diversi adeguati alla peculiarità delle circostanze; e l'istituto della rogatoria esiste esattamente allo scopo di consentire l'acquisizione di prove situate in territorio estero; onde per cui potrà dirsi impossibile l'esame dibattimentale del teste, solo quando si sia rivelata impossibile anche la rogatoria, quale che ne sia il motivo". Si sottolineava che l'impossibilità di svolgere l'esame in giudizio deve adeguarsi al significato del concetto di "irripetibilità" adottato dalla previsione costituzionale, il cui carattere è assoluto ed il cui fondamento risiede in ragioni oggettive e non in opzioni libere della fonte di prova; si evidenziava, infine, che è dubbia la compatibilità con l'art. 6, par. 3, lett. d), Convenzione EDU dell'art. 512-bis c.p.p., anche nella nuova formulazione introdotta dall'art. 43 l. 16 dicembre 1999 n. 479, posto che l'eventuale assenza del residente all'estero all'udienza può portare all'utilizzazione delle sue dichiarazioni predibattimentali: nel caso in cui esse siano state rese in assenza dell'imputato o del suo difensore, e siano determinanti per fondare la condanna, vi sarà un vulnus del diritto ad esaminare i testimoni a carico.

Con sentenza del 25 novembre 2010 - 14 luglio 2011, n. 27918, D.F., le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando i principi così massimati:

Massime nn. 250197 - 9

Ai fini dell'acquisizione mediante lettura dibattimentale, ex art. 512-bis cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese, nel corso delle indagini, da persona residente all'estero, è necessario preliminarmente accertare l'effettiva e valida citazione del teste non comparso - secondo le modalità previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali o dalle convenzioni di cooperazione giudiziaria - verificandone l'eventuale irreperibilità mediante tutti gli accertamenti opportuni. Occorre, inoltre, che l'impossibilità di assumere in dibattimento il teste sia assoluta ed oggettiva, e, non potendo consistere nella mera impossibilità giuridica di disporre l'accompagnamento coattivo, occorre che risulti assolutamente impossibile la escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale concelebrata o mista, secondo il modello previsto dall'art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959.

Ai fini dell'operatività (art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen.) del divieto di provare la colpevolezza dell'imputato sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, non è necessaria la prova di una specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, ma è sufficiente - in conformità ai principi convenzionali (art. 6 CEDU) - la volontarietà dell'assenza del teste determinata da una qualsiasi libera scelta, sempre che non vi siano elementi esterni che escludano una sua libera determinazione.

Le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono - conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza europea, in applicazione dell'art. 6 della CEDU - fondare in modo esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale.

Le Sezioni Unite, dopo aver riepilogato le attività processuali nel caso di specie svolte prima che fosse disposta la lettura delle dichiarazioni rese dalla persona offesa alla polizia giudiziaria, hanno ricostruito la genesi ed il contenuto dispositivo dell'art. 512-bis cod. proc. pen., la cui attuale formulazione, introdotta dal l. n. 479 del 1999, persegue le finalità di «armonizzare la disciplina delle letture col metodo dialettico di formazione della prova imposto dal novellato art. 111 Cost.; garantire i principi del contraddittorio nell'acquisizione della prova, anche se ciò può comportare un allungamento dei tempi del processo per la necessità di ulteriori accertamenti volti a verificare l'eventuale effettiva assoluta impossibilità di procedere all'esame dibattimentale; conformare l'ordinamento interno agli obblighi internazionali».

Si è, in particolare, osservato che la nuova formulazione dell'art. 512-bis, «se da un lato, ne ha esteso l'ambito di applicazione modificando la qualifica soggettiva della fonte di prova, che ora non è più il cittadino straniero ma qualsiasi persona residente all'estero, senza distinguere sulla nazionalità, da un altro lato, ne ha però drasticamente ridotto la portata derogatoria rispetto al principio della formazione della prova in dibattimento. Secondo la nuova disposizione, per poter recuperare a fini probatori le dichiarazioni pregresse non è più sufficiente la mancata comparizione o, addirittura, la mancata citazione, ma occorre che la parte richiedente abbia regolarmente citato la persona residente all'estero e, qualora questa non si sia presentata, occorre, altresì, che sia accertata l'assoluta impossibilità di sottoporla ad esame dibattimentale. La nuova formulazione tende dunque a neutralizzare le così dette "irripetibilità di comodo" e si fonda principalmente sulla impossibilità di ripetizione delle dichiarazioni».

Essa assume i caratteri dell'eccezionalità e della residuante rispetto al principio generale posto dall'art. 111 Cost. del favor per l'assunzione della fonte dichiarativa nel contraddittorio delle parti e innanzi al giudice chiamato a decidere «devono quindi essere interpretati restrittivamente e rigorosamente gli elementi da esso previsti ed ai quali è condizionata la sua applicazione (richiesta della parte interessata; facoltà del giudice con obbligo di motivare adeguatamente l'accoglimento o il rigetto della richiesta; decisione tenendo conto degli altri elementi di prova acquisiti; possibilità di lettura delle sole dichiarazioni documentate con un verbale ed assunte anche a seguito di rogatoria internazionale; effettiva residenza all'estero della persona, italiana o straniera; effettiva e valida citazione del teste e mancata comparizione dello stesso; assoluta impossibilità del suo esame dibattimentale)».

Con specifico riguardo al caso di specie, tra i predetti elementi assumono rilevanza la mancata comparizione del teste nonostante la sua effettiva regolare citazione e l'adempimento dell'onere, gravante sulla parte interessata, di provare l'assoluta impossibilità dell'escussione dibattimentale.

Per quanto riguarda la corretta, effettiva e valida citazione, «è evidente che l'accertamento della mancata comparizione del teste e della assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale richiede logicamente la preliminare verifica del buon esito della citazione. Non potrebbe, invero, parlarsi di mancata comparizione se non si è certi che la citazione sia validamente ed effettivamente avvenuta. Del resto, la citazione andata a buon fine è uno degli elementi maggiormente significativi della disciplina posta dal nuovo testo dell'art. 512-bis cod. proc. pen., esprimendo la chiara volontà del legislatore di superare la norma precedente, che si applicava a tutti i casi di mancata comparizione in dibattimento del testimone straniero, anche in assenza di citazione. Il requisito dell'assenza del teste residente all'estero è invece ora acclarabile solo se egli sia stato correttamente citato, senza tralasciare - ove occorra - le forme della rogatoria internazionale».

Sul punto della verifica del presupposto di una effettiva e valida citazione, la giurisprudenza di questa Corte, con riferimento al nuovo testo, ha esattamente affermato che l'accertamento della impossibilità di "natura oggettiva" di assunzione dei dichiaranti residenti all'estero presuppone una rigorosa verifica della regolare citazione all'estero delle persone e il controllo di un eventuale stato di detenzione e, in tal caso, l'attivazione delle procedure stabilite per ottenere la traduzione temporanea in Italia di dichiaranti detenuti o la loro assunzione mediante rogatoria con le garanzie del contraddittorio[165]: «la deroga al principio costituzionale della formazione della prova nel contraddittorio richiede pertanto che la persona sia effettivamente residente all'estero; che sia stata citata; e che tale citazione sia avvenuta nelle forme inderogabilmente prescritte dalla legge, non potendo aversi incertezza in ordine alla verifica rigorosa della sussistenza dei presupposti della deroga, collegata all'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale di un soggetto che abbia avuto conoscenza legale dell'obbligo di presentarsi al processo. In particolare, le modalità di legge per la citazione del teste all'estero sono quelle previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali, senza alcuna possibilità di equipollenti affidati alla libertà di forma ed all'iniziativa del singolo ufficio giudiziario in riferimento a problemi contingenti ed asseritamente dovuti a difficoltà organizzative».

In conclusione, «la mancata comparizione del testimone residente all'estero è comportamento che può conseguire solo ad una citazione andata a buon fine, il che presuppone che egli sia stato correttamente citato, nelle forme dettate dalla peculiarità del caso, ivi comprese quelle della rogatoria internazionale. Presuppone altresì, nel caso in cui la notificazione non sia stata effettuata perché il teste non è stato trovato all'indirizzo indicato (come nel caso di specie, in cui due volte su tre è risultato sconosciuto in detto indirizzo), che siano compiuti tutti quegli accertamenti necessari e opportuni per potere individuarne l'attuale domicilio».

Per quanto riguarda poi l'adempimento dell'onere, gravante sulla parte interessata, di provare l'assoluta impossibilità dell'escussione dibattimentale, la lettura delle dichiarazioni rese dalla persona residente all'estero, citata e non comparsa, è poi consentita "solo nel caso in cui non ne sia assolutamente possibile l'esame dibattimentale": ed il quesito sottoposto a queste Sezioni Unite riguarda specificamente i caratteri di questa assoluta impossibilità.

Dopo aver ricostruito i contrapposti orientamenti, le Sezioni Unite hanno osservato che in sede di legittimità il contrasto è, in realtà, inconsapevole, in quanto la decisione della quale consiste l'orientamento minoritario non dà atto del diverso e prevalente orientamento, e quindi non indica le ragioni per le quali ritiene di disattenderlo: «sembra, pertanto, che in realtà si sia trattato di un mero richiamo alla (ormai superata) giurisprudenza formatasi sul previgente testo dell'art. 512-bis cod. proc. pen. Il contrasto appare poi anche isolato perché non risulta che altre decisioni massimate abbiano ritenuto che, alla stregua del nuovo testo dell'art. 512-bis cod. proc. pen., per considerare accertata l'assoluta impossibilità dell'esame del teste residente all'estero sia sufficiente l'avvenuta regolare citazione e la mancata comparizione, senza necessità di ulteriore attivazione da parte del giudice. Questa tesi minoritaria, a ben vedere, non è stata seguita nemmeno dalle altre decisioni richiamate dalla ordinanza di rimessione, dal momento che alcune di esse si limitano a rilevare che nel caso preso in esame il teste non era stato regolarmente citato[166], mentre altre sottolineano espressamente la necessità che si tratti di una impossibilità di natura oggettiva[167]».

A parere delle Sezioni Unite, merita conferma l'orientamento più restrittivo e prevalente, «se non altro perché una diversa interpretazione, quale quella seguita dall'altro orientamento - al pari di ogni altra interpretazione troppo elastica sul requisito della impossibilità oggettiva di assunzione diretta del dichiarante - si porrebbe in contrasto con i principi posti dall'art. 111 Cost.». E' stata, in proposito, ricordata l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, sin dalla modifica dell'art. 111 Cost., e si è concluso che, nel nuovo quadro costituzionale, «non è più possibile collegare la lettura dibattimentale di atti non più ripetibili alla libera determinazione del dichiarante e non è più invocabile, nemmeno ai fini di un bilanciamento, il principio di non dispersione dei mezzi di prova, non più compatibile con il nuovo principio costituzionale del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio. Nemmeno sembra più invocabile un principio di accertamento della verità reale, perché le regole vigenti costituiscono esse stesse espressione di un principio assunto a regola costituzionale e costituiscono una garanzia per la stessa affidabilità della conoscenza acquisita. Le uniche deroghe al contraddittorio ora consentite sono quelle enucleate dall'art. 111 Cost., comma 5, e sono evidentemente tassative e non suscettibili di una interpretazione estensiva».

Ne consegue che una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 512-bis cod. proc. pen. non può che ricondurre "l'assoluta impossibilità dell'esame" di cui esso parla alla "accertata impossibilità oggettiva", prevista quale deroga costituzionale al contraddittorio dall'art. 111 Cost., comma 5, così come interpretata dalla Corte costituzionale: «pertanto, l'assoluta impossibilità di ripetizione dell'esame non può consistere (come nella specie si è ritenuto) in una impossibilità, di tipo giuridico, rappresentata dalla mera circostanza che al giudice italiano non è consentito ordinare, ex art. 133 cod. proc. pen., l'accompagnamento coattivo di persona residente all'estero. Se così fosse, del resto, si vanificherebbe sostanzialmente il requisito, dal momento che una impossibilità giuridica di questo genere è sempre presente in tutte le ipotesi di testimone che risiede all'estero. D'altra parte, la sola impossibilità di ordinare l'accompagnamento coattivo non determina nemmeno una impossibilita giuridica assoluta, essendo praticabili, come si vedrà, altri strumenti, quali la rogatoria internazionale. Poiché il richiamo costituzionale ad una impossibilità di natura oggettiva si riferisce a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, deve escludersi che l'impossibilità possa comunque dipendere esclusivamente dalla volontaria sottrazione del testimone al dibattimento, fatta ovviamente eccezione per l'ipotesi in cui la volontà di non presentarsi si sia determinata "per effetto di provata condotta illecita".

L'impossibilità, oltre che oggettiva, deve essere assoluta». Essa non può, quindi, discendere dalla constatazione di difficoltà logistiche, di spese elevate, di intralci burocratici, connessi alle procedure volte ad ottenere la ripetizione delle risultanze investigative in giudizio; né potrebbe integrare una impossibilità assoluta, una precaria assenza del testimone dal suo domicilio, o una infermità provvisoria, o il caso in cui il teste, residente all'estero, pur non presentandosi, abbia comunicato la propria disponibilità a rendere l'esame in una data successiva».

In ogni caso, «il giudice non può limitarsi a constatare la validità della citazione e la mancata presenza del testimone, ma, pur non potendone disporre l'accompagnamento, deve attivarsi per compiere non solo tutte le indagini occorrenti per localizzarlo, ma anche tutte le attività necessarie perché il teste stesso possa essere in qualche modo sottoposto ad un esame in contraddittorio tra le parti».

Si è, dunque, ritenuto che fra le attività che il giudice deve compiere vi è anche quella di disporre, ove sia possibile, una rogatoria internazionale così detta "concelebrata" o "mista" del teste residente all'estero, con garanzie simili a quelle del sistema accusatorio, conformemente del resto a quanto affermato dalla prevalente giurisprudenza dianzi ricordata: «difatti, poiché l'impossibilità di comparire deve essere, oltre che "oggettiva", anche "assoluta", essa richiede che il giudice abbia esplorato, senza successo, tutte le possibilità e tutti gli strumenti a sua disposizione per cercare di superare gli ostacoli e di pervenire alla formazione della prova in contraddittorio. Ora, l'ordinamento italiano, nell'ipotesi di testimone residente all'estero, prevede appunto lo strumento della possibilità di assunzione della testimonianza o di altro atto istruttorio mediante rogatoria internazionale cd. "concelebrata", secondo il modello previsto dall'art. 4 della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959, ratificata dall'Italia in data 23 agosto 1961 e resa esecutiva con la L. 23 febbraio 1961, n. 215, art. 2, il suddetto art. 4 dispone che, se l'autorità richiedente lo domanda espressamente e l'autorità richiesta lo consente, l'autorità richiedente e le parti processuali possono assistere all'esecuzione della rogatoria. Pertanto, anche se è pur sempre l'autorità straniera richiesta a compiere l'atto istruttorio secondo le regole previste dalla legge locale, tuttavia l'autorità italiana richiedente, titolare del processo, e le parti dello stesso processo, possono essere ammesse secondo le convenzioni internazionali e la disponibilità della stessa autorità straniera, a formulare o suggerire domande secondo lo spirito del modello accusatorio».

Si è, conclusivamente sul punto, ritenuto che, per rispettare il principio del contraddittorio nella formazione della prova fissato dall'art. 111 Cost., comma 4, è necessario e sufficiente che le parti abbiano avuto la possibilità di interloquire dialetticamente nell'assunzione della prova, anche se in concreto non l'abbiano esercitata; per rispettare poi la deroga consentita dall'art. 111 Cost., comma 5, è necessario che sia stata ritualmente, ma inutilmente, richiesta l'escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale "concelebrata" o "mista" del tipo di quella prevista dall'art. 4 della citata Convenzione, potendo in tal caso ritenersi verificata un'assoluta ed oggettiva impossibilità di procedere all'esame dibattimentale nel contraddittorio delle parti: «in altre parole, un'assoluta impossibilità di assumere la prova in contraddittorio si potrà verificare solo quando il giudice, dopo avere esperito tutte le opportune e necessarie attività dirette a localizzare il teste, lo abbia inutilmente citato a comparire ed abbia tentato, altrettanto inutilmente, di fare assumere la prova per rogatoria internazionale "concelebrata" o "mista", senza raggiungere lo scopo per ragioni a lui non imputabili e insuperabili, ad esempio per la mancanza di convenzioni di assistenza giudiziaria con lo Stato di residenza del teste. Una impossibilità assoluta ed oggettiva di esame in contraddittorio si potrà anche verificare nel caso di irreperibilità del soggetto residente all'estero (cfr. Corte cost., ord. n. 375 del 2001). Anche in questa ipotesi andrà applicata - sempre che il soggetto fosse effettivamente residente all'estero già al momento in cui rese le dichiarazioni della cui lettura si tratta - la disposizione dell'art. 512-bis cod. pen., la quale detta appunto, per le "dichiarazioni rese da persona residente all'estero", una disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella più generale posta dall'art. 512 cod. pen. in ordine alla lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione. Con la conseguenza che non è necessario il requisito della imprevedibilità della sopravvenuta impossibilità di ripetizione, requisito richiesto dall'art. 512 ma non dall'art. 512-bis cod. proc. pen., stante la finalità della norma che riguarda soggetti che possono trovarsi anche per brevissimo tempo e di passaggio in Italia. Se invece il soggetto al momento della deposizione era anche di fatto residente in Italia, non vi sono ragioni per non applicare l'art. 512 e derogare alla necessita del requisito, altresì, della imprevedibilità».

In virtù dei rilievi che precedono, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: «affinché, ai sensi dell'art. 512-bis cod. proc. pen., possa disporsi la lettura dei verbali di dichiarazioni rese da persona residente all'estero è, tra l'altro, necessario: a) che vi sia stata una effettiva e valida notificazione della citazione del teste, secondo le modalità previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali o dalle convenzioni di cooperazione giudiziaria, e che l'eventuale irreperibilità del teste sia vendicata mediante tutti gli accertamenti opportuni e necessari in concreto, non essendo sufficienti la mancata notificazione o le risultanze anagrafiche o verifiche meramente burocratiche; b) che l'impossibilità dell'esame dibattimentale del teste sia assoluta ed oggettiva, non potendo consistere nella mera impossibilità giuridica di disporre l'accompagnamento coattivo ne' in circostanze dipendenti dalla libera volontà del dichiarante o in situazioni temporanee o in difficoltà logistiche o economiche; c) che sia stata inutilmente richiesta, ove possibile, la escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale "concelebrata" o "mista" del tipo di quella prevista dall'art. 4 della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959».

L'ordinanza di rimessione poneva un quesito anche in relazione all'applicazione dell'art. 526, comma 1-bis, c.p.p., ed all'elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale. Le Sezioni Unite hanno osservato che, al fine di dare una corretta interpretazione della disposizione, è indispensabile tenere conto delle norme della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata il 4 novembre 1950 e resa esecutiva nel nostro ordinamento con L. 4 agosto 1955, n. 848, ed in particolare dell'art. 6, comma 3, lett. d)[168], che sancisce il diritto dell'imputato di confrontarsi con il suo accusatore: «nella giurisprudenza della Corte EDU questa disposizione costituisce specificazione del principio di equità processuale ed espressione della disciplina concernente qualsiasi tipo di prova, sicché il diritto alla prova implica anche quello alla sua effettiva assunzione in contraddittorio».

Dopo aver riepilogato gli orientamenti della giurisprudenza europea in argomento, si è evidenziato che «l'acquisizione come prova di dichiarazioni assunte senza contraddittorio non risulta di per sè in contrasto con l'art. 6 della CEDU, ma sussistono precisi limiti alla loro utilizzazione probatoria, al fine di impedire che l'imputato possa essere condannato sulla base esclusiva o determinante di esse. Pertanto, l'ammissibilità di una prova testimoniale unilateralmente assunta dall'accusa può risultare conforme al dettato del citato art. 6, ma affinché il processo possa dirsi equo nel suo insieme in base ad una lettura congiunta dell'art. 6, commi 1 e 3 lett. d), una condanna non deve fondarsi esclusivamente o in maniera determinante su prove acquisite nella fase delle indagini e sottratte alla verifica del contraddittorio, anche se differito», poiché il principio affermato dalla giurisprudenza europea è che "i diritti della difesa sono limitati in modo incompatibile con le garanzie dell'art. 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria ne' durante il dibattimento"[169], e ciò anche quando il confronto è divenuto impossibile per morte del dichiarante o per le sue gravi condizioni di salute[170], ovvero quando l'irreperibilità del dichiarante sia giuridicamente giustificata da un diritto di costui al silenzio, come nel caso di coimputati[171] o di imputati di reato connesso[172].

In sostanza, dall'art. 6 della Convenzione EDU, per come costantemente e vincolativamente interpretato dalla Corte di Strasburgo, «discende una norma specifica e dettagliata, una vera e propria regola di diritto - recepita nel nostro ordinamento tramite l'ordine di esecuzione contenuto nella L. 4 agosto 1955, n. 848, art. 2 - che prescrive un criterio di valutazione della prova nel processo penale, nel senso che una sentenza di condanna non può fondarsi, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento».

L'ordinanza di rimessione ha posto il quesito esclusivamente con riguardo alla norma nazionale dell'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, ed in particolare limitatamente alla valutazione dell'elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale, prospettando che, secondo alcune decisioni, è decisivo che la mancata presenza del teste all'esame sia volontaria, mentre, per altre decisioni, occorre la prova (diretta o logica) che l'assenza sia determinata da una chiara volontà di sottrarsi al contraddittorio: «se ci si pone in questa prospettiva - ossia se si considera esclusivamente la norma nazionale - il dubbio va risolto preferendo l'interpretazione adeguatrice che riduca al massimo i possibili casi di contrasto con la norma ed i principi convenzionali (e quindi sia maggiormente conforme agli stessi), ossia l'interpretazione che assegni il significato più ampio all'elemento della volontaria sottrazione all'esame per libera scelta, così determinando la più estesa applicazione della regola probatoria che impedisce al giudice di fondare la condanna su risultanze pure ritualmente acquisite alla sua conoscenza. L'elemento in esame, pertanto, deve ravvisarsi tutte le volte che la mancata presenza del teste residente all'estero debba ritenersi volontaria, perché il soggetto, avendone comunque avuto conoscenza, non si è presentato all'esame in dibattimento o in rogatoria, quali che siano i motivi della mancata presentazione, purché ovviamente riconducibili ad una sua libera scelta, e cioè ad una scelta non coartata da elementi esterni».

Al quesito proposto dalla sezione rimettente si è, pertanto, risposto che «non occorre la prova di una specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, ma è sufficiente la volontarietà dell'assenza del teste determinata da una qualsiasi libera scelta (anche per difficoltà economiche, disagi del viaggio, mancanza di interesse, e così via), sempre che non vi sia la prova o la presunzione di una illecita coazione, di una violenza fisica o psichica, o di altre illecite interferenze o elementi esterni che escludano una libera determinazione (ad es., soggetto detenuto all'estero; grave infermità fisica; timori per le propria incolumità per altre vicende personali; pressioni di tipo economico)».

Si è anche precisato - al fine di giungere, anche per questa ipotesi, ad una interpretazione che eviti il più possibile i contrasti con la norma Europea - che «non è indispensabile che il teste sia stato raggiunto da una citazione, ai fini della dimostrazione della sua volontà di sottrarsi al contraddittorio, in quanto tale volontà potrebbe presumersi anche sulla base di elementi diversi dalla avvenuta citazione».

Si è, infine, ritenuta la possibilità di una interpretazione adeguatrice della normativa interna, poiché, «quanto all'art. 111 Cost., comma 5, può rilevarsi che questo detta norme sulla formazione ed acquisizione della prova, mentre la regola convenzionale in esame pone un criterio di valutazione della prova dichiarativa regolarmente acquisita. La deroga al principio della formazione dialettica della prova autorizza l'acquisizione al processo dell'atto compiuto unilateralmente, ma non pregiudica la questione del valore probatorio che ad esso, in concreto, va attribuito. Non vi è quindi incompatibilità tra la norma CEDU e l'art. 111 Cost., comma 5. Quanto all'art. 111 Cost., comma 4, seconda parte, ed all'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, può, in primo luogo farsi ricorso al tradizionale criterio ermeneutico della presunzione di conformità delle norme interne successive rispetto ai vincoli internazionali pattizi, ossia alla presunzione che il legislatore (di revisione costituzionale ed ordinario) non abbia inteso sottrarsi all'obbligo internazionale assunto dallo Stato, non volendo incorrere nella conseguente responsabilità per inadempimento nei rapporti con gli altri Stati. Il criterio della interpretazione conforme alle norme dei trattati è stato del resto di recente riaffermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 349 del 2007), secondo la quale anzi il criterio opera anche quando l'obbligo internazionale è successivo alla disciplina legislativa interna e trova fondamento positivo nell'art. 117 Cost., comma 1. Nel caso di specie questo criterio ermeneutico acquista poi tanto più valore in quanto è pacifico - per espressa dichiarazione di intenti del legislatore - che l'art. 526 cod. proc. pen., comma 1-bis è stato introdotto dalla L. 1 marzo 2001, n. 63, art. 19, a mò di traduzione codicistica (con aggiustamenti esclusivamente formali) del precetto recato dall'art. 111 Cost., comma 4, seconda parte, come novellato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, e che quest'ultima, a sua volta, si proponeva proprio di rendere espliciti a livello costituzionale i principi del giusto processo enunziati dall'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, così come elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo».

Si è, in proposito, osservato che sarebbe incongruo ritenere che il legislatore, proprio nel momento in cui ha operato una revisione dell'art. 111 Cost. al fine introdurvi i principi convenzionali sul giusto processo, abbia poi posto invece una norma incompatibile con quella convenzionale: «la differenza di formulazione rispetto alla norma CEDU non può, pertanto, essere intesa nel senso di una volontà del legislatore di impedire l'applicazione della regola convenzionale. La diversità di articolazione delle norme non esclude che esse costituiscono comunque applicazione di un identico o analogo principio generale inteso a porre un rigoroso criterio di valutazione delle dichiarazioni dei soggetti che la difesa non ha mai avuto la possibilità di esaminare e ad eliminare o limitare statuizioni di condanna fondate esclusivamente su tali dichiarazioni. Le norme nazionali e convenzionali, dunque, rispondono ad una ratto e perseguono finalità non dissimili. È stato perciò esattamente osservato che proprio la circostanza che il nuovo testo dell'art. 111 Cost., trova la sua origine in fonti convenzionali internazionali "invita l'interprete a non isolarsi in un contesto nazionale, ma a cercare quella che è stata chiamata una "osmosi" tra le diverse formulazioni, della normativa convenzionale e di quella nazionale, ordinaria e costituzionale"».

E' stata quindi esclusa la sussistenza di una totale non conformità tra l'art. 111 Cost., comma 4, e la regola convenzionale in esame, come enucleata dalla Corte EDU, «e tanto più può escludersi che vi sia tra questa regola e l'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, una assoluta e puntuale incompatibilità, tale da far sì che l'applicazione dell'una escluda l'applicazione dell'altro».

Si è poi evidenziato che l'art. 526, comma 1-bis, c.p.p., riproducendo l'art. 111, comma 4, Cost., pone un limite alla utilizzazione probatoria delle dichiarazioni non rese in contraddittorio valevole per alcune determinate ipotesi, e che la norma convenzionale pone una analoga regola di valutazione probatoria delle stesse dichiarazioni valevole anche per altre ipotesi: «ora, la norma nazionale dice solo che in quelle ipotesi si applica quella regola, ma non dice anche che in ipotesi diverse debba valere un opposto criterio, ossia non esclude che anche nelle altre ipotesi possa applicarsi un analogo criterio di valutazione probatoria, ricavato in via interpretativa dalle norme o dai principi in materia o anche posto da una diversa norma comunque operativa nell'ordinamento. La norma nazionale, in applicazione del principio generale del giusto processo, pone una determinata tutela per l'imputato, ma non esclude che una tutela più estesa possa essere posta o ricavata da norme diverse. Del resto, se si considera il rapporto tra il principio generale del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale posto dalla prima parte dell'art. 111 Cost., comma 4 e la regola posta dalla seconda parte del medesimo comma, si deve convenire che questa regola va intesa non già come eccezione, bensì come svolgimento ed attuazione del principio generale. Essa pertanto non può essere considerata come eccezionale, sicché identica o analoga regola di valutazione probatoria legittimamente può essere prevista per ipotesi ulteriori».

