Introduzione

NOTE INTRODUTTIVE

Nell’anno 2012, le decisioni delle Sezioni civili della Corte Suprema sono state 24.159, per un totale di circa 4.000 massime. La percentuale delle massime estratte è analoga a quella degli anni precedenti.

L’ingentissimo numero dei provvedimenti pronunciati, anche nell’anno appena trascorso, dalla Corte di cassazione, che non ha pari presso le altre Corti europee e che testimonia l’impegno profuso, unanimemente riconosciuto, ha indotto il Massimario a darne conto nel modo il più possibile oggettivo, di tal che ne risulti un quadro reale, passibile, in sé, di diverse letture: da quella tecnico-giuridica, volta all’acquisizione di informazioni sugli orientamenti espressi nella interpretazione della legge; a quella, di tipo ordinamentale-organizzativo, che mira a valutare il ruolo di un giudice di legittimità nel sistema.

Si è scelto così, e fermi altri momenti di trattazione monografica degli argomenti da parte dell’Ufficio, di redigere una rassegna in senso tecnico – volta, cioè, a “passare in rassegna” la produzione annuale della Corte – nel convincimento della sua immediata utilità per chi si trovi quotidianamente ad applicare un diritto positivo complesso; ma non senza la coscienza che una raccolta è, per definizione, incompleta, ed in qualche modo anche arbitraria, per quanto diffusa voglia essere; anzi, proprio per questo.

Si è voluto, insomma, far emergere, in tutta la sua evidenza, la molteplicità e la varietà delle questioni cui la Suprema Corte è chiamata a dare una risposta, fornendo sia la soluzione nel caso concreto, sia, di regola, un principio: obiettivo che solo una raccolta pluritematica sembrava capace di raggiungere.

Più di tanti discorsi, uno sguardo di sintesi alla Rassegna permette di riflettere, da un lato, sulla pervasività degli interventi-guida, e, dall’altro, quale diverso profilo dello stesso fenomeno, sui costi di un simile accesso alla Corte di cassazione, in termini di efficienza complessiva ed inevitabile rischio di orientamenti plurimi per un ordinamento finalizzato alla concreta realizzazione dei diritti (ed affermazione dei corrispondenti obblighi), secondo gli art. 3, 24 e 111 Cost., che dovrebbe favorire la trattazione immediata di tutte e solo le cause in cui sussista un’oggettiva, e non solo soggettivamente percepita, res controversa: laddove occorra fare giustizia, e, nel contempo, i principî sottesi siano tendenzialmente suscettibili di valore paradigmatico e reiterato per le regole di cui comportino l’emersione. Ma il punto chiederebbe ben altre riflessioni, che riguardano forse il modo di «incidere sulla diffusa mentalità che vede nel giudizio di cassazione un passaggio obbligato di quella strategia difensiva ispirata al principio del tentar non nuoce» (G. LUCCIOLI, La corte di cassazione tra funzione nomofilattica e principio della ragionevole durata del processo, in Giust. insieme, 2009, fasc. 1, 21, a p. 25); ed è vero che il fine di tutela del diritto soggettivo dei litiganti è scopo primario del processo per chi lo intraprende, ma ciò è il compito dei due gradi del giudizio di merito, che dovrebbero, nella gran parte dei casi e come regola, soddisfare tale interesse.

Di qui, l’esigenza di trovare un criterio di selezione dei ricorsi in ingresso, che non sia però antieconomico e di maggiore dispendio quanto all’uso delle “risorse” della Corte. Di qui, poi, il noto problema di individuare, nell’enorme produzione, quali siano i principî di diritto vocati ad un’applicazione reiterata, fra le manifestazioni del pensiero interpretativo del giudice di legittimità sopra una data norma di legge.

Il precedente, che costituisce direttiva ermeneutica in funzione della prevedibilità delle decisioni, coerenza del sistema e, quindi, auspicato effetto deflattivo, operando esso in un numero indefinito di processi e, prima ancora, nella realtà extraprocessuale, ha un valore di uguaglianza, anche laddove, per crearne un “sistema” e rendere rapida la sua formazione, occorra restringere l’accesso; e, si osserva da alcuni, maggiore è la frequenza con cui una questione viene riproposta alla Corte, più alta diviene la probabilità di ripensamento; mentre la ricerca di soluzioni giuridiche idonee ad attenuare il contenzioso sopra una certa materia pur dovrebbe costituire un obiettivo del giudice di legittimità.

Che il principio di stare decisis imponga, anche nel nostro ordinamento, di applicare il precedente enucleato a tutti i casi analoghi, a meno che esso non diventi inadeguato (ed, allora, soccorrono le tecniche del distinguishing e dell’overruling, con il correttivo del prospective overruling a tutela dell’affidamento incolpevole), è stato dalla Corte Suprema affermato a chiare lettere: manca una norma che lo codifichi, eppure esso costituisce una «direttiva di tendenza immanente nell’ordinamento» (Sez. Un., 31 luglio 2012, n. 13620); specie nell’ambito delle regole del processo, per le quali è richiesta un’interpretazione «tendenzialmente stabile sicché la fedeltà ai precedenti (stare decisis), in cui si esprime la funzione nomofilattica di questa Corte, ha una valenza maggiore, così come è in linea di massima giustificato (e tutelabile) l’affidamento che le parti fanno nella stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale delle regole del processo»: ciò, «a meno che il mutamento dell’ambiente processuale o l’emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l’abbandono» (Sez. Un., 20 giugno 2012, n. 10143).

Anche dal precedente è possibile distaccarsi, ma con seri vincoli motivazionali, specie se delle Sezioni Unite (vincolo non tanto di contenuto, quanto di procedimento); perché la funzione del precedente permette anche, ove ciò si palesi più adeguato al divenire della realtà ed al contesto culturale, sociale, etico, economico – insomma, i valori di riferimento – di specificarlo, integrarlo o infine abbandonarlo.

Sembra che, nel nuovo decennio, si propenda verso la ricerca della stabilità, più che verso la garanzia dell’evoluzione degli orientamenti (forse a bilanciamento di un’epoca di forti incertezze).

Che la funzione di creare precedenti per casi analoghi appartenga a tutti i giudici, anche di merito, secondo il c.d. carattere dialettico della nomofilachia, è osservazione condivisa, se non altro perché essi sono, in senso temporale, i primi ad interpretare le nuove norme e più direttamente a contatto coi fatti (R. RORDORF, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, in Foro it., 2006, V, 279). E ne è una riprova l’affermazione della Corte, secondo cui le c.d. “tabelle” uniformi predisposte dai tribunali per la liquidazione del danno non patrimoniale sono assimilabili a precedenti giurisprudenziali, che le parti possono invocare a sostegno delle proprie argomentazioni (Cass., 29 maggio 2012, n. 8557).

Dall’altro lato, le sentenze emesse dalla Corte di giustizia dell’Unione europea hanno efficacia oltre il giudizio ed erga omnes (salva la possibilità di sollevare un nuovo ricorso pregiudiziale), secondo il procedimento di cui all’art. 267 (già 234) del Trattato UE. La funzione nomofilattica della Corte di Lussemburgo vale, dunque, a risolvere i dubbi interpretativi sollevati dai giudici nazionali e si affianca, in tale compito, alla Corte di cassazione, che, essendo l’organo deputato a sollevare la questione, concorre all’emersione del principio. Altri vincoli interpretativi derivano dalla giurisprudenza della Cedu con riguardo ai diritti umani fondamentali, tenuto conto della riconduzione dei principî della Carta di Nizza, dopo la definitiva entrata in vigore del Trattato di Lisbona, tra le fonti di rango superiore alle norme legislative. Lo stesso diritto interno deve essere interpretato alla stregua dei principî di diritto comunitario, come emergono dalle pronunce della Corte di giustizia (Sez. Un., 17 novembre 2008, n. 27310); e sarebbe da considerare se, così come il diritto sostanziale deve adeguarsi all’Europa, anche il diritto processuale (ed il modo stesso di intendere l’erogazione del servizio giustizia) con quella debba ricercare l’omogeneità.

La funzione nomofilattica affidata istituzionalmente alla Suprema Corte ed alle Sezioni unite in particolare – le cui decisioni, in generale ed ancor più quando su contrasto o questioni di massima di particolare importanza, hanno un alto valore esemplare sulla giurisprudenza avvenire – esige un lavoro ausiliario di ricerca preparatoria e, poi, di ragionata selezione, documentazione e diffusione delle pronunce; a tali fini, insieme alla redazione delle massime, concorre anche la raccolta e l’organizzazione dei precedenti, mediante una Rassegna degli orientamenti acquisiti oppure introdotti con profili di novità.

I giudici della Cassazione possono utilizzare i precedenti della Corte, desunti dagli archivi elettronici predisposti dall’ufficio del massimario, senza che ciò costituisca scienza privata (Sez. Un., 17 dicembre 2007, n. 26482): il precedente, quindi, come fonte di produzione del diritto vivente e come fonte di cognizione delle interpretazioni assunte.

Già nel 2011, la Corte costituzionale, con riguardo alle sezioni unite della Corte dei conti, ha avuto occasione di dedicare una riflessione alla funzione nomofilattica, ricordandone il «fine di assicurare il fondamentale valore rappresentato dalla omogeneità nell’applicazione e nell’interpretazione del diritto» (Corte cost., 27 gennaio 2011, n. 30).

Più di recente, nel pronunciarsi sull’art. 673 cod. proc. pen. – norma che prevede la revoca delle sentenze di condanna per abolizione del reato in forza di legge o di dichiarazione di illegittimità costituzionale, ma non di mutamento giurisprudenziale – il giudice delle leggi ha ricordato come, in ragione della funzione di unità del diritto oggettivo affidata alla Corte di cassazione, l’orientamento da questa espresso «“aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito», anche se «si tratta di connotati solo “tendenziali”, in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo”» (la sentenza non si riferisce, naturalmente, al principio di diritto con effetto vincolante per il giudice del rinvio).

Il “diritto vivente”, tale che abbia assunto i caratteri della ripetitività nell’interpretazione dei giudici, e quindi della nostra corte di legittimità, è quello che la stessa Corte costituzionale assume a fondamento dell’individuazione della norma sottoposta al suo vaglio: ma essa ha voluto anche differenziare la portata della regola giurisprudenziale (in particolare, nei casi di mutamento) da quella legale: «a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole» (Corte cost., 12 ottobre 2012, n. 230).

Pur con questi limiti, il dovere funzionale di conformarsi al precedente paradigmatico resta essenziale nel nostro sistema giuridico, in modo più o meno intenso (art. 360 bis, comma primo; 363; 374, commi secondo e terzo, ma anche comma primo; 375; 384 e 143 disp. att.; 388; 118 disp. att.; e già art. 111, comma settimo – già secondo, Cost.; 65 ord. giud.; 1, comma terzo, l. 14 maggio 2005, n. 80; d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40).

Anzi, proprio il richiamo alla sua “persuasività” ne rende indispensabile l’enucleazione, secondo lo stile della massima.

La massima è quella che – partendo dalla copiosissima produzione della giurisprudenza di legittimità – permette l’archiviazione dei precedenti cui possa attribuirsi effettiva funzione nomofilattica. Essa muove dall’interpretazione del provvedimento, risolvendosi nella ricerca del significato oggettivo della regola o del comando espresso. Dunque agevola – in modo non sostituibile – l’estrazione del principio giuridico dalla decisione che lo contiene, esprimendolo in una proposizione di carattere generale.

Nondimeno, accanto al comando, è prassi riportare il fondamento della decisione, secondo un percorso logico che (non lo si può negare) a differenza della legge (ma anche dell’atto negoziale, in verità) mira a persuadere dell’esattezza logico-normativa della decisione, anche al fine di ridurre il contenzioso innanzi ai giudici di ogni grado, perché siano intraprese solo le liti necessarie.

Essa, infatti, come veicolo informativo, secondo quanto stabilito nelle circolari dei direttori, riporta usualmente, com’è noto, accanto alla decisione, e nonostante il dissenso di una parte della dottrina sul punto, anche la ratio decidendi, nonché, ove sia opportuno per segnalare il fattotipo, una fattispecie, pur nel doveroso rispetto della sintesi.

Le ricadute che avrà la legge 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, sulla quantità delle controversie che giungono in Cassazione si vedranno nei prossimi anni.

Ma, per intanto, tutto il sistema delle novità 2012 rinsalda l’importanza del precedente paradigmatico e persuasivo, e del dovere tendenziale di conformarsi ad esso.

Se, in base alla riforma:

- l’atto d’appello, oltre alle indicazioni ex art. 163 cod. proc. civ., deve essere motivato con riguardo ai fatti come ricostruiti in primo grado, nonché alle circostanze da cui deriva la violazione della legge ed alla loro rilevanza nell’economia della decisione impugnata;

- l’appello è dichiarato inammissibile con ordinanza succintamente motivata anche mediante il riferimento a precedenti conformi, ove esso non palesi una ragionevole probabilità di essere accolto, ed, in tal caso, il provvedimento di primo grado può essere impugnato dal soccombente, ma nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello, con ricorso per cassazione, che, se accoglie, rinvia al giudice stesso di appello;

- limiti sono posti al vizio di motivazione dal nuovo art. 360, primo comma, n. 5, il quale prevede solo l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che é stato oggetto di discussione tra le parti» (ed, in caso di doppia conforme sulla ricostruzione dei fatti, il ricorso è radicalmente precluso secondo quella disposizione): che, lo si voglia ricondurre nell’alveo della violazione di legge, oppure mantenere entro la verifica del ragionamento seguito dal giudice di merito, resta pur sempre ancorato alla “catena” degli orientamenti affermatisi; allora, il “sistema del precedente”, già rafforzato nel 2006 e nel 2009 (dal d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e dalla legge 18 giugno 2009, n. 69), ne esce enfatizzato.

Dunque, se la massima mira a fornire l’informazione di un principio non isolato, ma inserito nella «storia del diritto giurisprudenziale di fattispecie» (G. CANZIO, Giurisprudenza di legittimità, precedenti e massime, in Quest. giust., 2008, 51 ss., a p. 57), la Rassegna, redatta a determinati intervalli temporali, può, dal suo canto, concorrere allo stesso scopo, fornendo una raccolta sistematica ed organizzata.

«Una raccolta di tal tipo ha il compito di consentire l’emersione di principî di civiltà giuridica» e «cioè di individuare il diritto vivente» (U. MORCAVALLO, Il diritto applicato e la sua individuazione. Appunti per la massimazione e per una rassegna di giurisprudenza nella prospettiva nomofilattica del giudizio di legittimità, in Giust. civ., 2006, 155), in quanto «una selezione ragionata della giurisprudenza di legittimità … è, propriamente, il compito di una rassegna della giurisprudenza» (ID., Nomofilachia e massimazione, in Il nuovo giudizio di cassazione, Milano, 2007, 101 ss., a p. 113).

Tanto più utile, riteniamo, quanto più cresce il numero delle massime contenute in Italgiureweb, donde un sistema alquanto capillare; ma senza affatto voler alienare il lettore dall’esame del provvedimento integrale, cui, al contrario, si intende indirizzarlo.

È evidente che, per quanto si voglia tendere ad una comune cultura giuridica, esiste l’influenza delle attitudini individuali sulle decisioni: basti pensare, per tutti, ai temi della famiglia o del danno non patrimoniale e, in una parola, a tutti quei casi in cui la sensibilità individuale è inevitabile metro di interpretazione delle norme. Ciò nonostante, l’esigenza è quella di scrivere ciascuna sentenza «intendendo ogni pronuncia emessa come espressione dell’intera Corte» (G. LUCCIOLI, op. cit., p. 26).

La Rassegna, in sostanza, come momento di sintesi, volto alla ricognizione degli orientamenti e alla diffusione delle ragioni del decidere, che agevoli la difficile opera di interpretazione e di applicazione del diritto.

La tradizionale limitazione temporale (l’anno solare) se, da un lato, costituisce una “pura convenzione”, dall’altro permette, però, di offrire un campione sufficientemente significativo degli approdi delle Sezioni civili.

La Rassegna del 2012 si compone di due parti: l’una dedicata ai principî sostanziali, l’altra alle regole del processo, le quali, essendo strumentali all’attuazione dei diritti, sono particolarmente rilevanti e la cui interpretazione, al cospetto dell’evoluzione delle situazioni sostanziali, deve secondo la Corte essere invece tendenzialmente stabile.

Entrambi sono stati raccolti, fin dove possibile, seguendo la sistematica del codice civile e di procedura civile, salvo che una migliore suddivisione abbia consigliato una diversa collocazione, e con alcuni capitoli dedicati alle leggi speciali o a particolari discipline.

Pur nella partizione “classica”, si confida che possa emergerne la persuasività e la capacità di garantire l’equilibrio fra la certezza del diritto e l’esigenza, costituzionale anch’essa, di adeguarlo alla mutevole realtà del vivere.

Roma, 7 gennaio 2013.

Roberto Triola e Loredana Nazzicone

Ringraziamenti

Ringraziamento

Un affettuoso grazie il Massimario rivolge ad Ulpiano Morcavallo, che da quest’anno non fa più parte dell’Ufficio, dopo esserne stato a lungo punto di riferimento per indiscussa passione di studioso, spiccato senso della funzione e sentita cultura delle regole, e il cui insegnamento continua ad essere un prezioso ausilio per coloro che ne fanno parte.

PARTE PRIMA IL DIRITTO DELLE PERSONE, DELLA FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI

  • immigrazione
  • libertà d'associazione
  • persona fisica
  • dati personali
  • diritti umani

CAPITOLO I

PERSONE E ASSOCIAZIONI

(di Lorenzo Delli Priscoli, Maria Acierno, Francesca Ceroni )

Sommario

1 Introduzione: l'art. 2 Cost. e il diritto-dovere di solidarietà. - 1.1 Solidarietà, diritti reali e bilanciamento degli interessi. - 1.2 La solidarietà misura della meritevolezza degli interessi. - 1.3 Solidarietà, autonomia contrattuale e doveri di tolleranza. - 1.4 Solidarietà, clausola penale e interpretazione costituzionalmente orientata. - 2 Il diritto al nome. - 3 Il diritto alla riservatezza e il trattamento dei dati personali. - 4 Il diritto al culto. - 5 Il diritto all'equa riparazione. - 5.1 Questioni sostanziali. - 5.2 Profili processuali. - 5.3 Ordinanze di rimessione alle Sezioni unite. - 6 I diritti degli immigrati. Il sistema pluralistico della protezione internazionale. - 6.1 Il procedimento e le garanzie. - 6.2 L'istruzione probatoria e il dovere di cooperazione del giudice. - 6.3 Il contenuto del diritto. - 7 Gli enti collettivi a base associativa.

1. Introduzione: l'art. 2 Cost. e il diritto-dovere di solidarietà.

Il principio solidaristico, di cui all'art. 2 Cost., continua nel 2012 a fornire indicazioni alla Supema Corte nell'espletamento del suo compito nomofilattico.

1.1. Solidarietà, diritti reali e bilanciamento degli interessi.

Esso ispira la sentenza Sez. 2, n. 14103 (Rv. 623564), in tema di servitù coattiva e di tutelabilità ex art. 1051 e 1052 cod. civ. della richiesta di passo carrabile in relazione alle necessità abitative di un fondo già provvisto di accesso pedonale.

La Cassazione ha giudicato corretta la decisione, assunta dai giudici di merito, a mente della quale, ai sensi dell'art. 1052 cod. civ. – da leggere alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 167 del 1999 – la costituzione di una servitù di passaggio in favore di un fondo non intercluso può avvenire non soltanto in presenza di esigenze dell'agricoltura o dell'industria, bensì anche ai fini di consentire una piena accessibilità alla casa di abitazione. In tal caso, la Corte ha confermato l'orientamento secondo cui è impossibile, alla luce del moderno sviluppo sociale e tecnologico, che una casa di abitazione sia raggiungibile solo a piedi o a dorso di mulo, e non anche con mezzi meccanici.

Secondo la Cassazione, dunque, riprendendo dei concetti già espressi dalla Consulta, l'istituto della servitù di passaggio coattivo non è più limitato a un'ottica dominicale e produttivistica, ma è proiettato in una prospettiva dei valori della persona, che deve permeare di sé anche lo statuto dei beni e, in genere, i rapporti patrimoniali.

È stata quindi abbandonata ogni ipotesi di separatezza tra talune discipline della costituzione economica apparentemente dotate di intrinseca ragionevolezza, ed il cuore dei principî costituzionali ispiratori della Carta, trasfusi negli art. 2 e 3. L'inclusione, nelle ipotesi di ampliamento coattivo della servitù di passaggio ex art. 1052 cod. civ., dell'esigenza di accessibilità alla casa di abitazione risponde a questi principî e, più in generale, «al principio personalistico che ispira la Carta Costituzionale e che pone come fine ultimo dell'organizzazione sociale lo sviluppo di ogni singola persona umana».

La Cassazione rileva, peraltro, che la domanda di ampliamento potrà essere accolta non solo ove essa sia praticabile in concreto e sussista l'assenso dell'autorità di vigilanza sul territorio, ma anche a condizione che il passaggio imposto non comporti un significativo sacrificio del fondo servente maggiore del beneficio per il dominante, previa accorta ponderazione degli interessi e con adeguato impiego dello strumento dell'indennità, previsto dall'art. 1053 cod. civ. (per l'attenzione della S.C. agli interessi proprietari, sia pure nell'ambito di scopi sociali, v. i capitoli II, § 2.1, V, § 2 e IX, § 5, sulla casa familiare; il cap. IV, §§ 1, 2, sui diritti di proprietà e di servitù).

L'insegnamento è già presente nella sentenza della Sez. 3, n. 20106 del 2009 (Rv. 610222), in tema recesso abusivo da un contratto di concessione di vendita, ove è affermato che il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed esso, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche. Dunque, «il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi», in quanto egli, «nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi», il tutto «in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici».

1.2. La solidarietà misura della meritevolezza degli interessi.

Il principio di solidarietà ha trovato così applicazione anche in campo contrattuale, influendo sulla valutazione di meritevolezza di singole clausole: ha affermato la sentenza Sez. 3, n. 12454 (Rv. 623358) che, in tema di mutuo di scopo collegato ad un contratto di vendita, avente ad oggetto l'acquisto di un bene da parte del mutuatario, la validità (sotto il profilo della meritevolezza degli interessi tutelati) della clausola, la quale preveda l'obbligo del mutuatario di effettuare i singoli pagamenti a favore del mutuante nei modi e nei termini convenuti, anche nel caso di inadempimento di qualsiasi genere da parte del venditore, ivi compresa la mancata consegna del bene richiesto, deve essere valutata alla luce dei principî di buona fede e di correttezza, tenendo presente, da un lato, l'interesse del mutuante, che avrebbe la possibilità di ripetere la somma dal venditore al quale l'aveva direttamente consegnata e, dall'altro, la condizione del mutuatario che, anche di fronte alla mancata consegna del bene, dovrebbe continuare a restituire somme, mai percepite, ma entrate direttamente nella sfera di disponibilità del venditore favorito dalla diretta consegna, da parte del mutuante, della somma, pur senza avere adempiuto all'obbligazione di consegna (il limite all'obbligazione solidaristica rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio è presente anche in Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3 del 2011).

Pertanto, una clausola di rinuncia a far valere nei confronti del mutuante l'eccezione di mancata consegna del veicolo, che sarebbe potuta essere considerata astrattamente valida quale espressione della libertà negoziale delle parti, tale da far gravare il rischio della mancata consegna sul mutuatario, il quale non avrebbe potuto opporre al mutuante l'eccezione di inadempimento (cfr. Sez. 3, n. 8253 del 2003, Rv. 563539), nell'attuale contesto deve essere interpretata alla luce dei principî di buona fede e di correttezza.

La menzionata sentenza n. 12454 (su cui cfr. pure il cap. VIII, § 5) trova un importante riferimento anche in altra decisione della Suprema Corte (Sez. 3, n. 14343 del 2009, Rv. 608475) in tema di sublocazione, secondo la quale i controlli insiti nell'ordinamento positivo relativi all'esplicazione dell'autonomia negoziale, coincidenti con la meritevolezza di tutela degli interessi regolati convenzionalmente e con la liceità della causa, devono essere in ogni caso parametrati ai superiori valori costituzionali previsti a garanzia degli specifici interessi, ivi compreso quello contemplato dall'art. 2 Cost., che tutela i diritti involabili dell'uomo e impone l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (in quel caso, fu dichiarata nulla la clausola di un contratto di locazione nella quale, oltre alla previsione del divieto di sublocazione, era contenuto il divieto di ospitalità non temporanea di persone estranee al nucleo familiare anagrafico, siccome confliggente proprio con l'adempimento dei doveri di solidarietà, che si può manifestare attraverso l'ospitalità offerta per venire incontro ad altrui difficoltà, oltre che con la tutela dei rapporti familiari, della convivenza di fatto tutelata in quanto formazione sociale, dei rapporti di amicizia).

Questi, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che attiene non soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale ed alla sua interpretazione, ma che si pone come limite all'agire processuale nei suoi diversi profili.

Già la celebre sentenza Sez. Un., n. 26972 del 2008 (Rv. 605492), che qui non si può non ricordare, aveva chiarito che «il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. – anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a condizione: (a) che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell'art. 2059 cod. civ., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza)» (corsivo nostro).

La meritorietà della tutela si è evoluta dunque fino ad acquisire un ruolo determinante come ratio decidendi della controversia, nel senso che non può essere accordata protezione ad una pretesa priva di quella.

1.3. Solidarietà, autonomia contrattuale e doveri di tolleranza.

Il principio dell'autonomia contrattuale, di cui è massima espressione la norma contenuta nell'art. 41, primo comma, Cost., sembra dunque trovare un importante limite nel principio di solidarietà che, per il suo carattere fondante, occupa una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali e che ha il suo riferimento normativo non solo nell'art. 2 Cost., ma anche negli art. 41, secondo comma, 42, 43 e 44 e 53 – progressività dell'imposizione fiscale – Cost. (cfr. le sentenze della Corte costituzionale nn. 100, 223 e 264 del 2012).

Per concludere, piace ricordare come indizî del principio solidaristico siano alla base anche di un'importante norma del codice civile del 1942 dettata in tema di proprietà: l'art. 844 cod. civ., secondo cui il proprietario non può impedire le immissioni derivanti dal fondo del vicino che non superino la normale tollerabilità. In essa, peraltro, il principio solidaristico è visto in un'ottica proprietaria: quando oggi, invece, la solidarietà costituisce soprattutto un dovere inderogabile e, correlativamente, un diritto fondamentale nei rapporti fra persone (concetto più ampio di quello di cittadino, comprendendo anche i c.d. extracomunitari: cfr. sentenze nn. 101 e 172 della Corte costituzionale).

1.4. Solidarietà, clausola penale e interpretazione costituzionalmente orientata.

Le Sez. Un., n. 18128 del 2005 (Rv. 583011), in tema di clausola penale, avevano riconosciuto che il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall'art. 1384 cod. civ., è posto a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento e pertanto può essere esercitato d'ufficio per ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela nel caso in cui la penale risulti manifestamente eccessiva. Le sezioni unite hanno motivato, tra l'altro, rilevando che l'esegesi tradizionale dell'art. 1384 cod. civ. non appare più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.) e conseguentemente nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie.

Prendendo tale ultima pronuncia come punto di partenza, sia nelle conclusioni e sia, soprattutto, nella parte motivazionale appena ricordata, ha affermato la Sez. 1, n. 21994 (Rv. 624244) che, in tale prospettiva, anche nella fase attuativa di un rapporto contrattuale trovano applicazione il dovere costituzionale di solidarietà, nonché i correlati doveri di correttezza e buona fede, con la conseguenza che nell'esercizio del potere del giudice di riduzione della penale, la valutazione de "l'interesse che il creditore aveva al momento dell'adempimento" va fatta non avendo riguardo al momento della stipulazione della clausola – come pure lascerebbe intendere il dato letterale della norma con l'uso del verbo "aveva" al tempo imperfetto – ma tenendo conto anche delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto. È questa una tipica ipotesi di interpretazione costituzionalmente orientata (nel caso di specie in relazione all'art. 2 Cost.) di una norma del codice civile: tale tipo di interpretazione permette anche, eventualmente, di superare un dato letterale apparentemente contrario.

2. Il diritto al nome.

Con sentenza Sez. 1, n. 20385 (in corso di massimazione), la Cassazione, riformando la decisione della corte territoriale – che aveva riconosciuto una valenza esclusivamente "maschile" del nome "Andrea" nella tradizione culturale italiana, per cui l'imposizione di esso ad una neonata in via esclusiva violerebbe l'art. 35 del d.P.R. n. 396 del 2000, ai sensi del quale il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso – ha, invece, ritenuto che il prenome "Andrea" possa essere imposto ad una persona di sesso femminile.

Il diritto al nome, ha infatti evidenziato la Corte, «costituisce una componente essenziale dei diritti fondamentali della persona umana perché rappresenta un elemento costitutivo dell'identità individuale, consentendo un'identificazione immediata e riconoscibile del soggetto che lo porta, da ritenersi un attributo necessario ed ineludibile per lo sviluppo soggettivo e relazionale della personalità (art. 2 Cost., art. 8 CEDU, art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea). Il diritto alla scelta del nome (inteso come comprensivo del prenome e del cognome) diversamente dagli altri diritti fondamentali, caratterizzati dal minimo comune denominatore dell'autodeterminazione, non viene esercitato dal soggetto cui il nome è imposto al momento della nascita o nella sua immediatezza, ma dal genitore o dai genitori che lo riconoscono. In tutti gli ordinamenti si pone, conseguentemente, il problema, di un adeguato bilanciamento del diritto dei genitori alla scelta del nome secondo preferenze, o tradizioni costituenti il bagaglio culturale familiare di riferimento, ed il rispetto della dignità personale che costituisce il criterio conformativo immanente ad ogni diritto fondamentale dell'individuo».

La Corte precisa poi che la disciplina prevista dal combinato disposto degli art. 34 e 35 del d.P.R. n. 396 del 2000 legittima l'intervento correttivo dell'autorità statuale esclusivamente con riguardo alla tutela effettiva della dignità personale, vietando la prima disposizione (art. 34) l'imposizione di nomi ridicoli o vergognosi, del tutto coerentemente con il limite della Corte EDU dei nomi "inusitati", e imponendo la seconda (art. 35) la corrispondenza del nome al sesso, al fine di «escludere che un profilo d'indubbio rilievo della propria identità, come il genere, possa essere posto in dubbio o ingenerare ambiguità incidenti sul rispetto della dignità personale». A tale ultimo proposito, osserva la Corte come «la natura sessualmente neutra del nome Andrea, nella maggior parte dei paesi europei, nonché in molti paesi extraeuropei, tra i quali gli Stati Uniti, per limitarsi ad un ambiente culturale non privo d'influenze nel nostro paese, unita al riconoscimento del diritto d'imporre un nome di provenienza straniera al proprio figlio minore nei limiti del rispetto della dignità personale, così come definita nell'art. 34, primo comma, e 35 d.P.R. n. 396 del 2000, non può che condurre ad una soluzione opposta a quella fornita dalla sentenza di secondo grado».

3. Il diritto alla riservatezza e il trattamento dei dati personali.

Confermando l'orientamento secondo il quale il diritto alla riservatezza deve essere coordinato con le esigenze di garanzia di situazioni giuridiche soggettive concorrenti, già espresso in passato (v. Sez. L, n. 18279 del 2010, Rv. 614526, in tema di bilanciamento del diritto alla riservatezza con il diritto di difesa ex art. 24 Cost.), la sentenza Sez. 3, n. 5525 (Rv. 622169) affronta il tema della fondatezza della richiesta, rivolta al Garante per la protezione dei dati personali, di un provvedimento di rimozione dei dati giudiziari, contenuti in un articolo di stampa apparso nell'aprile del 1993, nel quale si dava notizia dell'arresto per corruzione del presidente di un'azienda municipalizzata, articolo trasferito, inoltre, nell'archivio storico del quotidiano consultabile mediante accesso al sito web. La richiesta era fondata sul rilievo che l'articolo non fosse accompagnato dall'informazione relativa al successivo proscioglimento dell'arrestato.

La Corte prende le mosse dalla riaffermazione del principio, secondo cui «la tutela del diritto alla riservatezza va contemperata in particolare con il diritto di ed alla informazione, nonché con i diritti di cronaca, di critica, di satira e di caricatura, questi ultimi trovanti a loro volta limite nel diritto all'identità personale o morale del soggetto cui l'informazione si riferisce».

La sentenza prosegue, inoltre, con la ricognizione dei criteri ai quali deve ispirarsi il trattamento dei dati personali, secondo le regole dettate con il d. lgs. n. 196 del 2003, caratterizzate «dalla necessaria rispondenza del trattamento … a criteri di proporzionalità, necessità, pertinenza e non eccedenza allo scopo (quest'ultimo costituendo un vero e proprio limite intrinseco del trattamento lecito dei dati personali), che trova riscontro nella compartecipazione dell'interessato nell'utilizzazione dei propri dati personali, a quest'ultimo spettando il diritto di conoscere in ogni momento chi possiede i suoi dati personali e come li adopera, nonché di opporsi al trattamento dei medesimi, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta, ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l'aggiornamento, l'integrazione (d. lgs. n. 196 del 2003, art. 7), a tutela della proiezione dinamica dei propri dati personali e del rispetto della propria attuale identità personale o morale».

La decisione, nel cassare il provvedimento di merito, che aveva respinto la richiesta dell'interessato, ha affermato il principio di diritto che «Anche in caso di memorizzazione nella rete internet, mero deposito di archivi dei singoli utenti che accedono alla rete e cioè dei titolari dei siti costituenti la fonte dell'informazione (c.d. siti sorgente), deve riconoscersi al soggetto cui pertengono i dati personali oggetto di trattamento ivi contenuti il diritto all'oblio, e cioè al relativo controllo a tutela della propria immagine sociale, che anche quando trattasi di notizia vera, e a fortiori se di cronaca, può tradursi nella pretesa alla contestualizzazione e aggiornamento dei medesimi, e se del caso, avuto riguardo alla finalità della conservazione nell'archivio e all'interesse che la sottende, financo alla relativa cancellazione … non essendo al riguardo sufficiente la mera generica possibilità di rinvenire all'interno del "mare di internet" ulteriori notizie concernenti il caso di specie, ma richiedendosi, atteso il ravvisato persistente interesse pubblico alla conoscenza della notizia in argomento, la predisposizione di sistema idoneo a segnalare (nel corpo o a margine) la sussistenza di un seguito e di uno sviluppo della notizia, e quale esso sia stato (nel caso, dei termini della intervenuta relativa definizione in via giudiziaria), consentendone il rapido ed agevole accesso da parte degli utenti ai fini del relativo adeguato approfondimento, giusta modalità operative stabilite, in mancanza di accordo tra le parti, dal giudice di merito».

La sentenza Sez. 3, n. 10646 (Rv. 623101), in una fattispecie in cui il cliente di un casinò municipale chiedeva di essere risarcito per la pubblicazione della notizia della sua inibizione all'accesso, conseguente a notizie di stampa relative alla sottoposizione a indagini per gravi reati, ha ribadito che i principî in tema di tutela della riservatezza debbono essere coordinati con le esigenze di salvaguardia dell'interesse all'onorabilità delle frequentazioni e alla correttezza e al rigore dei comportamenti dei gestori della casa di gioco. Inoltre, con la stessa decisione, nell'interpretazione degli art. 2050 cod. civ. e 15 del codice della privacy di cui al d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, è stato affermato che, qualora la pubblicazione delle notizie, che si assumono lesive del diritto alla riservatezza, sia avvenuta anteriormente alla diffusione da parte del convenuto, è il danneggiato che deve provare che la divulgazione sia imputabile a chi detiene il dato e non a chi abbia in precedenza pubblicato la stessa informazione (per altri riferimenti, si veda pure il cap. XI, § 7.2)

Con sentenza della Sez. L, n. 2722 (Rv. 621115), la Corte ha ritenuto legittimo il controllo effettuato da un istituto bancario sulla posta elettronica aziendale di un dipendente, accusato di aver divulgato notizie riservate concernenti un cliente e di aver posto in essere, grazie a tali informazioni, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggi proprî. Si noti che la legittimità è stata affermata, nonostante che non fossero state rispettate le garanzie procedurali imposte dall'art. 4, secondo comma, della legge n. 300 del 1970, espressamente richiamato dall'art. 114 del d. lgs. n. 196 del 2003, per l'installazione di impianti e apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, dai quali derivi la possibilità di verifica a distanza dell'attività dei lavoratori: ciò perché tali garanzie non trovano applicazione quando i controlli riguardino la tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, quali il patrimonio e l'immagine aziendale (per altri profili della riservatezza nei luoghi di lavoro, cfr. il cap. XV, § 6).

Di grande rilevanza pratica è il tema dei limiti all'utilizzazione dei sistemi di controllo automatico degli accessi ai centri storici o alle zone a traffico limitato (ZTL), in relazione alle necessità di tutela della privacy. Con sentenza Sez. 2, n. 1479 (Rv. 621361), è stato affermato che l'obbligo di preventiva informazione dei conducenti e delle persone che accedono o transitano nei centri storici o nelle ZTL, ai fini della legittimità dell'accertamento dell'accesso a tali aree mediante sistemi elettronici di rilevazione automatizzata, previsto dalla delibera del Garante per la protezione dei dati personali dell'8 aprile 2010, si applica soltanto per il periodo successivo all'adozione del provvedimento, mentre per il periodo anteriore era sufficiente il rispetto delle prescrizioni poste dal d.P.R. 22 giugno 1999, n. 250, e dalla delibera del Garante per la protezione dei dati personali del 29 aprile 2004, che imponevano la mera segnalazione in forma semplificata degli impianti.

4. Il diritto al culto.

Con la decisione Sez. 2, n. 21129 (in corso di massimazione), richiamata anche altrove (cfr. cap. III, § 2), il giudice di legittimità conferma un orientamento risalente, e ribadito solo in rare occasioni (da Sez. 2, n. 4016 del 1978, Rv. 393618; Sez. 1, n. 4498 del 1985, Rv. 441961; Sez. 1, n. 5397 del 1989, Rv. 464495; Sez. 1, n. 15241 del 2004, Rv. 575281) sull'esistenza nel nostro ordinamento giuridico di un «diritto costituzionale di libertà religiosa», il quale si declina nel «diritto all'uso e alla frequenza degli edifici di culto, tanto collettivamente sul piano comunitario, quanto individualmente» e che il giudice di legittimità garantisce, nella fattispecie presa in esame, accogliendo l'azione di un parroco volta all'eliminazione degli ostacoli materiali (nella specie, cancellata metallica che rendeva disagevole l'accesso al sagrato di fronte alla Chiesa) che si frappongono all'esercizio effettivo della libertà di culto. Infatti, il diritto costituzionale di libertà religiosa si esprime anche nel diritto all'uso e alla frequenza degli edifici di culto, tanto collettivamente sul piano comunitario, quanto individualmente (art. 19 Cost.). La S.C. ha anche precisato che l'azione spetta anche a chi abbia la rappresentanza della comunità dei fedeli secondo l'ordinamento proprio di quella confessione, come il parroco, ossia all'ecclesiastico preposto all'officiatura dell'edificio destinato all'esercizio pubblico del culto cattolico (come è confermato dal nuovo codice di diritto canonico, dove il can. 515 definisce la parrocchia come «una determinata comunità di fedeli», mentre il can. 532 attribuisce al parroco la rappresentanza legale della parrocchia).

5. Il diritto all'equa riparazione.

Com'è noto, la "legge Pinto" ha l'obbiettivo di garantire tutela, sia pure di tipo meramente riparatorio, alle parti di quei processi che si prolungano oltre quei tempi ritenuti ragionevoli dalla Convenzione dei diritti dell'Uomo ed oggi anche dal comma secondo dell'art. 111 Cost.

Le altrettanto note "lentezze" della nostra macchina giudiziaria hanno inevitabilmente dato estrema vitalità a questo nucleo normativo, a dimostrazione di una chiara patologia del sistema processuale italiano, e chiamato la Corte di legittimità a operare in modo massiccio per sciogliere i numerosi nodi interpretativi irrisolti, che ineriscono questioni di natura sostanziale, così come delicati profili processuali, i quali spesso impongono di risolvere complicate geometrie normative, rese più complesse dalla necessità di comporre istanze pubbliche e private spesso contrastanti.

5.1. Questioni sostanziali.

Sul piano sostanziale, le Sezioni Unite con la decisione n. 16783 (Rv. 623690) hanno risolto il contrasto, insorto all'interno della prima sezione, circa la compatibilità tra decorrenza del termine di prescrizione e pendenza del termine di decadenza, previsto dall'art. 4 della legge n. 89 del 2001, accogliendo l'orientamento tradizionale e largamente prevalente, fondato su di una esegesi essenzialmente "letterale" del dato normativo, ed affermando il principio per il quale «la previsione della sola decadenza dall'azione giudiziale per ottenere l'equo indennizzo a ristoro dei danni subiti a causa dell'irragionevole durata del processo, contenuta nell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, con riferimento al mancato esercizio di essa nel termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della decisione che ha definito il procedimento presupposto, esclude la decorrenza dell'ordinario termine di prescrizione, in tal senso deponendo non solo la lettera dell'art. 4 richiamato, norma che ha evidente natura di legge speciale, ma anche una lettura dell'art. 2967 cod. civ. coerente con la rubrica dell'art. 2964 cod. civ., che postula la decorrenza del termine di prescrizione solo allorché il compimento dell'atto o il riconoscimento del diritto disponibile abbia impedito il maturarsi della decadenza; inoltre, in tal senso depone, oltre all'incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonché il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che l'operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo ultradecennale nella definizione del processo».

Di estremo rilievo pratico per una larga parte di contenzioso "bagatellare", nonché perché di "rottura" con il precedente, consolidato orientamento in senso contrario, la decisione della Sez. 2, n. 12937 (Rv. 623380) è importante non solo per la "novità" della soluzione ermeneutica offerta, ma anche perché "anticipatrice" delle modifiche apportate dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134.

La decisione in commento, infatti, procede ad una revisione critica della linea interpretativa pregressa, certamente univoca, per la quale non può escludersi il diritto all'indennizzo della "vittima della violazione" in considerazione dell'esiguità della posta in gioco nel processo presupposto (cfr. Sez. Un., n. 1339 del 2004, Rv. 569677) e questo non può essere liquidato in misura inferiore ad € 750,00 per i primi tre anni di ritardo ed € 1.000,00 per ciascuno dei successivi anni, in quanto «l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno» (cfr., e multis, Sez. 6-1, n. 8471, Rv. 622761 e Sez. 1, n. 17922 del 2010, Rv. 614433).

La seconda sezione, al contrario, sostiene che l'indennizzo da liquidarsi non può essere sproporzionato alla reale l'entità del pregiudizio sofferto e che, in quest'ottica, il giudice, nel determinare la quantificazione del danno non patrimoniale subito per ogni anno di ritardo, può scendere al di sotto del livello di "soglia minima": infatti, «quella soglia minima è tendenziale, vale cioè "di regola" (così Sez. 6-1, 30 luglio 2010, n. 17922, cit.; Sez. 6-1, 28 maggio 2012, n. 8471, cit.), ma non costituisce una frontiera invalicabile, essendo consentito al giudice di merito – nella valutazione equitativa del pregiudizio concreto subito dal cittadino a causa del ritardo del servizio giustizia – scendere al di sotto di quel livello là dove, in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto, parametrata anche sulla condizione sociale e personale del richiedente, vi sia l'esigenza di evitare sovracompensazioni».

Di grande rilievo anche la portata di Sez. 6-1, n. 21051 (in corso di mass.) – costituendo la prima applicazione della sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, Gagliano Giorgi c. Italia (resa dalla II sezione il 6 marzo 2012 e diventata definitiva il 24 settembre 2012) – per la quale «l'esclusione di ogni indennizzo nel caso in cui il procedimento penale irragionevolmente protrattosi si concluda con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione deve ritenersi compatibile con la Convenzione europea, così come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, a maggior ragione deve ritenersi non lesiva della medesima convenzione la riduzione dell'indennizzo nei confronti di chi abbia beneficiato della durata del procedimento per effetto della prescrizione medio tempore maturata e non rinunciata»; in precedenza, la pacifica giurisprudenza della Corte di legittimità escludeva l'indennizzo in tale ipotesi, solo allorquando la prescrizione fosse il frutto di manovre dilatorie dell'interessato.

Con riguardo alla materia fallimentare, la Corte con la sentenza Sez. 6-1, n. 9254 (Rv. 622850) ha indicato, come ragionevole, una durata del procedimento fino a sette anni «allorquando questo si presenti particolarmente complesso, ipotesi ravvisabile in presenza di un numero particolarmente elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare, di proliferazione di giudizi connessi nella procedura ma autonomi (e, quindi, a loro volta, di durata vincolata alla complessità del caso) e in presenza di pluralità di procedure concorsuali indipendenti»; in tal modo, a breve distanza, ribadisce il principio già espresso da Sez. 6-1, n. 8468 (Rv. 622828), per la quale «lo standard del procedimento fallimentare, ricavabile dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, la particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc.), la proliferazione di giudizi connessi o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata complessiva di sette anni».

Afferma un principio nuovo anche Sez. 6-1, n. 21326 (in corso di massimazione), che esclude, dal novero degli "aventi diritto" all'equa riparazione, gli enti pubblici, ed in generale ogni ente o articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico potere; infatti, il giudice di legittimità ritiene, alla luce del disposto dell'art. 34 della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per il quale «vittime della violazione» sono esclusivamente «le persone fisiche, i gruppi di individui e le organizzazioni non governative», che l'art. 2 della legge n. 89 del 2001 debba essere interpretato restrittivamente, e, quindi, la sua area di operatività debba limitarsi ai rapporti tra le persone individualmente considerate ovvero nelle formazioni collettive da esse costituite secondo legge.

Il giudice di legittimità, nel corso del 2012 (Sez. 6-1, n. 5924, Rv. 621838), ha anche preso posizione sulla questione dell'indennizzo per l'irragionevole durata del processo relativo all'irragionevole durata di altro processo (c.d. legge Pinto su legge Pinto), stabilendo che, trattandosi di un ordinario processo di cognizione, è soggetto, in quanto tale, all'esigenza di una definizione in tempi ragionevoli, la quale è tanto più pressante, in quanto finalizzata all'accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sé una condizione di sofferenza e un patema d'animo, che sarebbe ingiustificato non riconoscere. Nell'occasione, ha precisato che la durata complessiva dei due gradi di giudizio (in corte di appello e in cassazione) dev'essere ritenuta ragionevole, ove non ecceda il termine di due anni (nel quale è incluso quello di sessanta giorni previsto per la proposizione del ricorso per cassazione). Il suddetto termine sarebbe, infatti, «compatibile con le indicazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo e risponde sia alla natura meramente sollecitatoria del termine di quattro mesi di cui all'art. 3, comma sesto, della legge n. 89 del 2001, sia alla durata ragionevole del giudizio di cassazione che, anche in un procedimento di equa riparazione, non è suscettibile di compressione oltre il limite di un anno». In senso conforme, a breve distanza, si è espressa anche Sez. 6-1, n. 8283 (Rv. 622767).

Infine, Sez. 6-1, n. 16212 (Rv. 623730) «con riguardo all'area di applicazione della disciplina del diritto all'equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001», esclude «le controversie tra il cittadino e il fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi, in quanto la Corte Europea dei diritti dell'uomo ritiene meritevoli di tutela i diritti e i doveri di carattere "civile", ovvero di natura privatistica, e non le obbligazioni di natura pubblicistica, attesa l'estraneità di tali vertenze rispetto alla categoria delle liti in materia civile».

5.2. Profili processuali.

Quanto ai profili processuali, le sempre nuove esigenze sistematiche coniugate alla prospettiva nomofilattica hanno determinato il giudice di legittimità ad intervenire in molteplici, fondamentali occasioni.

Per la prima volta, con la sentenza Sez. 1, n. 9843 (Rv. 623035) si afferma l'irrilevanza, ai fini dell'equa riparazione, del possibile esperimento del rimedio della revocazione, previsto dall'art. 68 r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, nei giudizi pensionistici che si svolgono di fronte alla Corte dei conti e definiti con sentenza della sezione regionale, contro la quale non sia proposto appello. In tal caso, il termine di decadenza per proporre la domanda di equa riparazione, previsto dall'art. 4 della legge n. 89 del 2001, decorre dalla data di scadenza del termine per proporre appello, poiché, al compimento di quest'ultimo, la sentenza pronunciata dalla predetta sezione, al pari di quella del giudice ordinario, acquista autorità di cosa giudicata formale, ai sensi dell'art. 324 cod. proc. civ., non potendo essere più impugnata con un mezzo ordinario. Ciò, in quanto il rimedio della revocazione ordinaria, previsto dall'art. 68, lett. a), citato, è esperibile solo nei confronti delle sentenze emesse in unico grado o in grado di appello, mentre l'errore di fatto revocatorio relativo ad una sentenza appellabile, in applicazione dei principî generali, si converte in motivo di nullità del provvedimento, che deve essere dedotto proprio con l'appello.

Riprendendo, poi, il medesimo principio già affermato in altri settori, specie in quello giuslavoristico (Sez. Un. 20604 del 2008, Rv. 604555), la Cassazione con la decisione Sez. 6-1, n. 7020 (Rv. 622530) conferma che il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza alla controparte non è perentorio, in quanto l'art. 3 della legge n. 89 del 2001 si limita a prevedere il termine dilatorio di comparizione di quindici giorni per consentire la difesa all'Amministrazione e ricollega la sanzione dell'improponibilità della domanda soltanto al deposito del ricorso oltre il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che ha concluso il processo presupposto. La Corte chiarisce che l'unico riferimento ermeneutico non può essere rappresentato dall'art. 111 Cost. sulla ragionevole durata del processo, dovendosi tenere in debita considerazione anche e soprattutto il principio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU in via di interpretazione dell'art. 6, comma 1 della CEDU (il cui rispetto è imposto al giudice nazionale dall'art, 117 Cost.), secondo cui il diritto di accesso ai tribunali ed alle corti implica l'esigenza, nell'applicare le regole della procedura dettate dalle norme di legge interne, di evitare che un'interpretazione troppo formalista impedisca, in effetti, l'esame del merito dei ricorsi.

In tema di competenza territoriale, Sez. 6-1, n. 6887 (Rv. 623027), in ossequio all'insegnamento di Sez. Un. n. 6306 del 2010 (Rv. 612155), afferma che «la competenza sulla domanda diretta ad ottenere l'equa riparazione per l'irragionevole durata di un giudizio davanti a sede distaccata del TAR appartiene alla corte d'appello, individuata ai sensi dell'art. 11 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 3 della legge 24 marzo 2001, n. 89, ove tale sede coincida con la sede di un distretto di corte d'appello, a prescindere dai rapporti interni tra giudici speciali, in quanto ciò che viene in rilievo non è l'ambito territoriale di competenza dell'ufficio giudiziario, ma la sua sede. (Nella specie, il giudizio presupposto era stato incardinato presso il Tar Campania, sezione distaccata di Salerno, e la competenza territoriale in ordine ai giudizi di equa riparazione ex art. 3 della legge n. 89 del 2001 è stata indicata dalla Suprema Corte nella Corte d'appello di Napoli)».

Altra pronunzia destinata ad incidere su un contenzioso numericamente significativo è la Sez. 6-1, n. 5914 (Rv. 621836), per la quale, nel giudizio amministrativo, alla frazione di procedimento successiva alla data di entrata in vigore della legge n. 112 del 2008, si applica la disciplina prevista dal relativo art. 54, che ha configurato l'istanza di prelievo quale "presupposto processuale" della domanda di equa riparazione.

Significativo è poi l'arresto di Sez. 6-1, n. 14966 (in corso di massimazione), che applica il principio per il quale non è concepibile la formazione di un giudicato autonomo in ordine all'individuazione del criterio legale di stima, né è concepibile l'acquiescenza al criterio stesso, già enunciato dalla Sez. 1, n. 21143 del 2007 (Rv. 600813) con riferimento all'indennità di espropriazione, ai criteri di liquidazione dell'indennizzo da irragionevole ritardo, ritenendolo di portata generale.

L'ultima decisione di portata rilevante nel panorama giurisprudenziale dell'anno 2012 è la Sez. 6-1, n. 6459 (Rv. 622325) che consacra l'applicabilità della disciplina de qua anche con riferimento ai "procedimenti" esecutivi, osservando che il debitore esecutato, sebbene in stato di soggezione rispetto all'azione esecutiva promossa dal creditore, è parte del processo esecutivo, in quanto il diritto del debitore di promuovere giudizi di opposizione nelle varie fasi e gradi del processo esecutivo presuppone la sua generale qualità di parte di tale processo, ciò che del resto è confermato dal consolidato orientamento, secondo cui nel processo di esecuzione il diritto del cittadino al giusto processo (come delineato dalla nuova formulazione dell'art. 111 Cost.) deve essere soddisfatto attraverso il contraddittorio tra le parti in ogni fase processuale in cui si discuta e si debba decidere circa diritti sostanziali o posizioni comunque giuridicamente protette, tenendo conto del correlato e concreto interesse delle parti stesse ad agire, a contraddire o ad opporsi per realizzare in pieno il proprio diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost.

5.3. Ordinanze di rimessione alle Sezioni unite.

Non può, infine, chiudersi questo sintetico giro d'orizzonte sui principali interventi ermeneutici del giudice di legittimità in questa materia, senza richiamare le quattro ordinanze di rimessione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Con l'ordinanza Sez. 6-1, n. 16820, viene rimessa la questione originata dal contrasto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo – che considera compresa nella durata del processo anche la fase della soddisfazione coattiva del diritto accertato nel processo di cognizione – con quella della Corte di cassazione, che invece considera il processo di cognizione e quello di esecuzione come distinti ed autonomi. Più in generale, il Collegio remittente sottopone al vaglio delle Sezioni Unite la questione se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole dello stesso processo presupposto e sottolinea la necessità di una pronuncia del Collegio Supremo anche alla luce delle modifiche alla legge 24 marzo 2001, n. 89, introdotte dall'art. 55 del decreto legge n. 83 del 2012, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 134 del 2012.

L'ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 16606, pone la questione degli effetti della cancellazione della società di persone, con riguardo alla pretesa indennitaria, ai sensi della legge n. 89 del 2001, derivante dalla durata eccessiva del processo nel quale detta società sia stata parte. La Sezione remittente precisa che la questione dei rapporti sociali non liquidati, osservata nella prospettiva della legge n. 89, «si arricchisce di un ulteriore aspetto», trattandosi di stabilire «se il risarcimento del danno da violazione dell'art. 6, § 1, della CEDU, sotto il profilo della ragionevole durata del processo, configuri un diritto già esistente nel patrimonio sociale al momento della cancellazione della società o se – presupponendo l'accertamento in via giudiziale della violazione della Convenzione – non rappresenti, piuttosto, una mera pretesa di carattere contenzioso», la quale ultima, per una certa impostazione di legittimità, potrebbe intendersi rinunciata a motivo della cancellazione volontaria dell'ente collettivo; la proposta di investitura delle Sezioni Unite trarrebbe, dunque, origine dalla lacuna normativa che avvolge la questione sopra enucleata e che deve essere colmata attraverso l'autorevole opera ermeneutica del Supremo Collegio (al riguardo, cfr. pure il cap. XIX, § 15).

L'ordinanza Sez. 2, n. 12938, si riferisce, invece, alla questione se il contenzioso civile nascente dalla violazione del termine ragionevole del processo rientri o no nel campo di applicazione della mediazione finalizzata alla conciliazione, ai sensi del d.lgs. n. 28 del 2010 ed è strettamente connessa alla risoluzione del quesito di diritto se la normativa ex legge n. 89 del 2001 riguardi controversie su diritti "disponibili". Il Collegio remittente ritiene tale questione di massima e particolare importanza, non solo per la sua novità, ma per i profili pubblicistici coinvolti e per il fatto di porsi al crocevia tra l'istituto della mediazione nel sistema dei mezzi di risoluzione delle controversie civili e il contenzioso seriale dell'equa riparazione per l'eccessiva durata del processo, per il quale già in passato c'erano stati tentativi di introdurre sistemi stragiudiziali deflattivi. Non può non ricordarsi, al riguardo, la sentenza n. 272 del 24 ottobre 2012 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disciplina della mediazione, quanto all'art. 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, e norme collegate.

Infine, l'ordinanza Sez. 6-1, n. 21062 del 13 novembre 2012 investe le Sezioni Unite della questione relativa alla legittimazione dei singoli condomini ad agire in giudizio per far valere il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole del processo presupposto intentato dal Condominio, in persona dell'amministratore, del quale i condomini stessi non sono stati parti.

6. I diritti degli immigrati. Il sistema pluralistico della protezione internazionale.

La Corte di cassazione, sulla base dell'ampia elaborazione giurisprudenziale conseguita all'introduzione del sistema plurale di protezione internazionale, introdotto dalle Direttive 2004/83/CE e 2005/85/CE, peraltro di prossima modificazione (per effetto della Direttiva 2011/51/CE), attuate con i d. lgs. n. 251 del 2007 e 25 del 2008, ha affrontato il tema, di cruciale importanza, del rapporto tra il diritto d'asilo costituzionale, stabilito nell'art. 10, terzo comma, Cost. e l'attuale, modificata disciplina normativa delle misure umanitarie di derivazione europea.

La questione dell'autonomia del diritto d'asilo costituzionale e della sua immediata precettività non è stata risolta in modo univoco negli orientamenti di legittimità che si sono sviluppati anteriormente all'entrata in vigore dell'attuale sistema di protezione internazionale diversificato.

Nelle prime pronunce delle Sezioni Unite, sollecitate da ricorsi in tema di giurisdizione, è stata riconosciuta la dignità di diritto soggettivo perfetto all'asilo costituzionale (Sez. Un., n. 4674 del 1997, Rv. 504706 e n. 907 del 1999, Rv. 532296).

In una seconda fase, nella vigenza di un regime giuridico che riconosceva esclusivamente lo status del rifugiato politico, la Corte ha adottato un orientamento molto restrittivo, attribuendo all'asilo costituzionale l'esclusiva funzione di consentire la permanenza temporanea dello straniero al solo fine di procedere all'accertamento giurisdizionale delle condizioni per il rifugio (Sez. 1, n. 18940 del 2006, Rv. 591592).

Nel regime giuridico attuale, inserito in un sistema di tutela costituzionale ed internazionale dei diritti umani ampiamente sottolineato dalla S.C. (Sez. Un., n. 19393 del 2009, Rv. 609272), con la recente ordinanza n. 10686 del 2012, la Corte ha affermato che le tre misure di protezione internazionale (rifugio politico, protezione sussidiaria e protezione umanitaria) rappresentano la piena attuazione del diritto costituzionale d'asilo, come può essere agevolmente riscontrato dalla massima ufficiale che segue: «Il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, adottato in attuazione della Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, e di cui all'art. 5, comma sesto, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Ne consegue che non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all'art. 10, terzo comma, Cost., in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all'esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione. (Ord. 10686 del 2012, Rv. 623092)».

La ricomprensione delle misure tipiche e della misura atipica della protezione umanitaria, nell'ambito costituzionale del diritto d'asilo conferma la natura inviolabile di tale diritto fondamentale della persona e ne garantisce il più elevato grado d'incomprimibilità da parte delle autorità amministrative di polizia e di sicurezza, essendo l'intera materia rigidamente protetta da riserva assoluta di legge. Il coordinamento diretto con il diritto costituzionale d'asilo consente, inoltre, di definire più esattamente il contenuto, attualmente non univocamente individuabile delle misure atipiche di protezione umanitaria. Se la tripartizione attuale delle misure di protezione internazionale ricomprende ed esaurisce il diritto d'asilo costituzionale, il contenuto specifico di tutela di questa norma, individuabile nell'impedimento all'effettivo esercizio delle libertà democratiche, contribuisce a definire l'ambito di applicazione della misura atipica del permesso umanitario, rispetto al contenuto della quale vengono in evidenza in negativo i requisiti relativi alle misure tipiche ed in positivo le violazioni all'esercizio dei diritti inviolabili che l'art. 10 terzo comma Cost. mira a tutelare. L'inclusione delle misure di protezione umanitaria nell'alveo del diritto d'asilo costituzionale, dovrebbe determinare una più ampia configurabilità di situazioni vulnerabili da tutelare con la misura residuale, avendo le "libertà democratiche" un contenuto più ampio dei rischi d'incolumità psicofisica posti a base delle misure tipiche.

Per la sua rilevanza ed immediata connessione con le questioni sostanziali, si tratta in questa parte anche di importanti profilo processuali della protezione dello straniero.

6.1. Il procedimento e le garanzie.

Il diritto al riconoscimento di una misura di protezione internazionale è stato, nell'ultimo anno, potenziato dalla Corte di cassazione sia in ordine alle garanzie processuali che in ordine alla definizione del suo contenuto.

Sul primo dei due profili da esaminare, occorre sottolineare che è stato riconosciuto il diritto del cittadino straniero a conoscere fin dalla fase iniziale il procedimento che lo riguarda. Con l'ordinanza n. 10546, Rv. 623091 è stato stabilito che: «In tema di protezione internazionale, il provvedimento amministrativo della Commissione territoriale deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, atteso l'espresso richiamo ad esso operato dall'art. 18 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25. La violazione di tale obbligo determina la invalidità della decisione del giudice che, adito a fronte del provvedimento amministrativo negativo, abbia puramente e semplicemente accettato le acquisizioni procedimentali lesive dei diritti di difesa, senza procedere ad alcuna iniziativa officiosa e collaborativa: detta iniziativa, se può essere negata quando le prospettazioni documentali ed orali del richiedente protezione siano di tale implausibilità da rendere la stessa inutile, non può essere declinata allorché il richiedente protezione, per omesso avviso dell'inizio del procedimento amministrativo, non abbia potuto ragionevolmente formulare nessuna produzione o deduzione».

L'omesso avvio dell'inizio del procedimento determina l'invalidità della pronuncia giurisdizionale che abbia fondato la propria decisione soltanto sulle risultanze del procedimento espletatosi davanti alla Commissione territoriale senza la partecipazione del richiedente dovuta alla sua impossibilità di conoscere l'instaurazione del procedimento. Il nuovo orientamento è particolarmente significativo perché radicalmente diverso da quello che sull'omesso avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990 si è affermato in tema di espulsione amministrativa dello straniero. Sempre al fine di una corretta instaurazione del contraddittorio la Corte ha riconosciuto la legittimazione del Ministero degli Interni a proporre impugnazione avverso la pronuncia di primo grado, anche se tale prima fase del giudizio si è svolta nel vigore della disciplina normativa che escludeva tale legittimazione.

Infatti, la sentenza della Sez. 6-1, n. 16227 (Rv. 623616) ha stabilito: «Nei procedimenti giurisdizionali riguardanti la protezione internazionale dello straniero, l'impugnazione della pronuncia di primo grado da parte del Ministero degli Interni è ammissibile, in virtù del principio tempus regit actum, ancorché il Ministero non abbia partecipato al primo grado di giudizio, qualora il reclamo sia proposto a far data dall'8 agosto 2009, tempo di entrata in vigore dello jus superveniens che ha configurato il Ministero stesso quale parte del procedimento (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 25 del 2008, novellato dall'art. 1, comma 13, della legge n. 94 del 2009)». Il giudizio in sede di legittimità potrà subire modifiche con riferimento ai procedimenti instaurati dopo il 6 novembre 2011, data di entrata in vigore del d. lgs. n. 150 del 2011 che all'art. 19, nel rimodellare, assoggettandolo al procedimento sommario di cognizione per i primi due gradi, tale tipologia di giudizio ha abrogato il comma 14 del d. lgs. n. 25 del 2008, che prevedeva la trattazione in camera di consiglio del procedimento davanti alla Corte di cassazione, pur contenendo la indicazione della alla trattazione urgente.

L'esercizio del diritto ad una misura di protezione internazionale impone la conoscenza degli atti del procedimento. L'esigenza di garantire al richiedente l'effettiva comprensione degli eventi processuali che lo riguardano è stata particolarmente avvertita nei più recenti arresti della Corte relativi alle domande di protezione internazionale così come nei procedimenti relativi all'espulsione amministrativa dello straniero (Sez. 6-1, n. 3676, Rv. 621535), ma in tutte le pronunce la pienezza della garanzia del diritto di difesa si è sempre coniugata con l'equivalente interesse all'effettività e alla tendenziale rapidità della risposta giudiziaria (Sez. 6-1, n. 26480 del 2011, Rv. 620691, secondo la quale la nullità del provvedimento della Commissione per difetto di traduzione nella lingua conosciuta dallo straniero determina non una mera pronuncia di declaratoria d'invalidità ma l'obbligo di decidere nel merito ripristinando le garanzie pretermesse).

Alla luce di queste premesse, gli orientamenti di quest'anno hanno conformato il diritto al riesame del provvedimento non tradotto, anche fuori dei rigidi confini temporali di proposizione delle domande giudiziali ma escludendo la configurabilità di una ricorribilità illimitata.

«In tema di protezione internazionale dello straniero, la comunicazione della decisione negativa della Commissione territoriale competente, ai sensi dell'art. 10, commi 4 e 5, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, deve essere resa nella lingua indicata dallo straniero richiedente o, se non sia possibile, in una delle quattro lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo o arabo, secondo l'indicazione di preferenza), determinando la relativa mancanza l'invalidità del provvedimento; tale vizio, tuttavia, analogamente alle altre nullità riguardanti la violazione delle prescrizioni inderogabili in tema di traduzione, può essere fatto valere solo in sede di opposizione all'atto che da tale violazione sia affetto, ivi compresa l'opposizione tardiva, qualora il rispetto del termine di legge sia stato reso impossibile proprio dalla nullità» (Sez. 6-1, n. 420, Rv. 621178).

L'obbligo di traduzione previsto per tutti gli atti dei procedimenti giurisdizionali relativi a misure di protezione internazionale, sulla base dell'art. 10, comma 4 e 5, d. lgs. n. 25 del 2008 (Sez. 6-1, n. 24543 del 2011, Rv. 620578), non può essere limitato all'uso delle lingue veicolari, dopo quanto stabilito dalla Sez. 6-1, n. 3676, Rv. 621535 in tema di espulsione ma con principio di valenza generale, indubitabilmente applicabile anche ai procedimenti di protezione internazionale, che così è stata massimata: «È nullo il provvedimento di espulsione (nella specie di cittadino indiano entrato in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera e trattenutosi nel territorio dello Stato illegalmente) tradotto in lingua veicolare per l'affermata irreperibilità immediata di traduttore nella lingua conosciuta dallo straniero, salvo che l'amministrazione non affermi ed il giudice ritenga plausibile, l'impossibilità di predisporre un testo nella lingua conosciuta dallo straniero per la sua rarità ovvero l'inidoneità di tal testo alla comunicazione della decisione in concreto assunta».

In questo specifico ambito di garanzie processuali, di primario rilievo, gli orientamenti della Corte degli ultimi due anni hanno realizzato l'obiettivo dell'effettività dell'obbligo di traduzione previsto dalla legge, eliminando, in funzione del rango costituzionale dei diritti fondamentali in gioco e dello stesso diritto di difesa, il principio della sostanziale insindacabilità della decisione amministrativa di tradurre i provvedimenti riguardanti gli stranieri in una delle lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo) ed imponendo all'autorità amministrativa di provvedere a modelli standard di provvedimenti (peraltro a contenuto vincolato dai requisiti di legge) nelle lingue straniere più utilizzate, sulla base dell'ampia prevedibilità delle provenienze dei flussi migratori. Per quanto riguarda i procedimenti di protezione internazionale, l'obbligo di traduzione degli atti del procedimento nella lingua conosciuta dallo straniero, imposto dall'art. 10 del d. lgs. n. 25 del 2008, deve essere esteso a tutte le comunicazioni rilevanti ai fini dell'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale. Questa norma che permane in vita anche dopo la radicale modifica dell'art. 35 del d. lgs. n. 25 del 2008, dovuta al d. lgs. n. 150 del 2011, introduce il quesito relativo alla necessità di tradurre anche i provvedimenti giurisdizionali riguardanti i procedimenti di protezione internazionali e non soltanto quello della Commissione territoriale.