Si è concluso che «è conforme al sistema ritenere che analoghi criteri valutativi, ed in particolare la necessità di esaminare le dichiarazioni congiuntamente ad altri elementi di riscontro, debbano operare anche quando l'imputato non abbia mai avuto la possibilità di interrogare il dichiarante, considerando che l'assenza del controesame abbassi fortemente il grado di attendibilità della prova, rispetto al modello ideale della testimonianza raccolta con l'esame incrociato. Del resto, nel quadro di una razionale e motivata valutazione delle prove, il metodo con cui è stata assunta la dichiarazione è rilevante almeno quanto la qualifica del dichiarante (che in alcuni casi, come per l'imputato di reato connesso o del testimone assistito, richiede la presenza di riscontri esterni che ne confermino l'attendibilità)».

  • procedura penale

Cap. 11

Le impugnazioni

Sommario

1 Il ricorso per cassazione. L'interesse ad impugnare della parte civile. - 1.1 Segue. La ricorribilità della sentenza di «patteggiamento» nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile.

1. Il ricorso per cassazione. L'interesse ad impugnare della parte civile.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se sussista o meno l'interesse della parte civile a proporre ricorso contro la declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela».

Un orientamento riteneva sussistente l'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di improcedibilità per mancanza di querela, atteso che la scelta di coltivare l'azione civile nel processo penale, spettante al danneggiato dal reato, rappresentava una determinazione che trovava tutela e riconoscimento nel vigente ordinamento giuridico, né a tal fine poteva rilevare in senso impeditivo la circostanza che la pronuncia di improcedibilità non fosse vincolante nell'eventuale giudizio civile; sussisteva comunque l'interesse del querelante, costituitosi parte civile, a perseguire l'intendimento di chiedere nel procedimento penale l'affermazione del diritto al risarcimento del danno.

L'orientamento maggioritario riteneva inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione avanzato dalla parte civile allo scopo di rimuovere una pronuncia di improcedibilità per mancanza di querela, in quanto tale pronuncia, non coinvolgendo il merito dei rapporti patrimoniali tra le parti, non impediva al giudice civile di conoscere senza vincoli le conseguenze dannose derivanti dal fatto. Questo orientamento era consolidato sotto la vigenza del codice abrogato: all'epoca, esso fondava sul più generale principio secondo cui, nel caso di proscioglimento pronunciato in giudizio, doveva riconoscersi l'interesse della parte civile a proporre ricorso per cassazione in tutte le ipotesi in cui, pur non essendo precluso l'esercizio dell'azione civile ai sensi dell'art. 25 cod. proc. pen. previgente, potesse derivare da taluna delle disposizioni della sentenza, indipendentemente dalla formula adottata, una limitazione per la parte civile stessa al pieno soddisfacimento nella sede competente della pretesa risarcitoria.

Analoghi contrasti dividevano la dottrina.

Le Sezioni Unite, con sentenza del 28 aprile - 20 giugno 2011, n. 24542, P.c. ric. in proc. Miano, preso atto che il difensore ed il rappresentante legale della società ricorrente hanno ritualmente rinunciato all'impugnazione, e che la questione sottoposta alle Sezioni Unite non può essere esaminata, hanno dichiarato inammissibile il ricorso.

Al riguardo, non possono che essere ribadite le considerazioni già svolte nella premessa alla Rassegna delle decisioni intervenute nell'anno 2010, per evidenziare il perdurare di una ingiustificabile lacuna normativa.

L'art. 363, comma 3, cod. proc. civ. (introdotto dall'art. 4 D. Lgs. n. 40 del 2006) prevede che «Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte. ritiene che la questione decisa è di particolare importanza».

Analogo istituto non è previsto dal codice di procedura penale, che al contrario, in presenza di un ricorso inammissibile (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.) privilegia unicamente l'esigenza di rapida definizione del procedimento, attraverso il rito speciale di cui agli artt. 610 s. cod. proc. pen. e la costituzione di apposita sezione.

Il quadro normativo attualmente vigente preclude, pertanto, al Supremo Collegio penale l'esercizio della funzione nomofilattica (al contrario, recuperata e potenziata nel settore civile), differendo, in caso di inammissibilità del ricorso, la risoluzione del contrasto di giurisprudenza ad altra remissione, ed imponendo nelle more il perdurare delle incertezze interpretative[173].

La discrasia appare sistematicamente poco coerente con la funzione istituzionale della Corte di legittimità di enunciare la corretta applicazione della legge, anche allo scopo di assicurarne l'uniforme applicazione.

1.1. Segue. La ricorribilità della sentenza di «patteggiamento» nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere

«se sia ricorribile per cassazione la sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile, in particolare per quanto attiene alla congruità della somma liquidata ed alla coerenza della motivazione sul punto, una volta che sulla relativa richiesta, proposta all'udienza di discussione, nulla sia stato eccepito».

Un orientamento aveva affermato che l'accordo fra il pubblico ministero e l'imputato, in quanto pertinente esclusivamente agli aspetti penalistici e sanzionatori, non si estende a quelli strettamente inerenti la liquidazione delle spese sostenute dalla parte civile, la cui entità non è, pertanto, ricompresa nell'accordo processuale; posto, dunque, che la domanda della parte civile di essere sollevata dalle spese processuali è strutturalmente estranea all'accordo intercorrente tra pubblico ministero e imputato sulla pena da applicare in relazione ad una determinata fattispecie criminosa e che su tale domanda il giudice ha il dovere di decidere con una pronuncia avente natura formale e sostanziale di condanna, è indubbio che su tale capo della sentenza la parte interessata (imputato o parte civile) è legittimata a dedurre, mediante il ricorso per cassazione, le normali censure che attengono alla valutazione giudiziale circa la pertinenza delle voci di spese, la loro documentazione e congruità. Proprio per consentire siffatto controllo sulla statuizione accessoria alla sentenza di patteggiamento, il giudice ha il dovere di fornire adeguata motivazione[174]. In coerenza con queste premesse teoriche si argomentava, inoltre, che è rilevabile in sede di legittimità il vizio motivazionale della sentenza di applicazione di pena nella determinazione globale dell'ammontare delle spese liquidate in favore della parte civile, in quanto ostativo della doverosa verifica delle parti in ordine al rispetto dei limiti tariffari e delle altre condizioni di legge nelle singole voci di spesa[175].

Altro orientamento aveva ritenuto che la pronuncia sulle statuizioni contenute nella sentenza di patteggiamento in favore della parte civile, essendo necessariamente oggetto di rappresentazione ed accettazione da parte dell'imputato che abbia avanzato l'istanza di applicazione della pena o vi abbia aderito, venisse a far parte, pur se non espressamente, di un atto plurilaterale; dalla riconducibilità della liquidazione degli esborsi sostenuti dalla parte civile all'ambito dell'accordo delle parti derivavano, quale logiche conseguenze, l'applicazione anche agli stessi del principio dell'intangibilità dell'accordo e l'inammissibilità delle censure mosse, mediante il ricorso per cassazione, dall'imputato che nulla aveva eccepito in sede di patteggiamento. L'adesione all'accordo non era, peraltro, ritenuta incondizionata, ponendosi il problema della mancanza di conoscenza in capo alla parte - al momento della richiesta o dell'accettazione della pena - dell'ammontare e della giustificazione delle spese oggetto dell'istanza di liquidazione della parte civile, la cui presentazione si colloca in un successivo momento processuale: in proposito, si osservava che era onere della parte che intendesse contestare la misura delle spese richieste dalla parte civile sollevare specifica eccezione sui contenuti della nota da quest'ultima presentata nel corso dell'udienza, ed in difetto era preclusa la possibilità di avanzare, con il ricorso per cassazione, rilievi circa la congruità delle spese liquidate[176]. Alcune delle pronunce riconducibili a questo indirizzo avevano, inoltre, rilevato che grava sull'imputato che impugna la statuizione della sentenza relativa alla liquidazione delle spese processuali in favore della parte civile l'onere di dimostrare, qualora la liquidazione sia stata effettuata in misura assai contenuta, l'esistenza di uno specifico interesse a sostegno della richiesta di applicazione delle tariffe professionali[177].

In dottrina, la questione controversa non aveva costituito oggetto di particolare attenzione.

Con sentenza del 14 luglio - 7 novembre 2011, n. 40288, Tizzi ed altra, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, affermando il principio così massimato:

Massima n. 250680

E' ricorribile per cassazione la sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile, in particolare per quanto attiene alla legalità della somma liquidata ed alla esistenza di una corretta motivazione sul punto, una volta che sulla relativa richiesta, proposta all'udienza di discussione, nulla sia stato eccepito. (Nella specie, la Corte ha annullato la sentenza di applicazione della pena, limitatamente alla liquidazione delle spese a favore della parte civile, con rinvio al giudice competente per valore in grado d'appello, dovendosi discutere in detta sede solo sul quantum).

Il Supremo Collegio ha premesso che la problematica in oggetto è in concreto rilevante sotto due profili, poiché la questione concernente la totale assenza della motivazione della sentenza impugnata in merito alla determinazione della somma posta a carico delle imputate a titolo di rifusione delle spese sostenute dalla parte civile s'intreccia con il tema più generale della fisionomia della decisione ex art. 444 cod. proc. pen. e dell'estensione dell'accordo fra le parti: «in via preliminare si tratta, quindi, di stabilire se la pronuncia sulle spese sostenute dalla parte civile abbia un fondamento pattizio, dal momento che essa si inserisce all'interno di uno schema di giustizia contrattata, e se l'entità della somma da liquidare, così come indicata nella nota presentata dalla stessa parte civile nel corso dell'udienza di discussione, venga a far parte dell'accordo tra le parti, ossia dei termini del patteggiamento».

Dopo aver riepilogato i termini del contrasto, è stata affermata la fondatezza del primo orientamento: «sotto il profilo soggettivo, il tenore testuale del comma 2 del novellato art. 444 cod. proc. pen. rende evidente che il danneggiato è escluso dalla partecipazione all'accordo che intercorre fra imputato e pubblico ministero, pur avendo lo ius loquendi sulle questioni che formano oggetto della valutazione del giudice; si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle iniziative, esterne al patteggiamento, volte ad indurre il giudice a respingere l'accordo o a postulare la subordinazione dell'eventuale sospensione condizionale della pena alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato (...). Da un punto di vista oggettivo, il dato normativo ha una portata inequivoca nel definire la natura e i contenuti tipici del patteggiamento sulla pena unicamente in relazione agli aspetti penalistico-sanzionatori e nel lasciare strutturalmente estranea all'accordo intercorrente tra il pubblico ministero e l'imputato sulla pena da applicare ad una determinata fattispecie delittuosa la parte civile, i cui interessi non possono filtrare nell'accordo attraverso il pubblico ministero neppure sotto il limitato profilo della rifusione delle spese sostenute».

D'altro canto, non appare configurabile, parallelamente all'accordo principale tra pubblico ministero e imputato, il perfezionarsi di un implicito patto autonomo - pur se intimamente connesso al primo - tra l'imputato e il danneggiato: «innanzitutto la condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile può mancare, quando il giudice, all'esito della verifica in ordine alla legittimazione del soggetto leso dal reato, ordinariamente assorbita nella statuizione sul petitum, ritenga lo stesso privo di legittimazione (...). In secondo luogo dal novellato art. 444, comma 2, cod. proc. pen. si evince che manca qualsiasi forma di automatismo tra la richiesta del soggetto leso e il provvedimento del giudice, avendo quest'ultimo il potere di compensare, in tutto o in parte, per giusti motivi, le spese. Poiché, come ha evidenziato un'autorevole dottrina, la compensazione equivale a mancanza di condanna, è agevole concludere che il giudice chiamato a pronunciare sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. ha la facoltà di porre solo in parte o di non porre affatto le spese a carico dell'imputato. Infine, in presenza di una domanda di rifusione delle spese tempestivamente proposta dalla parte civile, il giudice, anche in assenza della produzione della relativa nota, può ugualmente procedere alla liquidazione delle stesse sulla base della tariffa professionale vigente, atteso che l'art. 153 disp. att. cod. proc. pen. non commina alcuna sanzione di nullità o inammissibilità per l'inosservanza del dovere della parte civile di depositare la predetta nota (...)».

Sulla base di queste considerazioni, sono state tratte due conclusioni:

«la domanda della parte civile tesa ad ottenere la rifusione delle spese sostenute nel processo svoltosi nelle forme di cui all'art. 444 cod. proc. pen., pur inserendosi in uno schema di giustizia contrattata, esula dall'accordo intercorso tra il pubblico ministero e l'imputato circa la pena da applicare in ordine ad un determinato reato»;

«l'entità della somma da liquidare a titolo di rifusione delle spese sostenute dalla parte civile non è compresa nei termini del patteggiamento e forma oggetto di una decisione che, pur se inserita nel rito alternativo, si connota per la sua autonomia (in quanto prescinde dalla pronunzia sul merito) e per la maggiore ampiezza dello spazio decisorio attribuito al giudice rispetto a quello inerente ai profili squisitamente penali».

E si è evidenziato che queste conclusioni sono in armonia con i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale che, nel ritenere incompatibile con il parametro costituzionale di cui all'art. 24 Cost. l'omessa previsione della condanna dell'imputato a rifondere le spese sostenute dal danneggiato, ha sottolineato l'irragionevolezza della preclusione ad una pronuncia su un oggetto "non così strettamente collegato alla sentenza di condanna per la responsabilità civile", come quello sulle "spese processuali sostenute dalla parte civile"[178].

Né potrebbe ritenersi che sia onere dell'imputato sollevare specifica eccezione sui contenuti della nota spese presentata dalla parte civile nel corso dell'udienza, qualora intenda contestare la loro entità: «innanzitutto tale considerazione può valere soltanto nelle ipotesi in cui la nota spese sia effettivamente presentata, ma non si attaglia alla generalità dei casi, atteso che, come già in precedenza accennato, il giudice, in presenza di una tempestiva domanda della parte civile, ben può procedere alla liquidazione delle spese da essa sostenute sulla base della tariffa professionale vigente anche in assenza della produzione della relativa nota (...). Inoltre la richiesta di applicazione concordata della pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. non vincola il giudice che ben può rigettarla, ove ritenga la pena non adeguata».

Si è anche evidenziato che la decisione sulle spese della parte civile interviene dopo che sia stata positivamente risolta la questione dell'applicabilità della pena concordata fra le parti essenziali del processo: «per tutte queste ragioni la previsione di un onere di contestazione gravante sull'imputato non appare coerente con la peculiarità del rito e con le sue scansioni procedimentali (...)».

In considerazione del fatto che la domanda di rifusione delle spese processuali avanzata dalla parte civile nell'ambito del processo instaurato nelle forme di cui all'art. 444 cod. proc. pen. è estranea all'accordo intercorrente tra il pubblico ministero e l'imputato, e che il giudice è tenuto a provvedere su tale richiesta, con una pronuncia avente natura formale e sostanziale di "condanna", soltanto dopo avere positivamente vagliato la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della pena concordata tra le parti essenziali del processo, si è affermato che «è indubbio che su questo capo della sentenza la parte interessata (imputato o parte civile) è legittimata a formulare i rilievi attinenti alla pertinenza delle voci di spesa, alla loro congruità, alla loro documentazione. Correlativamente sussiste il dovere del giudice di fornire, pur nell'ambito di una valutazione discrezionale, un'adeguata motivazione sulle singole voci riferibili all'attività svolta dal patrono di parte civile e sulla congruità delle somme liquidate, tenuto conto del numero e dell'importanza delle questioni trattate, della tipologia ed entità delle prestazioni difensive, avuto riguardo ai limiti minimi e massimi fissati dalla tariffa forense».

A tale riguardo, si è osservato che «l'osservanza di tale dovere, che costituisce il risvolto del potere discrezionale di disporre la compensazione, totale o parziale, delle spese sostenute dalla parte civile, è preordinata a consentire alle parti la doverosa verifica in ordine alla pertinenza delle singole voci di spesa e all'osservanza delle altre condizioni di legge nella liquidazione delle singole voci di spesa», e che «una determinazione globale, senza distinzione tra onorari, competenze e spese, non consente alle parti di verificare il rispetto dei limiti tariffari e di controllare l'eventuale onerosità, necessaria per consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e alle tariffe».

Si è, quindi, concluso che «la liquidazione delle spese in favore della parte civile non può essere effettuata con semplice riferimento alla determinazione fatta nella nota spese presentata in giudizio, in quanto non contiene alcuna valutazione sulla congruità degli emolumenti in relazione alle previsioni della tariffa professionale ed all'entità e pertinenza delle somme anticipate, sicché viene sottratta, di fatto, all'imputato qualsiasi possibilità di controllo sulla stessa». Ne consegue che il giudice, nel liquidare dette spese, «ha il dovere di fornire adeguata motivazione sia sull'individuazione delle voci riferibili effettivamente alle singole attività defensionali dedotte, che sulla congruità delle somme liquidate, avuto riguardo ai limiti minimi e massimi della tariffa forense, al numero e all'importanza delle questioni trattate e alla natura ed entità delle singole prestazioni difensive (...). Tale dovere di specifica motivazione è tanto più cogente qualora correlato all'entità della somma liquidata che superi sensibilmente la media per tipologie di procedimenti di analoga difficoltà».

Sulla base di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato il seguente principio di diritto:

«è ricorribile per cassazione la sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile, in particolare per quanto attiene alla legalità della somma liquidata e alla esistenza di una corretta motivazione sul punto, una volta che sulla relativa richiesta, proposta all'udienza di discussione, nulla sia stato eccepito».

PARTE II - LE ALTRE QUESTIONI --- SEZIONE I DIRITTO PENALE

  • frode fiscale
  • reato tributario

Cap. 12

La legislazione speciale

Sommario

1 I reati tributari. La natura giuridica della frode fiscale.

1. I reati tributari. La natura giuridica della frode fiscale.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni unite, con la sentenza del 28 ottobre 2010 - 19 gennaio 2011, n. 1235, Giordano ed altri, hanno anche affermato che:

Massima n. 248869

Il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, avendo il legislatore inteso rafforzare la tutela del bene giuridico protetto anticipandola al momento della commissione della condotta tipica.

Si è, in proposito, osservato che l'art. 1, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 74 del 2000 include nel "fine di evadere le imposte" anche il fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d'imposta, ed il conseguimento di tale fine è posto come scopo della condotta tipica, cioè come caratterizzante l'elemento intenzionale, non rilevando il suo conseguimento, in quanto il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, perché il legislatore ha inteso rafforzare in tal modo la tutela, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica.

SEZIONE II PROCEDURA PENALE

  • giudice
  • ricusazione

Cap. 13

I soggetti

Sommario

1 Il giudice. L'estensione dell'impugnazione ai coimputati che non hanno sollevato questione in tema di astensione o ricusazione.

1. Il giudice. L'estensione dell'impugnazione ai coimputati che non hanno sollevato questione in tema di astensione o ricusazione.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni unite, con la sentenza del 16 dicembre 2010 - 5 aprile 2011, n. 13626, Di Giacomantonio ed altri, hanno anche affermato che:

Massima n. 249300

In tema di astensione (e ricusazione), le questioni sollevate da una parte inerenti all'incompatibilità per precedenti funzioni svolte, hanno natura oggettiva e sono estensibili a tutti i coimputati, poiché le relative norme attuano i principi costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice, a garanzia del giusto processo. (La Suprema Corte ha precisato che le questioni concernenti l'efficacia e la conseguente utilizzabilità degli atti compiuti dal giudice prima della dichiarazione di astensione o ricusazione sono deducibili in ogni stato e grado del processo).

Un risalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità riteneva che il riconoscimento, a seguito di ricusazione (od astensione), di una causa di incompatibilità del magistrato non producesse effetti nei confronti dei coimputati che non l'avessero invocata, non determinando perciò per questi ultimi l'inefficacia - eventualmente dichiarata nel provvedimento di accoglimento della ricusazione - degli atti in precedenza compiuti dal giudice ricusato[179]; ne deriverebbe che la parte privata che non abbia presentato l'istanza di ricusazione, atto di natura personalissima, non sarebbe legittimata nemmeno a partecipare alla relativa udienza di discussione[180].

Altro e più recente indirizzo ha ritenuto che le parti processuali, che pure non abbiano proposto dichiarazione di ricusazione, hanno diritto di intervenire alla relativa udienza di discussione, fissata per iniziativa di altra parte, perché hanno comunque interesse alla verifica, in effettivo contraddittorio, della condizione di imparzialità e di effettiva terzietà del giudice ricusato[181].

Le Sezioni unite hanno condiviso il più recente indirizzo, «tenuto conto che, come già detto, le norme sulla astensione e ricusazione tendono a dare attuazione ai principi costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice e ad assicurare il giusto processo, e che, pertanto, le relative questioni sollevate da una parte hanno natura oggettiva e sono estensibili a tutti i coimputati, come del resto rilevato dalla ordinanza di rimessione», evidenziando, peraltro, che nel caso di specie si trattava di un provvedimento di autorizzazione alla astensione del giudice per incompatibilità per precedenti funzioni svolte, «riferibile, pertanto, a tutti gli imputati», e rilevando, inoltre, che «le questioni concernenti la efficacia e la conseguente utilizzabilità degli atti compiuti dal giudice prima della dichiarazione di astensione o ricusazione sono deducibili in ogni stato e grado del processo».

  • domicilio

Cap. 14

Gli atti

Sommario

1 La notificazione al domiciliatario non reperito.

1. La notificazione al domiciliatario non reperito.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni Unite, con la sentenza del 28 aprile - 19 luglio 2011, n. 28451, Pedicone, hanno anche affermato che:

Massima n. 250120

La notificazione di un atto all'imputato, che non sia possibile presso il domicilio eletto per il mancato reperimento, nonostante l'assunzione di informazioni sul posto e presso l'ufficio anagrafe, del domiciliatario, che non risulti risiedere o abitare in quel Comune, deve essere eseguita mediante consegna al difensore e non mediante deposito nella casa comunale con i correlati avvisi, perché detta situazione si risolve in un caso di inidoneità dell'elezione di domicilio. (La Corte ha precisato che allo stesso modo occorre procedere nel caso in cui il domiciliatario rifiuti di ricevere l'atto e, ove vi sia invece dichiarazione di domicilio, nel caso in cui al domicilio dichiarato non sia reperito l'imputato né vi siano altre persone idonee a ricevere).

Le Sezioni Unite hanno dovuto esaminare, prima della questione controversa ad esse devoluta, una pregiudiziale eccezione di nullità della notifica eseguita presso il domiciliatario, senza l'osservanza delle forme del deposito presso la casa comunale e degli avvisi previsti dall'art. 157, comma 8, c.p.p.

Anche in argomento è stato enucleato un contrasto di giurisprudenza:

(a) un orientamento risalente[182] aveva affermato che, quando il domicilio dichiarato sia stato individuato, ma non vi sia stato reperito l'imputato o il domiciliatario da lui nominato, ne' vi siano persone idonee a ricevere la copia dell'atto, la notificazione deve avvenire mediante deposito nella casa comunale, ai sensi dell'art. 157 c.p.p., comma 8;

(b) un orientamento più recente riteneva, invece, che il mancato reperimento dell'imputato presso il domicilio dichiarato ovvero del domiciliatario da lui indicato, nel caso in cui le informazioni raccolte nel vicinato non diano esito alcuno, si sostanzia in una situazione di inidoneità o insufficienza della dichiarazione, rendendo così legittima la notifica mediante consegna al difensore, senza che sia consentito dar corso agli adempimenti di cui all'art. 157, comma 8, c.p.p.[183].

Le Sezioni Unite hanno ritenuto condivisibile l'orientamento più recente, osservando che «il sistema delineato dagli artt. 161, 162, 163 e 164, c.p.p., per le notificazioni da eseguirsi presso il domicilio dichiarato o eletto ovvero mediante consegna dell'atto al domiciliatario, si palesa quale complesso di disposizioni esaustivo, ai fini del perfezionamento della notificazione, e si pone come alternativo a quello previsto dall'art. 157 c.p.p., per la prima notificazione all'imputato non detenuto; sistema che non può essere contaminato con l'applicazione di disposizioni riguardanti le ipotesi della prima notificazione, che risultino incompatibili con esso».

Tale sistema è fondato sul dovere dell'imputato, che ne sia stato adeguatamente edotto, di dichiarare o eleggere domicilio e di comunicare alla autorità giudiziaria ogni successiva variazione ai sensi dell'art. 161, commi 1 e 2, c.p.p.: «l'art. 163 c.p.p., secondo il quale "per le notificazioni eseguite nel domicilio dichiarato o eletto a norma degli artt. 161 e 162 si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell'art. 157", per la clausola di salvaguardia in esso contenuta, attiene alla individuazione dei soggetti potenziali consegnatari dell'atto e non al luogo o alle modalità della notificazione. Infatti, le modalità di esecuzione della notifica stabilite dall'art. 157 c.p.p., comma 8, per il testuale riferimento della norma, sono consequenziali al verificarsi delle situazioni ipotizzate dal comma 7 del medesimo articolo (mancanza, inidoneità, rifiuto di ricevere l'atto con conseguente obbligo di effettuare nuove ricerche dell'imputato); situazioni di per sè preclusive della possibilità di notificazione presso il domicilio dichiarato o eletto ovvero presso il domiciliatario e idonee ad individuare l'ipotesi prevista dall'art. 161 c.p.p., comma 4».

L'impossibilità di procedere alla notifica nelle mani della persona designata quale domiciliatario, per il rifiuto di ricevere l'atto ovvero per il mancato reperimento del domiciliatario o dell'imputato stesso nel luogo di dichiarazione o elezione di domicilio o di altre persone idonee, integra l'ipotesi della impossibilità della notificazione ai sensi dell'art. 161 c.p.p., comma 4, sicché non è consentito, in tali casi, procedere con le forme previste dall'art. 157 c.p.p., comma 8: «pertanto, nell'ipotesi in cui la notificazione presso il domicilio dichiarato o eletto risulti impossibile per una delle cause previste dall'art. 157 c.p.p., comma 7, la notificazione deve essere eseguita ai sensi dell'art. 161 c.p.p., comma 4, mentre è preclusa la possibilità di procedere con le forme previste dall'art. 157 c.p.p., comma 8».

  • politica di sicurezza e di difesa comune

Cap. 15

Le misure precautelari e cautelari

Sommario

1 Le misure cautelari personali. Le condizioni di applicabilità. - 1.1 Segue. Incompatibilità tra pericolo di recidiva e possibile futura sospensione condizionale della pena irroganda. - 1.2 Segue. Le impugnazioni in materia de libertate: la non applicabilità della previsione generale della notificazione dell'impugnazione «alle altre parti». - 1.3 Segue. L'interesse ad impugnare dell'indagato/imputato in relazione a misure medio tempore revocate o divenute inefficaci.

1. Le misure cautelari personali. Le condizioni di applicabilità.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni unite, con la sentenza del 28 ottobre 2010 - 19 gennaio 2011, n. 1235, Giordano ed altri, hanno anche affermato che:

Massima n. 248867

Non può essere adottata o mantenuta una misura cautelare se sussistono le condizioni che rendono probabile l'applicabilità dell'indulto alla pena che si ritiene possa essere irrogata.

1.1. Segue. Incompatibilità tra pericolo di recidiva e possibile futura sospensione condizionale della pena irroganda.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni unite, con la sentenza del 28 ottobre 2010 - 19 gennaio 2011, n. 1235, Giordano ed altri, hanno anche affermato che:

Massima n. 248866

La ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione del reato (art. 274, comma primo, lett. c), cod. proc. pen.) esime il giudice dal dovere di motivare sulla prognosi relativa alla concessione della sospensione condizionale della pena.

Si è, in proposito, osservato che la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena è indefettibilmente correlata ad una favorevole previsione in ordine alle future condotte del condannato, senz'altro incompatibile con il giudizio di sussistenza del pericolo di recidiva.

1.2. Segue. Le impugnazioni in materia de libertate: la non applicabilità della previsione generale della notificazione dell'impugnazione «alle altre parti».

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni unite, con la sentenza del 28 ottobre 2010 - 19 gennaio 2011, n. 1235, Giordano ed altri, hanno anche affermato che:

Massima n. 248868

La norma che prevede la notifica dell'avvenuta impugnazione alle altre parti (art. 584 cod. proc. pen.) non trova applicazione nell'ambito dei procedimenti de libertate, dato che essa è funzionale alla facoltà di proposizione dell'appello incidentale, estraneo al sistema delle impugnazioni in materia cautelare.

Si è, in proposito, rilevato che la notifica de qua (prevista dall'art. 584 cod. proc. pen., il quale non commina, peraltro, sanzioni in caso di violazione dell'obbligo, che, pertanto, comporta unicamente la mancata decorrenza del termine per la proposizione, da parte del soggetto interessato, dell'eventuale appello incidentale), proprio perché funzionale unicamente alla presentazione dell'appello incidentale (come si desume dall'art. 595, comma primo, cod. proc. pen.), risulta estranea alla natura ed alla struttura delle impugnazioni dei provvedimenti in materia di misure cautelari, le quali rivestono una propria fisionomia e sono soggette ad una speciale disciplina, diversa da quella delle impugnazioni ordinarie, soprattutto con riferimento alla brevità dei termini processuali previsti ed alle garanzie apprestate da particolari disposizioni (come, ad es., l'art. 310, comma secondo, cod. proc. pen.).

1.3. Segue. L'interesse ad impugnare dell'indagato/imputato in relazione a misure medio tempore revocate o divenute inefficaci.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni unite, con la sentenza del 16 dicembre 2010 - 1° marzo 2011, n. 7931, Testini, hanno anche affermato che:

Massima n. 249002

In tema di ricorso avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare custodiale nelle more revocata o divenuta inefficace, perchè possa ritenersi comunque sussistente l'interesse del ricorrente a coltivare l'impugnazione in riferimento a una futura utilizzazione dell'eventuale pronunzia favorevole ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, è necessario che la circostanza formi oggetto di specifica e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti il pregiudizio che deriverebbe dal mancato conseguimento della stessa, formulata personalmente dall'interessato.

Si è, in proposito, osservato che la pronuncia inoppugnabile di annullamento della misura cautelare costituisce una decisione idonea a fondare il diritto dell'indagato alla riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.), ancorché soltanto con riferimento alla custodia cautelare, carceraria o domiciliare[184], e che il raccordo tra interesse all'impugnazione e diritto alla riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.) opera limitatamente alla deduzione dell'insussistenza delle condizioni genetiche o speciali previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., con esclusione delle esigenze cautelari[185]: «in linea di principio può quindi sussistere, sotto il profilo di cui al cit. art. 314, l'interesse dell'indagato a una pronuncia sul ricorso attinente alla legittimità della custodia cautelare, in punto di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o, più in generale, dei presupposti per poterli porre a base della sua applicazione[186], quando la stessa non sia più in atto».

La giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, precisato che anche in caso di contestazione della sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari, necessita ugualmente la verifica dell'attualità e della concretezza dell'interesse, richiedendo l'art. 568, comma 4, cod. proc. pen., come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza (e la persistenza al momento della decisione) di un interesse diretto a rimuovere un effettivo pregiudizio derivato alla parte dal provvedimento impugnato[187]: «la regola contenuta nel citato art. 568 è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, in forza del suo carattere generale, implicando che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame; né un tale interesse può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato, priva cioè di incidenza pratica sull'economia del procedimento».

Ciò premesso, si è osservato che un'applicazione pressoché automatica dei principi posti dalla citata giurisprudenza delle Sezioni Unite sulla persistenza dell'interesse alla pronuncia presenta il rischio di accogliere una nozione di "interesse" troppo ampia, che finisce per presumere sempre e comunque che l'indagato agisca anche all'utile fine di precostituirsi il titolo in funzione di una futura richiesta di un'equa riparazione per l'ingiusta detenzione ai sensi della disposizione contenuta nell'art. 314, comma 2, cod. proc. pen.: «oltre, infatti, alla ipotesi di palese insussistenza dell'interesse concreto ed attuale, contemplata nel comma 4 del citato art. 314 (che esclude che la riparazione sia dovuta qualora le limitazioni conseguenti all'applicazione della custodia cautelare siano sofferte anche in forza di altro titolo), bisogna in generale considerare che il procedimento per la riparazione dei danni da ingiusta detenzione non può comunque essere attivato prima che vi sia stata una pronuncia conclusiva del procedimento principale nei confronti dell'accusato (art. 315 cod. proc. pen.)».

Se ne è desunto che «l'interesse a coltivare il ricorso in materia de libertate in riferimento a una futura utilizzazione della pronuncia in sede di riparazione per ingiusta detenzione dovrà essere oggetto di una specifica e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti il pregiudizio che deriverebbe dalla omissione della pronuncia medesima».

Si è anche precisato che, come si evince dal coordinato disposto dell'art. 315, comma terzo, cod. proc. pen. e dell'art. 645, comma primo, cod. proc. pen., la domanda di riparazione è atto riservato personalmente alla parte: conseguentemente, «occorre che l'intenzione della sua futura presentazione sia con certezza riconducibile alla sua volontà»[188].

  • esecuzione della sentenza

Cap. 16

La sentenza

Sommario

1 Le formule di proscioglimento. La sentenza di assoluzione.

1. Le formule di proscioglimento. La sentenza di assoluzione.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni Unite, con la sentenza del 25 maggio - 20 ottobre 2011, n. 37954, Orlando, hanno anche affermato che:

Massima n. 250975

Nel caso in cui manchi un elemento costitutivo, di natura oggettiva, del reato contestato, l'assoluzione dell'imputato va deliberata con la formula «il fatto non sussiste», non con quella «il fatto non è previsto dalla legge come reato», che riguarda la diversa ipotesi in cui manchi una qualsiasi norma penale cui ricondurre il fatto imputato. (Fattispecie nella quale al ricorrente era contestata l'appropriazione di denaro altrui sull'erroneo presupposto che le somme da lui trattenute come datore di lavoro, sullo stipendio della lavoratrice, dovessero per ciò solo considerarsi trasferite in proprietà di questa: la Suprema Corte ha ritenuto che difettasse l'elemento dell'altruità del bene, costitutivo della fattispecie astratta di appropriazione indebita, ed ha conseguentemente dichiarato che il fatto reato contestato non sussiste).

Ribadendo un proprio precedente orientamento[189], le Sezioni Unite hanno evidenziato che la formula "il fatto non è previsto dalla legge come reato" dipende «dal tenore formale dell'addebito, dalla circostanza cioè che con esso si assume la riconducibilità della fattispecie concreta ad una fattispecie astratta mai esistita, abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima», laddove, quando il fatto storico, così come ricostruito, non è idoneo ad essere assunto nella fattispecie astratta, occorre adottare la formula "il fatto non sussiste": «se, dunque, al ricorrente fosse stato formalmente addebitato d'essersi appropriato denaro proprio, si sarebbe dovuto dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato. Poiché gli é stato contestato d'essersi appropriato denaro altrui ("di pertinenza della dipendente", recita il capo d'imputazione), ma sull'erroneo presupposto che le somme da lui trattenute, come datore di lavoro, dallo stipendio della lavoratrice dovessero per ciò solo considerarsi trasferite in proprietà di questa, deve ritenersi che fa difetto nella fattispecie concreta l'elemento dell'altruità del bene, costitutivo della fattispecie astratta di appropriazione indebita».

  • errore giudiziario

Cap. 17

Le impugnazioni

Sommario

1 Il ricorso per cassazione. L'interesse ad impugnare del P.M.: fattispecie. - 1.1 Segue. Il termine per impugnare la sentenza di non luogo a procedere resa all'esito dell'udienza preliminare. - 1.2 Segue. La nozione di «errore di fatto» rilevante ai fini dell'ammissibilità del ricorso straordinario.

1. Il ricorso per cassazione. L'interesse ad impugnare del P.M.: fattispecie.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni Unite, con la sentenza del 25 maggio - 13 luglio 2011, n. 27610, P.G. in proc. Marano, hanno anche affermato che:

Massima n. 250200

È inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso del P.M. avverso la sentenza di estinzione del reato per remissione di querela - pronunciata ancorché il querelato non sia comparso in udienza e non sia ritualmente avvisato della remissione o, comunque, posto in grado di conoscerla - qualora il querelato, pur avendo ricevuto rituale notifica di detta declaratoria, non abbia proposto, a sua volta, impugnazione - azionando il diritto di ricusa, ex art. 155 comma primo, cod. pen., al fine di rendere inefficace la remissione - in quanto, in tal caso, l'assenza di ricusa produce, ex art. 152 cod. pen., l'effetto estintivo del reato, con conseguente venir meno dell'interesse del P.M. all'annullamento della sentenza impugnata, ormai, produttiva di un effetto consolidatosi.

Dall'analisi della concreta fattispecie risultava che il querelato, il giorno della remissione, coincidente con la pronuncia della sentenza resa immediatamente senza l'apertura del dibattimento e senza la sua presenza, non era venuto a conoscenza di quanto deciso dal querelante ne' era stato posto in grado di manifestare la sua eventuale volontà di ricusa: «deve quindi riconoscersi la fondatezza della censura mossa nel ricorso del Procuratore generale, che ha rilevato una violazione di legge a carico di una sentenza di improcedibilità per remissione di querela emessa senza che il querelato fosse stato messo in grado di opporsi a un simile esito del processo. Tale violazione di legge, al momento della proposizione del ricorso, era produttiva di potenziali effetti lesivi della posizione del querelato, poiché, non essendo ancora scaduti i termini di impugnazione, il querelato avrebbe potuto a sua volta ricorrere contro la sentenza esprimendo una volontà di ricusa della remissione della querela. Se spettava ancora al querelato l'esercizio della facoltà di manifestare la sua volontà di ricusa, era dovere e compito del P.m. censurare la declaratoria di improcedibilità pronunciata in violazione di legge; sollecitando così una pronuncia non meramente intesa alla astratta affermazione del diritto ma diretta a ottenere un risultato pratico corrispondente a una posizione giuridica rilevante; il tutto conformemente a quanto più volte affermate dalla giurisprudenza delle Sezioni unite in tema di interesse del pubblico ministero alla impugnazione»[190].

Le Sezioni Unite hanno, peraltro, evidenziato che, successivamente al ricorso del Procuratore generale, il querelato - cui la sentenza è stata ritualmente notificata - non ha proposto ricorso per far valere la lesione del suo diritto di esprimere la sua volontà di ricusa ai sensi dell'art. 155 cod. pen., non ha cioè impedito alla remissione, pur essendo ancora nei termini, di perdere efficacia: «consegue che, in assenza di ricusa espressa o tacita da parte del querelato, la remissione della querela da parte della persona offesa ha ormai prodotto, a norma dell'art. 152 cod. pen., l'effetto estintivo del reato; sicché il P.g. ricorrente non conserva più interesse all'annullamento della sentenza impugnata, che, se pure errata nel momento in cui è stata emanata, ha prodotto un effetto ormai consolidatosi. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per fatti sopravvenuti alla sua proposizione, a norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. a)».

1.1. Segue. Il termine per impugnare la sentenza di non luogo a procedere resa all'esito dell'udienza preliminare.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni Unite, con la sentenza del 27 gennaio - 26 maggio 2011, n. 21039, P.M. in proc. Loy, hanno anche affermato che:

Massima n. 249670

Il termine di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, pronunciata all'esito dell'udienza preliminare, è quello di quindici giorni previsto dall'art. 585, comma primo, lett. a), cod. proc. pen. per i provvedimenti emessi in seguito a procedimento in camera di consiglio e lo stesso decorre, per le parti presenti, dalla lettura in udienza della sentenza contestualmente motivata ovvero dalla scadenza del termine legale di trenta giorni, in caso di motivazione differita e depositata entro tale termine, rimanendo irrilevante l'eventualità che il giudice abbia irritualmente stabilito un termine più ampio per il deposito della suddetta motivazione. (In motivazione la Corte ha precisato che laddove si verifichi tale eventualità deve essere comunicato o notificato alle parti legittimate all'impugnazione il relativo avviso di deposito e che da tale comunicazione o notificazione decorre il termine per impugnare).

Nel caso in esame, il Giudice dell'udienza preliminare, nel dare immediata lettura del dispositivo della sentenza, aveva indicato, richiamando espressamente l'art. 544, comma 3, c.p.p., il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione; la sentenza, completa di motivazione, era stata depositata entro il termine indicato; l'avviso di deposito della sentenza era stato comunicato il giorno successivo al Procuratore generale presso la Corte d'appello e notificato all'imputato contumace in data 8 maggio 2009; nessuna comunicazione e notificazione dell'avviso era stata fatta rispettivamente al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ed al difensore, presenti alla lettura del dispositivo, essendo stato puntualmente osservato il preannunciato termine di deposito; il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso vale a dire nei quarantacinque giorni successivi alla scadenza del termine determinato dal giudice per il deposito della sentenza.

Le Sezioni Unite hanno osservato che la procedura seguita, mutuata da quella prevista per la redazione e l'impugnazione delle sentenze dibattimentali, non può ritenersi regolare, ma hanno, tuttavia, escluso che le modalità prescelte per l'esplicitazione della motivazione della decisione, pur non conformi - come si preciserà - all'ortodossia procedurale, abbiano inciso negativamente sulla tempestività del ricorso.

Si è preliminarmente precisato che:

- l'art. 424 cod. proc. pen. prevede che il giudice, all'esito dell'udienza preliminare, ove ritenga che non debba disporsi il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere (comma 1);

- di tale provvedimento, completo - di norma - in ogni sua parte (motivazione e dispositivo), deve dare immediata lettura in udienza, il che equivale a notificazione per le parti presenti (comma 2);

- ove non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi, il giudice deve provvedervi non oltre il trentesimo giorno dalla lettura del solo dispositivo (comma 4).

Ciò premesso, si è osservato che «non è consentito al giudice dell'udienza preliminare fissare un termine più ampio per il deposito della motivazione della sentenza:

il richiamato art. 424 cod. proc. pen., infatti, non prevede tale facoltà. Nè può farsi leva sulla diversa disposizione di cui all'art. 544 c.p.p., comma 3, riferibile alla redazione delle sole sentenze dibattimentali». Non è stato, in proposito, condiviso l'orientamento per il quale l'art. 544, comma 3, c.p.p., sarebbe applicabile anche alla redazione della sentenza di non luogo a procedere, perché non conterrebbe "alcuno specifico riferimento al giudizio", avrebbe una portata di carattere generale e "non disciplin(erebbe) la materia relativa ai termini del deposito delle sentenze con modalità incompatibili con quelle della camera di consiglio"[191], dovendosi, in contrario, evidenziare che «l'art. 544 cod. proc. pen., inserito nel Capo 3, Titolo 3, Libro 7, si riferisce specificamente alla redazione della sentenza pronunciata in giudizio e non è, pertanto, estensibile alla sentenza camerale di non luogo a procedere, per la quale l'art. 424 cod. proc. pen. prevede la specifica disciplina innanzi esposta. Appare altresì arduo, sotto il profilo ermeneutico, volere individuare nel solo comma 3 dell'art. 544 cod. proc. pen. una disposizione di carattere generale, che sì inserirebbe tra le previsioni contenute negli altri commi, tutte univocamente riferibili alla sola sentenza dibattimentale. Un'interpretazione sistematica e coerente dell'intera norma conduce, invece, a non differenziare il campo operativo delle varie previsioni in essa contenute».

Si è, conseguentemente, ritenuto che la sentenza di non luogo a procedere deve essere impugnata, a pena di decadenza, nel termine di quindici giorni, ai sensi dell'art. 585, comma 1, lett. a), c.p.p., che disciplina in via generale il termine per l'impugnazione dei provvedimenti emessi in seguito a procedimento in camera di consiglio, tra i quali rientra certamente la detta pronuncia: «non rileva, ai fini dell'ampiezza del termine per impugnare, la circostanza che il Giudice dell'udienza preliminare, nell'adottare la decisione, se ne riservi la motivazione nel termine previsto dall'art. 424 c.p.p., comma 4, o addirittura, con iniziativa irrituale, entro un maggior termine da lui espressamente determinato, incidendo tale evenienza, come si dirà, esclusivamente sulla decorrenza del termine d'impugnazione. Il termine per impugnare la sentenza di non luogo a procedere, in sostanza, non rimane coinvolto, a differenza di quello previsto per l'impugnazione delle sentenze dibattimentali, dall'eventuale utilizzazione da parte del giudice del regime della motivazione differita, ma è e rimane sempre di quindici giorni».

Detto termine, ai sensi dell'art. 585, comma 2, c.p.p. (norma che regola la decorrenza dei termini per l'impugnazione non solo delle sentenze dibattimentali ma di ogni tipo di provvedimento del giudice), decorre, ove il dispositivo e la contestuale motivazione siano letti in udienza, da tale momento, secondo la previsione di cui alla lett. b), equivalendo la lettura a notificazione per le patti presenti o presunte tali; diversamente, nel caso in cui il Giudice dell'udienza preliminare, nel dare lettura in udienza - alla presenza delle parti - del solo dispositivo della sentenza, opti per il regime della motivazione differita e questa sia depositata, così come previsto dall'art. 424, comma 4, c.p.p., nei trenta giorni successivi alla pronuncia, «è dalla scadenza di tale termine legale, non prorogabile, che deve farsi decorrere in via automatica, ai sensi dell'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c), prima parte, il termine iniziale per proporre impugnazione, giacché, in tal caso, per le parti interessate e presenti in udienza opera una forma di presunzione legale di conoscenza e non deve alle stesse essere comunicato o notificato l'avviso di deposito della motivazione».

Si è precisato che la necessità della comunicazione o della notificazione di tale avviso sussiste allorché il giudice non rispetti il termine, meramente ordinatorio, previsto dalla legge per il deposito della motivazione differita, «e ciò al fine di garantire l'effettiva conoscenza del provvedimento, con la conseguenza che il termine d'impugnazione deve decorrere, in ossequio al disposto dell'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c), ultima parte, dal giorno in cui è stata eseguita detta comunicazione o notificazione. Coerentemente con la ratio che informa il sistema delle impugnazioni, la comunicazione o la notifica dell'avviso di deposito va fatta, a norma dell'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. d), al Procuratore generale presso la Corte d'appello, che altrimenti non avrebbe la possibilità di proporre impugnazione».

Ad analoga conclusione si è ritenuto che debba pervenirsi nell'ipotesi in cui il Giudice dell'udienza preliminare abbia irritualmente indicato, come nel caso di specie, un termine per il deposito della motivazione della sentenza superiore a quello massimo di trenta giorni previsto dall'art. 424 cod. proc. pen. ed abbia osservato tale termine preannunciato. E' stato, infatti, ritenuto non condivisibile l'orientamento per il quale, in questo caso, non vi sarebbe "ragione di condizionare all'avviso di deposito la decorrenza del termine per l'impugnazione", in considerazione del fatto che le parti interessate, presenti alla lettura del dispositivo in udienza, sono poste comunque al corrente del termine più ampio fissato per il deposito della sentenza, dalla cui scadenza, se rispettato, decorrerebbe quello per impugnare[192], in quanto «la disposizione di cui all'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c), nella parte in cui stabilisce che il termine d'impugnazione decorre dalla scadenza di quello "determinato dal giudice per il deposito della sentenza", è chiaramente riferibile alle sole sentenze dibattimentali, per le quali soltanto, come si è detto, opera la previsione di cui all'art. 544 c.p.p., comma 3. La riserva di motivazione assunta secondo modalità non conformi al modello legale è illegittima, è da considerarsi, pertanto, priva di qualunque valore e non può mutare la natura del provvedimento deliberato dal G.u.p, ne' il regime che regola la relativa impugnazione, quanto al termine per proporla e alla sua decorrenza»[193].

In virtù di queste considerazioni, sono stati conclusivamente affermati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto:

«il termine di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, pronunciata all'esito dell'udienza preliminare, è quello di quindici giorni previsto dall'art. 585 c.p.p., comma 1, lett. a, per i provvedimenti emessi in seguito a procedimento in camera di consiglio»;

«detto termine decorre, per le parti presenti, dalla lettura in udienza della sentenza contestualmente motivata o dalla scadenza del termine legale di trenta giorni, in caso di motivazione differita e depositata entro tale termine»;

«non è consentito al Giudice dell'udienza preliminare fissare, ai sensi dell'art. 544 c.p.p., comma 3, un termine più ampio per il deposito della motivazione della sentenza di non luogo a procedere»;

«ove ciò si verifichi, deve essere comunicato o notificato alle parti legittimate all'impugnazione il relativo avviso di deposito e da tale comunicazione o notificazione decorre il termine per impugnare».

In applicazione di essi, considerato che, nel caso in esame, il documentosentenza risultava essere stato depositato non nel termine legale di trenta giorni dalla deliberazione, bensì in quello più ampio irritualmente determinato dal G.u.p, si è ritenuto che dovesse darsi corso alla comunicazione ed alla notificazione del relativo avviso di deposito a tutte le parti processuali interessate, incombenti questi che non risultavano essere stati eseguiti per il Procuratore della Repubblica e per il difensore dell'imputato, con la conseguenza che la decorrenza del termine per l'impugnazione da parte del primo, in difetto della relativa comunicazione, non ha avuto mai inizio ed il suo ricorso è stato, pertanto, ritenuto tempestivo.

1.2. Segue. La nozione di «errore di fatto» rilevante ai fini dell'ammissibilità del ricorso straordinario.

Chiamate a decidere in merito ad un ricorso straordinario che prospettava la sussistenza di un errore di fatto in una propria precedente decisione, le Sezioni Unite, con la sentenza del 14 luglio - 17 ottobre 2011, n. 37705, Corsini, hanno anche affermato che:

Massime nn. 250527 - 8

E' ammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto sulla prescrizione del reato, a condizione che la statuizione sul punto sia effettivamente l'esclusiva conseguenza di un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco, e non anche quando il preteso errore sulla causa estintiva derivi da una qualsiasi valutazione giuridica o di apprezzamento di fatto.

In tema di ricorso straordinario, qualora la causa dell'errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall'orizzonte del rimedio previsto dall'art. 625-bis cod. proc. pen.

Le Sezioni Unite hanno ribadito il proprio precedente orientamento sui limiti della cognizione del giudice di legittimità in materia di ricorso ex art. 625-bis cod. proc. pen., nel senso che «l'errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del ricorso straordinario consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall'influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall'inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso»[194].

Si è, peraltro, precisato che «qualora la causa dell'errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall'orizzonte del rimedio straordinario».

Con specifico riferimento all'errore di percezione rifluente sull'accertamento della prescrizione, si è dato atto dell'esistenza di due orientamenti, il primo dei quali, più restrittivo, ritiene che la mancata rilevazione della prescrizione del reato in sede di legittimità non è riconducibile alla nozione di errore di fatto accolta dall'art. 625-bis cod. proc. pen., e va, di conseguenza, esclusa l'utilizzabilità del rimedio straordinario allo scopo di far dichiarare l'estinzione del reato[195].

Le Sezioni Unite hanno aderito al contrario orientamento[196], a parere del quale non possono essere escluse in radice la configurabilità e la rilevanza dell'errore di fatto sulla prescrizione, «purché la statuizione sul punto sia l'effetto esclusivo di un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco, in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall'influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall'inesatta percezione delle risultanze processuali, che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata in mancanza dell'errore. Va invece ribadita l'inammissibilità del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. tutte le volte che il preteso errore derivi da una qualsiasi valutazione giuridica o di apprezzamento di fatto».

  • sicurezza e sorveglianza
  • concorso nel reato
  • fallimento

Cap. 18

L'esecuzione delle pene

Sommario

1 Concorso formale e reato continuato in fase esecutiva. Pluralità di condanne per reati di bancarotta relativa al medesimo fallimento. - 2 L'operatività del c.d. «giudicato esecutivo» nel procedimento di sorveglianza.

1. Concorso formale e reato continuato in fase esecutiva. Pluralità di condanne per reati di bancarotta relativa al medesimo fallimento.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni Unite, con la sentenza del 27 gennaio - 26 maggio 2011, n. 21039, P.M. in proc. Loy, hanno anche affermato che:

Massima n. 249669

Il giudice dell'esecuzione è tenuto ad applicare la disciplina speciale sul concorso di reati prevista dall'art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., nel caso in cui nei confronti di uno stesso soggetto siano state emesse, in procedimenti distinti, ma relativi alla stessa procedura concorsuale, più sentenze irrevocabili per fatti diversi di bancarotta, sempre che il giudice della cognizione non abbia già escluso la unificazione quoad poenam dei suddetti reati.

Con riguardo alla possibilità di applicare l'art. 671 cod. proc. pen. al caso in cui contro la stessa persona siano state pronunciate, in procedimenti distinti, più sentenze irrevocabili per fatti diversi di bancarotta riguardanti la medesima procedura concorsuale, si è, in particolare, osservato che «detta norma menziona testualmente la "disciplina del reato continuato" ed ha carattere eccezionale, nel senso che fa eccezione alla regola generale dell'intangibilità del giudicato, con l'effetto che non può essere applicata oltre i casi in essa previsti. L'operazione ermeneutica, però, non può rimanere negli angusti limiti del dato testuale offerto dalla citata norma, ma deve essere di più ampio respiro, nella prospettiva di non vanificare la finalità che la norma persegue e di non determinare irragionevoli disparità di trattamento, che legittimerebbero dubbi di costituzionalità, in riferimento all'art. 3 Cost.. Tale operazione deve tenere conto, innanzi tutto, che il vigente codice di rito, favorendo la separazione delle regiudicande, tende a "recuperare in executivis quelle occasioni di riunificazione legislativa dei fatti di reato e di cumulo giuridico tra le pene che non siano state fruite in sede di cognizione"; deve, inoltre, considerare che la previsione di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, configura, come si è detto, una particolare ipotesi di continuazione, cd. "continuazione fallimentare"».

Ciò premesso, si è conclusivamente ritenuto che «che non vi sono ostacoli insuperabili per applicare in sede esecutiva, ai sensi dell'art. 671 cod. proc. pen., la peculiare disciplina di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, (sostitutiva di quella di cui all'art. 81 cod. pen.) nel caso in cui nei confronti di uno stesso soggetto siano state emesse, in procedimenti distinti e relativi a un unico fallimento, più sentenze irrevocabili per fatti diversi di bancarotta, sempre che il giudice della cognizione non abbia già escluso la unificazione quoad poenam dei detti reati».

2. L'operatività del c.d. «giudicato esecutivo» nel procedimento di sorveglianza.

Chiamate a decidere in merito ad una diversa questione controversa, le Sezioni Unite, con ordinanza del 28 aprile - 15 settembre 2011, n. 34091, Servadei, hanno anche affermato che:

Massima n. 250350

Nel procedimento di sorveglianza in materia di misure di sicurezza, la preclusione del cosiddetto giudicato esecutivo opera rebus sic stantibus e, pertanto, non impedisce, una volta esauriti gli effetti della precedente decisione, la rivalutazione della pericolosità del soggetto e la conseguente individuazione di un'eventuale nuova misura da applicare sulla base di ulteriori elementi non valutati o perché emersi successivamente all'adozione del provvedimento divenuto definitivo ovvero, se preesistenti, da questo non presi in considerazione.