6.2. L'istruzione probatoria e il dovere di cooperazione del giudice.

Nei procedimenti di protezione internazionali fin dall'arresto delle Sezioni Unite n. 27310 del 2008, Rv. 605498, la Corte ha stabilito che, anche prescindendo dal regime giuridico di diritto positivo ratione temporis applicabile, il principio regolativo dell'onere della prova nei giudizi civili è fortemente attenuato, essendo tenuto il giudice ad esercitare i propri poteri istruttori officiosi al fine di verificare la veridicità delle dichiarazioni della parte richiedente in ordine alle sue condizioni personali collegate alla generale condizione politica del paese di provenienza.

Nell'ultimo anno e nella piena vigenza del peculiare regime di accertamento giudiziale introdotto dall'art. 3 del d. lgs. n. 251 del 2007 e 25 del 2008, l'ambito ed il contenuto di questo dovere di cooperazione istruttoria officiosa, doverosamente rivolto alla valutazione delle condizioni di accesso a tutte le misure di protezione internazionale, è stato ulteriormente definito dalla Corte, anche in recentissime pronunce: «In tema di protezione internazionale, la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente deve essere svolta alla stregua dei criteri stabiliti nell'art. 3, quinto comma, del d.lgs. n. 251 del 2007 (verifica dell'effettuazione di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; deduzione di un'idonea motivazione sull'assenza di riscontri oggettivi; non contraddittorietà delle dichiarazioni rispetto alla situazione del paese; presentazione tempestiva della domanda; attendibilità intrinseca), non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, e l'acquisizione delle informazioni sul contesto socio-politico del paese di rientro deve avvenire in correlazione con i motivi di persecuzione o di pericoli dedotti, sulla base delle fonti di informazione indicate nell'art. 8, comma terzo, del d.lgs. n. 25 del 2008, ed in mancanza, o ad integrazione di esse, mediante l'acquisizione di altri canali informativi, dando conto delle ragioni della scelta.(Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione della Corte di appello, che aveva ritenuto inverosimili le dichiarazioni di un cittadino del Togo sul rischio di persecuzione nel paese d'origine, senza applicare i criteri legali di valutazione della credibilità oggettiva e facendo esclusivo riferimento sulle risultanze del sito del Ministero degli Esteri destinato all'informazione turistica e su indicazioni non aggiornate provenienti da Amnesty International)» (Sez. 6-1, n. 16202, Rv. 623728).

L'obbligo di cooperazione istruttoria deve rivolgersi all'assunzione delle fonti informative di cui all'art. 8 del d. lgs. n. 25 del 2008, integrate da altre fonti qualificate e non dirette a categorie di viaggiatori diverse dai migranti e deve essere mirato a raccogliere le informazioni connesse alle dichiarazioni della parte. D'altra parte la valutazione d'inattendibilità soggettiva della parte deve essere scrutinata alla stregua dei rigorosi criteri indicati nell'art. 3 del d. lgs. n. 251 del 2007 e non genericamente affermata, peraltro senza verificare la corrispondenza alla realtà del paese dei riscontri oggettivi.

6.3. Il contenuto del diritto.

In una recente pronuncia, la Corte ha riconosciuto che la circostanza per cui l'omosessualità sia considerata un reato dall'ordinamento giuridico del Paese di provenienza (nella specie, Senegal) è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta; devono, pertanto, essere acquisite le prove, necessarie al fine di acclarare la circostanza della omosessualità del richiedente, la condizione dei cittadini omosessuali nella società del Paese di provenienza e lo stato della relativa legislazione, nel rispetto del criterio direttivo della normativa comunitaria e italiana in materia di istruzione ed esame delle domande di protezione internazionale (Sez. 6-1, n. 15981, Rv. 624006). La pronuncia, che costituisce un netto superamento del precedente (Sez. 1, n. 16417 del 2007, Rv. 598890), con fattispecie sostanzialmente identica, conclusosi con un rigetto fondato proprio sul difetto di prova sull'orientamento sessuale del richiedente, riveste un particolare rilievo sia perché riflette la rinnovata sensibilità della Corte sul tema delle scelte personali (art. 2 Cost.) e sul diritto a conservare la propria complessiva identità evidenziato anche in altri ambiti (Sez. 1, n. 4184, Rv. 621778), sia perché riconduce all'esercizio dei poteri doveri officiosi del giudice l'accertamento della condizioni dei cittadini omosessuali nel paese di provenienza.

Sotto altro versante, la Corte, valorizzando la mancata integrale ricezione della Direttiva 2004/83/CE, ha ritenuto che «In tema di protezione internazionale dello straniero, il riconoscimento del diritto ad ottenere lo status di rifugiato politico, o la misura più gradata della protezione sussidiaria, non può essere escluso, nel nostro ordinamento, in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del Paese d'origine, ove egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi, atteso che tale condizione, contenuta nell'art. 8 della Direttiva 2004/83/CE, non è stata trasposta nel d.lgs. n. 251 del 2007, essendo una facoltà rimessa agli Stati membri inserirla nell'atto normativo di attuazione della Direttiva» (Sez.6-1, n. 2294, Rv. 621824), pur escludendo il diritto alla protezione internazionale nell'altra ipotesi della doppia cittadinanza del richiedente «In tema di protezione internazionale, presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o del diritto di asilo o del permesso per motivi umanitari è la circostanza che il cittadino di un determinato Paese, a causa delle persecuzioni o dei pericoli che lo minacciano, non può restare nello stesso e deve pertanto indirizzarsi verso altro Paese che lo possa ospitare. Ne consegue che, in caso di doppia cittadinanza, non sussistono le condizioni per la protezione intenazionale, secondo la disciplina dello Stato italiano, qualora il soggetto che non possa restare in uno dei Paesi di cui è cittadino, possa però dirigersi verso l'altro Paese di cui abbia la cittadinanza senza correre alcun pericolo. (Nella specie, la S.C., ha confermato il rigetto della domanda proposta da uno straniero cittadino dello Zimbabwe e della Nigeria, che aveva riferito di persecuzioni e di pericolo grave a suo carico solo nello Zimbabwe)» (Sez. 6-1, n. 10375, Rv. 623096).

7. Gli enti collettivi a base associativa.

Con riferimento alle persone giuridiche di diritto privato, Sez. L, n. 16381 (Rv. 624274) ha escluso l'invocabilità, quale norma di diritto nel ricorso per cassazione, del relativo regolamento statutario di attuazione, proprio in considerazione della sua natura negoziale privatistica.

Con la decisione Sez. 3, n. 4542 (Rv. 621596), la Corte affronta funditus il tema del riconoscimento di un'identità soggettiva degli enti collettivi e della conseguente loro idoneità ad essere titolari di un diritto all'identità personale, intesa come esistente anche in capo ad una formazione sociale, ed alla reputazione. In un precedente (Sez. 3, n. 10125 del 2011, Rv. 618215), la Corte aveva affermato la legittimazione ad agire, per domandare il risarcimento del danno non patrimoniale, dell'ente collettivo (nella specie Consiglio nazionale dei geometri) qualora sia stato esso, in quanto tale, destinatario di una condotta lesiva. Con la decisione del 2012, il giudice di legittimità non solo ribadisce la sussistenza di tale legittimazione, ma chiarisce che «anche le persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, quali un Comune, possono essere lese in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con l'assenza di fisicità, quali i diritti all'immagine, alla reputazione e all'identità storica, culturale e politica costituzionalmente protetti». Nel caso in esame, si è trattato dell'annullamento della stagione teatrale da parte del comune, a causa della consegna di una tensostruttura per rappresentazioni, tanto viziata da costringere l'ente ad annullare la stagione teatrale programmata (in tema di diritto all'onore ed alla reputazione, v. pure il cap. XI, § 4.6).

In tema di consorzi, la sentenza Sez. 1, n. 7427 (Rv. 622337), segna, anche in quest'occasione, una continuità nella linea interpretativa già affermata dalla Corte (Sez. 1, n. 10220 del 2010) per la quale, nei consorzi di urbanizzazione – consistenti in aggregazioni di persone fisiche o giuridiche preordinate alla sistemazione od al miglior godimento di uno specifico comprensorio mediante la realizzazione e la fornitura di opere e servizi – la natura, affermabile di regola, di associazione non riconosciuta si coniuga con un forte profilo di realità, sicché la complessità della loro struttura, affidata all'autonomia privata, rende necessario accertare quale sia la volontà manifestata nello statuto, da cui dipende l'applicabilità della normativa in materia di associazione, ovvero di quella in tema di comunione. La richiamata sentenza n. 7427 riprende tale affermazione e, facendo leva sulla complessità della struttura degli organismi in questione, che rende insoddisfacente tanto un'applicazione generalizzata delle norme riguardanti le associazioni non riconosciute, quanto il ricorso a quelle in tema di comunione o condominio, valorizza il profilo di realità, nonché la portata degli accordi tra gli associati e quindi dell'atto costitutivo, concludendo che, qualora questo preveda la cessazione dell'appartenenza al consorzio per l'intervenuta alienazione del diritto reale e il subingresso dell'acquirente nei diritti e negli obblighi dell'alienante, il nuovo proprietario subentra nel debito per le quote consortili, senza necessità della dichiarazione di recesso o della delibera di esclusione prescritte dall'art. 24 cod. civ. in materia di associazioni, trattandosi di una obbligazione propter rem, avente ad oggetto le quote dovute dagli associati al consorzio.

Per la sua importanza nel tema in oggetto, si dà qui conto di un profilo processuale, nel quale la Corte con la decisione della Sez. 1, n. 1590 (Rv.621486) si distacca da un precedente risalente (Sez. 1, n. 5632 del 1999, Rv. 527191), che ammetteva la ricorribilità in cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. del provvedimento di nomina dei commissari liquidatori da parte del presidente del tribunale in caso di scioglimento dell'associazione, pur riconoscendo a tale procedimento «la natura di un intervento di volontaria giurisdizione non rivolto a risolvere un conflitto su diritti» e ritiene, al contrario, di escluderla. Il collegio, infatti, allineandosi all'orientamento di portata più generale per il quale non è ammessa l'impugnabilità, con ricorso straordinario in cassazione, dei provvedimenti cui non può essere riconosciuto il carattere della decisorietà e della definitività, afferma che i «provvedimenti emessi dal presidente del tribunale, in forza degli art. 11 e 12 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile, nell'espletamento della sua funzione di nomina e di sorveglianza sull'attività compiuta dai liquidatori di un'associazione privata riconosciuta, costituiscono misure di volontaria giurisdizione, prive di decisorietà e di definitività, essendo il liquidatore revocabile o sostituibile in ogni tempo, anche d'ufficio, e fondandosi esse su di un'indagine sommaria e incidenter tantum, con la conseguenza che avverso tali provvedimenti non è ammessa l'impugnazione straordinaria per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost.».

  • matrimonio
  • separazione legale
  • divorzio
  • diritto di famiglia

CAPITOLO II

LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI

(di Francesca Ceroni )

Sommario

1 Matrimonio. - 1.1 Il matrimonio tra persone dello stesso sesso. - 1.2 Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio in ipotesi di "prolungata convivenza ". - 2 La crisi del matrimonio. - 2.1 L'assegnazione della casa familiare. - 2.2 Il preliminare stipulato da parte di un coniuge e la sentenza ex art. 2932 cod. civ. - 2.3 L'immobile adibito a residenza della famiglia di fatto. - 2.4 Il mantenimento della prole. - 2.5 I diritti dell'ex coniuge superstite. - 2.6 Gli accordi prematrimoniali in vista del divorzio. - 3 Le questioni processuali. - 3.1 La rappresentanza dei figli minori e l'amministrazione dei loro beni. - 3.2 Il disconoscimento di paternità. - 3.3. La dichiarazione giudiziale di paternità. - 3.4 Decadenza dalla potestà e impugnazione del decreto di adozione. - 3.5 La cessazione della convivenza. - 3.6 I procedimenti di separazione e divorzio. - 4 La validità delle direttive anticipate di trattamento sanitario.

1. Matrimonio.

1.1. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

In tema di matrimonio, la Suprema Corte per la prima volta affronta la specifica questione del c.d. "matrimonio gay ", esprimendosi con la sentenza Sez. 1, n. 4184 (Rv. 621779) sulla seguente fattispecie.

Due cittadini italiani dello stesso sesso contraggono matrimonio all'estero e chiedono al sindaco del comune della loro residenza la trascrizione dell'atto del predetto matrimonio. Il sindaco, interpellato quale ufficiale del Governo, rifiuta la trascrizione richiesta, ai sensi del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 18, essendo detto atto di matrimonio, formato all'estero, non suscettibile di trascrizione perché contrario all'ordine pubblico. Avverso il provvedimento di rifiuto della trascrizione gli sposi propongono ricorso al Tribunale ordinario di Latina che – in contraddittorio con il Sindaco del Comune di Latina e con il Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale – respinge il ricorso; questi, di conseguenza, adiscono con reclamo la corte territoriale, che, tuttavia, conferma la decisione dei giudici di prime cure, utilizzando un argomento fondamentale: l'atto di matrimonio non poteva essere trascritto «perché non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell'ordinamento interno: la diversità di sesso tra i coniugi ».

La Corte di cassazione, chiamata, quindi, a decidere se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all'estero, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano, pur confermando il dispositivo del giudice di merito che ne ha negato la trascrivibilità, ha escluso che il matrimonio fra persone dello stesso sesso non sia configurabile come matrimonio, in quanto anche ai sensi dell'art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza del 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria), la diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto "naturalistico " di "esistenza " del matrimonio. La Corte con la decisione indicata ha, quindi, concluso che «il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all'estero, non è inesistente per l'ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici ».

La Corte, inoltre, pur affermando che le persone dello stesso sesso conviventi in stabile relazione di fatto sono titolari del diritto alla «vita familiare » ex art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e che, quindi, nell'esercizio di tale diritto inviolabile possono adire il giudice per rivendicare, in specifiche situazioni correlate ad altri diritti fondamentali, un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata, ha, tuttavia, affermato che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso e che l'art. 2 Cost. neppure vincola il legislatore a garantire tale diritto quale forma esclusiva del riconoscimento giuridico dell'unione omosessuale, mentre garantisce il «diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia », il quale comporta che i componenti della "coppia omosessuale " hanno il diritto di chiedere, a tutela di specifiche situazioni e in relazione ad ipotesi particolari, un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla "coppia coniugata ".

1.2. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio in ipotesi di "prolungata convivenza ".

In tema di delibazione delle sentenze del tribunale ecclesiastico è insorto contrasto all'interno della Prima Sezione civile.

Infatti, la Sez. 1, n. 9844 (Rv. 623199) e la Sez. 1, n. 8926 (Rv. 622851) hanno ritenuto l'una ostativa e l'altra irrilevante la prolungata convivenza dei coniugi, ai fini della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico, sotto il profilo dell'ordine pubblico interno.

In un recente passato, la sentenza n. 1343 del 2011 (Rv. 616119), che la citata ordinanza n. 9844 ha mostrato di condividere nel suo percorso ermeneutico, aveva affermato che è «ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dai coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio, in quanto essa è espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito, con cui è incompatibile, quindi, l'esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge ». Il collegio, in questa seconda decisione, ha implementato la struttura argomentativa precedente, sottolineando che ciò che importa, ed è ostativo alla delibazione, non è la mera durata del matrimonio-atto, ma la reale durata del matrimoniorapporto, fondato sulla convivenza tra i coniugi, in quanto l'ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese favor per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali (cfr. Sez. Un., n. 19809 del 2008, Rv. 604842-3).

Deve, in proposito, aggiungersi che, sulla stessa linea interpretativa, già la Sez. 1, n. 1780 (non massimata) aveva chiarito che «il limite di ordine pubblico postula che non di mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto si sia trattato – che nulla aggiungerebbe ad una situazione di mera apparenza del vincolo – bensì di vera e propria convivenza significativa di un'instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci – per l'appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 cod. civ.) – tale da dimostrare l'instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto ».

2. La crisi del matrimonio.

2.1. L'assegnazione della casa familiare.

Riguardo all'assegnazione della casa familiare, con le pronunzie Sez. 3, n. 2103 (Rv. 621670) e n. 14177 (Rv. 623723) la Cassazione, in continuità con l'orientamento nel tempo consolidatosi (v. Sez. Un., n. 13603 del 2004, Rv. 575657), relativamente alla fattispecie, assai ricorrente, di comodato di un immobile stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha chiarito non solo che il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all'uso, cui la cosa è destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell'art. 1809, primo comma, cod. civ., ma anche che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato (Rv. 621670), puntualizzando successivamente pure che il giudice della separazione «è tenuto a verificare che la concessione in comodato del bene sia stata effettuata nella prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare » (Rv. 623723).

Con riferimento a questa delicata fattispecie, la sentenza Sez. 1, n. 16769 (Rv. 624104) precisa ulteriormente che il provvedimento giudiziale di assegnazione non modifica né la natura, né il contenuto del titolo di godimento dell'immobile, essendo unicamente finalizzato ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a "concentrare " il godimento del bene in favore della persona dell'assegnatario. Conclude, quindi, la Corte che la specificità della destinazione impressa, per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà, che legittima la cessazione ad nutum, cosicché, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, questo permarrà anche oltre l'eventuale crisi coniugale, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno.

Precisa, poi, la decisione Sez. 1, n. 4555 (Rv. 622183), con riferimento alla necessità che permanga la convivenza tra il figlio maggiorenne ed il nucleo familiare, ai fini dell'assegnazione dell'abitazione, che la nozione di convivenza "rilevante " comporta la stabile dimora presso l'abitazione di uno dei genitori, con eventuali, sporadici allontanamenti per brevi periodi, e con esclusione, quindi, della ipotesi di saltuario ritorno presso detta abitazione per i fine settimana, ipotesi nella quale si configura invece un rapporto di mera ospitalità. La Corte, nell'occasione, chiarisce che pur dovendo sussistere un collegamento stabile con l'abitazione del genitore, tuttavia la coabitazione può non essere quotidiana, essendo tale concetto compatibile con l'assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché egli vi faccia ritorno regolarmente appena possibile; quest'ultimo criterio, precisa, deve coniugarsi con quello della prevalenza temporale dell'effettiva presenza, in relazione ad una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese).

Sempre con riferimento alle ricadute del dato temporale sul complesso degli elementi necessari per disporre l'assegnazione ovvero la revoca dell'assegnazione della casa familiare, la Sez. 1, n. 14348 (Rv. 624027) ritiene che anche l'allontanamento sistematico da questa del genitore assegnatario (nella specie per cinque giorni alla settimana) non integra la condizione essenziale per la revoca predetta, non essendo connotato dal carattere di stabilità.

Riguardo, poi, all'opponibilità a terzi dell'assegnazione della casa familiare, la Corte nel 2012 diverge da un suo precedente orientamento consacrato anche a Sezioni Unite (sent. n. 11096 del 2002), per il quale «ai sensi dell'art. 6, comma 6, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall'art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74), applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto – anche oltre i nove anni », ed afferma, al contrario, con la decisione della Sez. 3, n. 12466 (Rv. 623486), che «l'assegnazione al coniuge affidatario dei figli, in sede di separazione, del godimento dell'immobile di proprietà esclusiva dell'altro non impedisce al creditore di quest'ultimo di pignorarlo e di determinarne la vendita coattiva ».

Cfr. pure, in argomento, il cap. V, § 2.

2.2. Il preliminare stipulato da parte di un coniuge e la sentenza ex art. 2932 cod. civ.

Con sentenza della Sez. 2, n. 12923 (Rv. 623429), il giudice di legittimità ha affermato il seguente principio: «per l'esecuzione in forma specifica, a norma dell'art. 2932 cod. civ., di un preliminare di vendita di un bene immobile rientrante nella comunione legale dei coniugi, non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i promittenti venditori, ma è sufficiente il consenso del coniuge non stipulante, traducendosi la mancanza di detto consenso in un vizio di annullabilità, da far valere, ai sensi dell'art. 184 cod. civ., nel rispetto del principio generale della buona fede e dell'affidamento, entro il termine di un anno, decorrente dalla conoscenza dell'atto o dalla trascrizione ».

Inoltre, Sez. 3, n. 12466 (Rv. 623485), in applicazione degli insegnamenti di Sez. Un., n. 17952 del 2007 (Rv. 598342) e Sez. 3, n. 4907 del 2011 (Rv. 616869), ha ritenuto che, nel caso in cui l'immobile sia coattivamente trasferito ex art. 2932 cod. civ. dopo la separazione, questo non cade in comunione legale e ciò in quanto lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, con effetto ex nunc, dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell'omologazione degli accordi di separazione consensuale, mentre la sentenza di esecuzione in forma coattiva dell'obbligo di contrarre, ex art. 2932 cod. civ., produce gli effetti del contratto definitivo, che è destinata a surrogare, solo con il passaggio in giudicato e, pertanto, l'effetto acquisitivo del diritto di proprietà sull'immobile si verifica in un momento in cui la comunione legale è già sciolta, di talché di quel diritto è titolare, in via esclusiva, il promissario acquirente.

2.3. L'immobile adibito a residenza della famiglia di fatto.

La Corte con sentenza Sez. 2, n. 9786 (Rv. 622725), rispondendo al quesito di diritto: «se, secondo l'art. 1140 cod. civ., la convivenza more uxorio, generatrice della costituzione di una famiglia di fatto, protrattasi per oltre venti anni, determina in capo al convivente superstite non proprietario dell'abitazione una relazione di detenzione con il bene e non pone di per sé in essere un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene e quindi valido all'acquisto della proprietà per usucapione », afferma che il convivente more uxorio del soggetto possessore dell'immobile in cui risiede la famiglia di fatto, in ragione di tale sola convivenza, pur qualificata dalla stabilità della relazione e protetta dall'ordinamento, non è compossessore con quello, ma detentore autonomo dell'immobile stesso, che, dunque, non può usucapire.

2.4. Il mantenimento della prole.

In tema di mantenimento della prole, la Corte con la decisione della Sez. 1, n. 9372 (Rv. 623108) si esprime per la prima volta sulla questione relativa all'ammissibilità o meno della "forfetizzazione " delle spese straordinarie, da includersi "cumulativamente " nell'ammontare dell'assegno di mantenimento posto a carico di uno dei genitori e la risolve negativamente sul rilievo della impossibilità di fissare forfettariamente e in via aprioristica ciò che per sua natura è imponderabile e imprevedibile; la Corte, inoltre, nega che si possa introdurre, nell'individuazione del contributo in favore della prole, «una sorta di alea », in quanto incompatibile con «i principî che regolano la materia ».

Con riferimento alla violazione dell'obbligo di mantenimento, la Sez. 1, n. 5652 (Rv. 622137-622138) afferma, pur nell'ambito di un giudizio per il riconoscimento della paternità naturale, la configurabilità di un'autonoma azione volta al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 cod. civ., ammettendo, in modo assai significativo, la risarcibilità del danno conseguente alla violazione dei doveri di "cura " del genitore (il quale nella specie si era per lunghi anni disinteressato al figlio) e accogliendo la pretesa risarcitoria originata dal pregiudizio di «natura esistenziale », derivante dalla «volontaria, grave e reiterata sottrazione agli obblighi tutti derivanti dal rapporto di filiazione » e riconoscendo in conclusione la risarcibilità della «lesione dei fondamentali diritti della persona inerenti la qualità di figlio ».

2.5. I diritti dell'ex coniuge superstite.

Con riferimento al trattamento economico del coniuge divorziato, nel corso del 2012 la Corte di legittimità rivede il proprio orientamento, ribadito più volte anche recentemente (diff. Sez. 1, n. 13108 del 2010, Rv. 613506; n. 16744 del 2011, Rv. 619161), e con la sentenza della Sez. L, n. 3635 (Rv. 621939) afferma che l'erogazione dell'assegno divorzile una tantum, sia esso rappresentato da una mera somma, anche rateizzata, ovvero dal trasferimento di un altro bene o diritto, laddove idoneo a definire stabilmente i rapporti economici tra le parti, è incompatibile con ulteriori prestazioni aggiuntive, ivi compresi trattamenti pensionistici; mentre per l'orientamento pregresso menzionato era irrilevante la modalità solutoria del debito pattuita fra le parti, consentendo espressamente l'art. 5, ottavo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, la forma una tantum in via alternativa all'ordinaria corresponsione periodica.

2.6. Gli accordi prematrimoniali in vista del divorzio.

In linea con «un sistema normativo ormai orientato a riconoscere sempre più spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale », la Cassazione con la decisione n. 23713 (in corso di mass.) inquadra in un contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell'autonomia negoziale dei coniugi diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell'art. 1322, secondo comma, cod. civ., l'impegno negoziale assunto dai nubendi in caso di "fallimento " del matrimonio (la moglie si impegnava a trasferire al marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, adibito a casa coniugale, mentre il marito, a sua volta, si impegnava a cedere alla moglie un titolo BOT di lire 20.000.000).

La Corte, tuttavia, non esprime un giudizio di validità, nel nostro ordinamento, dei patti prematrimoniali in vista del divorzio, molto frequenti in altri Stati ed, in particolare in quelli di cultura anglosassone, ma inquadra l'accordo negoziale dei nubendi in un «vero e proprio contratto caratterizzato da prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali (…) libera espressione della loro autonomia negoziale, estraneo peraltro alla categoria degli accordi prematrimoniali (ovvero effettuati in sede di separazione consensuale) in vista del divorzio, che intendono regolare l'intero assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili arricchimenti e impoverimenti ». Il fallimento del matrimonio, pertanto, non è «causa genetica dell'accordo, ma è degradato a mero "evento condizionale " » ed è questa, in buona sostanza, la ragione fondamentale per la quale la Corte appone il crisma della legalità alla vicenda al suo esame.

3. Le questioni processuali.

3.1. La rappresentanza dei figli minori e l'amministrazione dei loro beni.

Con sentenza della Sez. 2, n. 13520 (Rv. 623633), in continuità con una risalente decisione (n. 8177 del 1996, Rv. 499531) la Corte afferma che «la competenza ad autorizzare la vendita di immobili ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del primo, a norma dell'art. 320, terzo comma, cod. civ., unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio. Ne consegue che, ai sensi del primo comma dell'art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell'acquisto iure hereditario non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l'indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell'art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell'eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori in potestate e minori sotto tutela, con riguardo alla diversa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell'art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all'art. 747 cod. proc. civ.) ».

Ancora in conformità con un orientamento consolidato, anche questo risalente (v. Sez. Un., n. 4573 del 1983, Rv. 429449; Sez. 2, n. 1546 del 1974, Rv. 369682; Sez. 2, n. 8484 del 1999, Rv. 529213), la decisione della Sez. 2, n. 743 (Rv. 621236) considera l'autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ. necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di amministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio o diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del soggetto incapace. Precisa, in proposito, che si atteggiano ad atti di ordinaria amministrazione, per i quali non è necessaria la predetta autorizzazione, tanto l'azione di rivendica finalizzata ad accrescere o a tutelare in senso migliorativo il patrimonio dell'incapace, quanto l'assunzione di una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, come l'intervento volontario in giudizio per contrastare la domanda dell'attore di riconoscimento di un diritto di proprietà, giacché il provvedimento del giudice tutelare è richiesto solo quando il minore assuma la veste di attore in primo grado, ma non per le difese e gli atti diretti a resistere all'azione avversaria.

Sempre in tema di rappresentanza dei figli minori e di amministrazione dei loro beni, la Sez. 1, n. 3393 (Rv. 621500) affronta per la prima volta la questione se l'art. 320 cod. civ. sia derogato o meno dall'art. 159 cod. postale, e, quindi, se sia necessaria l'autorizzazione del giudice tutelare ai fini della riscossione dei capitali per i buoni fruttiferi recanti indicazione del nome del genitore quale rappresentante. La Corte nega la configurabilità di una deroga, evidenziando come l'art. 159 cod. postale non disciplini l'ipotesi della indicazione del rappresentante del minore sul titolo, dovendo, pertanto, applicarsi la regola generale costituita dall'art. 320 cod. civ.

Infine, in tema di competenza per le cause relative alle gestioni tutelari e patrimoniali, la Sez. 6-1, n. 7621 (Rv. 622577), con riferimento alla portata dell'art. 24 cod. proc. civ., consapevole dell'orientamento risalente (Sez. 1, n. 3322 del 1960, Rv. 882656; n. 1588 del 1962, Rv. 252537) fondato sulla prevalenza del forum domicilii, condiviso da larga parte della dottrina, afferma, al contrario, il principio per il quale «l'art. 24 cod. proc. civ. nel designare la competenza del "giudice di esercizio della tutela ", intende riferirsi al giudice presso il quale la tutela risulti formalmente aperta ed al quale il tutore debba presentare il rendiconto, ovvero, in caso di omissione, possa procedersi ai sensi dell'art. 386, terzo comma, cod. civ.; infatti, il termine "tutela " rinvia ad una precisa nozione giuridica, che include il complesso delle attività svolte, nell'interesse della persona ad essa soggetta, non solo dal tutore, ma soprattutto dall'autorità giudiziaria ».

3.2. Il disconoscimento di paternità.

In tema di disconoscimento della paternità, la Corte nel 2012 si pronuncia – Sez. 1, n. 11644 (Rv. 623190) – su un tema che ha suscitato vivo interesse nell'opinione pubblica ed un vivace dibattito sia in giurisprudenza che in dottrina, ponendo un principio, in una materia assai delicata come quella della filiazione scaturita da inseminazione artificiale, per il quale la disciplina contenuta nell'art. 235 cod. civ. è applicabile anche a filiazioni ottenute con questa particolare tecnica di concepimento, superando così il divieto generalizzato di disconoscimento posto dal precedente risalente di Sez. 1, n. 2315 del 1999 (Rv. 524915), che, sul presupposto dell'estraneità della procreazione assistita all'adulterio (infatti la procreazione «esigeva indefettibilmente la congiunzione carnale fra uomo e donna ») escludeva la diretta riferibilità di tale disciplina al caso d'inseminazione artificiale; la recente decisione della Corte, al contrario, introduce «una specifica eccezione in tema di legittimazione ad agire ai sensi dell'art. 235 cod. civ., escludendola nelle sole ipotesi in cui, anche per facta concludentia sia desumibile il consenso del coniuge, che tale azione intenda esperire, al ricorso al metodo di fecondazione assistita. Infatti, il quadro normativo, a seguito dell'introduzione della l. n. 40 del 2004, per come formulata e per come interpretabile alla luce delle sempre più incisiva affermazione del principio del favor veritatis,si è arricchito di una nuova ipotesi, per certi versi tipica, di disconoscimento, che si aggiunge a quelle previste dall'art. 235 cod. civ., e che si fonda – stante la non piena assimilabilità dell'inseminazione artificiale alle previsioni di tale norma, come evidenziato dal giudice di legittimità con la richiamata decisione n. 2315 del 1999 – sulla esigenza di affermare la primazia del favor veritatis. Tale soluzione, a ben vedere, si colloca – sotto il profilo soggettivo – nell'ambito dell'ampliamento della sfera delle persone legittimate all'esercizio dell'azione di disconoscimento, nel senso che, una volta escluso il principio dell'incompatibilità fra fecondazione artificiale e disconoscimento, non sembra possano sussistere limiti per l'esercizio di tale azione da parte del figlio, certamente estraneo al consenso eventualmente prestato dal genitore e portatore di un interesse alla verità biologica che, per le ragioni indicate, deve considerarsi meritevole di tutela ». La conseguenza sotto il profilo processuale «stante l'identità di ratio e, comunque, per evidenti ragioni sistematiche » è l'applicabilità dell'ipotesi di decadenza prevista dall'art. 244 cod. civ., il cui termine inizierà a decorrere «al momento in cui si sia acquisita la certezza del ricorso a tale metodo di procreazione ».

Con riferimento a quest'ultimo profilo, la Sez. 1, n. 9380 (Rv. 623202) ha, altresì, ritenuto che «l'onere di provare la tempestiva conoscenza della causa d'incapacità procreativa nel termine decadenziale, previsto dall'art. 235, n. 3, cod. civ., non può essere sostituito da un mero riscontro diagnostico dell'impotenza generativa eseguito nell'anno antecedente l'azione, poiché tale riscontro riguarda i presupposti del fondamento dell'incompatibilità genetica tra padre e figlio legittimo e non la tempestiva conoscenza del presupposto legittimante »; la Corte afferma, quindi, il principio dell'insufficienza dell'indagine tecnica di natura clinica, in quanto non è oggetto di prova una condizione patologica, ma il momento positivo dell'intervenuta consapevolezza di tale condizione, con la conseguenza che l'interessato non potrà concentrarsi unicamente sulla prova della condizione soggettiva predetta, non offrendo tale accertamento la certezza, in mancanza di qualunque altro elemento integrativo, del "tempo " della conoscenza di detta condizione, né potrebbe farsi gravare su controparte l'onere della prova contraria dell'intervenuta conoscenza pregressa.

Ancora in tema di disconoscimento della paternità, la sentenza della Sez. 1, n. 9379 (Rv. 623110), per la prima volta, pone il principio per il quale la nullità del matrimonio non rende priva di oggetto l'azione di disconoscimento della paternità di cui all'art. 235 cod. civ., poiché la retroattività della relativa pronunzia non fa venir meno la presunzione legale di paternità di cui all'art. 231 cod. civ., a norma della quale il marito della madre è padre del figlio da essa concepito durante il matrimonio.

3.3.. La dichiarazione giudiziale di paternità.

La Corte con la decisione Sez. 1, n. 12549 (Rv. 623469) risolve la questione processuale, non infrequente nel delicato contenzioso di competenza del tribunale per i minorenni, circa l'eventuale «graduatoria fra i due distinti valori rispettivamente afferenti "al diritto all'identità biologica " e "al diritto del cadavere " »; la Corte, infatti, nei giudizi diretti ad ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di una persona deceduta esclude la necessità di consenso dei congiunti per l'espletamento della consulenza tecnica sul DNA di questa, non essendo configurabile un loro diritto soggettivo sul corpo di quest'ultima, in quanto non è previsto da alcuna disposizione normativa il loro consenso per accertamenti da eseguire per finalità di giustizia.

3.4. Decadenza dalla potestà e impugnazione del decreto di adozione.

Principio importante in tema di dichiarazione di decadenza dalla potestà è posto da Sez. 1, n. 6051 (Rv. 622309), che, con l'occasione, definisce compiutamente l'architettura dell'art. 30 Cost., sui doveri e diritti dei genitori, declinato nei procedimenti de potestate. La Corte ritiene, in proposito, la dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale non ostativa all'impugnazione del provvedimento di adozione in casi particolari, consapevolmente discostandosi da un precedente orientamento contrario interpretato da Sez. 1, n. 9689 del 2002 (Rv. 555513), di cui mostra non condividere gli argomenti di fondo, in quanto non sono «desumibili dalla normativa vigente, interpretata nel suo complesso, elementi idonei a confortare la detta limitazione ». In motivazione puntualizza che «sia l'art. 313 cod. civ., richiamato dall'art. 56 della legge 4 maggio 1983, n.184, riferendosi all'adozione di maggiorenni, ovviamente non prevede la legittimazione ad impugnare dei "genitori ", sia questi ultimi in quanto titolari di un'autonomia valutativa in ordine all'individuazione delle soluzioni di maggior utilità per il minore, hanno una posizione processuale propria, che mal si concilia con limitazioni imposte al potere d'impugnazione ».

La Corte ancora valuta irrilevante la distinzione tra l'esercizio dell'azione iure proprio e quella in nomine minoris, precisando che i rappresentanti non si limitano ad esprimere e rappresentare la volontà di un soggetto incapace, bensì esercitano la potestà genitoriale in base ad una propria valutazione circa l'utilità e la convenienza per il minore dell'atto da compiere. Detta limitazione, inoltre, risulterebbe priva di ragionevolezza anche sotto il profilo della non "definitività ", essendo comunque la decadenza suscettibile, in ogni tempo, di revoca.

3.5. La cessazione della convivenza.

Nell'ambito di un giudizio per l'affidamento ed il mantenimento del figlio naturale, Sez. 1, n. 7905 (Rv. 622604), a fronte della pronunzia del giudice di merito che aveva dichiarato l'azione inammissibile, sul rilievo della convivenza tra i genitori ancora in atto al momento della proposizione del ricorso, afferma che la cessazione della convivenza fra i genitori naturali non è presupposto processuale, trattandosi invece di una condizione dell'azione. Essa, infatti, non incide sulla esistenza o validità del rapporto giuridico processuale (come si verifica, ad esempio, in mancanza o nullità della domanda giudiziale, oppure nell'ipotesi in cui la domanda sia rivolta a giudice incompetente), ma incide sul diritto ad ottenere una sentenza favorevole. Essendo, quindi, «una condizione dell'azione (condizione della sentenza positiva di accoglimento), è necessario che sussista non nel momento in cui viene introdotto il giudizio, ma nel momento in cui la lite viene decisa. Pertanto detta condizione può venire ad esistenza, senza alcun pregiudizio per l'attore, anche in corso di causa ».

3.6. I procedimenti di separazione e divorzio.

Con ordinanza interlocutoria n. 9846, la Prima Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando l'esistenza di un contrasto in seno alle sezioni semplici circa la questione della esecutività immediata, o no, dei decreti di modifica delle condizioni di divorzio. Un primo orientamento, espresso da Sez. 1, n. 9373 del 2011 (Rv. 617868), ritiene, infatti, che rimangano estranei alla disciplina dell'art. 4, comma 11 (ora 14) della legge n. 898 del 1970 i procedimenti di modifica del regime di divorzio di cui all'art. 9 della legge richiamata e di modifica delle condizioni di separazione di cui all'art. 710 cod. proc. civ., ai quali, pertanto, non si applicherebbe la previsione di esecutorietà delle sentenze di primo grado, in quanto disciplinati dal rito camerale di cui agli art. 737 e segg. cod. proc. civ., rito richiamato espressamente dagli art. 9 e 710 citati, con la conseguenza che, ai fini della esecutività, sarebbe necessario o lo spirare del termine per proporre reclamo, ovvero, se vi sono ragioni d'urgenza, l'ordine del giudice, atteso il disposto dell'art. 741 cod. proc. civ.

L'art. 4 della legge n. 898 del 1970, per il quale la sentenza di primo grado per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica è provvisoriamente esecutiva (previsione anteriore alla generalizzata esecutorietà delle sentenze di primo grado, introdotta dalla legge n. 353 del 1990), troverebbe, quindi, applicazione esclusivamente nei confronti dei procedimenti per la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Diverso percorso ermeneutico esprime la più recente sentenza Sez. 3, n. 4376 (Rv. 621722), sostenendo che «il provvedimento che modifica le condizioni di separazione tra i coniugi, pronunciato ai sensi dell'art. 710 cod. proc. civ., è immediatamente esecutivo, in quanto ad esso non si applica il differimento dell'efficacia esecutiva previsto in via generale dall'art. 741 cod. proc. civ. per gli altri provvedimenti camerali » ed osservando che il richiamo dell'art. 710 cod. proc. civ. alle norme del procedimento camerale è effettuato in modo selettivo, senza implicare quindi un richiamo integrale della disciplina di tale ultimo procedimento. La questione rimessa evidenzia la necessità di coordinamento sistematico con la generale previsione di esecutorietà posta dall'art. 282 cod. proc. civ. e di coerenza interna dei procedimenti speciali in materia di separazione e divorzio, trattandosi di posizioni soggettive direttamente o indirettamente riconducibili a diritti fondamentali della persona, i quali non possono rimanere ineseguiti per un tempo troppo lungo senza che il loro titolare subisca pregiudizi irreversibili.

In applicazione del principio della libertà delle forme propria del rito camerale, Sez. 1, n. 5876 (Rv. 622135) afferma che «nel rito camerale previsto dall'art. 4, comma 12, della legge 1 dicembre 1970 n.898, l'allegazione di documenti può eseguirsi anche oltre i termini fissati a tal fine, ma a condizione che sia rispettato il diritto dell'altra parte a interloquire sulla loro tardiva produzione »; così come, con riferimento al reclamo, avverso i provvedimenti di modifica delle condizioni del divorzio resi ai sensi dell'art. 9, primo comma, della legge n. 898 del 1970, la Sez. 1, n. 3924 (Rv.621505) ritiene possano essere allegati fatti nuovi.

Ancora con riferimento ai giudizi di separazione o di divorzio dei genitori, Sez. 1, n. 4296 (Rv. 622073) ammette l'intervento del figlio maggiorenne per far valere un diritto relativo all'oggetto della controversia (nella specie rimborso per quanto versato dal genitore convivente per il mantenimento) o eventualmente in via adesiva, trattandosi di posizioni giuridiche meritevoli di tutela ed intimamente connesse, che comportano la legittimazione ad agire.

Infine, la Sez. 1, n. 3378 (Rv.621571), ripresa successivamente da Sez. 1, n. 12989 (Rv. 623519), ribadisce il principio già affermato dalla Sez. 1, n. 4795 del 2005 (Rv. 584023-4), per il quale «la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio concordatario, investendo il matrimonio e non l'atto con il quale è stato costituito il vincolo tra i coniugi » ed aggiunge che «il riconoscimento degli effetti civili della sentenza di nullità del matrimonio concordatario pronunciata dai tribunali ecclesiastici non è precluso dalla preventiva instaurazione di un giudizio di separazione personale tra gli stessi coniugi dinanzi al giudice dello Stato italiano ».

4. La validità delle direttive anticipate di trattamento sanitario.

Con pronunzia Sez. 1, n. 23707 (in corso di massimazione), la Corte di legittimità, decidendo su una controversia insorta in seguito ad una istanza di nomina di amministratore di sostegno da parte di soggetto nel pieno delle facoltà fisiche e psichiche in previsione di una propria futura ed eventuale incapacità, conferma l'assunto dei giudici di merito circa la necessità dell'attualità dello stato d'incapacità del designante per consentire l'attivazione della procedura e l'ingresso dell'istituto.

Tuttavia, pur premettendo l'estraneità al thema decidendum, ha per la prima volta affrontato la questione della natura e degli effetti delle direttive anticipate di trattamento sanitario, in quanto il ricorrente, in una scrittura privata allegata all'istanza, aveva indicato i trattamenti terapeutici, ai quali escludeva di voler essere sottoposto in futuro, quali la rianimazione cardiopolmonare, la dialisi, la trasfusione, la terapia antibiotica, la ventilazione o alimentazione forzata artificiale in caso di malattia allo stato terminale o lesione cerebrale irreversibile e invalidante, mentre in tale evenienza chiedeva assumersi cure dirette ad alleviare il dolore, compreso l'uso di oppiacei, anche se comportanti l'anticipo del fine vita.

Il Collegio ha, quindi, rilevato come «il nostro legislatore diversamente da quello di altri Stati europei – Francia, Germania, Austria e Spagna – non è ancora intervenuto » ed ha chiarito che «l'intervento dell'amministratore di sostegno designato, pur con i limiti operanti in materia di diritti personalissimi, è vincolato alle indicazioni manifestate nella condizione di capacità dal soggetto » ed «ha il potere ed il dovere di esternarle, senza che si ponga la necessità di ricostruire la volontà attraverso atti e/o fatti compiuti in stato di capacità ». La Corte argomenta tale esito interpretativo, facendo un sintetico giro d'orizzonte «sul coacervo delle fonti giuridiche interne e sovranazionali » in materia e richiamando, in particolare, l'art. 408 cod. civ., il quale prevede che la scelta dell'amministratore di sostegno avvenga con «esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona » ed il successivo art. 410 cod. civ., che impone al predetto di agire tenendo conto dei bisogni e delle «aspirazioni » del beneficiario, a maggior ragione se questi le abbia già dichiarate con l'atto di designazione proprio in previsione della sua futura incapacità. L'atto di designazione, quindi, chiosa il Supremo Collegio «1. - vincolerà l'amministratore di sostegno, seppur i suoi poteri non sono prestabiliti ma sono fissati dal giudice tutelare nell'esercizio del suo potere decisionale, nel perseguire la finalità della "cura " necessaria a garantire la protezione del beneficiario e nell'attuarne le "aspirazioni ", laddove ne venga in rilievo il diritto alla salute, prestando il consenso o il dissenso informato agli atti di cura che impongono trattamenti sanitari; 2.- orienterà l'intervento del sanitario; 3.- ne imporrà la delibazione da parte del giudice nell'esercizio dei suoi poteri, segnatamente nell'attribuzione di quelli da affidare all'amministratore di sostegno, ovvero in sede d'autorizzazione agli interventi che incidono sulla salvaguardia della salute del beneficiato in caso di sua incapacità ».

  • eredità
  • diritto successorio
  • donazione

CAPITOLO III

SUCCESSIONI E DONAZIONE

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Delazione ed acquisto dell'eredità. - 2 Forma e contenuto dei testamenti. - 3 Diseredazione. - 4 Il pagamento dei debiti ereditari. - 5 Successione necessaria. - 6 Il diritto di abitazione del coniuge superstite. - 7 Petizione d'eredità. - 8 Donazione e spirito di liberalità.

1. Delazione ed acquisto dell'eredità.

In tema di successioni mortis causa, la sentenza Sez. 2, n. 4849 (Rv. 621765) ha riaffermato che il termine fissato dal giudice, ai sensi dell'art. 481 cod. civ., entro il quale il chiamato deve dichiarare la propria eventuale accettazione dell'eredità, seppur con inventario, è un termine di decadenza, in quanto volto a far cessare lo stato di incertezza che caratterizza la delazione fino al momento dell'accettazione. Da tale natura discende, pertanto, che il decorso del termine, in assenza della dichiarazione, comporta la perdita del diritto di accettare, senza che possa darsi alcuna utile proroga di esso, né rilevi in senso contrario la possibile dilazione, consentita dall'art. 488, secondo comma, cod. civ. unicamente per la redazione dell'inventario.

La sentenza Sez. 3, n. 6070 (Rv. 622276) evidenzia come la rinunzia all'eredità non faccia venir meno la delazione del chiamato, stante quanto prescrive l'art. 525 cod. civ., e non è, pertanto, ostativa alla successiva accettazione, la quale può pure intervenire tacitamente, allorquando il rinunciante mantenga un comportamento incompatibile con la volontà di non accettare la vocazione ereditaria (nella specie, ravvisato nella costituzione in giudizio operata dall'interessato, allegando la sua qualità di erede e riportandosi alle difese già svolte dal de cuius).

La quota del coerede rinunziante, a norma degli art. 522 e 676 cod. civ., si accresce ipso iure in favore di coloro che avrebbero con lui concorso, e, come precisa Sez. 2, n. 8021 (Rv. 622425-26), a tale effetto non è necessaria una specifica accettazione dei subentranti, poiché l'acquisto per accrescimento è mera conseguenza dell'espansione dell'originario diritto all'eredità, già sussistente in capo ai subentranti, sicché poi, una volta determinatosi tale acquisto, la rinunzia all'eredità diviene irrevocabile. Aggiunge, inoltre, la medesima decisione che i fatti costitutivi del diritto di accrescimento prescindono dall'esistenza di un altrui diritto di rappresentazione, che, a sua volta, stando all'art. 522 cod. civ., si configura quale mero fatto impeditivo, rilevante in forma di eccezione, di per sé non rilevabile d'ufficio dal giudice, in quanto rientrante nella disponibilità della parte. Questo perché il sistema successorio dispiega in ogni caso il proprio assetto, consolidando l'intero compendio ereditario o in capo ai beneficiari dell'accrescimento o in capo a chi succede per rappresentazione.

Viene dalla sentenza Sez. 2, n. 5508 (Rv. 621786) confermata la tassatività dell'indicazione dei soggetti, in favore dei quali ha luogo la successione per rappresentazione, quale prevista dagli art. 467 e 468 cod. civ.: trattandosi di scelta operata discrezionalmente dal legislatore, non può, perciò, darsi rappresentazione quando la persona, cui si intenda subentrare, non sia un discendente, un fratello o una sorella del defunto, ma il coniuge di questi.

Inoltre, la Sez. 2, n. 16426 (Rv. 623892), chiarisce come l'art. 480 cod. civ. pone un'eccezione alla regola, che si desume dal combinato disposto dell'art. 2935 cod. civ., in relazione alla decorrenza della prescrizione, e dell'art. 523 cod. civ., circa l'ordine della devoluzione, nel senso che, sebbene per i chiamati ulteriori la delazione non sia coeva all'apertura della successione, ma si attui in linea eventuale e successiva solo se, ed in quanto, i primi chiamati non vogliano o non possano accettare l'eredità, la prescrizione decorre anche per i chiamati ulteriori sin dal momento dell'apertura della successione, salva l'ipotesi in cui vi sia stata accettazione da parte dei precedenti chiamati e il loro acquisto ereditario sia venuto meno. Tale eccezione trova spiegazione alla luce dell'art. 481 cod. civ., che attribuisce a chiunque vi abbia interesse, e dunque prioritariamente ai chiamati ulteriori, l'actio interrogatoria, mediante la quale è possibile chiedere al giudice di fissare un termine, necessariamente anteriore alla scadenza di quello di prescrizione, ex art. 480 cod. civ., entro cui il chiamato manifesti la propria intenzione di accettare l'eredità o di rinunciarvi.

Nello stesso senso, Sez. 2, n. 5152 (Rv. 621737) ravvisa in capo al chiamato all'eredità, che sia nel possesso dei beni ereditari, l'onere di redigere l'inventario entro il termine di tre mesi dal giorno dell'apertura della successione, anche se sia di grado successivo rispetto ad altri chiamati. Quando, invero, l'eredità si devolve per legge, si realizza una delazione simultanea in favore di tutti i chiamati, indipendentemente dall'ordine di designazione alla successione (come si argomenta dall'art. 480, comma terzo, e dall'art. 479 cod. civ., che, con riferimento al decorso del termine per l'accettazione dell'eredità e alla trasmissione del diritto di accettazione, non distinguono tra i primi chiamati ed i chiamati ulteriori, conseguendone, per tutti, contestualmente, la nascita di facoltà ed oneri e, quindi, l'integrazione dell'ambito applicativo della fattispecie astratta di cui all'art. 485 cod. civ.). A diversa conclusione nemmeno induce la previsione della notizia della devoluta eredità come fattispecie alternativa all'apertura della successione ai fini della decorrenza del termine per la redazione dell'inventario, in quanto l'espressione "devoluzione " va intesa come sinonimo di "delazione ", ed il chiamato nella disponibilità dei beni ereditari è a conoscenza sia dell'apertura della successione, sia della circostanza che i beni sui quali esercita la signoria di fatto sono proprio quelli caduti in successione.

2. Forma e contenuto dei testamenti.

Perché una scrittura privata possa configurarsi come testamento olografo, afferma Sez. 2, n. 8490 (Rv. 622453), non basta il riscontro dei requisiti di forma individuati dall'art. 602 cod. civ., occorrendo, piuttosto, l'accertamento dell'oggettiva riconoscibilità nel documento della volontà attuale del suo autore di compiere non soltanto un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Questo accertamento, che costituisce, poi, un prius logico rispetto alla stessa interpretazione della volontà testamentaria, è compito esclusivo del giudice del merito, sicché, se congruamente e logicamente motivato, rimane incensurabile in sede di legittimità. Nel caso deciso dalla sentenza n. 8490, la S.C. ha così cassato la sentenza di merito, la quale aveva ravvisato la sussistenza di un testamento olografo in un documento recante soltanto la dichiarazione ricognitiva dell'autore che tutti i beni a lui intestati fossero esclusivamente di proprietà della moglie, da ciò traendo l'intento del de cuius di disporre in tal modo delle sue sostanze per il tempo in cui avesse cessato di vivere.

A proposito del divieto posto dall'art. 589 cod. civ., la sentenza Sez. 2, n. 5508 (Rv. 621787) specifica che esso sanziona di nullità l'ipotesi di un testamento unitario contenente due o più sottoscrizioni, in violazione dei requisiti formali di cui all'art. 602 cod. civ., norma che rende palese il presupposto irrinunciabile di un'attività di redazione e sottoscrizione delle disposizioni da parte di un unico soggetto. Da questo si fa discendere che la nullità in esame non possa estendersi all'ipotesi di due testamenti redatti con separati atti dai testatori, poiché, ove si è in presenza di schede testamentarie formalmente distinte, non ricorre la presunzione assoluta di mancanza di una libera estrinsecazione della volontà dei testatori, tipica del testamento congiuntivo.

Il medesimo principio dell'autografia, che è alla base dell'art. 602 cod. civ., non impedisce tuttavia che, nell'ambito dello stesso documento, siano enucleabili, da un lato, un testamento pienamente rispondente ai requisiti di legge e, dall'altro, scritti provenienti da una mano sicuramente diversa, apposti semmai dopo la sottoscrizione da parte del testatore e, perciò, collocati in una parte diversa del documento; questa aggiunte, di per sé, non possono invalidare per intero la scheda testamentaria redatta dal testatore. Esplicitando questo principio, Sez. 2, n. 1239 (Rv. 621167) ha cassato la sentenza di merito che, in presenza di una scheda testamentaria composta di due parti distinte, l'una contenente l'istituzione di erede, siglata dal testatore con firma autografa, e l'altra contenente un codicillo nel quale era evidente che la mano del testatore era stata guidata da un terzo, aveva dichiarato la nullità dell'intero testamento.

Ove si diano più testamenti successivi, il posteriore, che non revochi in modo espresso il precedente, annulla soltanto le disposizioni di quest'ultimo che siano incompatibili, in applicazione del generale principio di conservazione delle disposizioni di ultima volontà. La caducazione del testamento più antico resta, pertanto, circoscritta in base al riscontro, portato caso per caso, della sicura incompatibilità con il successivo, potendosi, invece, ravvisare una revoca implicita dell'intero negozio precedente allorché non sia configurabile la sua sopravvivenza a seguito delle mutilazioni derivanti dalla suddetta incompatibilità; questo è quanto spiega Sez. 2, n. 4617 (Rv. 622024).

La sentenza Sez. 2, n. 8366 (Rv. 622460) riconosce l'annullabilità, su istanza di chiunque vi abbia interesse, ai sensi dell'art. 606, secondo comma, cod. civ., del testamento pubblico privo del requisito formale dell'ora della sottoscrizione, espressamente previsto dall'art. 603, terzo comma, cod. civ. Non potrebbe, invero, valutarsi come irrilevante, ai fini della validità dell'atto, visto dall'ordinamento quale negozio solenne, la mancanza di uno o più degli elementi costitutivi prescritti dalla legge, ritenendo la relativa carenza non incidente sull'effettiva volontà del testatore, in quanto ciò equivarrebbe a sovrapporre un arbitrario criterio sostanzialistico al rigoroso dato normativo. È questo il ragionamento che ha indotto la S.C. a cassare la sentenza di merito, la quale aveva negato che l'omessa indicazione dell'ora della sottoscrizione di un testamento pubblico ne comportasse l'invalidità, considerando che tale vizio non influiva sulla capacità del testatore, né faceva in alcun modo dubitare della volontà di disposizione patrimoniale espressa da quest'ultimo.

Si è poi ribadito (Sez. 2, n. 8366, Rv. 622459) che la domanda giudiziale con cui la parte intenda far accertare la nullità di un testamento pubblico (nella specie, sempre per la mancata indicazione dell'ora della sottoscrizione) si pone, rispetto ad un'ipotetica domanda di annullamento di quel medesimo atto dipendente da un'invalidità meno grave, nei termini di maggiore a minore: questo consente al giudice, in luogo della richiesta declaratoria di radicale nullità del testamento, di poterne comunque pronunciare l'annullamento, ai sensi dell'art, 606, secondo comma, cod. civ., ove il medesimo risulti fondato su quegli stessi fatti. Alcun rilievo spiegherebbe, al riguardo, il principio di conservazione delle ultime volontà del defunto, non ponendo il caso in discussione una questione di interpretazione del testamento, bensì una questione di qualificazione della domanda di nullità dello stesso.

La sentenza Sez. 2, n. 11195 (Rv. 623129) ha chiarito come l'art. 590 cod. civ., nel prevedere la possibilità di conferma od esecuzione di una disposizione testamentaria nulla da parte degli eredi, presupponga comunque, per la sua concreta operatività, l'oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria, che sia comunque frutto della volontà del de cuius. Non può dunque ravvisarsi una conferma, rilevante ai fini dell'art. 590 cod. civ., in ipotesi di accertata sottoscrizione apocrifa del testamento, la quale esclude in radice la riconducibilità di esso al testatore.

La Sez. 2, n. 9466 (Rv. 622646) specifica, invece, che il termine di prescrizione di cinque anni, stabilito dall'art. 606, secondo comma, cod. civ., al fine di impugnare il testamento olografo per difetti di forma diversi dalla mancanza di autografia o di sottoscrizione, decorre dal giorno in cui è stata data, anche da uno soltanto dei chiamati all'eredità, esecuzione alle disposizioni testamentarie; al riguardo, non è necessario che siano eseguite tutte le disposizioni del testatore, poiché altrimenti la situazione giuridica inerente allo status dei chiamati all'eredità e alla qualità stessa di eredi rimarrebbe indefinitamente incerta, conseguenza che legge evidentemente evita, assoggettando l'azione di annullamento, su istanza di chiunque vi abbia interesse, al breve termine quinquennale dall'esecuzione anche parziale dell'atto di ultima volontà.

3. Diseredazione.

L'importante sentenza della Sez. 2, n. 8352 (Rv. 622452) ha riconosciuto la validità della clausola testamentaria di diseredazione, con la quale il testatore manifesti la volontà di escludere dalla propria successione legittima alcuni dei successibili, in maniera, così, da restringerla ai non diseredati. Una tale clausola, ad avviso della citata pronuncia, è, infatti, espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, comunque rientrante nel contenuto tipico dell'atto di ultima volontà: sicché, per diseredare, non è affatto necessario procedere ad una positiva attribuzione di bene, né occorre prova di un'implicita istituzione.

Nella fattispecie decisa, era accaduto che la de cuius avesse disposto in vita con un testamento del seguente contenuto: «Io sottoscritta (…) scrivo le mie volontà sana di mente. Escluso da ogni mio avere i miei cugini (…) fu (…) - (…) fu (…) - (…) fu (…). Nella tomba con i miei altrimenti compramene una ». Uno degli esclusi aveva allora convenuto in giudizio gli eredi indicati per sentir dichiarare la nullità della clausola di diseredazione contenuta nel testamento. L'adito tribunale respingeva la domanda, mentre la corte d'appello riconosceva al diseredato il diritto alla devoluzione dell'eredità per la sua quota di legge.

La Corte di cassazione, nella sentenza n. 8352, ha così deciso di dissentire dai propri precedenti, rivenendovi un'insanabile contraddizione, lì dove, da un lato, si sosteneva l'invalidità di una clausola testamentaria meramente negativa, ove la stessa non risultasse accompagnata ad altre che contenesse disposizioni attributive, e, dall'altro, se ne riconosceva la validità, purché fosse da essa ricavabile, seppur in maniera indiretta ed implicita, un'inequivocabile volontà del testatore che, oltre a diseredare un determinato successibile, fosse volta ad assegnare le proprie sostanze ad un determinato altro.

L'argomentare della Suprema Corte nella pronuncia del 2012 poggia su una lettura degli art. 587 e 588 cod. civ. diversa da quella che era posta a fondamento del tradizionale orientamento ostativo all'ammissibilità ordinamentale di una clausola testamentaria di contenuto esclusivamente negativo.

Così, il primo comma dell'art. 587 cod. civ., dicotomicamente strutturato rispetto al secondo comma della stessa norma, riconoscendo al testamento la funzione di consentire al suo autore di disporre di tutte le proprie sostanze, o di parte di esse, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, assevera, come avverte Sez. 2, n. 8352, la natura essenzialmente patrimoniale dell'atto di ultima volontà, senza, però, con ciò imporre una veste necessariamente attributiva. Dall'art. 457 cod. civ., si ricava, invero, che il fenomeno devolutivo dei beni cadenti nella successione mortis causa e la correlata individuazione degli eredi e dei legatari possano contemporaneamente trovare il loro regolamento sia nella legge che nel testamento: sicché, all'assenza di un contenuto strettamente attributivo del negozio di ultima volontà supplisce, comunque, il meccanismo della vocazione legale.

I precedenti ora disattesi avevano ammesso la validità di una volontà di diseredazione soltanto ove in essa fosse ravvisabile o una disposizione principale attributiva, esplicitamente o implicitamente presupposta, della quale la volontà del testatore risultasse modalità esecutiva (Sez. 2, n. 1458 del 1967, Rv. 328126), o un'implicita istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati, da provarsi in concreto (Sez. 2, n. 6339 del 1982, Rv. 423976; Sez. 2, n. 5895 del 1994, Rv. 487118).

Osserva, però, ora Sez. 2, n. 8352 come, se si riconosce al testatore di poter decidere di tutti i suoi beni, escludendo, in tutto o in parte, i successori legittimi, non si vede per quale ragione egli non possa, con un'espressa e apposita dichiarazione, limitarsi ad escludere un successibile ex lege mediante una disposizione negativa delle proprie sostanze beni. Ancor più nettamente, la sentenza chiarisce: «per diseredare non è quindi necessario procedere ad una positiva attribuzione di beni, né – sulla scorta dell'espediente che escludere è istituire – alla prova di un'implicita istituzione ». La clausola di diseredazione, in quanto espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, rientra a pieno titolo nel contenuto tipico del testamento: tramite essa, il de cuius, restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta assegnazione post mortem dei suoi beni. Il "disporre " cui si riferisce l'art. 587, primo comma, cod. civ. comprende, quindi, non soltanto una volontà attributiva e una volontà istitutiva, ma anche una volontà ablativa o, più esattamente, destitutiva. Ogni volontà successoria, seppure non squisitamente attributiva, appare tutelabile se non contrasti con il limite dell'ordine pubblico, rimanga nell'ambito della liceità e della meritevolezza di tutela, e rispetti i diritti dei legittimari.

Aggiunge, per chiudere, Sez. 2, n. 8352 che la validità della clausola testamentaria, con la quale il testatore manifesti la propria volontà di escludere dalla propria successione alcuni dei successibili, può essere ulteriormente desunta dall'ampio riconoscimento ordinamentale, altrimenti accordato nel diritto successorio a diverse disposizioni di contenuto negativo, facendosi gli esempi dell'esclusione del legittimario dalla quota disponibile (si pensi al legato in sostituzione, di cui all'art. 551 cod. civ.), oppure delle sostituzioni ordinarie o dei limiti alla rappresentazione nelle ipotesi di delazione successiva.

Ciò segna, in definitiva, l'abbandono di quella soluzione giurisprudenziale (approvata da parte della dottrina, e da altri, però, ritenuta ibrida ed inappagante), per la quale la validità della disposizione di diseredazione passerebbe necessariamente per la ricostruzione di una siffatta volontà negativa come implicita istituzione dei successibili ex lege non esclusi: soluzione di comodo, ricondotta al teorema d'oltralpe exclure est instituer nella più compiuta elaborazione scientifica dell'istituto in esame. Al testatore deve consentirsi di disporre delle proprie sostanze non soltanto determinandone positivamente la destinazione, ma anche rifiutando la destinazione che esse avrebbero in favore di uno o più soggetti individuati ex lege: il testamento può, quindi, fungere da strumento modificativo della successione legale, con l'unico limite dell'intangibilità delle quote di legittima.

Rimane, invero, rimesso al legislatore il compito di dare eventualmente ascolto a quanti in dottrina auspicano una riforma della successione necessaria, in grado di scalfire la rigidità della tutela dei legittimari prevista dal nostro ordinamento, semmai prevedendo una generale facoltà di diseredazione del riservatario che abbia violato quei doveri di solidarietà familiare nei confronti del de cuius, valori sui quali fonda la ragione stessa della tutela dei legittimari.

Con la sentenza Sez. 2, n. 8352, si perviene, nel frattempo, ad un più meditato giudizio di validità della clausola di diseredazione, basato sull'assunto che essa manifesti una volontà destitutiva del testatore, ammessa dall'art. 587, primo comma, cod. civ., e rientrante nel contenuto tipico dell'atto di ultima volontà. Mediante la diseredazione, il testatore predispone un certo regolamento dei suoi rapporti patrimoniali per quando avrà cessato di vivere, manifestando un'intenzione contraria alla devoluzione in favore di una determinata persona, e così beneficiando, sia pur soltanto di fatto, i restanti eredi non esclusi. Anche, dunque, la disposizione meramente diseredativa concreta un atto di esercizio dell'autonomia negoziale in ragione dell'evento morte, ovvero una fonte di selezione e di individuazione dei destinatari della vocazione ereditaria. La tipicità dello schema strutturale del testamento non può implicare la necessaria conformità ad un modello legale dei regolamenti di interessi in concreto realizzabili per suo tramite. Perciò, la clausola di diseredazione partecipa della causa caratterizzante il negozio testamentario, che è quella di manifestare la volontà del suo autore di dare un certo assetto ai propri beni, destinati ad altri per effetto della sua morte: in questa prospettiva, la diseredazione è "funzionalmente tipica " e può validamente derogare alla disciplina della successione legale.

4. Il pagamento dei debiti ereditari.

La sentenza Sez. 2, n. 14666 (Rv. 623674), ha affermato che il pagamento transattivo del debito del de cuius ad opera del chiamato all'eredità, a differenza di un mero adempimento dallo stesso eseguito con denaro proprio, configura un'accettazione tacita dell'eredità, non potendosi transigere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede.

Dal suo canto, la sentenza Sez. 2, n. 14629 (Rv. 623676), ha tracciato i distinti ambiti applicativi degli art. 752 e 754 cod. civ.: la prima norma è destinata a regolare la ripartizione dei debiti ereditari tra gli eredi, ovvero i rapporti tra coeredi, mentre la seconda disciplina il pagamento di tali debiti da parte dei coeredi. Non rientra, in ogni caso, tra i creditori del de cuius il coerede che vanti un credito nei confronti dello stesso; né a tale credito consegue un diritto al prelevamento, ai sensi dell'art. 725 cod. civ., riguardando piuttosto, quest'ultima norma, in combinato con l'art. 724, secondo comma, cod. civ., la definizione dei rapporti obbligatori tra coeredi in dipendenza della situazione di comunione. Nondimeno, il credito del coerede verso il de cuius, e quindi verso la massa, potrà essere fatto valere, per ragioni di economia processuale, nello stesso giudizio di scioglimento della comunione ereditaria mediante imputazione alle quote degli altri coeredi, trattandosi di rapporto obbligatorio avente comunque la sua collocazione e la sua tutela nell'ambito della vicenda successoria, la quale ha dato luogo alla comunione ereditaria.

La sentenza Sez. 3, n. 14821 (Rv. 623669) ricorda che l'erede, che abbia accettato con beneficio d'inventario, quale successore nel debito ereditario, può essere comunque condannato al pagamento dell'intero, sebbene, in concreto, la sua responsabilità resti limitata intra vires hereditatis purché egli faccia valere il beneficio con apposita eccezione. Così, in caso di esecuzione forzata avviata da un creditore dell'eredità, l'erede beneficiato non ha neppure interesse ad opporre che il bene pignorato sia estraneo all'asse, per averne il de cuius disposto in vita.

La vendita di un bene ereditario, ai sensi dell'art. 747 cod. proc. civ., ed il reinvestimento del denaro così ricavato, non rendono, peraltro, il bene stesso impignorabile da parte dei creditori del de cuius, i quali ben potranno, pertanto, sottoporlo ad esecuzione e rivalersi sul ricavato, nei limiti del valore del bene, ove l'erede, che abbia accettato con beneficio d'inventario, proponendo la relativa eccezione, faccia valere il medesimo beneficio (Sez. 3, n. 13206, Rv. 623608).

Ove gli eredi del debitore defunto, ingiunti in via monitoria di pagare il debito ereditario, eccepiscano, con l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, l'incompetenza per territorio del giudice adito, per essere competente il giudice del luogo dell'aperta successione, spetta a loro di provare le circostanze alle quali detta competenza è subordinata e, quindi, anche l'avvenuta proposizione della domanda del creditore prima della divisione dell'eredità (così Sez. 6-2, n. 14594, Rv. 623563).