Chiamate a stabilire "se la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata in conseguenza della dichiarazione di abitualità nel reato possa essere sostituita, per sopravvenuta infermità psichica, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia", le Sezioni Unite hanno ritenuto preliminare all'esame della questione controversa la verifica della sussistenza o meno, nel caso di specie, della preclusione del giudicato, che, a parere del Procuratore generale, sarebbe stata determinata dalla precedente sostituzione, ritenuta legittima con sentenza della Suprema Corte, della libertà vigilata, originariamente applicata al ricorrente, con il ricovero in casa di cura e custodia.

Si è, in proposito, premesso che «il procedimento di sorveglianza è indubbiamente assoggettato alle regole proprie di ogni altro procedimento giurisdizionale, ivi compresa quella che disciplina la definitività dei provvedimenti in caso di esaurimento dell'iter delle impugnazioni ovvero di mancata impugnazione da parte dei soggetti legittimati. In sostanza, il principio del ne bis in idem trova applicazione, in linea generale, anche in tale procedimento, in forza del richiamo che l'art. 678 cod. proc. pen. fa al precedente art. 666, il cui comma 2 sancisce l'inammissibilità della successiva richiesta, se fondata sui medesimi presupposti di fatto e sulle stesse ragioni di diritto di quella precedente, già rigettata con provvedimento non più impugnabile».

Tuttavia, avuto riguardo alla peculiarità del procedimento di sorveglianza in tema di misure di sicurezza, le quali sono ancorate ad una realtà "in divenire", si è ritenuto che «la preclusione del giudicato è attenuata rispetto all'irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali, nel senso che opera rebus sic stantibus e non impedisce la rivalutazione della pericolosità e dell'adeguatezza della misura, alla luce di nuovi elementi sopravvenuti ovvero preesistenti e non considerati, che offrano una mutata piattaforma di valutazione ed abbiano comunque una diretta incidenza sulla posizione della persona interessata, fino a coinvolgere diritti fondamentali della medesima».

Nel caso di specie, la misura di sicurezza non detentiva applicata al ricorrente nel giugno 2006 trovava titolo nella dichiarazione di delinquenza abituale ex art. 103 cod. pen., con gli effetti di cui al successivo art. 109 cod. pen.; la trasformazione, disposta nell'ottobre 2006 ed avallata dalla sentenza 3 ottobre 2007 della Corte di cassazione, della libertà vigilata nel ricovero in casa di cura e custodia «non ha determinato un mutamento del titolo di legittimazione della misura, individuato sempre nella dichiarazione di delinquenza abituale. Tale trasformazione, ritenuta legittima, era stata decisa sulla base della situazione di fatto all'epoca presa in considerazione e, mutata questa a seguito della sua evoluzione dinamica, aveva esaurito ogni suo effetto». Il Tribunale di sorveglianza territoriale, infatti, con provvedimento non impugnato dal pubblico ministero, aveva ripristinato la libertà vigilata, ritenendola adeguata alla persistente pericolosità sociale del ricorrente, connessa sempre ed esclusivamente alla sua posizione di delinquente abituale e non di soggetto affetto da malattia mentale.

E' in questa nuova e mutata situazione di fatto che si inserisce l'adozione del nuovo provvedimento da parte di diverso Magistrato di sorveglianza territoriale, di ricovero in casa di cura e custodia, confermato in appello e oggetto del ricorso per cassazione: «si è di fronte, quindi, ad un nuovo e autonomo procedimento di sorveglianza, che, in quanto attivato sulla base della nuova situazione fattuale venutasi a determinare, non è precluso, perché non basato sui medesimi elementi, dall'esito del precedente procedimento, che, come si è detto, aveva già esaurito i suoi effetti. La decisione di questa Corte che definiva la pregressa procedura, affermando il principio della legittimità della sostituzione della libertà vigilata, in caso di gravi violazioni delle relative prescrizioni e di manifestazione di conclamate turbe psichiche, con il ricovero in casa di cura e custodia, rappresenta solo un precedente giurisprudenziale, che non può condizionare la presente decisione».

Sulla base di tali rilievi, è stato conclusivamente enunciato sul punto, in applicazione dell'art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., il seguente principio di diritto:

"la preclusione del giudicato, nel procedimento di sorveglianza in materia di misure di sicurezza, opera rebus sic stantibus e non impedisce, una volta esauriti gli effetti della precedente decisione, la rivalutazione della pericolosità del soggetto e la conseguente individuazione di un'eventuale nuova misura da applicare sulla base di ulteriori elementi non valutati, perché palesatisi successivamente all'adozione del provvedimento divenuto definitivo o, pur preesistenti, non presi da questo in considerazione"

TOMO II - Anno 2011 - LE PRINCIPALI LINEE DI TENDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE GIURISPRUDENZA PENALE --- PARTE I I DIRITTI DELL'UOMO ED IL GIUSTO PROCESSO

  • avvocato
  • Convenzione europea dei diritti dell'uomo

Cap. 1

I diritti dell'uomo

Sommario

1 Principio di retroattività della norma favorevole e sopravvenienza di modifiche normative in peius in materia cautelare. - 2 Il dovere dei difensori di leale collaborazione al regolare svolgimento del processo. - 3 La rilevanza delle violazioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo non dichiarate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

1. Principio di retroattività della norma favorevole e sopravvenienza di modifiche normative in peius in materia cautelare.

Le Sezioni Unite, chiamate a decidere «se la misura cautelare applicata prima della novella codicistica, che ha ampliato il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia carceraria, possa subire modifiche per effetto del nuovo e più sfavorevole trattamento normativo», con sentenza n. 27919 del 31/03/2011, dep.14/07/2011, P.G. in proc. Ambrogio, rv. 250195 - 6, hanno risolto il contrasto, affermando i principi così massimati:

«In tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo il quale, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato, non costituisce un principio dell'ordinamento processuale, nemmeno nell'ambito delle misure cautelari, poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell'ordinamento processuale».

«In assenza di una disposizione transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione, disposta prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 11 del 2009, convertito, con modd., in l. n. 38 del 2009 (che ha modificato l'art. 275 cod. proc. pen., ampliando il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia carceraria), non può subire modifiche unicamente per effetto della nuova e più sfavorevole normativa».

Con specifico riguardo alle interferenze tra i principi dell'ordinamento penale e la disciplina del processo, ed in particolare alle possibili interazioni tra la disciplina delle misure cautelari ed i principi che regolano la legalità penale, desunti dall'art. 25 Cost., dall'art. 7 della Convenzione Edu e dagli artt. 1 e 2 cod. pen., il Supremo Collegio ha ricordato che, per la giurisprudenza costituzionale, la pena e la misura cautelare detentiva sono somiglianti quanto alla loro materialità, alla limitazione di libertà ed al carico di sofferenza che comportano, ma diverse quanto agli scopi ed ai presupposti. Queste diversità chiamano in campo principi costituzionali importanti ma distinti.

L'argomento è stato sviluppato nell'importante sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 1982, relativa al tema, connesso ma distinto, delle norme che ridefiniscono i termini di durata della custodia cautelare: «si è considerato che l'art. 25, comma secondo, Cost. stabilisce una garanzia per l'imputato, che trova la sua ratio in un'esigenza di certezza. Tuttavia, la "carcerazione preventiva" può essere disposta solo in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare e strettamente inerenti al processo. Ciò ha indotto a non accogliere la tesi della natura di diritto sostantivo dell'istituto della carcerazione preventiva. Secondo detta sentenza, la natura strumentale dell'istituto in parola, oltre che impedire l'assimilazione tra il fatto e lo strumento per accertarne l'esistenza e la conformità al diritto, "consente di cogliere nella sua completa prospettiva la funzione di garanzia della carcerazione preventiva, e del processo in genere, nel senso che non è garanzia solo dell'imputato, ma anche - e prima - dell'attuazione della legge, della ordinata convivenza, della salvezza delle istituzioni"».

E successivamente, con la sentenza n. 265 del 2010, la Corte costituzionale, proprio in relazione alla novella codicistica de qua, ha affermato che, affinché la restrizione della libertà personale nel corso del procedimento sia compatibile con la presunzione di non colpevolezza, è necessario che essa assuma connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento definitivo della responsabilità; e ciò ancorché si tratti di misura ad essa corrispondente sul piano del contenuto afflittivo: «la custodia cautelare deve soddisfare esigenze proprie del processo, diverse da quelle di anticipazione della pena, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva».

Dal canto suo, la giurisprudenza della Corte Edu ha fortemente valorizzato la centralità dell'art. 7 della Convenzione, che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene, pronunziandosi da ultimo[1] sulla controversa costituzionalizzazione del principio di retroattività della lex mitior enunciato nell'art. 2 cod. pen., con riguardo alla quale ha affermato che il richiamato art. 7 «non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge meno severa. Questo principio si traduce nelle norme secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato».

Le Sezioni Unite hanno, peraltro, osservato che «tale principio, enunciato quale riconosciuto frutto di un lento progresso del pensiero giuridico, non diviene, però, per ciò solo, al contempo, un principio dell'ordinamento processuale, tanto meno nell'ambito delle misure cautelari. E' la stessa Corte che si perita di chiarire che resta ragionevole l'applicazione del principio tempus regit actum per quanto riguarda l'ambito processuale, pur dovendosi accuratamente definire di volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o meno alla sfera del diritto penale materiale. Dunque, alla luce della giurisprudenza indicata, occorre ritenere che non esistano principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell'ordinamento processuale. La soluzione del problema in esame resta perciò affidata alla ricostruzione del sistema processuale».

In sintesi, «l'indirizzo espresso dalla pronunzia Di Marco del 1992, come si è già esposto, faceva leva esclusivamente sul novum normativo e al suo servizio poneva un artificioso, virtuale momento di revoca della precedente ordinanza cautelare. La differente interpretazione qui adottata, invece, parte dalla lettura complessiva della disciplina della restrizione personale, considera come autonomo il momento modificativo disciplinato dall'art. 299, commi 2 e 4, cod. proc. pen., rileva soprattutto che l'automatica applicazione della nuova, più severa disciplina travolge "retroattivamente" l'atto genetico della privazione di libertà e la disciplina legale che in quel tempo ne aveva legittimamente regolato l'adozione, modificando in senso deteriore la situazione preesistente e finendo col pregiudicare proprio il principio tempus regit actum».

In virtù di queste considerazioni, è stato conclusivamente affermato, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto:

«in assenza di una disposizione transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione disposta prima della novella codicistica che ha ampliato il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia in carcere non può subire modifiche solo per effetto della nuova, più sfavorevole normativa».

2. Il dovere dei difensori di leale collaborazione al regolare svolgimento del processo.

Le Sezioni Unite, chiamate a decidere «quale sia il termine ultimo di deducibilità della nullità derivante dall'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza del procedimento camerale ad uno dei due difensori dell'imputato, e se nell'individuazione di detto termine rilevi, o meno, la circostanza dell'assenza in udienza sia dell'imputato che del difensore ritualmente avvisato»[2], con sentenza n. 22242 del 27/01/2011, dep. 01/06/2011, Scibè, rv. 249651 hanno affermato il principio così massimato:

«Il termine ultimo di deducibilità della nullità a regime intermedio, derivante dall'omessa notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale di appello ad uno dei due difensori dell'imputato, è quello della deliberazione della sentenza nello stesso grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell'imputato che dell'altro difensore, ritualmente avvisati».

In motivazione, le Sezioni Unite hanno ricordato che grava sui difensori un dovere di leale collaborazione al regolare svolgimento del procedimento, e che, in tale ottica, va ritenuta l'esistenza di vincoli di solidarietà fra i codifensori, tra i quali «non deve mancare quel reciproco obbligo di comunicazione che è aspetto tipico e istituzionale della cooperazione nell'esercizio della difesa».

Trattasi di affermazioni che trovano conforto anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha avuto modo di occuparsi del necessario rapporto informativo necessario all'interno della posizione difensiva[3], enucleando l'esistenza a carico del difensore di uno specifico onere informativo, deplorando la mancanza di comunicazione, nel caso di specie, tra l'imputato e i suoi avvocati, e concludendo che "non si può tuttavia imputare ad uno Stato la responsabilità di tutte le lacune di un avvocato".

Anche il codice deontologico forense (art. 23, comma 5) prevede, nel caso di difesa congiunta, il dovere del difensore di consultare il codifensore "in ordine ad ogni scelta processuale", quale è certamente la partecipazione all'udienza del giudizio di impugnazione, anche se camerale, "al fine della effettiva condivisione della strategia processuale":

«l'approccio deontologico nella interpretazione delle norme processuali assume un particolare rilievo nella dimensione di un processo accusatorio; esso riguarda tutti i soggetti processuali e, per quanto concerne il ruolo del difensore, si concentra soprattutto nel dovere di lealtà, non solo oggetto di una disposizione di natura deontologica del codice relativo (art. 5), ma anche sancito in una norma di diritto processuale (art. 105 c.p.p., comma 4). Se il processo penale è contraddistinto dalla dialettica delle parti (art. 111 Cost., commi 1 e 2), la lealtà del difensore diventa un canone di regolarità della giurisdizione. Il dovere di lealtà implica, tra l'altro, che una norma processuale non possa essere utilizzata, e, quindi, anche interpretata, per raggiungere finalità diverse da quelle per le quali è stata dettata, con il risultato non solo di tutelare interessi non meritevoli di protezione, ma anche di ledere interessi costituzionalmente protetti. La stessa Corte costituzionale ha avuto modo di utilizzare il bene costituzionale dell'efficienza del processo quale parametro per censurare la razionalità di norme processuali che consentivano il perseguimento di intenti dilatori (sentenze n. 353 del 1996 e n. 10 del 1997). La lealtà non implica collaborazione con l'autorità giudiziaria per il raggiungimento di uno scopo comune, ma certamente comporta che anche l'attività della difesa debba convergere verso la finalità di un processo di ragionevole durata, poiché si tratta di un risultato il cui perseguimento deve essere a carico di tutti i soggetti processuali, una volta rispettate le insopprimibili garanzie difensive, le quali perdono il loro connotato di garanzie se sono interpretate in modo distorto rispetto alla loro essenza».

3. La rilevanza delle violazioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo non dichiarate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

La possibile rilevanza nell'ordinamento interno, in presenza del giudicato, delle violazioni della Convezione europea dei diritti dell'uomo (d'ora in poi, Convenzione Edu), accertate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (d'ora in poi, Corte Edu) o meramente affermate, non costituisce oggetto di specifica disciplina, pur se l'art. 46 della Convenzione Edu obbliga gli Stati contraenti ad uniformarsi alle sentenze definitive della Corte Edu.

Il problema è stato, da ultimo, risolto dalla Corte costituzionale che, con sentenza n. 113 del 9/2/2011, dep. 7/4/2011, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo».

La citata decisione della Corte costituzionale - espressamente limitata (come si evince da plurimi riferimenti rinvenibili in motivazione, dall'assenza di riferimenti, sempre in motivazione, alla contraria situazione in cui la violazione lamentata non sia stata accertata dalla Corte Edu, oltre che dalle specifiche connotazioni del caso concreto) ai casi in cui la violazione di principi sanciti dalla Convenzione Edu sia stata accertata e dichiarata da una sentenza definitiva della Corte Edu - non aiuta, peraltro, a risolvere l'altro problema che può porsi in materia, ovvero quello della possibile rilevanza, in deroga al giudicato, di violazioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo non dichiarate dalla Corte Europea, ma meramente affermate dall'interessato, anche se sulla scia di orientamenti della Corte Edu.

Il tema, non particolarmente esplorato in giurisprudenza, risulta affrontato da una sola sentenza, ovvero da Sez. 1, n. 6559 del 18/1/2011, dep. 22/2/2011, Raffaelli, rv. 249238 a parere della quale:

«Il giudice dell'esecuzione non ha il potere di dichiarare l'inefficacia di un giudicato, fuori dal caso in cui debba darsi esecuzione ad una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbia accertato l'avvenuta violazione del diritto all'equo processo nell'emissione della pronuncia di condanna».

Il collegio, premesso che

«la questione giuridica di fondo posta dal ricorso in esame, pregiudiziale e preliminare rispetto alla valutazione delle ragioni di merito, pure compiutamente e diffusamente illustrate dalla difesa ricorrente, è data dalla efficacia giuridica e processuale della sentenza deliberata da questa Corte il 30.1.2008, n. 11055, sentenza di rigetto del ricorso difensivo volto a far dichiarare l'estinzione per prescrizione dei reati in relazione ai quali era intervenuto provvedimento di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p., provvedimento impugnato davanti alla Corte stessa, e se essa (sentenza della Corte Cassazione 11055/08) in quanto viziata da violazione del contraddittorio e dei connessi diritti difensivi, possa essere resa inefficace, su quanto con essa statuito, dal giudice dell'esecuzione»,

ha ritenuto che si imponesse la risposta negativa,

«dappoiché, diversamente opinando, se si dovesse dare cioè ingresso alle tesi brillantemente illustrate dalla difesa istante, si perverrebbe ad una disastrosa disarticolazione del sistema processuale penale delle impugnazioni e dei gradi di giudizio, nonché alla esiziale (per il sistema dei rapporti giuridici) cancellazione della definitività dei provvedimenti giudiziali e dell'istituto stesso del giudicato penale».

Si è, in particolare, ricordato, che

«nel nostro sistema processuale la sentenza della Corte di cassazione, ultima istanza di giustizia, allorché assuma le forme del rigetto ovvero della inammissibilità del ricorso, esaurisce il procedimento, ed il contenuto della decisione, ancorché astrattamente ingiusto ovvero giuridicamente errato, è sottratto, per evidenti esigenze di certezza dei rapporti giuridici, a qualsivoglia sistema ordinario di rivalutazione decisionale. Residuano, esclusivamente, i sistemi straordinari della revisione e, recentemente introdotto, del ricorso straordinario alla medesima Corte, dovendosi di regola ritenere del tutto asistematico prevedere un mezzo di impugnazione avverso i provvedimenti del giudice supremo rimesso alla cognizione di una istanza di giustizia di grado inferiore. Di qui la inammissibilità, correttamente rilevata dal giudice territoriale, di una istanza difensiva volta a rendere inefficace il pronunciato della Corte di Cassazione proposta al giudice dell'esecuzione, istanza che, per la ragioni dette, rientra nella nozione teorica dell'abnormità, dappoiché diretta a porre nel nulla, nello specifico, la definitività di un provvedimento processualmente acquisita, provvedimento al quale non sono più opponibili rilievi di irritualità processuale ovvero, a maggior ragione, differenti valutazioni di merito».

È stata anche richiamata la sentenza Dorigo, sempre della prima sezione della Corte, per precisare che l'obbligo da essa imposto al giudice dell'esecuzione

«non è affatto dedotto come tale dal sistema ed ivi previsto in via generale ed astratta, ma è richiamato nella fattispecie specifica in relazione a pronunciato della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo ed in riferimento alla parte che vittoriosamente ebbe ad adire quella istanza di giustizia».

Al contrario, nel caso ora esaminato,

«non v'era e non v'è alcuna sentenza della Corte sovranazionale, alcuna violazione delle regole del giusto processo giurisdizionalmente dichiarata, ma semplicemente la richiesta di applicare i principi in quel contesto processuale affermati ancorché in assenza delle condizioni e dei contesti procedimentali nelle quali i medesimi vennero pronunciati».

Neppure apprezzabile risultava il riferimento al tempo in cui è stato affermato il principio del possibile ricorso allo strumento del ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p., in costanza di violazione del contraddittorio da parte della Corte di legittimità, che abbia statuito diversamente qualificando la condotta giudicata, ma ciò abbia fatto in assenza di preventiva interlocuzione difensiva sul punto:

«ed invero il rimedio al preteso error in procedendo della Corte di ultima istanza era ed è onere della difesa, che ha oggi, nella ipotesi data, il supporto di un autorevole precedente, ma che andava e poteva essere ipotizzato anche in assenza di quel precedente, il quale (repetita juvant) non ha introdotto un principio normativo, legato per questo alle regole della efficacia nel tempo delle norme giuridiche processuali, ma un principio ermeneutico da quelle regole per nulla astretto».

  • giudice
  • procedura penale
  • diritti della difesa
  • testimonianza

Cap. 2

Il giusto processo

Sommario

1 Il diritto al contraddittorio. L'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale che legittima l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti. - 2 La terzietà ed imparzialità del giudice. L'efficacia degli atti compiuti medio tempore dal giudice astenutosi o ricusato. - 2.1 Segue. Gli effetti della ricusazione sulla sentenza resa prima dell'adozione dell'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta l'istanza di ricusazione. - 3 La durata ragionevole del processo ed il principio dell'efficienza processuale. - 4 L'abuso del processo. - 5 I diritti difensivi di accesso ai risultati intercettativi.

1. Il diritto al contraddittorio. L'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale che legittima l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti.

Le Sezioni Unite, chiamate a decidere «se l'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale, richiesta per l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti, consista o meno nella totale e definitiva impossibilità di ottenere la presenza del dichiarante», con sentenza del n. 27918 del 25/11/2010, dep. 14/07/2011, D.F., rv. 250197 - 9 hanno affermato i principi così massimati:

«Ai fini dell'acquisizione mediante lettura dibattimentale, ex art. 512-bis cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese, nel corso delle indagini, da persona residente all'estero, è necessario preliminarmente accertare l'effettiva e valida citazione del teste non comparso - secondo le modalità previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali o dalle convenzioni di cooperazione giudiziaria - verificandone l'eventuale irreperibilità mediante tutti gli accertamenti opportuni. Occorre, inoltre, che l'impossibilità di assumere in dibattimento il teste sia assoluta ed oggettiva, e, non potendo consistere nella mera impossibilità giuridica di disporre l'accompagnamento coattivo, occorre che risulti assolutamente impossibile la escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale concelebrata o mista, secondo il modello previsto dall'art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959»;

«Ai fini dell'operatività (art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen.) del divieto di provare la colpevolezza dell'imputato sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, non è necessaria la prova di una specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, ma è sufficiente - in conformità ai principi convenzionali (art. 6 CEDU) - la volontarietà dell'assenza del teste determinata da una qualsiasi libera scelta, sempre che non vi siano elementi esterni che escludano una sua libera determinazione»;

«Le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono - conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza europea, in applicazione dell'art. 6 della CEDU - fondare in modo esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale».

Le Sezioni Unite hanno preliminarmente ricostruito la genesi ed il contenuto dispositivo dell'art. 512-bis cod. proc. pen., la cui attuale formulazione, introdotta dal l. n. 479 del 1999, persegue le finalità di «armonizzare la disciplina delle letture col metodo dialettico di formazione della prova imposto dal novellato art. 111 Cost.; garantire i principi del contraddittorio nell'acquisizione della prova, anche se ciò può comportare un allungamento dei tempi del processo per la necessità di ulteriori accertamenti volti a verificare l'eventuale effettiva assoluta impossibilità di procedere all'esame dibattimentale; conformare l'ordinamento interno agli obblighi internazionali».

Si è, in particolare, osservato che la nuova formulazione dell'art. 512-bis, «se da un lato, ne ha esteso l'ambito di applicazione modificando la qualifica soggettiva della fonte di prova, che ora non è più il cittadino straniero ma qualsiasi persona residente all'estero, senza distinguere sulla nazionalità, da un altro lato, ne ha però drasticamente ridotto la portata derogatoria rispetto al principio della formazione della prova in dibattimento. Secondo la nuova disposizione, per poter recuperare a fini probatori le dichiarazioni pregresse non è più sufficiente la mancata comparizione o, addirittura, la mancata citazione, ma occorre che la parte richiedente abbia regolarmente citato la persona residente all'estero e, qualora questa non si sia presentata, occorre, altresì, che sia accertata l'assoluta impossibilità di sottoporla ad esame dibattimentale. La nuova formulazione tende dunque a neutralizzare le così dette "irripetibilità di comodo" e si fonda principalmente sull'impossibilità di ripetizione delle dichiarazioni».

Essa assume i caratteri dell'eccezionalità e della residualità rispetto al principio generale posto dall'art. 111 Cost. del favor per l'assunzione della fonte dichiarativa nel contraddittorio delle parti e innanzi al giudice chiamato a decidere «devono quindi essere interpretati restrittivamente e rigorosamente gli elementi da esso previsti ed ai quali è condizionata la sua applicazione (richiesta della parte interessata; facoltà del giudice con obbligo di motivare adeguatamente l'accoglimento o il rigetto della richiesta; decisione tenendo conto degli altri elementi di prova acquisiti; possibilità di lettura delle sole dichiarazioni documentate con un verbale ed assunte anche a seguito di rogatoria internazionale; effettiva residenza all'estero della persona, italiana o straniera; effettiva e valida citazione del teste e mancata comparizione dello stesso; assoluta impossibilità del suo esame dibattimentale)».

Con specifico riguardo al caso di specie, tra i predetti elementi assumono rilevanza la mancata comparizione del teste nonostante la sua effettiva regolare citazione e l'adempimento dell'onere, gravante sulla parte interessata, di provare l'assoluta impossibilità dell'escussione dibattimentale.

Per quanto riguarda la corretta, effettiva e valida citazione, «è evidente che l'accertamento della mancata comparizione del teste e dell'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale richiede logicamente la preliminare verifica del buon esito della citazione. Non potrebbe, invero, parlarsi di mancata comparizione se non si è certi che la citazione sia validamente ed effettivamente avvenuta. Del resto, la citazione andata a buon fine è uno degli elementi maggiormente significativi della disciplina posta dal nuovo testo dell'art. 512-bis cod. proc. pen., esprimendo la chiara volontà del legislatore di superare la norma precedente, che si applicava a tutti i casi di mancata comparizione in dibattimento del testimone straniero, anche in assenza di citazione. Il requisito dell'assenza del teste residente all'estero è invece ora acclarabile solo se egli sia stato correttamente citato, senza tralasciare - ove occorra - le forme della rogatoria internazionale».

Sul punto della verifica del presupposto di un'effettiva e valida citazione, la giurisprudenza, con riferimento al nuovo testo, ha esattamente affermato che l'accertamento dell'impossibilità di "natura oggettiva" di assunzione dei dichiaranti residenti all'estero presuppone una rigorosa verifica della regolare citazione all'estero delle persone e il controllo di un eventuale stato di detenzione e, in tal caso, l'attivazione delle procedure stabilite per ottenere la traduzione temporanea in Italia di dichiaranti detenuti o la loro assunzione mediante rogatoria con le garanzie del contraddittorio[4]: «la deroga al principio costituzionale della formazione della prova nel contraddittorio richiede pertanto che la persona sia effettivamente residente all'estero; che sia stata citata; e che tale citazione sia avvenuta nelle forme inderogabilmente prescritte dalla legge, non potendo aversi incertezza in ordine alla verifica rigorosa della sussistenza dei presupposti della deroga, collegata all'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale di un soggetto che abbia avuto conoscenza legale dell'obbligo di presentarsi al processo. In particolare, le modalità di legge per la citazione del teste all'estero sono quelle previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali, senza alcuna possibilità di equipollenti affidati alla libertà di forma ed all'iniziativa del singolo ufficio giudiziario in riferimento a problemi contingenti ed asseritamente dovuti a difficoltà organizzative».

In conclusione, «la mancata comparizione del testimone residente all'estero è comportamento che può conseguire solo ad una citazione andata a buon fine, il che presuppone che egli sia stato correttamente citato, nelle forme dettate dalla peculiarità del caso, ivi comprese quelle della rogatoria internazionale. Presuppone altresì, nel caso in cui la notificazione non sia stata effettuata perché il teste non è stato trovato all'indirizzo indicato (come nel caso di specie, in cui due volte su tre è risultato sconosciuto in detto indirizzo), che siano compiuti tutti quegli accertamenti necessari e opportuni per potere individuarne l'attuale domicilio».

Per quanto riguarda poi l'adempimento dell'onere, gravante sulla parte interessata, di provare l'assoluta impossibilità dell'escussione dibattimentale, la lettura delle dichiarazioni rese dalla persona residente all'estero, citata e non comparsa, è poi consentita "solo nel caso in cui non ne sia assolutamente possibile l'esame dibattimentale": ed il quesito riguarda specificamente i caratteri di questa assoluta impossibilità.

Dopo aver ricostruito i contrapposti orientamenti, le Sezioni Unite hanno osservato che in sede di legittimità il contrasto è, in realtà, inconsapevole, in quanto la decisione, espressione dell'orientamento minoritario, non dà atto del diverso e prevalente orientamento, e quindi non indica le ragioni per le quali ritiene di disattenderlo: «sembra, pertanto, che in realtà si sia trattato di un mero richiamo alla (ormai superata) giurisprudenza formatasi sul previgente testo dell'art. 512-bis cod. proc. pen. Il contrasto appare poi anche isolato perché non risulta che altre decisioni massimate abbiano ritenuto che, alla stregua del nuovo testo dell'art. 512-bis cod. proc. pen., per considerare accertata l'assoluta impossibilità dell'esame del teste residente all'estero sia sufficiente l'avvenuta regolare citazione e la mancata comparizione, senza necessità di ulteriore attivazione da parte del giudice. Questa tesi minoritaria, a ben vedere, non è stata seguita nemmeno dalle altre decisioni richiamate dall'ordinanza di rimessione, dal momento che alcune di esse si limitano a rilevare che nel caso preso in esame il teste non era stato regolarmente citato[5], mentre altre sottolineano espressamente la necessità che si tratti di un'impossibilità di natura oggettiva[6].».

A parere delle Sezioni Unite, merita conferma l'orientamento più restrittivo e prevalente, «se non altro perché una diversa interpretazione, quale quella seguita dall'altro orientamento - al pari di ogni altra interpretazione troppo elastica sul requisito dell'impossibilità oggettiva di assunzione diretta del dichiarante - si porrebbe in contrasto con i principi posti dall'art. 111 Cost.». E' stata, in proposito, ricordata l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, sin dalla modifica dell'art. 111 Cost., e si è concluso che, nel nuovo quadro costituzionale, «non è più possibile collegare la lettura dibattimentale di atti non più ripetibili alla libera determinazione del dichiarante e non è più invocabile, nemmeno ai fini di un bilanciamento, il principio di non dispersione dei mezzi di prova, non più compatibile con il nuovo principio costituzionale del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio. Nemmeno sembra più invocabile un principio di accertamento della verità reale, perché le regole vigenti costituiscono, esse stesse, espressione di un principio assunto a regola costituzionale e costituiscono una garanzia per la stessa affidabilità della conoscenza acquisita. Le uniche deroghe al contraddittorio ora consentite sono quelle enucleate dall'art. 111 Cost., comma 5, e sono evidentemente tassative e non suscettibili di un'interpretazione estensiva».

Ne consegue che un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 512-bis cod. proc. pen. non può che ricondurre "l'assoluta impossibilità dell'esame" di cui esso parla alla "accertata impossibilità oggettiva", prevista quale deroga costituzionale al contraddittorio dall'art. 111 Cost., comma 5, così come interpretata dalla Corte costituzionale: «pertanto, l'assoluta impossibilità di ripetizione dell'esame non può consistere (come nella specie si è ritenuto) in un'impossibilità, di tipo giuridico, rappresentata dalla mera circostanza che al giudice italiano non è consentito ordinare, ex art. 133 cod. proc. pen., l'accompagnamento coattivo di persona residente all'estero. Se così fosse, del resto, si vanificherebbe sostanzialmente il requisito, dal momento che un'impossibilità giuridica di questo genere è sempre presente in tutte le ipotesi di testimone che risiede all'estero. D'altra parte, la sola impossibilità di ordinare l'accompagnamento coattivo non determina nemmeno una impossibilita giuridica assoluta, essendo praticabili, come si vedrà, altri strumenti, quali la rogatoria internazionale. Poiché il richiamo costituzionale ad un'impossibilità di natura oggettiva si riferisce a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, deve escludersi che l'impossibilità possa comunque dipendere esclusivamente dalla volontaria sottrazione del testimone al dibattimento, fatta ovviamente eccezione per l'ipotesi in cui la volontà di non presentarsi si sia determinata "per effetto di provata condotta illecita".

L'impossibilità, oltre che oggettiva, deve essere assoluta». Essa non può, quindi, discendere dalla constatazione di difficoltà logistiche, di spese elevate, di intralci burocratici, connessi alle procedure volte ad ottenere la ripetizione delle risultanze investigative in giudizio; né potrebbe integrare un'impossibilità assoluta, una precaria assenza del testimone dal suo domicilio, o un'infermità provvisoria, o il caso in cui il teste, residente all'estero, pur non presentandosi, abbia comunicato la propria disponibilità a rendere l'esame in una data successiva».

In ogni caso, «il giudice non può limitarsi a constatare la validità della citazione e la mancata presenza del testimone, ma, pur non potendone disporre l'accompagnamento, deve attivarsi per compiere non solo tutte le indagini occorrenti per localizzarlo, ma anche tutte le attività necessarie perché il teste stesso possa essere in qualche modo sottoposto ad un esame in contraddittorio tra le parti».

Si è, dunque, ritenuto che fra le attività che il giudice deve compiere vi è anche quella di disporre, ove sia possibile, una rogatoria internazionale così detta "concelebrata" o "mista" per l'assunzione della deposizione del teste residente all'estero, con garanzie simili a quelle del sistema accusatorio, conformemente del resto a quanto affermato dalla prevalente giurisprudenza dianzi ricordata: «difatti, poiché l'impossibilità di comparire deve essere, oltre che "oggettiva", anche "assoluta", essa richiede che il giudice abbia esplorato, senza successo, tutte le possibilità e tutti gli strumenti a sua disposizione per cercare di superare gli ostacoli e di pervenire alla formazione della prova in contraddittorio. Ora, l'ordinamento italiano, nell'ipotesi di testimone residente all'estero, prevede appunto lo strumento della possibilità di assunzione della testimonianza o di altro atto istruttorio mediante rogatoria internazionale cd. "concelebrata", secondo il modello previsto dall'art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959, ratificata dall'Italia in data 23 agosto 1961 e resa esecutiva con la l. 23 febbraio 1961, n. 215, art. 2, il suddetto art. 4 dispone che, se l'autorità richiedente lo domanda espressamente e l'autorità richiesta lo consente, l'autorità richiedente e le parti processuali possono assistere all'esecuzione della rogatoria. Pertanto, anche se è pur sempre l'autorità straniera richiesta a compiere l'atto istruttorio secondo le regole previste dalla legge locale, tuttavia l'autorità italiana richiedente, titolare del processo, e le parti dello stesso processo, possono essere ammesse secondo le convenzioni internazionali e la disponibilità della stessa autorità straniera, a formulare o suggerire domande secondo lo spirito del modello accusatorio».

Si è, conclusivamente sul punto, ritenuto che, per rispettare il principio del contraddittorio nella formazione della prova fissato dall'art. 111 Cost., comma 4, è necessario e sufficiente che le parti abbiano avuto la possibilità di interloquire dialetticamente nell'assunzione della prova, anche se in concreto non l'abbiano esercitata; per rispettare poi la deroga consentita dall'art. 111 Cost., comma 5, è necessario che sia stata ritualmente, ma inutilmente, richiesta l'escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale "concelebrata" o "mista" del tipo di quella prevista dall'art. 4 della citata Convenzione, potendo in tal caso ritenersi verificata un'assoluta ed oggettiva impossibilità di procedere all'esame dibattimentale nel contraddittorio delle parti: «in altre parole, un'assoluta impossibilità di assumere la prova in contraddittorio si potrà verificare solo quando il giudice, dopo avere esperito tutte le opportune e necessarie attività dirette a localizzare il teste, lo abbia inutilmente citato a comparire ed abbia tentato, altrettanto inutilmente, di fare assumere la prova per rogatoria internazionale "concelebrata" o "mista", senza raggiungere lo scopo per ragioni a lui non imputabili e insuperabili, ad esempio per la mancanza di convenzioni di assistenza giudiziaria con lo Stato di residenza del teste. Un'impossibilità assoluta ed oggettiva di esame in contraddittorio si potrà anche verificare nel caso di irreperibilità del soggetto residente all'estero (cfr. Corte cost., ord. n. 375 del 2001). Anche in questa ipotesi andrà applicata - sempre che il soggetto fosse effettivamente residente all'estero già al momento in cui rese le dichiarazioni della cui lettura si tratta - la disposizione dell'art. 512-bis cod. pen., la quale detta, appunto, per le "dichiarazioni rese da persona residente all'estero", una disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella più generale posta dall'art. 512 cod. pen. in ordine alla lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione. Con la conseguenza che non è necessario il requisito dell'imprevedibilità della sopravvenuta impossibilità di ripetizione, requisito richiesto dall'art. 512 ma non dall'art. 512-bis cod. proc. pen., stante la finalità della norma che riguarda soggetti che possono trovarsi anche per brevissimo tempo e di passaggio in Italia. Se invece il soggetto al momento della deposizione era anche di fatto residente in Italia, non vi sono ragioni per non applicare l'art. 512 e derogare alla necessità del requisito, altresì, dell'imprevedibilità».

L'ordinanza di rimessione poneva un quesito anche in relazione all'applicazione dell'art. 526, comma 1-bis, c.p.p., ed all'elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale. Le Sezioni Unite hanno osservato che, al fine di dare una corretta interpretazione della disposizione, è indispensabile tenere conto delle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), firmata il 4 novembre 1950 e resa esecutiva nel nostro ordinamento con L. 4 agosto 1955, n. 848, ed in particolare dell'art. 6, comma 3, lett. d)[7], che sancisce il diritto dell'imputato di confrontarsi con il suo accusatore: «nella giurisprudenza della Corte Edu questa disposizione costituisce specificazione del principio di equità processuale ed espressione della disciplina concernente qualsiasi tipo di prova, sicché il diritto alla prova implica anche quello alla sua effettiva assunzione in contraddittorio».

Dopo aver riepilogato gli orientamenti della giurisprudenza europea in argomento, si è evidenziato che «l'acquisizione come prova di dichiarazioni assunte senza contraddittorio non risulta di per sé in contrasto con l'art. 6 della Cedu, ma sussistono precisi limiti alla loro utilizzazione probatoria, al fine di impedire che l'imputato possa essere condannato sulla base esclusiva o determinante di esse. Pertanto, l'ammissibilità di una prova testimoniale unilateralmente assunta dall'accusa può risultare conforme al dettato del citato art. 6, ma affinché il processo possa dirsi equo nel suo insieme in base ad una lettura congiunta dell'art. 6, commi 1 e 3 lett. d), una condanna non deve fondarsi esclusivamente o in maniera determinante su prove acquisite nella fase delle indagini e sottratte alla verifica del contraddittorio, anche se differito», poiché il principio affermato dalla giurisprudenza europea è che "i diritti della difesa sono limitati in modo incompatibile con le garanzie dell'art. 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento"[8], e ciò anche quando il confronto è divenuto impossibile per morte del dichiarante o per le sue gravi condizioni di salute[9], ovvero quando l'irreperibilità del dichiarante sia giuridicamente giustificata da un diritto di costui al silenzio, come nel caso di coimputati[10] o di imputati di reato connesso[11].

In sostanza, dall'art. 6 della Convenzione Edu, per come costantemente e vincolativamente interpretato dalla Corte di Strasburgo, «discende una norma specifica e dettagliata, una vera e propria regola di diritto - recepita nel nostro ordinamento tramite l'ordine di esecuzione contenuto nella l. 4 agosto 1955, n. 848, art. 2 - che prescrive un criterio di valutazione della prova nel processo penale, nel senso che una sentenza di condanna non può fondarsi, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento».

L'ordinanza di rimessione ha posto il quesito esclusivamente con riguardo alla norma nazionale dell'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, ed in particolare limitatamente alla valutazione dell'elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale, prospettando che, secondo alcune decisioni, è decisivo che la mancata presenza del teste all'esame sia volontaria, mentre, per altre decisioni, occorre la prova (diretta o logica) che l'assenza sia determinata da una chiara volontà di sottrarsi al contraddittorio: «se ci si pone in questa prospettiva - ossia se si considera esclusivamente la norma nazionale - il dubbio va risolto preferendo l'interpretazione adeguatrice che riduca al massimo i possibili casi di contrasto con la norma ed i principi convenzionali (e quindi sia maggiormente conforme agli stessi), ossia l'interpretazione che assegni il significato più ampio all'elemento della volontaria sottrazione all'esame per libera scelta, così determinando la più estesa applicazione della regola probatoria che impedisce al giudice di fondare la condanna su risultanze pure ritualmente acquisite alla sua conoscenza. L'elemento in esame, pertanto, deve ravvisarsi tutte le volte che la mancata presenza del teste residente all'estero debba ritenersi volontaria, perché il soggetto, avendone comunque avuto conoscenza, non si è presentato all'esame in dibattimento o in rogatoria, quali che siano i motivi della mancata presentazione, purché ovviamente riconducibili ad una sua libera scelta, e cioè ad una scelta non coartata da elementi esterni».

Al quesito proposto dalla sezione rimettente si è, pertanto, risposto che «non occorre la prova di una specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, ma è sufficiente la volontarietà dell'assenza del teste determinata da una qualsiasi libera scelta (anche per difficoltà economiche, disagi del viaggio, mancanza di interesse, e così via), sempre che non vi sia la prova o la presunzione di un'illecita coazione, di una violenza fisica o psichica, o di altre illecite interferenze o elementi esterni che escludano una libera determinazione (ad es., soggetto detenuto all'estero; grave infermità fisica; timori per la propria incolumità per altre vicende personali; pressioni di tipo economico)».

Si è anche precisato - al fine di giungere, anche per questa ipotesi, ad un'interpretazione che eviti il più possibile i contrasti con la norma europea - che «non è indispensabile che il teste sia stato raggiunto da una citazione, ai fini della dimostrazione della sua volontà di sottrarsi al contraddittorio, in quanto tale volontà potrebbe presumersi anche sulla base di elementi diversi dalla avvenuta citazione».

Si è, infine, ritenuta la possibilità di un'interpretazione adeguatrice della normativa interna, poiché, «quanto all'art. 111 Cost., comma 5, può rilevarsi che questo detta norme sulla formazione ed acquisizione della prova, mentre la regola convenzionale in esame pone un criterio di valutazione della prova dichiarativa regolarmente acquisita. La deroga al principio della formazione dialettica della prova autorizza l'acquisizione al processo dell'atto compiuto unilateralmente, ma non pregiudica la questione del valore probatorio che ad esso, in concreto, va attribuito. Non vi è quindi incompatibilità tra la norma Cedu e l'art. 111 Cost., comma 5. Quanto all'art. 111 Cost., comma 4, seconda parte, ed all'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, può, in primo luogo farsi ricorso al tradizionale criterio ermeneutico della presunzione di conformità delle norme interne successive rispetto ai vincoli internazionali pattizi, ossia alla presunzione che il legislatore (di revisione costituzionale, e ordinario) non abbia inteso sottrarsi all'obbligo internazionale assunto dallo Stato, non volendo incorrere nella conseguente responsabilità per inadempimento nei rapporti con gli altri Stati. Il criterio dell'interpretazione conforme alle norme dei trattati è stato del resto di recente riaffermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 349 del 2007), secondo la quale anzi il criterio opera anche quando l'obbligo internazionale è successivo alla disciplina legislativa interna e trova fondamento positivo nell'art. 117 Cost., comma 1. Nel caso di specie questo criterio ermeneutico acquista poi tanto più valore in quanto è pacifico - per espressa dichiarazione di intenti del legislatore - che l'art. 526 cod. proc. pen., comma 1-bis è stato introdotto dalla l. 1 marzo 2001, n. 63, art. 19, a mò di traduzione codicistica (con aggiustamenti esclusivamente formali) del precetto recato dall'art. 111 Cost., comma 4, seconda parte, come novellato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, e che quest'ultima, a sua volta, si proponeva proprio di rendere espliciti a livello costituzionale i principi del giusto processo enunciati dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo».

Si è, in proposito, osservato che sarebbe incongruo ritenere che il legislatore, proprio nel momento in cui ha operato una revisione dell'art. 111 Cost. al fine introdurvi i principi convenzionali sul giusto processo, abbia poi posto invece una norma incompatibile con quella convenzionale: «la differenza di formulazione rispetto alla norma Cedu non può, pertanto, essere intesa nel senso di una volontà del legislatore di impedire l'applicazione della regola convenzionale. La diversità di articolazione delle norme non esclude che esse costituiscono comunque applicazione di un identico o analogo principio generale inteso a porre un rigoroso criterio di valutazione delle dichiarazioni dei soggetti che la difesa non ha mai avuto la possibilità di esaminare e ad eliminare o limitare statuizioni di condanna fondate esclusivamente su tali dichiarazioni. Le norme nazionali e convenzionali, dunque, rispondono ad una ratio e perseguono finalità non dissimili. È stato perciò esattamente osservato che proprio la circostanza che il nuovo testo dell'art. 111 Cost., trova la sua origine in fonti convenzionali internazionali "invita l'interprete a non isolarsi in un contesto nazionale, ma a cercare quella che è stata chiamata una "osmosi" tra le diverse formulazioni, della normativa convenzionale e di quella nazionale, ordinaria e costituzionale"».

È stata quindi esclusa la sussistenza di una totale non conformità tra l'art. 111 Cost., comma 4, e la regola convenzionale in esame, come enucleata dalla Corte Edu, «e tanto più può escludersi che vi sia tra questa regola e l'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, un'assoluta e puntuale incompatibilità, tale da far sì che l'applicazione dell'una escluda l'applicazione dell'altro».

Si è poi evidenziato che l'art. 526, comma 1-bis, c.p.p., riproducendo l'art. 111, comma 4, Cost., pone un limite all'utilizzazione probatoria delle dichiarazioni non rese in contraddittorio valevole per alcune determinate ipotesi, e che la norma convenzionale pone un'analoga regola di valutazione probatoria delle stesse dichiarazioni valevole anche per altre ipotesi: «ora, la norma nazionale dice solo che in quelle ipotesi si applica quella regola, ma non dice anche che in ipotesi diverse debba valere un opposto criterio, ossia non esclude che anche nelle altre ipotesi possa applicarsi un analogo criterio di valutazione probatoria, ricavato in via interpretativa dalle norme o dai principi in materia o anche posto da una diversa norma comunque operativa nell'ordinamento. La norma nazionale, in applicazione del principio generale del giusto processo, pone una determinata tutela per l'imputato, ma non esclude che una tutela più estesa possa essere posta o ricavata da norme diverse. Del resto, se si considera il rapporto tra il principio generale del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale posto dalla prima parte dell'art. 111 Cost., comma 4 e la regola posta dalla seconda parte del medesimo comma, si deve convenire che questa regola va intesa non già come eccezione, bensì come svolgimento ed attuazione del principio generale. Essa pertanto non può essere considerata come eccezionale, sicché identica o analoga regola di valutazione probatoria legittimamente può essere prevista per ipotesi ulteriori».

Si è concluso che «è conforme al sistema ritenere che analoghi criteri valutativi, ed in particolare la necessità di esaminare le dichiarazioni congiuntamente ad altri elementi di riscontro, debbano operare anche quando l'imputato non abbia mai avuto la possibilità di interrogare il dichiarante, considerando che l'assenza del controesame abbassi fortemente il grado di attendibilità della prova, rispetto al modello ideale della testimonianza raccolta con l'esame incrociato. Del resto, nel quadro di una razionale e motivata valutazione delle prove, il metodo con cui è stata assunta la dichiarazione è rilevante almeno quanto la qualifica del dichiarante (che in alcuni casi, come per l'imputato di reato connesso o del testimone assistito, richiede la presenza di riscontri esterni che ne confermino l'attendibilità)».

2. La terzietà ed imparzialità del giudice. L'efficacia degli atti compiuti medio tempore dal giudice astenutosi o ricusato.

Le Sezioni Unite, chiamate a decidere «se, in assenza di un'espressa dichiarazione di conservazione di efficacia nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato possano essere utilizzati», con sentenza n. 13626 del 16/12/2010, dep. 05/04/2011, Di Giacomantonio ed altri, rv. 249299,hanno affermato il principio così massimato:

«In assenza di un'espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci. (La Suprema Corte ha precisato che la nozione di «efficacia» indica, nella specie, la possibilità di inserimento degli atti, compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, nel fascicolo per il dibattimento, e che la valutazione di efficacia od inefficacia, operata dal giudice che decide sull'astensione o sulla ricusazione, pur autonomamente non impugnabile, è successivamente sindacabile, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione)».

In motivazione, le Sezioni unite hanno ancora una volta evidenziato che gli istituti dell'incompatibilità, dell'astensione e della ricusazione tutelano specificamente il principio fondamentale dell'imparzialità del giudice, «principio che implica, come chiarito da autorevole dottrina, non soltanto l'assenza di vincolo di subordinazione rispetto agli interessi delle parti in causa, ma, in una prospettiva più ampia, la non soggezione a condizionamenti di ogni genere che possano prevalere sulla necessità di accertamenti e valutazioni serene ed esclusivamente ispirate dallo scopo di decidere secondo diritto e giustizia», e trova fondamento costituzionale nel vigente testo dell'art. 111 Cost.

2.1. Segue. Gli effetti della ricusazione sulla sentenza resa prima dell'adozione dell'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta l'istanza di ricusazione.

Le Sezioni Unite, chiamate a decidere «se il divieto per il giudice ricusato - di pronunciare o concorrere a pronunciare la sentenza o altro provvedimento conclusivo del procedimento fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione - abbia carattere assoluto, determinando in ogni caso un difetto di capacità e quindi una nullità assoluta della decisione, o, invece, abbia carattere solo relativo e alternativo, sì da sussistere soltanto in caso di eventuale accoglimento della dichiarazione di ricusazione», con sentenza n. 23122 del 27/01/2011, dep. 09/06/2011, Tanzi, rv. 249733 - 5 hanno affermato i principi così massimati:

«Rientra nell'ambito del divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza sino a che non intervenga l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione, ogni provvedimento che, comunque denominato, sia idoneo a definire la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce. (Fattispecie di ordinanza di revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale)».

«La violazione del divieto, ex art. 42, comma primo, cod. proc. pen., per il giudice la cui ricusazione sia stata accolta, di compiere alcun atto del procedimento comporta rispettivamente la nullità, ex art. 178, lett. a) cod. proc. pen., delle decisioni ciononostante pronunciate e l'inefficacia di ogni altra attività processuale, mentre la violazione del divieto, ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., per il giudice solo ricusato, di pronunciare sentenza, comporta la nullità di quest'ultima solo ove la ricusazione sia successivamente accolta, e non anche quando la ricusazione sia rigettata o dichiarata inammissibile. (In motivazione la Corte ha precisato che il rispetto del divieto di pronunciare sentenza costituisce in ogni caso un preciso dovere deontologico del magistrato ricusato)».

«Il divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell'organo competente a decidere sulla ricusazione, essendo, tuttavia, la successiva decisione del giudice ricusato, affetta da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto sia annullata dalla Corte di cassazione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell'eventuale giudizio di rinvio».

In motivazione, le sezioni Unite hanno osservato che la disciplina della ricusazione serve ad assicurare il rispetto della imparzialità-terzietà del giudice, come prima definita, che ha immediato rilievo costituzionale, mutuando dall'assetto costituzionale valore e forza cogente: «proprio tenendo conto di tale rilievo e del significato delle garanzie che rappresentano ragione e scopo delle disposizioni che regolano gli istituti della incompatibilità-astensione-ricusazione, una invalidità per incapacità da carenza di potere dei provvedimenti decisori assunti dal giudice ricusato, non può che dipendere dalla circostanze che dell'imparzialità - essenziale al giusto processo o al corretto esercizio del potere giurisdizionale in concreto - sia effettivamente accertato il difetto. Fare derivare, invece, l'incapacità del giudice, e per conseguenza il necessario annullamento della sua decisione con rinvio ad altro giudice, dalla mera esistenza di una ricusa di parte interessata, pur quando questa sia dichiarata inammissibile o infondata, finirebbe per determinare invece un non giustificato sacrificio dell'ordinato svolgimento del processo e della sua ragionevole durata, oltre che l'irrazionale conseguenza che con la sua sola denunzia la parte incida sull'individuazione del giudice. Anche in questo caso, difatti, alla scelta processuale di parte sarebbe, in definitiva, rimessa la permanenza della titolarità del giudizio in capo al giudice che ne è investito. Esito, questo, non solo irragionevole, ma anche in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge, dal quale la parte verrebbe o potrebbe chiedere di essere distolta».

3. La durata ragionevole del processo ed il principio dell'efficienza processuale.

La Corte, con la sentenza della sez. 1, n. 47655 del 12/10/2011, dep. 21/12/2011, Adamo ed altri, ancora priva di numero di massima,ha ritenuto formalmente preclusa un'eccezione di inutilizzabilità di intercettazioni sollevata in ricorso, senza addurre «nessun nuovo apprezzabile elemento che induca a riesaminare la questione», da tre imputati che avevano già sollevato, invano, analoghe doglianze in sede di ricorso per cassazione presentato nell'ambito del subprocedimento cautelare.

Si è, in proposito, osservato che

«non è in discussione il principio dell'autonomia del procedimento principale rispetto a quello incidentale in relazione all'accertamento della condotta e alle conseguenti determinazioni. Vero è, piuttosto, che, se su una specifica, medesima questione in rito - nella specie l'utilizzabilità di determinate intercettazioni - questa Corte suprema ha avuto modo di pronunciare in sede incidentale, nei confronti dello stesso imputato, il riesame della questione de qua non possa ritenersi consentito nel processo principale, in difetto di nuovi elementi. In tal caso, infatti, non appare ragionevole supporre che l'utilizzabilità di una specifica prova, una volta affermata in sedi di legittimità nei confronti di una determinata parte, possa poi essere negata, in relazione al medesimo procedimento, riguardo alla stessa parte».

E si è aggiunto, in accordo con la dottrina, che:

«la tesi secondo la quale "la pronuncia vincolante [...] sarebbe [...] quella emessa in sede di cognizione" è priva di "razionalità", in quanto lo scrutinio e la decisione della questione di rito operati dalla Corte di legittimità nel procedimento incidentale cautelare hanno "la stessa struttura e la stessa ampiezza e profondità di valutazione"».

Questa conclusione è accreditata dall'interpretazione costituzionale del divieto del ne bis in idem, alla luce del principio di ragionevole durata del processo,

«il quale - al di là della programmatica prospettiva dell'introduzione de lege ferenda di istituti acceleratori - costituisce canone di indirizzo ermeneutica»,

nonché del principio della efficienza processuale,

«che del primo rappresenta l'indefettibile esplicazione».

Si è, pertanto, conclusivamente ritenuto che,

«una volta stabilita dal giudice di legittimità, in relazione allo stesso procedimento e nei confronti delle medesime parti, l'utilizzabilità di determinate prove, l'efficienza processuale postula che, in difetto di nova, la decisione sia affatto vincolante e non consenta di reiterare la questione ad libitum, "quando" piaccia e "quante volte" si voglia, tanto palesemente pregiudicando la ragionevole durata del processo. Orbene, nella specie i ricorrenti non hanno addotto nessun nuovo apprezzabile elemento che induca a riesaminare la questione dell'utilizzabilità delle intercettazioni».