5. Successione necessaria.

La sentenza Sez. 2, n. 12919 (Rv. 623475), in tema di successione necessaria, precisa che, per accertare la lesione di legittima, va dapprima determinato il valore della massa ereditaria e quello, quindi, della quota disponibile e della quota di legittima, che dell'eredità costituiscono una frazione. A tal fine, occorre procedere, anzitutto, alla formazione del compendio dei beni relitti ed alla determinazione del loro valore al momento dell'apertura della successione; quindi, alla detrazione dal relictum dei debiti, da valutare con riferimento alla stessa data; e, ancora, alla riunione fittizia, cioè meramente contabile, tra attivo netto e donatum, costituito dai beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, da stimare, in relazione ai beni immobili ed ai beni mobili, secondo il loro valore al momento dell'apertura della successione, ed invece con riferimento al valore nominale quanto alle donazioni in denaro. Devono calcolarsi, quindi, la quota disponibile e la quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma tra il valore del relictum al netto ed il valore del donatum, ed imputarsi, infine, le liberalità fatte al legittimario, con conseguente diminuzione, in concreto, della quota ad esso spettante.

L'esecuzione volontaria delle disposizioni testamentarie lesive della legittima non preclude al legittimario l'azione di riduzione, salvo che egli non abbia manifestato un'inequivoca volontà di rinunciare a far valere la lesione. È quanto afferma la Corte con la decisione Sez. 2, n. 8001 (Rv. 622404). Nella specie, la volontà del legittimario di rinunciare a far valere il suo diritto alla reintegrazione della quota di eredità riservatogli per legge è stata ricavata dall'adesione prestata dallo stesso ad un accordo transattivo intercorso fra le parti del procedimento di divisione giudiziale del bene in contesa.

In tema di c.d. cautela sociniana, Sez. 2, n. 3894 (Rv. 621774) ha riconosciuto che la proposizione da parte del legittimario, al quale il de cuius abbia assegnato l'usufrutto sulla disponibile, della domanda di divisione con attribuzione della quota di legittima in piena proprietà, può costituire esercizio della scelta di cui all'art. 550, primo comma, cod. civ., purché anteriormente alla proposizione di tale domanda, l'attore non abbia manifestato la volontà di dare esecuzione alla disposizione testamentaria lesiva della legittima.

6. Il diritto di abitazione del coniuge superstite.

Quanto al diritto di abitazione, che la legge riserva al coniuge superstite, la sentenza Sez. 2, n. 4088 (Rv. 622040) ripete che esso può avere ad oggetto soltanto l'immobile concretamente utilizzato prima della morte del de cuius come residenza familiare, e giammai estendersi ad un ulteriore e diverso appartamento, autonomo rispetto alla sede della vita domestica e non utilizzato per le esigenze abitative della comunità familiare, ancorché ricompreso nello stesso fabbricato della casa coniugale.

Con la decisione Sez. 2, n. 6625 (Rv. 622398) la Corte conferma, inoltre, che il diritto di abitazione spettante al coniuge superstite si configura come un legato ex lege, che viene acquisito immediatamente dal beneficiario, al momento dell'apertura della successione. Perciò, non può porsi un conflitto, da risolvere in base alle norme sugli effetti della trascrizione, tra il diritto di abitazione del coniuge legatario ed i diritti spettanti agli aventi causa dall'erede. Dunque, va esclusa la necessità della trascrizione del diritto di abitazione ex art. 540 cod. civ., ai fini della sua opponibilità, anche a chi si renda aggiudicatario in sede di asta fallimentare di una quota di comproprietà dell'immobile appartenente ad un coerede. Nel caso deciso da Sez. 2, n. 6625, in particolare, due fratelli avevano citato dinanzi al tribunale la loro madre ed un ulteriore comproprietario (resosi, appunto, aggiudicatario in sede di asta fallimentare di una quota di comproprietà appartenente ad un altro fratello degli attori), per conseguire lo scioglimento della comunione immobiliare esistente tra gli stessi ed avente ad oggetto un appartamento. La convenuta aveva chiesto, tuttavia, accertarsi il proprio diritto di abitazione sul bene ex art. 540 cod. civ., nonché l'attribuzione dell'immobile in suo favore con addebito del conguaglio. In conformità alle richieste del coniuge superstite decidevano sia il tribunale che la corte d'appello, investita del gravame proposto dall'aggiudicatario della quota. La S.C. ha, infine, confermato la sentenza di merito, la quale aveva escluso la necessità della trascrizione del diritto di abitazione ex art. 540 cod. civ. ai fini della sua opponibilità al ricorrente, il quale, come detto, si era aggiudicato all'esito di una vendita fallimentare una quota pari a un sesto dell'appartamento, già di proprietà di altro fratello degli attori. La natura di legato ex lege, diffusamente riconosciuta alla vocazione a titolo particolare, consistente nella riserva del diritto di abitazione in favore del coniuge superstite, induce, com'è noto, ad escludere la trascrivibilità del medesimo diritto. Del resto, l'art. 2648, quarto comma, cod. civ, prevede che la trascrizione dell'acquisto del legato si opera sulla base di un estratto autentico del testamento, titolo che manca del tutto nella fattispecie in esame (al punto che da alcuni si propone, in nome del principio della continuità della trascrizione, di trascrivere comunque la sentenza di accertamento del diritto ex art. 540, secondo comma, cod. civ., del coniuge, o addirittura il certificato della denuncia di successione, o lo stesso certificato di morte). Né all'onere pubblicitario può dirsi tenuto il notaio, ai sensi dell'art. 2671 cod. civ., non essendo il diritto di abitazione del coniuge contenuto in un atto ricevuto o autenticato dal pubblico ufficiale. Al problema della trascrivibilità è, ovviamente, connesso quello dell'opponibilità del diritto di abitazione del coniuge superstite al terzo acquirente dall'erede nudo proprietario, profilo direttamente affrontato da Sez. 2, n. 6625.

Con ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 6774, è stata, peraltro rimessa alle Sezioni Unite la soluzione di una questione di massima di particolare importanza, oggetto di contrasto nella giurisprudenza della S.C., nonché di ampio dibattito dottrinale, consistente nel verificare se, pure in caso di successione legittima, spettino in favore del coniuge superstite i diritti di abitazione e di uso e, nell'ipotesi affermativa, se tali diritti debbano o meno aggiungersi alla quota intestata prevista dagli art. 581 e 582 cod. civ. Il problema nasce dal confronto fra l'art 540 cod. civ., secondo comma (il quale, con riferimento alla successione necessaria, contempla espressamente in favore del coniuge superstite «i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni ») e gli art. 581 e 582 cod. civ. (i quali, regolando, nell'ambito della successione legittima, il concorso del coniuge con i figli, ovvero con ascendenti, fratelli e sorelle del de cuius, non ricorrono ad analoga disposizione). Invero, unicamente l'art. 584 cod. civ., comma primo, per la successione ab intestato del coniuge putativo, rinvia non solo agli art. 581 e segg. cod. civ., ma dichiara altresì applicabile la disposizione dell'art. 540 cod. civ., secondo comma.

7. Petizione d'eredità.

La sentenza della Sez. 2, n. 14917 (Rv. 623803) ha stabilito che, in ipotesi di azione di petizione di eredità proposta da un figlio naturale del de cuius successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di riconoscimento del proprio status, gli eredi, già immessi nel possesso dei beni ereditari in buona fede, permangono in tale condizione sino al momento della notificazione della domanda di restituzione dei beni medesimi; ha, invero, portata generale il principio della presunzione di buona fede, di cui all'art. 1147 cod. civ., sicché la proposizione nei confronti del possessore di una domanda volta ad ottenere la restituzione delle cose e determina il mutamento della situazione di buona fede in mala fede, con conseguente obbligo di rispondere dei frutti successivamente percepiti.

8. Donazione e spirito di liberalità.

La Corte, con la sentenza Sez. 2, n. 3134 (Rv. 621963), spiega che la donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall'ordinamento. È questo il caso di più negozi tra loro collegati, con cui un soggetto, stipulato un contratto di compravendita, paghi o si impegni a pagare il relativo prezzo e, essendosene riservata la facoltà nel momento della conclusione del contratto, provveda ad effettuare la dichiarazione di nomina, sostituendo a sé, come destinatario degli effetti negoziali, il beneficiario della liberalità, così consentendo a quest'ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso. La configurabilità della donazione indiretta non è impedita nemmeno dalla circostanza che la compravendita sia stata stipulata con riserva della proprietà in favore del venditore fino al pagamento dell'ultima rata di prezzo, giacché quel che rileva è che lo stipulante abbia pagato, in unica soluzione o a rate, il corrispettivo, oppure abbia messo a disposizione del beneficiario i mezzi per il relativo pagamento.

Lo spirito di liberalità, che deve connotare il depauperamento del donante e l'arricchimento del donatario, va ravvisato nella consapevolezza dell'uno di attribuire all'altro un vantaggio patrimoniale, in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale. Una siffatta spontaneità dell'attribuzione patrimoniale non è incompatibile con l'esasperata conflittualità esistente tra le parti al momento del contratto, la quale, di per se, è elemento fattuale del tutto neutro rispetto alla causa della donazione, non integrando né un'ipotesi di cogenza giuridica, né un'ipotesi di costrizione morale, salva l'eventuale rilevanza di motivi di annullamento del contratto per vizio della volontà. Questo afferma Sez. 2, n. 8010 (Rv. 622374), in relazione a fattispecie di donazione immobiliare reciproca stipulata da coniugi separati con finalità di divisione, ma senza proporzione di valore tra le assegnazioni, laddove una parte aveva chiesto dichiararsi la nullità del negozio per mancanza di causa, assumendo che l'esasperata conflittualità fosse incompatibile con l'animus donandi.

Con la decisione Sez. Un., n. 5702 (Rv. 621914), la Corte insegna che, qualora una clausola apposta ad una donazione sia prevista dalle parti non come modus (il quale costituisce per il donatario una vera e propria obbligazione), ma come condizione risolutiva del contratto, questa produce effetti indipendentemente da ogni indagine sul comportamento, colposo o meno, dei contraenti in ordine al verificarsi dell'evento stesso, atteso che nella disciplina delle condizioni nel contratto non trovano applicazione i principî che regolano l'imputabilità in materia di obbligazioni.

La sentenza Sez. 2, n. 6761 (Rv. 622266) ha deciso che la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli non è consentita ove sopraggiunga un'adozione di maggiore d'età, la quale è finalizzata non a proteggere la prole, ma ad assicurare all'adottante la trasmissione del nome e del patrimonio, laddove la revocazione in parola risponde all'esigenza di consentire al donante di riconsiderare l'opportunità dell'attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, o della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, che derivano da tale evento, come anche dall'adozione del minore d'età. È stata, pertanto, dichiarata altresì manifestamente infondata la questione di illegittimità dell'art. 803 cod. civ., in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui, appunto, tale disposizione non prevede la revocazione degli atti di liberalità per sopravvenienza di figli adottivi maggiorenni.

PARTE SECONDA I BENI

  • proprietà privata
  • servitù

CAPITOLO IV

I DIRITTI REALI E IL POSSESSO

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Proprietà. - 2 Servitù. - 3 Tutela del possesso.

1. Proprietà.

È ormai diffusa l'opinione secondo cui il diritto di proprietà non rientra nel novero garantito dei diritti inviolabili, e costituisce, piuttosto, un diritto "secondario ". Il diritto dominicale, in una prospettiva costituzionale, merita tutela ordinamentale, cioè, non per dare realizzazione ad egoistiche esigenze individuali, ma soltanto in vista della soddisfazione di scopi sociali. Perciò il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata non raggiungono più la soglia della protezione assoluta.

Secondo tradizione, il «diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo » (di cui all'art. 832 cod. civ.) giustificherebbe l'indifferenza a che il proprietario disponga o non disponga del bene, ne goda o meno, lo adibisca, o meno, a realizzazione del proprio diritto. Il non esercizio della proprietà, non valendo come dismissione del bene, doveva perciò sempre rimanere privo di giuridica rilevanza.

Questa impostazione trovava logica conseguenza nel principio, dato per pacifico, secondo il quale il danno derivante al proprietario dal mancato o ridotto godimento di un immobile sarebbe in re ipsa. In caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il pregiudizio subito dall'avente titolo sarebbe, cioè, ex se consistito nella perdita della disponibilità del bene e nella correlata mancata percezione di un reddito, potendo il giudice determinare il danno presunto con riferimento al valore locativo di mercato del bene.

Sennonché, corregge ora Sez. 2, n. 14222 (Rv. 623541), proprio in caso di occupazione senza titolo di un immobile altrui, la presunzione di un danno in re ipsa subito dal proprietario, per la lesione delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene insite nel diritto di proprietà, non può comunque operare ove risulti positivamente accertato che il dominus si fosse intenzionalmente disinteressato dell'immobile ed avesse omesso di esercitare su di esso ogni forma di utilizzazione. In questa sentenza, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva liquidato il danno conseguente all'illegittima occupazione di un'area di proprietà esclusiva con tubazioni condominiali, senza aver accertato se l'atteggiamento del proprietario, il quale si era accorto soltanto dopo circa un anno della presenza delle tubature, non fosse espressione di un intenzionale disinteresse per l'immobile, tale da indurre a circoscrivere il danno al solo periodo successivo alla scoperta dell'usurpazione. Il mancato utilizzo, in concreto, delle facoltà dominicali costituisce, dunque, indizio non più insignificante, e ne fa, anzi, regredire la soglia avanzata della tutela risarcitoria.

La sentenza fa riflettere: non servirsi abitualmente in concreto delle cose di proprietà ne elimina la automatica risarcibilità in caso di loro usurpazione. Viene posto così un terribile "limite " negativo al "terribile diritto " di godere e disporre della cosa in modo pieno ed assoluto.

2. Servitù.

Emerge, dalla complessiva lettura dei principî affermati ancora quest'anno dalla S.C. in tema di servitù, una costante attenzione al profilo dei rapporti tra tutela dei diritti reali e tutela delle esigenze vitali di godimento dei fondi, in un sistema in cui l'attribuzione dei beni diventa sempre più categoria servente rispetto al rilievo essenziale della persona umana.

Si è già menzionata, sotto questo profilo, la sentenza della Sez. 2, n. 14103 (Rv. 623564), in tema di servitù coattiva ai fini delle necessità abitative di un fondo già provvisto di accesso pedonale, di cui si è già dato conto (cfr. cap. I, § 1).

Con la sentenza Sez. 2, n. 14580 (Rv. 623677), la Corte riconosce che le pattuizioni con cui vengono poste, a carico di un fondo ed a favore di altri, limitazioni di edificabilità, prevedendo l'imposizione di vincoli agli acquirenti e loro aventi causa, restringono permanentemente i poteri connessi alla proprietà dell'area gravata, attribuendo al fondo vicino un corrispondente vantaggio che ad esso inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema della servitù.

Dal suo canto, la sentenza della Sez. 2, n. 16427 (Rv. 623893) ha precisato che non è configurabile quale servitù per utilità inerente alla destinazione industriale del fondo dominante, riconosciuta dall'art. 1028 cod. civ., ma quale servitù aziendale, non ammessa nell'ordinamento vigente, la servitù di passaggio costituita in favore di un fondo adibito ad industria termale al fine di consentire alla clientela di questa di raggiungere il mare, trattandosi di utilità inerente non all'industria, quanto all'azienda che insiste sul fondo, in funzione dell'offerta di maggiori servizi, consistenti, nella specie, nel servizio di balneazione marittima.

La sentenza Sez. 2, n. 14102 (Rv. 623558) ha affermato che l'esenzione prevista, in materia di servitù di passaggio coattivo, dall'art. 1051, quarto comma, cod. civ., in favore di case, cortili, giardini ed aie ad esse attinenti, opera nel solo caso in cui il proprietario del fondo intercluso abbia la possibilità di scegliere tra più fondi, attraverso i quali attuare il passaggio, di cui almeno uno non sia costituito da case o pertinenze delle stesse. Tale norma non trova, invece, applicazione allorché, rispettando l'esenzione, l'interclusione non potrebbe essere eliminata, comportando l'interclusione assoluta del fondo conseguenze più pregiudizievoli rispetto al disagio costituito dal transito attraverso cortili, aie, giardini e simili. Nel giudizio di comparazione, ispirato ai principî costituzionali in materia di proprietà privata dei beni immobili e di iniziativa economica privata, il giudice deve tener conto dell'eventuale destinazione industriale del fondo intercluso, contemperando, anche mediante lo strumento indennitario, i contrapposti interessi.

La medesima esenzione dalla servitù di passaggio coattivo, di cui al'art. 1051, quarto comma, cod. civ., è stata spiegata da Sez. 2, n. 9116 (Rv. 622638) come contenente un'elencazione tassativa, che trova la sua ratio nell'esigenza di tutelare l'integrità delle case di abitazione e degli accessori che le rendono più comode. Per stabilire, perciò, se sussista o meno, ad esempio, l'ipotesi del cortile o del giardino, occorre aver riguardo alla loro destinazione non soltanto attuale, ma anche potenziale, desumibile dalla situazione dei luoghi. Nella fattispecie affrontata dalla S.C., in relazione alla quale è stata ritenuta operante l'esenzione dalla servitù, si è negato rilievo alla circostanza della realizzazione sul fondo in esame di una cucina all'aperto, insistente su un cortile recintato e tenuto a giardino, in epoca successiva alla proposizione della domanda volta alla costituzione del passaggio coattivo.

Condizioni necessarie per procedere all'ampliamento di una servitù di passaggio coattivo già esistente sono, ai sensi del combinato normativo di cui al secondo ed al terzo comma dell'art. 1051 cod. civ., quelle dell'accesso più breve alla via pubblica e del minor danno al fondo servente; ciò impone, perciò, ad avviso di Sez. 2, n. 8153 (Rv. 622531), una valutazione comparativa delle esigenze dei fondi interessati, dovendo escludersi invece, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata (art. 2 e 3 Cost.), che, ove la servitù già esista, occorre senz'altro procedere all'ampliamento della stessa a meno che ciò sia impossibile o attuabile solo con dispendio o disagi eccessivi. Il proprietario del fondo servente è, pertanto, legittimato ad eccepire l'idoneità di altro accesso in diverso sito o fondo, se questo realizzi la via più breve e sia meno dannoso dell'ampliamento richiesto.

La Corte sottolinea, con la sentenza della Sez. 2, n. 12929 (Rv. 623430), la necessità di una valutazione giudiziale globale e comparativa, in base ai criteri di cui al secondo comma dell'art 1068 cod. civ., nella controversia tra i proprietari dei fondi servente e dominante, relativa al trasferimento della servitù di passaggio in luogo diverso. La sentenza considera come sia nella realtà impossibile che qualsiasi nuovo passaggio comporti caratteristiche strutturali e di uso assolutamente identiche a quelle del percorso anteriore. Viene così stimata incensurabile la decisione del giudice di merito, ove lo stesso abbia correttamente considerato che, per effetto del nuovo passaggio offerto in sostituzione, posto a confronto col vecchio tracciato, avendo riguardo alla loro pendenza, ampiezza, sinuosità ed alla conformazione del piano del suolo, non si è avuta una diminuzione della comodità del fondo dominante e si è, piuttosto, evitato, o rimosso, l'aggravio del fondo servente, o, quanto meno, lo si è ridotto al minimo compatibile con il pieno esercizio della servitù.

La fattispecie prevista dal quarto comma dell'art. 1068 cod. civ., che comporta, invece, il trasferimento della servitù non già su altra porzione dello stesso fondo, come nell'ipotesi contemplata dal secondo comma del medesimo art. 1068 cod. civ., ma su altro fondo del proprietario dell'originario fondo servente o di un terzo, determina, come spiega la Corte con la sentenza Sez. 2, n. 7415 (Rv. 622483), l'estinzione della servitù preesistente e la contestuale costituzione di una nuova servitù, anche se di eguale contenuto, a carico del diverso fondo. A differenza, tuttavia, dell'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 1068 cod. civ. (nella quale il verificarsi dei richiesti presupposti normativi determina l'insorgenza, in capo al proprietario del fondo servente, del diritto di ottenere il trasferimento del luogo di esercizio della servitù), qualora l'offerta di altro luogo egualmente comodo, rivolta al proprietario del fondo dominante, venga da quest'ultimo ingiustamente rifiutata, è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice l'accoglimento della domanda di trasferimento della servitù su altro fondo del proprietario del fondo servente.

Quando, peraltro, il giudice emette una sentenza costitutiva di una servitù di passaggio coattivo, deve sempre evitare che il suo comando si ponga in contrasto con norme di carattere imperativo, come quelle stabilite dalle leggi urbanistiche e dai piani regolatori che pongano limiti o divieti all'esecuzione delle opere necessarie per la costituzione e/o l'esercizio della servitù, adottando, ove ciò non sia possibile, una soluzione differente, che consenta l'imposizione in concreto del vincolo, senza consentire che il rispetto di tali norme di natura imperativa sia rimesso alla disponibilità delle parti (così Sez. 2, n. 4431, Rv. 621433).

In quanto ricondotta allo schema della actio negatoria servitutis, si è sostenuta l'imprescrittibilità (salvo gli effetti dell'eventuale usucapione) dell'azione diretta ad ottenere il rispetto delle distanze legali, in quanto volta non ad accertare il diritto di proprietà dell'attore, bensì a respingere l'imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù (Sez. 2, n. 871, Rv. 621130).

L'esigenza di pervenire ad una rivisitazione complessiva dei rapporti di diritto reale, non più limitati ad una concezione che dia soluzione, per loro tramite, unicamente a problemi di attribuzione di beni (ovvero di appartenenza e di correlativa esclusione), traspare, infine, emblematica in Sez. 2, n. 21129 (in corso di massimazione), già menzionata in tema di diritti della persona. Qui si trattava di dirimere il tradizionale conflitto tra il proprietario del fondo servente, al quale è assicurata, dall'art. 841 cod. civ., la facoltà di chiusura del fondo, e il titolare della servitù di passaggio, conflitto in astratto regolato dall'art. 1064, secondo comma, cod. civ. Il bilanciamento tra gli interessi contrapposti viene dalla S.C. nel caso deciso avvertito particolarmente impellente, poiché la fattispecie esulava dall'ambito di un "conflitto tipicamente prediale ". Si fronteggiavano, invero, le istanze squisitamente proprietarie di recinzione del fondo servente ed il diritto di passaggio finalizzato all'accesso ad un edificio destinato all'esercizio pubblico del culto, finendo, così, in gioco altresì la tutela del diritto di libertà religiosa. Il giudice di merito viene disatteso per non aver congruamente attuato un siffatto bilanciamento, ossia per non aver valutato in che misura le modalità di chiusura del fondo gravato dal passaggio finissero per compromettere quel transito "qualificato ", sotto un profilo teleologico, dall'esercizio pieno ed effettivo del diritto di libertà religiosa dei frequentatori del luogo di culto, trascurando la funzione integrativa che i richiamati principî costituzionali devono svolgere sul piano interpretativo, anche nei rapporti all'apparenza puramente privatistici.

3. Tutela del possesso.

La sentenza Sez. 2, n. 10588 (Rv. 622878, Rv. 622879), relativa al concorso tra giudizio possessorio e giudizio petitorio, afferma che il divieto di proporre giudizio petitorio, previsto dall'art. 705 cod. proc. civ., riguarda il solo convenuto nel giudizio possessorio, trovando la propria ratio nell'esigenza di evitare che la tutela possessoria chiesta dall'attore possa essere paralizzata, prima della sua completa attuazione, dall'opposizione diretta ad accertare l'inesistenza dello ius possidendi. Pertanto, l'attore in possessorio, diversamente dal convenuto, può, anche in pendenza del medesimo giudizio possessorio, proporre autonoma azione petitoria, dovendosi interpretare tale proposizione come finalizzata ad un rafforzamento della tutela giuridica, e non già come rinuncia all'azione possessoria; questa facoltà, tuttavia, non può essere esercitata nello stesso giudizio possessorio, ma soltanto con una separata iniziativa, introducendo la domanda petitoria una causa petendi ed un petitum completamente diversi. La sentenza, chiarisce, inoltre, come la riconosciuta titolarità in capo al soggetto convenuto (cosiddetto spoliator) di un diritto reale incompatibile con il comportamento che il ricorrente ha inteso tutelare con il ricorso possessorio, sia idonea a paralizzare la tutela della situazione di fatto inconciliabile con detta statuizione. È stata, perciò, confermata la sentenza di merito, che aveva deciso di non prendere in esame la domanda possessoria, in ragione della pronuncia, in essa adottata, con cui veniva riconosciuta fondata la domanda del convenuto volta a far dichiarare l'inesistenza della servitù vantata dal possessore ed il conseguente diritto di quest'ultimo di disporre liberamente del proprio bene.

Secondo la Corte – Sez. 2, n. 2371 (Rv. 621442) – e sempre in tema di concorso tra giudizio possessorio e giudizio petitorio, il passaggio in giudicato della sentenza di rigetto di separata domanda di accertamento della proprietà, proposta da parte dell'attore in possessorio, non fa automaticamente venir meno la protezione giuridica del potere di fatto, a prescindere dal titolo che lo possa giustificare, né preclude al giudice del procedimento possessorio, ove ancora pendente, di emettere una pronuncia di reintegrazione; invero, la tutela del possesso è destinata a cedere non a fronte dell'accertamento, nel giudizio petitorio, che il possessore non è proprietario, quanto della verifica del diritto incompatibile spettante all'autore dello spoglio.

L'accertamento, con sentenza passata in giudicato, dell'illecito, consistente in plurime molestie subite dai possessori di un immobile nell'esercizio del loro potere sulla cosa, si traduce in un concreto pregiudizio di carattere patrimoniale, perdurante fino al ripristino dello status quo ante. Concretando, pertanto, tale limitazione temporanea del possesso un danno in re ipsa nelle sue varie componenti, il giudice, a fronte dell'obiettiva difficoltà di determinazione del quantum, deve fare ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., adottando eventualmente, quale adeguato parametro di quantificazione, quello correlato ad una percentuale del valore reddituale dell'immobile, la cui fruibilità sia stata temporaneamente ridotta (così Sez. 6-2, n. 5334, Rv. 621784).

  • condominio
  • comproprietà

CAPITOLO V

COMUNIONE E CONDOMINIO

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Uso della cosa comune. - 2 Uso della casa familiare comune. - 3 Manutenzione dei balconi. - 4 Regolamento di condominio. - 5 Condominio parziale. - 6 Decreto ingiuntivo e condominio. - 7 Dissenso dei condomini rispetto alle liti. - 8 Condominio minimo. - 9 Installazione di un ascensore in edificio condominiale. - 10 Attribuzioni dell'amministratore. - 11 Legittimazione processuale dell'amministratore. - 12 Perimento dell'edificio. - 13 Conto corrente condominiale.

1. Uso della cosa comune.

La sentenza delle Sez. Un., n. 11135 (Rv. 623019) ha ricondotto la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari alla figura della gestione di affari, assoggettando la fattispecie alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 cod. civ.; così, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può sempre ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ., applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., può altresì esigere dal conduttore, ma nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa.

Con riguardo ai diritti dei singoli, la sentenza della Sez. 2, n. 14607 (Rv. 623559) ha ravvisato l'uso particolare o più intenso della facciata dell'edificio condominiale, illegittimo ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico del fabbricato.

La Corte – con la decisione della Sez. 2, n. 12485 (Rv. 623462) – ha, invece, escluso il contrasto con l'art. 1102 cod. civ., ed anzi qualificato come corretto esercizio del potere di regolamentazione dell'uso della cosa comune da parte dell'assemblea, in un caso in cui la deliberazione, in considerazione dell'insufficienza dei posti auto compresi nel garage comune in rapporto al numero dei condomini, prevedeva il godimento turnario del bene, nonché il divieto per i singoli partecipanti di occupare gli spazi ad essi non assegnati, anche se gli aventi diritto non occupassero in quel momento l'area di parcheggio loro riservata. La volontà collettiva espressa in assemblea, la quale, preso atto dell'impossibilità del simultaneo godimento in favore di tutti i comproprietari, escludeva l'utilizzazione, da parte degli altri condomini, degli spazi adibiti a parcheggio eventualmente lasciati liberi dai soggetti che beneficiano del turno, neppure comporterebbe, secondo questa sentenza, una violazione dell'art. 1138 cod. civ., in quanto diretta non ad impedire il godimento individuale del bene comune, quanto, piuttosto, ad evitare che, attraverso un uso più intenso da parte di singoli condomini, venga meno, per i restanti, la possibilità di godere pienamente e liberamente della cosa durante i rispettivi turni, senza subire alcuna interferenza esterna, tale da negare l'avvicendamento nel godimento o da indurre all'incertezza del suo avverarsi.

Rimane chiara la differenza tra innovazioni, regolate dall'art. 1120 cod. civ., e modificazioni, disciplinate dall'art. 1102 cod. civ.: le prime suppongono opere di trasformazione, che incidono sull'essenza della cosa comune, e ne alterano l'originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà del condomino in ordine alla migliore, più comoda e razionale, utilizzazione della cosa,e sono perciò soggette ai soli limiti di uso paritario indicati dal secondo norma (Sez. 2, n. 18052, Rv. 623897).

La Corte – Sez. 2, n. 14107 (Rv. 623614) – ha poi innovativamente sostenuto che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può effettuare la trasformazione dello stesso in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando, in tal modo, complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene.

La legittimità dell'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo partecipante, ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., non passa più, pertanto, per la necessaria non alterazione del rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, ovvero per la non acquisizione di un bene comune ad incremento della proprietà esclusiva del singolo, quanto attraverso il rispetto del sovraordinato limite del permanente assolvimento della funzione collettiva originariamente svolta dalla res: anche la fondamentale regola proprietaria di uso della cosa comune progredisce da meccanismo di soluzione di rigorosi conflitti di attribuzione a criterio di salvaguardia di più evolute relazioni di cooperazione.

Nell'ipotesi di sottrazione delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene comune, si è riconosciuta la risarcibilità, sotto l'aspetto del lucro cessante, non solo del guadagno interrotto, ma anche di quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, ancorché derivante da un uso della cosa diverso da quello tipico. Tale danno, da ritenersi in re ipsa, ben può essere quantificato in base ai frutti civili che l'autore della violazione abbia tratto dall'uso esclusivo del bene, imprimendo ad esso una destinazione diversa da quella precedente (così Sez. 2, n. 14231, Rv. 623540). Inoltre, la sentenza della Sez. 2, n. 5504 (Rv. 621958) ha aggiunto che i frutti civili, dovuti dal comproprietario che abbia utilizzato, in via esclusiva, un bene rientrante nella comunione, hanno, ai sensi dell'art. 820, terzo comma, cod. civ., la funzione di corrispettivo del godimento della cosa e possono essere liquidati con riferimento al valore figurativo del canone locativo di mercato.

2. Uso della casa familiare comune.

La sentenza Sez. 2, n. 5166 (Rv. 621760) ha ravvisato la violazione dei criteri stabiliti dall'art. 1102 cod. civ. per l'uso della cosa comune, in ipotesi di uso esclusivo della casa familiare da parte di un coniuge, protrattosi in seguito alla revoca dell'ordinanza di assegnazione dell'alloggio pronunciata nel corso del giudizio di separazione personale, nonostante il dissenso espresso dall'altro coniuge.

Nel caso deciso, era avvenuto che, nonostante fosse venuto meno, per sopravvenuta statuizione del giudice della separazione, il diritto di godimento della casa familiare ex art. 155 quater cod. civ. in favore del coniuge già assegnatario dell'alloggio, questi aveva continuato ad occupare l'intero immobile, destinandolo ad utilizzazione personale esclusiva, così impedendo all'altro comproprietario di godere dei frutti civili ritraibili dal bene. Tale condotta è stata ritenuta illecita dalla S.C., e perciò fonte di indennità in favore del coniuge escluso dalla disponibilità dell'appartamento.

È noto, al riguardo, come la decisa esclusiva funzionalizzazione normativa dell'assegnazione della casa familiare rispetto all'interesse dei figli, voluta espressamente dall'art. 155 quater cod. civ. (ove si chiarisce, altresì, che della stessa assegnazione il giudice debba poi tener conto nella regolazione dei rapporti economici "tra i genitori", e non anche più generalmente "tra i coniugi", che non siano ad un tempo "genitori"), abbia acuito il senso di incompiutezza della disciplina della crisi coniugale rispetto ad uno dei conflitti maggiormente avvertiti nel contenzioso, quale quello legato alle sorti dell'immobile di proprietà comune dei coniugi, allorché non ricorra l'ormai imprescindibile presupposto dell'affidamento dei figli minori o della convivenza con figli maggiorenni, ma economicamente non autosufficienti. Si sostiene, invero, che, tanto il testo in vigore sino all'entrata in vigore della l. n. 54 del 2006, quanto il vigente art. 155 quater cod. civ. (che ha consacrato il prevalente orientamento giurisprudenziale), in tema di separazione, come l'art. 6, l. n. 898 del 1970, in tema di divorzio, subordinano l'adottabilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi. In difetto di un tale elemento, la casa familiare in comproprietà fra i coniugi, come quella che appartenga in via esclusiva ad un solo coniuge, resta sottratta all'incidenza della sentenza di separazione o divorzio, non potendo essere oggetto di alcun provvedimento di assegnazione; il che verrebbe confermato altresì dall'art. 156 cod. civ., in relazione agli effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi, non contemplandosi tale assegnazione quale forma sostitutiva o quale componente dell'assegno di mantenimento.

L'assegnazione della casa coniugale non è dunque prevista in funzione della debolezza economica di uno dei coniugi, con la conseguenza che il giudice, in assenza di figli conviventi, non può assegnare la casa coniugale, in comproprietà fra i coniugi, a quello fra i due che ritenga più bisognoso. Si aggiunge che solo l'intrinseca modificabilità del provvedimento di assegnazione, a seguito del raggiungimento della maggiore età e dell'indipendenza economica da parte dei figli, consente di non dubitare della legittimità costituzionale dell'istituto, il quale, altrimenti, equivarrebbe ad una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà per tutta la vita del coniuge assegnatario in danno del contitolare. In mancanza di un'apposita disposizione legislativa in tema di separazione, la casa familiare in comproprietà, che non possa essere oggetto di assegnazione ad uno dei coniugi, rimane così soggetta alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l'uso e la divisione. I rapporti di godimento dell'alloggio tra gli ex coniugi trovano in sostanza regolamentazione mediante il principio dell'uso della cosa comune di cui all'art. 1102 cod. civ.

Nella stessa prospettiva, Sez. 3, n. 1367 (Rv. 621240), in una controversia instaurata come opposizione, esperita dalla coniuge già assegnataria della casa familiare, al precetto notificatole dall'altro coniuge per il rilascio dell'immobile, sulla base della sentenza del tribunale di revoca dell'attribuzione operata inizialmente alla moglie in sede presidenziale, ha osservato come la natura speciale del diritto di abitazione, ai sensi dell'art. 155 quater cod. civ., è tale per cui esso non sussiste senza allontanamento dalla casa familiare di chi non ne è titolare e, corrispondentemente, quando esso cessa di esistere per effetto della revoca, determina una situazione simmetrica in capo a chi lo ha perduto, con necessario allontanamento da parte di questi.

Cfr. pure, in argomento, il cap. II, § 2.1.

3. Manutenzione dei balconi.

La Sez. 2, n. 6624 (Rv. 622451) ha accolto il ricorso avverso una sentenza di merito, che aveva ritenuto appartenenti al condominio, con le dovute conseguenze sulla ripartizione delle relative spese, alcune fioriere in cemento armato poste all'esterno delle ringhiere delimitanti i balconi con funzione di parapetto, senza che le stesse rivelassero un qualche pregio artistico, né costituissero parte integrante della struttura dello stabile. La sentenza conferma, così, l'orientamento secondo cui, in tema di spese di manutenzione, riparazione o restauro dei balconi aggettanti di un edificio condominiale, il criterio di riparto non va desunto dall'art. 1125 cod. civ., essendo questi autonomi, dal punto di vista strutturale, rispetto ai piani sovrapposti, nel senso che ben possono sussistere indipendentemente dalla presenza o assenza di altro balcone nel piano sottostante o sovrastante. La premessa della tesi spiega che i balconi sono elementi accidentali e non portanti della struttura del fabbricato, non svolgono alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell'edificio (come, viceversa, accade per le terrazze a livello incassate nel corpo del fabbricato), non costituiscono parti comuni dell'edificio e perciò appartengono ai proprietari delle unità immobiliari corrispondenti. Diversamente, i fregi ornamentali e gli elementi decorativi inerenti ai balconi (rivestimenti della fronte o della parte sottostante della soletta, frontalini e pilastrini) sono condominiali se, inserendosi nel prospetto dell'edificio e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole, adempiono prevalentemente alla funzione ornamentale dello stesso, e non solamente al decoro delle porzioni immobiliari ad essi corrispondenti.

4. Regolamento di condominio.

La sentenza Sez. 2, n. 2742 (Rv. 621680) ha affermato che l'art. 1138, primo comma, cod. civ. – il quale stabilisce, in tema di condominio negli edifici, che, quando il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento per disciplinare l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese – pone l'obbligo di redazione del regolamento a carico dei singoli condomini, e non già a carico del venditore delle singole unità abitative di cui è composto il condominio, che sia anche costruttore dello stabile. Nel caso deciso, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, nell'escludere la sussistenza in capo alla società venditrice di un obbligo di redigere il regolamento condominiale discendente dai contratti di vendita, aveva tuttavia ritenuto che detto obbligo fosse ad essa direttamente imposto dall'art. 1138 cod. civ. Sono, invero, i condomini a dover predisporre il regolamento non appena venga raggiunto il requisito numerico contemplato dall'art. 1138 cod. civ., quando, cioè, essi, intesi come proprietari esclusivi, pro indiviso, di una parte dell'edificio, in conseguenza di acquisto per atto tra vivi, o di divisione o anche di successione mortis causa, divengano più di dieci; in tal caso, ciascuno dei partecipanti ha, quindi, il diritto di prendere l'iniziativa per la formazione del regolamento ai fini della necessaria approvazione dell'assemblea, con la maggioranza stabilita dall'art. 1136, secondo comma, cod. civ.

La Corte – Sez. 2, n. 10185 (Rv. 622880) – ha deciso che il conduttore di un immobile sito nel fabbricato condominiale può obbligarsi nei confronti del condominio, mediante accordo con lo stesso, a rispettare un regolamento di condominio, pur se questo sia non impegnativo per il condomino locatore. Nella specie, peraltro, la S.C. ha escluso la configurabilità di un siffatto accordo in presenza di una sottoscrizione unilateralmente apposta dal conduttore sul contratto di compravendita relativo all'unità immobiliare locata e contenente il richiamo al regolamento, non costituendo tale sottoscrizione l'accettazione di una proposta proveniente dal condominio ed a quest'ultimo comunicata. La sentenza convalia la tradizionale impostazione che rinviene il fondamento del regolamento di condominio in un patto stipulato da tutti i condomini, ovvero nell'accettazione da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari (piani o porzioni di piano) del regolamento già predisposto dal venditore, unico originario proprietario del fabbricato, aprendo, peraltro, tale patto all'eventuale espressa adesione dei conduttori.

Come ricorda la Sez. 2, n. 9877 (Rv. 622759), una deliberazione assembleare volta a destinare il cortile condominiale a parcheggio di autovetture dei singoli condomini, in quanto disciplinante le modalità di uso e di godimento del bene comune, non impone l'unanimità dei consensi, ma è validamente approvata con la maggioranza prevista dall'art. 1136, quinto comma, cod. civ., e ben può comportare la modifica delle disposizioni del regolamento di condominio, di natura non contrattuale, relative all'utilizzazione ed ai modi di fruizione delle parti comuni.

Sul valore del regolamento di condominio, la sentenza della Sez. 2, n. 8012 (Rv. 622406) specifica che esso non costituisce un idoneo titolo di proprietà, agli effetti dell'art. 1117 cod. civ., e, in particolare, ove voglia sostenersi l'estensione della proprietà condominiale ad edifici separati ed autonomi rispetto all'edificio in cui ha sede il condominio; così, ai fini dell'accertamento dell'appartenenza al condominio di garages ubicati in un blocco edilizio separato rispetto all'edificio in cui si trovano gli appartamenti condominiali, nessun rilievo è stato attribuito alla presenza, tra gli allegati al regolamento di condominio, di una tabella di ripartizione delle spese dei medesimi garages tra i corrispondenti proprietari, né alla circostanza che il cortile condominiale fosse utilizzato da questi ultimi per accedere al loro bene.

Si è negato che l'annullamento di una deliberazione dell'assemblea, impugnata da un condomino per violazione di una norma del regolamento di condominio (nella specie, concernente l'uso di un'area comune), possa determinare, al di fuori dei casi e dei modi previsti dall'art. 34 cod. proc. civ., il giudicato sulla validità della stessa disposizione regolamentare, la cui conformità, o meno, a norme imperative di legge può, perciò, essere oggetto di un successivo giudizio tra le medesime parti (Sez. 2, n. 7405, Rv. 622485).

5. Condominio parziale.

La sentenza Sez. 2, n. 2363 (Rv. 621865) ha dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione, il ricorso proposto dal "Condominio della Scala D" dell'edificio condominiale che era stato già, interamente considerato, parte del giudizio di merito culminato nella sentenza impugnata.

La S.C. ha spiegato come il cosiddetto "condominio parziale" è situazione configurabile per la semplificazione dei rapporti di gestione, interni alla collettività condominiale, in ordine a determinati beni o servizi appartenenti soltanto ad alcuni condomini. Non può invece ravvisarsi una legittimazione processuale del condominio parziale tale da poter sostituire il condominio dell'intero edificio, come avvenuto nel caso in esame, al fine di impugnare per cassazione una sentenza di merito, pronunciata al culmine di un giudizio risarcitorio, nel quale il condominio, globalmente inteso, era stato convenuto con domanda risarcitoria per i danni occasionati dall'esecuzione di un appalto conferito dal medesimo intero condominio in veste di committente.

La sentenza, negando l'ammissibilità del gravame autonomamente proposto dal separato Condominio di una scala del fabbricato, ha altresì aggiunto come nulla rilevi che, come amministratore del medesimo condominio parziale, si presenti la stessa persona fisica investita di tale ufficio nel condominio dell'intero edificio.

Com'è noto, il regime codicistico condominiale, di cui agli art. 1117 e segg. cod. civ., distingue le spese dovute dai condomini avuto riguardo al fondamento da cui l'obbligazione di contribuirvi ha origine, ed al fine perseguito dall'obbligazione medesima. Le oggettive differenziazioni del fondamento e della finalità delle singole spese occorrenti per la gestione condominiale si ripercuotono, quindi, pure sull'individuazione dei soggetti cui le stesse vanno imputate. L'art. 1123, terzo comma, cod. civ., si riferisce, dunque, alle situazioni di "condominio parziale": allorché le cose e gli impianti comuni siano destinati a servire soltanto una parte del fabbricato, nell'ambito della più vasta compartecipazione, la norma identifica i soggetti obbligati a concorrere alle spese per la conservazione con i soli condomini rientranti nel ristretto gruppo che dalla cosa o dall'impianto tragga utilità.

Di per sé, il condominio parziale non esige un fatto o atto costitutivo a sé, ma insorge ope legis, in presenza della condizione materiale o funzionale giuridicamente rilevante; finendo per coesistere nell'edificio con la più vasta organizzazione configurata dal condominio. Nessuna modifica relativa al regime delle cose comuni può, infatti, derivare da una delibera di istituzione di uno o più condomini parziali nell'ambito del fabbricato: la volontà della maggioranza assembleare non potrebbe validamente modificare le relazioni di comproprietà tra i singoli condomini e le parti comuni dell'edificio, né incidere sulla legittimazione dei partecipanti a decidere in ordine alla loro gestione.

Può, invero, ravvisarsi un autonomo condominio dei proprietari di uno o alcuni dei beni già comuni dell'originario intero edificio solo nel rispetto della disposizione eccezionale di cui all'art. 61, disp. att., cod. civ., la quale prevede la possibilità di scissione, in base a deliberazione assembleare adottata con la maggioranza ex art. 1136, secondo comma, cod. civ., dell'unico condominio originario in più condomini, mediante atto ricognitivo postulante che le diverse parti del complesso edilizio presentino i connotati di strutture autonome e distinte. Il fondamento normativo, che limita in tal senso la proprietà di cose, servizi ed impianti dell'edificio, si rinviene nel già menzionato art. 1123, terzo comma, cod. civ. A tale parziale attribuzione della titolarità delle parti comuni, corrispondono conseguenze di rilievo per quanto attiene alla gestione, nonché all'imputazione delle spese.

La conclusione raggiunta dalla menzionata sentenza della Sez. 2, n. 2363 evidenzia, dunque, la non sostenibilità di un'ipotetica legittimazione processuale sostitutiva del condominio parziale rispetto al condomino dell'intero edificio. Non si potrebbe, del resto, ipotizzare una distinta ed ulteriore capacità processuale del condominio parziale, così come si ricorda che i criteri di ripartizione delle spese necessarie per provvedere alla manutenzione delle parti comuni, stabiliti dagli art. 1123, 1124, 1125 e 1126 cod. civ., non possono mai influire sulla legittimazione del condominio nella sua interezza, né sulla rappresentanza del suo amministratore estesa a tutti i condomini (art. 1130 e 1131 cod. civ.).

6. Decreto ingiuntivo e condominio.

La sentenza Sez. 3, n. 1289 (non massimata, ma che pare comunque utile qui richiamare, in quanto convolge principî generali) ha dichiarato la nullità di un precetto con cui un creditore aveva intrapreso l'esecuzione forzata nei confronti di un condomino, dopo aver conseguito un titolo esecutivo (nella specie, un decreto ingiuntivo) nei confronti di condominio in persona dell'amministratore, senza aver, peraltro, mai notificato allo stesso singolo partecipante tale titolo.

In sostanza, la S.C. ha ritenuto fondato il motivo di ricorso secondo cui il decreto ingiuntivo emesso nei confronti del condominio, se azionabile esecutivamente in danno all'ente di gestione pur senza nuova notificazione, non lo è in danno al condomino, al quale sarebbe occorsa una nuova notificazione, prima o contestualmente al precetto.

Ha osservato la sentenza come l'opponente non ponesse la questione se il titolo esecutivo giudiziale, intervenuto nei confronti dell'ente di gestione condominiale in persona dell'amministratore, possa essere validamente azionato nei confronti del singolo condomino quale obbligato solidale. Per cui, sia pure in base all'erroneo presupposto che il titolo esecutivo ottenuto contro il condominio possa essere fatto valere in executivìs contro il singolo condomino quale preteso obbligato in solido, il precetto, intimato allo stesso condomino, non avrebbe comunque potuto prescindere dalla notificazione, preventiva o contestuale, del decreto ingiuntivo emesso nei confronti dell'ente di gestione, ancorché detta ingiunzione fosse risultata del tipo ex art. 654, secondo comma, cod. proc. civ.

Ciò perché, se una nuova notificazione del titolo esecutivo non occorre per il destinatario diretto del decreto monitorio nell'ipotesi di cui all'art. 654, secondo comma, cod. proc. civ., la medesima notificazione è, invece, necessaria qualora si intenda agire contro un soggetto non indicato nell'ingiunzione, per la pretesa sua qualità di obbligato solidale, dovendo quest'ultimo essere messo in grado non solo di conoscere quale sia il titolo ex art. 474 cod. proc. civ., in base al quale viene minacciata in suo danno l'esecuzione, ma anche di adempiere l'obbligazione da esso risultante entro il termine previsto dall'art. 480 cod. proc. civ.

La conclusione della necessità di una nuova notificazione, agli effetti dell' art. 654, secondo comma, cod. proc. civ., ricostruisce, allora, in termini di alterità soggettiva la relazione corrente tra il condominio ingiunto, "ente di gestione", ed il singolo condomino, intimato col precetto.

7. Dissenso dei condomini rispetto alle liti.

La sentenza Sez. 3, n. 12459 ha sostenuto che l'art. 1132 cod. civ., relativo al dissenso dei condomini rispetto alle liti, regola la posizione del condomino dissenziente verso i terzi implicitamente, secondo un principio che rende indifferenti i creditori del condominio rispetto alla manifestazione di dissenso, per cui il condomino dissenziente resta esposto verso i terzi come gli altri condomini. Nella logica accolta da Sez. Un. 9148 del 2008 (Rv. 602479), il condomino dissenziente risponderebbe, dunque, proporzionalmente alla sua quota, cioè pro parte.

Siffatta regola implicita si desume dalla previsione del meccanismo di rivalsa a favore del condomino dissenziente, di cui al secondo comma del medesimo art. 1132 cod. civ. Tale previsione implica, infatti, ad avviso della sentenza in esame, che il condomino dissenziente sia esposto verso i terzi e possa subire le conseguenze negative della responsabilità del condominio nei loro confronti e, dunque nei limiti della sua quota di partecipazione. A ciò consegue che il terzo, che abbia conseguito un titolo esecutivo nei confronti del condominio, non può pretendere di utilizzare il titolo stesso contro i condomini non dissenzienti, provvedendo di sua iniziativa ad addebitare la quota del condomino dissenziente, in proporzione, a ciascuno dei condomini non dissenzienti, perché il diritto di far valere la posizione di dissenso è attribuito al condomino dissenziente soltanto in via di rivalsa. Al più, potrebbe ipotizzarsi che il terzo ottenga dal condomino dissenziente, sulla base di un accordo convenzionale, di essere surrogato nelle ragioni che egli avrebbe verso gli altri condomini e, quindi, nella pretesa di rivalsa verso gli altri condomini, occorrendogli, tuttavia, per poter agire in executivis verso di essi, la previa formazione di un titolo esecutivo. Si dovrebbe, invece, escludere che, sulla sola base dell'accordo convenzionale di surrogazione nella rivalsa, il terzo, che abbia ottenuto il titolo esecutivo verso il condominio, possa utilizzarlo verso ciascun condomino non dissenziente, addebitando ad esso quanto di pertinenza del condomino dissenziente, sia pure proporzionatamente ad un riparto fra tutti i condomini non dissenzienti. In tal caso, infatti, si pretenderebbe di utilizzare il titolo verso il condomino non dissenziente non in dipendenza della posizione di responsabile parziario dell'obbligo consacrato nel titolo, bensì sulla base di un negozio del tutto estraneo al titolo.

L'esonero del condominio dissenziente dalle spese, a seguito della separazione della propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite, è previsto, invero, dall'art. 1132, primo comma, cod. civ. con riferimento alle controversie civili concernenti le parti comuni, che l'assemblea abbia deliberato. In caso di soccombenza, tutti i condomini si trovano ad essere obbligati al pagamento delle spese, ma si consente al condomino, il quale abbia manifestato il proprio dissenso, di non essere tenuto a sopportare le conseguenze sfavorevoli di un'iniziativa, dalla quale si è dissociato.

L'operatività dell'art. 1132 cod. civ. viene, tuttavia, limitata al solo rapporto tra condominio e condomino dissenziente, nell'ambito del quale, peraltro, la stessa disposizione si esaurisce nell'effetto di esonerare il dissenziente dall'onere di partecipare alla rifusione delle spese del giudizio in favore della controparte nel caso d'esito della lite sfavorevole per il condominio, lasciandone, tuttavia, immutato l'onere di partecipare alle spese affrontate dal condominio per la propria difesa, ove risultino irripetibili dalla controparte nell'inverso caso d'esito della lite favorevole per il condominio.

Rimane, per contro, regolato dalla normativa generale sulle obbligazioni plurisoggettive il rapporto tra la controparte del condominio e ciascun singolo condomino, compreso il dissenziente, cui si riconosce unicamente il diritto di rivalsa. Dal che la diffusa considerazione che l'esonero dalle spese del singolo condomino dovrebbe risultare inefficace almeno nei rapporti esterni.

L'obbligo di partecipazione alle spese di liti del condomino dissenziente risulta, per il vero, limitato a quello esigibile dalla ‹‹parte vittoriosa››, cui fa espresso riferimento il secondo comma dell'art. 1132 cod. civ.: dunque, l'insensibilità verso il dissenso del condomino sembra affermata dalla norma in esame unicamente con riguardo alla controparte processuale del condominio e per le spese giudiziali liquidate nella sentenza che abbia visto soccombente il condominio stesso.

8. Condominio minimo.

L'ordinanza Sez. 6-2, n. 5288 (Rv. 622246) ribadisce che le disposizioni in tema di spese dettate per il condominio negli edifici si applicano anche al "condominio minimo", ovvero al caso di edificio in condominio composto da due soli partecipanti.

Nel caso deciso, un condomino aveva richiesto all'unico altro partecipante al condominio il pagamento delle spese condominiali dovute, assumendo di averlo informato in ordine alla ripartizione delle stesse. Il convenuto si era difeso, sostenendo di non aver mai ricevuto avvisi di convocazione ad assemblee, né copia di deliberazioni condominiali, né comunicazioni preventive in ordine alle spese, ma solo prospetti riepilogativi, senza le pezze giustificative pur richieste. La S.C. ha confermato la pronuncia della corte d'appello, che aveva rigettato la domanda dell'attore, assumendo la necessità, anche nella fattispecie di condominio minimo, di una delibera di approvazione delle spese, escludendo la sufficienza della comunicazione dell'avvenuto riparto delle stesse, ed aggiungendo che il pagamento di acconti non poteva costituire prova di una delibera comunque radicalmente inesistente.

Ricorre, del resto, anche nell'ipotesi di condominio con due condomini, la tipica relazione di utilità strumentale che connota l'accessorietà tra beni esclusivi e parti comuni, la quale è a fondamento della disciplina posta negli art. 1117 e segg. cod. civ.

L'esistenza del situazione di condominio non dipende dal numero delle persone che ad esso partecipano, né alcuna norma esclude le norme stabilite per il condominio negli edifici nell'eventualità di condominio costituito da due proprietari. Unicamente l'art. 1129 cod. civ. sulla nomina dell'amministratore e l'art. 1138 civ. civ. sul regolamento di condominio condizionano l'operatività dei loro precetti ad un numero minimo di partecipanti.

Quindi, altresì nel condominio minimo operano le norme organizzative procedimentali sul funzionamento dell'assemblea, con conseguente soggezione al metodo collegiale ed al principio maggioritario delle delibere di approvazione e ripartizione delle spese necessarie alla conservazione o riparazione delle cose comuni. Il mero avvertimento all'altro condomino dell'esigenza di procedere a determinati lavori nel condominio non può rappresentare un valido equipollente di una rituale convocazione dell'assemblea dei condomini, né la semplice comunicazione all'altro partecipante dell'avvenuto riparto delle spese può sostituire il necessario atto presupposto, ovvero la specifica delibera di approvazione; infine, neppure il pagamento di acconti può costituire prova di una delibera di approvazione radicalmente inesistente, perché non adottata nel rispetto dell'art. 1136 cod. civ.

Rimane possibile, ove non si raggiunga l'unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, il ricorso all'autorità giudiziaria, ai sensi del collegato disposto degli art. 1105 e 1139 cod. civ.

9. Installazione di un ascensore in edificio condominiale.

La sentenza Sez. 2, n. 12930 (Rv. 623476) ha ricordato come l'art. 2 della legge 9 gennaio 1989, n. 13, recante norme per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, dopo aver previsto la possibilità per l'assemblea condominiale di approvare le innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze indicate nell'art. 1136, comma secondo e terzo, cod. civ. – così derogando all'art. 1120, comma primo, che richiama il comma quinto dell'art. 1136 e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate – dispone tuttavia, al terzo comma, che resta fermo il disposto dell'art. 1120, comma secondo, il quale vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità secondo l'originaria costituzione della comunione. È stata perciò ritenuta nulla dalla S.C., a maggior ragione, la delibera che, ancorché adottata a maggioranza al fine indicato (nella specie, relativa all'installazione di un impianto di ascensore nell'interesse comune), si riveli lesiva dei diritti di un condomino sulle parti di sua proprietà esclusiva, trattandosi, pertanto, di invalidità sottratta al termine di impugnazione previsto dall'art. 1137, ultimo comma, cod. civ., e che può essere fatta valere in ogni tempo da chiunque dimostri di averne interesse, e, quindi, anche dal condomino che abbia espresso voto favorevole.

In argomento, la sentenza della Sez. 2, n. 14096 (Rv. 623551) ha, a sua volta, ribadito che l'installazione di un ascensore in ambito condominiale, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento. Tale installazione rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi la disciplina dettata dall'art. 907 cod. civ. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, comma secondo, della legge 9 gennaio 1989, n. 13, disposizione inapplicabile negli edifici in condominio. Rimane, così, confermato in proposito altresì l'orientamento secondo cui le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché, però, esse risultino compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime. Conseguentemente, ove sia rispettato il limite di cui all'art. 1102 cod. civ., deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale. Il rilievo della decisione in esame sta nell'attribuzione all'impianto di ascensore della qualificazione di indispensabilità ai fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa questa nel senso di una condizione utilizzativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di edilizia, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui.

10. Attribuzioni dell'amministratore.

La Corte, con la sentenza della Sez. 2, n. 8498 (Rv. 622457), ha evidenziato come il nuovo amministratore di un condominio, se non autorizzato dai partecipanti alla comunione, non ha il potere di approvare incassi e spese condominiali risultanti da prospetti sintetici consegnatigli dal precedente amministratore. Quindi, l'accettazione di tali documenti non costituisce prova idonea del debito nei confronti del vecchio mandatario da parte dei condomini per l'importo corrispondente al disavanzo tra le rispettive poste contabili; spetta, invero, comunque all'assemblea dei condomini approvare il conto consuntivo, onde confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l'opportunità delle spese affrontate d'iniziativa dell'amministratore. La S.C. ha così negato che la sottoscrizione del verbale di consegna della documentazione, apposta dal nuovo amministratore quand'era già immesso nell'esercizio delle sue funzioni, integrasse una ricognizione di debito fatta dal condominio in relazione alle anticipazioni di pagamenti ascritte al precedente amministratore e risultanti dalla situazione di cassa registrata.

11. Legittimazione processuale dell'amministratore.

La Suprema Corte si è occupata più volte nell'ultimo anno di fattispecie attenenti alla definizione della legittimazione processuale dell'amministratore di condominio, ai sensi dell'art. 1131 cod. civ., al fine di delimitare la nozione presupposta di controversia concernente gli interessi comuni dell'edificio, e così i correlati poteri rappresentativi dell'amministratore stesso, la cui presenza in giudizio vale a smentire la necessità del litisconsorzio nei confronti di tutti i condomini (rimanendo il giudicato, formatosi nel processo in cui sia stato correttamente parte l'amministratore, vincolante anche nei confronti dei singoli: Sez. 3, n. 12911, Rv. 623414).

Pertanto, Sez. 3, n. 1768 (Rv. 621678) ha ritenuto l'amministratore pienamente legittimato ad agire per ottenere il rilascio di un immobile condominiale, attesa la natura personale dell'azione, ove si tratti di recuperare un bene essenziale per l'ulteriore fruizione collettiva, ravvisando in motivazione, tuttavia, la necessità del contraddittorio, dal lato passivo, di tutti i partecipanti al condominio, quali potenziali comproprietari dell'area, in ordine alla domanda del singolo volta all'accertamento dell'usucapione per possesso ultraventennale dell'immobile conteso.

La sentenza della Sez. 2, n. 6607 (Rv. 622427), sulla premessa che l'accertamento della proprietà di un bene non può essere effettuato se non nei confronti di tutti i soggetti a vantaggio o verso i quali esso sia destinato ad operare, ha deciso che, allorché la domanda sia proposta da alcuni condomini per far dichiarare la natura comune di un bene nell'ambito dell'edificio condominiale, il giudizio deve svolgersi nei confronti di tutti gli altri partecipanti al condominio stesso; ciò perché questi ultimi, nel caso di esito della lite favorevole agli attori, non potrebbero altrimenti né giovarsi del giudicato, né restare terzi non proprietari rispetto al convenuto venditorecostruttore.

Ad avviso, invece, di sez II, n. 14765 (Rv. 623805 e 623806), ciascun condomino può legittimamente proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza che occorra l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti al condominio; la necessità del litisconsorzio si ravvisa soltanto ove un condomino proponga una domanda riconvenzionale di riconoscimento della proprietà esclusiva del bene, neppure a tanto obbligando una mera eccezione riconvenzionale di usucapione.

Nei confronti dell'amministratore del condominio, e non già dei singoli condomini, va altresì proposta l'impugnazione della delibera dell'assemblea condominiale di approvazione di nuove tabelle millesimali, fondata su vizi dell'atto collegiale (Sez. 2, n. 11757, Rv. 623210).

Da ultimo, Sez. 2, n. 22825 ha dunque rimesso alle sezioni unite di risolvere il contrasto di giurisprudenza inerente proprio i limiti della legittimazione processuale dell'amministratore di condominio per le azioni in ordine alle parti comuni dell'edificio ed i conseguenti rapporti con l'alternativo litisconsorzio necessario di tutti i condomini.

12. Perimento dell'edificio.

La sentenza della Sez. 2, 15482 (Rv. 623751) ha deciso che, in ipotesi di perimento totale o di una parte dell'edificio in condominio, anche inferiore ai tre quarti del suo valore, ciascun condomino ha il potere di ricostruire le parti comuni del fabbricato, che siano andate distrutte e che siano indispensabili per ripristinare l'esistenza e il godimento del bene di dominio individuale, e ciò nell'esercizio non di un diritto di superficie, ma di facoltà inerenti alla proprietà esclusiva ed a quella condominiale, in quanto tali non suscettibili di prescrizione per non uso.

13. Conto corrente condominiale.

La C.S., con la sentenza della Sez. 2, n. 10199 (Rv. 622882), nel ribadire che il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo del potere discrezionale che l'assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini, dovendosi esso limitare al riscontro della legittimità, ha affermato che non è suscettibile del controllo del giudice, attraverso l'impugnativa di cui all'art. 1137 cod. civ., l'operato dell'assemblea condominiale in relazione alla mancata apertura di un conto corrente intestato al condominio, su cui depositare da parte dell'amministratore le somme ricevute, trattandosi di questione attinente all'opportunità o alla convenienza dell'adozione delle modalità della gestione delle spese relative alle cose ed ai servizi comuni, salvi restando i controlli sulla gestione di tali somme da effettuare in sede di approvazione del rendiconto.

In diversa prospettiva, la Sez. 1, n. 7162 (non mass.), pur escludendo che la mancata apertura di un conto corrente del condominio, separato rispetto al patrimonio personale dell'amministratore, costituisca irregolarità tale da comportare la revoca del mandato, ha condiviso l'assunto secondo cui, nonostante l'assenza di specifiche norme che ne facciano obbligo, l'amministratore è tenuto a far affluire i versamenti delle quote condominiali su apposito e separato conto corrente intestato al condominio, per evitare confusioni e sovrapposizioni tra il patrimonio del condominio e il suo personale od eventualmente quello di altri differenti condomini, da lui amministrati. Alla base di tale doveroso adempimento vi sarebbe pure un'esigenza di trasparenza e di informazione, in modo che ciascun condomino possa costantemente verificare la destinazione dei propri esborsi e la chiarezza e facile comprensibilità dell'intera gestione condominiale.

  • indennizzo
  • espropriazione

CAPITOLO VI

L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

(di Annamaria Fasano )

Sommario

1 Definizione e determinazione dell'indennità. - 2 Il momento consumativo dell'illecito. - 3 La vocazione urbanistica del bene espropriato. - 4 Il diritto al pagamento dell'indennità (interessi e rivalutazione). - 5 Espropriazione parziale: particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito della realizzazione dell'opera pubblica.Indennità. - 6 I diritti del proprietario effettivo. - 7 Opposizione alla stima.

1. Definizione e determinazione dell'indennità.

In tema di occupazione acquisitiva, appare interessante segnalare la sentenza della Sez. 1, n. 13294 (Rv. 623515), che chiarisce la distinzione tra indennizzo ed indennità di espropriazione.

In particolare, la Suprema Corte sostiene che nell'occupazione acquisitiva il fatto generatore di danno è costituito dalla condotta illecita della P.A. espropriante, concretatasi anzitutto nell'apprensione degli immobili senza alcun titolo e, quindi, nel perdurare della detenzione abusiva ed irreversibile senza più rimettere i beni nella disponibilità del proprietario, sicché l'indennizzo dovuto a tale titolo si diversifica dall'indennità di espropriazione proprio per la sua natura risarcitoria, ancorata all'intero valore dell'immobile, che non tollera il ricorso a criteri riduttivi per la sua liquidazione.

L'indirizzo ribadisce, nella sostanza, quanto la Corte aveva precisato con la sentenza Sez. 1, n. 12495 del 1998 (Rv. 521568), approfondendo il contenuto della domanda indennitaria introdotta per mezzo dell'opposizione alla stima.

Secondo la Corte, la domanda indennitaria non può convertirsi in domanda risarcitoria da occupazione acquisitiva, stante la diversità del petitum e della causa petendi.

La prima, infatti, ha per oggetto il giusto indennizzo a norma dell'art. 42 Cost. e trova causa nella procedura espropriativa, mentre la seconda è volta ad ottenere il risarcimento del danno conseguente alla perdita di proprietà del bene irreversibilmente destinato alle esigenze dell'opera pubblica ed è fondata sulla illecita occupazione appropriativa. Si esclude, inoltre, proprio in ragione della diversità di petitum e di causa petendi, che si possano configurare ipotesi di litispendenza o di continenza fra le due suddette diverse cause, indennitaria e risarcitoria, eventualmente pendenti contemporaneamente fra le due parti.

La qualificazione giuridica delle domande evidenziata nelle sentenze richiamate ed i principî enunciati erano stati già individuati nella decisione della Sez. 1, n. 10535 del 2002 (Rv. 555945), con cui la Corte aveva chiarito che la domanda di determinazione dell'indennità di espropriazione si configura, rispetto a quella di risarcimento del danno da occupazione illegittima, come ontologicamente diversa, poiché il fatto costitutivo del diritto fatto valere (cosiddetta causa petendi) è rappresentato, quanto alla prima, dalla tempestiva emissione di un provvedimento ablatorio, ancorché sia mancata la stima amministrativa dell'indennità, mentre quello costitutivo della seconda è rappresentato da un comportamento illecito della P.A. Non sussiste, pertanto, rapporto di continenza (il quale postula che tra i due giudizi ci sia, oltre che identità soggettiva e differenza quantitativa di petitum, anche identità di causa petendi) tra la domanda di risarcimento del danno da occupazione illegittima e la domanda di determinazione dell'indennità di occupazione, e, dall'altra parte, la disciplina processuale della continenza non potrebbe comunque trovare applicazione, atteso che la seconda delle due indicate domande contenuta, in ipotesi, nella prima, è oggetto di competenza inderogabile per materia in favore della corte di appello, mentre la prima è di competenza del tribunale.

La determinazione dell'indennità di esproprio si basa su alcuni principî, compiutamente individuati sia dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che da quella di legittimità, ma che la Suprema Corte quest'anno – con la sentenza della Sez. 1, n. 893 (non massimata in quanto riepilogativa, ma proprio perciò utile in questa sede) – ha ribadito in maniera organica. Nella motivazione si spiega che l'indennità di esproprio, essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, è unica e non può superare in nessun caso il valore che questo presenta, in considerazione della sua concreta destinazione. Ne consegue che il termine di riferimento dell'unica indennità è, quindi, rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato, quale gli deriva dalle sue caratteristiche naturali, economiche e giuridiche, e soprattutto dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle: essa non può peraltro essere rapportata (all'infuori delle ipotesi previste dall'art. 15 della legge n. 865 del 1971) al pregiudizio che il proprietario risente come effetto del non potere ulteriormente svolgere, mediante l'uso dello stesso immobile, la precedente o altre attività (industriali o commerciali). A questo regime non si sottrae la c.d. occupazione espropriativa, pur essa appartenente alla materia delle espropriazioni per pubblica utilità considerate dal precetto dell'art. 42 Cost., che riserva al legislatore il potere discrezionale di modulare il contenuto, ampiezza e denominazione nelle varie fattispecie disciplinate. Proprio in forza della norma costituzionale, il valore di mercato assume nell'espropriazione illegittima la fisionomia di un risarcimento del danno integrale, corrispondente al valore venale pieno dell'immobile espropriato fino a raggiungere la sua massima estensione consentita. L'accertamento del valore dell'immobile può avvenire indifferentemente sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad individuare quello di trasferimento del fondo, e sia con metodi analitico-comparativi, volti invece a desumere dall'analisi del mercato il valore commerciale del fondo, non potendosi più stabilire dopo il sopravvenire del principio dell'edificabilità legale di cui all'art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, tra i due criteri un rapporto di regola/eccezione, come era in passato, allorché si attribuiva valore preminente a questi ultimi, perché era sufficiente l'edificabilità di fatto per liquidare l'indennità. Da qui la regola, che la giurisprudenza segue in maniera unanime, secondo cui rientra tra i compiti del giudice di merito la scelta del criterio di stima improntato per quanto possibile a criteri di effettività.