4. L'abuso del processo.

Chiamate a decidere una diversa questione controversa, le Sezioni Unite (sentenza n. 155 del 29/09/2011, dep. 10/1/2012, Rossi ed altro, ancora priva di numero di massima) hanno affrontato il delicato tema della configurabilità dell'«abuso del processo», con riguardo ad una fattispecie relativa ad un reiterato avvicendamento di difensori, realizzato a chiusura del dibattimento («secondo uno schema non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva»), con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione.

Il Supremo Collegio, alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, è giunto alla conclusione che l'abuso del processo consiste

«in un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all'esercizio di diritti potestastivi, in una frode alla funzione. E quando, mediante comportamenti quali quelli descritti (...), si realizza uno sviamento o una frode alla funzione, l'imputato che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti».

Ciò premesso, si è ritenuto che

«il diniego di termini a difesa o la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108, comma primo, cod. proc. pen., non può dare luogo ad alcuna nullità quando l'esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica o di altri diritti fondamentali dell'imputato non abbia subito, in assoluto, alcuna lesione o menomazione», ravvisandosi, nel dianzi descritto comportamento processuale del ricorrente, un abuso delle facoltà processuali, inidoneo in quanto tale a legittimare ex post la proposizione di eccezioni di nullità.

5. I diritti difensivi di accesso ai risultati intercettativi.

Dopo che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 336 del 2008, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 268 cod. proc. pen. nella parte in cui non consentiva alla difesa il diritto di estrarre copia delle registrazioni delle intercettazioni utilizzate per l'adozione di una misura cautelare, al giudice ordinario è stato rimesso il delicato compito di ricostruire le modalità di esercizio del diritto di accesso riconosciuto da quello delle leggi e definirne in via interpretativa gli esatti limiti.

Nel 2010, come si ricorderà, un'importante pronunzia delle Sezioni Unite[12] ha provveduto alla redazione del "regolamento di attuazione" della sentenza costituzionale, ma ciò non ha del tutto impedito l'insorgere di un contenzioso determinato dal tentativo di estenderne l'orizzonte applicativo e di forzarne il contenuto.

La Corte è stata dunque chiamata a precisare ulteriormente i contorni della disciplina del diritto di accesso alle registrazioni nella fase cautelare. In tal senso una prima pronuncia della sesta sezione[13] ha chiarito che non sussiste, perché non previsto, alcun obbligo di comunicazione al difensore del provvedimento con cui il pubblico ministero ha deciso sulla sua istanza di accedere alle registrazioni delle intercettazioni telefoniche utilizzate per l'adozione di una misura cautelare e che pertanto è onere dello stesso difensore informarsi presso l'ufficio della parte pubblica dell'eventuale accoglimento ovvero del rigetto della suddetta istanza o anche solo della sua mancata considerazione. Nella fattispecie la difesa aveva presentato istanza di audizione delle registrazioni in vista dell'udienza di riesame, nel corso della quale aveva eccepito di non essere stata posta in grado di esercitare il diritto di accesso perché l'autorizzazione del pubblico ministero gli era stata comunicata via fax solo il giorno precedente all'udienza medesima, adempimento la cui asserita tardività la Corte ha ritenuto non sussistere, ritenendo per l'appunto che spetti alla difesa attivarsi tempestivamente per prendere cognizione della sorte dell'istanza formulata.

Con una seconda pronuncia la stessa sezione[14] ha invece affermato che il diritto del difensore di accedere alle registrazioni delle intercettazioni utilizzate per l'adozione di una misura cautelare non comporta altresì il diritto dello stesso a conseguire l'attestazione di conformità delle copie delle medesime alle tracce audio originali conservate nel server della Procura della Repubblica, né tantomeno quello di ottenere l'autorizzazione all'accesso diretto di un proprio consulente a quest'ultimo per verificare tale conformità, non essendo consentito anticipare nel giudizio di riesame la verifica sull'utilizzabilità delle intercettazioni in relazione al presupposto dell'effettiva registrazione delle conversazioni nei locali della Procura, atteso che tale verifica è demandata al procedimento che si instaura successivamente al deposito degli atti dell'intercettazione.

Nell'occasione la difesa aveva per l'appunto richiesto al pubblico ministero di consentire l'accesso di un proprio consulente all'impianto informatico dell'ufficio giudiziario, per constatare che effettivamente contenesse le registrazioni originali delle conversazioni intercettate, o in alternativa di rilasciare una sorta di certificazione di conformità delle copie delle stesse, delle quali pure aveva rivendicato il rilascio avvalendosi dell'illustrata pronunzia del giudice delle leggi.

La Corte, nel ritenere giustificato il diniego opposto nell'occasione dal pubblico ministero alle richieste difensive, ha sostanzialmente affermato come le finalità del diritto configurato dall'intervento della Corte Costituzionale attengono esclusivamente alla necessaria garanzia di una piena discovery sul mezzo di prova utilizzato in sede cautelare e presuppone logicamente che il provvedimento restrittivo sia stato adottato sulla base dei soli brogliacci o delle trascrizioni di polizia. In altre parole, secondo la pronunzia in commento, il suddetto diritto è stato riconosciuto esclusivamente al fine di consentire alla difesa l'eventuale contestazione della presunzione di conformità del contenuto di tali documenti all'effettivo tenore delle conversazioni intercettate.

In tal senso ricostruito, l'accesso alle registrazioni nella fase cautelare non può quindi essere strumentalizzato per procedere alla verifica della regolarità delle operazioni di captazione, verifica immanente al procedimento che si instaura successivamente al deposito degli atti relativi alle intercettazioni, così come era stato già sottolineato dalle Sezioni Unite nel 2008[15].

In conclusione, secondo la pronuncia in oggetto, nella fase cautelare instauratasi precedentemente al deposito degli atti dell'intercettazione non è configurabile un diritto della difesa di procedere al controllo sulla regolarità delle operazioni di captazione sotto il profilo dell'effettiva registrazione delle conversazioni mediante gli impianti normativamente dedicati all'uopo e conseguentemente non può a tal fine essere utilizzato il "grimaldello" del diritto di accesso alle originali tracce audio, concesso dall'ordinamento per i diversi scopi precedentemente illustrati.

La sentenza ha precisato infine - ma a questo punto ad abundantiam - che l'accesso di un consulente della difesa alla memoria informatica della Procura non sarebbe in ogni caso ammissibile e ciò in quanto determinerebbe un inaccettabile vulnus alla segretezza delle intercettazioni, consentendo una "esplorazione" anche di quelle non effettivamente utilizzate ai fini cautelari o comunque la potenziale acquisizione abusiva di informazioni sulla complessiva attività di captazione svolta dall'autorità giudiziaria anche in altri procedimenti e ciò a tacere del fatto che, come precisato da Sezioni Unite Lasala, il diritto di accesso configurato dalla Corte Costituzionale deve ritenersi riservato al solo difensore.

PARTE II CASSAZIONE E SOCIETÀ

  • diritti e libertà
  • protezione della famiglia

Cap. 3

I diritti delle persone e delle formazioni sociali

Sommario

1 La tutela della famiglia. - 2 Dati personali e tutela della privacy. - 3 Ancora sul delitto di atti persecutori.

1. La tutela della famiglia.

Nel sempre delicato tentativo di individuare il punto di equilibrio tra la tutela dei figli minori e il diritto dei genitori a realizzare le proprie scelte educative, la sesta sezione[16] ha avuto modo di precisare che sussiste il delitto di maltrattamenti in famiglia in caso di comportamenti iperprotettivi tenuti dai secondi nei confronti dei primi e tali da incidere sullo sviluppo psicofisico degli stessi, sottolineando come ai fini della configurabilità del menzionato reato non rileva il grado di percezione del maltrattamento da parte della vittima minorenne e, tantomeno, il suo consenso.

Nel caso di specie la madre, in concorso con il nonno del minore, aveva nel tempo e fino all'età preadolescenziale di quest'ultimo posto in essere atteggiamenti qualificati dal giudice del merito come eccesso di accudienza e consistiti nell'impedimento di rapporti con coetanei, nell'esclusione del minore dalle attività inerenti la motricità, anche quando organizzate dall'istituzione scolastica, nonché nell'induzione della rimozione della figura paterna, costantemente dipinta in termini negativi, fino ad impedire allo stesso minore di utilizzare il cognome del padre.

2. Dati personali e tutela della privacy.

Con riguardo alla diffusione dei dati personali per finalità giornalistiche, la Corte, con la sentenza della sez. 3, n. 17215 del 17/02/2011, dep. 04/05/2011, L., rv. 249990 - 249991, ha precisato che l'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico quale presupposto, in assenza del consenso dell'interessato, di liceità della condotta, deve essere inquadrata nel generale parametro della continenza, nel senso dell'indispensabile osservanza del limite di contemperamento tra la necessità del diritto di cronaca e la tutela della riservatezza del dato; di qui, dunque la ritenuta integrazione del reato di trattamento illecito di dati di cui all'art. 167 del d. lgs. n. 196 del 2003 in caso di pubblicazione di fotografie di minore morente a seguito di evento omicidiario, ritenuta eccedente rispetto alla funzione di divulgazione della notizia, pur di interesse pubblico; nella medesima pronuncia la Corte ha precisato che il nocumento, quale condizione obiettiva di punibilità del reato di trattamento non è esclusivamente riferibile a quello derivato alla persona fisica o giuridica cui si riferiscono i dati, ma anche a quello causato a soggetti terzi quale conseguenza dell'illecito trattamento.

La Corte, con la sentenza della sez. 3, n. 21839 del 17/02/2011, dep. 01/06/2011, R., rv. 249992, ha chiarito, in una fattispecie riguardante l'indebita diffusione, attraverso una "chat line" pubblica, del numero di utenza cellulare altrui, che il privato cittadino che sia, anche solo occasionalmente, venuto a conoscenza di un dato sensibile rientra tra i titolari deputati, ai sensi dell'art. 4 del d. lgs. n. 196 del 2003, ad assumere le decisioni in ordine alle finalità e alle modalità di trattamento dei dati personali, sicché, ove indebitamente lo diffonda, risponde del reato di trattamento illecito di dati di cui all'art. 167 d. lgs. cit. La Corte ha, infatti, sottolineato che nel concetto indistinto di "persona fisica" di cui all'art. 4, comma primo, lett. f), del d. lgs. n. 196 del 2003, deve farsi rientrare anche «il soggetto privato in sé considerato e non solo quello che svolga un compito, per così dire istituzionale, di depositario della tenuta di dati sensibili e delle loro modalità di utilizzazione all'esterno; una diversa interpretazione condurrebbe, del resto, ad esonerare in modo irragionevole dall'area penale tutti i soggetti privati, così permettendo quella massiccia diffusione di dati personali che il legislatore, invece, tende ad evitare».

Una particolare applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di rilevanza penale della diffusione dei dati personali emerge da una recente pronunzia della seconda sezione[17] la quale ha stabilito che integra il delitto di tentata estorsione la condotta di colui che, avendo lecitamente acquisito immagini fotografiche attinenti la vita privata di un soggetto la cui divulgazione può comportare una lesione del suo diritto all'identità personale, offra al medesimo la possibilità di acquistarle quale alternativa alla loro diffusione mediatica. La pronunzia conclude una nota vicenda, che ha occupato nel recente passato le cronache giornalistiche e relativa all'anomalo commercio degli "scatti" effettuati dai "paparazzi" di una agenzia fotografica ai danni di personaggi famosi, ritratti in circostanze potenzialmente compromettenti per la loro immagine pubblica. Il titolare dell'agenzia aveva quindi contattato tali personaggi offrendo loro di "ritirare" a pagamento le foto prima della loro divulgazione attraverso i consueti canali giornalistici. Condotta che per i giudici di legittimità integra per l'appunto gli estremi della tentata estorsione, in quanto il diritto alla diffusione a fini giornalistici delle immagini (ritenuta pacificamente integrante un'ipotesi di diffusione di dati personali), riconosciuto dalla normativa in materia di tutela della privacy al titolare dell'agenzia, non può essere invocato come esimente per alternative forme di sfruttamento commerciale delle medesime, che non sono invece consentite dalla stessa normativa, le quali, pertanto, integrano la fattispecie governata dal consolidato principio giurisprudenziale per cui anche la prospettazione dell'esercizio di una facoltà o di un diritto spettante all'agente (nel caso di specie per l'appunto la diffusione mediatica delle foto) deve ritenersi contra ius quando sia diretta a perseguire scopi non consentiti o risultati non dovuti e non conformi a giustizia, rimanendo dunque configurabile in tali casi il delitto di estorsione.

3. Ancora sul delitto di atti persecutori.

Con alcune pronunce la Corte ha precisato, dopo i primi interventi attuati a ridosso dell'entrata in vigore della legge n. 38 del 2009, di conversione, con modifiche, del d.l. n. 11 del 2009, i requisiti della nuova figura di reato di atti persecutori di cui all'art. 612 bis cod. pen.

Con la sentenza della sez. 5, n. 8832 del 01/12/2010, dep. 07/03/2011, Rovasio, rv. 250202, la Corte ha poi sottolineato, in relazione allo stato di turbamento emotivo quale necessaria componente del reato, che lo stesso, lungi dal coincidere con l'evento - "malattia", fisica o mentale e psicologica, proprio del reato di cui all'art. 582 cod. pen., va individuato nell'effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima causato dalla condotta persecutoria.

Con una seconda decisione, infine, ovvero quella resa dalla sez. 5, n. 10221 del 24/02/2011, dep. 14/03/2011, p.c. in proc. Corallo, rv. 249591, la Corte, nel delineare l'essenza e l'ambito della "richiesta di ammonimento" che, ai sensi dell'art. 8, comma secondo, della l. n. 38 del 2009, la parte offesa può rivolgere al Questore affinché l'autore dei fatti venga, appunto,invitato a «tenere una condotta conforme alla legge», la Corte ha precisato che tale richiesta, significativamente formulabile fino a quando non sia proposta querela, introduce una fase del tutto preliminare rispetto all'azione penale, sì da doversi escludere che essa sia tale da produrre il pericolo di instaurazione di un giudizio, non gravando sull'autorità di polizia che riceve tale atto l'obbligo di trasmetterlo a quella giudiziaria; di qui, dunque, l'inidoneità ad integrare il reatodi calunniadelle espressioni attributive di reati in capo all'autore dei fatti, contenute nella suddetta richiesta di ammonimento.

Sempre con riferimento alla tutela della persona, la Corte ha specificato i requisiti della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all'art. 282 ter cod. pen. come introdotto dall'art. 9, comma primo, lett. a), del d.l. n. 11 del 2009, convertito, con modifiche, nella l. n. 38 del 2009. Sul presupposto che la misura cautelare deve essere dotata di completezza e specificità, posto che solo in tal modo si attua un giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza, incentrate sulla tutela della vittima, e il minor sacrificio della libertà di movimento della persona sottoposta alle indagini, la sentenza della sez. 6, n. 26819 del 07/04/2011, dep. 08/97/2011, C., rv. 250728, si è chiarito, infatti,che il divieto di avvicinamento ai luoghi deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali all'indagato è fatto divieto di avvicinamento, perché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa, che ne consente l'esecuzione ed il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare; di qui, tra l'altro, la non adeguatezza al canone di determinatezza richiesto di una misura che si limiti a fare riferimento genericamente "a tutti i luoghi frequentati" dalla vittima. La Corte ha aggiunto, relativamente all'ulteriore, possibile prescrizione della misura consistente nell'ordine rivolto all'indagato di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa, che lo stesso non può essere riferito anche ad incontri occasionali, posto che, diversamente, si porrebbe a carico del medesimo un divieto indeterminato, la cui inosservanza, peraltro, potrebbe risultare non voluta.

  • protezione dell'ambiente
  • protezione del paesaggio
  • norme per l'edilizia
  • diritti sociali
  • zona inquinata
  • diritto degli stranieri
  • condizioni di lavoro
  • infortunio sul lavoro
  • espulsione

Cap. 4

I diritti sociali

Sommario

1 La tutela della sicurezza pubblica. La normativa in tema di stranieri: il reato di cui all'art. 6 d. lgs. n. 286 del 1998. - 1.1 Segue. Le fattispecie penali per violazione dell'ordine di allontanamento: le novelle legislative successive alla decisione della Corte di Giustizia (caso El Dridi). - 2 La tutela penale del lavoro. - 2.1 Segue. Causalità e colpa del lavoratore. - 2.2 Segue. Continuità normativa tra discipline (d. lgs. n. 81/08 e disciplina abrogata). - 2.3 Segue. L'ambito di operatività: la nozione di "luogo di lavoro" e il DVR. - 2.4 Segue. Analisi di alcune fattispecie penali: l'omissione colposa di cautele antinfortunistiche e l'aggravante della violazione delle norme prevenzionistiche. - 2.5 Segue. I soggetti della prevenzione: l'individuazione dei "garanti" della sicurezza. - 3 La tutela dell'ambiente. - 3.1 Segue. Le disposizioni penali nel mutamento del quadro normativo - 3.2 Segue. La bonifica dei siti inquinati. - 3.3 Segue. La rinnovata disciplina in tema di sottoprodotti. - 3.4 Segue. Inquinamento idrico: la parziale depenalizzazione del superamento dei limiti tabellari. - 3.5 Segue. L'emergenza rifiuti. - 3.6 Segue. Danno ambientale e legittimazione all'azione risarcitoria. - 4 La tutela del territorio e del paesaggio. - 4.1 Segue. I reati edilizi ed urbanistici. - 4.2 Segue. I reati paesaggistici.

1. La tutela della sicurezza pubblica. La normativa in tema di stranieri: il reato di cui all'art. 6 d. lgs. n. 286 del 1998.

Le Sezioni Unite, state chiamate a decidere «se la modificazione dell'art. 6 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, ad opera dell'art. 1, comma 22 lett. h) della legge 15 luglio 2009 n. 94, abbia circoscritto i soggetti attivi del reato -di inottemperanza «all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato» - esclusivamente agli stranieri "legittimamente" soggiornanti nel territorio dello Stato, con conseguente abolitio criminis per gli stranieri extracomunitari clandestini», con sentenza n. 16453 del 24/02/2011, dep. 27/04/2011, P.M. in proc. Alacev, rv. 249546, hanno affermato il principio così massimato:

«Il reato di inottemperanza all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o dell'attestazione della regolare presenza nel territorio dello Stato è configurabile soltanto nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, e non anche degli stranieri in posizione irregolare, a seguito della modifica dell'art. 6, comma terzo, D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recata dall'art. 1, comma ventiduesimo, lett. h), L. 15 luglio 2009, n. 94, che ha comportato una abolitio criminis, ai sensi dell'art. 2, comma secondo, cod. pen., della preesistente fattispecie per la parte relativa agli stranieri in posizione irregolare».

Il Supremo collegio ha richiamato il proprio precedente orientamento relativo alla previgente formulazione dell'art. 6, comma terzo, cit., ricordando che la ratio decidendi della sentenza Mesky, era dichiaratamente fondata sul contenuto della norma posta dall'art. 6, comma 3, D. Lgs. 286 del 1998, interpretata nel "senso fatto palese dal significato delle parole secondo la connessione di esse, e dall'intenzione del legislatore" (art. 12, comma primo, disp. prel.). La norma, nel testo vigente all'epoca della decisione, indicava quattro tipi di documenti che lo straniero (senza alcuna distinzione tra legittimamente o irregolarmente presente sul territorio nazionale) era abilitato a esibire a richiesta degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza; l'esibizione di uno qualsiasi di tali documenti ("il passaporto o altro documento di identificazione ovvero il permesso di soggiorno o la carta di soggiorno") escludeva la sussistenza del reato. La citata decisione aveva rilevato che i primi due (passaporto o altro documento d'identificazione) non hanno alcun rilievo ai fini della regolarità dell'ingresso e della giustificazione della presenza nel territorio dello Stato, ma attengono solo alla certa identificazione del soggetto; il permesso e la carta di soggiorno attestano, invece, la regolare presenza dello straniero in territorio nazionale e di tale regolarità sono idonei a dare esaustiva contezza, ma valgono nel contempo alla sicura identificazione del soggetto. La locuzione «ovvero» attribuiva agli ultimi due valore di equipollenza e ne derivava che l'esibizione di uno qualsiasi di tali documenti escludeva la sussistenza del reato, con la conseguenza che lo straniero in posizione irregolare aveva l'obbligo di esibire i documenti d'identificazione, mentre non era da lui esigibile l'esibizione dei documenti di soggiorno. La ratio della norma non era quella di consentire agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza di verificare, illico et immediate, attraverso l'esibizione di uno di quei documenti, la regolarità o meno della presenza dello straniero in territorio nazionale, ma solo quella di procedere alla sua documentale identificazione. L'interesse protetto dalla norma veniva individuato non già nella verifica della regolarità della presenza dello straniero in territorio nazionale, ma nell'identificazione dei soggetti stranieri presenti (regolarmente o meno) nel territorio dello Stato, potendo l'accertamento di regolarità del soggiorno essere effettuato in un momento successivo.

La novella del 2009 ha inciso sul testo dell'art. 6, comma terzo, cit. non soltanto inasprendo il trattamento sanzionatorio (aumento del massimo edittale), ma precisando anche la condotta tipica (inottemperanza all'ordine di esibizione, anziché mancata esibizione alla richiesta di ufficiali e agenti di p.s.), in particolare attraverso la sostituzione della locuzione «e» alla disgiunzione «ovvero» relativamente alle due categorie di documenti da esibire: quelli d'identificazione e quelli attestanti la regolarità del soggiorno nel territorio dello Stato.

L'orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo il quale l'intervenuta modificazione normativa non avrebbe determinato mutamenti di alcun genere, in quanto la precisazione della condotta tipica ha valore esclusivamente formale, mentre l'introduzione della congiunzione "e" posta tra le classi dei documenti d'identificazione e dei documenti di soggiorno da esibire, adottata nella nuova formulazione in luogo di quella precedente, sicuramente disgiuntiva ("ovvero"), non può incidere sulla condizione di esigibilità dell'ottemperanza che è implicita nella clausola del giustificato motivo, né, in ogni caso, sulle situazioni pregresse» non è stato condiviso, poiché «il tenore oggettivo della disposizione incriminatrice tipizza la condotta contravvenzionale nel senso che, ai fini dell'adempimento del precetto normativo, è necessaria la concorrenza dell'esibizione dei documenti d'identificazione unitamente a quella del titolo di soggiorno. A tanto conduce l'interpretazione della disposizione di cui all'art. 6, comma 3, d. lgs. cit., seguendo i canoni dettati dall'art. 12 delle preleggi (secondo i criteri seguiti dalla stessa sentenza Mesky), al fine di attribuire significato alla norma per misurarne la precisa estensione e la possibilità di applicazione alla concreta fattispecie. È vero che, in astratto, la congiunzione "e" può essere utilizzata in funzioni di collegamento di tipo copulativo (nel senso di "e anche") sia di tipo disgiuntivo ("e/o"), ma l'analisi testuale del dettato normativo nel suo sviluppo diacronico (rispetto al precedente testo) e sincronico (rispetto alle coppie alternative poste all'interno delle due categorie di documenti) assegna alla congiunzione "e" il significato della necessaria compresenza delle due categorie di documenti: quelli d'identità (passaporto o altro documento identificativo) e quelli di regolarità (permesso di soggiorno o altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato)».

Dalla successione delle congiunzioni emerge che i collegamenti sono di disgiunzione ed alternatività all'interno di ciascuna categoria (stante la fungibilità dei documenti richiamati per attestare rispettivamente l'identità e la regolarità del soggiorno), di addizione e compresenza delle due diverse categorie (essendo palese l'infungibilità tra documenti d'identificazione e quelli relativi al soggiorno): il legislatore ha «consapevolmente operato la sostituzione della congiunzione da disgiuntiva ("ovvero") a congiuntiva ("e"), modificando la connessione delle parole e facendo venir meno l'equipollenza degli adempimenti evidenziata dalla sentenza Meski, così imponendo allo straniero di esibire, oltre ai documenti d'identificazione personale, anche quelli attestanti la regolarità della presenza nel territorio dello Stato. Ciò all'evidente scopo, per parafrasare la motivazione della sentenza Mesky, di consentire agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza non soltanto di procedere all'esatta e compiuta identificazione dello straniero, ma anche "di verificare, illico et immediate, attraverso l'esibizione di uno di quei documenti, la regolarità o meno della presenza dello straniero nel territorio nazionale", al fine di procedere al confronto tra dati identificativi e dati risultanti dai documenti concernenti la legalità dell'ingresso e del soggiorno, in maniera da far subito emergere l'eventuale non corrispondenza tra essi o l'utilizzazione di documenti falsi».

Lo scopo della predetta modifica normativa, volta a porre un freno al diffuso fenomeno dell'uso di documenti di soggiorno falsi o contraffatti, può essere desunto dalla contestuale e coerente introduzione[18] di una nuova fattispecie penale, che estende la pena della reclusione da uno a sei anni anche all'utilizzazione di uno dei documenti, contraffatti o alterati, relativi all'ingresso e al soggiorno.

Si è, pertanto, concluso che, rispetto alla precedente formulazione, secondo cui il reato era integrato per il fatto di non esibire una delle due categorie di documenti (d'identificazione ovvero di regolare soggiorno), a seguito della novella del 2009 la fattispecie contravvenzionale è integrata dallo straniero che, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, omette di esibire entrambe le categorie di documenti: «così ricostruita la fattispecie, ne deriva che essa non può più applicarsi allo straniero in posizione irregolare, cioè a colui che è entrato illegalmente in Italia o qui è rimasto nonostante la scadenza del titolo di soggiorno»; in particolare, la norma incriminatrice non può riguardare tale straniero «perché egli, in quanto irregolarmente presente nel territorio dello Stato, non può, per ciò stesso, essere titolare di permesso di soggiorno; la condotta dello straniero irregolare non può essere ricompresa nella nuova fattispecie di cui all'art. 6, comma 3, d.lgs. cit. in forza del principio di tipicità, risultando chiaro dal contenuto della norma e dall'interesse da essa tutelato che il soggetto attivo del reato è stato circoscritto allo straniero regolarmente soggiornante».

Queste conclusioni sono avvalorate dall'esame dell'intero contesto normativo in cui il legislatore ha introdotto la modificazione dell'art. 6, comma 3, cit., costituito non soltanto dall'introduzione dell'indicata estensione della fattispecie delittuosa dell'art. 5, comma 8bis, d.lgs. n. 286 del 1998, all'utilizzazione dei documenti di soggiorno falsificati o contraffatti, ma anche dall'introduzione nell'ordinamento del delitto di "ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato" e dalle disposizioni penali e processuali che l'accompagnano (art. 10-bis stesso d.lgs., inserito dall'art. 1, comma 16, lett. a), l. n. 94 del 2009): «con la modificazione del predetto art. 6, comma 3 (inasprimento sanzionatorio per l'omessa esibizione dei documenti da parte dello straniero regolarmente soggiornante), e con l'inserimento nell'art. 5, comma 8-bis della punizione dell'utilizzazione dei documenti di soggiorno falsi o contraffatti, il legislatore ha inteso facilitare, innanzitutto per le forze di polizia, la distinzione tra le due categorie di stranieri (regolari e irregolari), allo scopo di sottoporre quelli in posizione irregolare (la cui condotta integra il reato di cui all'art. 10-bis d.lgs. 286 del 1998) a sanzione pecuniaria, inflitta dal giudice di pace, a seguito di rapido e semplificato processo penale, finalizzato alla più veloce estromissione dal territorio dello Stato».

Si è osservato che «al legislatore, in effetti, interessa poco la sanzione penale per gli stranieri che sono entrati o soggiornano illegalmente nello Stato; interessa piuttosto attivare il meccanismo rapido volto all'espulsione, tant'è che il reato di cui all'art. 10-bis è sanzionato soltanto con pena pecuniaria, salva la ricorrenza dei più gravi reati, in forza dell'espressa clausola di sussidiarietà, all'evidenza prevista con riferimento ai delitti previsti dai successivi artt. 13 e 14 (non già per la contravvenzione prevista dal precedente art. 6, comma 3)».

Il legislatore ha, pertanto, introdotto un "doppio binario", «sanzionando gli stranieri regolarmente soggiornanti per la mancata esibizione dei documenti con la pena inasprita dall'art. 6, comma 3, cit. (costringendoli a circolare sempre muniti di completa documentazione d'identità e di soggiorno) e gli stranieri in posizione irregolare con un crescendo sanzionatorio-repressivo scandito sulle diverse eventuali condotte illecite in progressione (artt. 10-bis, 14, comma 5-ter, 14, comma 5-quater, 13, comma 13, d.lgs. cit.), sempre finalizzato all'espulsione dal territorio nazionale nel più breve tempo possibile, obiettivo che rischierebbe di essere compromesso dai tempi processuali di accertamento e di eventuale esecuzione di pena per il reato di cui all'art. 6, comma 3 (per il quale non sono previsti i meccanismi facilitatori dell'espulsione di cui all'art. 10-bis).

Al fine di attivare la dinamica repressiva-espulsiva appena indicata è funzionale la stessa previsione dell'art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, nell'interpretazione sopra formulata. Come si è notato, l'interesse protetto da questa norma è quello di procedere immediatamente alla verifica della regolarità della presenza dello straniero in territorio nazionale, per poter il più rapidamente possibile mettere in opera il meccanismo processual-penale e amministrativo volto all'espulsione dal territorio nazionale dello straniero in posizione irregolare».

L'identificazione e l'accertamento di regolare presenza degli stranieri legalmente soggiornanti costituiscono, infatti, attività prodromiche e funzionali a innescare il procedimento di espulsione di quelli in posizione irregolare: «invero, la mancata esibizione di documenti attestanti la regolarità del soggiorno, di per sé, costituisce un indizio del reato di cui all'art. 10-bis, con tutto ciò che consegue in termini di accertamenti di polizia giudiziaria, a cominciare dai poteri d'identificazione di cui all'art. 349 cod. proc. pen. In ogni caso, ritenere che la fattispecie dei cui all'art. 6, comma 3, d.lgs. cit. escluda come soggetto attivo lo straniero in posizione irregolare, non implica affatto che egli sia sciolto dai vincoli connessi al dovere di farsi identificare, a richiesta anche di ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, applicandosi comunque a tutti gli stranieri (in posizione regolare o irregolare) l'art. 6, comma 4, che consente di sottoporre a rilievi fotodattiloscopici e segnaletici lo straniero (in posizione regolare o irregolare) nel caso che vi sia motivo di dubitare della sua identità personale».

In conclusione, si è ritenuto che, ai sensi dell'art. 2, comma 2, cod. pen., a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 1, comma 22, lett. h), l. n. 94 del 2009 sia intervenuta l'abolitio criminis del reato già previsto dall'art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 nei confronti dello straniero in posizione irregolare.

1.1. Segue. Le fattispecie penali per violazione dell'ordine di allontanamento: le novelle legislative successive alla decisione della Corte di Giustizia (caso El Dridi).

Indubbiamente uno dei più importanti interventi normativi in materia penale dell'anno appena concluso, anche per il rilevante impatto che comporta sulle pendenze degli uffici giudiziari, è quello relativo alla riforma della normativa in materia di espulsione degli immigrati irregolari. Come noto, all'entrata in vigore lo scorso 24 dicembre 2010 della direttiva 2008/115/CE (c.d. direttiva rimpatri) l'Italia non vi aveva ancora dato attuazione, circostanza che aveva suscitato serie perplessità sulla costante compatibilità di alcune disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998 con la nuova normativa europea. E, infatti, numerosi giudici avevano ritenuto di dover disapplicare le disposizioni nazionali che sanzionavano l'inottemperanza ai provvedimenti di espulsione, mentre altri avevano preferito interpellare in via pregiudiziale sul punto la Corte di Giustizia dell'Unione Europea. E proprio quest'ultima, con la sentenza 28 aprile 2011, El Dridi, nel decidere uno dei menzionati ricorsi, ha ritenuto la diretta applicabilità delle disposizioni contenute negli artt. 15 e 16 della direttiva ed ha considerato l'art. 14, comma 5-ter del citato decreto legislativo incompatibile con le stesse e dunque da disapplicare. Anche la Corte di Cassazione ha quindi doverosamente provveduto alla disapplicazione della menzionata norma incriminatrice, nonché di quelle che analogamente evidenziavano gli stessi profili di incompatibilità individuati dal giudice sovranazionale. In tal senso alcune pronunzie[19] hanno ad esempio affermato che l'efficacia diretta nell'ordinamento interno della direttiva rimpatri impone la disapplicazione dell'art. 14, comma quinto ter e quinto quater, d.lgs. n. 286 del 1998 con la stessa incompatibile, determinando la sostanziale abolitio dei delitti previsti dalle due disposizioni, come tale rilevabile anche dal giudice di legittimità ai fini dell'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per non essere il fatto più previsto come reato.

Per sanare la situazione venutasi a creare è come noto successivamente intervenuto il d.l. 23 giugno 2011, n. 89, poi convertito, con marginali modificazioni, nella l. 2 agosto 2011, n. 129. La novella ha profondamente modificato la procedura di espulsione degli stranieri irregolarmente immigrati nel territorio nazionale cercando di renderla più aderente ai principi sanciti dalla direttiva di cui si è detto e, conseguentemente, ha completamente rivoluzionato il sistema delle incriminazioni penali, soprattutto - ed sono questi i profili che più impattano l'attività degli uffici giudiziari e influiscono positivamente sul sovraffollamento carcerario - non prevedendo più sanzioni detentive e, quindi, la possibilità di applicare nei procedimenti relativi alle suddette violazioni misure cautelari, nonché attribuendo la cognizione dei nuovi illeciti alla competenza del giudice di pace. E la Corte ha già avuto modo di pronunziarsi[20] anche sui rapporti tra le nuove fattispecie introdotte dalla novella in oggetto e quelle abrogate e risultate incompatibili con la normativa europea, stabilendo come tra le stesse sussista un rapporto di sostanziale discontinuità che attribuisce all'intervento normativo un effetto abolitivo delle previgenti incriminazioni e che consente di applicare le nuove esclusivamente ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore della novella.

2. La tutela penale del lavoro.

Particolare attenzione è stata dedicata anche nell'anno 2011 al tema della tutela del lavoro in ambito penale.

2.1. Segue. Causalità e colpa del lavoratore.

Un primo profilo ha riguardato il delicato tema della causalità sub specie dell'attribuibilità, in via esclusiva, al lavoratore delle conseguenze dell'infortunio derivanti dalla sua disattenzione dell'espletamento della prestazione lavorativa.

Sul punto, la quarta sezione ha affermato che il datore di lavoro é responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore per assenza o inidoneità delle misure di sicurezza, senza che sia possibile attribuire efficienza causale esclusiva alla condotta del lavoratore medesimo, poiché, anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008 il datore di lavoro é titolare di un obbligo di protezione nei confronti dei lavoratori[21]. Analogamente, si è affermato che la colpa del lavoratore eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché l'esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l'evento-morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento[22].

2.2. Segue. Continuità normativa tra discipline (d. lgs. n. 81/08 e disciplina abrogata).

È, poi, proseguita, l'opera giurisprudenziale di valutazione della continuità normativa delle previgenti disposizioni in materia di lavoro, oggetto di abrogazione per effetto dell'entrata in vigore del Testo Unico sulla Sicurezza (d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81).

Sul tema la Corte ha affermato che, con riferimento alla normativa antinfortunistica riguardante la posa in opera dei ponteggi, vi è continuità normativa tra il d.lgs. n. 81 del 2008 e la previgente disciplina di cui al d.lgs. n. 494 del 1996, poiché l'art. 2.1.5. dell'allegato 18 al d.lgs. n. 81 del 2008 contiene prescrizioni analoghe (quanto all'altezza del parapetto rispetto al piano di calpestio e della tavola fermapiede, ed al divieto di luci verticali maggiori di cm. 60) a quelle di cui all'art. 5 d.lgs. n. 494 del 1996[23]. Ancora, con riferimento alla necessaria protezione dei conduttori fissi o mobili muniti di rivestimento isolante, sussiste continuità normativa tra la fattispecie, già prevista dall'art. 282 del d.P.R. n. 547 del 1955, e quella oggi contemplata dall'art. 80, comma terzo, del d.lgs. n. 81 del 2008[24].

2.3. Segue. L'ambito di operatività: la nozione di "luogo di lavoro" e il DVR.

Quanto all'ambito di operatività delle singole disposizioni normative poste a tutela della sicurezza, significativa appare quella decisione che ha precisato come nella nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all'attività che si svolge nel cantiere[25].

Con riferimento, in particolare, alla delimitazione dell'ambito applicativo dell'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008 (e, quindi, all'obbligo di valutazione del rischio e di redazione del relativo documento valutativo), la Corte, mentre ha affermato che l'obbligo di predisposizione del documento di elaborazione dei rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori non viene meno per il fatto che allo stesso si sia già adempiuto da parte di società successivamente assorbita da altra, trattandosi di obbligo che deve essere sempre attuale e pertinente alle concrete condizioni di svolgimento dell'attività lavorativa sussistenti nell'azienda, anche al fine di garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza[26]; dall'altro, ha precisato non solo che costituisce reato l'omessa elaborazione del DVR da parte del datore di lavoro di un'azienda che occupi fino a dieci addetti, in quanto le modalità semplificate di adempimento degli obblighi in materia di valutazione dei rischi, previste per tali aziende dal comma undicesimo della citata disposizione, non esonerano il datore di lavoro dall'obbligo di predisporre e tenere il predetto documento[27], ma anche che detto reato sussiste in caso di esecuzione di interventi di bonifica ed isolamento di materiali contenenti amianto, non seguita né dalla valutazione del rischio amianto né dall'indicazione di tale rischio nel DVR, in quanto la presenza di amianto rende necessario un programma di manutenzione e controllo periodico delle operazioni già eseguite[28].

2.4. Segue. Analisi di alcune fattispecie penali: l'omissione colposa di cautele antinfortunistiche e l'aggravante della violazione delle norme prevenzionistiche.

Particolare attenzione è stata dedicata anche alla configurabilità di alcune delle fattispecie penali più diffuse in materia antinfortunistica.

Soffermandosi, ad esempio, sulla configurabilità della circostanza aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche, la Corte ha precisato come non occorre, affinché essa sia configurabile, che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 cod. civ., che fa carico all'imprenditore di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori[29]; mentre, con riferimento alla fattispecie criminosa dell'omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro, si è avuto modo di chiarire come la stessa punisce le condotte consistite nell'omessa collocazione, nella rimozione oppure nella resa inidoneità allo scopo, degli apparecchi e degli altri mezzi predisposti all'estinzione dell'incendio nonché al salvataggio o al soccorso delle persone, non occorrendo anche il concreto verificarsi di uno dei danni che essa mira ad impedire o, comunque, a limitare[30].

2.5. Segue. I soggetti della prevenzione: l'individuazione dei "garanti" della sicurezza.

Particolare attenzione, nella materia, è stata inoltre dedicata al tema dell'individuazione dei soggetti responsabili delle violazioni della normativa antinfortunistica, destinatari delle norme, anche ai fini della specificazione delle posizioni di garanzia attribuibili a ciascun soggetto attivo della sicurezza.

Premesso che la veste di garante dell'altrui incolumità, oltre che di diritto, può essere esercitata anche di fatto (potendo, inoltre, prescindere dalla presenza di un rapporto gerarchico tra il garante di fatto ed il soggetto garantito)[31], alcune decisioni hanno, ad esempio, affermato che la responsabilità per l'illecito contravvenzionale, come tale ascrivibile anche a titolo di colpa, del divieto di vendita di macchine non conformi alle norme antinfortunistiche, grava anche sull'amministratore della ditta al quale siano attribuite le fondamentali scelte aziendali afferenti alla commercializzazione dei prodotti[32]. Con particolare riferimento alla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, si è ribadita, sulla scia di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidatosi, che questi risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l'adozione di misure prevenzionali doverose[33]. Con riferimento, invece, alla posizione del responsabile della sicurezza (sia, o meno, datore di lavoro), si è affermato che questi deve attivarsi per controllare fino alla pedanteria che i lavoratori assimilino le norme antinfortunistiche nella ordinaria prassi di lavoro; e tale onere di informazione e di assiduo controllo si impone a maggior ragione nei confronti di coloro che prestino lavoro alle dipendenze di altri, venendo per la prima volta a contatto con un ambiente e delle strutture ad essi non familiari, e che perciò possono riservare insidie non note[34]. Ancora, sempre con riferimento all'individuazione del soggetto responsabile in ambito privatistico, la Corte ha affermato che il direttore di una struttura alberghiera, in considerazione del ruolo dirigenziale ricoperto, è titolare della posizione di garanzia avente ad oggetto l'adozione delle iniziative necessarie ai fini dell'attuazione delle misure di sicurezza appropriate alla prevenzione di infortuni sul lavoro, ed è tenuto ad assicurarsi che esse siano costantemente applicate[35]. Diversamente, la Corte ha escluso che fosse individuabile una posizione di garanzia nei confronti del responsabile del servizio manutenzione e del responsabile del reparto quanto alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all'effettivo potere di spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di lavoro[36].

L'individuazione delle posizioni di garanzia in ambito lavorativo ha riguardato, inoltre, il settore della Pubblica Amministrazione.

Ad esempio, con riferimento all'individuazione degli obblighi, in materia di sicurezza, gravanti nell'ambito dell'ente locale Comune, si è affermato che il sindaco ed il responsabile dell'ufficio tecnico del comune sono titolari, in virtù di una generale norma di diligenza che impone agli organi (rappresentativi o tecnici) dell'amministrazione comunale di vigilare, nell'ambito delle rispettive competenze, sull'incolumità dei cittadini, della posizione di garanzia avente ad oggetto l'adeguata manutenzione ed il controllo dello stato delle strade comunali[37]. Ancora, sempre in ambito comunale, si è affermato che i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, residuando in capo al Sindaco unicamente poteri di sorveglianza e controllo collegati ai compiti di programmazione che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo[38].

Anche il lavoratore, infine, può essere chiamato a rispondere penalmente delle violazioni antinfortunistiche.

In tale contesto si è, ad esempio, affermato che l'uso di apparecchi a fiamma libera e la manipolazione di materiali incandescenti, in violazione del divieto previsto dall'art. 63, comma primo, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in relazione all'Allegato IV, punto 4.1.2. del predetto decreto, è sanzionato penalmente sia se commesso dal datore di lavoro che se commesso dal lavoratore[39].

3. La tutela dell'ambiente.

Nel corso dell'anno 2011, numerose sono le decisioni che hanno interessato la disciplina ambientale.

In questo contesto si inserisce soprattutto l'analisi delle pronunce giurisprudenziali della terza sezione, che assume una valenza peculiare nel panorama della funzione nomofilattica della Corte, in considerazione dell'elevato grado di tecnicismo delle materie trattate dalla Sezione, chiamata a pronunciarsi, oltre che su materie codicistiche (tra cui la delicatissima materia dei reati in materia sessuale), sulla disciplina penale extra codicem tra cui spicca la materia ambientale. lato sensu intesa. (disciplina in materia di inquinamento idrico, acustico, atmosferico, elettromagnetico, in materia di rifiuti; urbanistica e paesaggio, aree protette), nonché quelle altre materie specialistiche di rilevante impatto applicativo (dalla disciplina in materia di giochi e scommesse e di tutela delle competizioni sportive da fenomeni devianti, quali il doping, a quella in materia di previdenza ed assistenza; dalla disciplina in materia di alimenti a quella del diritto d'autore).

Le pronunce emesse nel corso dell'anno 2011 si caratterizzano per la particolare attenzione dedicata all'applicazione delle numerose modifiche normative recentemente introdotte alla disciplina dettata dal D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (cosiddetto testo Unico Ambientale) dal D. Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, recante le "Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive" (G.U. n. 288 del 10 dicembre 2010 - S.O. n. 269). La materia ambientale in generale - e quella disciplinata dal Testo Unico, in particolare - era stata, peraltro, interessata, a far data dall'entrata in vigore della nuova disciplina, da una serie di reiterati interventi del legislatore nazionale. Alcuni di essi sono stati certamente di ampio respiro (il primo correttivo del novembre 2006, il secondo correttivo del gennaio 2008, il terzo correttivo del giugno 2010, il quarto correttivo del dicembre 2010), altri, diversamente, erano intervenuti "a macchia di leopardo", con alcune modifiche sparse e spesso disomogenee sull'originario testo normativo del 2006. Ciò ha comportato, da un lato, un sostanziale stravolgimento dell'impianto normativo originario (il T.U.A., infatti, al 31 dicembre 2010, aveva subito ben 37 modifiche normative) e, dall'altro, ha reso necessaria un'adeguata opera di interpretazione delle novellate disposizioni da parte della Suprema Corte.

In tale contesto, gli interventi della giurisprudenza di legittimità sono stati mirati a fornire utili spunti in sede interpretativa al fine di rendere meglio intelligibili e correttamente applicabili le nuove disposizioni.

3.1. Segue. Le disposizioni penali nel mutamento del quadro normativo

Tra le pronunce di maggior rilevanza nella predetta chiave interpretativa, si segnala, in particolare, la sentenza[40] che ha affrontato il delicato problema della successione di leggi penali nel tempo con riferimento alla disciplina in tema del trasporto dei rifiuti, disciplina che più di ogni altra ha subito nel T.U.A. una modifica sostanziale rispetto al quadro previgente, soprattutto in vista della prossima entrata a regime del c.d. SISTRI (sistema di tracciabilità dei rifiuti), le cui previsioni sanzionatorie sono state introdotte nell'attuale Testo Unico proprio dalla novella del 2010.

La Corte, con la sentenza in esame, ha affermato che il trasporto di rifiuti pericolosi senza il formulario di identificazione dei rifiuti o con formulario che riporti dati incompleti o inesatti, previsto come delitto dall'art. 258, comma quarto, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 nella formulazione previgente alle modifiche introdotte dal d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, non è più previsto dalla legge come reato. La nuova fattispecie dell'art. 260-bis, comma settimo, del d.lgs. n. 152 del 2006, introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010, sanziona, infatti, il trasporto di rifiuti pericolosi non accompagnato dalla copia cartacea della scheda SISTRI e non quello accompagnato dal F.I.R. o con un formulario con dati incompleti o inesatti.

La decisione della Corte, depositata il 27 luglio 2011, ha anticipato di pochi giorni il d.lgs. 7 luglio 2011 n. 121 (recante "Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente, nonché della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all'inquinamento provocato dalle navi e all'introduzione di sanzioni per violazioni"), in vigore dal 16 agosto 2011, con cui il legislatore ha tentato di porre rimedio all'effetto abrogativo determinatosi a seguito della modifica dell'art. 258 T.U.A. operata dal d.lgs. n. 205/2010 che, come affermato dalla Corte, aveva sostanzialmente depenalizzato una delle condotte di maggior aggressione al bene ambientale, ossia il trasporto di rifiuti pericolosi senza la documentazione prescritta per la sua tracciabilità o con documentazione incompleta od inesatta. Ed infatti, il d.lgs. n. 121/2011, modificando la disciplina transitoria del d.lgs. n. 205/2010 (segnatamente, l'art. 39), ha reintrodotto "a tempo" l'applicazione della previgente disposizione sanzionatoria dell'art. 258 T.U.A., delimitandone temporalmente gli effetti fino all'entrata a regime della nuova disciplina SISTRI. Ciò non ha impedito che l'effetto abrogativo esplicasse, ai sensi dell'art. 2 cod. pen., i suoi effetti su tutti i procedimenti giudiziari in corso alla data del 25 dicembre 2010, data di entrata in vigore della novella operata dal D. Lgs. n. 205/2010.

Sempre sul tema della successione di leggi, la Corte ha affermato che il principio di retroattività della legge più favorevole non trova applicazione in riferimento alla successione di leggi amministrative che abbiamo a regolare le procedure per lo svolgimento di attività, il cui carattere criminoso dipenda dall'assenza di autorizzazioni[41].

3.2. Segue. La bonifica dei siti inquinati.

Altra decisione, di particolare interesse, ha riguardato il tema della tutela dei siti inquinati, sottoposti ad attività di bonifica.

L'attenzione della Corte è stata in particolare dedicata al reato di mancata effettuazione della comunicazione, prevista in caso di imminente minaccia di danno ambientale di un sito inquinato (artt. 242 e 257, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), la cui configurabilità è stata esclusa nei confronti di colui che, pur proprietario del terreno, non abbia cagionato l'inquinamento del sito stesso[42].

Si è, inoltre, dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 256, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui limita l'applicazione della "condizione di non punibilità" di cui all'art. 257, comma quarto, ai soli reati ambientali nei quali l'evento inquinamento concorre ad integrare la fattispecie, in quanto la scelta del legislatore di favorire la bonifica del sito secondo le indicazioni scaturenti dal progetto redatto ai sensi degli artt. 242 e segg. del d.lgs. n. 152 del 2006, risponde a canoni di logica e razionalità, giustificandosi con l'esigenza di garantire l'efficacia dell'intervento di ripristino nei più gravi casi in cui si rende necessaria l'adozione di uno specifico piano di bonifica[43].

3.3. Segue. La rinnovata disciplina in tema di sottoprodotti.

Altro settore di intervento nella materia ambientale ha riguardato la disciplina dei sottoprodotti, reiteratamente modificata nel corso di questi ultimi anni e, di recente, novellata dal d.lgs. n. 205 del 2010.

La Corte, soffermandosi sulle novità inserite dalla novella del 2010, ha avuto modo di affermare che il requisito del valore economico, richiesto per la cessazione della qualità di rifiuto dall'abrogato art. 181 bis, comma primo, lett. e) del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 per le materie, sostanze e prodotti secondari (cosiddette M.P.S.), non è più previsto dal nuovo art. 184 ter, comma primo, lett. b), del citato decreto che, tra le condizioni necessarie per la cessazione della indicata qualità, richiede solo che vi sia un mercato o una domanda per tale sostanza o oggetto[44]. Analogamente, nell'operare il raffronto tra la previgente disciplina e quella novellata nel 2010, si è ad esempio affermato che i ritagli di materiali tessili non rientrano nella nozione di sottoprodotto come oggi definita dall'art. 184 bis del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, trattandosi di materiali già sottoposti ad un ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale[45].

3.4. Segue. Inquinamento idrico: la parziale depenalizzazione del superamento dei limiti tabellari.

La l. 25 febbraio 2010, n. 36, recante "Disciplina sanzionatoria dello scarico di acque reflue", modifica il T.U.A. (c.d. Testo Unico Ambientale) introduceva una modifica alla disciplina sanzionatoria penale in tema di inquinamento idrico. In particolare, la modifica interessava l'art. 137, comma quinto, del d.lgs. n. 152 del 2006, in tema di sanzioni penali applicabili ai cosiddetti scarichi extratabellari di acque reflue industriali.

La modifica si era resa necessaria per superare le difficoltà interpretative emerse in sede giurisprudenziale in seguito alla modifica apportata dal d.lgs. n. 258/2000.

In particolare, in alcuni casi un orientamento giurisprudenziale di maggior rigore aveva ricondotto alla sanzione penale lo scarico di acque reflue industriali in acque superficiali o fognature che superasse i valori limite fissati nella tabella 3, nonché lo scarico di acque reflue industriali sul suolo quando superasse i valori limite fissati nella tabella 4, anche se il superamento non riguardava le diciotto sostanze più pericolose indicate nella tabella 5[46]. Altro orientamento, invece, sulla scia di un autorevole arresto giurisprudenziale a Sezioni Unite[47] - che aveva escluso la rilevanza penale dello scarico di acque reflue industriali superiore ai limiti di legge, qualora esso avesse riguardo a sostanze inquinanti non comprese nella tabella 5 dell'allegato 5 - sosteneva che ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 59, comma quinto, del d.lgs. 11 maggio 1999 n. 152 (sostituito dall'art. 137, comma quinto, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) occorresse la ricorrenza simultanea di due condizioni: l'una che fossero superati i valori limite fissati nella Tabella 3 o, nel caso di scarico sul suolo, nella Tabella 4 dell'Allegato 5 e l'altra, che si trattasse di una delle sostanze individuate nella Tabella 5 dello stesso allegato[48].

La modifica normativa introdotta all'art. 137, comma quinto, cit. dalla legge n. 36 del 2010, costituiva, in relazione al superamento dei limiti previsti dalle tabelle 3 e 4, una vera e propria depenalizzazione.

Di ciò ha preso atto la giurisprudenza di legittimità che, nel 2011, ha affermato che successivamente alla modifica dell'art. 137, comma quinto, del d.lgs. n. 152 del 2006 ad opera della legge n. 36 del 2010, il superamento dei limiti tabellari integra reato solo ove riguardante le sostanze indicate nella tabella 5 dell'allegato 5 alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006, diversamente integrandosi un mero illecito amministrativo[49].

3.5. Segue. L'emergenza rifiuti.

L'interesse della Corte non poteva non riguardare anche la disciplina emergenziale in tema di rifiuti, in vigore in alcune Regioni per la situazione di grave difficoltà gestionale (in particolare, Campania, Calabria e Sicilia).

Sulla questione, con un'interessante decisione, la terza sezione ha chiarito che lo stato di emergenza in materia di rifiuti, la cui dichiarazione legittima il ricorso ai mezzi e poteri straordinari previsti dalla l. 24 febbraio 1992, n. 225, riguarda tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti, ivi inclusa l'attività di smaltimento[50].

3.6. Segue. Danno ambientale e legittimazione all'azione risarcitoria.

Non poteva mancare all'attenzione della Corte la disciplina in materia danno ambientale, cui il d.lgs. n. 152/2006 dedica l'intera Parte VI.

Già nel 2010 la Corte, nel chiarire l'ambito applicativo delle norme dettate dal Testo Unico ambientale, aveva precisato che spetta soltanto allo Stato, e per esso al Ministro dell'Ambiente, la legittimazione alla costituzione di parte civile nel procedimento per reati ambientali, al fine di ottenere il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse pubblico e generale all'ambiente; diversamente, tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi comprese le Regioni e gli Enti pubblici territoriali minori, possono agire ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto da essi subito, diverso da quello ambientale[51].

Tale orientamento è stato ribadito nell'anno 2011, essendosi, da un lato, riconosciuto alla Regione e, più in generale, agli enti territoriali la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per i reati che causano un danno ambientale, perché il bene ambientale, inteso come assetto qualificato del territorio, è oggetto di un loro diritto di personalità[52]; dall'altro, invece, si è ulteriormente precisato che è legittimato a costituirsi parte civile il cittadino che non si dolga del degrado dell'ambiente ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), in conformità alla regola generale posta dall'art. 2043 cod. civ.[53].

4. La tutela del territorio e del paesaggio.

Nel corso dell'anno 2011, numerose decisioni hanno interessato la disciplina in tema di urbanistica, paesaggio ed aree protette.

4.1. Segue. I reati edilizi ed urbanistici.

L'analisi della copiosa giurisprudenza di legittimità che ha interessato il macrosettore dei reati posti a presidio dell'ordinato assetto e governo del territorio dimostra l'elevata attenzione quotidianamente riservata al tema da parte della Corte.