Un'interessante precisazione ha compiuto la Sez. 1, n. 14609 (Rv. 623746), secondo cui, in caso di occupazione usurpativa, se il proprietario del bene illecitamente occupato agisce con l'azione di restituzione, non si può far valere il limite intrinseco alla disciplina risarcitoria, come l'eccessiva onerosità prevista dall'art. 2058, secondo comma, cod. civ., né può farsi ricorso alla previsione del secondo comma dell'art. 2933 cod. civ., ove non risulti che la distruzione della res indebitamente edificata sia di pregiudizio all'intera economia del Paese, ma abbia al contrario, riflessi di natura individuale o locale.

Ha poi statuito la Sez. 1, n. 4207 (Rv. 621717), che l'occupazione abusiva di un fondo privato al di fuori di un procedimento di espropriazione (usurpativa) costituisce un fatto illecito permanente di diritto comune, soggetto alla disciplina degli art. 2043 e 2058 cod. civ. Tuttavia, ove il proprietario del bene, invece della restituzione, scelga di chiedere il pagamento del controvalore a titolo risarcitorio, in quanto ad esempio il bene sia stato distrutto o radicalmente modificato: a) la prescrizione decorre dal giorno della richiesta risarcitoria, che vale come implicita rinuncia a conseguire la tutela reale; b) il valore dell'immobile va determinato al momento in cui si consuma e si esaurisce l'evento lesivo che ha comportato la perdita definitiva.

2. Il momento consumativo dell'illecito.

Con riferimento alla determinazione del momento consumativo dell'illecito, la Suprema Corte, Sez. 1, con la sentenza n. 17069 (in corso di mass.) ha stabilito come determinare il momento temporale ai fini del risarcimento del danno. Va, infatti, tenuta distinta l'ipotesi in cui la radicale trasformazione dell'immobile si realizza durante il protrarsi di un situazione di detenzione illegittima, da quella in cui si verifica in pendenza di un decreto di occupazione, posto che solo in tal caso il momento consumativo dell'illecito deve essere differito alla scadenza dell'occupazione autorizzata, tenuto conto del fatto che nessun danno risarcibile sussiste, per definizione, nel periodo anteriore. Con la sentenza Sez. 1, n. 23711 (in corso di massimazione), la Corte ha chiarito che la sottrazione illecita del bene sussiste anche nell'ipotesi in cui la radicale trasformazione si sia verificata nel corso del periodo di occupazione temporanea, in quanto l'anticipazione nel tempo dell'esautoramento del proprietario di ogni contenuto del diritto si presenta come assistita da un crisma di legittimità rigidamente condizionato alla pronuncia del decreto di espropriazione prima della scadenza del termine assegnato alla occupazione medesima; scaduto il quale l'attività di irreversibile trasformazione diviene priva di giustificazione e quindi abusiva, ed al suo autore è addebitabile il perdurare dell'occupazione senza aver tempestivamente conseguito un titolo che lo autorizzasse.

3. La vocazione urbanistica del bene espropriato.

In tema di espropriazione per pubblica utilità, ai fini della determinazione dell'indennità è indispensabile accertare se sussista la destinazione urbanistica del bene.

A tale proposito, la Suprema Corte, con la citata sentenza Sez. 1, n. 17069 ha stabilito che il carattere edificatorio del suolo viene ricavato da un complesso di qualità e caratteristiche obiettive, desumibili da una serie di elementi certi ed inequivoci, attestanti comunque la sua concreta attitudine alla edificabilità: come esemplificativamente (ed innanzitutto) quelli concernenti l'ubicazione, l'accessibilità, lo sviluppo edilizio già in atto nella zona, i relativi indici di fabbricabilità e le altre disposizioni urbanistiche che la riguardano, l'esistenza e l'utilizzabilità di collegamenti viari, di impianti di servizi pubblici essenziali ed infrastrutture necessarie alla vita di una comunità sociale, nonché la prossimità alle vie di comunicazione e di collegamento con i centri urbani. Ne consegue che va esclusa l' "edificabilità di fatto " di un suolo quando le dimensioni dell'area sono insufficienti per edificare, per l'esaurimento degli indici di fabbricabilità della zona a causa delle costruzioni realizzate, per la distanza dalle opere pubbliche, per l'esistenza di prescrizioni e vincoli legislativi ed urbanistici che incidono in misura determinante sulla edificabilità effettiva, quale attitudine del suolo ad essere sfruttato e concretamente destinato a fini edificatori.

Si segnala, a tale proposito, anche la sentenza della Sez. 1, n. 2062 (Rv. 621573), con cui la Corte, con riferimento all' "edificabilità di fatto ", stabilisce che nella liquidazione del danno da occupazione appropriativa di area sita in Comune sprovvisto di strumenti urbanistici generali, il parametro della c.d. edificabilità di mero fatto, per la determinazione del valore venale delle aree occupate, è utilizzabile in via suppletiva. In mancanza di strumenti urbanistici idonei ad inquadrare l'area espropriata tra quelle edificabili o agricole, detto valore è correttamente liquidato tenendo conto delle obiettive caratteristiche della zona e della possibile utilizzazione del terreno, anche in relazione al contesto tecnico e geologico, mentre non rilevano le difficoltà tecniche della edificazione nelle aree occupate, poiché esse comportano solo aumenti di costi di costruzione senza escluderne la edificabilità di fatto.

Con riferimento al valore urbanistico del terreno, la Corte – Sez. 1, n. 11408 (Rv. 623112) – precisa che l'assegnazione di certi spazi a standards all'interno di una determinata zona omogenea può incidere sull'accertamento del valore di un fondo incluso nella stessa, quale elemento di valutazione delle concrete possibilità di sfruttamento edilizio dell'immobile, ma non consente di affermare la vocazione edificatoria in contrasto con la destinazione risultante dalla sua classificazione urbanistica. Il principio è ribadito da altra sentenza – Sez. 1, n. 4783 (Rv. 621816) – nelle ipotesi in cui si utilizzi il criterio di stima c.d. sintetico-comparativo nella liquidazione dell'indennità. Nella specie, secondo la Corte occorre attribuire al bene da stimare il prezzo di mercato di immobili "omogenei ", con riferimento non solo agli elementi materiali, quali la natura, la posizione, la consistenza morfologica e simili, e temporali, ma soprattutto alla sua condizione giuridica urbanistica all'epoca del decreto ablativo. Il giudice di merito, per applicarlo correttamente, è tenuto ad indicare gli elementi di comparazione utilizzati e documentarne la rappresentatività in riferimento ad immobili con caratteristiche analoghe a quello espropriato.

Il criterio temporale quale presupposto di valutazione di immobili omogenei, ai fini della comparazione, viene richiamato dalla Sez. 1, n. 12213 (Rv. 623456), con cui la Corte ha ribadito che la valutazione comparativa va effettuata con riferimento al valore dell'immobile per come quantificato nel medesimo periodo di riferimento. In particolare, si dice che in tema di determinazione dell'indennità di esproprio, posto che il mercato immobiliare risente di variabili macroenomiche diverse dalla fluttuazione della moneta nel tempo, anche se a questa parzialmente legate, e di condizioni microeconomiche dettate dallo sviluppo edilizio di una determinata zona, che sono completamente avulse dal valore della moneta, è inammissibile l'accertamento del valore del fondo espropriato attraverso la comparazione con il prezzo di immobili omogenei, oggetto di trasferimento, in un periodo diverso dalla data dell'esproprio, riportando poi il dato monetario a ritroso fino alla data dell'esproprio, con l'uso di tabelle Istat; queste ultime riflettono le variazioni dei prezzi al consumo, ma non tengono conto delle quotazioni di mercato degli immobili, per cui l'andamento del mercato immobiliare richiede un'indagine specifica nel settore.

Anche in relazione ai vincoli conformativi, la Suprema Corte impone l'applicazione del criterio generale dell'indennizzo tenendo conto degli strumenti di pianificazione urbanistica, dovendosi considerare le obiettive e intrinseche caratteristiche e attitudini dell'area in relazione alla utilizzazioni ulteriori e diverse da quelle agricole, intermedie tra le stesse e quelle edificatorie (quali parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti), consentite dalla normativa vigente e conformi agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 1, n. 8442, Rv. 623304). La ricognizione della qualità edificatoria di un'area ai fini della determinazione dell'indennità deve tenere conto dei vincoli conformativi, che, in quanto non correlati alla vicenda ablatoria, ma connaturati alla proprietà in sé, contribuiscono a fondare i caratteri del suolo ai fini valutativi.

Secondo la Corte, un vincolo di in edificabilità di tipo paesaggistico non solo può derivare dalle previsioni di un piano paesistico, ma può essere inerente alla natura dei beni e scaturire, in via predeterminata e generale, dalla ubicazione di questi ultimi. Il principio è stato enunciato dalla Corte con la sentenza della Sez. 1, n. 20383 (Rv. 724374), con cui si è precisato che tale vincolo è di natura conformativa, determinando nella sostanza una limitazione della proprietà ab origine, in quanto incidente sul suo valore; pertanto dello stesso si deve tenere conto in sede di determinazione dell'indennizzo per un'eventuale espropriazione, tanto da ritenere irrilevante, sempre ai fini della valutazione del bene, il regime imposto su di esso dalla disciplina urbanistica, che è comunque tenuta ad uniformarsi alla pianificazione. Il vincolo incide sulla c.d. edificabilità di fatto, anche nelle ipotesi di comuni privi, per qualsiasi ragione, di strumenti urbanistici di carattere generale, dovendo la valutazione di inedificabilità tenere conto di tutte le condizioni non solo fattuali, ma anche dipendenti dalle scelte urbanistiche e legislative, che, in concreto, concorrono a determinare il valore venale di un cespite sul mercato immobiliare, rendendola pertanto incompatibile con le prescrizione imposte dall'art. 1 della legge 8 agosto 1988, n. 431 ( c.d. Legge Galasso).

4. Il diritto al pagamento dell'indennità (interessi e rivalutazione).

L'indennizzo dovuto dallo Stato in caso di espropriazione non può ritenersi legittimo, se non consiste in una somma che si ponga in rapporto ragionevole con il valore del bene. Oltre al controvalore del bene, spettano al proprietario anche gli interessi moratori computati dal giorno in cui si protrae l'occupazione abusiva.

Il richiamo agli interessi moratori, previsti dall'art. 1224 cod. civ. in misura pari al tasso legale, e quindi alla disciplina prevista per i danni nelle obbligazioni pecuniarie, è espressione dell'avvicinamento del credito risarcitorio da occupazione abusiva, tradizionalmente classificato come credito di valore, a quello indennitario, che integra invece un classico credito di valuta.

A tale riguardo, la Suprema Corte con la sentenza Sez. 1, n. 3738 (Rv. 621900) ha precisato che la natura di debito di valuta dell'indennità di espropriazione – che, a differenza dell'obbligazione risarcitoria, non è soggetta a rivalutazione monetaria automatica – impone al titolare del bene di proporre la domanda di ristoro del maggior danno ai sensi dell'art. 1224 cod. civ., allegandone le circostanze necessarie e fornendone la relativa prova.

5. Espropriazione parziale: particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito della realizzazione dell'opera pubblica.Indennità.

La Suprema Corte, con la sentenza della Sez. 1, n. 9541 (Rv. 623114), ha specificato che l'espropriazione parziale, regolata dall'art. 40 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, si verifica quando la vicenda ablativa investa parte di un complesso immobiliare appartenente allo stesso soggetto e caratterizzato da un'unitaria destinazione economica, ed inoltre implichi per il proprietario un pregiudizio diverso da quello ristorabile mediante l'indennizzo calcolato con riferimento soltanto alla porzione espropriata, per effetto della compromissione o comunque dell'alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione e del connesso deprezzamento di essa. Pertanto, l'espropriazione di un terreno adiacente ad un fabbricato, che abbia o no i connotati della pertinenza di cui all'art. 817 cod. civ., non è riconducibile nell'ambito dell'espropriazione parziale e delle regole ad essa attinenti, se l'unico proprietario dell'insieme non riceva un impoverimento maggiore rispetto a quello correlato al valore del terreno medesimo in sé considerato.

Le Sezioni Unite, nel 2012, hanno ribadito che l'art. 40 l. n. 2359 del 1865 è norma comprensiva di ogni ipotesi di diminuzione del valore (nella specie "interclusione ") della parte non interessata dall'espropriazione. Invero, nell'espropriazione parziale va compresa ogni ipotesi di diminuzione di valore, come l'interclusione della parte non interessata dall'espropriazione, con necessario riferimento al concetto unitario di proprietà e al nesso di funzionalità tra ciò che è stato oggetto del provvedimento ablativo e ciò che è rimasto nella disponibilità dell'espropriato: il deprezzamento subito dalle parti residue del bene espropriato va ricondotto alla voce ricompresa nell'indennità di espropriazione. Questo principio è stato enunciato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 10502 (Rv. 623032) per i suoli a destinazione agricola, ribadendo un indirizzo già espresso in passato in relazione al diritto del proprietario al risarcimento del danno per particelle rese inagibili o inutilizzabili a seguito della realizzazione dell'opera pubblica (con le sentenze n. 591 del 2008, Rv. 601525, n. 3175 del 2008, Rv. 601434 e n. 24304 del 2011, Rv. 620604). L'indirizzo enunciato, come si diceva, è conforme a quanto affermato dalle S.U. qualche anno prima, con la sentenza n. 9041 del 2008 (Rv. 602801).

Le Sezioni Unite affermano, dunque, che il deprezzamento, subito dalle parti residue del bene espropriato, è da considerare voce ricompresa nell'indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l'intera diminuzione patrimoniale sofferta dal soggetto passivo del provvedimento ablativo, ivi compresa la perdita di valore della porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo, non essendo concepibili, in presenza di un'unica vicenda espropriativa, due distinte somme, imputate l'una a titolo di indennità di espropriazione e l'altra a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni. Ne deriva che va esclusa la risarcibilità del danno alle particelle rese inagibili o inutilizzabili (nella specie, intercluse) a seguito dell'opera pubblica, poiché trattasi di voce ricompresa nell'indennità di espropriazione, che riguarda l'intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo. Né rileva la circostanza che detti effetti negativi si siano realizzati su zone estranee alla dichiarazione di pubblica utilità, se determinati da opere previste e conformi al progetto dell'opera pubblica.

Pertanto, nel caso in cui il giudice di merito accerti, anche d'ufficio, che la parte residua del fondo sia intimamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed oggettivo (tale, cioè, da conferire all'intero immobile unità economica e funzionale) e che il distacco da parte di esso influisca oggettivamente in modo negativo sulla parte residua – indagine che resta nell'ambito della determinazione dell'indennità, sicché il pregiudizio alla parte residua viene valutato non ai fini risarcitori, ma come parametro indennitario – deve riconoscere al proprietario il diritto ad un'unica indennità, consistente nella differenza tra il giusto prezzo dell'immobile prima dell'occupazione ed il giusto prezzo (potenziale) della parte residua dopo l'occupazione dell'espropriante.

In particolare, la Corte chiarisce che, qualora si tratti di un compendio a destinazione unitaria agricola, il danno alla residua proprietà trova riconoscimento solo nel quadro della perdita di valore della parte non interessata dal provvedimento ablativo, secondo il metodo tracciato dall'art. 40 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, con la conseguenza che l'accettazione dell'indennità di esproprio comporta il rigetto della domanda in ordine ai danni lamentati alle particelle strettamente contigue a quelle espropriate e facenti parte del complessivo fondo, sul quale è stata realizzata l'opera.

Per completezza, si segnala che in passato la Suprema Corte era di indirizzo contrario, in quanto con la sentenza Sez. 1, n. 3603 del 1981 (Rv. 414214) si era ritenuto che in caso si espropriazione parziale per pubblica utilità, il proprietario, anche se non si fosse avvalso della facoltà, concessagli dall'art. 23 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, di chiedere all'autorità amministrativa l'estensione del provvedimento ablativo alla residua frazione del bene, conservasse il diritto ad una ulteriore indennità se a tale frazione fosse derivato un decremento di valore dall'esecuzione dell'opera pubblica.

6. I diritti del proprietario effettivo.

La Corte ha più volte sottolineato come i titolari espropriati intraprendono un'azione a seguito di occupazione illegittima dei loro terreni, facendo valere il loro diritto di proprietà, quale riconosciuto dagli art. 42 Cost. ed 1 dell'allegato alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sugli immobili dapprima appresi e, poi, detenuti senza titolo dagli enti esproprianti, deducendo di esserne stati illegittimamente privati del godimento ed invocando la tutela concessa dagli art. 2043 e 2058 cod. civ. contro il fatto ingiusto delle controparti, non supportato da idonea attività provvedimentale e ritenuto lesivo del loro diritto dominicale. Il principio è stato ribadito dalla sentenza Sez. 1, n. 23711, già menzionata, nella cui parte motiva si stabilisce anche che la ragione giuridica costitutiva della loro pretesa non trae ragione e fondamento dal rapporto derivante dalla cooperazione tra gli enti a questa interessati e dai provvedimenti e/o convenzioni che da essa derivano, nonché dai rispettivi obblighi ivi assunti in ordine al compimento di questo o di quello degli atti del procedimento ablativo, cui il proprietario resta del tutto estraneo, trattandosi, invece, di un'azione risarcitoria correlata al diritto di proprietà sull'immobile, preesistente al procedimento ablatorio.

Il decreto di esproprio può essere notificato ad un soggetto risultante dai registri catastali diverso dal proprietario effettivo del bene. La procedura espropriativa, prevista dalla legge 20 ottobre 1971, n. 865, va iniziata e proseguita nei confronti dei proprietari iscritti nei registri immobiliari, in favore dei quali, pertanto, deve essere effettuato il pagamento delle dovute indennità. Ai fini dell'individuazione del titolare del diritto al risarcimento del danno, la Corte ha ribadito che il pagamento delle indennità deve essere effettuato nei confronti dei proprietari iscritti nei registri immobiliari, anche se l'interessato ha l'onere di dimostrare in giudizio di essere proprietario del fondo, indipendentemente dalle risultanze catastali.

In particolare, con la sentenza Sez. 1, n. 7904 (Rv. 622858) la Suprema Corte ha stabilito che, ai fini della individuazione del titolare del diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà di un immobile (conseguente, nella specie, ad una occupazione usurpativa), così come dell'avente diritto all'indennità di espropriazione, l'interessato deve dimostrare in giudizio di essere proprietario del fondo, indipendentemente dalle risultanze catastali e, a tal fine, il giudice può formare il proprio convincimento circa la legittimazione di chi agisce sulla base di qualsiasi elemento, documentale o presuntivo, sufficiente ad escludere una erronea destinazione del pagamento; oggetto del giudizio non è, infatti, l'accertamento diretto della proprietà, dovendo il relativo diritto essere dimostrato al solo fine di individuare l'avente diritto al risarcimento.

7. Opposizione alla stima.

In tema di espropriazione per pubblica utilità, gli interventi più significativi si registrano in materia di opposizione alla stima.

La domanda di opposizione alla stima, come disciplinata dall'art. 54 T.U. in materia di espropri (d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) ed a seguito delle successive modifiche introdotte con d. lgs. n. 150 del 2011, va proposta, a pena di inammissibilità, alla corte di appello nel cui distretto si trova il bene espropriato, entro il termine di trenta giorni dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica della stima peritale, se quest'ultima sia successiva al decreto di esproprio.

Con la citata sentenza n. 23711, la Corte ha precisato che parte del rapporto espropriativo ed obbligato al pagamento dell'indennità verso il proprietario espropriando (o espropriato), e come tale legittimato passivo nel giudizio di opposizione alla stima che sia stato da quest'ultimo proposto, è il soggetto occupante (o espropriante), vale a dire quello a cui favore è pronunziato il decreto di occupazione (o di espropriazione), anche nell'ipotesi di concorso di più enti nell'attuazione dell'opera pubblica; salvo che dal decreto stesso non emerga che ad altro ente, in virtù di atti amministrativi e mediante figure sostitutive a rilevanza esterna (delegazione amministrativa, affidamento in proprio, concessione traslativa e simili), siano stati conferiti i poteri e la funzione propri del soggetto espropriante.

In tema di opposizione alla stima, il decreto di esproprio è una condizione dell'azione, per tale ragione è sufficiente che venga ad esistenza prima della decisione della causa. Il principio è stato ribadito dalla Suprema Corte con la sentenza Sez. 1, n. 11406 (Rv. 623072), secondo cui il decreto di esproprio segna la conclusione del procedimento di espropriazione, determinando il trasferimento della proprietà dell'immobile in favore dell'espropriante e facendo sorgere il diritto dell'espropriato all'indennità; pertanto, nel giudizio di opposizione alla stima, la sua emanazione si configura non già come presupposto processuale, alla cui esistenza è subordinata la possibilità di pervenire ad una decisione di merito, ma come condizione dell'azione, la cui mancanza impedisce l'accoglimento della domanda, escludendo la configurabilità del diritto che ne costituisce il fondamento.

La decisione si pone nel solco di sentenze precedenti in materia di decreto di esproprio. Infatti, secondo la Sez. 1, n. 18975 del 2011 (Rv. 619089), nel caso in cui, nel corso del giudizio proposto per il risarcimento del danno da occupazione illegittima, sopravvenga il rituale e tempestivo decreto di espropriazione, la domanda risarcitoria si converte automaticamente in quella di opposizione alla stima, senza necessità di espressa domanda di liquidazione dell'indennità, stante la garanzia costituzionale secondo cui la proprietà non tollera il sacrificio senza adeguato ristoro per il titolare.

Con la sentenza della Sez. 1, n. 8442 (Rv. 623305), la Suprema Corte chiarisce che in tema di opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione (o di occupazione temporanea), l'oggetto del giudizio è rappresentato dalla congruità e conformità di essa ai criteri di legge, principî che devono essere coordinati a quello della domanda, derivandone che, se questa è formulata soltanto dall'espropriato, l'opposizione può condurre a determinare un'indennità maggiore, e non inferiore, rispetto a quella calcolata in sede amministrativa, in difetto di una domanda formulata dall'espropriante. Nel caso in cui l'accertamento conduca ad un tale risultato, il giudice deve limitarsi a respingere la domanda, altrimenti incorrendo nel vizio di ultrapetizione, salvo che l'espropriante, convenuto in opposizione, abbia ritualmente proposto a tal fine domanda riconvenzionale. Nell'affermare tale principio, la Corte sostiene che solo la proposizione di una domanda riconvenzionale, nelle forme e nei termini stabiliti per quest'ultima dall'art. 167, comma secondo, cod. proc. civ., può consentire una variazione al ribasso della somma fissata in sede di valutazione amministrativa e non è più vincolata al termine per l'opposizione, quale che ne sia il decorso. È anche detto in motivazione che, qualora si sia in presenza di una indennità provvisoria non accettata, non sussistendo una stima compiuta in via amministrativa avente carattere di definitività, l'espropriante può, nel relativo giudizio, contrastare la domanda dell'espropriato adducendo argomenti ed indicando i criteri che, a suo avviso, giustificherebbero la liquidazione di una indennità inferiore rispetto a quella azionata. Qualora invece vi sia stata la stima definitiva, i poteri spettanti al giudice incontrano un limite nell'operatività del principio della domanda, conseguente all'applicazione dell'art. 19, comma secondo, della legge n. 865 del 1971, il quale, imponendo ad entrambe le parti di proporre opposizione, ove intendano ottenere la liquidazione di una indennità diversa da quella determinata dalla Commissione provinciale, comporta che solo in assenza di una opposizione dell'espropriante è preclusa al giudice la determinazione di una indennità inferiore a quella calcolata in sede amministrativa.

La motivazione della decisione richiama la sentenza della Sez. 1, n. 3048 del 2 marzo 2001 (Rv. 544342), che ricorda l'indirizzo sopra enunciato, in quanto stabilisce il principio secondo cui la tempestiva opposizione alla stima da parte dell'espropriato fa venire meno l'efficacia vincolante della stima stessa per tutti i soggetti del rapporto espropriativo, con la conseguenza che l'espropriante può legittimamente svolgere, in giudizio, le sue difese in ordine all'accertamento dell'indennità di esproprio. Anche in questa decisione si dice che nell'ipotesi in cui si sia in presenza di una stima definitiva deve ritenersi necessaria una esplicita domanda dell'espropriante medesimo, da formularsi nelle forme e nei termini della domanda riconvenzionale, nel solo caso in cui venga da lui richiesta la determinazione giudiziale dell'indennità in misura inferiore a quella stabilita in sede amministrativa. Nel caso, invece, l'indennità provvisoria non sia accettata, le argomentazioni difensive non impongono l'osservanza delle forme della domanda riconvenzionale e non sono soggette al regime delle preclusioni per essa previste.

La soluzione cui aderisce la Suprema Corte, ed espressa nella decisione dell'ultimo anno, si inserisce nel percorso già tracciato in passato. A tale riguardo si fa riferimento alle sentenze Sez. 1, n. 3902 del 1995 (Rv. 491604) e Sez. 1, n. 2260 del 1984 (Rv. 434299) con cui si era affermato che, una volta iniziata la fase giurisdizionale dell'opposizione alla stima, da parte di uno dei soggetti legittimati del rapporto espropriativo, la domanda riconvenzionale dell'altra parte, pure rivolta alla determinazione della giusta indennità, poteva essere validamente proposta nelle forme e nei termini del codice di rito, senza che fosse più vincolata al termine per l'opposizione.

Va precisata, al riguardo, anche la parzialmente diversa decisione di Sez. 1, n. 2329 (Rv. 621330), secondo cui l'opposizione alla stima ha ad oggetto l'accertamento della giusta indennità, pertanto il giudice non è vincolato alle domande delle parti, potendo ridurre l'indennità e il valore venale, stimato dalla commissione provinciale espropri, anche nel caso in cui l'ente locale non abbia mai impugnato la stessa ed abbia addirittura chiesto la conferma nel giudizio di opposizione proposto dall'espropriato.

Con riferimento ai poteri del giudice nell'accertamento della giusta indennità, giova precisare che anche in precedenza la Corte di cassazione, con la sentenza della Sez. 1, n. 2787 del 2009 (Rv. 606583) ha affermato che, nel caso in cui il privato non abbia accettato l'indennità provvisoria offerta dalla P.A. ed abbia intrapreso l'azione per la determinazione della giusta indennità, questa non si configura come opposizione alla determinazione dell'indennità medesima, ma come domanda di accertamento diretta fin dall'origine alla fissazione di essa e pertanto la corte di appello è tenuta a compiere la liquidazione, anche in misura inferiore a quella pretesa od a quella offerta in via amministrativa, senza per questo incorrere nel vizio di ultrapetizione. Analogo indirizzo si rinviene nella sentenza della Sez. 1, n. 1701 del 2005 (Rv. 579917). La Corte ha, infatti, sostenuto che nel giudizio introdotto dall'espropriato per la determinazione dell'indennità di espropriazione, in presenza di una indennità provvisoria non accettata ed in assenza di una stima operata in sede amministrativa con caratteri di definitività, la contestazione, da parte dell'espropriante, dei criteri indicati dall'espropriato per la determinazione dell'indennità, con indicazione di diversi criteri, non integra una domanda riconvenzionale, soggetta alle preclusioni per tale domanda previste. Ne consegue che il giudice deve procedere alla determinazione in sede giudiziaria del quantum dell'indennità sulla base di parametri normativi vigenti e ritenuti applicabili nei singoli casi, indipendentemente non solo dalle deduzioni delle parti al riguardo, ma anche dei criteri seguiti dall'espropriante nel formulare l'offerta, con la conseguenza che lo stesso giudice può liquidare l'indennità in misura inferiore a quella pretesa senza incorrere nel vizio di ultrapetizione.

PARTE TERZA LE OBBLIGAZIONI E I CONTRATTI

  • obbligazione
  • diritti di obbligazioni

CAPITOLO VII

LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE

(di Enrico Carbone )

Sommario

1 Fonti e adempimento. - 2 L'inadempimento. - 3 Modi di estinzione diversi dall'adempimento. - 4 La cessione dei crediti. - 5 L'accollo. - 6 Obbligazioni pecuniarie. - 7 Obbligazioni solidali.

1. Fonti e adempimento.

Appare di notevole interesse la delimitazione dell'emergente figura del contatto sociale, quale fonte non contrattuale, né aquiliana, bensì ascrivibile alla locuzione di chiusura dell'art. 1173 cod. civ. («ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico»). Com'è noto, le applicazioni giurisprudenziali della teoria del contatto sociale hanno l'effetto sistematico di dilatare l'ambito della responsabilità contrattuale, per lo più a discapito dell'istituto extracontrattuale, giacché, pure in assenza di un vincolo negoziale, la disciplina di riferimento è quella dell'inadempimento contrattuale, venendo in rilievo l'inosservanza di una specifica obbligazione ex lege.

La Corte ha inteso precisare che la responsabilità da contatto sociale, soggetta alle regole della responsabilità contrattuale pur in assenza di un vincolo negoziale tra danneggiante e danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in cui taluno, nell'eseguire un incarico conferitogli da altri, noccia a terzi, come conseguenza riflessa dell'attività così espletata, ma solo quando il danno sia derivato dalla violazione di una precisa regola di condotta, imposta dalla legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai rischi dell'attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell'art. 1173 cod. civ. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico (Sez. 1, n. 11642, Rv. 623269; sulla responsabilità da contatto sociale, v. pure il cap. XI, §§ 2 e 7.1).

Circa le tematiche generali dell'adempimento, si è riconosciuto anche al creditore di risarcimento il potere di rifiutare l'adempimento parziale, contemplato dall'art. 1181 cod. civ. quale mezzo di autotutela, soggetto al limite della buona fede: la vittima di un fatto illecito può legittimamente rifiutare la somma offertagli dal responsabile a titolo di risarcimento, se questa non sia sufficiente a coprire il danno, gli interessi e le spese, in quanto il creditore può sempre non accettare l'adempimento parziale, salvo che il debitore non dimostri che il rifiuto è contrario a buona fede (Sez. 3, n. 17140, Rv. 623990).

È opportuno segnalare, inoltre, alcuni arresti, concernenti, rispettivamente, la destinazione di pagamento ex art. 1188 cod. civ., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ., l'imputazione di pagamento ex art. 1193 e 1194 cod. civ. ed il deposito liberatorio ex art. 1210 cod. civ.

In ordine al destinatario del pagamento, si è affermato, riguardo al credito di compenso dell'amministratore di società, che il pagamento fatto al terzo libera il debitore solo ove quest'ultimo provi che il creditore avesse indicato il terzo come adiectus solutionis causa, solo ove il debitore dimostri, cioè, la positiva manifestazione di volontà del creditore nel senso che il pagamento fosse eseguito in mani altrui (Sez. 1, n. 390, Rv. 621141).

Nella fattispecie del pagamento dei ratei pensionistici da parte dell'istituto previdenziale, il debitore il quale abbia incaricato una banca di emettere e spedire assegni circolari in favore del creditore si libera solo quando il creditore stesso acquista la disponibilità giuridica della somma di danaro, sicché il pagamento del titolo a persona diversa non estingue il debito, che il debitore deve ugualmente onorare, salva rivalsa nei confronti della banca, se venuta meno alla diligenza del mandatario (Sez. L, n. 572, Rv. 620207).

In ordine al pagamento al creditore apparente, la Corte ha ribadito che l'art. 1189 cod. civ., il quale riconosce efficacia liberatoria al pagamento effettuato in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo, si applica, per identità di ratio, sia all'ipotesi del pagamento eseguito a chi appaia creditore, senza esserlo, sia all'ipotesi del pagamento eseguito a chi appaia autorizzato a riceverlo per conto del creditore effettivo, se quest'ultimo ha determinato, o concorso a determinare, l'errore del solvens, facendo sorgere in lui un ragionevole affidamento sulla veridicità dei poteri rappresentativi dell'accipiens (Sez. 2, n. 15339, Rv. 623809).

Il conduttore il quale, alla morte del locatore, continui, in buona fede, a versare i canoni nelle mani dell'erede legittimo e legittimario, in possesso dei beni ereditari, è liberato dall'obbligazione, non rilevando che esista controversia tra i coeredi sull'attribuzione dell'eredità, né che alcuno degli eredi abbia fatto pervenire copia del testamento al conduttore, restando a carico del creditore l'onere di dimostrare il colpevole affidamento del conduttore medesimo (ord., Sez. 6-3, n. 8581, Rv. 622849).

In ordine all'imputazione di pagamento ex art. 1193 cod. civ., è stata introdotta una deroga al principio secondo cui, ove il convenuto per il pagamento di un debito provi di aver corrisposto una somma di danaro idonea all'estinzione del medesimo, spetta al creditore, il quale sostenga che il pagamento sia da imputare all'estinzione di un debito diverso, allegare e provare l'esistenza di quest'ultimo nonché la sussistenza delle condizioni necessarie per la dedotta imputazione alternativa: tale principio, espressione di favor debitoris, è stato ritenuto inapplicabile nel caso in cui il debitore eccepisca l'estinzione del debito fatto valere in giudizio per effetto dell'emissione di assegni bancari, atteso che, implicando tale emissione la presunzione di sussistenza di un rapporto fondamentale idoneo a giustificare la nascita di un'obbligazione cartolare, resta a carico del debitore convenuto l'onere di provare il collegamento tra il debito azionato e il debito cartolare, con conseguente estinzione del primo per effetto del pagamento degli assegni (Sez. 3, n. 3008, Rv. 621475).

In ordine all'imputazione di pagamento ex art. 1194 cod. civ., la Corte ha ribadito, in tema di appalti pubblici, che il pagamento parziale va imputato agli interessi e non al capitale, a meno che vi sia prova del consenso del creditore ad una diversa imputazione, non costituendo, a tal fine, prova sufficiente, nel caso di pagamento effettuato da un'amministrazione pubblica, il fatto che il privato creditore, tenuto a rilasciare ricevuta di pagamento, sottoscriva per quietanza il titolo di spesa in cui l'amministrazione stessa abbia imputato al capitale la somma erogata a parziale pagamento del debito (Sez. 1, n. 17197, Rv. 623878).

Da ultimo, in ordine al deposito liberatorio, si è statuito che, per la validità dell'offerta reale, il deposito della somma di danaro rifiutata dal creditore, di cui all'art. 1210 cod. civ., può essere eseguito mediante versamento dell'importo dovuto in un libretto al portatore, il quale deve, tuttavia, rimanere nella disponibilità del depositario, cosicché la scelta dell'istituto di credito depositario di consegnare materialmente al debitore tale libretto al portatore, senza apporre vincoli di destinazione sulla somma versata, priva di effetto il deposito medesimo, ai sensi dell'art. 1213, primo comma, cod. civ., valendo come ritiro dello stesso (Sez. 3, n. 3248, Rv. 622019).

2. L'inadempimento.

Per quanto attiene alla responsabilità da inadempimento contrattuale, va segnalata una decisione che qualifica in senso rigoroso il parametro della diligenza professionale ex art. 1176, secondo comma, cod. civ. e ne chiarisce il rapporto con l'esimente per colpa lieve, concessa al professionista intellettuale dall'art. 2236 cod. civ.

La diligenza esigibile dal professionista è una diligenza speciale e rafforzata, tanto più quanto più specialistica sia la prestazione richiesta, sicché, nella controversia relativa all'inadempimento contrattuale del professionista, questi, per andare esente da responsabilità, ha l'onere di provare che l'insuccesso è dipeso da causa a lui non imputabile, anche se la prestazione richiedeva la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, posto che problemi speciali esigono dal medesimo una competenza speciale e posto che l'art. 2236 cod. civ. non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso d'insuccesso di prestazioni complesse, ma si limita a dettare un criterio per la valutazione della diligenza professionale (Sez. 3, n. 16254, Rv. 623700).

La caratteristica elasticità dello standard professionale viene efficacemente illustrata quando si statuisce che la diligenza esigibile dal medico, pur essendo quella rafforzata di cui al secondo comma dell'art. 1176 cod. civ., non é sempre la medesima, variando col grado di specializzazione di cui sia in possesso il medico e col grado di efficienza della struttura in cui egli si trova ad operare, sicché dal medico di alta specializzazione e inserito in una struttura di eccellenza è esigibile una diligenza più elevata di quella esigibile, dinanzi al medesimo caso clinico, dal medico con minore specializzazione o inserito in una struttura meno avanzata (Sez. 3, n. 17143, Rv. 623986).

La diligenza qualificata del professionista si declina anche come cautela, giusta la regola di precauzione: il fatto che una legge ambigua o una giurisprudenza contrastata renda incerto l'obbligo notarile di eseguire un adempimento teoricamente necessario per la validità o l'opponibilità dell'atto rogato non esclude la responsabilità del notaio nel caso in cui l'adempimento omesso risulti effettivamente dovuto, atteso che il notaio, dinanzi a contesti normativi ambigui, ha il preciso obbligo, impostogli dall'art. 1176, secondo comma, cod. civ., di osservare un principio di precauzione e adottare la condotta più idonea a salvaguardare gli interessi del cliente (Sez. 3, n. 20995, in corso di massimazione); in tema, si veda pure il cap. XII.

Nell'ambito della disciplina generale della prova liberatoria da responsabilità contrattuale, è stata ribadita l'insufficienza del factum principis, ove esso non corrisponda ad un giudizio di non imputabilità dell'inadempimento. L'impossibilità della prestazione (nella specie, per intervenuto sequestro penale dei conti correnti sui quali erano versate le somme necessarie a corrispondere il prezzo della vendita) esime il debitore dalla responsabilità contrattuale solo a condizione che egli provi la non imputabilità, anche remota, dell'evento impeditivo, non essendo rilevante, altrimenti, l'astratta configurabilità del factum principis (Sez. 2, n. 6594, Rv. 622329).

L'atto amministrativo illegittimo, che impedisca la prestazione contrattuale incidendo su un momento strumentale o finale della relativa esecuzione – cioè, il cosiddetto factum principis – non esonera il debitore da responsabilità, ove egli vi abbia dato causa colposamente o non si sia diligentemente attivato per ottenerne la revoca o l'annullamento (Sez. 1, n. 17771, in corso di massimazione).

La Corte è stata chiamata a pronunziarsi su un'ipotesi seriale di responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari, ai sensi dell'art. 1228 cod. civ., ipotesi che è stata, tuttavia, esclusa.

Invero, nel regime del d. lgs. 16 marzo 1999, n. 79, la GRTN s.p.a (Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale) non è ausiliario dell'ENEL Distribuzione s.p.a., bensì soggetto autonomo e indipendente da tutti gli operatori del settore elettrico, rispetto ai quali essa si colloca, anzi, in una posizione di supremazia e monopolio nella gestione della rete di trasmissione, senza soggiacere ad alcun potere di direzione e controllo da parte di ENEL, sicché la mancata fornitura di energia elettrica dalla società GRTN alla società ENEL integra gli estremi del fatto non imputabile ed esclude che la seconda possa essere chiamata a risarcire il danno patito dagli utenti finali a causa di un black out (ord., Sez. 6-3, n. 822, Rv. 620496).

3. Modi di estinzione diversi dall'adempimento.

Si segnala, in primo luogo, una decisione che, muovendosi nell'ambito della teoria negoziale della novazione oggettiva, ha ribadito l'essenzialità dell'elemento volontaristico dell'animus, desumendone l'esclusione dell'effetto estintivo in un'importante fattispecie lavoristica.

Atteso che la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione del precedente, con nuove ed autonome situazioni giuridiche, elementi essenziali ne sono, oltre ai soggetti e alla causa, l'animus novandi, consistente nell'inequivoca comune intenzione delle parti di estinguere l'originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l'aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale dell'oggetto della prestazione o del titolo del rapporto, elementi specifici l'esistenza dei quali deve essere verificata in concreto dal giudice di merito, con accertamento di fatto che si sottrae al sindacato di legittimità soltanto se conforme alle disposizioni contenute negli art. 1230 e 1231 cod. civ. e se congruamente motivato: nella specie, la Corte ha escluso che, in presenza di contratti di lavoro a termine illegittimi, la successiva stipulazione di un contratto legittimo estingua il rapporto di lavoro a tempo indeterminato venutosi a creare a seguito dell'illegittimità dei precedenti contratti a termine, in assenza di indizî che permettano di ritenere che le parti, consapevoli della conversione del precedente rapporto, abbiano inteso costituire un nuovo rapporto di lavoro (Sez. L, n. 17328, Rv. 624144).

La Corte è stata chiamata a pronunziarsi anche sulla compensazione, nelle declinazioni della compensazione tecnica o propria, la quale, postulando l'autonomia genetica dei debiti, esige un'eccezione o una domanda riconvenzionali, e della compensazione atecnica o impropria, la quale, viceversa, postulando l'unicità genetica dei debiti, prescinde dalla necessità della riconvenzione. L'ambito elettivo di quest'ultima si individua nel rapporto di lavoro, il quale – subordinato, parasubordinato od autonomo – sovente costituisce la fonte unitaria di reciproche obbligazioni delle parti.

Proprio in quest'area (segnatamente, in un rapporto di agenzia) è stata configurata, da ultimo, la compensazione atecnica, appunto perché i crediti hanno origine da un unico rapporto – la cui identità non è esclusa dal fatto che uno dei crediti abbia natura risarcitoria da inadempimento –, nel qual caso la valutazione delle reciproche pretese comporta l'accertamento del dare e avere, senza che sia necessaria la proposizione di un'apposita domanda riconvenzionale o eccezione di compensazione, le quali presuppongono, invece, l'autonomia dei rapporti giuridici ai quali i crediti si riferiscono (Sez. L, n. 14688, Rv. 623624).

Analogamente, è stata ammessa la compensazione impropria tra il debito risarcitorio per il danno causato alla società dall'illecito del direttore generale, che aveva praticato vendite sottocosto e acquisti di materie prime in eccesso, e il credito vantato dal direttore generale nei confronti della società per il corrispettivo della prestazione d'opera (Sez. 1, n. 6801, Rv. 622584).

4. La cessione dei crediti.

Agli effetti dell'art. 1260 cod. civ., la Corte ha ribadito che, in linea di principio, nulla osta alla cedibilità del credito risarcitorio.

Il credito di risarcimento del danno da cosiddetto fermo tecnico, pari al costo del noleggio di un mezzo sostitutivo per il tempo occorrente alla riparazione dell'autovettura incidentata, è suscettibile di cessione, ai sensi degli art. 1260 e segg. cod. civ., e il cessionario può, in base a tale titolo, domandarne, anche giudizialmente, il pagamento al debitore ceduto, pur se assicuratore per la r.c.a., non sussistendo alcun divieto normativo in ordine alla cedibilità del credito risarcitorio (Sez. 3, n. 51, Rv. 621069).

Per quanto concerne l'oggetto della cessione, il disposto del primo comma dell'art. 1263 cod. civ., in base al quale il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, le garanzie reali e personali e gli «altri accessori», è stato interpretato nel senso che la cessione include la somma delle utilità che il creditore può trarre dall'esercizio del diritto ceduto, cioè ogni situazione giuridica direttamente collegata col diritto stesso, la quale, in quanto priva di profili di autonomia, integri il suo contenuto economico o ne specifichi la funzione, ivi compresi tutti i poteri del creditore relativi alla determinazione, variazione e modalità della prestazione, sicché, con la cessione, il credito di lavoro non muta la sua natura e la liquidazione giudiziale va effettuata al lordo delle ritenute fiscali e contributive (Sez. L, n. 13, Rv. 620383).

Sotto il profilo effettuale, la cessione del credito spiega effetti pieni, nei confronti del debitore ceduto, dal momento in cui sia stata a lui notificata a norma dell'art. 1264 cod. civ., cosicché la sopravvenienza del fallimento del cedente, dopo tale notificazione, come non legittima il curatore, ancorché erroneamente autorizzato dal giudice delegato, a riscuotere il credito, salvo il preventivo e vittorioso esperimento dell'azione revocatoria dell'atto di cessione, così non comporta l'efficacia liberatoria del pagamento che il debitore stesso abbia effettuato al curatore, restando preclusa ogni applicazione delle norme in tema di pagamento al creditore apparente (Sez. 3, n. 1012, Rv. 621113).

È confermato che la notifica di cui all'art. 1264 cod. civ. non va soggetta ad oneri formali. La notificazione della cessione del credito, infatti, non identificandosi con la notificazione effettuata ai sensi dell'ordinamento processuale, costituisce un atto a forma libera (Sez. 3, n. 1684, Rv. 621493).

Quanto ai riflessi processuali del negozio di cessione, la Corte ha statuito che il credito ceduto si trasferisce con tutte le sue caratteristiche, ivi compresa l'eventuale competenza speciale fissata dalla legge per le controversie che lo abbiano ad oggetto, sicché la competenza a conoscere della lite tra il cessionario di un credito di lavoro e il debitore ceduto va individuata in base alle regole dettate per le controversie di lavoro (ord., Sez. 6-3, n. 1118, Rv. 621209).

È stato poi ribadito che, nella controversia tra cessionario e ceduto, non sono litisconsorti necessari né il cedente né, in caso di cessioni consecutive del medesimo credito, i cessionari intermedi, a meno che la parte, che vi abbia interesse, non abbia domandato l'accertamento dell'esistenza del credito o dell'efficacia delle cessioni nei confronti di tutti i soggetti che vi hanno preso parte (Sez. 3, n. 8980, Rv. 622757).

Ha trovato conferma, altresì, il principio – correlato alla presunzione causale che assiste la cessione quale negozio a causa variabile – per cui il cessionario che agisce nei confronti del debitore ceduto è tenuto a dare prova soltanto del negozio di cessione quale atto produttivo di effetti traslativi e non anche a dimostrare la causa della cessione stessa, né il debitore ceduto può interferire nei rapporti tra cedente e cessionario, in quanto il suo interesse si concreta nel compiere un efficace pagamento liberatorio, sicché egli è soltanto abilitato ad indagare sull'esistenza e sulla validità estrinseca e formale della cessione, specie quando questa gli sia stata notificata dal solo cessionario (Sez. 3, n. 13691, Rv. 623586).

5. L'accollo.

La Corte ha avuto modo di tornare sul discrimen tra accollo cumulativo e accollo liberatorio, con particolare riguardo alla dichiarazione di adesione dell'accollatario, la quale – com'è noto – rende irrevocabile l'effetto esterno dell'accollo (art. 1273, primo comma, cod. civ.), ma, di per sé, non lo qualifica in senso liberatorio (art. 1273, secondo comma, cod. civ.).

L'atto di adesione del creditore ad un accollo condizionato alla liberazione del debitore originario ovvero la sua espressa dichiarazione di volere tale liberazione costituiscono dichiarazioni unilaterali con cui il creditore approva l'altrui convenzione ovvero, nell'eventualità che sia ancora da stipulare, l'autorizza, al fine di consentire che produca effetti nei suoi confronti (Sez. 3, n. 1352, Rv. 621273).

L'accertamento della dichiarazione del creditore di voler liberare il debitore originario, necessaria ai sensi dell'art. 1273, secondo comma, cod. civ., va compiuto previa verifica dell'esistenza di un contratto di accollo già stipulato tra debitore originario e terzo, mentre, per il caso in cui si deduca che il creditore abbia espresso un'autorizzazione preventiva all'accollo, la liberazione del debitore originario presuppone il riscontro che l'accollo sia stato effettivamente stipulato alle condizioni previste nell'autorizzazione (Sez. 3, n. 1352, Rv. 621274).

Ha trovato conferma l'orientamento per cui la mera adesione del creditore alla convenzione di accollo, in difetto di una espressa ed univoca manifestazione di volontà diretta a liberare il debitore originario, comporta unicamente l'effetto di degradare l'obbligazione dell'accollato ad obbligazione sussidiaria, istituendo l'onere dell'accollatario di escutere preventivamente l'accollante (Sez. 3, n. 1758, Rv. 621489).

Da ultimo, rammentata la teoria della doppia causa dell'accollo, quale riflesso della duplicità dei rapporti sottostanti (rapporto di provvista tra accollato e accollante, rapporto di valuta tra accollato e accollatario), si segnala un arresto sul cosiddetto accollo non allo scoperto, nel quale, cioè, l'accollante è debitore dell'accollato e il suo pagamento estingue, quindi, sia il proprio debito verso l'accollato, che il debito di quest'ultimo verso l'accollatario, producendosi l'effetto estintivo di entrambe le obbligazioni, automaticamente, con l'unico pagamento eseguito dall'accollante al creditore del suo creditore, atto suscettibile di revocatoria fallimentare, in quanto assimilabile ad un pagamento di terzo effettuato con provvista del fallito (Sez. 1, n. 6795, Rv. 622583).

6. Obbligazioni pecuniarie.

In tema di debiti di danaro, si segnalano due pronunzie sugli estremi della mora debendi, rilevanti ai fini della spettanza degli interessi moratori.

Si è ribadito che, in ordine alla prova dell'inesatto adempimento dell'obbligazione pecuniaria, allorquando il creditore deduca che l'inesattezza è costituita dal ritardo nel pagamento, in quanto effettuato oltre il termine stabilito dal contratto o dalla legge, è suo onere, allo scopo di conseguire per tale ritardo gli interessi moratori, indicare non solo il giorno di scadenza dell'obbligazione, ma anche il giorno successivo in cui è stato eseguito il pagamento della somma capitale, mentre, ove tale onere venga osservato, compete al debitore provare l'avvenuto esatto adempimento (Sez. 1, n. 8242, Rv. 622613).

Inoltre, si è affermato che, in caso di mora del debitore, gli interessi legali spettano al creditore anche se egli abbia ottenuto il sequestro conservativo delle somme necessarie all'estinzione dell'obbligazione, sia perché il tempo del giudizio di merito non può andare a danno del creditore, sia perché la misura cautelare non immette il sequestratario nella disponibilità giuridica della somma e, quindi, non ne soddisfa direttamente il credito (Sez. 2, n. 6784, Rv. 622150).

7. Obbligazioni solidali.

La Corte ha avuto modo di esaminare alcune questioni concernenti la regola della solidarietà passiva nelle obbligazioni plurisoggettive (art. 1294 cod. civ.) e i requisiti di comunicazione tra condebitori degli effetti della transazione (art. 1304 cod. civ.) e della sentenza (art. 1306 cod. civ.).

Tra i corresponsabili di un danno v'è responsabilità solidale e paritaria, a nulla rilevando che ciascuno di essi abbia contribuito al verificarsi dell'evento finale rendendosi inadempiente ad obblighi scaturiti da fonti diverse, sicché il creditore non ha alcun onere di escutere l'un condebitore prima dell'altro: nella specie, è stata cassata la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto indipendenti e autonome, nei confronti del promissario acquirente, la responsabilità del promittente venditore, che nelle more tra preliminare e definitivo aveva concesso ipoteca sul bene promesso in vendita, e la responsabilità del notaio, che aveva trascritto il definitivo ben sei mesi dopo la stipula, posteriormente all'iscrizione della suddetta ipoteca (Sez. 2, n. 7404, Rv. 622526).

La regola della solidarietà passiva – si è ribadito – corrisponde all'interesse del creditore e serve a rafforzarne il diritto, consentendogli di ottenere l'adempimento dell'intera obbligazione da uno qualsiasi dei condebitori, mentre essa non ha alcuna influenza nei rapporti interni tra condebitori solidali, fra i quali l'obbligazione si divide secondo quanto risulta dal titolo o, in mancanza, in parti uguali, sicché, qualora il creditore convenga in giudizio più debitori, sostenendo la loro responsabilità solidale, e venga pronunziata, invece, condanna di uno solo di essi, con esclusione del rapporto di solidarietà, il debitore condannato, ove non abbia proposto alcuna domanda di rivalsa nei confronti del preteso condebitore solidale, non ha interesse ad impugnare l'esclusione della solidarietà passiva, giacché tale esclusione non aggrava la sua posizione di debitore dell'intero, né pregiudica il suo eventuale diritto di rivalsa (Sez. 3, n. 2227, Rv. 621531).

La disposizione dell'art. 1304, primo comma, cod. civ., secondo la quale la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori solidali giova agli altri che dichiarino di volerne profittare, è stata riferita alla sola transazione avente ad oggetto l'intera obbligazione solidale, mentre la transazione limitata alla quota interna del debitore che la stipula non interferisce sulla quota interna degli altri condebitori, giacché, in questo caso, si riduce l'intero debito dell'importo corrispondente alla quota transatta, col conseguente automatico scioglimento del vincolo solidale fra lo stipulante e gli altri condebitori, i quali rimangono obbligati nei limiti della loro quota (Sez. 3, n. 947, Rv. 620414).

Si è confermato che, nelle obbligazioni solidali, essendo i debitori tenuti alla medesima prestazione, in modo che l'adempimento di uno libera tutti ex art. 1292 cod. civ., il pagamento estingue il debito, ipso iure, anche nei confronti degli obbligati diversi dal solvens e tale effetto estintivo giova pure al condebitore che non si sia avvalso della facoltà di chiedere in giudizio l'estensione ex art. 1306 cod. civ. del giudicato conseguito, in altro giudizio, da altro debitore solidale (ord., Sez. 6-1, n. 11051, Rv. 623192).

Riguardo al giudizio promosso contro più debitori in solido, la Corte ha deciso che la sentenza a costoro favorevole, passata in giudicato per difetto di impugnazione solo riguardo a taluno di essi, non può essere invocata dagli altri per impedire l'esame dell'impugnazione proposta nei loro confronti, né può essere rilevata d'ufficio dal giudice ai fini della declaratoria di preclusione dell'impugnazione medesima, non trovando applicazione l'art. 1306 cod. civ., che riguarda la diversa ipotesi in cui la sentenza sia stata resa in un giudizio cui non abbiano partecipato i condebitori (Sez. L, n. 12515, Rv. 623391).

  • contratto

CAPITOLO VIII

IL CONTRATTO IN GENERALE

(di Enrico Carbone )

Sommario

1 Culpa in contrahendo e stipulazione. - 2 Elementi essenziali e accidentali. - 3 Preliminare ed esecuzione specifica. - 4 L'interpretazione. - 5 Efficacia, collegamento negoziale, buona fede esecutiva. - 6 Clausola penale e caparra confirmatoria. - 7 Rappresentanza e modificazioni soggettive. - 8 Patologia genetica. - 9 Patologia funzionale.

1. Culpa in contrahendo e stipulazione.

La Corte ha avuto modo di rimarcare l'espansività della clausola generale di buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.

La responsabilità precontrattuale, fondata sull'art. 1337 cod. civ., può derivare, oltre che dalla rottura ingiustificata delle trattative, anche dalla violazione dell'obbligo di lealtà reciproca, il quale comporta un dovere di completezza informativa circa la reale intenzione di concludere il contratto, senza che alcun mutamento delle circostanze possa risultare idoneo a legittimare la reticenza o la maliziosa omissione di informazioni rilevanti nel corso della prosecuzione delle trattative finalizzate alla stipulazione del negozio (Sez. 2, n. 6526, Rv. 622100, in tema di accordi preliminari per la costituzione di una società destinata a divenire agente di assicurazioni).

Per quanto concerne la fattispecie tipica della rottura ingiustificata delle trattative, è stato affermato che colui il quale, in pendenza delle trattative per la stipula di un contratto di locazione, ottenga dal proprietario la detenzione dell'immobile non può ritenersi detentore di buona fede nel caso in cui l'altra parte gli manifesti in modo inequivoco la volontà di recedere dalle trattative e recuperare la detenzione del bene, sicché, ove anche il recesso dalle trattative sia stato ingiustificato e dia luogo a responsabilità precontrattuale, nella liquidazione del danno conseguente il giudice di merito deve tenere conto del periodo di tempo per il quale l'immobile è stato detenuto illegittimamente dalla parte avente diritto al risarcimento (Sez. 3, n. 4382, Rv. 622393).

Circa la violazione degli obblighi informativi, riguardo al dolo incidente, la Corte ha stabilito che l'esistenza dell'inganno nella formazione del consenso non incide sulla possibilità di far valere i diritti contrattuali, ma implica solo che il contraente, il quale ha violato l'obbligo di buona fede, è responsabile del danno provocato dalla sua illecita condotta, pari al minor vantaggio o maggior aggravio economico derivatone, fermo che, pur non essendo il contraente legittimato ad occultare i fatti la cui conoscenza sia indispensabile alla controparte per una corretta formazione della propria volontà contrattuale, l'obbligo informativo non può essere esteso fino al punto d'imporre alla parte la manifestazione dei motivi per i quali stipula, così da consentire all'altra parte di trarre vantaggio non dall'oggetto della trattativa, ma dalle altrui motivazioni e risorse: nella specie, la circostanza taciuta riguardava il fatto che sul terreno, alienato con destinazione a verde e parcheggi, l'acquirente intendeva trasferire l'edificabilità di altri suoi immobili, con conseguente incremento di valore del suolo (Sez. 2, n. 5965, Rv. 622322).

Relativamente alla conclusione del contratto, è stato ribadito il principio di necessaria completezza della proposta ex art. 1326 cod. civ., la quale, costituendo un atto giuridico di natura negoziale diretto a provocare l'accettazione del destinatario, deve contenere la completa formulazione del regolamento d'interessi, attraverso la predisposizione di condizioni vincolanti ai fini dell'esecuzione delle prestazioni, in modo tale da richiedere la pura e semplice accettazione dell'altro contraente, senza necessità di ulteriori integrazioni, cosicché non può qualificarsi come proposta in senso tecnico-giuridico la mera richiesta di esecuzione della prestazione, ancorché comprensiva di indicazioni relative alle condizioni economiche del futuro contratto (ord., Sez. 6-1, n. 15856, Rv. 624197).

Va segnalata la delimitazione del principio della cognizione: la spedizione dell'atto al corretto indirizzo del destinatario non basta a far presumere che il destinatario l'abbia conosciuto, occorrendo, a tal fine, che il plico sia effettivamente pervenuto a destinazione, in quanto la presunzione di conoscenza ex art. 1335 cod. civ. opera solo se l'atto è giunto nel luogo di destinazione, non anche se l'agente postale l'abbia rispedito al mittente, per errore, qualificando il destinatario come sconosciuto (Sez. 3, n. 9303, Rv. 622825).

Devono essere rammentate, altresì, due pronunzie sulla conclusione per mancato rifiuto, nello schema del contratto con obbligazioni del solo proponente.

Una decisione ha precisato che, nel contratto con obbligazioni del solo proponente ex art. 1333 cod. civ., non rileva l'avvenuta sottoscrizione ad opera di una o più parti, ma l'unilateralità dell'obbligazione, posta a carico di una sola parte, che è tenuta ad adempiere, mentre l'oblato ne ha semplice facoltà, cosicché, fondandosi l'impegno sull'unica dichiarazione proveniente dall'obbligato, la sottoscrizione da parte del beneficiario, su cui grava l'onere del rifiuto, non incide sullo schema tipico del negozio, né sul contenuto del negozio stesso, valendo soltanto quale espressa accettazione dell'altrui obbligazione, peraltro non necessaria, dal momento che il contratto di perfeziona tramite mancato rifiuto (Sez. 1, n. 1338, Rv. 621370).

Altra decisione ha ritenuto applicabile la disciplina dell'art. 1333 cod. civ. al patto di prelazione senza previsione di corrispettivo, che ha carattere preliminare unilaterale, con obbligazioni a carico del solo proponente, e che si perfeziona, quindi, allorché, decorso il termine richiesto dalla natura dell'affare o dagli usi, il promissario non abbia rifiutato l'offerta (Sez. 2, n. 3127, Rv. 621673).

Infine, a salvaguardia della genuinità del consenso dell'aderente, si è riaffermata l'inidoneità, per i fini di cui all'art. 1341, secondo comma, cod. civ., del richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto, o di gran parte di esse, comprese quelle prive di carattere vessatorio, nonché della sottoscrizione indiscriminata delle condizioni medesime, sebbene apposta in calce ad un'elencazione con numero d'ordine, non potendosi ritenere garantita, in tal modo, la speciale attenzione del contraente debole verso la clausola a lui sfavorevole, frammista alle clausole richiamate (Sez. 6-2, ord. n. 9492, Rv. 622649).

2. Elementi essenziali e accidentali.

In ordine agli essentialia contractus, ulteriori rispetto all'accordo di stipulazione, mette conto evidenziare quanto segue.

Per l'elemento causale, procede il consolidamento della teoria della causa in concreto.

Di notevole interesse risulta, in particolare, una decisione sulla causa di accertamento. Essa ha chiarito che, nel negozio di accertamento, il quale persegue la funzione di eliminare l'incertezza di una situazione giuridica preesistente, la nullità per mancanza di causa è ipotizzabile solo quando le parti, per errore o volutamente, abbiano accertato una situazione inesistente o quando la situazione esisteva, ma non era incerta, sicché, con riguardo ad una scrittura privata avente ad oggetto il riconoscimento di una determinata intestazione di proprietà immobiliare, la mancanza di effetti traslativi e la circostanza che il documento non contenga un'espressa indicazione dei rapporti precedenti non sono ragioni sufficienti ad affermare la nullità per difetto di causa, rendendosi necessaria un'indagine sui possibili collegamenti con precedenti negozi inter partes, al fine di stabilire se ricorra l'indicata funzione e se, quindi, sia davvero configurabile un negozio di accertamento, volto a rendere definitiva e vincolante una precedente situazione incerta (Sez. 2, n. 14618, Rv. 623720).

Con riguardo al mutuo di scopo legale (nella specie, per l'impianto e l'avvio di stabilimento industriale), si è ribadito che, poiché il mutuatario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata, con i relativi interessi, ma anche a realizzare l'attività programmata, la destinazione delle somme mutuate è parte inscindibile del regolamento di interessi e l'impegno assunto dal mutuatario ha rilevanza corrispettiva nell'attribuzione della somma, dunque, con rilievo causale nell'economia del contratto, sicché l'accertamento di un eventuale difetto di causa non può prescindere dalla verifica dell'attuazione o meno di tale risultato e, quindi, il patto di compensazione tra un debito preesistente nei confronti del mutuante e le somme mutuate, con la parziale utilizzazione di queste ultime per estinguere i debiti precedentemente contratti dal mutuatario verso il mutuante, non determina la nullità del contratto per mancanza originaria della causa, purché sia stata realizzata l'opera per la quale i finanziamenti sono stati concessi (Sez. 3, n. 943, Rv. 621272).

Per l'elemento oggettuale, si è ammessa la determinazione implicita, con evidente finalità conservativa, mentre si è ribadito il limite estremo dell'indeterminabilità.

Nel preliminare di compravendita immobiliare, la determinatezza o determinabilità dell'oggetto, la cui assenza è sanzionata di nullità dall'art. 1418, secondo comma, cod. civ., in relazione agli art. 1346 e 1325, n. 3, cod. civ., ricorre nella dichiarazione, fatta nella scrittura dal promittente venditore, che il prezzo è stato pagato (nella specie, mediante l'assunzione di tutte le spese necessarie per la costruzione dell'edificio da alienare), essendo necessariamente implicito in tale riconoscimento che anche la prestazione dovuta dal promissario compratore è stata consensualmente individuata (Sez. 2, n. 4854, Rv. 621762).

Viceversa, è nullo, per indeterminabilità dell'oggetto, il contratto con cui una parte si impegni a stipulare un futuro contratto di concessione del godimento di locali indicati genericamente come necessari allo svolgimento di un'attività, quando sia prospettato che tanto possa avvenire con o senza corrispettivo e, soprattutto, quando manchino la descrizione dei beni, l'indicazione della durata del vincolo e, per il caso di contratto oneroso, la specificazione del corrispettivo, non potendo giovare la considerazione di manifestazioni di volontà, di una parte o di entrambe, anteriori al contratto, se non trasfuse nel suo tenore letterale, con apprezzabile grado di concretezza, né la considerazione del quadro normativo di riferimento, ove da esso non si ricavino, con analoga concretezza, i detti elementi essenziali (Sez. 3, n. 17324, Rv. 623827).

Per l'elemento formale, domina il principio di libertà.

Esso ha trovato occasione di esprimersi, ancora una volta, in tema di mutuo dissenso, essendosi ribadito che la risoluzione consensuale di un contratto, per il quale la legge non prescriva alcuna forma particolare, è, a sua volta, un negozio a forma libera, che può estrinsecarsi anche con una manifestazione tacita di volontà (Sez. 3, n. 3245, Rv. 621455).

Lo stesso principio ha ricevuto applicazione nella revoca del patto di forma: il patto di adottare la forma scritta per un determinato atto può essere revocato anche tacitamente, mediante comportamenti incompatibili col suo mantenimento, in quanto nel sistema contrattuale vige la libertà della forma, per cui, al di fuori dei casi tassativi di forma legale, i contraenti possono eleggere una forma e liberamente rinunziarvi (Sez. 3, n. 4541, Rv. 621609).

Per i contratti formali, tuttavia, si ribadisce la natura costitutiva – e non meramente probatoria – della forma: nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili, ad integrare l'atto scritto, richiesto ad substantiam, non è sufficiente un qualsiasi documento, ma occorre che lo scritto contenga la manifestazione di volontà di concludere il contratto e sia posto in essere dalle parti al fine specifico di manifestare tale volontà, sicché non vale ad integrare la necessaria forma scritta una dichiarazione di quietanza (nella specie, relativa al ricevimento di una caparra), la quale presuppone il contratto e dà la prova dell'avvenuto pagamento, ma non pone in essere il contratto stesso (Sez. 2, n. 5158, Rv. 621759).

Circa gli accidentalia contractus, le Sezioni Unite hanno precisato la distinzione, in punto di efficacia, tra il modo e la condizione, statuendo che, qualora una clausola apposta alla donazione sia prevista dalle parti non come modus, che costituisce per il donatario una vera e propria obbligazione, ma come condizione risolutiva, essa produce effetti indipendentemente da ogni indagine sul comportamento dei contraenti, colposo o meno, in ordine al verificarsi dell'evento, tenuto conto che, nella disciplina della condizione contrattuale, non possono trovare applicazione i principî che regolano l'imputabilità in materia di obbligazioni (Sez. Un., n. 5702, Rv. 621914).

Ancora in tema di condizione, si è affermato che le parti, nella loro autonomia contrattuale, possono istituire una condizione, sospensiva o risolutiva, nell'interesse esclusivo di uno solo dei contraenti, occorrendo al riguardo un'espressa clausola o, quanto meno, una serie di elementi idonei ad indurre il convincimento che si tratti di una condizione alla quale l'altra parte non abbia alcun interesse, sicché la parte, nel cui interesse la condizione è posta, ha facoltà di rinunziarvi sia prima, sia dopo l'avveramento o il non avveramento, senza che la controparte possa comunque ostacolarne la volontà (Sez. 2, n. 5692, Rv. 621785).

3. Preliminare ed esecuzione specifica.

Ha trovato conferma il principio di assorbimento del preliminare nel definitivo.

Ove le parti, dopo aver stipulato un contratto preliminare, concludano il definitivo, questo non costituisce una mera ripetizione del primo, bensì l'unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al negozio, in quanto il preliminare resta superato dal definitivo, la cui disciplina può anche non conformarsi alla disciplina del preliminare, salvo che i contraenti non abbiano espressamente previsto che quest'ultima sopravviva, sicché la presunzione di conformità del nuovo accordo rispetto alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta solo dalla prova – la quale deve risultare da atto scritto, ove il contratto abbia ad oggetto beni immobili – di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo, dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenute nel preliminare, sopravvivano, dovendo tale prova essere data da chi chiede l'adempimento di questo distinto accordo (Sez. 2, n. 9063, Rv. 622654).

In ordine all'oggetto del contratto preliminare, va rammentata una pronunzia sui limiti della conservazione negoziale.

La Corte ha statuito che la clausola del preliminare con la quale si conviene di indicare nel definitivo un prezzo inferiore a quello realmente concordato – clausola nulla in forza degli art. 62 e 72 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, applicabili ratione temporis – non è sostituita di diritto agli effetti dell'art. 1419, secondo comma, cod. civ., in quanto la norma imperativa, puramente comminatoria, manca dell'elemento rigidamente predeterminato destinato a correggere la clausola nulla e a combinarsi con l'atto di autonomia privata, restando comunque affidata alle parti l'indicazione dell'esatto corrispettivo (Sez. 2, n. 11749, Rv. 623136).

Sugli effetti dell'inadempimento del contratto preliminare, è stato affermato che, se l'inadempimento dell'obbligo a contrarre è imputabile esclusivamente al promittente venditore, non può il promissario acquirente essere obbligato a corrispondere gli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di corrispettivo (Sez. 2, n. 8171, Rv. 622431).

Inoltre, si è confermato che il danno imputabile al promittente venditore per la mancata stipula del definitivo di vendita di un immobile è pari alla differenza tra il valore commerciale del bene nel momento della domanda di risoluzione del preliminare – cioè, al tempo in cui l'inadempimento è divenuto definitivo – e il prezzo pattuito (Sez. 2, n. 14714, Rv. 624195).

Numerose decisioni hanno riguardato i presupposti del rimedio specifico di cui all'art. 2932 cod. civ. e le condizioni di legittimazione alla pertinente azione costitutiva.

L'accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di stipulare il definitivo, avente per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, postula che l'attore esegua la sua prestazione, o ne faccia offerta nei modi di legge, ai sensi dell'art. 2932, secondo comma, cod. civ., sicché l'attore, che sostenga di non essere più tenuto a quell'adempimento, per aver già eseguito la prestazione dovuta, ha l'onere di fornire la prova dell'assunto, a norma dell'art. 2697 cod. civ., trattandosi di un fatto costitutivo della pretesa di trasferimento dominicale ope iudicis (Sez. 2, n. 7409, Rv. 622481).

L'azione diretta all'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di stipulare una vendita, ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., non ha natura reale, ma personale, in quanto volta a far valere un diritto di obbligazione nascente da un contratto, al fine di conseguire una pronunzia che disponga il trasferimento del bene di pertinenza del promittente alienante, onde tale azione deve essere esperita solo nei confronti di chi ha assunto una simile obbligazione, cosicché, ove un terzo abbia acquistato la proprietà del bene oggetto del contratto preliminare, senza una cessione di questo, bensì a titolo diverso, non si verifica la successione nel diritto controverso di cui all'art. 111 cod. proc. civ. e il terzo medesimo è privo di legittimazione passiva nel giudizio proposto per l'esecuzione in forma specifica del preliminare (Sez. 2, n. 1233, Rv. 621119).

In caso di preliminare di compravendita nel quale il promissario compratore si sia riservato la facoltà di nominare un terzo, in proprio luogo, fino al tempo del rogito, qualora l'electio amici non sia intervenuta prima di tale momento, unico soggetto legittimato ad agire per l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto è lo stipulante, il quale può ottenere la pronunzia di trasferimento direttamente a favore del terzo eletto, purché lo abbia nominato nella domanda giudiziale (Sez. 2, n. 6612, Rv. 622151).

Decisione ulteriore si inscrive nell'orientamento, fattosi prevalente, secondo il quale non integra una consentita emendatio libelli, ma un'inammissibile mutatio libelli, la modificazione della domanda di esecuzione in forma specifica del preliminare nella domanda di accertamento dell'avvenuto trasferimento del bene per effetto dell'esercizio di un'opzione, riqualificato il preliminare stesso in un patto di opzione, la novità risiedendo nel carattere dichiarativo, e non più costitutivo, del petitum (Sez. 3, n. 8564, Rv. 622776).

Per l'ipotesi di conflitto di domande, si è stabilito che, ove alla domanda di esecuzione specifica del contratto preliminare di vendita, proposta dal promissario acquirente, si contrapponga la domanda del promittente venditore diretta ad ottenere la risoluzione dello stesso contratto per inadempimento della controparte, il giudice deve, secondo il criterio di priorità logica, esaminare tale seconda domanda, in quanto l'eventuale positività dell'accertamento renderebbe inutile l'esame dell'altra domanda, che ha come obiettivo l'adempimento, se pur coattivo, del contratto risolto (Sez. 2, n. 13739, Rv. 623634).

4. L'interpretazione.

La Corte ha avuto occasione di confermare la supremazia dei canoni di interpretazione soggettiva (o storica) e la sussidiarietà dei canoni di interpretazione oggettiva (o integrativa).

Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli art. 1362 e 1363 cod. civ. prevalgono sui criteri integrativi degli art. 1365-1371 cod. civ., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione contrattuale non ha ragion d'essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato o escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico, sicché l'adozione dei predetti criteri integrativi non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante l'individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli contemplati nel contratto o mediante l'eterointegrazione dell'assetto negoziale previsto dai contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben contemperare il loro assetto di interessi (Sez. 3, n. 925, Rv. 621145).

In particolare, gli usi interpretativi di cui all'art. 1368 cod. civ. costituiscono un criterio ermeneutico di carattere oggettivo e sussidiario, il quale presuppone, secondo il tenore letterale della stessa disposizione (che riferisce l'applicabilità di tale criterio alle «clausole ambigue»), una persistente incertezza in ordine all'identificazione dell'effettiva volontà delle parti, esso rimanendo, pertanto, escluso allorché questa volontà risulti determinata o determinabile, senza margini di dubbio, attraverso l'adozione dei criteri di cui agli art. 13621365 cod. civ., che regolano l'interpretazione soggettiva (o storica) del contratto (Sez. 2, n. 6601, Rv. 622418).

Ha trovato conferma che l'art. 1362, secondo comma, cod. civ. non attribuisce rilievo ermeneutico al comportamento postcontrattuale se non ne siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo la comune intenzione delle parti emergere dall'iniziativa unilaterale di una di esse, corrispondente ai suoi personali disegni (Sez. 1, n. 12535, Rv. 623313).

Un ordine gerarchico è stato delineato anche nel novero dei criteri di interpretazione soggettiva, dove la primazia del canone letterale si trova affermata – non in termini astratti, bensì – con riguardo alla concreta fattispecie negoziale: i protocolli d'intesa tra datori e prestatori di lavoro, destinati a concretizzarsi in accordi attuativi delle regole e dei principî in essi enunciati, così da disciplinare in maniera specifica ed esaustiva singoli rapporti lavorativi, sono assoggettati ai criteri ermeneutici che di tale funzione possano tenere conto, dovendosi privilegiare, quindi, il criterio letterale, in ragione del principio in claris non fit interpretatio, rispetto al criterio sistematico, quest'ultimo più funzionale all'interpretazione dei negozi attuativi delle precedenti intese, i quali, appunto perché tali, possono essere esaminati e compresi nel loro contenuto solo se letti in relazione sistematica con le intese medesime (Sez. L, n. 3552, Rv. 621282).

Il criterio letterale è stato privilegiato anche nella fattispecie della vendita con prezzo determinato mediante rinvio a norma secondaria, fattispecie nella quale il giudice di merito – cui è riservato il potere di accertare, attraverso le regole legali di ermeneutica, se il rinvio debba ritenersi fisso (nel qual caso le modifiche della norma secondaria non rilevano) o mobile (nel qual caso le modifiche stesse rilevano) – aveva attribuito preminente valore alla lettera del contratto, che ancorava il prezzo della fornitura di energia elettrica a una delibera amministrativa «e successive modifiche ed integrazioni» (Sez. 3, n. 1761, Rv. 621712).

5. Efficacia, collegamento negoziale, buona fede esecutiva.

Sul piano dell'efficacia soggettiva del contratto, una fattispecie di conciliazione giudiziale in materia di lavoro ha offerto il destro per una nitida applicazione del principio di relatività.

Per il principio di relatività dell'efficacia del contratto, accolto dall'art. 1372 cod. civ., la conciliazione giudiziale di una controversia attinente al rapporto di lavoro vincola solo gli stipulanti: nella specie, la Corte ha respinto il ricorso del lavoratore che, avendo conciliato con l'azienda municipalizzata Centrale del Latte di Roma una controversia per superiore inquadramento, pretendeva di opporre la transazione al Comune di Roma, presso il quale era transitato a seguito di accordo sindacale prevedente la costituzione del rapporto ex novo (Sez. L, n. 12781, Rv. 623287).

Sul piano dell'efficacia oggettiva del contratto, vanno segnalate alcune pronunzie attinenti al collegamento negoziale, nelle specie del collegamento genetico e del collegamento funzionale, a seconda che un contratto trovi nell'altro la propria causa oppure sia ad esso coordinato sotto il profilo esclusivamente teleologico, distinzione che tende a sfumare – con ogni evidenza – nella prospettiva della causa in concreto.

Il collegamento negoziale fra il contratto di acquisto e negoziazione di strumenti finanziari e quello di conto corrente bancario, stipulati dal cliente con una banca fuori dai locali commerciali, deve essere individuato – con valutazione del giudice di merito, insindacabile se immune da vizi logici e giuridici – allorché sia ravvisata l'interdipendenza funzionale tra i contratti medesimi, utilizzati in combinazione strumentalmente volta a realizzare lo scopo pratico unitario, costituente la causa concreta della complessiva operazione, specifica ed autonoma rispetto a quella del singoli contratti: nella specie, la Corte ha ritenuto estensibile, in forza del collegamento negoziale, la clausola di deroga della competenza territoriale, contenuta nel solo contratto di conto corrente bancario (ord., Sez. 6-3, n. 1875, Rv. 621490).

Si è riaffermato che l'operazione di leasing finanziario, pur non dando luogo ad un contratto plurilaterale, realizza un collegamento negoziale tra contratto di fornitura e contratto di leasing, collegamento che produce l'effetto giuridico di legittimare l'utilizzatore ad esercitare in nome proprio le azioni scaturenti dal contratto di fornitura, sicché la clausola derogativa della competenza, contenuta nel contratto di vendita ed espressamente approvata per iscritto dalle parti di quel contratto, deve ritenersi operante anche nei confronti dell'utilizzatore, in quanto clausola di trasferimento, facente parte del contratto dal quale l'utilizzatore deriva il suo potere di azione (ord., Sez. 6-1, n. 17604, Rv. 623743).

È stato ribadito, inoltre, che la concessione di un finanziamento per l'acquisto di un autoveicolo, attuata attraverso il pagamento diretto del venditore da parte del mutuante, dà vita ad un collegamento negoziale tra il contratto di mutuo di scopo e quello di compravendita, a nulla rilevando che l'acquirente sia persona diversa dal mutuatario, sicché, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del venditore, l'obbligo di restituzione al mutuante della somma ricevuta grava sul venditore e non sul mutuatario (Sez. 3, n. 12454, Rv. 623357).

Invero, la Corte ha rammentato che l'esecuzione dell'operazione commerciale realizzata per il tramite dei negozi collegati deve avvenire secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1375 cod. civ.

Pertanto, in tema di mutuo di scopo collegato ad un contratto di vendita avente ad oggetto l'acquisto di un bene da parte del mutuatario, la meritevolezza e la validità della clausola che preveda l'obbligo del mutuatario di effettuare i singoli pagamenti di rimborso a favore del mutuante anche nel caso di inadempimento del venditore, compresa la mancata consegna del bene, devono essere valutate alla luce dei principî di buona fede e correttezza, tenendo presente, da un lato, l'interesse del mutuante, che può ripetere la somma dal venditore, cui, invero, direttamente la consegnò, e, dall'altro lato, l'interesse del mutuatario, che, anche a fronte della mancata consegna del bene, dovrebbe continuare a restituire somme mai percepite, in quanto entrate immediatamente nella sfera di disponibilità del venditore (Sez. 3, n. 12454, Rv. 623358; su questa sentenza, v. pure il cap. I, § 1.2).

Ancora riguardo alla buona fede esecutiva, occorre segnalare una decisione sull'abuso del diritto, fondata sui parametri oggettivi della liceità del risultato e della legittimità del mezzo, piuttosto che sul criterio soggettivo dell'intenzione fraudolenta.

In linea di principio, non è ravvisabile un abuso del diritto nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell'altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, sicché non è abusivo, di per sé, il comportamento del locatore immobiliare, avente veste di società commerciale, che ceda le quote ad altra società commerciale e con essa si fonda per incorporazione, non valendo la doglianza del locatario, secondo il quale tale comportamento risulterebbe animato dall'intenzione di dissimulare un trasferimento a titolo oneroso dell'immobile locato, al fine di eludere la prelazione legale del conduttore (Sez. 3, n. 8567, Rv. 622633).

6. Clausola penale e caparra confirmatoria.

Per quanto attiene alla clausola penale, è stata ribadita la necessità di coordinare l'istituto con la disciplina generale dell'inadempimento.

La pattuizione di una clausola penale non sottrae il rapporto alla disciplina generale delle obbligazioni, per cui deve escludersi la responsabilità del debitore quando costui provi che l'inadempimento o il ritardo nell'adempimento sia stato determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, essendo connotato essenziale della clausola penale la connessione con l'inadempimento colpevole di una delle parti e non potendo essa attivarsi, quindi, allorché sia collegata ad un fatto integrante caso fortuito o, comunque, non imputabile alla parte obbligata (Sez. 2, n. 7180, Rv. 622479).

Circa la riduzione della penale, si è affermato che il criterio giudiziale di valutazione dell'eccessività ex art. 1384 cod. civ. ha natura oggettiva, dovendosi tenere conto non della situazione economica del debitore e del riflesso che la penale esercita sul suo patrimonio, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle parti, avendo il riferimento normativo all'interesse del creditore la funzione di indicare lo strumento per mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva e dovendo la difficoltà del debitore riguardare l'esecuzione stessa della prestazione risarcitoria, ove, ad esempio, venga a mancare la proporzione tra danno, costo e utilità, senza che occorrano, peraltro, ragioni di pubblico interesse che giustifichino l'ammontare della sanzione privata (Sez. 2, n. 7180, Rv. 622480).

Deve essere segnalato un arresto sulla pattuizione cumulativa di clausola penale e caparra confirmatoria.

Se la parte non inadempiente, anziché recedere dal contratto, preferisca domandarne la risoluzione, ai sensi dell'art. 1385, terzo comma, cod. civ., la restituzione della caparra confirmatoria è dovuta dalla parte inadempiente quale effetto della risoluzione stessa, in conseguenza del venir meno della causa giustificativa, senza alcuna necessità di specifica prova del danno, essendo questo (consistente nella perdita della somma capitale versata alla controparte, maggiorata degli interessi) in re ipsa, mentre la prova richiesta alla parte che abbia scelto il rimedio ordinario della risoluzione concerne esclusivamente l'eventuale maggior danno subito per effetto dell'altrui inadempimento, e, tuttavia, qualora nello stesso contratto sia stipulata una clausola penale in aggiunta alla caparra confirmatoria, tale maggior danno risulta automaticamente determinato nel quantum previsto a titolo di penale, la quale ultima ha proprio la funzione di definire preventivamente il danno risarcibile nel caso in cui la parte non inadempiente, anziché recedere dal contratto, preferisca domandarne la risoluzione (Sez. 2, n. 10953, Rv. 623124).

Ancora in tema di caparra confirmatoria, si è deciso che, ai fini della legittimità del recesso di cui all'art. 1385 cod. civ., come in materia di risoluzione contrattuale, non è sufficiente l'inadempimento, ma occorre anche la verifica della non scarsa importanza ex art. 1455 cod. civ., dovendo il giudice tenere conto dell'effettiva incidenza dell'inadempimento sul sinallagma contrattuale e verificare se, in considerazione della mancata o ritardata esecuzione della prestazione, sia da escludere per la controparte l'utilità del contratto alla stregua dell'economia complessiva del medesimo (ord., Sez. 6-2, n. 409, Rv. 620728).

Peraltro, una volta accertata l'importanza dell'inadempimento, la caparra esercita in pieno la sua funzione.

Così, la risoluzione per diffida ad adempiere, ai sensi dell'art. 1454 cod. civ., non preclude alla parte adempiente, nel caso in cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria, l'esercizio della facoltà di ottenere, secondo il disposto dell'art. 1385 cod. civ., invece del risarcimento del danno, la ritenzione della caparra o la restituzione del suo doppio, con la conseguenza che, mentre spetta al giudice accertare che l'inadempimento dell'altra parte non sia di scarsa importanza, non v'è l'onere della parte adempiente di provare il danno, nell'an e nel quantum (Sez. 3, n. 2999, Rv. 621537).

Da ultimo, sempre in ordine alla funzione della arrha confirmatoria, deve rammentarsi la decisione per la quale la somma di danaro che, alla stipula del preliminare, il promissario acquirente consegna al promittente venditore a titolo di caparra assolve la funzione, in caso di successiva risoluzione per inadempimento, di liquidare preventivamente il danno da mancato pagamento del prezzo, mentre il danno da illegittima occupazione dell'immobile, frattanto consegnato al promissario, discendendo da un distinto fatto illecito, costituito dal mancato rilascio del bene dopo il recesso del promittente, legittima quest'ultimo a richiedere un autonomo risarcimento, sicché il promittente venditore ha diritto non solo a recedere dal contratto e a incamerare la caparra, ma anche ad ottenere dal promissario acquirente inadempiente il pagamento dell'indennità di occupazione dalla data di immissione nella detenzione del bene sino al momento della restituzione, attesa l'efficacia retroattiva del recesso (Sez. 2, n. 9367, Rv. 622647).

7. Rappresentanza e modificazioni soggettive.

La Corte ha avuto modo di confermare il ruolo sistematico della disciplina della rappresentanza nel fondare i principî dell'apparentia iuris e dell'affidamento incolpevole.

Questi principî sono invocabili qualora ricorrano la buona fede del terzo, che ha stipulato col falso rappresentante, e un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione circa l'effettivo conferimento di procura al rappresentante apparente (Sez. 2, n. 3787, Rv. 621341).

Si è precisato che il contratto stipulato dal rappresentante in forza di procura annullata, ai sensi dell'art. 428 cod. civ., per incapacità d'intendere e volere del rappresentato deve ritenersi concluso da un rappresentante senza potere, tale contratto rimanendo estraneo alla disposizione dell'art. 1389 cod. civ., che regola la diversa ipotesi del contratto stipulato dal rappresentante in forza di procura validamente conferitagli dal rappresentato (Sez. 2, n. 3787, Rv. 621340).

Ancora in tema di rappresentanza senza potere, l'acquisto compiuto dal falsus procurator non giova ai fini dell'usucapione abbreviata ex art. 1159 cod. civ., non integrando un titolo idoneo a trasferire la proprietà, quanto, piuttosto, un negozio inefficace, né potendo, in tal caso, sussistere la buona fede dell'acquirente, intesa come ignoranza dell'altrui proprietà (Sez. 2, n. 4851, Rv. 621764).

Nell'interpretazione dell'art. 1394 cod. civ., ha trovato conferma la subordinazione dell'idoneità del conflitto d'interessi quale causa di annullamento del contratto – oltre che alla riconoscibilità del conflitto da parte del terzo – alla sussistenza di un'incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante non meramente astratta od ipotetica, bensì concreta ed attuale, in rapporto allo specifico negozio.

Quindi, nel caso in cui una società abbia prestato fideiussione in favore di un'altra società il cui amministratore sia contemporaneamente amministratore della prima, il conflitto d'interessi tra la società garante e il suo amministratore, ai sensi dell'art. 1394 cod. civ. e ai fini dell'annullabilità del contratto, non è aprioristicamente integrato dalla coincidenza dei ruoli di amministratore delle due società, ma va accertato in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società che ha prestato la garanzia e il suo amministratore, incompatibilità riconoscibile da parte dell'altro contraente (Sez. 1, n. 17640, in corso di massimazione).

Trattandosi di una fattispecie di pericolo concreto, ma non di una fattispecie di danno, il conflitto d'interessi rende annullabile il contratto anche se non ne sia derivato un pregiudizio effettivo al rappresentato, come è stato ribadito a proposito del contratto con se stesso, che l'art. 1395 cod. civ. disciplina sulla base di una presunzione iuris tantum di conflitto d'interessi.

Invero, il contratto concluso dal rappresentante con se stesso, ai sensi dell'art. 1395 cod. civ., è annullabile anche se non ne sia derivato effettivo danno al rappresentato (Sez. 2, n. 4143, Rv. 622031).

Per quanto concerne la rappresentanza in incertam personam, cioè il contratto per persona da nominare, vanno segnalate due pronunzie, relative, l'una, all'impiego della riserva di nomina nell'ambito della donazione indiretta e, l'altra, all'electio amici nella sequenza tra preliminare e definitivo di compravendita.

La donazione indiretta è caratterizzata dal perseguito fine di liberalità, non già dal mezzo utilizzato, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall'ordinamento, compresi più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un contratto di compravendita, paghi, o si impegni a pagare, il relativo prezzo e, essendosene riservata la facoltà nel momento della stipula, effettui la dichiarazione di nomina, sostituendo a sé, come destinatario degli effetti negoziali, il beneficiario della liberalità, in tal modo consentendo a quest'ultimo di rendersi acquirente ed intestatario del bene (Sez. 2, n. 3134, Rv. 621963; al riguardo, cfr. pure il cap. III, § 8).

In caso di preliminare di compravendita nel quale il promissario compratore si sia riservato la facoltà di nominare un terzo, in proprio luogo, fino al tempo del rogito, qualora l'electio amici non sia intervenuta prima di tale momento, unico soggetto legittimato ad agire per l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto è lo stipulante, il quale può ottenere la pronunzia di trasferimento direttamente a favore del terzo eletto, purché lo abbia nominato nella domanda giudiziale (Sez. 2, n. 6612, Rv. 622151).

Peraltro, la Corte ha avuto modo di chiarire che l'inquadramento della riserva di nomina nello schema del contratto per persona da nominare non è automatico, spettando al giudice di merito l'esegesi della volontà degli stipulanti al fine di qualificare la modifica soggettiva dell'assetto negoziale.

Dunque, in un preliminare di compravendita immobiliare, la clausola con cui il promissario acquirente si impegna ad acquistare per sé o per persona da nominare implica la configurabilità di una cessione del contratto ex art. 1406 e segg. cod. civ., preventivamente consentita a norma dell'art. 1407 cod. civ., oppure di un contratto per persona da nominare ex art. 1401 cod. civ., sia in ordine allo stesso preliminare che in ordine al definitivo, oppure, ancora, di un contratto a favore di terzo ex art. 1411 cod. civ., mediante la facoltà di designazione concessa al promissario fino alla stipulazione del definitivo, pluralità di configurazioni giuridiche da rapportare al contenuto effettivo della volontà dei contraenti, che l'interprete deve ricercare in concreto, anche in relazione alla funzione – invalsa nella pratica quotidiana degli affari – di impiegare il preliminare, per la disciplina intertemporale dei rapporti contrattuali, al di fuori di una coincidenza, che non sia meramente verbale, con gli schemi tipici approntati dal legislatore (Sez. 2, n. 14105, Rv. 623615).

8. Patologia genetica.

Occorre dar conto dell'intervento delle Sezioni Unite che ha composto le divergenze giurisprudenziali sulla rilevabilità d'ufficio della nullità contrattuale da parte del giudice investito della domanda di risoluzione.

È stata privilegiata la tesi della rilevabilità officiosa, seppure circondata da importanti cautele, sostanziali e processuali. Per vero, alla luce del ruolo che l'ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell'assetto negoziale, ed atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l'esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta), fermo restando che egli accerta la nullità incidenter tantum, senza effetto di giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini (Sez. Un., n. 14828, Rv. 623290).

Al riguardo, va, peraltro, rilevato che, a completamento del quadro ricostruttivo, l'ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 21083 ha ulteriormente rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza, concernente il rilievo d'ufficio della nullità in ipotesi di domanda di annullamento del contratto.

Nell'ambito di tale orientamento unitario va intesa la pronunzia per la quale, in tema di condizioni generali di contratto, essendo l'approvazione scritta delle clausole vessatorie, ai sensi dell'art. 1341, secondo comma, cod. civ., requisito di opponibilità delle clausole medesime alla parte aderente, quest'ultima soltanto è legittimata a farne valere l'eventuale mancanza, sicché la nullità – evidentemente, nullità protettiva – della clausola onerosa non approvata per iscritto dall'aderente giammai può essere invocata dal predisponente (ord., Sez. 6-2, n. 14570, Rv. 623560).

Ulteriori spunti la giurisprudenza della Corte ha offerto in ordine alle alterazioni genetiche dell'accordo contrattuale.

È stato chiarito che il sottoscrittore del contratto non può invocarne l'invalidità adducendo di non averlo letto, perché chi immette dichiarazioni nel traffico giuridico deve subirne le conseguenze, in virtù del principio di autoresponsabilità, a meno che non provi che la propria volontà si sia formata in modo viziato (Sez. 3, n. 5535, Rv. 621801).

Inoltre, mediante l'inquadramento della modificazione della domanda nella categoria della mutatio libelli, anziché in quella dell'emendatio, si è ribadita la differenza concettuale tra fiducia e simulazione: in tema di modificazioni della domanda giudiziale, laddove l'atto di citazione sia diretto ad ottenere il trasferimento di un determinato bene in favore dell'attore in forza dell'obbligo assunto dall'intestatario fiduciario, costituisce domanda nuova – e non semplice precisazione o modificazione della domanda già proposta, consentita in virtù della facoltà concessa alle parti dall'art. 183 cod. proc. civ. – la richiesta volta al riconoscimento della proprietà dello stesso bene sul presupposto del carattere fittizio dell'intestazione, discendente dalla simulazione tanto della dichiarazione di nomina da parte dello stipulante, quanto dell'accettazione della persona nominata, ciò data la diversità tra le due anzidette fattispecie, deducendosi, con la prima, l'esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell'obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante, e, con la seconda, invece, una divergenza tra volontà e manifestazione (Sez. 2, n. 3134, Rv. 621964).

Ancora in ordine alla simulazione, vanno rammentate due pronunzie sulla qualificazione di terzo agli effetti del regime probatorio ex art. 1417 cod. civ.

A questi fini, non è terzo il promissario acquirente dell'interponente di una precedente compravendita simulata, il quale intenda far emergere, con l'impugnativa per simulazione, che il proprio dante causa, pur non essendo formalmente intestatario del bene promesso in vendita, lo aveva realmente acquistato, celandosi dietro l'interposto, atteso che detto promissario, pur estraneo alla simulazione, non può non risentire delle conseguenze che l'interposizione fittizia comporta per il suo dante causa, ponendosi entrambi in una situazione di convergenza di interessi, in quanto il primo deriva e ripete la sua posizione dal secondo (Sez. 2, n. 10592, Rv. 622884).

Legittimato ad eccepire la simulazione di un negozio è il terzo la cui posizione giuridica subisca un pregiudizio in conseguenza della vicenda simulatoria, cosicché l'amministratore di una società, convenuto in giudizio di responsabilità per inadempimento degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, è legittimato ad eccepire l'insussistenza del presupposto dei danni dei quali è chiamato a rispondere ed è, quindi, legittimato a provare, anche per testi e presunzioni, la simulazione assoluta dei negozi dismissivi, non essendo questi fonti di obbligazioni, ma semplici fatti giuridici, rilevanti ai fini della domanda risarcitoria (Sez. 1, n. 14351, Rv. 624012).

In ordine all'efficacia soggettiva del giudicato di simulazione, una decisione ha precisato che l'accertamento contenuto nella sentenza dichiarativa della simulazione assoluta emessa nel giudizio tra il simulato alienante e un suo creditore non può essere invocato da un altro creditore della medesima parte, se non intervenuto in quel giudizio, atteso che tale ulteriore creditore non rientra nel novero degli «aventi causa» da una delle parti, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2909 cod. civ., sicché al creditore del simulato alienante, rimasto estraneo al giudizio all'esito del quale si è formato il giudicato sulla simulazione, la parte del contratto simulato può opporre la simulazione, senza che venga in rilievo il giudicato medesimo, salva la facoltà, che spetta ad ogni terzo pregiudicato dalla simulazione, di valersi dell'art. 1415, secondo comma, cod. civ. (Sez. 3, n. 13938, Rv. 623722).

Quanto alla conversione del contratto nullo, regolata dall'art. 1424 cod. civ., si è statuito che l'accertamento dell'ipotetica volontà dei contraenti deve essere sollecitato dall'una o dall'altra parte, non potendo essere operato d'ufficio dal giudice, e che, comunque, tale accertamento, implicando un'indagine di fatto riservata al giudice di merito, non può essere effettuato in sede di legittimità (Sez. 2, n. 6633, Rv. 622326).

Circa l'annullabilità contrattuale, la sussistenza del vizio, come può essere eccepita dal convenuto per paralizzare l'istanza attorea senza limiti di tempo, allo stesso modo può essere invocata, senza limiti di tempo, dall'attore, allorché egli, chiesto l'adempimento del contratto, si sia visto eccepire l'esistenza di un patto aggiunto, impeditivo della condanna, ma annullabile per vizio del consenso (Sez. 3, n. 10638, Rv. 623119).

Riguardo all'art. 1426 cod. civ., ove è stabilita la non annullabilità del contratto stipulato dal minorenne, se questi, con raggiri, abbia occultato la minore età, la Corte ha affermato che tale disposizione ha carattere eccezionale, derogando al regime dell'annullabilità per incapacità legale, sicché essa non può essere estesa all'ipotesi del malizioso occultamento del proprio stato da parte dell'interdetto o dell'inabilitato, sia perché la condizione di questi ultimi non è equiparabile alla condizione del minore, il quale può essere naturalmente capace di intendere e volere, dimostrando, per la sua precocità, una sufficiente astuzia, sia perché il malizioso occultamento appare difficilmente conciliabile con la situazione di incapacità in cui versano l'interdetto e l'inabilitato, trattandosi di condotta che postula la lucida rappresentazione del proprio stato e la consapevole volontà di mascherarlo (Sez. 2, n. 11191, Rv. 623132).

Da ultimo, vanno segnalate due pronunzie sulla convalida del contratto annullabile, nella specie della convalida tacita, regolata dal secondo comma dell'art. 1444 cod. civ.

La convalida del negozio annullabile consiste in una sostanziale rinunzia all'azione di annullamento ed é subordinata alla duplice condizione dell'acquisita certezza della causa di invalidità e della volontà di non avvalersene, sicché la convalida di una vendita stipulata in conflitto d'interessi ex art. 1395 cod. civ. dall'amministratore di una società non é ravvisabile nella mera iscrizione del corrispettivo percepito nel bilancio approvato dall'assemblea, né nella riconferma in carica dell'amministratore, atti neutri rispetto all'intenzione di convalidare o impugnare l'atto, qualora non consti che in assemblea sia stato evidenziato e discusso lo stato conflittuale in cui l'amministratore versava (Sez. 2, n. 4143, Rv. 622029; cfr. pure cap. XIX, § 6, in tema di bilancio).

In tema di appalti pubblici, premesso che l'eccesso di potere dell'organo competente a stipulare, la rappresentanza senza potere e la mancanza di delibera dell'organo munito della potestà a contrarre si traducono in vizi del consenso dell'ente, implicanti l'annullabilità del contratto, e premesso ancora che l'invalidità può essere fatta valere soltanto dall'ente, nel cui interesse sono poste le norme procedimentali violate, si ha convalida del contratto, ai sensi dell'art. 1444 cod. civ., tutte le volte in cui l'amministrazione, alla quale spetta l'azione di annullamento, pur conoscendo, o dovendo conoscere, la causa di invalidità, abbia dato volontaria esecuzione al negozio (Sez. 1, n. 13296, Rv. 623611).

9. Patologia funzionale.

Circa la risoluzione per inadempimento, si evidenziano due pronunzie attinenti al regime della domanda, come definito dall'art. 1453 cod. civ.

La deroga al divieto di mutatio libelli, introdotta dal secondo comma dell'art. 1453 cod. civ., laddove consente la sostituzione della domanda di adempimento con la domanda di risoluzione, non si estende alla domanda di risarcimento, consequenziale alle domande di adempimento e risoluzione, trattandosi di domanda del tutto diversa, per petitum e causa petendi, rispetto all'originaria (Sez. 2, n. 870, Rv. 621227).

La domanda di risoluzione, pur rendendo privo di effetti l'adempimento tardivo ai sensi del terzo comma dell'art. 1453 cod. civ., non impedisce al contratto di continuare a produrre i suoi effetti, fino a quando la domanda non sia accolta, sicché, ove il trasferimento della proprietà sia stato sottoposto dalle parti a una condizione sospensiva, l'avverarsi di questa spiega i propri effetti quand'anche successivo alla domanda di risoluzione, purché anteriore al relativo accoglimento (Sez. 3, n. 12895, Rv. 623463).

Ha trovato conferma l'assunto per cui la mora debendi, indefettibile ai fini suoi proprî (innanzitutto, ai fini della perpetuatio obligationis), non condiziona, viceversa, le istanze risolutorie.

Per vero, la formale costituzione in mora del debitore è prescritta dalla legge a determinati effetti, tra cui preminente è quello dell'attribuzione al debitore medesimo del rischio della sopravvenuta impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile, ma non già agli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento, essendo ad essa sufficiente, come anche per il recesso di cui all'art. 1385 cod. civ., il fatto oggettivo dell'inadempimento di non scarsa importanza ex art. 1455 cod. civ. (Sez. 2, n. 17489, Rv. 624091).

In tema di diffida ad adempiere, la Corte ha ribadito che l'unico onere gravante sull'intimante, ai sensi dell'art. 1454 cod. civ., è quello di fissare il termine entro cui l'altra parte deve adempiere pena la risoluzione ope legis, atteso che la ratio dell'istituto è definire la posizione delle parti rispetto all'esecuzione del negozio, mediante il formale avvertimento alla parte diffidata che l'intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell'adempimento (Sez. 2, n. 3477, Rv. 621426).

Di sicuro interesse è un arresto sui contratti ad esecuzione continuata o periodica, il quale, sottolineato che, in tali fattispecie, l'esecuzione avviene per coppie di prestazioni in corrispondenza temporale e che, pertanto, il sinallagma funzionale va considerato separatamente per ogni coppia di prestazioni, ne ha desunto che l'exceptio inadimpleti contractus, di cui all'art. 1460 cod. civ., può essere riferita solo alla prestazione corrispondente a quella richiesta all'eccipiente, restando escluse, ai sensi dell'art. 1458, primo comma, cod. civ., le prestazioni già eseguite (Sez. 3, n. 7550, Rv. 622364).

Ancora sull'eccezione d'inadempimento, va segnalata un'applicazione del criterio oggettivo di proporzionalità, in funzione del limite ex fide bona all'esercizio del mezzo di autotutela: posto che non costituisce giusta causa di licenziamento il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione quando sia motivato dall'inadempimento del datore di lavoro e non sia contrario a buona fede, si è ritenuta ingiustificata la condotta della lavoratrice che aveva rifiutato la prestazione e si era assentata dal lavoro per quaranta giorni dopo la scadenza del periodo di astensione per maternità, limitandosi ad eccepire l'inadempimento del datore di lavoro concernente una sola mensilità di retribuzione (Sez. L, n. 14905, Rv. 623731).

Il rango primario del diritto coinvolto giustifica la facoltà del lavoratore di astenersi dalle prestazioni rischiose per la sua salute, l'eccezione fondandosi sull'inadempimento del datore di lavoro rispetto all'obbligazione di sicurezza contemplata dall'art. 2087 cod. civ. (sez. L, n. 14375, Rv. 624033).

L'abuso di autotutela che delegittima l'eccezione di inadempimento può correlarsi alla qualifica professionale dell'eccipiente e all'affidamento che comunque vi ripone l'inadempiente, sicché il notaio ha facoltà di rifiutare l'ufficio se le parti non depositino presso di lui le somme per onorario e spese, ma, una volta che abbia accettato di eseguire la prestazione, il mancato pagamento dell'onorario non lo autorizza a sottrarsi all'obbligo di provvedere alle formalità susseguenti (come la registrazione e la trascrizione dell'atto), pena il risarcimento del danno causato alle parti (sez. III, n. 20995, in corso di massimazione).

Circa i rimedi all'eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 cod. civ. – risoluzione contrattuale e reductio ad aequitatem –, il novero dei contratti aleatori, che dalla relativa applicazione è escluso ai sensi dell'art. 1469 cod. civ., non va soggetto al canone di tipicità, essendosi riconosciuta la legittimità dell'assunzione dell'alea convenzionale o rischio supplementare, con effetto di alterazione della causa commutativa.

Invero, anche nei contratti commutativi, le parti, esercitando l'autonomia negoziale, possono contemplare l'eventualità di sopravvenienze incidenti sull'equilibrio delle prestazioni ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando, in tal modo, lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo, per tale aspetto, aleatorio, con l'effetto di escludere l'attivazione dei meccanismi di riequilibrio del sinallagma previsti nell'ordinaria disciplina del contratto, inteso che l'assunzione del rischio supplementare può formare oggetto di un'espressa pattuizione, ma anche risultare per implicito dal regolamento che le parti hanno dato al rapporto o dal modo in cui hanno strutturato le rispettive obbligazioni (Sez. 2, n. 17485, Rv. 624088).

  • contratto assicurativo
  • mandato
  • contratto di appalto previa trattativa privata
  • contratto di trasporto
  • contratto di locazione
  • vendita

CAPITOLO IX

I SINGOLI CONTRATTI

(di Antonio Scarpa, Marco Rossetti )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il contratto di appalto privato. - 2.1 - 2.2 - 2.3 - 3 L'appalto di opere pubbliche. - 3.1 - 3.2 - 3.3 - 3.4 - 3.5 - 4 L'assicurazione. - 4.1 Assicurazione contro i danni. - 4.2 Assicurazione della responsabilità civile. - 4.3 Assicurazione obbligatoria della r.c.a. - 4.3.a - 4.3.b - 4.3.c - 4.3.d - 4.3.e - 4.3.f - 4.4 Assicurazione sulla vita. - 5 Il comodato. - 6 Prelazione e riscatto nei contratti agrari. - 7 I contratti bancari. - 8 I contratti finanziari (rinvio). - 9 Fideiussione e garanzie atipiche. - 10 Il giuoco e la scommessa. - 11 La locazione. - 11.1 Garanzia del godimento e standards di funzionalità della cosa locata. - 11.2 Miglioramenti, addizioni e consenso scritto del locatore. - 11.3 Danni per ritardata restituzione. - 12 Il mandato. - 13 La mediazione. - 14 Il mutuo. - 15 La rendita. - 16 La transazione. - 17 Il trasporto. - 18 La vendita. - 18.1 - 18.2 - 18.3 - 18.4 - 18.5

1. Premessa.

Anche nel 2012 la produzione giurisprudenziale in materia di contratti tipici è stata copiosa. L'appalto (sia privato che di opere pubbliche), l'assicurazione e la vendita sono stati i contratti sui quali si è registrato il maggior numero di pronunce, secondo un trend ormai consueto da molti anni.

In linea generale è possibile affermare che nel 2012 la giurisprudenza di legittimità in tema di contratti tipici abbia nel suo complesso ribadito e corroborato principî già noti; tuttavia in rari casi si è registrato l'insorgere di qualche contrasto.

Di tale giurisprudenza si darà conto nei §§ che seguono, esaminando i più importanti contratti tipici con ordine alfabetico.

2. Il contratto di appalto privato.

Per maggior chiarezza esamineremo dapprima la giurisprudenza in tema di appalto privato, e quindi quella in tema di appalto di opere pubbliche.

Nell'interpretazione delle norme codicistiche sul contratto di appalto, la giurisprudenza di legittimità nel 2012 ha confermato la propria stabilità sulla maggior parte delle questioni più frequentemente dibattute nella prassi: il diritto di recesso, lo ius variandi del committente, la garanzia per i vizi dovuta dall'appaltatore. Qualche incertezza, invece, si registra nel campo dei criteri di accertamento dell'inadempimento colpevole dell'appaltatore.

2.1.

Iniziando dunque l'esame dalle decisioni che si sono occupate del diritto di recesso, vanno ricordate due sentenze dedicate l'una al diritto di recesso dell'appaltatore ed ai suoi presupposti, l'altra al diritto di recesso del committente ed ai suoi effetti.

La prima decisione ha ribadito la tradizione interpretazione "empirica " dell'art. 1661, secondo comma, cod. civ., da tempo seguita dalla Corte, secondo cui stabilire quando ricorrano le «notevoli modificazioni della natura dell'opera », che ai sensi della norma citata legittimano il recesso dell'appaltatore, non è valutazione che possa compiersi in astratto ed ex ante, ma è accertamento da compiersi in concreto ed ex post, avuto riguardo a tutte le caratteristiche del singolo contratto (Sez. 2, n. 10201, Rv. 623125).

La seconda decisione ha invece riguardato le conseguenze del recesso unilaterale del committente, come noto sempre possibile ai sensi dell'art. 1671 cod. civ. Sorta questione sui criteri di riparto dell'onere della prova delle conseguenze negative, per l'appaltatore, del recesso del committente, la Corte ha ribadito che grava sul primo l'onere di dimostrare quale sarebbe stato l'utile netto che avrebbe realizzato se il committente non avesse receduto dal contratto, e che tale prova deve evidenziare la differenza tra il corrispettivo dell'appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, mentre graverà sul committente l'onere di provare che l'interruzione dell'appalto non ha impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi (ord., Sez. 6-2, n. 9132, Rv. 622655).

2.2.

Anche il tema della garanzia dell'appaltatore per i vizi e le difformità, che notoriamente costituisce una delle principali ragioni di controversia tra le parti del contratto di appalto, nel 2012 ha visto la S.C. ribadire vari principî già affermati negli anni precedenti, riguardanti il riparto dell'onere della prova, la invocabilità della garanzia "a scopo difensivo " e gli effetti che, sulla esistenza della garanzia, può riverberare una condotta tacita ma concludente delle parti.

Sotto il primo profilo, la Corte ha ribadito che quando l'appaltatore eccepisca la decadenza del committente dalla garanzia di cui all'art. 1667 cod. civ. per i vizi dell'opera, incombe su quest'ultimo l'onere di dimostrare di averli tempestivamente denunziati, costituendo tale denuncia una condizione dell'azione (Sez. 2, n. 10579, Rv. 622877).

Sotto il secondo profilo, anche nel 2012 la S.C. ha ribadito che al contratto di appalto ed alla garanzia per i vizi è applicabile il tradizionale principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum: vale a dire che anche quando il committente sia decaduto dalla garanzia per i vizi per omessa denunzia o omesso promovimento dell'azione relativa, potrà sempre far valere i suddetti vizi in via di accezione, nel caso in cui fosse convenuto dall'appaltatore per il pagamento del corrispettivo (Sez. 2, n. 4446, Rv. 622108).

Molto significative sono state anche le decisioni che, al fine di ammettere od escludere la garanzia per i vizi e le difformità di cui all'art. 1667 cod. civ., hanno dato rilievo alla condotta concludente delle parti, in virtù del principio ormai incontroverso secondo cui il dovere di buona fede impone alle parti del contratto di sopportare le conseguenze derivanti dai propri comportamenti che, apparendo inequivoci, siano stati idonei ad ingenerare un legittimo affidamento nella controparte contrattuale. In applicazione di tale principio, si è stabilito – da un lato – che quando l'appaltatore inizia volontariamente la rimozione dei vizi denunciati dal committente, tiene una condotta che costituisce tacito riconoscimento di quei vizi, e che – senza novare l'originaria obbligazione gravante sull'appaltatore – ha l'effetto di svincolare il diritto alla garanzia del committente dai termini di decadenza e prescrizione di cui all'art. 1667 cod. civ. (Sez. 3, n. 6263, Rv. 622318); dall'altro lato, e converso, che quando il committente, pur avendo rilevata l'esistenza di vizi, non ne pretenda l'eliminazione, ma chieda solo il risarcimento del danno, il credito dell'appaltatore per il corrispettivo permane invariato (Sez. 2, n. 6009, Rv. 621959).

2.3.

In tema di inadempimento del contratto di appalto, nel 2012 la S.C. è ritornata su due delicate (e frequenti) questioni: la prima è se l'appaltatore debba rispondere per i vizi costruttivi derivanti da un deficit progettuale, quando il progetto non sia stato da lui predisposto; la seconda è se le parti del contratto d'appalto possano pattuire, con clausola opponibile erga omnes, l'irresponsabilità del committente per i danni causati dall'appaltatore a terzi.

La prima questione è stata risolta in conformità all'orientamento ormai consolidatissimo, secondo cui l'appaltatore risponde nei confronti del committente per i vizi derivanti da errore progettuale, a nulla rilevando che il progetto sia stato predisposto unilateralmente dal committente o da suoi incaricati. Questa affermazione viene tradizionalmente fondata sul rilievo che l'appaltatore, avendo l'obbligo di adempiere la propria prestazione rispettando i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto a prestare la garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori (Sez. 2, n. 8016, Rv. 622408). Va da sé che, ove accanto a quella dell'appaltatore, sussista anche una corresponsabilità del direttore dei lavori o del progettista, tutti costoro risponderanno in solido nei confronti del committente, salve le azioni di regresso sotto il profilo interno dell'obbligazione solidale (Sez. 2, n. 8016, Rv. 622409).

Sul tema del concorso tra l'inadempimento dell'appaltatore che abbia realizzato un opus viziato, e quello del direttore dei lavori per culpa in vigilando sull'operato del primo, un cenno speciale merita la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 4454 (Rv. 622033), poiché a prima vista potrebbe sembrare inaugurare un contrasto in realtà inesistente. Con la decisione appena ricordata, infatti, la S.C. ha escluso la responsabilità del direttore dei lavori per i danni subiti dal committente in conseguenza dell'impiego, da parte dell'appaltatore, di materiali scadenti, affermando che «la vigilanza sulla regolare realizzazione dell'opera, che compete al direttore dei lavori nominato dal committente, non comprende il controllo della qualità dei materiali utilizzati dall'appaltatore ». Tale decisione parrebbe porsi in contrasto con numerosi precedenti di legittimità, nei quali si era all'opposto affermato che il direttore dei lavori è tenuto a rispondere nei confronti del committente per l'omesso controllo sulla rispondenza della qualità dei materiali impiegati all'appaltatore a quella stabilita nel capitolato d'appalto (e multis, in tal senso, Sez. 2, n. 10728 del 2008, Rv. 603056; n. 10679 del 2007, non mass.).

Tuttavia, esaminando la fattispecie concreta decisa dalla sentenza n. 4454, sopra ricordata, ci si avvede che in quel caso l'inadempimento dell'appaltatore era consistito nella realizzazione dell'intonaco di un immobile miscelando calce e cemento in modo sproporzionato, e che tale difetto poteva essere rilevato solo attraverso un'analisi chimica dei materiali: da qui l'esclusione della colpa del direttore dei lavori, essendo ovviamente inesigibile da lui un accertamento sulle qualità fisico-chimiche dei materiali costruttivi. Pertanto nella sentenza n. 4454, sebbene la Corte abbia affermato in modo apparentemente generico che tra gli obblighi del direttore dei lavori non rientra «il controllo della qualità dei materiali utilizzati dall'appaltatore », di fatto però ne ha escluso la responsabilità in applicazione della teoria della c.d. inesigibilità della prestazione (ad impossibilia nemo tenetur).

L'inadempimento dell'appaltatore può ovviamente consistere non solo nel realizzare in modo imperfetto l'opus od il servizio demandatogli, ma anche nel provocare a terzi danni che, in considerazione delle circostanze del caso, potrebbero far sorgere nei confronti del danneggiato una responsabilità anche del committente, ai sensi – ad esempio – degli art. 2049, 2050 o 2051 cod. civ. Per scongiurare il rischio che il committente possa essere chiamato a rispondere del danno a terzi causato dall'appaltatore, sono piuttosto frequenti nei contratti di appalto clausole che obbligano quest'ultimo a tenere indenne il committente dalle pretese risarcitorie di terzi, scaturenti dall'esecuzione dell'appalto. Tali clausole, ha precisato Sez. 2, n. 2363 (Rv. 621866), non valgono ad escludere la responsabilità diretta del committente verso i terzi (beninteso, ove ne sussistano i presupposti), perché possono vincolare solo i contraenti, ma non possono ovviamente (ai sensi dell'art 1372 cod. civ.) vincolare il terzo a dirigere la propria pretesa risarcitoria verso l'una, anziché verso l'altra delle parti del contratto di appalto.

3. L'appalto di opere pubbliche.

La materia degli appalti di lavori, servizi o forniture stipulati da enti pubblici (ovvero soggetti alle procedura di evidenza pubblica nella selezione dell'appaltatore), come noto, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia per quanto concerne le controversie relative alle procedure di affidamento dell'appalto; sia per quanto concerne le controversie aventi ad oggetto il risarcimento del danno scaturente da illegittimità dei provvedimenti amministrativi adottati nell'ambito delle suddette procedure; sia, infine, relativamente alle controversie vertenti sull'accertamento della inefficacia sopravvenuta del contratto di appalto in seguito all'annullamento dell'aggiudicazione [art. 133, lettera (e), n. 1, d. lgs. 2.7.2010 n. 104].

Cionondimeno, resta tuttora molto nutrito il contenzioso pendente dinanzi la Corte e scaturente da pubblici appalti, e riguarda praticamente tutte le fasi del contratto successive all'aggiudicazione, e relative alla sua esecuzione: consegna dei lavori, facoltà di recesso, collaudo, formulazione delle riserve, pagamento del corrispettivo, svincolo delle garanzie.

Si darà conto in questa sede delle principali decisioni che nel 2012 hanno affrontato e risolto questioni sostanziali in tema di pubblici appalti. Per chiarezza espositiva, esamineremo tali decisioni raggruppandole in base alla fase dell'appalto cui esse si riferiscono.

3.1.

Con riferimento alla stipula del contratto di appalto di opere pubbliche, la già ricordata (in tema di contratto in generale) Sez. 1, n. 13296 (Rv. 623611) ha ribadito il tradizionale principio secondo cui l'eccesso di potere dell'organo competente a concludere il contratto, la rappresentanza senza potere ovvero la mancanza di deliberazione da parte dell'organo munito del potere a contrarre si traducono in difetti del consenso dell'ente medesimo, che, incidendo sulla validità ed efficacia del contratto privatistico, ne comportano l'annullabilità, onde la p.a. può farla valere o convalidarlo, anche con l'esecuzione volontaria.

Quanto ai rapporti tra procedura amministrativa di selezione del contraente e vincolo contrattuale, in una vicenda soggetta ratione temporis alle norme sui pubblici appalti contenute nella legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, la Sez. 3, n. 10617 (Rv. 623254) ha ribadito che l'annullamento del provvedimento amministrativo di aggiudicazione da parte dell'organo di controllo ne comporta l'inefficacia ex tunc, e tale inefficacia travolge gli effetti del contratto scaturito dall'aggiudicazione, «senza necessità di pronunce costitutive del suo cessato effetto o di atti di ritiro dell'amministrazione ».

3.2.

Con riferimento alla fase di consegna dei lavori da parte del committente all'appaltatore, si è ribadito il dovere della p.a. – ove non diversamente previsto dalla legge – di predisporre un progetto esecutivo immediatamente "cantierabile ", non bisognoso cioè di ulteriori specificazioni, in quanto già contenente la puntuale e dettagliata rappresentazione dell'opera. Tale dovere è stato definito dalla S.C. «integrativo delle pattuizioni contrattuali e intrasferibile all'appaltatore » (Sez. 1, n. 8779, Rv. 622739; la pronuncia aveva ad oggetto una fattispecie soggetta ratione temporis alla disciplina di cui alla l. 11 febbraio 1994, n. 109).

Non è purtroppo raro che i lavori vengano consegnati dalla p.a. committente all'appaltatore in ritardo rispetto ai termini fissati nel contratto: in questo caso si ribadito – in un caso soggetto ratione temporis alla disciplina del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 – che il colpevole ritardo della p.a. committente nella consegna dei lavori non comporta l'automatico differimento del termine per l'ultimazione dell'opera.

A fronte della ritardata consegna dei lavori, pertanto, l'appaltatore può alternativamente:

(a) presentare istanza di recesso dal contratto (la quale, se rigettata, giustifica il riconoscimento di un compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo);

(b) formulare istanza di proroga del termine di ultimazione dei lavori, prima della scadenza di esso.

E dunque, se l'appaltatore né recede dal contratto, né chiede la proroga, egli resta soggetto all'obbligo di rispetto del termine originariamente stabilito nel contratto (Sez. 1, n. 9233, Rv. 622765). Resta invece escluso che, nell'ipotesi in esame, l'appaltatore possa invocare nei confronti del committente l'istituto generale della risoluzione per inadempimento di cui all'art. 1453 cod. civ. (Sez. 1, n. 4780, Rv. 621968).

3.3.

Con riferimento alla fase di esecuzione dei lavori, nuova è l'affermazione del principio secondo cui, quando l'amministrazione eserciti lo speciale diritto di rescissione del contratto per inadempimento dell'appaltatore, accordatole dall'art. 340 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F, a fondamento di tale scelta può legittimamente invocare l'inosservanza, da parte dell'appaltatore, degli ordini di servizio impartiti dalla direzione dei lavori o dall'ingegnere capo: tali ordini infatti, pur non costituendo atti pubblici, non sono tuttavia equiparabili a mere comunicazioni o informative di parte, ma costituiscono esercizio di diritti potestativi (Sez. 1, n. 13297, Rv. 623581).

È stato altresì confermato il tradizionale principio secondo cui l'appaltatore non può apportare variazioni al progetto se non dietro ordine scritto dell'amministrazione committente, non surrogabile nemmeno da tacita accettazione postuma (Sez. 1, n. 8786, Rv. 622743), né può sospendere i lavori, nemmeno quando ravvisi la necessità di una variante al progetto originario, se non vi è alcuna necessità di ordine tecnico che impedisca la prosecuzione dei lavori progettati, e non ha quindi diritto al risarcimento dei danni conseguenti a tale volontaria sospensione (Sez. 1, n. 9246, Rv. 623158).

Sul versante degli obblighi gravanti sul committente (diversi da quello di pagamento del corrispettivo), si è affermato che è inadempiente la p.a. che non esegua il collaudo nei termini stabilito dal contratto, e che di conseguenza a partire dall'inutile scadenza di tale termine non solo l'appaltatore può agire in sede giurisdizionale per far valere i suoi diritti, senza necessità di costituire preliminarmente in mora la debitrice, né di assegnarle o chiedere che le sia assegnato un termine, ma inizia anche a decorrere il termine di prescrizione (Sez. 1, n. 10377, Rv. 623097).

3.4.

Non si registrano grosse novità in tema di iscrizione ed illustrazione delle riserve: anche nel 2012 sono stati confermati i tradizionali principî secondo cui l'appaltatore ha l'onere di iscrivere tempestivamente la riserva relativa alla pretesa di maggiori compensi in relazione a situazioni sopravvenute, non solo quando la nuova situazione di fatto renda più onerosi i lavori, ma anche quando sia ragionevolmente prevedibile che li renderà più onerosi in futuro (Sez. 1, n. 4566, Rv. 621410); e l'altro secondo cui la materiale indisponibilità del registro di contabilità non esonera l'appaltatore, che abbia formulato una riserva generica, dall'obbligo di esplicitarla nel termine di legge mediante tempestiva comunicazione all'Amministrazione con apposito atto scritto (Sez. 1, n. 8242, Rv. 622612).

Nuova ed importante, invece, è l'affermazione secondo cui l'accertamento della tempestività dell'iscrizione della riserva, poiché esige la verifica che il momento della iscrizione rientri nell'ambito temporale normativamente stabilito, costituisce una valutazione in diritto, con la conseguenza che deve ritenersi ammissibile, ai sensi dell'art. 829 cod. proc. civ., l'impugnazione per nullità di un lodo arbitrale nel caso di dedotta inosservanza delle regole di diritto in tema di tempestività delle riserve (Sez. 1, n. 14773, Rv. 623825).

3.5.

Numerose e significative sono state, anche nel 2012, le pronunce concernenti l'obbligo di pagamento del corrispettivo a carico del committente, e la misura di esso.

Tali decisioni hanno riguardato principalmente il pagamento degli acconti; gli accordi di ripartizione del corrispettivo tra le imprese partecipanti ad un raggruppamento; gli effetti delle variazioni in coso d'opera sul corrispettivo determinato "a corpo "; ed i criteri di calcolo del corrispettivo nel caso di contratto stipulato col sistema del "prezzo chiuso ", ai sensi dell'art. 33 della legge 28 febbraio 1986, n. 41.

Sotto il primo profilo (ma relativamente ad una fattispecie soggetta, ratione temporis, all'art. 3 della legge 10 dicembre 1981 n. 741), la Sez. 1, n. 9233 (Rv. 622766) ha stabilito che la norma appena ricordata, nel rendere obbligatoria la corresponsione dell'anticipazione e subordinandola soltanto all'avvenuto inizio dei lavori ovvero all'esecuzione della prestazione, senza necessità di un'apposita richiesta dell'appaltatore, ha previsto una ipotesi di mora ex re del committente. Pertanto il mero decorso del semestre dall'inizio dei lavori vale di per sé a costituire in mora la p.a. committente.

Sotto il secondo profilo, la Sez. 1, n. 837 (Rv. 621239) ha ritenuto nullo, in quanto in frode alla legge, il patto in virtù del quale le imprese partecipanti ad una associazione temporanea di imprese i corrispettivi dovuti dal committente vengano ripartiti in modo difforme da quanto stabilito nel contratto di appalto.

Sotto il terzo profilo, viene in rilievo la decisione con la quale si è precisato come ed a quali condizioni un corrispettivo pattuito a corpo possa essere variato in corso d'opera. Tale decisione (Sez. 1, n. 9246, Rv. 623157) ha affermato due principî.

Il primo è che nel caso in cui la p.a., dopo avere pattuito un corrispettivo "a corpo ", abbia comunque proceduto all'esito dei lavori alla redazione di un computo metrico estimativo delle opere compiute dall'appaltatore, ottenendo un risultato non coincidente con l'importo del compenso "a corpo ", deve escludersi l'applicabilità della disciplina sull'errore di calcolo, poiché l'eventuale difformità tra il corrispettivo "a corpo " e quello ottenuto applicando i prezzi unitari alle quantità previste dal computo metrico non dà luogo ad un errore di calcolo rettificabile, poiché ciò che conta è solo il prezzo finale che, quando è accettato, è vincolante per l'appaltatore, mentre il richiamo ai prezzi unitari e ai calcoli contenuti nel computo metrico ha valore di semplice traccia indicativa delle modalità di formazione del prezzo globale che è destinata a restare fuori dal contenuto del contratto.

Il secondo principio affermato da Sez. 1, n. 9246 (Rv. 623156) è che pur essendo il prezzo "a corpo " fisso e invariabile, in quanto riferito all'opera globalmente considerata, l'appaltatore ha diritto ad un compenso ulteriore per i lavori aggiuntivi eseguiti su richiesta del committente o per effetto di varianti, il quale dev'essere calcolato "a misura " limitatamente alle quantità variate, mentre le parti di opere rimaste invariate devono essere compensate secondo il prezzo "a corpo " accettato dall'appaltatore, indipendentemente dalla loro effettiva misura, atteso che un appalto "a corpo " non può trasformarsi progressivamente in appalto a "misura ".

Sotto il quarto profilo, infine, la S.C. ha compiuto importanti precisazioni sui criteri di computo del corrispettivo nel caso di appalto a "prezzo chiuso ".

Il corrispettivo "a prezzo chiuso " (ex art. 33, quarto comma, della legge 28 febbraio 1986 n. 41, oggi abrogato) consisteva nel prevedere che il prezzo dei lavori al netto del ribasso d'asta fosse automaticamente aumentato in modo forfettario del 5 per cento «per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori ».

Tale particolare modalità di aggiornamento del corrispettivo, ha precisato la Sez. 1, n. 7917 (Rv. 622770), si distingue dall'istituto della "revisione dei prezzi ", in quanto quest'ultimo mira a ristabilire il rapporto sinallagmatico tra le contrapposte prestazioni dell'appaltatore e del committente mediante l'adeguamento del corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato, qualora questi superino la soglia della normale alea contrattuale. Il sistema del "prezzo chiuso ", invece, soddisfa l'esigenza di predeterminazione dell'impegno finanziario assunto dalla P.A., garantita grazie al criterio dell'alea convenzionale, forfetizzata per entrambi i contraenti, in virtù di un sistema di computo automatico degli aumenti, sganciato dal collegamento con l'inflazione reale e caratterizzato dalla predeterminazione ex ante. Da ciò la conseguenza che nel caso di "prezzo chiuso " è inapplicabile la disciplina in materia di revisione dei prezzi.

Per quanto attiene ai criteri di calcolo del "prezzo chiuso ", nel 2012 la S.C. ha stabilito al riguardo tre importanti principî:

(a) il primo è che la maggiorazione del 5% dev'essere calcolata sul corrispettivo al netto del ribasso d'asta tante volte quanti sono gli anni contrattualmente previsti per l'esecuzione dei lavori, compreso il primo anno, e non applicando il metodo a scalare (consistente nel calcolare l'aumento del 5 per cento per il primo anno, sul valore complessivo del contratto e, per gli anni successivi, sul valore residuo dei lavori da eseguire e senza computare le somme già corrisposte all'appaltatore per i lavori effettuati: così Sez. 1, n. 7917, Rv. 622771);

(b) il secondo è che nella determinazione della maggiorazione del 5% si deve tenere conto dei periodi di sospensione totale dei lavori per fatti non imputabili all'appaltatore (Sez. 1, n. 7917, Rv. 622773);

(c) il terzo è che anche nel caso di "prezzo chiuso " spetta all'appaltatore una maggiorazione del corrispettivo nel caso di variazione in aumento dei lavori regolarmente approvate, calcolata "a misura " (Sez. 1, n. 7917, Rv. 622772).

4. L'assicurazione.

Come di consueto, anche nel 2012 la produzione giurisprudenziale della S.C. in materia di assicurazione è stata assai copiosa; tuttavia la stragrande maggioranza delle decisioni ha riguardato l'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica (r.c.a.).

4.1. Assicurazione contro i danni.

In tema di assicurazione contro i danni, va segnalata innanzitutto l'importante decisione pronunciata da Sez. 3, n. 21070 (in corso di massimazione), avente ad oggetto un problema da tempo dibattuto in dottrina: e cioè se nell'assicurazione per conto altrui, al fine dell'applicabilità delle norme a tutela dei consumatori, la qualità di consumatore debba essere rivestita dal contraente o dall'assicurato. La sentenza appena ricordata, chiamata a risolvere il problema postosi con riferimento ad un'assicurazione contro gli infortuni, ha optato per la prima soluzione (ritenendo dunque che, se il contraente non è consumatore, le norme di cui agli art. 33 e segg. codice del consumo non si applicano, a nulla rilevando che tale qualità sia rivestita dal beneficiario). In precedenza, tuttavia, la Corte non sempre era stata di questo avviso: a conclusioni opposte era infatti pervenuta la Sez. 3, ord. n. 369 del 2007 (Rv. 594370), la quale aveva ritenuto applicabile il foro del consumatore in un caso in cui un'associazione sportiva aveva stipulato una polizza a beneficio degli associati.

Molto importante è stata anche la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 3961 (Rv. 621404), e riguardante gli effetti dell'inserimento nel contratto d'una clausola che preveda la c.d. perizia contrattuale per la determinazione dell'indennizzo.

In questa sentenza sono stati affermati due principî.

Il primo principio è che la previsione della perizia contrattuale, rendendo inesigibile il diritto all'indennizzo fino alla conclusione delle operazioni peritali, sospende fino a tale momento la decorrenza del relativo termine di prescrizione ex art. 2952, secondo comma, cod. civ.; a condizione, tuttavia, che il sinistro sia stato denunciato all'assicuratore entro il termine di prescrizione del diritto all'indennizzo, decorrente dal giorno in cui si è verificato, in tal modo potendosi attivare la procedura di accertamento del diritto ed evitandosi che la richiesta di indennizzo sia dilazionata all'infinito.

Da tale principio discende che, ove il contratto preveda una c.d. "perizia contrattuale ", possono verificarsi due ipotesi:

(a) l'assicurato non chiede la perizia entro due anni dal sinistro: il diritto all'indennizzo è prescritto;

(b) l'assicurato chiede la perizia entro due anni dal sinistro, ma le operazioni peritali si protraggono oltre il biennio: il termine di prescrizione è sospeso dal giorno della richiesta di perizia, e ricomincia a decorrere dalla conclusione di essa.

Il secondo principio affermato da Sez. 3, n. 3961 (Rv. 621405), è che la previsione d'una perizia contrattuale non impedisce alle parti di sollevare in giudizio questioni preliminari di merito concernenti la stessa esistenza del diritto all'indennizzo, trattandosi di questioni sottratte alla competenza dei periti e idonee a definire la lite senza necessità di ulteriori indagini sull'entità del danno.

Tale affermazione, sebbene conforme all'orientamento più recente della S.C., non sempre in passato era stata condivisa. Secondo un diverso orientamento, infatti, la previsione dell'obbligatorio ricorso ad una perizia contrattuale, nel caso di contrasto sulla misura dell'indennizzo, rende improponibile la domanda dinanzi al giudice ordinario sia nel caso in cui l'assicuratore contesti il quantum preteso dall'assicurato, sia nel caso in cui l'assicuratore eccepisca la non indennizzabilità del sinistro (così Sez. 3, n. 13339 del 1999, Rv. 531664-5).

4.2. Assicurazione della responsabilità civile.

In tema di assicurazione generale della responsabilità civile, merita un cenno la decisione di Sez. L, n. 8686 (Rv. 623115): non tanto per il suo rilievo teorico, ma per la sua importanza pratica, a causa della frequenza con cui si verifica la fattispecie da essa decisa. Tale sentenza ha affermato che nel caso in cui l'assicurato sia responsabile del danno in solido con altra persona, l'obbligo indennitario dell'assicuratore della r.c. nei confronti dell'assicurato non è riferibile alla sola quota di responsabilità dell'assicurato operante ai fini della ripartizione della responsabilità tra i condebitori solidali, ma si estende a tutto quanto l'assicurato deve pagare al terzo danneggiato nei limiti del massimale.

Infine, sempre con riferimento all'assicurazione della r.c. generale, la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 4234 (Rv. 621633), ha ribadito un importante principio in tema di riparto dell'onere della prova, stabilendo che ove l'assicuratore convenuto per il pagamento dell'indennizzo alleghi l'esclusione della garanzia, tale allegazione costituisce una mera difesa, rispetto alla quale l'assicuratore stesso non assume alcun onere probatorio, che resta, perciò, immutato a carico dell'attore.

4.3. Assicurazione obbligatoria della r.c.a.

Molto numerose, come accennato, sono state le decisioni pronunciate dalla S.C. nel 2012 in tema di assicurazione obbligatoria della r.c.a.

Tali decisioni hanno riguardato una gran parte degli aspetti della disciplina della r.c.a.: l'ambito di applicazione, la responsabilità ultramassimale dell'assicuratore, la legittimazione dell'impresa designata e dell'UCI.

4.3.a.

Per quanto concerne l'ambito di applicazione delle norme sull'assicurazione r.c.a., è stato ribadito il principio secondo cui la vittima di un sinistro stradale ha azione diretta nei confronti dell'assicuratore del responsabile non solo quando il sinistro sia avvenuto su un'area pubblica, ma anche quando sia avvenuto in un'area che, sebbene privata, possa equipararsi alla strada di uso pubblico, in quanto aperta a un numero indeterminato di persone, che vi hanno accesso giuridicamente lecito, pur se appartenenti a una o più categorie specifiche e pur se l'accesso avvenga per finalità peculiari e in particolari condizioni. In applicazione di tale principio, si è ritenuto soggetto alla disciplina sull'assicurazione obbligatoria della r.c.a. il sinistro avvenuto in un cantiere, cui potevano accedere coloro che vi lavoravano e chi aveva rapporti commerciali con l'impresa (Sez. 3, n. 9441, Rv. 622675).