Tra le decisioni meritevoli di menzione, si segnala, ad esempio, un'importante sentenza che ha chiarito l'ambito applicativo della fattispecie penale di cui all'art. 44, comma primo, lett. a), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (cosiddetto testo Unico dell'edilizia), precisando, in particolare, che non rientra tra le prescrizioni, la cui inosservanza integra il reato di cui all'art. 44, comma primo lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, la presentazione, da parte del committente o del responsabile dei lavori appaltati, del documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi (cosiddetto D.U.R.C.), prima che abbiano inizio i lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività; ciò si giustifica, secondo la Corte, in quanto le inosservanze penalmente sanzionate devono riguardare la condotta di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, non potendosi estendere il campo di applicazione della norma sanzionatoria a violazioni, come quella in esame, afferenti ad adempimenti amministrativi[54].

Interessante, poi, in quanto si pone in difformità rispetto ad un orientamento giurisprudenziale sostenuto in passato, è il mutamento di giurisprudenza attuato in tema di responsabilità del dirigente o del responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune, essendo esclusa la configurabilità, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, della responsabilità ex art. 40 cpv. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento; a sostegno di quanto sopra, la Corte ha chiarito come la titolarità della posizione di garanzia, discendente dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, ne determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari, ma non in caso di condotta commissiva[55].

4.2. Segue. I reati paesaggistici.

Non meno approfondita è stata l'esegesi della disciplina normativa in tema di tutela del paesaggio, settore nel quale la Corte ha da sempre dimostrato particolare sensibilità verso la tutela e salvaguardia dei valori costituzionali incarnati dall'art. 9 della Carta fondamentale.

Tra le decisioni meritevoli di particolare menzione, si segnalano quelle pronunce che hanno fornito alcuni importanti chiarimenti circa la configurabilità del cosiddetto delitto paesaggistico, previsto dall'art. 181, comma 1-bis, del d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.

Con riferimento a detta fattispecie incriminatrice, mentre, da un lato, la Corte ha dichiarato non manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 181, comma primo-ter, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per presunto contrasto con gli artt. 3, 25, comma secondo, e 27, comma terzo, Cost., nella parte in cui non prevede l'applicabilità della causa di non punibilità anche al delitto paesaggistico di cui all'art. 181, comma primo-bis, del citato decreto, in caso di positivo accertamento della compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata, atteso che l'estensione di tale causa di non punibilità al delitto, prevista per la sola contravvenzione paesaggistica, non sarebbe possibile trattandosi di situazioni non omogenee[56]; dall'altro, ha precisato che il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del delitto paesaggistico previsto dall'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, disattendendo la tesi difensiva secondo cui la mancata estensione della causa di non punibilità anche alla fattispecie delittuosa, prevista dall'art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004 per la sola fattispecie contravvenzionale di cui al comma primo, violerebbe il principio di offensività[57].

Riguardando materia di grande attualità, infine, merita ancora menzione quella decisione che ha ritenuto configurabile la contravvenzione paesaggistica nel caso di installazione di pannelli solari su di un immobile in difetto di preventiva autorizzazione paesaggistica, in quanto intervento idoneo ad incidere negativamente sull'assetto paesaggistico[58].

  • finanze pubbliche
  • frode fiscale
  • reato tributario
  • società

Cap. 5

Impresa e mercato

Sommario

1 La responsabilità da reato degli enti. Tassatività dell'elencazione dei reatipresupposto e reato di falsità nelle relazioni o comunicazioni delle società di revisione. - 1.1 Segue. La responsabilità da reato nell'ambito dei gruppi di società. - 1.2 Segue. Le altre decisioni di rilievo. - 2 Finanze e tributi. La natura giuridica della frode fiscale. - 2.1 Segue. I presidi all'integrità delle finanze pubbliche. - 2.2 Segue. La disciplina dei c.d. capitali scudati. - 2.3 Segue. Ulteriori questioni in tema di reati tributari.

1. La responsabilità da reato degli enti. Tassatività dell'elencazione dei reatipresupposto e reato di falsità nelle relazioni o comunicazioni delle società di revisione.

Le Sezioni Unite, chiamate a decidere «se permanga la responsabilità da reato dell'ente in riferimento ai fatti criminosi di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione dopo la formale abrogazione dell'art. 2624, comma 2, cod. civ., il cui contenuto di incriminazione è stato riscritto da altra disposizione del decreto legislativo di abrogazione», con sentenza n. 34476 del 23/06/2011, dep. 22/09/2011, Deloitte Touche s.p.a., rv. 250347 hanno affermato il principio così massimato:

«Il delitto di falsità nelle relazioni e nelle comunicazioni delle società di revisione, già previsto dall'abrogato art. 174-bis D. Lgs.n. 58 del 1998 ed ora configurato dall'art. 27 D. Lgs. n. 39 del 2010, non è richiamato nei cataloghi dei reati presupposto della responsabilità da reato degli enti, che non menzionano le su richiamate disposizioni, e conseguentemente non può costituire il fondamento della suddetta responsabilità. (In motivazione la Corte ha altresì precisato che anche l'analoga fattispecie prevista dall'art. 2624 cod. civ., norma già inserita nei suddetti cataloghi, non può essere più considerata fonte della menzionata responsabilità, atteso che il d.lgs. n. 39 del 2010 ha provveduto ad abrogare anche il citato articolo)».

Le Sezioni Unite hanno premesso che il quesito ad esse posto si presentava apparentemente complesso, «a cagione della tormentata vicenda genetica che ha (sinora) contrassegnato, nel nostro ordinamento, la materia della revisione contabile».

Dopo aver ricostruito le vicende normative della fattispecie che punisce le falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione (interessata non già per il suo rilievo penale, bensì per l'idoneità a fondare la responsabilità c.d. "amministrativa" dell'ente nel cui interesse ha agito il soggetto attivo del reato, secondo la previsione introdotta nel nostro ordinamento dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), il Supremo Collegio ha ricordato che «il criterio di imputazione, che permette l'addebito della condotta della persona fisica all'organismo, nel cui interesse/vantaggio questa ha agito, suppone la commissione di illecito (non necessariamente a rilievo penale, cfr. per es. art. 25-sexies d.lgs. n. 231 del 2001 che prevede - secondo autorevole dottrina - un'ulteriore responsabilità, modulata su quella discendente da reato, conseguente alla commissione non già di reato, bensì di violazione amministrativa proprio della disciplina sugli abusi di informazioni privilegiate e sulla manipolazione) nell'ambito di ipotesi tassativamente previste dal legislatore (ed elencate dalle previsioni della Sezione III del Capo I del d.lgs. n. 231 del 2001), secondo una cernita che rinviene la sua filigrana nelle direttive delle convenzioni internazionali e che si articola in un quadro contrassegnato dal principio di legalità (come recita la rubrica dell'art. 2 d.lgs. n. 231 del 2001). Principio che, pertanto, coinvolge, per il tramite di una legge, non soltanto la fattispecie costitutiva dell'illecito (e le sanzioni per essa previste), ma anche il collegamento tra la condotta della persona fisica e la speciale responsabilità para-penale dell'ente».

Fino ad ora sembrava essere stata favorita nel nostro ordinamento l'espansione della tipologia degli illeciti forieri della responsabilità amministrativa degli enti; tuttavia, proprio con il d.lgs. n. 39 del 2010, si è avuta per la prima volta l'abrogazione di una di queste fattispecie, senza che il legislatore sia intervenuto direttamente sul catalogo, fonte della responsabilità medesima, cioè, l'art. 25-ter d.lgs. n. 231 del 2001, «opzione che contraddice anche la legislazione sulle violazioni penali a sfondo economico, ove evidente è apparsa, sino ad oggi, la volontà del legislatore di accompagnare la risposta prettamente penalistica, a quella speciale, nei confronti dell'organismo che si ritiene abbia tratto vantaggio. Il d.lgs n. 39 del 2010 ha, quindi, incrinato l'omogeneità del complessivo disegno normativo, con un mutamento del tratto repressivo, anche se, in tema di tutela del risparmio, la pur recente legge n. 262 del 2005 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) ha apprestato un inasprimento sanzionatorio. Tanto giustifica l'incertezza dell'interprete davanti al segno di forte discontinuità (non compiutamente palesato, mancando - come si è detto - un esplicito intervento sul quadro dell'art. 25-ter d.lgs n. 231 del 2001) relativamente alla responsabilità amministrativa della società di revisione (permanendo quella penale a carico dei suoi esponenti)».

Ogni perplessità viene, peraltro, fugata quando dal quadro sistematico si scende alla diretta lettura della novella: «nel rispetto del principio di legalità a cui si è già fatto cenno e seguendo l'arresto di questa Corte - per cui "qualora il reato commesso nell'interesse o a vantaggio di un ente non rientri tra quelli che fondano la responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001 di quest'ultimo, ma la relativa fattispecie ne contenga o assorba altra che invece è inserita nei cataloghi dei reati presupposto della stessa, non è possibile procedere alla scomposizione del reato complesso o di quello assorbente al fine di configurare la responsabilità della persona giuridica"[59] - non si offrono possibilità interpretative incerte. In particolare, non vi è spazio per appellarsi ad ipotesi di integrazione normativa della fattispecie, a mezzo di un possibile rinvio c.d. "mobile", poiché - al di là di qualsiasi quesito coinvolgente questa delicata materia - la volontà legislativa risulta evidente, senza postulare ulteriori apporti ermeneutici, quando sia inquadrata nella complessiva operazione riformatrice disposta dal legislatore mediante il d. lgs. n. 39 del 2010».

Nel caso in esame, la norma su cui si fonda l'accusa non appartiene al novero di quelle che consentono l'applicazione della disciplina para-penale verso gli enti, poiché la pubblica accusa, dopo una qualche oscillazione, ha puntualizzato l'addebito nella violazione dell'art. 174-bis del T.U.F., norma scelta in considerazione della peculiare natura delle comunicazioni della società - oggetto della revisione disposta da Deloitte & Touche - ente ammesso alla quotazione di Borsa, cioè società c.d. "aperta", destinata a soggiacere alla disciplina del T.U.F.: «è, pertanto, l'art. 174-bis T.U.F. il cardine che qualifica l'accusa e delimita l'ambito del giudizio, postoché il giudice deve in essa inquadrare l'esatta normativa giuridica che regola la fattispecie ascritta all'ente: anche in questa speciale procedura la contestazione dell'addebito è il referente (che espleta la stessa funzione assegnata, nel processo penale, all'art. 417 cod. proc. pen., verso la persona fisica) mediante cui impostare il sillogismo interpretativo per valutare la condotta oggetto di giudizio».

La citata disposizione può, tuttavia, ritenersi del tutto estranea al meccanismo attributivo della speciale responsabilità amministrativa di cui si tratta: «infatti, la violazione dell'art. 174-bis T.U.F. è estranea al peculiare paradigma che collega l'azione della persona fisica all'ente per cui essa agisce. Pertanto, ogni richiamo che evochi l'art. 174-bis risulta incapace di fornire contenuto precettivo al proposito: (...) è carente di sostegno giuridico ogni integrazione mediante il rinvio ad una disposizione che non è mai esistita nel quadro normativo di riferimento. Invero, la norma non fa parte del codice civile, appartenenza richiesta dalla generale previsione di cui all'art. 25-ter, comma 1, d. lgs. n. 231 del 2001. Inoltre, essa non è mai stata annoverata tra i c.d. "reatipresupposto" idonei ad ascrivere la responsabilità dell'ente: non lo fu al momento della formulazione del testo fondamentale in materia, l'art. 25-ter d. lgs. n. 231 del 2001, né nel contesto del d. lgs. n. 61 del 2002 (che, riformulando l'intera legislazione penale societaria, abbinò al rilievo penale delle violazioni proprie dei revisori anche quello amministrativo a carico degli enti deputati alla revisione), né in epoca successiva, segnatamente quando l'art. 174-bis in esame fu introdotto dall'art. 35 della legge n. 262 del 2005, che intervenne direttamente sulla disciplina in esame».

Ed è privo di rilievo il riferimento alla possibile continuità normativa tra l'art. 2624 cod. civ. e l'attuale testo, uscito dalla riforma della materia della revisione contabile, «posto che la disposizione codicistica è stata espressamente abrogata e, quindi, non è più capace di riferimento ermeneutico di sorta, in funzione di integrazione dell'art. 25-ter d. lgs n. 231 del 2001 e di attribuzione della speciale responsabilità da reato (diverso, chiaramente, il discorso per il piano strettamente penalistico relativo alla persona fisica a cui sia riconducibile l'illecito). Per questi medesimi motivi è inefficace il tentativo (affacciato dal ricorrente) di collegare l'art. 174-bis T.U.F. alla nuova figura dettata dall'art. 27 d. lgs. n. 39 del 2010, intendendo la prima disposizione quale una circostanza aggravante della norma di nuovo conio: l'estraneità della fattispecie incriminatrice propria delle società quotate rispetto al novero di quelle attributive della responsabilità amministrativa ex delicto, sterilizza una simile opzione ermeneutica».

Si è osservato che la conclusione dianzi tratta «pone in luce l'indubbio alleggerimento della tutela para-penale nell'ambito della revisione contabile: sensazione che - in seno al d. lgs n. 39 del 2010 - rinviene conferma, per esempio, nell'omesso richiamo alla confisca "per equivalente", in relazione ai reati qui esaminati, ulteriore prova della discontinuità rispetto al tradizionale orientamento legislativo. Atteggiamento coerente con l'esplicita abrogazione della "parallela" figura dettata dall'art. 2624 cod. civ., propria della responsabilità penale, ma riformulata dall'art. 27 d. lgs n. 39 del 2010 in termini letterali sostanzialmente uguali a quelli già utilizzati dall'abrogata figura, a dimostrazione della consapevole discrasia tra la protezione penalistica, immutata, e quella amministrativa da illecito, sottratta alla disciplina del d. lgs. n. 231 del 2001 (sia pur senza un'espressa modifica dell'art. 25-ter del citato compendio normativo)».

Ciò evidenzia le ragioni dell'impossibilità di introdurre, per via interpretativa, quanto il legislatore ha chiaramente inteso lasciare fuori dalla prensione punitiva del sistema dedicato alla responsabilità degli enti.

Si è, inoltre, precisato che il dubbio che la scelta normativa sia frutto di negligenza o di involontaria svista del legislatore «si dissolve osservando che già la legge n. 262 del 2005 (la quale, per altra parte, arricchì il catalogo dei "reati-presupposto" mostrando interesse a questa leva punitiva) sancì l'estraneità della fattispecie dell'art. 174-bis del T.U.F. dal novero ascrittivo della speciale responsabilità di cui si tratta, e, al contempo, integrò l'ambito dei casi forieri di responsabilità ex delicto in capo all'ente (art. 25-ter, comma 1, lett. r, d. lgs. n. 231 del 2001), con la previsione dell'illecito, di nuovo conio, dettato dall'art 2629-bis cod. civ. (Omessa comunicazione del conflitto di interessi, ipotesi introdotta anche con qualche forzatura repressiva, essendo piuttosto problematico ipotizzare che siffatta omissione sia realizzata nell'interesse o a vantaggio della società), a dimostrazione dell'immutato interesse per la disciplina sulla responsabilità da reato degli enti».

Esaminando più in generale le linee guida della riforma della disciplina della revisione contabile, si è ritenuto che sarebbe sicuramente riduttiva ed impropria la sola prospettiva che si limiti ad osservare la mera modifica della disciplina della responsabilità amministrativa da reato dell'ente: il senso complessivo della riforma disposta dal legislatore per mezzo del d. lgs. n. 39 del 2010 (attuativo della Direttiva U.E. 2006/43/CE, che imponeva agli Stati membri la previsione di "sanzioni effettive proporzionate e dissuasive nei confronti dei revisori legali e delle imprese di revisione contabile, qualora le revisioni legali dei conti non siano effettuate conformemente alle disposizioni di applicazione della presente direttiva": art. 30 Direttiva cit.) è, infatti, «assai più incisivo e complesso, qualificandosi come un intervento ampio e pervasivo nel sistema della revisione contabile, risultato di un'opera protesa alla globale razionalizzazione e riordino del dato normativo», ed avendo in definitiva il Legislatore operato «un esteso riordino normativo per il quale non è dato percepire, nel vaglio di legittimità spettante al giudice ordinario, alcuno scompenso valutabile in termini di irragionevolezza, residuando - invece - una scelta politica, contrassegnata dalla discrezionalità, esente da possibile scrutinio in termini di legittimità».

1.1. Segue. La responsabilità da reato nell'ambito dei gruppi di società.

La quinta sezione della Corte di cassazione, con sentenza n. 24583 del 17/11/2010, dep. 20/06/2011, P.M. e P.C. in proc. Tosinvest e altri, rv. 249820, ha ritenuto che la società capogruppo e le altre società facenti parte del gruppo possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del d. lgs. n. 231 del 2001, per il reato commesso nell'ambito dell'attività di una società controllata, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della capogruppo o delle altre società controllate, perseguendo anche l'interesse di queste ultime. In tal modo - in linea con la dottrina dominante - si è ritenuto che la trasmissione infragruppo della responsabilità incontri un argine insormontabile nel necessario accertamento, non solo del riverberarsi dell'interesse perseguito attraverso il reato sulla società capogruppo, ma altresì del coinvolgimento nella consumazione dello stesso di un soggetto che alla medesima risulti effettivamente legato da uno dei rapporti qualificati presi in considerazione dal d. lgs. n. 231 del 2001.

La questione è stata affrontata per la prima volta, in relazione a fattispecie nella quale si poneva, in particolare, il problema della estensibilità a tutte le società controllate facenti parte di un gruppo, della responsabilità sussistente in capo alla capogruppo e ad altre controllate.

Nell'ambito di un più ampio procedimento, con plurimi imputati e plurime imputazioni, riguardanti una serie di operazioni corruttive nell'esercizio di attività d'impresa nel settore sanitario, e le conseguenti ipotesi di responsabilità amministrativa da reato degli enti operanti, il giudice dell'udienza preliminare aveva ritenuto che per alcune società, organiche ad un gruppo facente capo ad un soggetto rinviato a giudizio per corruzione, fosse necessario il giudizio dibattimentale (risultando ex actis che esse avevano tratto vantaggio dalle operazioni di corruzione poste in essere dal predetto soggetto), mentre aveva deliberato il proscioglimento di altre quattro società, pur riconducibili allo stesso gruppo, osservando che esse non operavano nel settore sanitario e non avevano ricevuto vantaggi dalla corruzione.

Il pubblico ministero aveva presentato ricorso, deducendo che «il vantaggio, e quindi l'interesse» delle quattro società prosciolte sarebbe emerso proprio nella fase dibattimentale, e che comunque esso era già desumibile, considerando che il predetto soggetto leader era l'amministratore di fatto di tutte le società del gruppo, sia di quelle rinviate a giudizio che di quelle prosciolte.

Il collegio ha rigettato il ricorso, ricordando che i presupposti della configurabilità della responsabilità da reato degli enti sono plurimi, e nella specie non tutti sussistenti; occorreva, infatti:

(a) la prova della commissione di uno dei reati-presupposto indicati dal d. lgs. n. 231 del 2001: questa condizione ricorreva nel caso di specie, nel quale, secondo l'ipotesi accusatoria, il reato-presupposto era la corruzione;

(b) la prova della commissione del reato-presupposto da parte di «una persona fisica che abbia con l'Ente rapporti di tipo organizzativo-funzionale ... rivesta una posizione qualificata all'interno dell'Ente»: nella specie, peraltro, i legali rappresentanti delle società prosciolte erano stati tutti prosciolti (come gli enti da ciascuno gestiti) dall'accusa di corruzione, con decisione che la Corte di cassazione, con la sentenza in commento, aveva confermato. In proposito, si è evidenziato che «la holding o altre società del gruppo possono rispondere ai sensi della legge 231, ma è necessario che il soggetto che agisce per conto delle stesse concorra con il soggetto che sommette il reato»: non è, pertanto, sufficiente un generico riferimento al gruppo per legittimare l'affermazione della responsabilità da reato (commesso da una delle controllate) della società capogruppo o delle altre controllate;

(c) la prova della commissione del reato-presupposto nell'interesse od a vantaggio del singolo ente della cui responsabilità da reato si discuta, «interesse e vantaggio che devono essere verificati in concreto, nel senso che la società deve ricevere una potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato-presupposto».

1.2. Segue. Le altre decisioni di rilievo.

In tema di responsabilità da reato degli enti nel corso del 2011 la Corte è intervenuta per la prima volta anche su altri importanti aspetti del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

In tal senso deve innanzi tutto essere ricordata la pronunzia con cui la sesta sezione[60] ha escluso che nel processo instaurato per l'accertamento della responsabilità da reato dell'ente sia ammissibile la costituzione di parte civile, questione che ha dato luogo nel recente passato ad interpretazioni contrastanti in dottrina e nella giurisprudenza di merito. In proposito la pronunzia in oggetto sottolinea come la mancata disciplina dell'istituto nell'ambito del menzionato decreto non costituisca una lacuna, bensì la conseguenza di una consapevole e legittima scelta operata dal legislatore in ragione del fatto che la persona giuridica è chiamata a rispondere non del reato, bensì di un autonomo illecito inidoneo a fondare una altrettanto autonoma pretesa risarcitoria diversa da quella legata ai danni prodotti dal reato medesimo. Conclusione che, conclude la Corte, non spoglia il danneggiato della tutela dei suoi diritti all'interno del processo penale, atteso che allo stesso è riservata la possibilità, nel procedimento a carico della persona fisica autrice del reato presupposto della responsabilità della persona giuridica, di citare quest'ultima quale responsabile civile ai sensi dell'art. 83 cod. proc. pen.

Infine deve essere ricordata anche la sentenza con cui la II sezione[61] ha stabilito che le c.d. società d'ambito costituite nelle forme di società per azioni per svolgere, secondo criteri di economicità, le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti trasferite alle stesse da enti pubblici territoriali, sono soggette alla normativa in materia di responsabilità da reato degli enti. La pronunzia ribadisce un principio già affermato con riguardo alle società a capitale misto pubblico-privato e segna un'ulteriore tappa nella ricostruzione dell'ambito soggettivo di applicazione del d. lgs. n. 231 del 2001, evidenziando come in ogni caso l'elezione del modulo societario per svolgere un'attività economica denuncia la finalità anche lucrativa della stessa e dunque la sussistenza di un movente economico in ogni caso sufficiente ad escludere l'operatività della clausola di esenzione prevista dal terzo comma dell'art. 1 del decreto per gli enti pubblici non economici e ciò a prescindere dalla destinazione degli utili generati dalla medesima attività. Nell'occasione è stata altresì chiarita l'irrilevanza del fatto che alle società d'ambito sia stata trasferita d'imperio e per volontà legislativa un'attività (la gestione del ciclo dei rifiuti nel territorio siciliano) in precedenza attribuita agli enti pubblici territoriali, soggetti certamente esentati dalla responsabilità da reato. In tal senso la sentenza sottolinea, infatti, come sia proprio l'affidamento dell'attività ad un ente per il quale la realizzazione di un utile economico è tratto caratterizzante la sua stessa costituzione a segnare la differenza, ribadendo dunque come la clausola di esonero abbia un fondamento eminentemente soggettivo. Né l'originaria assegnazione all'ente territoriale di un'attività certamente attinente valori costituzionali trasforma il soggetto che l'eredita sol per questo in ente di rilievo costituzionale (cui parimenti spetterebbe l'esenzione dalla responsabilità da reato), atteso che per l'appunto non va confuso il "valore" costituzionale coinvolto con il "rango" costituzionale del soggetto deputato a realizzarlo o tutelarlo, in quanto è ente di rilievo costituzionale solo quello che sia quantomeno menzionato nella Carta fondamentale.

2. Finanze e tributi. La natura giuridica della frode fiscale.

Le Sezioni unite, con la sentenza n. 1235 del 28/10/2010, dep. 19/11/2011, Giordano ed altri, rv. 248869, hanno affermato che:

«il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, avendo il legislatore inteso rafforzare la tutela del bene giuridico protetto anticipandola al momento della commissione della condotta tipica».

Si è, in proposito, osservato che l'art. 1, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 74 del 2000 include nel "fine di evadere le imposte" anche il fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d'imposta, ed il conseguimento di tale fine è posto come scopo della condotta tipica, cioè come caratterizzante l'elemento intenzionale, non rilevando il suo conseguimento, in quanto il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, perché il legislatore ha inteso rafforzare in tal modo la tutela, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica.

2.1. Segue. I presidi all'integrità delle finanze pubbliche.

Altro settore in cui la Corte è intervenuto è quello, oggetto in questi ultimi tempi di grande attenzione legislativa e mediatica, dei reati finanziari e tributari.

Com'è noto, infatti, la materia è stata interessata nel corso di quest'ultimo anno da interventi legislativi di opposto tenore. A fronte, infatti, di interventi normativi ispirati dall'esigenza di rimpinguare le esangui finanze pubbliche, operativamente affidati alla disciplina sul rientro dei capitali illecitamente esportati all'estero (cosiddetto scudo fiscale, introdotto con il d.l. n. 78/2009, conv. con modd.in l. n. 102/2009), si sono contrapposti interventi di tipo emergenziale che, pur ispirati dalla medesima esigenza, hanno avuto l'effetto di irrigidire il complessivo trattamento sanzionatorio dettato dalla normativa tributaria (d. lgs. n. 74/2000), soprattutto mediante la riduzione delle soglie di punibilità previste per la configurabilità dei reati in materia di dichiarazione (d.l. n. 138/2011, conv., con modd., in l. n. 148/2011).

2.2. Segue. La disciplina dei c.d. capitali scudati.

Di particolare interesse, in tal senso, è un'importante sentenza[62] che si distingue per il carattere di novità, in quanto rappresenta la prima pronuncia su cui la Corte è stata chiamata a decidere sull'operatività degli effetti connessi al rientro dei cosiddetti "capitali scudati", oggetto del succitato intervento normativo del 2009.

La Corte, in particolare, ha, da un lato, affermato che la causa di non punibilità prevista dall'art. 1 del d.l. n. 103 del 2009, conv. con modd., in l. n. 141 del 2009 (legge sul cosiddetto "scudo fiscale") si riferisce alle sole condotte afferenti i capitali oggetto della procedura di rimpatrio e si applica esclusivamente ai delitti in materia di dichiarazione, fraudolenta o infedele, al delitto di omessa dichiarazione nonché a quello di occultamento o distruzione di scritture contabili; dall'altro, ha precisato che lo "scudo fiscale" non determina un'immunità soggettiva in relazione a reati fiscali nella cui condotta non rilevino affatto i capitali trasferiti e posseduti all'estero, e successivamente oggetto di rimpatrio, sicché non è comunque esclusa la punibilità per delitti diversi, quali l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, le indebite compensazioni o, come nella fattispecie, l'omesso versamento dell'IVA.

2.3. Segue. Ulteriori questioni in tema di reati tributari.

Sempre nella materia penale tributaria si segnala, ancora, la decisione che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 bis del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (omesso versamento di ritenute certificate) per asserito contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto, da un lato, è irrilevante che la condotta vietata si realizzi in un momento diverso dalla dichiarazione e, dall'altro, la previsione di uno specifico reato per il mancato pagamento di un debito per imposte sostitutive dovute dal sostituto, e non anche per il mancato pagamento di un debito Irpef o Iva anche se di importo superiore, trova logica e razionale giustificazione nel profilo di indebita appropriazione di somme altrui di cui si ha la detenzione[63].

Infine, in relazione al grande interesse che la questione manifesta nell'ottica del rafforzamento contro le condotte finalizzate al mancato assolvimento degli obblighi tributari, si segnala, in quanto espressiva di un rilevante mutamento giurisprudenziale, la sentenza che ha ritenuto configurabile il reato di dichiarazione infedele (art. 4 del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74) anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dall'art. 37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all'Amministrazione finanziaria, comporti una dichiarazione infedele per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare[64].

Anche l'abuso del diritto, quindi, a determinate condizioni, è idoneo ad integrare una condotta penalmente rilevante.