4.3.b.

Non ci sono state novità di rilievo in materia di massimale assicurato: sono stati confermati sia il tradizionale orientamento secondo cui grava sul terzo danneggiato l'onere di provare la misura del massimale assicurato, prova che tuttavia, può essere data sia attraverso la produzione in giudizio della polizza, sia attraverso l'esibizione di altri documenti, dai quali sia desumibile il contenuto del contratto (Sez. 3, n. 16541, Rv. 623760); sia l'altro orientamento – anch'esso consolidato – secondo cui grava sul danneggiato che domanda la condanna dell'assicuratore del responsabile al risarcimento del danno oltre il limite del massimale per c.d. mala gestio impropria l'onere di dedurre il ritardo dell'assicuratore nella liquidazione del danno, mentre grava sull'assicuratore l'onere di eccepire e provare la non imputabilità del ritardo medesimo (Sez. 3, n. 17167, Rv. 623794).

4.3.c.

Con l'ordinanza pronunciata da Sez. 6-3, n. 5928 (Rv. 622085), la Corte invece si è pronunciata su uno dei tanti problemi posti dal controverso istituto del risarcimento diretto di cui all'art. 149 cod. ass.

Con tale ordinanza la S.C. ha escluso che l'azione diretta, accordata dalla norma appena ricordata alla vittima di un sinistro stradale nei confronti del proprio assicuratore abbia natura contrattuale. Tale obbligazione infatti scaturisce direttamente dalla legge, e l'effetto dell'art. 149 cod. ass. è stato soltanto quello di «sostituire l'assicurazione del danneggiato a quella del responsabile nel rispondere della pretesa risarcitoria ». Da questa ricostruzione dell'istituto la S.C. ha tratto la conseguenza che rispetto al proprio assicuratore la posizione del danneggiato resta quella di chi ha subito un illecito civile, e non si configura come quella del consumatore: da ciò l'inapplicabilità delle norme sulla competenza speciale ratione loci del c.d. foro del consumatore, ai sensi dell'art. 33 d. lgs. 7 settembre 2005, n. 206.

4.3.d.

Con un ulteriore gruppo di decisioni la S.C. ha esaminato varie fattispecie nelle quali dei danni causati dal sinistro era stata chiamata a rispondere l'impresa designata per conto del Fondo di garanzia vittime della strada.

Molto importante, sotto questo profilo, è stata la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 9939 (Rv. 623013), la quale sembra avere definitivamente superato le incertezze che, in passato, si erano registrate in merito al contenuto della prova che la vittima di un sinistro causato da veicolo non identificato deve fornire per ottenere l'accoglimento della domanda nei confronti dell'impresa designata. Negli anni passati, infatti, qualche decisione della S.C. aveva adombrato la necessità che la vittima denunciasse tempestivamente l'accaduto alla polizia od all'autorità giudiziaria, e che in mancanza di tale denuncia non fosse ammissibile alcuna domanda risarcitoria nei confronti dell'impresa designata. La sentenza appena ricordata, invece, ha escluso recisamente che la vittima del sinistro causato da un veicolo non identificato abbia l'obbligo di presentare una denuncia od una querela contro ignoti. L'esistenza o l'inesistenza di tale denuncia, ha precisato la S.C., costituisce un mero indizio, da valutare insieme a tutti gli altri eventualmente esistenti, per stabilire se sussista il diritto al risarcimento. Pertanto, la circostanza che la vittima, nell'immediatezza del sinistro, abbia presentato una denuncia penale priva dell'indicazione di testimoni, mentre tali testimoni abbia poi intimato nel giudizio civile di risarcimento del danno, non costituisce di per sé motivo di rigetto della domanda, mentre può essere liberamente valutata dal giudice di merito quale indice sintomatico della inattendibilità dei testimoni stessi.

Ma la maggior parte di decisioni aventi ad oggetto domande nei confronti dell'impresa designata hanno riguardato fattispecie in cui l'assicuratore del responsabile era stato posto in liquidazione coatta amministrativa (l.c.a.) dopo il sinistro. Tale decisioni hanno tutte avuto ad oggetto fattispecie soggette ratione temporis alla legge 24 dicembre 1969, n. 990 (e successive integrazioni): tuttavia si ritiene opportuno darne conto, a causa dell'elevato numero di controversie ancora pendenti concernenti tale disciplina, non senza avere previamente ricordato che le conseguenze sostanziali e processuali della l.c.a. dell'assicuratore della r.c.a. sono state profondamente modificate dal codice delle assicurazioni, e non molti i punti di contatto tra la vecchia e la nuova disciplina.

Venendo dunque all'esame di tali decisioni, sul piano sostanziale va ricordata la sentenza pronunciata da Sez. 3, n. 9727 (Rv. 623024), la quale ha affrontato il problema della responsabilità ultramassimale dell'impresa designata, convenuta in giudizio ai sensi dell'art. 19 l. 24 dicembre 1969, n. 990, a causa della l.c.a. dell'assicuratore del responsabile. Tale responsabilità secondo la S.C., non potrebbe mai eccedere il massimale di legge, nemmeno nell'ipotesi in cui la polizza stipulata dall'impresa posta in liquidazione prevedesse un massimale maggiore: e ciò tanto nell'ipotesi in cui sia stata l'impresa designata a ritardare colpevolmente il pagamento dell'indennizzo, quanto nel caso in cui il ritardo fosse ascrivibile all'assicuratore in bonis.

Più numerose le sentenze relative agli effetti processuali della liquidazione coatta dell'assicuratore della r.c.a.: in particolare per quanto riguarda la proponibilità della domanda e la legittimazione all'impugnazione.

Sul piano della proponibilità della domanda, prima di dare conto della giurisprudenza della Corte può essere utile ricordare che prima dell'entrata in vigore del codice delle assicurazioni la legge prevedeva varie forme di l.c.a. dell'assicuratore della r.c.a., ciascuna con regole particolari: la l.c.a. pura e semplice, la l.c.a. con cessione del portafoglio disposta dal commissario liquidatore (art. 11 del decretolegge 23 dicembre 1976, n. 857, convertito nella legge 26 febbraio 1977, n. 39); la l.c.a. con cessione del portafoglio disposta dal ministro (art. 1 decreto-legge 26 settembre 1978, n. 576, convertito dalla legge 24 novembre 1978, n. 738. Tutte le norme appena ricordate sono state abrogate dal codice delle assicurazioni).

Nel caso di l.c.a. con cessione del portafoglio disposta ai sensi del d.l. 578 del 1978, la legge prevedeva (art. 8 d.l. cit.), quale condizione di proponibilità della domanda risarcitoria da parte del danneggiato nei confronti dell'impresa cessionaria, l'invio d'una previa richiesta scritta e il decorso di uno spatium deliberandi di sei mesi. Con riferimento a tale previsione la Sez. 3, n. 3716 (Rv. 621397) ha escluso che il suddetto onere violasse l'art. 3 Cost., in quanto giustificato dall'esigenza di consentire a quell'impresa gli accertamenti necessari per promuovere l'amichevole composizione delle controversie.

Sul piano della legittimazione ad impugnare, molti problemi erano sorti negli anni passati a causa della previsione normativa la quale stabiliva che, in caso di l.c.a. dell'assicuratore della r.c.a., la domanda andava proposta nei confronti del commissario liquidatore, e nel giudizio dovesse essere convenuta anche l'impresa designata per conto del Fondo di garanzia. Ove, poi, la l.c.a. fosse sopravvenuta in corso di causa, l'impresa designata aveva facoltà di intervenirvi.

Si era così posto il problema di stabilire se la legittimazione ad impugnare spettasse solo all'impresa designata, in quanto quella materialmente tenuta a risarcire la vittima in caso di condanna; ovvero anche al commissario liquidatore dell'assicuratore posto in l.c.a., in quanto esposto all'azione di rivalsa dal Fondo.

La S.C. ha riconosciuto la legittimazione ad impugnare ad ambedue tali soggetti: sia all'impresa designata, in quanto successore a titolo particolare nel diritto controverso, alla quale si è altresì accordata la facoltà di far propria l'impugnazione proposta dall'assicuratore in bonis, intervenendo in appello (Sez. 3, n. 9727, Rv. 623023)]; sia al commissario liquidatore dell'impresa in l.c.a. (Sez. 3, n. 3968, Rv. 622084).

4.3.e.

Nella complessiva giurisprudenza di legittimità sull'assicurazione della r.c.a. la decisione più importante ha riguardato nel 2012 i problemi legati alla legittimazione passiva dell'Ufficio Centrale Italiano (U.C.I.), nel caso di sinistro causato da veicolo con targa estera.

Con la sentenza pronunciata da Sez. 3, n. 7932 (Rv. 622561 e Rv. 622563) la S.C. ha affermato al riguardo due importanti principî.

Il primo riguarda la domiciliazione ex lege dei responsabili stranieri di un sinistro causato in Italia presso l'UCI.

Già in passato la S.C. aveva affermato che la legge prevede tale domiciliazione solo ai fini della citazione dei responsabili in giudizio quali litisconsorti necessari rispetto alla domanda proposta contro l'UCI: con la conseguenza che se la vittima intenda formulare domanda di condanna anche nei loro confronti ex art. 2054 cod. civ., essa ha l'onere di notificare loro la citazione presso le rispettive residenze.

Questo principio è stato ribadito nel 2012 dalla sentenza sopra ricordata, ma con una importante precisazione, gravida di conseguenze sul piano pratico: e cioè che il giudice di merito, quando deve stabilire se l'attore, notificando la citazione presso l'UCI, abbia inteso o meno formulare nei loro confronti una domanda di risarcimento del danno, deve tenere conto del fatto che la domiciliazione ex lege dei responsabili presso l'UCI è prevista per accelerare e snellire il processo, in coerenza con il disposto dell'art. 111 cost.: parrebbe dunque che la Corte abbia voluto introdurre il principio secondo cui, in caso di dubbio, deve ritenersi che i responsabili siano stati citati presso l'UCI solo quali litisconsorti e non quali destinatari della domanda di risarcimento, in modo da evitare le lungaggini di una rinnovazione della notifica all'estero.

Il secondo principio affermato dalla sentenza n. 7932 riguarda la legge applicabile ai sinistri causati in Italia da veicoli con targa estera. La Corte ha precisato a tal riguardo che le norme le quali prevedono la legittimazione passiva dell'UCI (art. 125 e 126 del codice delle assicurazioni) sono di applicazione necessaria, ai sensi dell'art. 17 della legge 31 maggio 1995, n. 218. Ne consegue che, quand'anche il sinistro abbia coinvolto solo cittadini stranieri tutti della medesima nazionalità, sono regolati dalla legge italiana sia l'accertamento del rispetto delle norme sulla circolazione stradale, sia la sussistenza dei presupposti e dei limiti della responsabilità dell'UCI, in quanto obbligazioni nascenti dalla legge, ai sensi dell'art. 61, ultima parte, della citata legge n. 218 del 1995. Resteranno, per contro, soggette alla legge comune del danneggiante e del danneggiato, ai sensi dell'art. 62, comma 2, della legge n. 218 del 1995, le questioni relative alla quantificazione del danno.

4.3.f.

Un cenno meritano, infine, le decisioni che hanno riguardato varie questioni processuali concernenti l'azione diretta spettante alla vittima di un sinistro stradale nei confronti dell'assicuratore del responsabile.

Sul piano della proponibilità della domanda, come noto soggetta all'onere di previa richiesta scritta all'assicuratore ed attesa dello spatium deliberandi stabilito dalla legge (art. 145 cod. ass. e, in precedenza, art. 22 l. 24 dicembre 1969, n. 990), la Corte ha stabilito che tale onere vada adempiuto dal danneggiato anche quando, avendo patito il danno nella veste di trasportato a titolo contrattuale, intenda proporre nei confronti del vettore l'azione di cui all'art. 1681 cod. civ. (Sez. 3, n. 16263, Rv. 623744).

Sul piano della individuazione del litisconsorte necessario rispetto all'azione diretta proposta dalla vittima nei confronti dell'assicuratore, la Sez. 3, n. 947 (Rv. 620413) ha chiarito che, nel caso di sinistro causato da veicolo concesso in leasing, litisconsorte necessario sarà l'utilizzatore per i sinistri avvenuti dopo l'entrata in vigore dell'art. 91, comma 2, codice della strada (d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), ed il concedente-proprietario per i sinistri avvenuti prima di tale data.

Infine, con riferimento all'efficacia riflessa nei confronti dell'assicuratore della r.c.a. del giudicato formatosi tra il responsabileassicurato ed il danneggiato, la Sez. 3, n. 1359 (Rv. 621256) ha ritenuto che la sentenza di condanna al risarcimento del danno pronunciata nei confronti del responsabile di un sinistro stradale fa stato nei confronti del suo assicuratore della responsabilità civile anche se l'assicuratore non abbia partecipato al relativo giudizio. Ciò in quanto «l'assicuratore non è titolare di una posizione autonoma rispetto al rapporto cui si riferisce la sentenza e non può disconoscere l'accertamento in essa contenuto come affermazione oggetto di verità ». Tale decisione va tuttavia coordinata con i principî stabiliti da Sez. Un., n. 10311 del 2006 (Rv. 588600), secondo cui la sola confessione dell'assicurato non basta per condannare anche l'assicuratore della r.c. Pertanto la sentenza di condanna dell'assicurato, che si sia fondata unicamente sulla confessione di quest'ultimo, non potrebbe comunque essere opponibile all'assicuratore del confitente.

4.4. Assicurazione sulla vita.

Molto scarso, come di consueto, è stato anche nel 2012 il contenzioso in sede di legittimità in tema di assicurazione sulla vita.

Tuttavia non può non segnalarsi al riguardo l'importante decisione pronunciata da Sez. 3, n. 6061 (Rv. 622089), la quale ha ammesso che le polizze vita nelle quali la prestazione dovuta dall'assicuratore sia agganciata ad un indice o al valore della quota di un fondo (polizze index-linked ed unit-linked), non necessariamente debbono costituire prodotti assicurativi, ma potrebbero anche – in base al loro contenuto oggettivo – costituire un vero e proprio contratto finanziario. Qualificare il contratto nell'un senso o nell'altro è tuttavia una valutazione di fatto, che resta affidata al giudice di merito.

5. Il comodato.

Il 2012 ha fatto registrare varie importanti decisioni della S.C. in tema di comodato, in particolare per quanto riguarda due problemi: la sorte del comodato di immobile concesso da un terzo a beneficio di un nucleo familiare nel caso di separazione dei coniugi, e la rifusione delle spese sostenute dal comodatario a pro della cosa.

Sotto il primo profilo va segnalato come in due decisioni del 2012 parrebbe annidarsi un larvato contrasto.

La prima, infatti (Sez. 3, n. 2103, Rv. 621670), ha ritenuto che nella concessione in comodato di un bene immobile, compiuta da uno dei genitori in favore di un figlio affinché funga da residenza familiare, sia implicito il termine della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell'art. 1809, primo comma, cod. civ. Di conseguenza, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato.

La seconda decisione invece (Sez. 3, n. 14177, Rv. 623723) in una fattispecie analoga, ha ritenuto che il comodato di un bene immobile concesso da un terzo in favore di un congiunto, perché fosse destinato ad abitazione familiare del comodatario, deve ritenersi a tempo indeterminato.

Mentre, dunque, la sentenza 2103 ha ritenuto che la dissoluzione del nucleo familiare costituisca un termine implicito al comodato, la sentenza 14177 ha qualificato il comodato familiae gratia come contratto a tempo indeterminato (al riguardo, cfr. pure i capitoli II, § 2.1 e V, § 2).

Con riferimento, invece, al problema delle spese necessarie per il conveniente utilizzo del bene concesso in comodato, ha stabilito Sez. 2, n. 1216 (Rv. 621154) che il comodatario è libero di decidere se sostenerle o meno, ma se decide di affrontarle lo fa nel suo esclusivo interesse e non può, conseguentemente, pretenderne il rimborso dal comodante.

6. Prelazione e riscatto nei contratti agrari.

Sez. 3, n. 3727 (Rv. 621655 e 621656) ha evidenziato come, ai fini dell'esercizio dei diritti di prelazione e di riscatto agrari, il requisito della contiguità tra il fondo del coltivatore diretto e quello posto in vendita deve sussistere con riferimento alle porzioni di quello che abbiano destinazione agricola.

Così, ove sia posto in vendita un terreno unitario, avente però solo in parte destinazione agricola, la prelazione od il riscatto non possono essere esercitati se le porzioni a destinazione non agricola si frappongono fra quelle a destinazione agricola ed il confine del fondo del prelazionario, venendo meno, in questo caso viene meno il requisito della contiguità materiale tra i due fondi. Sempre in ipotesi di alienazione di un fondo destinato in parte a scopi agricoli ed in parte ad attività diverse, il coltivatore diretto può esercitare la prelazione anche non su tutto il fondo, ma solo sulla parte di esso avente destinazione agricola, ferma restando, però, la facoltà del proprietario di esigere che la medesima prelazione si estenda all'intero fondo, allorché le parti non destinate a scopi agricoli, staccate dalle restanti, diverrebbero relitti inutilizzabili.

Invero, è risaputo come la prelazione agraria dia forma all'auspicio legislativo di sviluppo dell'impresa coltivatrice, ravvisando nel presupposto della coltivazione del fondo un elemento qualificante della posizione del legittimato, e perciò favorendo l'interesse del coltivatore medesimo a consolidare nella propria persona impresa agricola e proprietà del bene oggetto del rapporto (ponendosi, del resto, il concedente, nel rapporto agrario, sia pure ai fini della tutela dettata dall'art. 36 Cost., non come un "datore di lavoro ", ovvero come un soggetto che si appropria dei risultati dall'attività lavorativa manuale prestata dall'affittuario "lavoratore ", ma unicamente come proprietario di uno degli elementi dell'azienda di cui l'affittuario "imprenditore agricolo " si avvale per l'esercizio della sua impresa: Sez. 3, n. 3733, Rv. 622021). Vige pertanto, anche in materia, il principio della parità di condizioni, il quale permea l'intero sistema delle prelazioni legali, presupponendo, tra l'altro, la normale la coincidenza dell'oggetto del trasferimento con quello del rapporto agrario, e postula, in definitiva, che il vincolo normativo d'acquisto, nella prospettiva del soggetto vincolato, si riduca alla mera imposizione di un contraente diverso da quello prescelto, senza che tale surrogazione incida negativamente sulla soddisfazione degli interessi correlati alla prestazione attesa.

7. I contratti bancari.

Nel 2012 il numero di sentenze chiamate ad occuparsi di contratti bancari non sono state numerosissime. Nondimeno, vanno segnalate talune rilevanti decisioni in tema di deposito bancario e di conto corrente bancario.

Ha, innanzitutto, stabilito Sez. 1, n. 2033 (Rv. 621347) che un contratto di deposito può ritenersi validamente stipulato solo quando la consegna del denaro da parte del cliente alla banca sia avvenuta con le modalità prescritte dalla prassi bancaria. È stata, di conseguenza, esclusa la ravvisabilità d'un contratto di deposito (e, di conseguenza, la responsabilità della banca per il fatto del dipendente che si era appropriato della somma depositata), in un caso in cui il cliente aveva consegnato alla direttrice della filiale, nei locali della stessa, delle somme di denaro, ricevendone uno stampato siglato, senza alcuna prova che la materiale consegna delle somme fosse neppure avvenuta in relazione alla posizione organica da quella ricoperta.

Quanto all'obbligo della banca di restituire le somme depositate, Sez. 1, n. 788 (Rv. 621208) ha ritenuto che poiché esso sorge solo in seguito alla richiesta del cliente, se questi resta silente tale condotta non può mai essere interpretata come manifestazione di disinteresse a far valere il suo diritto, cui possa collegarsi il decorso del termine prescrizionale, ma come mero esercizio di una facoltà. Da ciò la conseguenza che la prescrizione del diritto del depositante ad ottenere la restituzione delle somme depositate non inizia a decorrere prima che il cliente abbia richiesto la somma in restituzione, facendo sorgere il corrispondente obbligo della banca.

In tema di conto corrente bancario vanno segnalate, tra le altre, tre decisioni, rispettivamente in tema di condizioni generali di contratto, legittimazione ad operare e revocatoria delle rimesse in conto.

La prima di tali decisioni (Sez. 3, n. 8548, Rv. 622813) con riferimento alle condizioni generali di contratto ha ritenuto che l'obbligo della banca di comunicare al cliente le variazioni unilaterali delle condizioni di contratto, previsto dall'art. 118 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, sussiste solo se tali variazioni siano state decise dalla banca stessa ed in senso sfavorevole alla controparte. Tale obbligo non sussiste, invece, quando la variazione del saggio di interesse o di altre condizioni sia stata concordemente subordinata dalle parti alle corrispondenti variazioni di elementi obiettivi ed esterni (quali, ad esempio, il tasso di cambio di una valuta), trattandosi, in tal caso, di modifica non unilaterale del contratto, della quale il cliente ha assunto preventivamente il rischio.

La seconda decisione (Sez. 1, n. 16671, in corso di massimazione) aveva ad oggetto il problema della legittimazione ad operare su un deposito titoli cointestato a due persone (ma, si badi, nella motivazione si afferma espressamente che i principî ivi affermati varrebbero a fortiori per il conto corrente), problema al quale la Corte, confermando proprie precedenti decisioni, ha dato soluzione stabilendo che la legittimazione ad operare deve presumersi sempre congiunta, salvo che il contratto prevede espressamente una legittimazione disgiunta. La relativa prova, pertanto, incombe su chi intende affermare la validità dell'operazione compiuta dal singolo correntista.

Infine, la sentenza pronunciata da Sez. 1, n. 7158 (Rv. 622335), ha compiuto una importante precisazione sul delicato problema della revocabilità delle rimesse sul proprio conto corrente effettuate dall'imprenditore poi dichiarato fallito. Nel caso deciso da tale sentenza l'imprenditore aveva effettuato sia versamenti, sia prelevamenti sul medesimo conto corrente e nel medesimo giorno, in cui si era verificato uno scoperto. Era sorto così il problema di stabilire se alle suddette rimesse dovesse attribuirsi una funzione solutoria o meno, perché solo nel primo caso sarebbero state revocabili.

A tale problema, la sentenza n. 7158 ha risposto stabilendo che il fallimento, il quale abbia proposto l'azione revocatoria nei confronti della banca invocando il carattere solutorio delle rimesse rispetto saldo infragiornaliero (e non al saldo della giornata), ha l'onere di dimostrare la cronologia dei singoli movimenti. Tale cronologia, ha soggiunto poi la Corte, non può essere desunta né dall'ordine delle operazioni risultante dall'estratto conto, né dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto.

8. I contratti finanziari (rinvio).

Per i contratti finanziari, attesa l'importanza che hanno assunto nell'economia degli ultimi decenni, e le connesse responsabilità, si fa rinvio al capitolo XX.

9. Fideiussione e garanzie atipiche.

Con la importante decisione pronunciata da Sez. 1, n. 9848 (Rv. 623215), la Corte di cassazione ha messo ordine nel tormentato problema del quantum dell'obbligazione omnibus prestata dal fideiussore, a garanzia di un rapporto di conto corrente stipulato tra il debitore principale ed una banca.

In passato, infatti, la giurisprudenza di merito aveva mostrato varie incertezze in merito all'individuazione del momento nel quale calcolare il saldo del conto corrente e, di conseguenza, la misura del debito del fideiussore. Incerto, in particolare, era se tale momento dovesse individuarsi nel recesso del fideiussore o nella chiusura del conto.

Con la sentenza sopra ricordata la S.C. ha stabilito che la misura dell'obbligo del fideiussore, in caso di suo recesso dal contratto, vada calcolata con riferimento al momento in cui il recesso è divenuto efficace, a nulla rilevando che dopo tale momento la banca abbia continuato ad erogare credito al proprio cliente, debitore principale. Nella medesima sentenza si aggiunge che non è vera però la reciproca: e dunque se il cliente, dopo il recesso del fideiussore, effettua delle rimesse che riducono la sua esposizione versa la banca, si ridurrà corrispondentemente anche l'obbligazione del fideiussore, in virtù della sua accessorietà rispetto al debito principale.

Sul piano della distinzione tra fideiussione e garanzie atipiche, prive del carattere dell'accessorietà di cui all'art. 1941 cod. civ., vanno segnalate all'attenzione del lettore due decisioni pronunciate nel 2012.

La prima (Sez. 3, n. 5526, Rv. 622170) si è occupata della distinzione tra fideiussione e contratto autonomo di garanzia, negando che il mero richiamo all'art. 1957 cod. civ., contenuto nelle condizioni generali di contratto, possa essere ritenuto sufficiente per escludere il carattere autonomo della garanzia stessa, essendo tale norma espressione di un'esigenza di tutela del fideiussore, che può essere considerata meritevole di protezione anche in caso di garanzia non accessoria.

La seconda (Sez. 5, n. 7320, Rv. 622935), chiamata a stabilire i limiti al principio di inopponibilità delle eccezioni nelle garanzie "a prima richiesta ", dopo avere ribadito che l'unica eccezione opponibile dal garante è la c.d. exceptio doli generalis, ha escluso che quest'ultima possa fondarsi sulla mera allegazione dell'esistenza di difficoltà, spaziali o temporali, nel reperimento di documenti richiesti al fine della verifica dell'adempimento dell'obbligazione principale, ma esige la prova rigorosa delle ragioni per le quali il trascorrere del tempo e la specifica situazione esistente al momento della richiesta siano stati idonei a rendere assolutamente impossibile l'acquisizione di tali documenti.

10. Il giuoco e la scommessa.

Con una importante decisione (Sez. 1, n. 16511, Rv. 623450) la S.C. ha negato che il principio di non azionabilità dei debiti di gioco, sancito dal nostro ordinamento, possa ritenersi di ordine pubblico. Di conseguenza, ha ritenuto riconoscibile in Italia, ai sensi degli art. 64 e 67 della legge n. 218 del 1995, la sentenza straniera recante condanna per un debito attinente al gioco d'azzardo legalmente esercitato nel Paese dove quella sentenza venne pronunciata.

11. La locazione.

11.1. Garanzia del godimento e standards di funzionalità della cosa locata.

Sez. 3, n. 1694 (Rv. 621532) ha ravvisato l'inadempimento del locatore, avente portata risolutiva di contratto di locazione di un immobile da destinare ad attività di discoteca, per la sussistenza di un ordine inibitorio da parte della P.A. dell'attività che avrebbe dovuto svolgersi nel locale, dovendosi prima ottemperare alla regolarizzazione degli impianti interni ai fini dell'allaccio alla rete fognaria.

Sez. 3 n. 3726 (Rv. 621326) ha invece ribadito come, sempre in tema di locazione di bene immobile destinato ad uso diverso da abitazione, il locatore debba garantire non solo l'avvenuto rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d'uso del bene immobile, ovvero la relativa abitabilità, ma, essendo obbligato a mantenere la cosa locata in stato da servire all'uso convenuto, anche il loro persistere nel tempo. Perciò, ove venga per qualsiasi motivo sospesa l'efficacia di tali provvedimenti e il conduttore venga a trovarsi nell'impossibilità di utilizzare l'immobile per l'uso pattuito, si verifica l'inadempimento del locatore, che non può pretendere, conseguentemente, il pagamento dei canoni maturati nel periodo di inutilizzabilità del bene, neppure adducendo a propria giustificazione l'illegittimità del provvedimento di sospensione adottato dalla P.A.

Sez. Un., n. 14371 (Rv. 623297) ha peraltro precisato che, laddove il locatore di un immobile adibito ad uso non abitativo, convenuto in giudizio dal conduttore al fine di ottenere la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni, chiami in causa il Comune, chiedendone l'affermazione dell'esclusiva responsabilità quale conseguenza di un'ordinanza sindacale di sospensione dell'attività svolta nel bene locato per carenze di salubrità ed agibilità, la domanda di garanzia impropria esercitata nei confronti della P.A., per la ritenuta illegittimità dell'ordinanza contingibile ed urgente dovuta all'insussistenza dei suoi presupposti qualificanti, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non rilevando, al fine di legittimarne l'attrazione per connessione davanti al giudice ordinario, il collegamento esistente fra essa ed il rapporto privatistico tra locatore e conduttore.

È noto, in proposito, come il tradizionale orientamento spieghi che, ai sensi dell'art. 1575 cod. civ., il locatore non sia mai tenuto a compiere modificazioni e trasformazioni, non previste dal contratto, attinenti alla specifica idoneità dell'immobile all'esercizio di una determinata attività industriale o commerciale, per la quale il bene sia stato locato, anche se l'esecuzione delle opere di modificazione o trasformazione sia imposta da disposizioni di legge o dell'autorità sopravvenute alla consegna. Ciò favoriva la conclusione secondo cui la particolare destinazione dell'immobile locato, che pur richiedesse la dotazione di precise caratteristiche o l'ottenimento di apposite licenze amministrative, sarebbe pur sempre rimasta ininfluente in termini di condizione, di presupposto o di contenuto dell'obbligo del locatore di garantire il pacifico godimento della cosa, a meno che non avesse formato oggetto di apposita pattuizione. Si evidenziava come al locatore incomba l'obbligo soltanto di conservare, e non già di modificare, lo stato esistente al momento della stipula della locazione, che il conduttore abbia semmai riconosciuto idoneo all'uso pattuito. Da queste premesse, discendeva la conseguenza secondo cui il diniego da parte della p.a. delle autorizzazioni o licenze necessarie per la destinazione dell'immobile locato ad una determinata attività commerciale non costituisce inadempimento del locatore, quand'anche esso sia dipeso dalle caratteristiche del bene locato, a meno che il medesimo locatore non ne avesse espressamente garantito il rilascio.

Questa più rigorosa ricostruzione sembra, quindi, alla luce anche delle citate pronunce del 2012, lasciare il campo ad un diverso approccio ermeneutico, che tien conto che il godimento della cosa locata, cui si rivolge l'art. 1575, n. 3, cod. civ., non è un godimento generico, astratto e indeterminato, ma pur sempre quello pattuito dalle parti in contratto. Allo stesso tempo, viene valorizzato l'obbligo, egualmente gravante sul locatore, ai sensi dell'art. 1575, n. 2, cod. civ., di mantenere la cosa in stato da servire all'uso convenuto. L'adeguamento dell'immobile locato agli standards di funzionalità imposti nel corso del rapporto da atti normativi o provvedimenti amministrativi si rivela invero, irrinunciabile condizione perché il conduttore possa destinare il bene all'esercizio di quella determinata attività commerciale o industriale stabilita nel contratto, senza che occorra alcuna specifica clausola che ponga a carico del locatore le conseguenze del diniego della licenza o dell'autorizzazione.

11.2. Miglioramenti, addizioni e consenso scritto del locatore.

Sez. 3, n. 4541 (Rv. 621609) ha affermato che la clausola di "preventivo consenso scritto " del locatore per le addizioni e le innovazioni eseguite dal conduttore, quale patto di adottare la forma scritta per un determinato atto, possa comunque intendersi revocata anche tacitamente, mediante comportamenti incompatibili col suo mantenimento, risultando, nella specie, che le parti si fossero poi accordate per compensare il valore dei lavori, non autorizzati per iscritto, e i canoni insoluti.

È, invero, facoltà del conduttore apportare alla cosa locata quelle migliorie od innovazioni che non ne mutino la natura e la destinazione pattuita, trovando applicazione, in questo caso, la disciplina delle migliorie e delle addizioni, di cui agli art. 1592 e 1593 cod. civ. Può, tuttavia, la volontà delle parti essere esplicitata mediante apposizione di una clausola contrattuale diretta a vietare qualsiasi modifica, anche migliorativa, senza il consenso del locatore. Il precedente orientamento sosteneva, invece, che la clausola del contratto di locazione redatta per iscritto, la quale prevedesse, appunto, la necessità del consenso scritto del locatore per le opere da eseguirsi sull'immobile da parte del conduttore, non potrebbe mai intendersi tacitamente rinunciata dalle parti, in quanto pattuizione costitutiva di una forma convenzionale ad substantiam, ex art. 1352 cod. civ., applicabile ad una futura vicenda contrattuale; con la conseguenza che tanto lo scioglimento del medesimo patto per mutuo consenso quanto la rinunzia bilaterale alla forma convenzionale dovessero poi avvenire solo per iscritto.

11.3. Danni per ritardata restituzione.

La sentenza Sez. 3, n. 1372 (Rv. 621324) chiarisce che, ai fini del risarcimento dei danni per ritardata restituzione del bene locato, ex art. 1591 cod. civ., è legittimo il ricorso da parte del giudice a presunzioni, purché ovviamente esse presentino i requisiti imposti dall'art. 2729, primo comma, cod. civ., ben potendosi prescindere dall'effettiva dimostrazione della sussistenza di concrete proposte di nuova locazione o di acquisto, tenuto conto, del resto, del notorio scarso indice di appetibilità sul mercato riferibile ad un immobile che risulti tuttora occupato dal conduttore pur dopo la scadenza del rapporto locativo.

Ne risulta così confermato il più recente orientamento giurisprudenziale, sicuramente propenso ad un alleggerimento dell'onere probatorio del locatore che agisca in via risarcitoria ai sensi dell'art. 1591 cod. civ.. Non diviene certamente sostenibile l'automaticità del risarcimento del "maggior danno ", ipotizzato dalla norma in esame, come se si trattasse di semplice effetto legale della mora nella restituzione dell'immobile, occorrendo comunque la dimostrazione di un'effettiva lesione del patrimonio del locatore. Di tale lesione risulta, però, ben possibile darsi prova per presunzioni: è, così corretto l'uso del sillogismo presuntivo quando, ad esempio, dal fatto noto dell'avvenuta stipulazione di un nuovo contratto per un determinato canone mensile pochi mesi dopo il rilascio si desuma il fatto ignoto della perdita di favorevoli occasioni di locazione già nel periodo in cui si era realizzata la mora del conduttore nella restituzione.

Tuttavia, il sintomo risarcitorio della sussistenza di concrete proposte di nuova locazione non è più nelle sentenze subordinato al dato che la proposta stessa sia stata formalizzata da un soggetto ben determinato, con l'indicazione precisa del canone offerto e delle altre modalità del contratto, dovendosi tener conto del fatto che le vere e proprie trattative per la stipulazione di una nuova locazione con terzi si instaurano normalmente quando sussiste almeno la sufficiente certezza circa l'epoca dell'effettivo rilascio dell'immobile. In tal senso, ai fini del maggior danno ex art. 1591 cod. civ., il factum probandum, ovvero il pregiudizio patrimoniale causato dal ritardo nella restituzione della cosa locata, che abbia impedito l'utilizzo del bene in modo più redditizio rispetto al canone pattuito in origine, ben potrà desumersi dal factum probans costituito dal deprezzamento commerciale che subiscono gli immobili occupati dagli inquilini, pur dopo la scadenza del rapporto locativo. Spingono in questa direzione pure le esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria sempre più avvertite dal processo civile ed imposte ormai altresì dal principio di ragionevole durata, sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost.

12. Il mandato.

Nel 2012 la S.C. ha stabilito due importanti principî in tema di mandato.

Il primo ha riguardato il problema della nullità del mandato per indeterminatezza, ed è consistito nell'affermazione secondo cui l'art. 1708, secondo comma, cod. civ., disponendo che il mandato generale non comprende gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, se non indicati espressamente, esclude la nullità per indeterminabilità dell'oggetto della procura generale, né comporta la necessità di una specifica indicazione degli atti compresi nel mandato stesso, essendo sufficiente la menzione del tipo di negozio, non rientrante nei limiti dell'ordinaria amministrazione, che il mandatario è autorizzato a concludere (Sez. 2, n. 6138, Rv. 621922).

Il secondo ha riguardato invece i limiti del mandato alle liti conferito dalla parte al difensore: controverso era, in particolare, se il cliente potesse autorizzare il difensore ad affiancare a sé altri difensori. A tale quesito la Sez. 3, n. 1756 (Rv. 621422), ha dato risposta affermativa, osservando che il conferimento al difensore del potere di nominare altro difensore costituisce un autonomo mandato ad negotia, non vietato dalla legge professionale né dal codice di rito, che abilita il difensore a nominare altri difensori, i quali non hanno veste di sostituti del legale che li ha nominati, bensì, al pari di questo, di rappresentanti processuali della parte.

13. La mediazione.

Nel 2012 la Corte ha pronunciato diverse sentenze di rilievo concernenti gli obblighi ed i diritti del mediatore professionale, sebbene tali decisioni abbiano costituito altrettanti corollari di principî già affermati in precedenza.

Viene in rilievo, in primo luogo, la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 6926 (Rv. 622815 e 622816), la quale ha:

(a) escluso che il mediatore abbia l'obbligo di esaminare le conservatorie dei registri immobiliari per verificare in quale categoria catastale rientri l'immobile, e, di conseguenza, se l'acquisto di esso consentirà all'acquirente il godimento dei benefici fiscali previsti per l'acquisto della prima casa;

(b) affermato l'obbligo del mediatore di informare il cliente dell'esistenza di vizi che diminuiscono il valore della cosa oggetto dell'affare, quando egli li conosca o possa conoscerli con l'ordinaria diligenza.

È stato altresì confermato nel 2012 il tradizionale principio secondo cui il diritto del mediatore alla provvigione sorge dalla conclusione di un "affare ", a prescindere dalle forme giuridiche mediante le quali esso sia è concluso. Pertanto non rileva che le trattative siano state concluse da una persona, ed il contratto sia stato concluso da un'altra, se comunque quelle trattative hanno condotto alla conclusione di quel contratto (Sez. 6-3, ord. n. 4758, Rv. 622114).

Per la stessa ragione, e converso, deve escludersi il diritto alla provvigione se le parti, in conseguenza del suo intervento, siano pervenute unicamente alla predisposizione di una bozza di accordo (c.d. puntuazione), senza stipulare alcun negozio dal quale siano sorte pretese giudiziariamente tutelabili. Lo stabilire, poi, quale fosse la natura dell'accordo stipulato, secondo la volontà delle parti, è apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato (Sez. 3, n. 667, Rv. 621389).

14. Il mutuo.

Nel 2012 la Corte ha avuto l'occasione di tornare ad occuparsi del c.d. mutuo di scopo, ribadendo che in tale contratto il mutuatario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata con i relativi interessi, ma anche a realizzare l'attività programmata. Da ciò si è tratta la conseguenza che l'effettiva destinazione delle somme mutuate allo scopo per il quale furono concesse è una precisa obbligazione del mutuatario, idonea ad incidere sulla causa del contratto. E tuttavia ciò non impedisce al mutuatario di compensare un debito preesistente nei confronti del mutuante con le somme mutuate, se sia stata realizzata l'opera per la quale il mutuo venne concesso (Sez. 3, n. 943, Rv. 621272; cfr., al riguardo, pure il cap. VIII, § 2).

15. La rendita.

Nel 2012 la S.C. ha pronunciato due sentenze di rilievo in materia di rendita.

La prima ha riguardato il contratto atipico di c.d. "vitalizio alimentare ", e cioè il contratto col quale il vitaliziante assume l'obbligo di assistenza morale e materiale del vitaliziato, a fronte della cessione di un immobile o di un capitale: con la decisione pronunciata da Sez. 6-2, ord. n. 9764, Rv. 622724, la Corte ha ritenuto lecito inserire nel contratto di vitalizio alimentare la previsione che l'assistenza possa essere fornita dagli eredi o aventi causa del vitaliziante.

La seconda decisione ha riguardato invece la prescrizione del diritto del beneficiario della rendita (Sez. 1, n. 1338, Rv. 621371), ed ha stabilito che l'inerzia decennale del creditore nel pretendere la prestazione produce l'estinzione per prescrizione del diritto ad ottenerla, ai sensi dell'art. 2946 cod. civ., unicamente laddove essa concerna il diritto unitariamente inteso alla rendita stessa. Quando, invece, il diritto di cui sia omesso l'esercizio riguardi il pagamento di uno o più ratei scaduti, trova applicazione il termine breve di cinque anni, previsto dall'art. 2948, primo comma, n. 1, cod. civ.

16. La transazione.

Due importanti decisioni nel 2012 hanno affrontato il problema della transazione su titolo nullo e della transazione su documenti falsi.

La prima (Sez. 1, n. 8776, Rv. 622738) ha stabilito che la nullità della transazione su titolo nullo ex art. 1972 cod. civ. non consegue alla nullità di singole clausole del contratto base, se di esse non risulti, ai sensi dell'art. 1419 cod. civ., l'essenzialità rispetto al contratto stesso.

La seconda (Sez. 2, n. 14656, Rv. 623715) ha stabilito che il termine quinquennale per l'azione di annullamento della transazione stipulata sulla base di documenti falsi decorre dal giorno in cui la falsità sia stata accertata giudizialmente o trovi riscontro in una prova non contestata.

17. Il trasporto.

Nel 2012 la Corte ha pronunciato diverse sentenze degne di nota, sia in materia di trasporto marittimo che di trasporto terrestre.

Con riferimento al primo, la sentenza pronunciata da Sez. 1, n. 12711 (Rv. 623445) si è occupata della natura giuridica delle controstallie, e cioè del compenso (spesso determinato in misura forfettaria pro die) dovuto dal ricevitore della merce (ovvero dal possessore della polizza di carico) nel caso in cui lo scarico abbia richiesto più di tempo di quello pattuito, con conseguente prolungamento della durata del nolo della nave.

La sentenza sopra ricordata ha stabilito che la controstallia costituisce una vera e propria penale, cioè una liquidazione forfettaria dei danni e delle spese. Essa, perciò, da un lato limita il risarcimento alla somma pattuita, e dall'altro solleva il creditore dall'onere di fornire la prova dell'esistenza e dell'ammontare del danno sofferto.

In tema di trasporto terrestre, la Corte è tornata ad occuparsi del tormentato tema delle tariffe "a forcella ", e cioè della fissazione per legge di un compenso dovuto al trasportatore per conto terzi compreso tra un minimo ed un massimo fissato dalle autorità competenti, sistema previsto dagli art. 50 e segg. legge 6 giugno 1974, n. 298 ed abrogato dal d. lgs. 21 novembre 2005, n. 286.

Per intendere il senso dell'intervento della Corte, è utile ricordare che, vigente il sistema delle tariffe a forcella, l'art. 3 del decreto-legge 3 luglio 2001, n. 256 (convertito, con modificazioni, nella legge 20 agosto 2001, n. 334) aveva dettato una interpretazione autentica dell'art. 26 della suddetta l. n. 298 del 1974, stabilendo che quella norma, nella parte in cui imponeva a pena di nullità l'annotazione sulla copia del contratto di trasporto dei dati relativi agli estremi dell'iscrizione all'albo degli autotrasportatori e dell'autorizzazione al trasporto di cose per conto di terzi possedute dal vettore, non comportasse l'obbligatorietà della forma scritta del contratto. Tale norma venne dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale, con sentenza 14 gennaio 2005, n. 7, nella parte in cui prevede, ove le parti abbiano scelto per la stipula la forma scritta, la nullità del contratto di autotrasporto per la mancata annotazione sulla copia del contratto dei dati relativi agli estremi dell'iscrizione all'albo e dell'autorizzazione al trasporto di cose per conto di terzi possedute dal vettore.

In seguito la previsione interpretativa del 2001 venne abrogata dall'art. 3, primo comma, della legge 1° marzo 2005, n. 32, il quale contemporaneamente previde una decadenza di quattro mesi, decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge, «delle azioni da esercitare ». Restava tuttavia dubbio cosa dovesse intendersi con tale espressione: ma a tal riguardo la Sez. 3, n. 4247 (Rv. 621630) ha chiarito che la suddetta decadenza riguarda le sole azioni di nullità del contratto di trasporto, e non le azioni promosse dagli autotrasportatori per ottenere il pagamento di somme a titolo di differenze tariffarie ai sensi della legge 6 giugno 1974, n. 298: e ciò sul presupposto che sarebbe illogico ritenere che sia stata introdotta una decadenza da tali ultime azioni prima ancora dell'abrogazione della disciplina delle cosiddette tariffe "a forcella " (avvenuta, come si è visto, solo a novembre del 2005).

Infine, merita di essere segnalata la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 553 (Rv. 620541), in materia di vendita con spedizione (c.d. "fuori piazza "). In questo tipo di vendita, in passato, si era molto discusso su chi dovesse ritenersi "danneggiato " in caso di perdita della merce per responsabilità del vettore: e cioè il destinatario, quale proprietario della merce, al quale il diritto dominicale si era trasferito per effetto della consegna al vettore, ai sensi dell'art. 1510 cod. civ.; oppure il mittente, posto che, quando la merce arriva danneggiata, di norma il destinatario-acquirente non la paga ed il peso economico dell'inadempimento del vettore ricade perciò sul mittente-venditore.

Negli ultimi anni, pur senza un intervento delle Sezioni Unite, il contrasto si è venuto spontaneamente componendo in favore della tesi secondo cui la legittimazione a domandare il risarcimento del danno da perdita della merce, nel caso di vendita con spedizione, spetterà di norma al destinatario se questi l'abbia accettata. Se, invece, il destinatario non abbia richiesto al vettore la consegna della merce, ex art. 1689, comma primo, cod. civ., ovvero se la richiesta di risarcimento venga formulata dal mittente prima che la merce sia consegnata al destinatario, legittimato a domandare il risarcimento del danno resta il mittente: ciò in base al rilievo che nella vendita con spedizione il contratto di trasporto è autonomo rispetto a quello di vendita, e resta soggetto alle regole sue proprie.

18. La vendita.

Il contratto di compravendita, insieme a quelli di appalto, assicurazione e locazione rappresenta il contratto tipico sul quale più frequentemente la Corte è chiamata ad intervenire. Anche nel 2012 è stato confermato questo trend, e numerose sono state le decisioni in materia di compravendita, specie immobiliare.

Per maggior chiarezza, appare opportuno esaminare separatamente le decisioni riguardanti il contratto preliminare di vendita, da quelle che si sono occupate della vendita vera e propria.

18.1.

Inizieremo la nostra analisi dai soggetti e dall'oggetto del contratto preliminare di vendita.

Sotto il primo profilo, va ricordata la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 14105 (Rv. 623615), la quale si è occupata del contratto preliminare di vendita nel quale compaia la clausola in virtù della quale il promissario acquirente si impegni ad acquistare «per sé o per persona da nominare ».

Tale clausola, ha osservato la S.C., non impone affatto di qualificare indefettibilmente il contratto cui accede come contratto per persona da nominare, in quanto potrebbe in teoria essere qualificata anche come un preventivo consenso alla cessione del contratto, ex art. 1407 cod. civ., oppure come un contratto a favore del terzo, ai sensi dell'art. 1411 cod. civ., mediante la facoltà di designazione concessa all'uopo al promissario fino alla stipulazione del definitivo.

Per la corretta qualificazione del contratto il giudice non può dunque limitarsi a verificare l'esistenza della suddetta clausola, ma deve inquadrarla nel contesto generale delle pattuizioni contrattuali, al fine di ricercare l'effettiva volontà delle parti contraenti.

È tuttavia doveroso segnalare che, sia pure in un passato ormai remoto, la S.C. era stata di avviso parzialmente diverso, recisamente escludendo che il contratto nel quale il promissario acquirente si riservi la facoltà di richiedere che il definitivo sia stipulato a favore di altro soggetto potesse qualificarsi come contratto per persona da nominare (Sez. 1, n. 3570, Rv. 336770; Sez. 3, n. 1003, Rv. 346510).

Con riferimento invece all'oggetto del contratto preliminare, la Corte – in un caso di preliminare di vendita di immobile da costruire – ha ritenuto sussistente il principio della determinatezza o determinabilità del prezzo, al fine di escludere la nullità del contratto ex art. 1418, comma secondo, cod. civ., per il solo fatto che il promittente venditore avesse dichiarato nel contratto l'avvenuto pagamento del prezzo mediante l'assunzione da parte del promissario acquirente di tutte le spese necessarie per la costruzione dell'edificio da alienare (Sez. 2, n. 4854, Rv. 621762).

18.2.

Diverse decisioni si sono occupate del problema della nullità del preliminare di vendita di beni immobili, per cause inerenti la regolarità amministrativa dell'immobile o l'indicazione del prezzo

Sotto il primo profilo, va segnalata la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 14579 (Rv. 623555), la quale ha ritenuto inapplicabile ai contratti preliminari stipulati dopo l'entrata in vigore della legge 28 febbraio 1985, n. 47, la sanzione di nullità prevista dall'art. 15 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (secondo cui è nullo l'atto di compravendita avente ad oggetto immobili edificati in assenza di concessione, se l'acquirente non ne era a conoscenza), sul presupposto che il suddetto art. 15 sia stato abrogato e sostituito dalle previsioni di cui al capo primo della legge n. 47 del 1985. Questa decisione ha, in tal modo, abbandonato il precedente e contrario orientamento (espresso da Sez. 2, n. 11391, Rv. 617859), il quale perveniva a risultati esattamente opposti, in base al rilievo che la legg. n. 47 del 1985 non avesse natura retroattiva, e dunque non potesse essere applicata nel caso di contratti preliminari aventi ad oggetto immobili edificati prima della sua entrata in vigore.

Degna di nota è, altresì, la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 11749 (Rv. 623135), che ha ritenuto nulla, ai sensi degli art. 62 e 72 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, la clausola del contratto preliminare, con cui le parti si impegnano ad indicare nel definitivo un prezzo simulato, pari a quello risultante dall'applicazione del moltiplicatore della rendita catastale. Tale nullità tuttavia, secondo la stessa decisione, non travolge l'intero contratto, a meno che colui il quale vi abbia interesse non dimostri che, nelle intenzioni delle parti, il contratto non avrebbe più ragion d'essere dopo la caducazione della suddetta clausola.

18.3.

Con riferimento all'inadempimento del preliminare, non può sottacersi l'importante decisione pronunciata da Sez. 2, n. 8002 (Rv. 622428), la quale ha fissato due principî.

Il primo è che la facoltà del compratore di sospendere il pagamento del prezzo, a norma dell'art. 1481 cod. civ., trova applicazione sia nel caso di contratti definitivi, sia nel caso di contratti preliminari: in tal modo la Corte prosegue quell'opera di "anticipazione " al rapporto scaturente dal contratto preliminare dei rimedi e delle tutele dettati dalla legge per il contratto definitivo, che già aveva in passato condotto ad ammettere la possibilità per il promissario acquirente di chiedere contestualmente sia la stipula del contratto definitivo, sia la riduzione del prezzo in conseguenza dell'esistenza di vizi.

Il secondo principio affermato dalla sentenza n. 8002 del 2012 è che il rischio di evizione che legittima il rifiuto del pagamento del prezzo, anche da parte del promissario acquirente, deve essere serio, concreto ed attuale: non probabile o presumibile. È in base all'affermazione di questo principio che la Corte ha ritenuto illegittimo il rifiuto di stipulare il contratto definitivo da parte del promissario acquirente, rifiuto fondato sul fatto di avere appreso che l'immobile oggetto del contratto aveva formato oggetto di donazione, ed era perciò potenzialmente esposto al rischio di una azione di riduzione proposta dagli aventi causa del donante.

18.4.

Con riferimento, infine, all'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di compravendita immobiliare, merita un cenno la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 12260 (Rv. 623238), la quale ha stabilito che non osta all'emissione della sentenza ex art. 2932 cod. civ. la mancanza dell'allegazione dell'attestato di certificazione energetica, di cui all'art. 6, del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192: le parti, infatti, ben possono stipulare comunque il contratto definitivo e rinviare, tacitamente o esplicitamente, ad un momento successivo la consegna dell'attestato, cui per legge il venditore è obbligato e che il compratore può richiedere, in quanto rientrante tra i documenti relativi alla proprietà e all'uso della cosa venduta ai sensi dell'art. 1477, ultimo comma, cod. civ.

18.5.

Per quanto concerne il contratto di vendita vero e proprio, varie sono state le decisioni pronunciate nel 2012 che si segnalano all'attenzione dell'interprete.

Le più significative di queste hanno riguardato la garanzia per i vizi, il collegamento negoziale tra vendita e finanziamento, le spese dovute dal compratore.

La principale che occorre segnalare, anche per il suo notevole impatto pratico, oltre che teorico, è la sentenza Sez. Un., n. 19702 (Rv. 624018-9), la quale ha stabilito due importanti principî:

- non sussiste, quale rimedio generale a tutela dell'acquirente del bene, un'azione di esatto adempimento volta all'eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete soltanto in particolari ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento, vendita dei beni di consumo) o qualora il venditore si sia specificamente impegnato alla riparazione del bene, per il resto esaurendo gli art. 1490 e segg. cod. civ. la garanzia per i vizi;

- qualora il venditore si impegni ad eliminare i vizi del bene, e ciò sia accettato dal compratore, sorge un'autonoma obbligazione di facere, ma l'originario diritto del compratore alla riduzione del prezzo e alla risoluzione del contratto resta soggetto alla prescrizione annuale, di cui all'art. 1495 cod. civ., mentre l'ulteriore suo diritto all'eliminazione dei vizi ricade nella prescrizione ordinaria decennale.

Con riguardo alla garanzia per i vizi, meritano di essere segnalate ancora due decisioni che, con riferimento a fattispecie piuttosto frequenti, ne hanno precisato l'ambito di estensione.

La prima sentenza (Sez. 2, n. 12265, Rv. 623242) ha stabilito che l'accesso al fondo oggetto del contratto di vendita è una qualità della cosa, e deve essere garantita dal venditore, il quale non può sottrarsi al proprio obbligo invocando il fatto del terzo o la causa di forza maggiore. Di conseguenza, ove l'accesso al fondo alienato sia di fatto reso impossibile dal difetto di manutenzione dell'unica strada pubblica esistente, il fondo deve ritenersi intercluso (e quindi privo di una qualità essenziale), a nulla rilevando che l'ente proprietario non abbia mai adottato un formale provvedimento di declassificazione della strada di accesso.

La seconda sentenza (Sez. 2, n. 2737, Rv. 621590) ha invece escluso che possa essere invocata la garanzia di cui all'art. 1490 cod. civ. nel caso di vendita di un fondo soggetto a vincoli paesaggistici inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, approvati e pubblicati nelle forme previste. Tali vincoli infatti hanno efficacia erga omnes assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicché l'acquirente non può dolersi di averli ignorati. A conclusioni opposte si deve invece giungere con riferimento ai vincoli imposti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, che possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull'immobile, secondo l'art. 1489 cod. civ., e sono, conseguentemente, invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto.

In ogni caso, quando si faccia questione della riconoscibilità o meno del vizio redibitorio, confermando il proprio tradizionale orientamento Sez. 2, n. 2981 (Rv. 621577) ha escluso che il requisito della riconoscibilità possa ritenersi sussistente quando, per individuarlo, sia necessario il ricorso all'opera di esperti o l'effettuazione di indagini penetranti ad opera di tecnici del settore.

Nel caso di collegamento negoziale tra un contratto di vendita ed uno di finanziamento (in virtù del quale il mutuante versa direttamente al venditore una somma di importo pari al prezzo dovuto dal compratore), la Sez. 3, n. 12454 (Rv. 623357), più volte citata (v. cap. I, § 1.2 e cap. VIII, § 5), ha stabilito che, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del venditore, l'obbligo di restituzione al mutuante della somma ricevuta grava sul venditore, e non sul mutuatario-acquirente, in quanto è il primo che ha beneficiato del finanziamento.

Sempre con riferimento alle obbligazioni scaturenti dal contratto di compravendita, merita ancora di essere segnalata la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 7004 (Rv. 622328), la quale ha ritenuto che debbano essere ricomprese tra le "spese del contratto di compravendita ", che l'art. 1475 cod. civ. pone in via generale a carico del compratore, anche gli onorari spettanti al professionista incaricato della redazione di una relazione tecnica per il frazionamento e di una planimetria che, costituenti parte integrante dell'atto pubblico di vendita di un immobile, siano state effettuate su incarico del solo venditore.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO X

LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE

(di Marco Rossetti )

Sommario

1 La ripetizione di indebito. - 2 La gestione di affari. - 3 L'ingiustificato arricchimento.

1. La ripetizione di indebito.

Nel 2012 la produzione giurisprudenziale in materia di obbligazioni nascenti dalla legge (pagamento di indebito, gestione di affari, ingiustificato arricchimento), non è stata molto copiosa.

In materia di indebito oggettivo, due soltanto sono le sentenze che meritano una segnalazione: l'una in tema di riparto dell'onere della prova, l'altra in tema di prescrizione.

Sotto il primo profilo, la Sez. 3, n. 7501 (Rv. 622359) ha esaminato l'ipotesi in cui l'attore nel giudizio di indebito chieda la restituzione non dell'intero importo pagato, ma solo di una parte di esso, assumendo che solo quella parte non era dovuta. In tal caso, secondo la sentenza appena ricordata, spetta all'attore provare l'inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta, a nulla rilevando che si tratti della prova dell'inesistenza d'un fatto.

Sotto il secondo profilo, la Sez. L, n. 6756 (Rv. 622557) ha negato che possa qualificarsi come ripetizione di indebito, ex art. 2033 cod. civ., il recupero di sgravi contributivi illegittimi perché costituenti aiuti di Stato vietati dal diritto comunitario. Alla relativa azione recuperatoria dell'ente previdenziale, pertanto, si applicherà il prescrizionale ordinario decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., e non quello previsto per l'indebito.

2. La gestione di affari.

Un importante principio in materia di gestione di affari è stato affermato nel 2012 da Sez. Un., n. 11135 (Rv. 623019), già ricordata in tema di comunione, la quale ha qualificato come negotiorum gestio la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari. Da ciò la conseguenza che, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ., applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa.

3. L'ingiustificato arricchimento.

Qualche novità, ma anche qualche contrasto, si è registrato nel 2012 con riferimento all'azione di ingiustificato arricchimento, ex art. 2041 e segg. cod. civ.

Il contrasto si è registrato in merito al requisito della "residualità", necessario come noto per il promovimento della azione di arricchimento senza causa.

Ha stabilito, infatti, Sez. 2, n. 4620 (Rv. 622110) che ricorre il suddetto requisito della residualità quando manchi una azione tipica, per tale dovendosi intendere o quella che deriva da un contratto, o quella che sia prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata. Non è invece un'azione "tipica" spettante all'impoverito, e di conseguenza sussiste il requisito della residualità, quella prevista da clausole generali, come la domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale. E tuttavia, in precedenza, si era mostrata di diverso avviso Sez. 1, n. 621 del 2007 (Rv. 593776), la quale aveva escluso che chi abbia a disposizione un'azione di responsabilità aquiliana (nella quale, pacificamente, rientra la responsabilità precontrattuale) possa esperire l'azione di arricchimento.

Le altre sentenze meritevoli di segnalazione hanno riguardato il promovimento dell'azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione, da parte del soggetto che le abbia fornito beni o servizi per i quali non abbia diritto a compenso, per essere stata la relativa spesa autorizzata senza copertura di bilancio.

In tal caso, come noto, al fornitore del bene o del servizio può competere l'azione di arricchimento se ricorreva il requisito dell'utilità per la p.a.: ed ha stabilito a questo riguardo Sez. 3, n. 14939 (Rv. 623637) che tale requisito sussiste quando l'utilitas sia stata implicitamente riconosciuta dalla p.a. Tuttavia il riconoscimento implicito di tale requisito presuppone comportamenti degli organi rappresentativi dell'ente pubblico, dai quali possa desumersi un inequivoco giudizio positivo circa l'utilità dell'opera o della prestazione: sicché non costituisce implicito riconoscimento di utilità e non legittima la pretesa indennitaria del custode nei confronti del Comune l'affidamento di veicoli da parte della Polizia municipale, giacché questo Corpo, ai sensi degli art. 1 e 5 della legge n. 65 del 1986, non ha funzioni rappresentative dell'ente locale.

In ogni caso, la necessità del riconoscimento dell'utilitas non sussiste per le fattispecie anteriori al d.l. n. 66 del 1989 (convertito in legge n. 144 del 1989 e riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35, d.lgs. n. 77 del 1995), perché le norme appena ricordate (le quali, come noto, hanno introdotto il principio della responsabilità personale del funzionario pubblico che abbia autorizzato spese fuori bilancio) non sono retroattive. Pertanto il fornitore di beni o servizi alla p.a. può esperire l'azione di ingiustificato arricchimento nei confronti per tutte le prestazioni e i servizi resi prima dell'entrata in vigore delle norme sopra ricordate.

Sul piano processuale, infine, ha stabilito Sez. 3, n. 17317 (Rv. 623829) che l'azione generale di arricchimento ingiustificato ha una causa petendi diversa rispetto alle azioni fondate su titolo negoziale, e non può quindi ritenersi implicitamente ricompresa nella domanda fondata su altro titolo, né può ritenersi consentito al giudice del merito sostituire la pretesa avanzata con la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa.

  • giurisdizione civile
  • responsabilità amministrativa
  • danno

CAPITOLO XI

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

(di Marco Rossetti )

Sommario

1 Una materia in continua evoluzione. - 2 L'ambito della responsabilità extracontrattuale. - 3 La colpa. - 4 Fattispecie particolari di colpa. - 4.1 Lesione del credito. - 4.2 Danno da emotrasfusione. - 4.3 L'illecito aquiliano in ambito familiare. - 4.4 La responsabilità della p.a. - 4.5 La responsabilità dello Stato per omessa emanazione di norme di legge. - 4.6 Pubblicazioni lesive dell'onore e della reputazione. - 4.7 La responsabilità dello Stato per il fatto dei magistrati. - 4.8 Il danno ambientale. - 5 Il nesso di causa. - 6 Il danno. - 6.1 Il danno patrimoniale. - 6.2 Il danno non patrimoniale. - 6.2.a - 6.2.b - 6.2.c - 7 Le responsabilità presunte. - 7.1 Precettori e maestri (art. 2048 cod. civ.). - 7.1.a - 7.1.b - 7.2 Esercizio di attività pericolosa (art. 2050 cod. civ.). - 7.3 Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.). - 7.3.a - 7.3.b - 7.3.c - 7.4 Guida di veicoli (art. 2054 cod. civ.).

1. Una materia in continua evoluzione.

La materia della responsabilità civile ha conosciuto negli ultimi 20 anni una tumultuosa evoluzione, in larga parte dovuta all'opera della giurisprudenza. Tale evoluzione ha riguardato tutti gli aspetti della responsabilità aquiliana: l'elemento soggettivo, l'illiceità, il nesso di causa, ed ovviamente il danno ed i relativi criteri di accertamento e liquidazione.

Non si è tuttavia trattato di uno sviluppo lineare, ma di un percorso sinuoso e talora tormentato, al quale non sono rimaste estranee né la dottrina, né la giurisprudenza di merito. Questa è la ragione per la quale una ricostruzione dello sviluppo della giurisprudenza in tema di responsabilità aquiliana e risarcimento del danno mostra in qualche caso degli avanzamenti seguiti da retrocessioni e successivi aggiustamenti su posizioni intermedie; oppure l'inasprirsi imprevisto di contrasti non di rado occulti.

La giurisprudenza di legittimità nel 2012 ha riproposto tutte le suindicate caratteristiche dell'evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni. Anche nel 2012 si sono registrate infatti innovative aperture ed allargamenti dell'area della responsabilità (segnatamente in tema di responsabilità del medico), ma anche contrasti e tentennamenti (in particolare in tema di accertamento e liquidazione del danno non patrimoniale).

Degli uni e degli altri si proverà a dare sinteticamente conto nei §§ che seguono, col seguente ordine: dapprima si esamineranno le decisioni che hanno riguardato gli elementi costitutivi della responsabilità (colpa, nesso di causa e danno); quindi le decisioni riguardanti le cc.dd. responsabilità aggravate (art. 2048-2054 cod. civ.).

2. L'ambito della responsabilità extracontrattuale.

È noto come l'area della responsabilità aquiliana, da circa dieci anni in qua, abbia dovuto cedere ampie aree alla responsabilità contrattuale: la giurisprudenza infatti ha ritenuto applicabili a varie ipotesi di fatti illeciti extracontrattuali le norme dettate in tema di inadempimento delle obbligazioni negoziali dagli art. 1218 e segg. cod. civ.

L'esempio più noto di tale orientamento è rappresentato dalla teoria della c.d. responsabilità da contatto sociale, secondo la quale alla responsabilità del medico si applicano sempre le regole della responsabilità contrattuale, anche quando il contratto manchi, in quanto il rapporto tra il medico pubblico dipendente e paziente, pur non scaturendo formalmente da alcun contratto, nei fatti si atteggia però come un vero e proprio rapporto giuridico, nel quale ciascuna delle parti vanta nei confronti dell'altra i medesimi diritti ed obblighi che scaturirebbero da un contratto di prestazione d'opera (il paziente ha diritto di essere curato, il medico ha l'obbligo di eseguire con diligenza la propria prestazione; tra le più recenti, senza pretesa di completezza, si segnalano Sez. 3, n. 975 del 2009, Rv. 606128-31; Sez. Un., n. 577 del 2008, Rv. 600903 ; Sez. 3, n. 12362 del 2006, Rv. 589590-96 e n. 9085 del 2006, Rv. 589630-34).

Sorta sul terreno della responsabilità medica, la responsabilità "da contatto " era stata in seguito "esportata " anche in altri settori della responsabilità civile: quello della colpa dell'insegnante per i danni patiti dall'allievo (Sez. Un., n. 9346 del 2002, Rv. 555385-7; nello stesso senso Sez. 3, n. 24456 del 2005, Rv. 587952); quello della responsabilità del mediatore nei confronti dell'intermediato dal quale non ha ricevuto alcun incarico (Sez. 3, n. 16382 del 2009, Rv. 6091835); quello della responsabilità disciplinare dell'avvocato per inosservanza dei doveri deontologici (Sez. Un., n. 6216 del 2005, Rv. 580918); quello della responsabilità dell'ex datore di lavoro per pregiudizio alla posizione previdenziale del dipendente (Sez. 3, n. 15992 del 2011, Rv. 619454), e sinanche quello della responsabilità della p.a. per provvedimento amministrativo illegittimo (cfr. Consiglio Stato, Sez. V, 6 agosto 2001, n. 4329 e 2 settembre 2005, n. 4461).

Nell'anno appena trascorso si è invece registrata, per la prima volta da diverso tempo in qua, una decisione che, pur non negando la validità della teoria del "contatto sociale ", ne ha comunque circoscritto le tendenze espansionistiche. Si tratta del caso Rotschild, deciso da Sez. 1, n. 11642 (Rv. 623269 e 623269, già menzionata al cap. VII, § 1) ed avente ad oggetto la vicenda di una banca i cui soci, in seguito ad una complessa operazione di aumento del capitale, da liberare mediante conferimento in natura di azioni di altra società da acquisire, avevano registrato notevoli minusvalenze nel valore delle proprie azioni.

Alcuni dei soci convennero dunque in giudizio la società di consulenza incaricata di fissare il prezzo di emissione delle nuove azioni da liberare in occasione di un aumento del capitale sociale, invocandone la responsabilità da contatto sociale, con l'evidente fine di sollevarsi dall'onere della prova della colpa, ex art. 1218 cod. civ.

La Corte ha tuttavia negato in quel caso la configurabilità d'una responsabilità "da contatto sociale ", affermando che quest'ultima può ricorrere non in ogni ipotesi in cui taluno danneggi un terzo nell'eseguire un incarico conferitogli da altri, ma soltanto quando «l'ordinamento impone a determinati soggetti, in ragione della attività (o funzione) esercitata e della specifica professionalità richiesta a tal fine dall'ordinamento stesso, di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti ». È solo l'esistenza di questo obbligo derivante dalla legge che fa sorgere, a carico di coloro che ne sono gravati, obblighi di protezione nei confronti dei terzi, titolari di interessi per la cui tutela quegli specifici obblighi vennero imposti.

«Dire – ha concluso la Corte – che, in tali situazioni, la responsabilità deriva dal mero "contatto " serve ad evidenziare la peculiarità della fattispecie distinguendola dai casi nei quali la responsabilità contrattuale deriva propriamente da contratto (...), ma non deve far dimenticare che essenziale per la configurabilità della responsabilità in esame è la violazione di obblighi preesistenti di comportamento posti a carico di un soggetto dalla legge per la tutela di specifici interessi di coloro che entrano in contatto con l'attività di quel soggetto ».

Come accennato la motivazione che precede, sebbene non metta in discussione la tesi della "responsabilità da contatto ", tuttavia di fatto segna uno "stop " alla sua diffusione. Ed infatti il presupposto per l'applicabilità di tale tesi viene ravvisato nella violazione, da parte del responsabile, di obblighi di comportamento imposti dalla legge a tutela dei terzi che possono "entrare in contatto " con l'attività svolta dal responsabile. Non è una rivoluzione epocale, ma è comunque una importante precisazione in tema di responsabilità "da contatto ", che ne rende meno incerti i confini.

Per rendersene conto, basterà applicare il criterio dettato da Sez. 1, n. 11642 a talune delle fattispecie sopra ricordate, cui in passato la S.C. aveva ravvisato altrettante ipotesi di responsabilità da contatto. Se riesaminate ora, in quelle fattispecie, alla luce del criterio della «violazione di obblighi imposti dalla legge a tutela dei terzi », diventerebbe molto più problematico sostenere l'esistenza d'una responsabilità "da contatto sociale " del mediatore nei confronti dell'intermediato dal quale non ha ricevuto alcun incarico, oppure dell'avvocato per inosservanza dei doveri deontologici, od ancora dell'ex datore di lavoro per pregiudizio alla posizione previdenziale del dipendente: per la semplice ragione che né l'intermediato, né il lavoratore dipendente possono ritenersi "terzi ", rispettivamente, rispetto al mediatore ed al datore di lavoro.

3. La colpa.

Può ritenersi ormai abbandonata dalla giurisprudenza di legittimità, e non da oggi, la concezione della colpa come condotta censurabile (c.d. teoria soggettiva della colpa). Dominante è diventata invece la contrapposta teoria c.d. oggettiva, secondo cui è in colpa chi tiene una condotta non coincidente con quella che per legge, per regolamento o per comune prudenza avrebbe dovuto tenere.

L'essenza della colpa è dunque ravvisata nello scostamento tra la condotta tenuta e quella attesa, sempre che – ovviamente – il responsabile abbia avuto la possibilità di tenere una condotta diversa. Il criterio di valutazione della colpa consisterà invece nell'accertare se esista o meno una norma giuridica o di comune prudenza che imponeva al responsabile di tenere una condotta diversa: così, in applicazione di questi principî, Sez. 2, n. 3876 (Rv. 621336) ha escluso la configurabilità di una condotta colposa in capo al proprietario di un immobile che, per avere rimosso del tutto lecitamente una tettoia di copertura, abbia determinato un maggiore afflusso di acque sul fondo del vicino. La colpa, infatti, secondo la sentenza appena ricordata non sarebbe ravvisabile se manca in capo al preteso responsabile un obbligo giuridico di impedire l'evento dannoso, che può nascere, oltre che da una norma di legge o da una previsione contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui.

Analogamente, ma con risultato opposto, Sez. 3, n. 13940 (Rv. 623817) ha ritenuto in colpa il soggetto titolare di autorizzazione all'esercizio d'una pista da sci nel caso di danno patito dall'utente a causa dell'omessa adozione di misure di sicurezza e protezione, a nulla rilevando che al momento dell'infortunio la pista fosse chiusa per lo svolgimento di una competizione organizzata da un soggetto diverso. Secondo la Corte, infatti, lo svolgimento della competizione non esonerava il gestore dall'obbligo giuridico di rispettare le prescrizioni di sicurezza imposte dalla legislazione regionale: di qui la ritenuta sussistenza della colpa del gestore, unitamente a quella dell'organizzatore della gara.

4. Fattispecie particolari di colpa.

Alcune particolari condotte colpose, per la loro frequenza o la loro rilevanza teorica, hanno dato luogo al consolidarsi di veri e propri "microsistemi " della responsabilità civile, per i quali la giurisprudenza ha elaborato regole ad hoc di accertamento e valutazione della colpa. Delle più frequenti di tali fattispecie si darà conto nei §§ che seguono.

4.1. Lesione del credito.

Due importanti decisioni della S.C. nel 2012 sono state chiamate a stabilire a quali condizioni possa considerarsi in colpa colui il quale, con la propria condotta, induca taluno a stipulare un contratto con terzi, rivelatosi rovinoso.

La prima decisione è stata pronunciata da Sez. 3, n. 3003 (Rv. 621538), ed aveva ad oggetto la vicenda d'una società capogruppo, di cui si assumeva che, con la propria condotta materiale, avesse ingenerato nei terzi un legittimo affidamento circa la solvibilità della società controllata, affidamento rivelatosi poi mal riposto.

In tale fattispecie la Corte ha ritenuto che, perché possa reputarsi la società capogruppo responsabile, ex art. 2043 cod. civ., del danno patito dal terzo e consistito nella perdita del corrispettivo dovutogli per le forniture eseguite in favore della controllata, è necessario provare il fondamento colposo di tale responsabilità, che va ravvisato nella violazione della generale regola di correttezza e buona fede, la quale vieta non solo di suscitare nei terzi l'affidamento sulla capacità di adempimento altrui, ma vieta sinanche di "rafforzare " un affidamento già sorto.

La seconda decisione (Sez. Un., n. 9590, Rv. 622723) aveva invece ad oggetto l'annosa vicenda del fallimento della Federazione Italiana Consorzi Agrari (Federconsorzi), e cioè la società cooperativa cui il ministero delle politiche agricole aveva, sin dal 1948, conferito l'incarico di importare cereali per garantire il fabbisogno occorrente alla panificazione. Nell'adempimento di tale mandato, la Federconsorzi aveva contratto ingentissimi mutui con un istituto bancario, mai restituiti. La banca convenne allora in giudizio non solo la mutuataria Federconsorzi, ma anche il ministero mandante, invocandone la responsabilità aquiliana per difetto di vigilanza sulle modalità di adempimento dell'obbligazione da parte del mandatario.

La Corte, provvedendo a Sezioni Unite su tale domanda, con la sentenza sopra ricordata ha stabilito tre importanti principî in materia di danno da lesione del credito, e cioè:

(a) il mandante, anche quando per espressa previsione di legge non sia tenuto a somministrare al mandatario i mezzi per l'adempimento del mandato, è comunque tenuto a vigilare sul suo operato, ed ad adottare tutte le iniziative necessarie per salvaguardare gli interessi del creditore del mandatario;

(b) tiene una condotta scorretta e quindi fonte di responsabilità ex art. 2043 cod. civ. lo Stato se, dopo avere adottato una legge che lo obblighi a finanziare una determinata attività svolta da un terzo, nella misura che si sarebbe dovuta stabilire con futuri provvedimenti normativi, ometta di adottare questi ultimi, e da ciò derivi un pregiudizio in capo ai terzi che avevano in buona fede fatto affari col soggetto che si sarebbe dovuto finanziare;

(c) il creditore del diritto al risarcimento del danno da lesione del credito incorre in colpa concorrente, ai sensi dell'art. 1227, comma primo, cod. civ., se omette per un lungo arco di tempo di attivarsi per salvaguardare il proprio credito ed evitarne la lievitazione a causa del decorso del tempo.

Ciascuna di queste tre affermazione ha avuto l'effetto di slargare l'area della colpa aquiliana: la prima infatti ha ravvisato una condotta colposa nel venir meno da parte del mandante (nella specie, ex lege) all'obbligo di vigilanza sulla condotta del mandatario; la seconda l'ha ravvisata addirittura nel mancato esercizio della potestà legislativa (sul tema si tornerà meglio tra breve); la terza, infine, ha indirettamente posto a carico del creditore del diritto al risarcimento del danno una vero e proprio "obbligo di salvataggio " del proprio credito, dalla cui violazione può derivare una decurtazione del risarcimento.

4.2. Danno da emotrasfusione.

Anche nel 2012 la S.C. è ritornata ad occuparsi delle tante questioni che ruotano attorno alla responsabilità da emotrasfusione con sangue infetto. Infatti, pur dopo gli interventi delle Sezioni Unite nel 2008, che hanno dato una sistemazione organica alle principali questioni dibattute in materia (configurabilità della colpa omissiva del Ministero della Salute, accertamento della causalità omissiva, cumulabilità del risarcimento con l'indennizzo dovuto ex lege n. 210 del 1992), molte erano le questioni – per cosi dire – "di dettaglio " rimaste sul tappeto, tra le quali quelle inerenti il termine di prescrizione applicabile e l'individuazione del momento di exordium praescriptionis.

Riguardo quest'ultimo aspetto, la Sez. 3, n. 7553 (Rv. 622363), ha stabilito che la responsabilità del Ministero della Salute per i danni da trasfusione di sangue infetto ha natura extracontrattuale, sicché il diritto al risarcimento è soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2947, primo comma, cod. civ., perché nell'omessa vigilanza da parte del ministero sul trattamento delle sacche di plasma non sono ravvisabili figure di reato (epidemia colposa o lesioni colpose plurime) tali da innalzare il termine ai sensi dell'art. 2947, terzo comma, cod. civ.

Ove, poi, il danneggiato muoia a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento iure haereditatis, mentre la prescrizione è decennale per il danno subito dai congiunti della vittima iure proprio, in quanto la morte del congiunto emotrasfuso integra gli estremi del delitto di omicidio colposo, soggetto alla prescrizione decennale (alla data del fatto: oggi infatti quel termine sarebbe di sei anni, ai sensi della legge 5 dicembre 2005, n. 251 - c.d. "Cirielli ", che anche per questa ragione tanto fece discutere ai tempi della sua approvazione).

4.3. L'illecito aquiliano in ambito familiare.

La responsabilità aquiliana ormai da oltre dieci anni è penetrata nell'ambito dei rapporti familiari, dai quali per lungo tempo era ritenuta ontologicamente esclusa (così si esprimeva ancora Sez. 1, n. 4108 del 1993, Rv. 481723): come noto, tale responsabilità venne affermata per la prima volta a carico del padre che aveva fatto mancare al figlio l'affetto e le cure di contenuto diverso da quello patrimoniale (Sez. 1, n. 7713 del 2000, Rv. 537372), per poi estendersi ai casi di violazione del dovere di fedeltà tra coniugi (Sez. 1, n. 18853 del 2011, Rv.619619); di omessa informazione del partner in sede prematrimoniale della propria impotentia coeundi (Sez. 1, n. 9801 del 2005, Rv. 580822).

Nel 2012 la Corte ha pronunciato una conferma e posto un limite alla c.d. responsabilità "endofamiliare ".

La conferma viene dalla sentenza pronunciata da Sez. 1, n. 5652 (Rv. 622138), la quale ha ribadito quanto affermato nel 2000, e cioè che la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma può integrare anche gli estremi dell'illecito civile, se causi la lesione di diritti costituzionalmente protetti.

Il limite viene invece dall'ordinanza pronunciata da Sez. 6-3, n. 9 (Rv. 621150), avente ad oggetto una fattispecie di rottura di fidanzamento nell'immediatezza delle nozze: in tal caso la Corte ha stabilito che essendo la scelta di non contrarre matrimonio un atto di libertà incoercibile, colui il quale receda ingiustificatamente dalla promessa di matrimonio può andare incontro alla speciale responsabilità di cui all'art. 81 cod. civ., ma non alla generale responsabilità aquiliana ai sensi art. 2043 cod. civ., né all'obbligo di risarcire il danno non patrimoniale.

4.4. La responsabilità della p.a.

Sono stati confermati, nel 2012, i tradizionali capisaldi della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità della pubblica amministrazione, sia quando derivi da provvedimento amministrativo, sia quando derivi da comportamento materiale, e cioè:

(a) la responsabilità per i danni causati da provvedimenti illegittimi esige l'accertamento della colpa, e la colpa non può ritenersi in re ipsa per il solo fatto che il provvedimento sia illegittimo (Sez. 6-3, ord. n. 4172, Rv. 621327);

(b) la responsabilità della p.a. per danni da comportamenti omissivi sussiste in tutti i casi in cui il pregiudizio sia derivato dall'omessa adozione di misure preventive e protettive, idonee a prevenire rischi e scongiurare pericoli per l'incolumità e la sicurezza pubblica, che per legge o per comune prudenza era obbligo della p.a. adottare (Sez. 3, n. 3951, Rv. 622079, la quale in base al principio appena ricordato ha ritenuto sussistere la responsabilità di un Comune per i danni derivanti dal crollo di un palco allestito per uno spettacolo canoro, a causa dell'omessa adozione da parte del medesimo delle necessarie verifiche e delle misure precauzionali attinenti i pubblici spettacoli, imposte dal d.P.R. 20 marzo 1956, n. 322).

4.5. La responsabilità dello Stato per omessa emanazione di norme di legge.

Il principio secondo cui lo Stato può essere condannato al risarcimento dei danni derivati ai singoli dall'omessa attuazione di una direttiva comunitaria costituisce ormai da vent'anni diritto vivente. Nel 2012, tuttavia, anche questo settore della responsabilità civile ha fatto registrare interessanti novità: l'una riguardante la fattispecie da tempo dibattuta del danno da omessa attuazione della direttiva sui compensi dovuti al medici specializzandi; l'altra invece che schiude nuove frontiere alla responsabilità da omessa adozione di atti normativi.

Sotto il primo profilo meritano di essere segnalate due sentenze, l'una in materia di prescrizione e l'altra di riparto di onere della prova. Tutte e due avevano ad oggetto altrettante domande di risarcimento del danno, proposte da medici specializzandi che, a causa dell'intempestiva adozione della normativa comunitaria, non avevano potuto beneficiare del diritto ad un'equa remunerazione per l'attività svolta.

La sentenza pronunciata da Sez. L, n. 1850 (Rv. 620933) era chiamata ad occuparsi degli effetti che sulla suddetta fattispecie ha avuto l'art. 4, comma 43, della legge 12 novembre 2011, n. 183, la quale ha stabilito che il diritto al risarcimento del danno da omessa attuazione di direttiva comunitarie è soggetto «in ogni caso » alla prescrizione quinquennale ex art. 2947 cod. civ.

Essendo sorta questione sull'ambito temporale di applicabilità di tale previsione, la Corte con la sentenza appena indicata ha affermato che il termine di prescrizione quinquennale vale soltanto per i fatti verificatisi successivamente all'entrata in vigore della legge n. 183 del 2011, perché tale legge non ha natura interpretativa. Per i fatti avvenuti anteriormente, invece, continua ad applicarsi la prescrizione decennale, sul presupposto che l'obbligazione dello Stato di dare attuazione alla direttiva nasce direttamente dalla legge (il principio venne stabilito, come noto, da Sez. Un., n. 9147 del 2009, Rv. 607428).

Vale la pena aggiungere che la sentenza appena ricordata, se da un lato ha forse vanificato la ratio dell'art. 4 della legge n. 183 del 2011 (che, in quanto contenuto nella legge di stabilità per il 2012, aveva l'evidente scopo di contenere i risarcimenti dovuti dallo Stato), dall'altro ha tuttavia consentito di evitare gli enormi ed irrisolti problemi di diritto sostanziale derivanti dalla modifica die pendente del termine di prescrizione.

La seconda sentenza che merita di essere segnalata in tema di responsabilità per omessa attuazione delle direttive comunitarie sulle scuole di specializzazione per medici è Sez. 3, n. 1182 (Rv. 620494). Questa sentenza ha ribadito che nel relativo giudizio di risarcimento del danno sia onere dell'attore provare – ovviamente in via presuntiva – che avrebbe frequentato la scuola di specializzazione anche se lo Stato ne avesse modificato la disciplina, tempestivamente recependo le direttive comunitarie in materia: tuttavia ai fini di tale prova la circostanza che l'attore avesse, nel periodo di ritardato adempimento, comunque frequentato la "vecchia " scuola di specializzazione costituisce indizio del fatto che egli l'avrebbe ragionevolmente frequentata anche nel diverso regime, conforme alle prescrizioni comunitarie.

Ove, poi, l'amministrazione convenuta alleghi che nel periodo di ritardato adempimento della direttiva lo specializzando abbia comunque percepito altre remunerazioni o borse di studio, spetta al convenuto darne la dimostrazione, e non all'attore provare di non avere percepito altri compensi (che spettasse al convenuto dimostrare l'aliunde perceptum del danneggiato era già stato affermato, sia pure in diversa fattispecie, da Sez. Un., n. 1099 del 1998, Rv. 512186 e 515986).

Il tema della responsabilità dello Stato per mancato esercizio della potestà normativa, come accennato, si è poi arricchito nel 2012 di una nuova ed importante apertura che, sebbene contenuta in un obiter dictum, potrà in futuro consentire ulteriori allargamenti dell'area della responsabilità aquiliana. Si tratta dell'affermazione, contenuta nella già ricordata sentenza pronunciata da Sez. Un., n. 9590 (Rv. 622723), secondo la quale una responsabilità dello Stato per omesso esercizio della potestà normativa è configurabile non solo quando gli organi legislativi omettano di dare attuazione a norme comunitarie, ma anche quando omettano di adottare i provvedimenti normativi prescritti da leggi dello Stato. Tale responsabilità – si legge nella motivazione – non contrasta con il principio dell'incoercibilità della funzione legislativa, in quanto il risarcimento avverrebbe non in forma specifica (attraverso cioè una condanna all'emanazione della normativa non adottata), ma solo attraverso il risarcimento del danno.

4.6. Pubblicazioni lesive dell'onore e della reputazione.

L'esercizio del diritto di critica e di cronaca è da tempo considerato una causa di esclusione della responsabilità per lesione dell'altrui diritto all'onore od alla reputazione, a condizione che ricorrano i tre canoni fondamentali della verità (anche putativa) della notizia riferita, dell'interesse pubblico all'informazione e dalla continenza verbale. Tali principî tradizionali sono stati ripetutamente ribaditi anche nel 2012 (ad es., da Sez. 3, n. 14822, Rv. 623667), ed anzi potrebbe dirsi che abbiano trovato una definitiva formulazione nel principio sancito da Sez. 3, n. 4545 (Rv. 621644), secondo cui «non sussiste una generica prevalenza del diritto all'onore sul diritto di critica, in quanto ogni critica alla persona può incidere sulla sua reputazione, e del resto negare il diritto di critica solo perché lesivo della reputazione di taluno significherebbe negare il diritto di libera manifestazione del pensiero; pertanto, il diritto di critica può essere esercitato anche mediante espressioni lesive della reputazione altrui, purché esse siano strumento di manifestazione di un ragionato dissenso e non si risolvano in una gratuita aggressione distruttiva dell'onore ».

Ovviamente l'accertamento dei tre "paletti " all'esercizio del diritto di cronaca e di critica, sopra ricordati, costituisce pur sempre un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, ed insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato (Sez. 3, n. 80, Rv. 621133).

4.7. La responsabilità dello Stato per il fatto dei magistrati.

Il contenzioso di legittimità avente ad oggetto la responsabilità dello Stato per il danno causato da magistrati è venuto crescendo negli ultimi anni (alla data di redazione del presente scritto si registrano sette decisioni massimate, il numero più alto dal 2006 in poi).

Nondimeno, al contrario di quanto avvenuto in altri settori (come ad esempio la responsabilità del medico, del notaio o dell'avvocato, sulle quali si veda infra, il cap. XII), la giurisprudenza di legittimità resta piuttosto restrittiva nell'accogliere le domande di risarcimento fondate sul negligente uso del potere giurisdizionale.

Così, ad esempio, in un caso in cui nelle more tra la notifica del ricorso per sequestro conservativo e la concessione del sequestro il debitore si era spogliato dei beni che il creditore intendeva sequestrare, la S.C. ha escluso la configurabilità di una colpa per negligenza in capo al magistrato incaricato di trattare il ricorso, per non avere provveduto inaudita altera parte, contrariamente a quanto richiesto dal ricorrente (Sez. 3, n. 7038, Rv. 622351). Analogamente, Sez. 3, n. 2560 (Rv. 621521) ha escluso che l'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, laddove esclude che possa dar luogo a responsabilità del magistrato l'attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova, sia in contrasto col diritto comunitario. Tale contrasto, infatti, secondo la S.C. sussiste solo con riferimento alle violazioni del diritto dell'Unione Europea che siano manifeste ed imputabili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, in virtù di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea con la sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10.

Resta dunque ferma, in definitiva, la tradizionale lettura dell'art. 2, terzo comma, lettera a), della legge 13 aprile 1988, n. 117, secondo cui la negligenza "inescusabile " da tale norma richiesta per l'affermazione della responsabilità del magistrato sia un quid pluris rispetto alla "normale " negligenza, richiedendo che essa si presenti come non spiegabile, senza agganci con le particolarità della vicenda atti a rendere comprensibile (anche se non giustificato) l'errore del giudice. In applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso la sussistenza di tale negligenza nella pronuncia di una sua sentenza del 2007, con la quale aveva dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione avverso altra sentenza del 2004 sul presupposto che l'asserito errore revocatorio fosse di natura valutativa e non percettiva.

Esulano, ovviamente, dalla sfera di applicazione della legge n. 117 del 1988 i comportamenti tenuti dal magistrato al di fuori dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali: così, l'ordinanza Sez. 6-3, n. 10596 (Rv. 623060), ha ritenuto sottratta alla speciale procedura prevista dalla legge appena ricordata la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti di un magistrato che, nel corso di una riunione convocata dal capo dell'ufficio, alla quale partecipavano altri magistrati ed avvocati, aveva adottato espressioni offensive nei confronti di un terzo.

4.8. Il danno ambientale.

Anche nel 2012 la giurisprudenza sul danno ambientale è stata molto scarsa, come negli anni precedenti. Tuttavia, non può farsi a meno di segnalare l'importante decisione pronunciata da Sez. 3, n. 22382 (in corso di massimazione), la quale ha stabilito che il danno in esame può essere risarcito in forma specifica non solo quando lo chieda l'ente danneggiato, ma anche quando il giudice, provvedendo d'ufficio, ritenga preferibile tale forma di risarcimento, rispetto a quella per equivalente.

5. Il nesso di causa.

Nel 2012 la S.C. ha confermato il proprio più recente orientamento, di fatto volto a separare i criteri di accertamento della causalità rilevante in sede civile da quelli tradizionalmente adottati in ambito penale (principio inaugurato, come noto, dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 580 del 2008, Rv. 600908-9).

Per quanto attiene l'accertamento della causalità commissiva, in sede civile la Corte ha ribadito che tale causalità può essere affermata anche se soltanto probabile, a nulla rilevando che manchi una assoluta certezza «al di là di ogni ragionevole dubbio » (Sez. 3, n. 13214, Rv. 623565; sulla base di questo principio la Corte ha cassato la sentenza di merito che, chiamata a stabilire se vi fosse nesso di causalità tra il difetto costruttivo di una bombola di gas e lo scoppio della stessa, l'aveva escluso in base al rilievo che, nella specie, lo scoppio poteva essere stato in astratto provocato anche da altre cause). Ancora, la dilatazione della teoria della condicio sine qua non, alla base della causalità in ambito civilistico, ha indotto Sez. Un., n. 10286 (Rv. 623014) a ritenere sussistente il suddetto nesso tra l'opera d'un tecnico, incaricato di compiere analisi su un'acqua minerale, ed il danno patito dall'impresa che quell'acqua commercializzava, in seguito alla sospensione dell'autorizzazione amministrativa al commercio, disposta dalla regione a causa del sospetto di irregolarità nell'esecuzione delle analisi.

Tuttavia non si può fare a meno di rilevare come il "distacco " tra i criteri di accertamento della causalità civile e quella penale – che si fa tangibile ed evidente quando, in sede civile, la Corte ammette l'affermazione della causalità sulla base di criteri meramente probabilistici – viene poi attenuato dalla Corte stessa quando si tratta di stabilire se vi sia o no responsabilità integrale del danneggiante, allorché, con la sua condotta, abbiano concorso a produrre l'evento cause naturali o condotte di terzi: in tali ipotesi, ha stabilito Sez. 3, n. 9528 (Rv. 622956), richiamando precedenti conformi, gli art. 40 e 41 cod. pen. impongono di addebitare all'agente l'intero danno causato.

Per quanto attiene invece l'accertamento della causalità omissiva, che già negli ultimi anni aveva conosciuto importanti aperture in tema di criteri di accertamento, nel 2012 è stato vieppiù slargato: da un lato, infatti, si è ribadito che l'accertamento di essa esige un giudizio controfattuale fondato sulla regola probabilistica del "più sì che no " (Sez. 3, n. 2085, Rv. 621799, la quale ha ritenuto provato il suddetto nesso in un caso di danni patiti da una persona scivolata su una scala sulla quale non era stato installato un corrimano); dall'altro si è arrivati ad ammettere la sussistenza del nesso causale da omissione in fattispecie del tutto nuove. In particolare, Sez. 3, n. 16754 (Rv. 623594 e 623595: su cui amplius al cap. XII, § 2), ha ammesso la sussistenza del suddetto nesso tra l'omissione del medico, che non aveva informato le gestante della possibilità di ricorrere ad esami ad hoc per l'accertamento prenatale di malformazioni congenite del feto, e:

(a) il danno patito dal nato malformato;

(b) il danno patito dai fratelli del nato malformato, e consistente nello sconvolgimento della vita familiare.

Non può tuttavia fare a meno di rilevarsi che l'accertamento del nesso di causalità, così dilatato in taluni settori (come appunto quello della responsabilità sanitaria), si attenua fin quasi a scomparire in altri, come quello societario: così, Sez. 3, n. 2087 (Rv. 621771) (perpetuando un orientamento molto risalente) ha ribadito anche nel 2012 che il socio, anche totalitario, di una società di capitali non ha titolo per domandare il risarcimento del danno da deprezzamento della sua quota, dovuto all'inadempimento da parte del terzo agli obblighi da questi assunti nei confronti della società, e ciò proprio per la ritenuta insussistenza di un nesso di causalità immediato e diretto tra l'inadempimento del terzo, che impoverisce la società, e la diminuzione del valore della quota, che impoverisce il socio.

6. Il danno.

6.1. Il danno patrimoniale.

Molte conferme e qualche novità si registrano nella giurisprudenza della Corte nell'anno in corso sul tema dell'accertamento e della liquidazione del danno.

Per maggior chiarezza, esamineremo le une e le altre con riferimento dapprima al danno patrimoniale, quindi a quello non patrimoniale.

Le più frequenti fattispecie sulle quali la Corte viene chiamata a pronunciarsi in tema di danno patrimoniale sono tre: il danno alle cose, il danno alla capacità di guadagno ed il danno patrimoniale da morte di un prossimo congiunto.

Anche nel 2012 la Corte ha avuto modo di pronunciarsi su ciascuna di queste tre fattispecie.

Con riferimento al danno alle cose, si è ribadito che esso ha sempre natura di debito di valore, anche quando sia consistito nel pagamento di una somma determinata per riparare il bene danneggiato. Anche in tal caso, pertanto, la somma spesa dalla vittima per le riparazioni deve essere rivalutata, con decorrenza dalla data in cui la vittima l'ha erogata (Sez. 3, n. 2211, Rv. 621705). Tuttavia, se per effetto della riparazione la cosa danneggiata ha acquistato maggior pregio, di ciò si deve tenere debito conto nella monetizzazione del risarcimento, perché il risarcimento non può mai produrre un arricchimento del danneggiato rispetto alla situazione patrimoniale preesistente al fatto illecito (Sez. 3, n. 8992, Rv. 622775).

Sopendo poi vari contrasti sorti tra i giudici di merito, Sez. 3, n. 51 (Rv. 621069) ha stabilito che il credito risarcitorio (ivi compreso quello derivante da sinistri stradali) può essere ceduto, ed in tal caso il cessionario acquista il credito con tutte le sue caratteristiche sostanziali e processuali, ivi compresa l'azionabilità diretta della pretesa nei confronti dell'assicuratore della r.c.a. del responsabile.

Il creditore-danneggiato, dal canto suo, anche dopo l'avverarsi del danno non è esonerato dall'adottare tutti i mezzi esigibili da lui, alla stregua dell'ordinaria diligenza, per attenuare le conseguenze del fatto illecito, dovendo altrimenti patire la decurtazione del suo credito risarcitorio, ai sensi dell'art. 1227, comma secondo, cod. civ. In attuazione di questo principio, Sez. L, n. 8293 (Rv. 622665) ha ritenuto in colpa, ai sensi della norma appena ricordata, l'istituto di credito che aveva agito nei confronti del direttore di filiale per imprudente erogazione del credito a cliente insolvente, senza che la banca l'avesse preventivamente costituito in mora o avviato un procedimento (ad es., monitorio) che ne attestasse l'insolvenza.

Con riferimento al danno da perdita della capacità di guadagno, vanno segnalate tre importanti sentenze: due in tema di an, l'altra di quantum.

La prima sentenza (Sez. 3, n. 16541, Rv. 623761) ha affermato che l'accertata esistenza d'un danno alla salute patito da uno studente, anche se di non lieve entità (nella specie, determinata dal c.t.u. nella misura del 37 per cento della complessiva validità dell'individuo), non è di per sé sufficiente per ritenere necessariamente esistente un conseguente danno da riduzione della capacità di guadagno, a meno che il danneggiato non provi, sulla base di elementi concreti, o che a causa della lesione sia stato costretto a ritardare il compimento dei suoi studi e di conseguenza l'ingresso nel mondo del lavoro, ovvero una verosimile riduzione dei suoi redditi futuri. La sentenza mostra di aderire all'opinione dottrinaria c.d. del danno in concreto, la quale ritiene che il danno da riduzione della capacità di guadagno non possa essere mai ritenuto in re ipsa (come ritenuto dalla teoria c.d. del danno in abstracto), ma vada sempre debitamente allegato e provato, sia pure in via presuntiva.

La seconda sentenza (Sez. 3, n. 7531, Rv. 622395) sembra andare invece nella direzione esattamente opposta, allorché ha stabilito che alla vittima di lesioni personali causate da un sinistro stradale, quando sia certo che abbia perduto la capacità di guadagno, il danno patrimoniale da incapacità di guadagno può essere liquidato ponendo a base del calcolo il triplo della pensione sociale anche quando il danneggiato non abbia provato l'entità del reddito perduto, costituendo tale criterio una soglia minima del risarcimento.

Questa seconda decisione si è posta, in tal modo, in contrasto con un nutrito precedente orientamento, il quale riteneva invece che l'art. 137 cod. ass. (e, in precedenza, l'art. 4 decreto-legge 23 dicembre 1976, n. 857, convertito nella legge 4 febbraio 1977, n. 39), allorché prevede il criterio del triplo della pensione sociale per liquidare il danno da incapacità di guadagno, detta solo un criterio equitativo che presuppone già accertata l'esistenza del danno, e non una soglia minima di risarcimento (in tal senso, ex aliis, Sez. 3, n. 1120 del 2006, Rv. 586555).

La terza sentenza ha riguardato i criteri di monetizzazione del danno di cui si discorre, ed anch'essa ha messo ordine – innanzitutto terminologico – sulla questione della corretta metodica da adottare. Ha stabilito, infatti, Sez. 3, n. 4252 (Rv. 622039), che il danno patrimoniale futuro derivante dalla perdita della capacità di lavoro e di guadagno non può essere liquidato semplicemente moltiplicando il reddito mensile perduto per il numero di mesi per i quali la vittima avrebbe presumibilmente svolto attività lavorativa, perché tale criterio è matematicamente – prima ancora che giuridicamente – scorretto. Il danno in esame dev'essere, invece, correttamente liquidato attraverso il metodo della capitalizzazione, e cioè moltiplicando il reddito perduto (espresso in moneta rivalutata al momento della liquidazione) per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, perché soltanto tale metodo consente di tenere debito conto del c.d. "montante di anticipazione ", e cioè del vantaggio realizzato dal creditore nel percepire oggi una somma che egli avrebbe concretamente perduto solo in futuro.

Novità, ma anche contrasti, si registrano infine sul tema della liquidazione del danno patrimoniale da morte di un prossimo congiunto.

Nessun dubbio, ovviamente, si è mai nutrito sul fatto che il familiare non abbiente e convivente col defunto possa domandare il risarcimento del danno consistente nella perdita degli emolumenti che quest'ultimo gli avrebbe verosimilmente elargito, se fosse rimasto in vita. Nella liquidazione di tale danno il giudice dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto: l'età della vittima e l'età del sopravvissuto, nonché il reddito della prima: con l'avvertenza che a base del calcolo va posto il reddito equitativamente aumentato per tenere conto delle verosimili prospettive di sviluppo professionale (Sez. 3, n. 3966, Rv. 621398).

I problemi nella materia in esame hanno più spesso riguardato l'ipotesi del genitore che perda un figlio minore (o comunque non percettore di reddito), e quella dell'avente diritto non convivente col defunto.

Su ambedue tali questioni la Corte si è pronunciata anche nel 2012.

Sulla prima questione è stato confermato il tradizionale orientamento, secondo cui i genitori di una persona di giovane età, deceduta per colpa altrui, possono in teoria ottenere il risarcimento del danno patrimoniale per la perdita degli emolumenti che il figlio avrebbe loro verosimilmente elargito una volta divenuto economicamente autosufficiente, ma a tal fine non basterà loro provare né la convivenza con la vittima, né la titolarità di un reddito da parte della prima. Dovranno, invece, dimostrare o che la vittima contribuiva stabilmente ai bisogni dei genitori, ovvero che questi, in futuro, avrebbero verosimilmente e probabilmente avuto bisogno delle sovvenzioni del figlio (Sez. 3, n. 7272, Rv. 622507).

Sulla seconda questione si è registrato invece nel 2012 un irrigidimento della Corte in merito ai presupposti per la liquidazione del risarcimento ad un familiare non convivente con la vittima. Ha ritenuto, infatti, Sez. 3, n. 4253 (Rv. 621636), che presupposto essenziale per la liquidazione del danno in esame è la convivenza tra la vittima ed il superstite, «in mancanza della quale, non essendo altrimenti prevedibile con elevato grado di certezza un beneficio durevole nel tempo, non può sussistere perdita che si risolva in un danno patrimoniale ».

La novità di tale sentenza è rappresentata non dall'avere richiamato la convivenza quale elemento presuntivo dal quale desumere la prova d'una stabile contribuzione della vittima in favore del superstite, ma dall'averla elevata a vera e propria condicio sine qua non perché il familiare della vittima possa pretendere il risarcimento.

Infine, non può fare a meno di segnalarsi il perdurare delle incertezze della giurisprudenza di legittimità su quella particolare forma di danno patrimoniale futuro definita danno da "perdita di chance ".

A partire dalla metà degli anni Ottanta, come noto, la giurisprudenza di legittimità si era assestata nel ritenere che la c.d. chance fosse una «componente del patrimonio dell'individuo », e che di conseguenza la perdita di essa in conseguenza d'un fatto illecito costituisse una normale ipotesi di danno emergente, non di lucro cessante. Di qui la duplice conseguenza che: (a) il danneggiato per ottenere il risarcimento aveva il solo onere di provare di avere avuto una chance e di non averla potuta cogliere; (b) l'ammontare del danno risarcibile non poteva mai essere comunque pari al guadagno atteso o sperato, perché la chance costituiva un bene diverso da quest'ultimo.

Con questi principî si è posta in contrasto, nel 2012, la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 22376 (in corso di massimazione), la quale ha invece ritenuto che «la perdita di una chance favorevole non costituisce un danno di per sé, ma soltanto – al pari del danno da lucro cessante – se la chance perduta aveva la certezza o l'elevata probabilità di avveramento ».

6.2. Il danno non patrimoniale.

La materia dell'accertamento e della liquidazione del danno non patrimoniale costituisce tuttora – sarebbe vano il negarlo – il punto più tormentato di tutta la giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità civile.

I contrasti, talora espliciti talora inconsapevoli, si registrano a partire dalla terminologia stessa con la quale tale pregiudizio viene definito (in particolare, se il danno non patrimoniale sia una categoria unitaria ovvero se esistano differenze ontologiche e giuridiche tra i diversi pregiudizi), e si estendono poi alle questioni concernenti il contenuto del danno (se il danno biologico comprenda necessariamente il c.d. danno morale; se il danno non patrimoniale da uccisione del congiunto comprenda o meno il c.d. danno da lesione del rapporto parentale) ed a quelle inerenti la sua liquidazione (se il danno c.d. morale possa essere liquidato in una frazione del risarcimento del danno biologico).

Tali contrasti non sono ovviamente sorti nel 2012, ma si trascinano da molto tempo, ed anzi in qualche misura sono stati acuiti, e non sedati, dall'intervento delle Sezioni Unite (n. 26972 del 2008, Rv. da 605489 a 605496). Si consideri ad esempio che nel solo 2011 la S.C. ha di volta in volta affermato:

a) che il danno esistenziale esiste (Sez. 3, n. 14402 del 2011 Rv. 618049);

b) che il danno esistenziale non esiste (Sez. 3, n. 15373 del 2011, non massimata);

c) che il danno morale non esiste, e comunque non si può risarcire in aggiunta al danno biologico (n. 15373 del 2011, cit.);

d) che il danno morale esiste, e si deve risarcire in aggiunta al danno biologico (Sez. 3, n. 18641 del 2011, Rv. 619531);

e) che il danno morale può sussistere o meno nel caso specifico, secondo una valutazione caso per caso spettante al giudice di merito (Sez. 3, n. 14263 del 2011, non massimata).

Per maggior chiarezza su tali questioni, si darà conto della giurisprudenza più significativa del 2012 esaminando dapprima le pronunce che si sono occupate del danno non patrimoniale in generale; quindi quella in tema di danno alla salute, ed infine quelle in tema di danno da morte.

6.2.a.

È ormai generalizzata l'affermazione secondo cui il danno non patrimoniale costituisce un pregiudizio ad interessi non economici della persona, che esso sia risarcibile nei casi previsti dalla legge, per tali intendendosi anche i casi in cui il diritto leso abbia rilievo costituzionale, e che chi invochi il risarcimento di questo tipo di danno abbia l'onere di allegarne e provarne, anche per presunzioni, l'effettiva sussistenza.

Si è, di conseguenza, escluso che possa invocarsi il risarcimento del danno non patrimoniale per la "perdita del tempo libero ", non esistendo un diritto in tal senso (Sez. 3, n. 21725, Rv. 624249).

Il principio secondo cui il danno non patrimoniale non può ritenersi mai in re ipsa è stato ribadito da Sez. L, n. 7471 (Rv. 622793) anche nel caso in cui ad essere leso sia stato un diritto fondamentale (nella specie, quello alla libera manifestazione del pensiero), mentre Sez. L, n. 4479 (Rv. 622118) ha ribadito che la prova del danno può essere data anche per presunzioni, nel valutare le quali il giudice deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto: dalla gravità dell'illecito agli effetti che ne sono derivati, «la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico e valutativo seguito dal giudice di merito ».

Pertanto, ove l'attore non riesca a fornire la prova di un effettivo pregiudizio non patrimoniale, non potrà essere risarcito il danno consistente nella mera allegazione del cambiamento delle abitudini di vita: in virtù di tale principio Sez. 3, n. 4394 (Rv. 622034) ha rigettato la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale asseritamente causato da immissioni intollerabili di fumo, per non avere l'attore fornito la dimostrazione di una significativa modifica delle proprie abitudini di vita.

Sempre nel 2012 è stato altresì ribadito l'altro ormai risalente principio, secondo cui il ristoro del danno non patrimoniale può essere invocato non solo dalle persone fisiche, ma anche dagli enti (ivi compresi, ovviamente, quelli pubblici), quando ne siano stati lesi i diritti fondamentali come quello all'immagine, alla reputazione e all'identità personale (Sez. 3, n. 4542, Rv. 621596, su cui v. pure al cap. I, § 7).

Infine, sempre con riferimento ai principî generali, va ricordato che Sez. 1, n. 1781 (Rv. 621332) ha ribadito che il risarcimento del danno non patrimoniale nel nostro ordinamento non può mai avere alcuna finalità punitiva, e che anzi l'attribuzione al risarcimento di una tale finalità contrasterebbe coi principî generali dell'ordine pubblico. In applicazione di questo principio, la sentenza appena ricordata ha rigettato l'istanza di delibazione nel nostro ordinamento d'una sentenza statunitense con la quale si era accordato, alla vittima di un fatto illecito, una somma di denaro a titolo di danno punitivo.

6.2.b.

Si sono perpetuati anche nel 2012 i contrasti, per lo più occulti od inconsapevoli, circa il rapporto esistente tra la lesione della salute (danno biologico) e la sofferenza morale soggettiva (c.d. danno morale).

Come noto, tali voci di danno per lunghissimo tempo vennero unanimemente ritenute distinte e separate, e se ne ammetteva pacificamente la liquidazione cumulativa.

Nel 2008 tuttavia le Sezioni Unite (con la menzionata sentenza n. 26972) negarono la legittimità di tale congiunta liquidazione, quanto meno nei casi in cui la sofferenza causata dalle lesioni fosse stata già presa in considerazione nella liquidazione del danno biologico.

Nondimeno il principio affermato dalle SS.UU. non sembra essere stato unanimemente condiviso dalle sezioni semplici.

Un primo orientamento, infatti, vi ha convintamente aderito, ed ha di conseguenza qualificato come "inammissibile ", in quanto costituisce una duplicazione risarcitoria, «la congiunta liquidazione in favore del danneggiato del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale anzidetto, il quale è una componente del danno biologico, posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza » (Sez. 3, n. 21999 del 2011, Rv. 619596; nello stesso senso anche l'ordinanza Sez. 6-3, n. 15414 del 2011, Rv. 619223; Sez. L, n. 1072 del 2011, Rv. 616252-54; Sez. 3, n. 24401 del 2010, non massimata, la quale arriva ad affermare che la congiunta liquidazione del risarcimento per il danno biologico e quello morale va «bollata come un'inammissibile duplicazione risarcitoria »).

Un secondo orientamento, invece, vi ha pervicacemente resistito – peraltro senza sollecitare un nuovo intervento delle Sezioni Unite, ed ha ritenuto al contrario che «il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari del danno biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato a parte, con criterio equitativo che tenga debito conto di tutte le circostanze del caso concreto ».

Questo secondo orientamento nel 2012 è stato condiviso da Sez. 3, n. 2228 (Rv. 621460), ove si afferma altresì che la liquidazione del danno c.d. "morale " in misura pari ad una frazione del risarcimento accordato per il danno biologico è illegittima, perché tale criterio non consente di seguire l'iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, né permette di stabilire se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo; e da Sez. 3, n. 20292, in corso di massimazione, secondo cui il danno biologico, quello morale «e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile "esistenziale ", e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili; né tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972 del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, giacché quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti ».

Un secondo contrasto in tema di danno alla salute si registra sulla risarcibilità del pregiudizio patito da una vittima che, a causa delle lesioni, sia venuta a trovarsi in stato di incoscienza.

Nel 2012 infatti la Sezione Lavoro, chiamata ad esaminare un caso in cui un lavoratore, in seguito ad un infortunio, aveva patito lesioni tali da ridurlo in stato comatoso, ha ritenuto che spettasse alla vittima il ristoro anche del danno "morale ", inteso quale lesione della dignità della persona, a nulla rilevando che la vittima non fosse in grado di percepire la propria condizione (Sez. L, n. 1716, Rv. 620848). Secondo la sentenza appena ricordata, infatti, «sarebbe iniquo riconoscere il diritto soggettivo al risarcimento di un danno non patrimoniale diverso dal pregiudizio alla salute e consistente in sofferenze morali, e negarlo quando queste sofferenze non siano neppure possibili a causa dello stato di non lucidità del danneggiato ».

Non è stata dello stesso avviso tuttavia la Sezione Terza, la quale – chiamata a stabilire se fosse risarcibile il danno patito dalla vittima di lesione cui aveva fatto seguito quodam tempore il decesso – l'aveva ammesso solo a condizione che la vittima fosse rimasta lucida nel suddetto intervallo (Sez. 3, n. 2564, Rv. 621706).

Pacifiche, invece, sono le altre questioni sulle quali la S.C. è stata chiamata ad intervenire nel 2012 in tema di danno biologico: in particolare, che nella liquidazione del danno biologico permanente occorre fare riferimento all'età della vittima non al momento del sinistro, ma a quello di cessazione dell'invalidità temporanea (Sez. 3, n. 10303, Rv. 623138); ovvero che la lesione del diritto fondamentale alla salute legittima la vittima a domandare il ristoro di tutte le conseguenze che ne siano derivate, quand'anche abbiano inciso su ulteriori diritti privi di rango costituzionale (Sez. 3, n. 3718, Rv. 621898, la quale in base a tale principio ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva liquidato in favore della vittima di lesioni personali il danno non patrimoniale derivato dal fatto di avere dovuto, a causa delle lesioni, abbandonare il lavoro svolto da anni, ed adattarsi a svolgerne un altro del tutto diverso).

Un cenno merita il delicato tema del danno non patrimoniale patito dai prossimi congiunti della vittima di lesioni: la prova di tale danno, ha stabilito Sez. 3, n. 2228 (Rv. 621461), può essere desunta in via presuntiva anche soltanto dalla gravità delle lesioni: è stata, di conseguenza, cassata la sentenza di merito, la quale aveva rigettato per difetto di prova la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale formulata dai genitori di un bambino che aveva perso l'uso del braccio destro a causa d'una errata manovra del medico intra partum.

Per affinità di materia ed evitare frammentazioni dell'esposizione, può essere altresì utile ricordare in questa sede come la S.C. nel 2012 abbia enunciato vari ed importanti principî di natura processuale, concernenti però il corretto modo di allegare e provare il danno non patrimoniale alla salute.

Per quanto attiene l'onere di allegazione, la Corte ha adottato un orientamento che privilegia la sostanza rispetto alla forma: non si esige, dunque, dall'attore, una vuota declamazione di formule per soddisfare l'onere di allegazione, ma piuttosto una analitica descrizione di fatti. In base a questo criterio, Sez. 3, n. 12236 (Rv. 623356) ha ritenuto irrilevante la circostanza che l'attore avesse erroneamente qualificato il tipo di pregiudizio non patrimoniale di cui chiedeva il risarcimento, una volta che ne abbia comunque allegato gli elementi costitutivi. In applicazione di questo principio, la sentenza appena ricordata ha ritenuto correttamente accolta dal giudice di merito la domanda di risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto, compiutamente descritto ma erroneamente denominato dall'attore come "danno biologico ". E nello stesso ordine di idee Sez. 3, n. 3718 (Rv. 621899) ha ribadito che ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale è sufficiente che nella domanda sia stato fatto espresso riferimento a tale tipo di pregiudizio, descrivendone gli effetti, a nulla rilevando che l'abbia chiamato in un modo piuttosto che in un altro.

Sul piano della prova del danno, infine, molto importante è la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 8557 (Rv. 622625), concernente la produzione in giudizio delle c.d. "tabelle " uniformi predisposte dai Tribunali per la liquidazione del danno non patrimoniale. Queste tabelle, secondo la sentenza appena ricordata, non costituiscono dei "documenti " in senso proprio, né rappresentano degli elementi di fatto che vanno allegati con gli atti introduttivi del giudizio, ma sono piuttosto assimilabili ai precedenti giurisprudenziali, che le parti possono invocare a sostegno delle proprie argomentazioni. Esse, pertanto, possono essere prodotte anche in sede di legittimità, da parte di chi ne lamenti l'erronea applicazione da parte del giudice di merito, senza che ciò violi il divieto di cui all'art. 372 cod. proc. civ.

6.2.c.

Anche sui temi dell'accertamento e della liquidazione del danno da morte si sono registrate nel 2012 conferme e novità, sia sul piano dell'accertamento che sui quello della liquidazione.

Per quanto attiene l'accertamento del danno, due sentenze tra le altre meritano di essere segnalate: l'una ha avuto l'effetto di ampliare l'area della risarcibilità, l'altra di ridurla.

La prima sentenza è rappresentata da Sez. 3, n. 4253 (Rv. 621634), chiamata ad occuparsi della risarcibilità del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, preteso da un parente non prossimo, come nel caso in cui l'avo chieda il risarcimento per la morte del nipote ex filio o viceversa.

A tale problema la sentenza appena ricordata ha dato risposta parzialmente negativa, ritenendo che la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei alla famiglia nucleare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora) possa essere risarcita solo nel caso di convivenza tra la vittima ed il superstite, «in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell'art. 2 Cost. » (con una motivazione simile la stessa sentenza, come già visto, aveva escluso la risarcibilità del danno patrimoniale patito dal familiare non convivente della vittima: cfr. supra, § 6.1).

La sentenza si segnala all'attenzione dell'interprete perché dal tenore della motivazione pare doversi desumere che, per la Corte, la convivenza tra vittima e superstite costituisca non già – come si riteneva in precedenza – un indizio dal quale desumere ex art. 2727 cod. civ. l'esistenza del danno, ma una condizione stessa di risarcibilità del danno stesso, altrimenti non configurabile.

La seconda decisione cui si accennava ha invece affrontato il diverso problema della possibilità di ridurre il risarcimento del danno non patrimoniale dovuto ad un cittadino straniero proveniente da un Paese povero, al fine di tenere conto del luogo dove il risarcimento stesso sarà presumibilmente speso. A tale dubbio la S.C. ha dato risposta negativa, affermando che «la realtà socioeconomica nella quale vive la vittima di un fatto illecito è del tutto irrilevante ai fini della liquidazione del danno aquiliano » (Sez. 3, n. 7932, Rv. 622564). Questa sentenza capovolge il diverso orientamento in precedenza adottato dall'unico precedente della Corte sul punto, il quale aveva ritenuto "non errato " tenere conto, nella liquidazione del danno non patrimoniale della realtà socioeconomica in cui vive il danneggiato: ciò in quanto «il risarcimento ha funzione meramente surrogante e compensativa delle sofferenze indotte dal fatto illecito costituente reato (…), [per cui] se l'entità delle soddisfazioni compensative ritraibili dalla disponibilità di una somma di denaro è diversa a seconda dell'area nella quale il denaro è destinato ad essere speso, non l'entità delle soddisfazioni deve variare, ma la quantità di denaro necessaria a procurarle » [Sez. 3, n. 1637 del 2000, Rv. 533847, ove la Corte aveva cassato la decisione di merito che, liquidando 50 milioni di lire ad una donna per la perdita del figlio, aveva giustificato tale importo con riferimento alla "realtà socioeconomica " dove viveva la danneggiata (Chieti). Appare dunque non implausibile che la Corte abbia fatto ricorso al criterio della "realtà socioeconomica " per ampliare, piuttosto che ridurre, il quantum del risarcimento].

Per quanto attiene alle modalità di liquidazione del danno da morte, confermata la possibilità di ricorrere a tabelle uniformi, la Corte ha tuttavia posto alcuni limiti e condizioni all'uso di tali tabelle, e due in particolare:

(a) quando il giudice dichiari nella sentenza di volere applicare una certa tabella, non può poi discostarsene senza adeguata motivazione (Sez. 3, n. 8557, Rv. 622626);

(b) se le "tabelle " applicate per la liquidazione del danno non patrimoniale da morte di un prossimo congiunto cambino nelle more tra l'introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice (anche d'appello) ha l'obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione (Sez. 3, n. 7272, Rv. 622506).

7. Le responsabilità presunte.

Le ipotesi di responsabilità presunte previste dagli art. 2048-2054 cod. civ. hanno fatto registrare anche nel 2012 vari interventi della Corte, i quali tuttavia hanno per lo più consolidato e ribadito principî già in precedenza affermati. Le esamineremo seguendo l'ordine codicistico, trascurando ovviamente l'analisi delle norme sulle quali non si registrano interventi significativi della Corte.

7.1. Precettori e maestri (art. 2048 cod. civ.).

Nell'anno 2012 si segnalano due importanti decisioni in tema di responsabilità dei precettori e maestri di cui all'art. 2048 cod. civ.: quelle pronunciate da Sez. 3, n. 3242 (Rv. 621948) e da Sez. 3, n. 1769 (Rv. 621773).

7.1.a.

La prima di tali decisioni ha affrontato due delicate questioni in tema di responsabilità dei precettori e dei maestri, fissando due principî.

Il primo principio è che l'art. 2048 cod. civ. trova applicazione quando il minore causi un danno a terzi: solo per questo tipo di danni la vittima può invocare la responsabilità presunta del precettore o del maestro.

Quando, invece, il minore abbia causato un danno a se medesimo, l'art. 2048 cod. civ. non può trovare applicazione, e la vittima potrà invocare nei confronti del soggetto tenuto alla sorveglianza o l'art. 2043 cod. civ. (nel caso di colpa aquiliana) o l'art. 1218 cod. civ., nel caso di colpa contrattuale.

Il principio appena esposto tuttavia va necessariamente coordinato con quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 7454 del 1997 (Rv. 506661-62), secondo cui il minore che abbia causato un danno a se medesimo per difetto di vigilanza del maestro potrà invocare nei confronti di quest'ultimo la responsabilità da "contatto sociale " e dunque la presunzione di colpa di cui all'art. 1218 cod. civ., anche nel caso in cui tra i due non sussistesse alcun vincolo contrattuale, come nel caso di danni causati da insegnanti della scuola pubblica. Sicché, almeno per i danni patiti da studenti, appare assai remota la possibilità che la responsabilità del precettore resti soggetta alla disciplina generale di cui all'art. 2043 cod. civ., in quanto delle tre l'una:

- se il risarcimento è domandato da un terzo danneggiato dal minore, si applicherà nei confronti del maestro la presunzione di cui all'art. 2048 cod. civ.;

- se il risarcimento è domandato dal minore allievo di una scuola privata, si applicherà nei confronti del maestro la presunzione di colpa ex art. 1218 cod. civ.;

- se il risarcimento è domandato dal minore allievo di una scuola pubblica si applicherà nei confronti del maestro la presunzione scaturente dalla "responsabilità da contatto sociale ", e dunque anche in questo caso l'art. 1218 cod. civ.

Il secondo principio affermato dalla sentenza n. 3242 interviene su un tema molto delicato e da tempo discusso, e cioè la possibilità di opporre il concorso di colpa della vittima, ex art. 1227 cod. civ., nel caso di danno causato dall'incapace. Infatti, poiché il soggetto incapace è per ciò solo non imputabile, si era posto agli interpreti il problema di stabilire se vi fosse coincidenza o meno delle nozioni di "imputabilità " e "colpa ": se, cioè, un atto compiuto dall'incapace potesse qualificarsi "colposo ", con la conseguente possibilità di tenerne conto ai sensi dell'art. 1227 cod. civ. per ridurre il risarcimento dovuto dal responsabile.

Su tale questione la S.C. non sempre aveva espresso opinioni concordi.

In talune decisioni, infatti, si era affermato espressamente che «la colpa (...) presuppone l'imputabilità » (e quindi deve arguirsi che l'una si risolve nell'altra), e si era giunti alla conclusione che il fatto dell'incapace solo per convenzione lessicale potesse essere definito "colposo ", in quanto a chi non è padrone di sé non può essere mosso alcun rimprovero in termini di colpa (Sez. 3, n. 2704 del 2005, Rv. 580012, la quale ha richiamato sul punto Sez. Un., n. 351 del 1964, Rv. 300434).

In altre e più numerose decisioni, all'opposto, si era affermato che «la non imputabilità non esclude la colpevolezza » (Sez. 3, n. 17432 del 2006, non mass.), e questa affermazione veniva in genere motivata con un ragionamento così sintetizzabile:

(a) l'art. 2047 cod. civ. prevede un indennizzo a favore della vittima, nel caso il danno sia stato causato da un incapace e il sorvegliante non sia tenuto a risponderne;

(b) tuttavia questa norma può applicarsi solo se all'incapace possa comunque essere mosso un qualche rimprovero in termini di colpa: ché, altrimenti, l'indennizzo sarebbe dovuto anche per i danni derivati dal fortuito o dalla forza maggiore, il che sarebbe assurdo ed iniquo, perché in tal caso la vittima del danno causato dall'incapace otterrebbe un ristoro anche quando lo stesso danno, se causato da una persona capace, non avrebbe legittimato la vittima a domandare alcunché;

(c) ergo, l'art. 2047 cod. civ. sta a significare che possono esistere danni causati con colpa dall'incapace, e danni causati dall'incapace ma senza colpa; e poiché l'incapace è soggetto non imputabile, si concludeva che possono darsi casi di condotte colpose (in senso oggettivo, cioè devianti rispetto ad una regola di condotta) ma tenute da soggetti non imputabili (per una sintesi di queste posizioni, si legga la motivazione di Sez. 3, n. 4633 del 1997, Rv. 504666-68).

Un terzo orientamento "intermedio ", infine, parrebbe essere stato adottato da Sez. 3, n. 7247 del 2011 (Rv.617583): tale decisione ha infatti escluso a livello dogmatico che la condotta dell'incapace possa essere definita "colposa "; ha tuttavia ammesso che essa deve presentare lo stesso carattere di antigiuridicità che caratterizza gli atti colposi, deve cioè essere contra ius. Da ciò la conseguenza che anche nei confronti dell'incapace vittima di un illecito potrà invocarsi il concorso di colpa ex art. 1227 cod. civ.

La sentenza n. 3242 del 2012, sopra ricordata, ha ora mostrato di aderire al secondo degli orientamenti appena riassunti, affermando che, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 2056 cod. civ. all'art. 1227 cod. civ., il fatto del minore incapace di intendere e di volere che con il suo comportamento abbia contribuito alla produzione del danno a se stesso è valutabile dal giudice al fine di stabilire il concorso delle colpe e l'eventuale riduzione proporzionale del danno da risarcire.

7.1.b.

La seconda delle decisioni sopra ricordate (Sez. 3, n. 1769, Rv. 621773), dopo avere ribadito la natura contrattuale della responsabilità della scuola pubblica per il danno autoprovocato dall'alunno a se medesimo, ha affermato che tale responsabilità sussiste non soltanto nel caso di omessa sorveglianza all'interno dell'edificio scolastico, ma anche nel caso di omessa vigilanza durante attività paradidattiche, come le gite scolastiche. In queste ultime, anzi, secondo la S.C. l'obbligo di vigilanza gravante sulla scuola è duplice: da un lato vigilare sulla condotta dei discenti (sebbene la Corte abbia avuto cura di precisare che tale obbligo di vigilanza non possa essere inteso in modo così estremo da esigere una sorveglianza continuata ed ininterrotta); dall'altro avere cura di scegliere il vettore e l'albergo destinato ad ospitare i discenti in gita selezionando imprese idonee a prevenire danni agli allievi.

Con questa motivazione, la sentenza n. 1769 ha cassato la decisione di merito, la quale aveva escluso la responsabilità della scuola in un caso in cui una studentessa, allontanatasi nottetempo dalla stanza dell'albergo nella quale alloggiava la scolaresca in gita, per assumere stupefacenti si era spinta su una terrazza a livello non praticabile e non protetta, cadendo nel vuoto.

7.2. Esercizio di attività pericolosa (art. 2050 cod. civ.).

Anche in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, ex art. 2050 cod. civ., la giurisprudenza di legittimità ha confermato nel 2012 i propri orientamenti tradizionali.

Così, si è innanzitutto ribadito che la presunzione di cui all'art. 2050 cod. civ. esonera l'attore dalla prova della colpa dell'esercente l'attività pericolosa, ma non lo esonera affatto dalla prova del nesso di causa tra quest'attività ed il danno. Pertanto, se tale causa resta ignota od incerta, la responsabilità ex art. 2050 cod. civ. dev'essere esclusa (Sez. 6-3, ord. n. 3424 (Rv. 621935).

Si è, altresì, ribadito il tradizionale principio secondo cui la qualifica di un'attività come "pericolosa ", ai sensi dell'art. 2050 cod. civ., dipende unicamente dal contenuto intrinseco di essa, mentre non rileva né che alcuna norma di legge la qualifichi come pericolosa, né che sia svolta senza fine di lucro o per fini filantropici (così Sez. 3, n. 12900, Rv. 623421), la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come "pericolosa " l'attività svolta da una scuola di alpinismo senza fini di lucro, e, conseguentemente, condannato ex art. 2050 cod. civ. la scuola al risarcimento del danno, patito da un allievo caduto durante un'arrampicata).

Tra le "attività pericolose " di cui all'art. 2050 cod. civ., come noto, rientra per espressa previsione di legge (art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) il trattamento di dati sensibili: e nel 2012 la S.C. è intervenuta in due occasioni a precisare l'ambito ed il contenuto di tale responsabilità (per altri profili afferenti il diritto della persona, cfr. al riguardo il cap. I, § 3).

La prima di tali decisioni è rappresentata da Sez. 3, n. 10646 (Rv. 623101), la quale ha affermato due principî:

- da un lato, che la responsabilità per illecita diffusione di dati sensibili deve essere esclusa quando risulti che questi ultimi fossero già noti prima ancora della loro diffusione da parte del responsabile del trattamento;

- dall'altro, che la responsabilità del gestore dev'essere esclusa quando la diffusione sia avvenuta allo scopo di esercitare il diritto di difesa in giudizio o tutelare la propria onorabilità anche in sede stragiudiziale.

Infine, con la sentenza pronunciata da Sez. 3, n. 17408 (Rv. 624082), ha compiuto una importante precisazione in tema di rapporti tra il diritto del titolare dei dati ad inibirne la diffusione senza il proprio consenso, e quello del giornalista al diritto di cronaca.

Tali contrapposti interessi vanno composti, secondo la Corte, privilegiando l'interesse collettivo alla informazione; tale interesse tuttavia non è assoluto, in quanto la diffusione di dati sensibili da parte del giornalista esige pur sempre che tali dati siano necessari ai fini della completezza dell'informazione o per la specificità del caso. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto illegittima la divulgazione, in un testo dedicato alla ricostruzione di un fatto di sangue che aveva suscitato molto scalpore, di informazioni sui costumi sessuali dell'imputata.

7.3. Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.).

Quello della responsabilità del custode per il danno arrecato dalla cosa è, purtroppo, un tema da molti anni tormentato, che vede la giurisprudenza di legittimità oscillare tra diverse incertezze, alcune delle quali si sono riproposte anche nel 2012.

Stabilire chi possa qualificarsi "custode "; stabilire se l'art. 2051 cod. civ. sia applicabile ai danni causati da beni di rilevanti dimensioni come strade o boschi; stabilire se la distrazione della vittima basti di per sé ad escludere la responsabilità del custode sono le principali, ma non le uniche, questioni che hanno dato luogo a disparità di vedute.

7.3.a.

Per quanto riguarda la qualifica di "custode ", nel 2012 la S.C. ha confermato e sviluppato l'orientamento divenuto dominante negli ultimi anni, secondo cui "custode " ai sensi dell'art. 2051 cod. civ. è non solo il proprietario di un diritto reale sulla cosa fonte di danno, ma qualunque soggetto eserciti su essa un potere di fatto, persino colui che ne abbia assunto spontaneamente l'onere di vigilanza e manutenzione. È stato, di conseguenza, ritenuto "custode " il consorzio di bonifica che provvedeva di fatto, pur non essendovi tenuto, alla manutenzione di un canale di bonifica (Sez. Un., n. 9591, Rv. 622636) La qualità di custode è stata invece negata da Sez. 2, n. 17492 (Rv. 623786) al titolare di una servitù di passaggio, sul presupposto che questi non ha la custodia della strada sulla quale la servitù viene esercitata, che resta in capo al proprietario del fondo servente.

7.3.b.

In merito all'applicabilità dell'art. 2051 cod. civ. ai danni causati da insidie stradali, anche nel 2012 si rinviene qualche oscillazione negli orientamenti della Suprema Corte.

Giova ricordare, a tal riguardo, che nel corso degli anni la S.C. ha adottato su tale questione posizioni molto diverse:

(a) talora si è negata l'applicabilità dell'art. 2051 cod. civ. ai danni da insidie stradali, sul presupposto che beni di così estese dimensioni non consentono una effettiva custodia, e se non c'è la possibilità di custodia non può esservi la connessa responsabilità (e multis, Sez. 3, n. 14749 del 2005, Rv. 584664);

(b) in altri casi si è ritenuto che agli enti proprietari di strade, e segnatamente alle amministrazioni comunali, l'art. 2051 cod. civ. sia applicabile solo se il sinistro sia avvenuto su strade ricomprese nel centro urbano, perché solo su quest'area sarebbe possibile e dovuto un effettivo controllo, ai sensi dell'art. 41 quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 [*] (così, ex aliis, Sez. 3, n. 20823 del 2006, Rv. 594537; Sez. 3, n. 15779 del 2006, Rv. 591272);

(c) in altri casi ancora si è ritenuto che nei confronti degli enti proprietari di strade la presunzione di cui all'art. 2051 cod. civ. sia invocabile nel caso di danni causati da "agenti dannosi strutturali " (come il vizio di costruzione o di manutenzione), mentre non sia invocabile nel caso di danni provocati da agenti dannosi insorti subitaneamente, come ad esempio nel caso di oggetti abbandonati da terzi (così, e multis, Sez. 3, n. 15720 del 2011, Rv. 619458; n. 21508 del 2011, Rv. 620534; n. 6550 del 2011, non mass.).

L'orientamento indicato per ultimo sembrava divenuto, negli ultimi anni, prevalente ed aveva indotto alcuni commentatori a ritenere che la S.C. avesse con quella tesi intermedia composto le divergenze esistenti tra gli altri due orientamenti.

Nel 2012, tuttavia, chiamata a stabilire se fosse invocabile nei confronti dell'ANAS la presunzione di cui all'art. 2051 cod. civ., in un caso in cui un automobilista aveva urtato un grosso sasso presente sulla strada, la S.C. ha risposto in modo affermativo (Sez. 3, n. 16542, Rv. 623797): e tale decisione sembra inaugurare addirittura un quarto orientamento rispetto a quella sopra riassunti: stando a quanto si apprende nella motivazione, infatti, parrebbe che la strada teatro del sinistro non fosse compresa nel centro urbano [con conseguente deviazione dall'orientamento (b)], e comunque la presenza di un masso sulla sede stradale non sembra possa qualificarsi come "difetto strutturale " di quest'ultima, [con conseguente deviazione dall'orientamento (c)].

È stata, invece, esclusa la responsabilità del gestore autostradale per i danni causati da un cane randagio investito dai veicoli in transito, quando manchi la prova di un difetto di manutenzione delle recinzioni della sede stradale e sia, per contro, verosimile che l'animale possa essere stato abbandonato da terzi (Sez. 3, n. 7037, Rv. 622672).

7.3.c.

Incertezze si registrano altresì per quanto riguarda le cause di esclusione della responsabilità del custode.

A livello teorico, è ormai consolidata da tempo l'affermazione secondo cui quella prevista dall'art. 2051 cod. civ. non è un'ipotesi di colpa presunta, ma è un'ipotesi di responsabilità presunta, con la conseguenza che al custode, per liberarsene, non sarà sufficiente provare di avere tenuto una condotta diligente, ma sarà necessario provare il caso fortuito: e dunque l'evento imprevedibile, il fatto del terzo od il fatto della stessa vittima.

E proprio il c.d. "fortuito incidentale ", il concorso di colpa della vittima, ha visto nel 2012 la S.C. decidere in modo non del tutto coincidente due fattispecie molto simili.

Nel caso deciso da Sez. 3, n. 13681 (Rv. 623597), la Corte era chiamata a stabilire se dovesse escludersi la responsabilità del custode di un campo di calcetto in un caso in cui uno dei giocatori durante una partita si era infortunato urtando dei tubi metallici accantonati ai margini del campo, e ben visibili. A tale quesito la Corte ha dato risposta affermativa, affermando che la responsabilità del custode deve escludersi «in presenza di una scelta consapevole del danneggiato (c.d. rischio elettivo), il quale, pur potendo avvedersi con l'ordinaria diligenza della pericolosità della cosa, accetti di utilizzarla ugualmente ».

Tuttavia ben diversa fu la ratio decidendi adottata da Sez. 3, n. 1769 (Rv. 621772), già ricordata in precedenza, chiamata a stabilire se dovesse escludersi la responsabilità del proprietario di un albergo in un caso in cui una minorenne in gita scolastica, dopo avere scavalcato il balcone della sua stanza ed essersi avventurata su un solaio di copertura non calpestabile per assumere stupefacenti, era caduta nel vuoto. In questo caso, contrariamente al primo, la Corte ha affermato la responsabilità del custode, stabilendo che questa non potesse «escludersi per il solo fatto che la vittima abbia usato la cosa fonte di danno volontariamente ed in modo abnorme (ferma restando, in tal caso, la valutazione della sua condotta come concausa del danno, ai sensi dell'art. 1227, comma primo, cod. civ.), quando tale uso, benché non conforme a quello ordinario, è reso possibile dalla facile accessibilità alla cosa medesima ».

7.4. Guida di veicoli (art. 2054 cod. civ.).

Copiosa come al solito, e non priva di spunti interessanti su fattispecie nuove, è stata nel 2012, come di consueto, la giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità del conducente di veicoli a motore, ex art. 2054 cod. civ.

Per quanto riguarda le regole di condotta che i conducenti debbono tenere, meritano di essere segnalate due decisioni.

La prima (Sez. 3, n. 9528, Rv. 622957) ha ribadito un principio divenuto ormai diritto vivente: quello secondo cui nell'attraversare l'area di un crocevia anche il conducente favorito dalla precedenza non è esentato dall'obbligo di usare la dovuta attenzione nell'attraversamento, ed è anzi tenuto a prevenire i pericoli derivanti da comportamenti illeciti o imprudenti di altri utenti della strada, che non si attengono al segnale di arresto.

La seconda decisione (Sez. 3, n. 13380, Rv. 623631) ha chiarito la portata dell'art. 154 cod. strad., in tema di svolta sinistra, precisando che chi intenda eseguire tale manovra ha non solo l'obbligo di dare la precedenza ai veicoli provenienti dalla sua destra, ma anche quello – non espressamente previsto dalla legge ma derivante dalla comune prudenza – di assicurarsi che non sopravvengano veicoli da tergo, ai quali spetta la precedenza anche se si trovino in una illegittima fase di sorpasso.

Per quanto riguarda l'ambito d'applicazione dell'art. 2054 cod. civ., nel 2012 si registrano due importanti precisazioni, l'una concernente l'ambito oggettivo di applicazione della norma, e l'altra quello soggettivo.

Dal punto di vista oggettivo, Sez. 3, n. 14815 (Rv. 623673) ha stabilito che la presunzione di corresponsabilità di cui all'art. 2054, comma secondo, cod. civ., trova applicazione anche quando il sinistro sia avvenuto durante una competizione sportiva svolta su una strada che, sia pure in violazione dei provvedimenti impartiti dalla competente autorità amministrativa, non era stata chiusa al traffico. In tal caso la suddetta presunzione si applicherà in caso di sinistro ai conducenti coinvolti sia che si tratti di partecipanti alla gara, sia che si tratti di altri utenti della strada.

Dal punto di vista soggettivo, Sez. 3, n. 947 (Rv. 620413) ha precisato che i soggetti la cui responsabilità, in caso di sinistro, si presume ai sensi del terzo comma dell'art. 2054 cod. civ., è possibile includere l'utilizzatore del veicolo concesso in leasing solo per i sinistri avvenuti dopo l'entrata in vigore del codice della strada: infatti l'art. 91, comma 2, di tale codice, che ha incluso il lessor tra i presunti responsabili al posto del proprietario, è una norma non retroattiva. Di conseguenza, peri sinistri avvenuti prima della suddetta data, resta ferma la responsabilità presunta del proprietario anche nel caso di veicolo concesso in leasing.

Per quanto concerne la prova liberatoria gravante sul conducente (o sul proprietario) gravati dalla presunzione di cui all'art. 2054, comma primo o terzo, cod. civ., anche nel 2012 la Corte ha confermato il proprio tradizionale orientamento rigoroso: così, ad esempio, si è precisato che Per quanto concerne la prova liberatoria gravante sul conducente (o sul proprietario) gravati dalla presunzione di cui all'art. 2054, comma primo o terzo, cod. civ., anche nel 2012 la Corte ha confermato il proprio tradizionale orientamento rigoroso: così, ad esempio, si è precisato che al conducente non basta dimostrare che il sinistro sia avvenuto a causa dello scoppio di un pneumatico per liberarsi dalla presunzione di colpa di cui all'art. 2054, comma primo, cod. civ., ma dovrà provare sia che lo scoppio non sia dovuto a difetto di manutenzione, sia che lo sbandamento seguito allo scoppio sia stato inevitabile ed abbia precluso qualsiasi manovra di emergenza (Sez. 3, n. 14959, Rv. 623716). Infine, per quanto riguarda la presunzione di pari responsabilità di cui al secondo comma della norma in esame, la Corte ha ribadito che l'accertamento della violazione, da parte di uno dei conducenti, dell'obbligo di dare la precedenza, non dispensa il giudice dal verificare il comportamento dell'altro, per stabilire se anche quest'ultimo abbia a sua volta violato o meno le norme sulla circolazione stradale ed i normali precetti di prudenza: e se non vi sia la prova di una sua condotta diligente, dovrà applicarsi la suddetta presunzione di colpa concorrente (Sez. 3, n. 9528, Rv. 622958).

Del tutto nuovo, invece, è il principio affermato da Sez. 3, n. 3704 (Rv. 621904). Con tale decisione la S.C., dopo avere ribadito che la presunzione di pari corresponsabilità di cui all'art. 2054, comma secondo, cod. civ., non si applica quando tra i veicoli coinvolti non vi sia stato un urto (principio già più volte affermato in passato), ha soggiunto che «anche quando manchi una collisione diretta tra veicoli è consentito applicare estensivamente la suddetta norma al fine di graduare il concorso di colpa tra i vari corresponsabili, sempre che sia accertato in concreto il nesso di causalità tra la guida del veicolo non coinvolto e lo scontro ». Con tale decisione, pertanto, è stato di fatto slargato l'ambito di applicazione della presunzione di pari colpa, e di fatto soppresso l'incipit della norma, che esordisce con il periodo ipotetico «nel caso di scontro tra veicoli ».

  • professioni giudiziarie
  • professione sanitaria
  • professioni del settore turistico

CAPITOLO XII

LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

(di Marco Rossetti )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità sanitaria. - 3 La responsabilità dell'avvocato. - 4 La responsabilità del notaio. - 5 La responsabilità dell'intermediario di viaggi. - 6 La responsabilità dei "soggetti abilitati" alla stipula di contratti finanziari (rinvio).

1. Premessa.

Nel presente scritto con l'espressione "responsabilità professionali" si intende designare non già la sola responsabilità degli esercenti una libera professione, ma più in generale quella di tutti i soggetti che, nell'adempimento delle proprie obbligazioni, sono tenuti all'osservanza della speciale diligenza c.d. "professionale" di cui all'art. 1176, secondo comma, cod. civ. Si tratta dunque non solo dei liberi professionisti, ma anche di tutti coloro che esercitano una attività industriale o commerciale in modo professionale, vale a dire con caratteri di continuità e stabilità.

Le attività teoricamente rientranti nell'ampia previsione di cui all'art. 1176, comma secondo, cod. civ., sono ovviamente potenzialmente infinite: nella presente sede ci occuperemo pertanto solo di quelle che più frequentemente sono state portate all'attenzione della giurisprudenza.

2. La responsabilità sanitaria.

Negli ultimi anni, come noto, la Corte di cassazione è venuta elaborando una serie di regole ad hoc in tema di responsabilità del medico, del personale sanitario e delle strutture ospedaliere, che hanno indotto taluni autori a definire addirittura la responsabilità medica come una "sottosistema" della responsabilità civile. Tali regole hanno riguardato principalmente i criteri di accertamento e valutazione della colpa e del nesso di causalità, ed hanno avuto l'effetto, in genere, di rendere più agevole l'esercizio del diritto al risarcimento del danno da parte del paziente o dei suoi congiunti, ritenuti "parti deboli" del rapporto.

Nel 2012 la Corte di cassazione ha non solo confermato, ma addirittura rafforzato questo trend tradizionale, introducendo nuove ipotesi di responsabilità del medico, ed ammettendo la risarcibilità di danni in precedenza esclusi.

Così, per quanto attiene l'accertamento della colpa delle strutture ospedaliere, Sez. 3, n. 1620 (Rv. 621457) ha confermato il tradizionale orientamento secondo cui l'ospedale risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente, per fatto proprio, ex art. 1218 cod. civ., ove tali danni siano dipesi dall'inadeguatezza della struttura, mentre risponde per fatto altrui, ex art. 1228 cod. civ., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l'ospedale si avvale.

Nell'uno come nell'altro caso, pertanto, non l'attore ha l'onere di provare la colpa dell'ospedale, ma sarà quest'ultimo a dovere provare che il danno non è derivato da una propria condotta negligente (così pure Sez. 3, n. 17143, Rv. 623987).

Stabilire, poi, quando la condotta del sanitario possa essere ritenuta "diligente", con conseguente esclusione della responsabilità civile, è problema preso in esame dalla importante decisione pronunciata da Sez. 3, n. 17143 (Rv. 623986). Questa sentenza, dopo avere ribadito il consolidato principio secondo cui è in colpa il medico che tiene una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, il medico "medio" (per tale intendendosi non già il professionista mediocre, ma quello di elevata professionalità), ha precisato che la diligenza esigibile dal medico varia col variare del grado di specializzazione di cui egli sia in possesso e del grado di efficienza della struttura in cui si trova ad operare. Pertanto dal medico di alta specializzazione ed inserito in una struttura di eccellenza è esigibile una diligenza più elevata di quella esigibile, dinanzi al medesimo caso clinico, da parte del medico con minore specializzazione od inserito in una struttura meno avanzata.

In tema di riparto dell'onere della prova in merito al consenso informato che il paziente deve prestare all'opera del medico, va poi segnalata la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 20984 (in corso di mass.), secondo cui il consenso del paziente all'atto medico non può mai essere presunto o tacito, ma deve essere fornito espressamente. Presuntiva, per contro, può essere la prova che un consenso informato sia stato dato effettivamente ed in modo esplicito, ed il relativo onere ricade sul medico.

Ma la più rilevante novità nel 2012 in tema di responsabilità sanitaria ha riguardato il c.d. danno da nascita indesiderata. Con tale espressione si designa per convenzione il danno patito dalla gestante che, non essendo stata informata da parte del medico dell'esistenza di malformazioni del feto, abbia perduto la possibilità di esercitare il diritto di abortire.

Sino ad ora, in tema di danno da nascita indesiderata la giurisprudenza di legittimità si era consolidata nel ritenere:

(a) che legittimati a domandare il risarcimento del danno fossero sia la madre che il padre del concepito;

(b) che, al contrario, quest'ultimo non ha titolo per pretendere il risarcimento quando le malformazioni siano congenite, non essendo concepibile un danno consistente nell'essere nato.

Questo tradizionale assetto è stato profondamente inciso dalla sentenza pronunciata da Sez. 3, n. 16754 (Rv. 623594 e 623595). Questa sentenza aveva ad oggetto un caso in cui un medico non aveva informato la gestante sui più corretti test da eseguire per avere la ragionevole certezza che il concepito fosse sano. Poiché tuttavia il bimbo era nato con una malattia congenita, la donna aveva convenuto in giudizio il medico, allegando che, se fosse stata correttamente informata sui più sicuri metodi da utilizzare per una corretta diagnosi prenatale, avrebbe potuto apprendere della malattia del concepito, ed avrebbe interrotto la gravidanza.

La domanda di risarcimento tuttavia veniva proposta non solo dai genitori del bambino, ma anche dai suoi fratelli e dallo stesso minore nato con malformazioni.

La Corte di cassazione dinanzi a questa vicenda ha ritenuto che:

(a) il diritto al risarcimento del danno spettasse anche ai fratelli del neonato, a causa delle minori cure che costoro avrebbero verosimilmente ricevute dai genitori, per essere costoro maggiormente impegnati ad accudire il figlio malato;

(b) il concepito ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario per il fatto di essere nato non sano. Tale diritto spetta anche quando le malformazioni siano congenite, ed ha ad oggetto il risarcimento dovuto per la lesione dell'interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire.

Con tale decisione, per la prima volta, la S.C. ha ammesso che una persona nata con malformazioni congenite possa domandare il risarcimento del danno per il fatto stesso di essere nata. A tale conclusione la S.C. è pervenuta non già attribuendo anche al concepito la soggettività giuridica (come aveva fatto, in precedenza, Sez. 3, n. 10741 del 2009, Rv. 608387), ma attraverso una articolata e complessa motivazione che, recependo una risalente opinione dottrinaria (FALZEA, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, passim), giunge ad equiparare anche il soggetto di diritto come una "fattispecie" giuridica. In questo modo, secondo la sentenza n. 16754, non c'è più bisogno di supporre che il concepito divenga giuridicamente capace prima ancora della nascita per potergli accordare il risarcimento, perché basterebbe verificare semplicemente la diversità di due "fattispecie": quale sarebbe stata la condizione di vita del concepito se fosse nato sano, e quale invece è a causa della sua malformazione.

La sentenza, così statuendo, si è posta – come accennato – in contrasto con un corposo e precedente orientamento, il quale aveva reiteratamente nato che il fatto di venire al mondo possa essere considerato un "danno" in senso giuridico, ed aveva perciò sistematicamente rigettato le domanda di risarcimento del danno da nascita indesiderata proposte dallo stesso neonato, in base all'assunto che non sia configurabile in capo al concepito un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano" (Sez. 3, n. 14488 del 2004, Rv. 575703; Sez. 3, n. 16123 del 2006, Rv. 575703).

Un ulteriore contrasto si è registrato nel 2012 con riferimento agli aspetti più strettamente processuali della responsabilità medica. Ha stabilito, infatti, Sez. 6-3, ord. n. 13269 (Rv. 623607), che nel giudizio di risarcimento del danno derivato da colpa medica «non costituisce inammissibile mutamento della domanda la circostanza che l'attore, dopo avere allegato nell'atto introduttivo che l'errore del sanitario sia consistito nell'imperita esecuzione di un intervento chirurgico, nel concludere alleghi, invece, che l'errore sia consistito nell'inadeguata assistenza postoperatoria». Ciò in quanto il "fatto costitutivo" della domanda, «idoneo a delimitare l'ambito dell'indagine [deve essere considerato] nella sua essenzialità materiale, senza che le specificazioni della condotta, inizialmente allegate dall'attore, possano avere portata preclusiva, attesa la normale mancanza di conoscenze scientifiche da parte del danneggiato».

Con tale decisione, nella sostanza, si è dunque consentito a chi si afferma vittima di un errore sanitario di potere ascrivere al convenuto nell'atto di citazione una condotta "A", e di potere poi rimproverargli in corso di causa una condotta "B".

Ma così statuendo la decisione si è posta in contrasto con numerose altre decisioni che, sebbene aventi ad oggetto fattispecie diverse da quelle della colpa medica, avevano ripetutamente affermato che, nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni da fatto illecito, costituisce inammissibile mutamento della domanda la prospettazione, in corso di causa, di una condotta colposa diversa da quella allegata con l'atto introduttivo del giudizio (Sez. 3, ord. n. 7540 del 2009, Rv. 607528; sent. n. 13982 del 2005, Rv. 582224; Sez. 1, n. 22473 del 2004, Rv. 578250; Sez. 3, n. 11202 del 2003, Rv. 565220; in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, che l'onere di indicare i fatti costitutivi della pretesa vada assolto in modo rigoroso e sin dall'atto di citazione è principio ribadito anche da Sez. 3, n. 17408, Rv. 624080).

3. La responsabilità dell'avvocato.

Le domande di risarcimento del danno proposte – a torto o a ragione – nei confronti di avvocati sono state negli ultimi anni seconde per numero soltanto a quelle proposte nei confronti di medici. Ciò ha determinato un forte incremento del contenzioso e, analogamente a quanto era accaduto anni addietro in tema di responsabilità sanitaria, l'elaborazione da parte della S.C. di regole ad hoc in tema di accertamento della colpa: così, ad esempio, dal 2000 in poi sono venuti emergendo i principî secondo cui non tutte le obbligazioni dell'avvocato nei confronti del cliente costituiscono obbligazioni di mezzi, potendosi concepire anche rispetto all'attività del legale obbligazioni di risultato (come ad esempio, interrompere la prescrizione dei diritti del cliente); oppure che l'avvocato ha il preciso obbligo di ottenere dal cliente il consenso informato all'introduzione della lite, previa occorrendo una attività di dissuasione dall'introduzione del giudizio, se questo non abbia ragionevoli possibilità di essere accolto.

Nel 2012 tuttavia le poche decisioni che hanno avuto ad oggetto fattispecie di responsabilità civile dell'avvocato sembrano avere invertito tale tendenza, tutte avendo posto dei limiti a tale responsabilità.

È il caso, innanzitutto, di Sez. 2, n. 11743 (Rv. 623209), avente ad oggetto un caso in cui la domanda giudiziale proposta da una società cooperativa era stata dichiarata inammissibile per difetto di procura alle liti, a causa della mancanza di potere rappresentativo in capo al soggetto che l'aveva sottoscritta.

La società aveva allora proposto una domanda di responsabilità nei confronti dell'avvocato che aveva autenticato la procura alle liti, ma tale domanda è stata ritenuta non fondata dalla Corte di cassazione, in base al rilievo che non fa sorgere alcuna responsabilità professionale dell'avvocato, per avere coltivato la domanda ignorando tale vizio, «essendo onere di chi la procura conferisce informare il professionista circa l'esistenza di clausole statutarie limitative dei poteri rappresentativi degli organi sociali».

La colpa dell'avvocato per omessa trascrizione dell'atto di citazione è stata invece esclusa da Sez. 3, n. 1605 (Rv. 621710), se se sia stato a ciò autorizzato dal cliente, il quale abbia volontariamente assunto il relativo onere, esonerandone il professionista.

Ha riguardato il problema del nesso causale la sentenza pronunciata da Sez. 2, n. 11304 (Rv. 623151), la quale ha ritenuto che il cliente, richiesto del pagamento dell'onorario, non possa sollevare l'eccezione d'inadempimento, ai sensi dell'art. 1460 cod. civ., quando la negligenza in cui sia incorso l'avvocato non sia idonea a incidere sugli interessi del cliente, perché non ha intaccato le chances di vittoria in giudizio.

4. La responsabilità del notaio.

Anche nel campo della responsabilità civile del notaio il 2012 ha fatto registrare talune decisioni che sembrano volere invertire la tendenza, manifestatasi negli ultimissimi anni, di un allargamento dei criteri di accertamento della colpa in materia di responsabilità professionale.

Così ad esempio, con riguardo alla condotta colposa che più frequentemente viene invocata nei confronti del notaio, e cioè il mancato rilievo dell'esistenza d'una iscrizione o trascrizione pregiudizievole a carico dell'immobile oggetto del contratto, la Sez. 3, n. 16549 (Rv. 623819) ha escluso in tale ipotesi la responsabilità del notaio, quando l'errore sia stato causato da una condotta negligente del conservatore dei registri immobiliari, che abbia reso di fatto impossibile l'individuazione dell'iscrizione ipotecaria con l'uso dell'ordinaria diligenza professionale. E la responsabilità del notaio è stata esclusa anche da Sez. 3, n. 5535 (Rv. 621801), in un caso in cui l'attore gli attribuiva la non fedele traduzione in veste giuridica degli accordi intercorsi tra le parti, sul presupposto che «chi sottoscrive un contratto non può invocarne l'invalidità adducendo di non averlo letto».

La sentenza pronunciata da Sez. 3, n. 10296 (Rv. 623038) ha, invece, ritenuto civilmente responsabile il notaio incaricato della stipula di un atto di compravendita immobiliare con riferimento ai danni patiti dall'acquirente a causa dell'assenza nell'immobile dei requisiti per il rilascio del certificato di abitabilità, a nulla rilevando che la mancanza di quei requisiti potesse essere agevolmente accertata dall'acquirente stesso, quando non sia dimostrato che il professionista abbia informato il cliente di tale situazione e delle sue possibili conseguenze.

Merita, altresì, di essere ricordata la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 20995 (in corso di massimazione), la quale ha sancito a carico del notaio l'esistenza d'un vero e proprio "obbligo di precauzione" nei confronti del cliente: ciò vuol dire che, dinanzi ad una legge ambigua od una giurisprudenza contrastata circa l'obbligo, o no, per il notaio di compiere un certo adempimento, necessario per la validità o l'opponibilità dell'atto da lui rogato, il notaio deve adottare la condotta più idonea a salvaguardare gli interessi del cliente, anche se in futuro dovesse rilevarsi superflua.

Con la stessa sentenza da ultimo ricordata, poi, la S.C. ha anche limitato per il notaio la possibilità di opporre al cliente l'exceptio inadimpleti contractus, in caso di mancato pagamento dell'onorario: secondo tale sentenza, infatti, il notaio può rifiutare la propria prestazione professionale ex ante, se le parti non depositino presso di lui le somme necessarie per l'onorario e le spese, ma, una volta che abbia comunque accettato di eseguire la prestazione richiestagli, il mancato pagamento dell'onorario non lo autorizza a sottrarsi all'obbligo di provvedere alle formalità susseguenti.

5. La responsabilità dell'intermediario di viaggi.

In materia di responsabilità del tour operator, e del conseguente danno da vacanza rovinata, si registrano nel 2012 due decisioni meritevoli di segnalazione, l'una riguardante il contratto e l'altra la responsabilità.

La prima di tali decisioni è rappresentata da Sez. 3, n. 3256 (Rv. 621451), la quale ha qualificato come "pacchetto turistico", assoggettandolo alla relativa disciplina, l'acquisto ad un prezzo forfettario di un soggiorno presso una struttura alberghiera inserita in un villaggio turistico, a nulla rilevando che, per la fruizione dei servizi da questo offerti in base alla prefissata combinazione venduta (spiaggia, vigilanza dei minori, piscina, animazione), il consumatore abbia dovuto pagare sul posto un prezzo aggiuntivo (sotto forma dell'acquisto di una c.d. "tessera club"), quando questo era comunque obbligatorio.

Tale decisione ha in sostanza affermato il principio che anche in materia di contratto di viaggio, ai fini della qualificazione del rapporto ed della individuazione del regime di responsabilità applicabile all'organizzatore del viaggio (ovvero all'intermediario) occorre fare riferimento alla concreta natura del rapporto, e non alla veste formale ad esso attribuita dalle parti (o, per meglio dire, dalla parte che ha predispostole condizioni generali di contratto).

La seconda sentenza è rappresentata da Sez. 3, n. 7256 (Rv. 622383 e Rv. 622384), la quale ha affermato due principî in tema di danno da vacanza rovinata.

Il primo è che non ogni disagio patito dal turista in conseguenza dell'inadempimento dell'organizzatore di viaggio legittima la domanda di risarcimento del danno (non patrimoniale) da vacanza rovinata, ma solo quelli che – alla stregua dei generali precetti di correttezza e buona fede – superino una soglia minima di tolleranza, da valutarsi caso per caso, con apprezzamento di fatto del giudice di merito. Nel caso di specie, tale superamento è stato ritenuto sussistente, in considerazione del fatto che i disagi dovuti all'inadempimento dell'organizzatore avevano riguardato un viaggio di nozze, e dunque una vacanza in linea di massima irripetibile.

Il secondo principio affermato dalla sentenza appena ricordata ha riguardato la prova del danno non patrimoniale da vacanza rovinata, ed è consistito nell'affermazione secondo cui tale prova è validamente fornita dal viaggiatore mediante dimostrazione dell'inadempimento del contratto di pacchetto turistico, non potendo formare oggetto di prova diretta gli stati psichici dell'attore consistiti nel disagio causato dalla mancata realizzazione della finalità turistica e dello scopo vacanziero.

6. La responsabilità dei "soggetti abilitati" alla stipula di contratti finanziari (rinvio).

Per attinenza con la materia del mercato dei prodotti finanziari, questa responsabilità viene trattata nel capitolo XX.

PARTE QUARTA TUTELA DEI DIRITTI

  • garanzia
  • ipoteca

CAPITOLO XIII

LE GARANZIE REALI

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Privilegio sui mobili dei crediti dell'impresa artigiana e irretroattività della legge. - 2 Pegno di crediti futuri, tipicità delle garanzie reali e patto commissorio. - 3 Domanda di cancellazione dell'ipoteca e cassazione con rinvio.

1. Privilegio sui mobili dei crediti dell'impresa artigiana e irretroattività della legge.

La sentenza Sez. 1, n. 11154 (Rv. 623082), ha preso in considerazione l'attuale testo dell'art. 2751 bis, n. 5, cod. civ., introdotto dal d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito in legge 4 aprile 2012, n. 35, il quale prevede che hanno privilegio generale sui mobili i crediti dell'impresa artigiana.

La Cassazione ha affermato che tale norma, quand'anche interpretabile nel senso indicato dalla ricorrente (ovvero come norma volta ad attribuire, anche ai fini del riconoscimento del privilegio, efficacia costitutiva all'iscrizione, legittimamente effettuata, all'albo delle imprese artigiane) non potesse trovare applicazione al caso di specie, posto che l'impresa in questione si era cancellata dal registro delle imprese sin dal 2008. Va escluso, infatti, che la nuova disposizione abbia natura interpretativa (e conseguente valenza retroattiva), non solo perché priva di un'espressa previsione a riguardo, ma anche in ragione dell'assenza di quei presupposti – situazioni di incertezza o significativi contrasti giurisprudenziali nell'applicazione del precedente testo, necessità di ristabilire un'interpretazione più aderente all'originaria volontà del legislatore – che, a tutela del valore della certezza del diritto e del principio costituzionale di uguaglianza, consentono il superamento del divieto di irretroattività della legge, sancito dall'art. 11 preleggi, il quale rappresenta una regola essenziale del sistema.

Sul punto, la pronuncia in esame costituisce una chiara applicazione dei principî, elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, che presiedono alla qualificazione di una norma come avente o meno natura interpretativa e, dunque, valenza retroattiva. La Suprema Corte ha, dunque, affermato che, con riguardo al periodo anteriore all'entrata in vigore della novella, l'iscrizione all'albo delle imprese artigiane, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 443 del 1985, non poteva spiegare alcuna influenza sul riconoscimento del privilegio, dovendosi ricavare la nozione di "impresa artigiana" dai criteri generali dell'art. 2083 cod. civ.

In particolare, la Corte ha precisato che, mentre i criteri richiesti dal quest'ultima norma ed, in genere, dal codice civile valgono per l'identificazione dell'impresa artigiana nei rapporti interprivati, quelli posti dalla legge speciale n. 443 del 1985 sono necessari per fruire delle provvidenze previste dalla legislazione (regionale) di sostegno, con la conseguenza che l'iscrizione all'albo dell'impresa artigiana effettuata ai sensi dell'art. 5 della legge n. 443 del 1985, pur avendo natura costitutiva nei limiti sopra indicati, non spiega di per sé alcuna influenza – neppure quale presunzione iuris tantum della natura artigiana dell'impresa – ai fini dell'applicazione dell'art. 2751 bis, n. 5, cod. civ., dettato in tema di privilegi, dovendosi ricavare la relativa nozione alla luce dei criteri fissati, in via generale, dall'art. 2083 cod. civ.

Ad avviso della Cassazione, non risulta, pertanto, viziato il convincimento del tribunale in ordine alla mancata qualità "artigiana" dell'impresa, in quanto basato sulla valutazione di circostanze di fatto acquisite agli atti del giudizio, quali gli elevati costi di gestione e la circostanza che circa metà delle prestazioni risultassero appaltate a terzi, con esclusione della prevalenza del lavoro della titolare su ogni altro fattore produttivo.

In ordine alla asserita esclusione della natura di norma di "interpretazione autentica" all'art. 2751 bis n. 5, cod. civ., nella sua nuova formulazione, la Corte di cassazione ha fatto applicazione dei principî enucleati in materia dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui la norma è interpretativa, qualora, esistendo una oggettiva incertezza del dato normativo (ord. n. 400 del 2007) ed un obiettivo dubbio ermeneutico (sent. n. 29 del 2002), sia diretta a chiarire il contenuto di preesistenti norme, ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei significati tra quelli plausibilmente ascrivibili a queste (sent. n. 170 del 2008). In particolare, la Corte costituzionale ha individuato una serie di limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, che attengono alla salvaguardia, oltre che dei principî costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, tra i quali il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sent nn. 78 e 15 del 2012 e 209 del 2010).

2. Pegno di crediti futuri, tipicità delle garanzie reali e patto commissorio.

Hanno affermato le Sez. Un., n. 16725 (Rv. 623435) che, nel regime convenzionale di gestione centralizzata dei titoli di Stato istituito dalla Banca d'Italia (in vigore solo fino al d.m. 27 maggio 1993, emesso in attuazione dell'art. 22, comma 4, della legge n. 1 del 1991), non è idonea ad attribuire la prelazione una convenzione di pegno avente ad oggetto l'acquisto e la consegna di titoli non ancora emessi (c.d. pegno di credito futuro), convenzione che, fino a quando non si verifica la specificazione, ha effetti obbligatori e non attribuisce prelazione, la quale sorge solo dopo suddetta specificazione dei titoli. Infatti, se le parti intendono conseguire gli effetti propri del pegno, quale garanzia reale disciplinata dal codice, ossia se intendono attribuire al creditore pignoratizio la prelazione, debbono rispettare le condizioni previste dalla disciplina positiva; al contrario, se sono libere di conseguire effetti meritevoli di tutela in altro modo, come autorizza l'art. 1322 cod. civ., non possono però in tal caso pretendere che dal pegno di credito futuro discendano effetti reali.

La decisione è conforme a Sez. 1, n. 28900, del 2011 (Rv. 620999); secondo un precedente orientamento invece (Cass. n. 4208 del 1999, Rv. 525808; Cass. n. 8050 del 2009, Rv. 617931) era valido il pegno e dunque la convenzione istitutiva del pegno aveva effetti reali, anche se prima della realizzazione del pegno la società fallisse.

In effetti, secondo la Cassazione, il pegno costituisce per il creditore una garanzia reale, cioè opponibile erga omnes, che si concreta nella creazione di una riserva di utilità economicamente apprezzabile e che si traduce nel diritto di conseguire il ricavato dell'aggiudicazione del bene o del diritto sottoposto a pegno, quale valore (non solo e non tanto, come d'uso, quanto) di scambio del bene o del diritto stesso. Se è vero che l'idoneità ad assumere valore di scambio non è esclusiva delle cose, ma anche dei crediti e di altri diritti, è anche vero che è pur sempre necessario che crediti e diritti siano idonei ad assumere natura di res, a subire una oggettivazione, e non tutti i diritti sono idonei ad acquistare questa qualità. Ciò deve dirsi del credito all'acquisizione di titoli di Stato non emessi che il cliente vanta nei confronti della banca mandataria, perché il valore di scambio, in questo caso, è del titolo, che però non è stato ancora emesso.

Si porrebbe inoltre in essere una convenzione elusiva della norma imperativa (in questo senso, da ultimo, Sez. 2, n. 5426 del 2010, Rv. 611785) che stabilisce il divieto di patto commissorio di cui all'art. 2744 cod. civ. e che si estende a qualunque negozio attraverso il quale le parti intendono realizzare il fine vietato dal legislatore (in questo senso, ancora la citata Sez. 2, n. 5426 del 2010, Rv. 611784), perché l'appropriazione dei titoli da parte della banca realizzerebbe un effetto sostanzialmente analogo al patto commissorio, in quanto la banca verrebbe ad appropriarsi dell'oggetto del credito del cliente.

Con riguardo al patto commissorio, Sez. 2, n. 1675 (non massimata) ha affermato che, affinché la vendita realizzi una forma di garanzia impropria, incorrendo nel divieto di cui all'art. 2744 cod. civ., occorre l'esistenza di una situazione di debito del venditore nei confronti dell'acquirente, preesistente o coeva alla vendita stessa: nel caso all'esame, la Corte ha confermato la pronuncia di merito, che aveva escluso il patto commissorio con riguardo a contratti collegati di vendita di un immobile, locazione del medesimo al venditore e patto di opzione che conferiva a quest'ultimo la facoltà di riacquisto, argomentando con l'assenza di sproporzione tra il valore del bene e il prezzo pagato dall'acquirente e l'inidoneità della locazione ad alterare l'equilibrio delle prestazioni.

3. Domanda di cancellazione dell'ipoteca e cassazione con rinvio.

Secondo Sez. 3, n. 20315 (Rv. 624243), qualora sia stata iscritta ipoteca giudiziale in forza di una sentenza di primo grado, poi confermata in appello, la cassazione con rinvio della sentenza d'appello non determina alcun effetto sulla pronuncia di primo grado, ai fini dell'art. 336, secondo comma, cod. proc. civ., e dunque non incide in alcun modo sulla legittimità dell'iscrizione ipotecaria.

Ne consegue che deve essere rigettata, per inesistenza del diritto fatto valere, la domanda, proposta dalla parte che abbia ottenuto la cassazione con rinvio, volta ad ottenere, in base all'art. 389 cod. proc. civ., la cancellazione dell'ipoteca e il risarcimento dei danni per la pretesa illegittimità dell'iscrizione, senza che abbia rilievo al riguardo il disposto dell'art. 2884 cod. civ., il quale si riferisce al giudizio in cui viene chiesta la cancellazione dell'ipoteca e determina il momento in cui essa sia eseguibile, e non regola, invece, l'incidenza sull'ipoteca delle vicende del giudizio che abbia dato luogo all'iscrizione. L'iscrizione di ipoteca rientra invece nella previsione del secondo comma dell'art. 336 cod. proc. civ. allorché si riferisca agli atti dipendenti dalla sentenza cassata.

  • prescrizione della pena
  • prescrizione dell'azione

CAPITOLO XIV

PRESCRIZIONE E DECADENZA

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Prescrizione e decadenza, art. 24 e 111 Cost. e principio della certezza del diritto. - 2 Decadenza e interessi di carattere generale.

1. Prescrizione e decadenza, art. 24 e 111 Cost. e principio della certezza del diritto.

La decadenza provoca l'estinzione di un diritto per non aver svolto determinate attività previste dalla legge o dalle parti nel termine stabilito. La prescrizione produce invece l'estinzione del diritto per effetto dell'inerzia del titolare stesso che non lo esercita per il tempo determinato dalla legge. In effetti, secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 78 del 2012), la ratio dell'istituto postula proprio l'inerzia del titolare del diritto stesso. La ragione per cui l'ordinamento giuridico riconnette all'inerzia del titolare protratta nel tempo l'estinzione del diritto soggettivo consiste nell'esigenza di certezza nei rapporti giuridici: infatti, per il fatto che un diritto non viene esercitato, si forma nella generalità delle persone la convinzione che esso non esiste o è stato abbandonato.

Pertanto, anche nella diversità degli istituti, e pur essendosi ribadita da Sez. Un., n. 16783 (Rv. 623690) l'incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere (amplius al cap. I, § 5.1), è indubbio, tuttavia, che prescrizione e decadenza hanno una radice comune nel compito di assicurare la certezza del diritto (cfr., da ultimo, Corte cost. n. 264 del 2012) e la ragionevole durata del processo, compatibilmente con il rispetto di un altro valore fondamentale, quello del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. (Corte cost., nn. 247 e 17 del 2011).

Ha, così, coerentemente affermato la Sez. L, n. 7755 (Rv. 623141), che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (c.d. overruling), il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera come interpretazione correttiva, che si salda alla relativa disposizione di legge processuale "ora per allora", nel senso di rendere irrituale l'atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all'orientamento precedente. Infatti, il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all'interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché essa, nella sua dimensione dichiarativa, non può rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell'atto compiuto in correlazione temporale con l'affermarsi dell'esegesi del giudice.

Tuttavia, ove l'overruling si connoti del carattere dell'imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul consolidato orientamento pregresso), si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante ex post non conforme alla corretta regola del processo) e l'effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che – in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 Cost.), volto a tutelare l'effettività dei mezzi di azione e difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito – deve escludersi l'operatività della preclusione o della decadenza derivante dall'overruling nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell'arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l'apparenza di una regola conforme alla legge del tempo (cfr. pure, nella parte processuale, il cap. XXIV, § 5.4).

Ancora, secondo Sez. 2, n. 5972 (Rv. 622288), in tema di regime patrimoniale della famiglia, lo scioglimento della comunione legale dei beni fra i coniugi si verifica ex nunc con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, il quale non è impedito dalla proposizione dell'appello con esclusivo riferimento all'addebito, all'affidamento dei figli ed all'assegno di mantenimento, importando esso acquiescenza alla parte autonoma della sentenza sulla separazione. Tale indirizzo interpretativo non vale soltanto per il futuro, in quanto dal mutamento di esegesi sulla scindibilità della pronuncia sulla separazione dal capo riferito all'addebito, non derivano preclusioni o decadenze per la parte, il cui diritto di azione e difesa non è compromesso, onde non è applicabile il principio in tema di overruling, secondo cui il mutamento della precedente interpretazione della Corte di cassazione su di una norma processuale non opera nei confronti della parte, che in detta interpretazione abbia incolpevolmente confidato.

Un principio analogo è stato espresso dalla Corte costituzionale, sempre nel 2012, con la sentenza n. 230, secondo cui l'overruling giurisprudenziale non è in grado di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo è ampiamente riconosciuto anche nell'ambito dell'Unione europea (Corte di giustizia, sentenze 22 dicembre 2010, C-507/08, Commissione contro Repubblica slovacca; 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub s.r.l.; 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer).

L'art. 111 Cost. è considerato il principio costituzionale attraverso il quale valorizzare la decadenza nella sentenza Sez. L, n. 7751 (Rv. 622888), secondo cui nel rito del lavoro, la rilevabilità d'ufficio della nullità non può incidere sulle preclusioni e decadenze di cui agli art. 414 e 416 cod. proc. civ., ove, attraverso l'exceptio nullitatis, si introducano tardivamente in giudizio questioni di fatto ed accertamenti nuovi e diversi, ponendosi, una diversa soluzione, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost.

Secondo la Corte costituzionale tuttavia il principio della ragionevole durata del processo va bilanciato con il diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. e dunque, secondo l'ordinanza n. 112 del 2012 della Consulta, con specifico riguardo all'art. 111 Cost., è da escludere che tale principio costituzionale addirittura imponga la prescrizione di termini decadenziali (o di altri meccanismi equivalenti) intesi a sollecitare l'esercizio dell'azione.

2. Decadenza e interessi di carattere generale.

Si è detto che la decadenza provoca l'estinzione di un diritto per non aver svolto determinate attività previste dalla legge o dalle parti nel termine stabilito. L'istituto della decadenza tuttavia non è necessariamente posto a presidio di interessi di carattere generale, né occorre che, perché possa farsene applicazione, essa sia esplicitamente prevista.

Ha affermato infatti Sez. 2, n. 18078 (Rv. 623906) che in tema di responsabilità dell'appaltatore per rovina e difetti di cose immobili destinate a lunga durata, la decadenza dall'azione per tardività della denunzia, stabilita dall'art. 1669, primo comma, cod. civ., non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma deve essere eccepita dalla parte, trattandosi di decadenza posta a tutela di interessi individuali e concernente diritti disponibili.

Inoltre, secondo Sez. 3, n. 16512 (Rv. 623702) per affermare che una norma di legge abbia introdotto un termine di decadenza all'esercizio di un diritto, è necessario non già che tale previsione sia esplicita (potendo essa desumersi anche in via interpretativa), ma che sia inequivoca. La Cassazione ha pertanto escluso che l'art. 34, comma sesto, della legge regionale Marche 5 gennaio 1995 n. 7, stabilendo che il proprietario del fondo danneggiato dalla fauna selvatica, per ottenere l'indennizzo da parte della Regione, debba denunciare "immediatamente" il danno, abbia introdotto una decadenza dal relativo diritto.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA

  • licenziamento
  • permesso di lavoro
  • sindacato
  • sicurezza del lavoro
  • diritto del lavoro

CAPITOLO XV

IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO

(di Francesco Buffa )

Sommario

1 Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato. - 2 Lavoro flessibile e precario. - 2.1 - 2.2 - 2.3 - 2.4 - 2.5 - 3 Inquadramento e mansioni. - 4 Congedi parentali e permessi retribuiti. - 5 Sicurezza sul lavoro. - 6 Potere di controllo e disciplinare. - 7 Retribuzione e contratto collettivo. - 8 Organizzazione sindacale. - 9 Cessazione del rapporto per dimissioni. - 10 Licenziamento individuale. - 11 C.i.g. e licenziamenti collettivi. - 12 Trasferimento di azienda. - 13 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. - 13.1 - 13.2 - 13.3 - 13.4 - 13.5 - 13.6 - 13.7

1. Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato.

Nel rapporto di lavoro alle dipendenze di privati, Sez. L, n. 16233, Rv. 624122, ha affermato, in tema di procedure concorsuali di selezione del personale, che il datore di lavoro che intende procedere alla copertura di posti di qualifica superiore mediante una selezione del personale di tipo concorsuale interno assume un obbligo contrattuale, nei confronti di ciascun dipendente partecipante, all'osservanza delle regole procedurali e delle norme di selezione con le quali ha autodisciplinato la propria discrezionalità, secondo i principî di correttezza e buona fede; la violazione di tali criteri comporta il risarcimento del danno che al lavoratore può derivare per perdita di chance, e tale danno va risarcito sulla base del tasso di probabilità che egli aveva di risultare vincitore, qualora la selezione tra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto e trasparente. Nella specie, la corte territoriale, nel qualificare la procedura bandita dal datore come procedura concorsuale, e non come selezione avente mera finalità orientativa, aveva ritenuto illegittimo il comportamento del datore che non si era poi attenuto alla graduatoria nella promozione dei dipendenti e lo aveva condannato lo stesso al risarcimento dei danni in favore del dipendente vincitore pretermesso; la S.C. ha confermato la decisione ed affermato il principio su esteso.

Con riferimento alle assunzioni obbligatorie, si è precisato (Sez. L, n. 7637, Rv. 622790) che gli orfani di lavoratore deceduto per causa di lavoro sono soggetti ad una disciplina diversa da quella prevista per i riservatari invalidi, atteso che, a differenza di quanto disposto dalla legge n. 482 del 1968, la legge n. 68 del 1999 non equipara più gli orfani ai riservatari disabili, ma prevede solo una quota di riserva in loro favore ed un obbligo di richiesta di avviamento a carico del datore, con limiti percentuali alle richieste nominative. Ne consegue che, con riferimento agli orfani, il datore di lavoro non è tenuto, in caso di richiesta aziendale priva dell'indicazione della categoria di avviamento, ad assumere il lavoratore per la categoria per la quale è stato effettuato l'avviamento e può legittimamente sottrarsi agli obblighi assuntivi provando l'assenza di posto in organico, non occorrendo l'assolvimento del diverso e più rigoroso onere di provare l'incollocabilità nella propria organizzazione aziendale né di mutare o adeguare gli assetti aziendali.

Nella materia del lavoro privato, ove la costituzione del rapporto avviene normalmente per effetto del semplice incontro di volontà – anche tacita – dei soggetti del rapporto, senza particolari formalità, si pone il problema di qualificazione della fattispecie in quanto, costituito un rapporto lavorativo, occorre verificare la sussistenza degli elementi tipici della subordinazione.

La giurisprudenza della sezione lavoro si è occupata nell'anno del problema in diverse fattispecie, relative al lavoro per finalità ideali e politiche, al lavoro dei borsisti, ed ai casi di c.d. subordinazione attenuata, espressi dal lavoro intellettuale e dal lavoro dei dirigenti.

Si è così precisato (Sez. L, n. 11089, Rv. 623173) che ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità, se immune da errori di diritto e da vizi logici (fattispecie in tema di militanza politica ideale).

Con riferimento ai borsisti, si è affermato (Sez. L, n. 1891, Rv. 620912) che la circostanza che l'attività del beneficiario di una borsa di studio non si esaurisca nell'approfondimento culturale, ma si completi con prestazioni analoghe a quelle del personale dipendente, non è idonea, di per sé, ad implicare la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, ove difetti il requisito dell'assoggettamento del borsista ai poteri e alle direttive dell'ente datore della borsa di studio, assoggettamento non ravvisabile nel mero obbligo del borsista di osservare le prescrizioni interne di funzionamento dell'ente stesso; ciò è conforme alla giurisprudenza comunitaria, che qualifica il borsista come lavoratore solo se egli eserciti la propria attività per un determinato periodo di tempo sotto l'altrui potere direttivo, percependo una retribuzione a titolo di controprestazione (Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza 17 luglio 2008, C-94/07) (nella specie, la S.C., affermando il principio, ha respinto il ricorso contro la decisione di merito che aveva giudicato insufficiente alla costituzione del rapporto di lavoro subordinato la circostanza che il borsista fosse stato inserito nel piano-ferie del personale in servizio presso l'ente erogatore della borsa di studio).

Venendo alla c.d. subordinazione attenuata, si è precisato che, in caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con una continuità regolare, anche negli orari, ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato oppure autonomo, sia pure con collaborazione coordinata e continuativa, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice deve individuare in concreto – con accertamento di fatto incensurabile in cassazione, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato – accordando prevalenza ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto. (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso proposto dal datore di lavoro avverso la decisione di merito che aveva correttamente riconosciuto la subordinazione cosiddetta attenuata per le prestazioni di un operatore grafico: Sez. L, n. 5886, Rv. 621878).

Quanto al lavoro dei dirigenti, ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell'emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l'esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell'organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell'ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata (Sez. L, n. 7517, Rv. 622886).

2. Lavoro flessibile e precario.

Anche quest'anno, varie le sentenze degne di rilievo inmateria.

2.1.

In tema di lavoro part-time, si è precisato (Sez. L, n. 1430, Rv. 621083) che la distribuzione dell'orario della prestazione, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno, integra il nucleo stesso del contratto di lavoro a tempo parziale e la ragion d'essere della particolare garanzia costituita dalla forma scritta, che assolve alla funzione di evitare che il datore di lavoro, avvalendosi di una carente o generica pattuizione sull'orario, possa modificarla a proprio piacimento a fini di indebita pressione sul lavoratore. Ne consegue che il contratto di lavoro part-time che non rechi l'indicazione scritta della distribuzione oraria è nullo e non dà titolo al beneficio contributivo previsto dall'art. 5, comma 5, del d.l. n. 726 del 1984, dovendosi escludere che la previsione di cui all'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 61 del 2000, che ha escluso la sanzione della nullità in caso di mancanza o indeterminatezza delle indicazioni sulla collocazione temporale, abbia efficacia retroattiva non trattandosi di norma di interpretazione autentica. (Nell'affermare il principio in fattispecie relativa a contratti anteriori all'entrata in vigore dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 61 del 2000, la S.C. ha escluso la retroattività di tale disposizione, ai sensi della quale l'eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto delle indicazioni sulla collocazione temporale dell'orario non comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale).

Con riferimento al rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, la sentenza Sez. L, n. 20016, in corso di massimazione, ha affermato che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, allorquando le esigenze produttive sopravvenute, lungi dall'implicare la soppressione della posizione lavorativa ne impongano, invece, il potenziamento, non sussiste il giustificato motivo oggettivo di licenziamento a fronte di un rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, essendo, in tal caso, il recesso datoriale dovuto ad una determinazione dell'imprenditore di preferenza, per mera convenienza economica, del rapporto di lavoro a tempo pieno in luogo di una pluralità di rapporti a tempo parziale, e non essendovi per converso uno stretto nesso di consequenzialità e necessità tra esigenze produttive ed eliminazione del rapporto lavorativo, la cui esistenza effettiva, sola, giustifica il recesso.

Il lavoratore a tempo parziale ha, come noto, diritto soggettivo di precedenza in caso di nuove assunzioni, il quale comporta la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, con modifica dell'assetto negoziale preesistente solo rispetto alla quantità e alla distribuzione temporale delle prestazioni lavorative: tale diritto – previsto dall'art. 5, comma terzo bis, del d.l. n. 726 del 1984 (convertito con modifiche nella legge n. 863 del 1984 – spetta (secondo Sez. L, n. 7752, Rv. 623256) a condizione che il datore di lavoro compia delle nuove assunzioni a tempo pieno e purché adibisca i nuovi assunti a mansioni fungibili con quelle dei lavoratori a tempo parziale, in quanto, in caso contrario, la trasformazione del rapporto di lavoro non risulterebbe sostitutiva rispetto all'assunzione di nuovo personale a tempo pieno e comporterebbe, perciò, un aggravio, non voluto dalla legge, dell'obbligo imposto al datore di lavoro.

2.2.

Numerose sentenze della sezione Lavoro hanno riguardato il contratto a tempo determinato.

Quanto alla legittimità dell'apposizione del termine, si è affermato che, in tema di lavoro a tempo determinato, il requisito della specificità delle ragioni di carattere sostitutivo – di cui all'art. 1 del d.lgs. 368 del 2001 – non deve essere riferito, in una situazione aziendale complessa, all'indicazione delle generalità del singolo lavoratore da sostituire, ma può ritenersi soddisfatto, con la verifica della corrispondenza quantitativa tra il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine per lo svolgimento di una data funzione aziendale e le scoperture che per quella stessa funzione si sono realizzate per il periodo dell'assunzione (Sez. L, n. 8647, Rv. 623145).

Quanto alla possibilità per la contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi, ulteriori rispetto a quelle legali, di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, Sez. L, n. 15455, in corso di massimazione, ha affermato che l'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 – che demanda alla contrattazione collettiva la possibilità di prevedere nuove ipotesi di lavoro a termine e che configura una vera e propria "delega in bianco" a favore dei sindacati, i quali, pertanto, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere "oggettivo" ed anche, alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale, per ragioni di tipo meramente "soggettivo" – richiede che «i contratti collettivi di lavoro» (non qualificati quanto al loro livello) siano «stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale» e, dunque, non richiede che il contratto collettivo debba essere nazionale, né compie alcuna selezione con riferimento alla parte datoriale, che può essere pertanto anche una singola azienda; ne deriva che anche un contratto aziendale, purché stipulato con un'organizzazione sindacale che presenti i requisiti su indicati, può legittimamente individuare nuove ipotesi di apposizione del termine. (Fattispecie relativa agli accordi collettivi 5 aprile 1997 e 8 giugno 2000, stipulati tra l'associazione sindacale Intersind e la RAI, e, rispettivamente, RAI s.p.a., RAI SAT s.p.a., RAI Way s.p.a. e RAI Cinema s.p.a., dal lato datoriale e, dal lato sindacale, dalle associazioni sindacali SLC-CGIL, FIS-CISL e UILSIC-UIL).

Si è pure deciso (Sez. L, n. 11659, Rv. 623089) che la disposizione dell'art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, aggiunta dall'art. 1, comma 558, della legge n. 266 del 2005, perseguendo una ratio di parziale liberalizzazione delle assunzioni a termine nel settore delle poste, consente alle imprese concessionarie dei servizi postali di stipulare contratti a tempo determinato, nei limiti e per i periodi ivi previsti, senza necessità di indicare le ragioni obiettive giustificatrici dell'apposizione del termine. Tale disposizione non contrasta con l'ordinamento comunitario, in quanto, come rilevato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea (C-20/10, Vino), è giustificata dalla direttiva 1997/67/CE, in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali, non venendo in rilievo la direttiva 1999/70/CE, in tema di lavoro a tempo determinato, neppure con riferimento al principio di non discriminazione, che è affermato per le disparità di trattamento fra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, ma non anche per le disparità di trattamento fra differenti categorie di lavoratori a tempo determinato.

In tema di risarcimento del danno sofferto dal lavoratore per l'apposizione di un termine nullo, particolarmente interessante è altra pronuncia (Sez. L, n. 5676, Rv. 621879) che ha affermato che, ai fini della sottrazione dell'aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte venga la prova, che il lavoratore ha trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, tale essendo il fatto idoneo a ridurre l'entità del danno risarcibile. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ridotto l'entità del danno risarcibile in base alla presunzione, non fondata su alcuna massima di esperienza, che il lavoratore avrebbe potuto trovare nuova idonea occupazione nell'arco di tre anni nonché in base all'affermazione che sarebbe stato onere del lavoratore medesimo provare la fattiva ricerca di un nuovo impiego).

La disciplina dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010, sopravvenuta generalmente ai processi in corso, ha suscitato varie questioni in ordine alla sua applicazione ed alla sua portata.

Il presupposto di applicazione della nuova normativa è naturalmente la riconducibilità delle questioni dalla stessa regolati ai motivi dell'impugnazione proposta: si è così affermato (Sez. L, n. 1409, Rv. 620801), in tema di risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, che la sopravvenuta disciplina dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010, come interpretata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 303 del 2011, si applica nel giudizio pendente in grado di legittimità, qualora tale ius superveniens sia pertinente alle questioni dedotte nel ricorso per cassazione si è precisato ulteriormente (Sez. L, n. 3305, Rv. 621276) che, in tema di risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, la sopravvenuta disciplina di cui all'art. 32, commi 5, 6 e 7 della legge n. 183 del 2011, come interpretata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 303 del 2011, si applica anche in sede di legittimità ove pertinente alle questioni dedotte nel ricorso, dovendosi ritenere che, alla luce di una interpretazione costituzionalmente conforme della disciplina transitoria, si debba prescindere, nell'applicazione dello ius superveniens, dalla fase in cui il processo si trovi e trovando tale soluzione conferma nella lettera del secondo periodo del comma 7 che, nel prevedere che «il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile», premette l'inciso «ove necessario» con valore disgiuntivo/inclusivo, a dimostrazione che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori va modulata in ragione dello stato e del grado in cui si trova il processo. Ne consegue che ove, a seguito di cassazione con rinvio, sia stata ripristinata la sede di merito, la modifica di domande ed eccezioni potrà rendersi necessaria solo in primo grado (in caso di ricorso per saltum), eventualmente anche con l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio, mentre in appello resteranno consentiti solo questi ultimi.

Anche per Sez. L, n. 16642, Rv. 624215, nel giudizio di legittimità, lo ius superveniens, che introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, può trovare applicazione alla condizione, necessaria, che la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principî generali dell'ordinamento in materia di processo per cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l'individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – richiedono che il motivo del ricorso, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, oltre che sussistente sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che – ove sia invocata l'applicazione dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183 del 2010 con riguardo alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro – è necessario che i motivi del ricorso investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine, non essendo possibile chiedere l'applicazione diretta della norma al di fuori del motivo di impugnazione.

Quanto alla natura della misura indennitaria prevista dalla norma si è affermato (Sez. L, n. 3056, Rv. 621159) che la nuova disciplina configura, alla luce dell'interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale ex lege a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l'importo dell'indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall'intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, per l'eventuale aliunde perceptum), trattandosi di indennità "forfetizzata" e "onnicomprensiva" per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto "intermedio" (dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione).

In motivazione, la sentenza (che esprime il consolidato orientamento della Sezione sulla questione dopo la pronuncia ora detta della Corte costituzionale) ha affermato che la nuova disciplina dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183 del 2010, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità, alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratio legis diretta ad «introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione»: la norma va intesa nel senso che «il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto», con la conseguenza che, a partire da tale sentenza, «è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva» (altrimenti risultando «completamente svuotata» la «tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato»). In definitiva la norma in oggetto, come affermato dal Giudice delle leggi, risulta «adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi». Infatti, al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un'indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell'offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Così intesa, in sostanza come una sorta di penale stabilita dalla legge con carattere "forfetizzato", "onnicomprensivo" di ogni danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto.

2.3.

Nel contratto di apprendistato, come in quello di formazione e lavoro, si è precisato (Sez. L, n. 2015, Rv. 621516) che l'attività formativa, che è compresa nella causa negoziale, è modulabile in relazione alla natura e alle caratteristiche delle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere, potendo assumere maggiore o minore rilievo, a seconda che si tratti di lavoro di elevata professionalità o di semplici prestazioni di mera esecuzione, e potendo atteggiarsi con anticipazione della fase teorica rispetto a quella pratica, o viceversa, sempre che lo svolgimento della suddetta attività di formazione sia idoneo a raggiungere lo scopo del contratto - ossia l'inserimento effettivo nel lavoro dell'impresa mediante l'acquisizione di una professionalità adeguata - secondo una valutazione che è rimessa al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se congruamente motivata.

2.4.

In materia di rapporto di lavoro interinale, si è affermato (Sez. L, n. 232, Rv. 620094) che la mancanza o la generica previsione, nel contratto intercorrente tra l'impresa fornitrice e il singolo lavoratore, dei casi in cui – e dunque delle esigenze per le quali – è possibile ricorrere a prestazioni di lavoro temporaneo, in base ai contratti collettivi dell'impresa utilizzatrice, ovvero l'insussistenza in concreto delle suddette ipotesi, spezza l'unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell'offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti del lavoratore, e fa venir meno la presunzione di legittimità del contratto interinale stesso. Ne consegue che, per escludere che il contratto di lavoro con il fornitore interposto si consideri instaurato con l'utilizzatore interponente a tempo indeterminato, non è sufficiente arrestarsi alla verifica del dato formale del rispetto della contrattazione collettiva quanto al numero delle proroghe consentite, senza verificare l'effettiva persistenza delle esigenze di carattere temporaneo, in modo tanto più penetrante quanto più durevole e ripetuto sia il ricorso a tale fattispecie contrattuale.

La sentenza Sez. L., n. 6933 (Rv. 622571), ha ritenuto in tema di somministrazione di manodopera che il controllo giudiziario sulle ragioni che la consentono – che è limitato all'accertamento della loro esistenza, e non può estendersi al sindacato sulle valutazioni tecniche ed organizzative dell'utilizzatore implica la verifica dell'effettività dell'esigenza di assunzione indicata nel contratto di somministrazione stipulato tra la somministratrice e l'utilizzatrice, restando irrilevante la diversa indicazione nel contratto di assunzione. Ne consegue che, ove la somministrazione sia fatta con riferimento ad una determinata sede di lavoro per sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto, l'assegnazione del lavoratore ad altra sede implica la violazione delle condizioni legali della somministrazione e la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l'utilizzatore della prestazione, restando irrilevante che nel contratto di assunzione sia stata indicata la sede di effettiva utilizzazione.

Sempre in tema di fornitura di lavoro interinale Sez. L, n. 21837, in corso di massimazione, ha poi affermato che la violazione delle disposizioni della legge n. 196 del 1997, ed in particolare dell'art. 1, comma 2, lett. a), comporta la sostituzione della parte datoriale e la configurabilità di un rapporto di lavoro tra lavoratore ed utilizzatore interponente e tale rapporto è, salvo che ricorrano specifiche ragioni che consentano l'apposizione del termine, a tempo indeterminato, anche ove il rapporto con l'interposto fosse a termine, e ciò non solo perché tale tipo di rapporto costituisce la regola, ma anche perché, diversamente, si perverrebbe alla inammissibile situazione per la quale la violazione del divieto di interposizione di manodopera consentirebbe all'interponente di beneficiare di una prestazione a termine altrimenti preclusa.

Il tema del mancato rispetto delle regole legali che consentono la costituzione di un rapporto precario nelle forme della somministrazione è stato affrontato anche da altra pronuncia (Sez. L, n. 5667, Rv. 622267), secondo la quale nel caso in cui l'utilizzatore, in violazione dell'art. 1, comma 8, della legge n. 196 del 1997 (applicabile ratione temporis), stipuli col fornitore contratti di fornitura di lavoro temporaneo in misura eccedente la percentuale fissata dai contratti collettivi, non si instaura un ordinario rapporto di lavoro subordinato tra lavoratore e utilizzatore, attesa l'assenza di ogni sanzione per la suddetta irregolarità, che riguarda la sola posizione dell'utilizzatore e non può inficiare il rapporto tra lavoratore e fornitore. Ne consegue che l'obbligo contributivo resta a carico dell'impresa fornitrice.

2.5.

La Corte si è poi occupata del problema della possibilità di prevedere, nel caso di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che fa seguito ad altro contratto lavorativo e pur in momenti temporali diversi, clausole speciali (quali il patto di prova o un clausola economica prevedente un salario di ingresso), dandone una soluzione positiva alle condizioni appresso indicate. Si è così detto (Sez. L, n. 10440, Rv. 623011) che nel lavoro subordinato il patto di prova tutela l'interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, dovendosi ritenere l'illegittimità del fatto ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le specifiche mansioni in virtù di prestazione resa dallo stesso lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore del medesimo datore di lavoro. Ne consegue che la ripetizione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro tra le stesse parti è ammissibile solo se essa, in base all'apprezzamento del giudice di merito, risponda alla suddetta causa, permettendo all'imprenditore di verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione, elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l'intervento di molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso del datore di lavoro avverso la declaratoria di nullità del secondo patto di prova, apposto al contratto a tempo indeterminato stipulato appena quindici giorni dopo la scadenza del rapporto a termine, durato tra le stesse parti per quasi sette mesi, non avendo l'imprenditore dimostrato l'esistenza di uno specifico motivo di rivalutazione delle caratteristiche del lavoratore).

Con riferimento al diverso caso della trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si è ritenuta (Sez. L, n. 4475, Rv. 621408) valida la previsione, introdotta in sede di contratto collettivo, di un salario di ingresso (cosiddetto prolungato) in deroga all'art. 3 del d.l. n. 726 del 1984, convertito dalla legge n. 863 del 1984, in quanto il minore trattamento retributivo si giustifica per la oggettiva delimitazione di carattere temporale e per la finalità di incentivare la stabilizzazione del rapporto (principio affermato con specifico riguardo al salario di ingresso prolungato di cui all'accordo di rinnovo del c.c.n.l. degli autoferrotranvieri per il periodo 2000/2003).

3. Inquadramento e mansioni.

Particolarmente significativo è ricordare in materia (con Sez. L, n. 12696, Rv. 623285) che, essendo la corrispondenza delle mansioni alla qualifica oggetto di un diritto del lavoratore protetto dall'art. 2103 cod. civ., il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore ai sensi degli art. 2086 e 2104 cod. civ., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost., e potendo egli invocare l'art. 1460 cod. civ. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo.

Con riferimento alla progressione di carriera, si è statuito (Sez. L, n. 5477, Rv. 621795) che il diritto soggettivo del lavoratore ad essere promosso ad una categoria, grado o classe, superiore presuppone una disciplina collettiva che garantisca l'avanzamento come effetto immediato di determinate condizioni di fatto, delle quali sia accertata l'esistenza prescindendo da ogni indagine valutativa del datore di lavoro; pertanto, nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva in tema di promozioni rimetta il giudizio di merito, sulle attitudini e le capacità professionali, esclusivamente al datore di lavoro, il giudice, nel rispetto della libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost., non può sostituirsi al datore medesimo, potendo sindacarne l'operato solo se la mancata promozione sia espressione di una deliberata violazione delle regole di buona fede e correttezza che presiedono allo svolgimento del rapporto di lavoro. (In applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva respinto la domanda di superiore inquadramento avanzata da un dirigente in un contesto contrattuale nel quale i dirigenti erano inquadrati tutti al medesimo livello, con pari retribuzione di base e differenziazioni costituite da superminimi ad personam).

Altra pronuncia ha riguardato il risarcimento del danno dovuto dal datore nel caso di illegittimo diniego di progressione (Sez. L, n. 3415, Rv. 622145): in caso d'illegittima esclusione di dipendente, da parte del datore di lavoro, nella selezione per il conferimento di qualifiche superiori o altri benefici, il conseguente danno da perdita di chance dev'essere liquidato con valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., tenendo presente, ai fini del giudizio probabilistico e comparativo necessario, ogni elemento di prova ritualmente introdotto nel processo; ne consegue che il giudice dovrà rigettare la domanda risarcitoria quando gli elementi probatori acquisiti permettano di escludere con adeguata sicurezza che il lavoratore potesse avere concrete possibilità di successo, mentre, in mancanza di risultanze sul possibile esito della selezione ove correttamente eseguita, potrà ricorrere al criterio residuale del rapporto tra il numero dei soggetti da selezionare e quello dei lavoratori che avrebbero dovuto formare oggetto di selezione, se del caso traendo argomenti di convincimento, circa il grado di probabilità favorevole, anche dal comportamento processuale delle parti, e in particolare dalle carenze di allegazione e prova dei fatti rilevanti e rientranti nell'ambito delle rispettive conoscenze e possibilità di attestazione.

Più consolidati sono i principî in materia di demansionamento reiterati nell'anno dalla Corte. Interessante pronuncia, in tema di inattività forzata del lavoratore, si è avuta con Sez. L, n. 7963, in corso di massimazione. La decisione ha affermato che il lavoratore (cui l'art. 13 della legge n. 300 del 1970 riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione) ha altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo, restandogli consentita la possibilità di trasferirlo solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. La violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari. In particolare, il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa.

Con riferimento al risarcimento del danno da demansionamento, la medesima pronuncia ha affermato che in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, la regola, secondo cui il risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, impone di tenere conto dell'insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l'autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all'integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell'ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno. In precedenza, si era ritenuto (Sez. L, n. 3057, in corso di massimazione) che va distinto il danno biologico dal danno non patrimoniale e che, in caso di demansionamento e dequalificazione, va riconosciuto il diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, anche se questo non può prescindere da una specifica allegazione, da parte del lavoratore, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; la sentenza ha quindi precisato che, mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertarle, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

4. Congedi parentali e permessi retribuiti.

In terna di congedo parentale frazionato, l'art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001 stabilisce che la fruizione del beneficio – che risponde ad un diritto potestativo del lavoratore o della lavoratrice – si interrompe allorché l'interessato rientri al lavoro, e ricomincia a decorrere dal momento in cui il medesimo riprende il periodo di astensione. Con la sentenza Sez. L, n. 6856, Rv. 622573, la Corte si è occupata della fruizione frazionata dei congedi parentali, ossia della fruizione degli stessi accompagnati da rientri al lavoro per brevi periodi. Il caso riguardava, in particolare, il rientro in servizio il venerdì e la successiva fruizione di congedo da lunedì al giovedì seguenti, ed il problema giuridico dibattuto alle parti era quello del computo del sabato e della domenica, che la lavoratrice pretendeva di non computare. Il datore di lavoro eccepiva la discriminatorietà del mancato computo dei sabati e domeniche nel caso di rientro al venerdì, rispetto al caso di rientro in altro giorno della settimana, ad esempio il giovedì, nel quale il weekend si computa pacificamente nel periodo di congedo. La Corte ha sottolineato intanto che la fruizione frazionata del congedo risponde ad una scelta potestativa della lavoratrice. In secondo luogo, la Corte ha risolto il problema sottopostole, occupandosi del solo caso in questione, ritenendo irrilevante che nel caso ipotetico di rientro al giovedì la lavoratrice avrebbe un trattamento deteriore, e ciò per la ragione che la lavoratrice sceglie liberamente il giorno di rientro, valutando autonomamente i propri interessi (benefici e vantaggi, quindi). L'importante sentenza afferma quindi che, in tema di congedo parentale, ove la relativa fruizione sia frazionata per scelta potestativa della lavoratrice, nel periodo di congedo parentale si computano il sabato, la domenica ed i giorni di festività infrasettimanali ove ricadano all'interno del periodo stesso, mentre non si computano ove la lavoratrice rientri al lavoro nel giorno immediatamente precedente, riprendendo a decorrere la fruizione del congedo dal successivo giorno lavorativo di ripresa del periodo di astensione; ne consegue che, ove la lavoratrice rientri al lavoro nel giorno di venerdì e la contrattazione collettiva preveda il sabato come giorno non lavorativo, il sabato e la domenica sono esclusi dal periodo di congedo parentale in quanto non ricompresi in una frazione di congedo parentale unitariamente fruita, restando irrilevante la disparità di trattamento con la lavoratrice che, scegliendo liberamente di rientrare in servizio in altro giorno lavorativo della settimana, fruisca di un minor numero di giorni di congedo parentale. Dunque, ai fini della determinazione del periodo di congedo parentale, si tiene conto dei giorni festivi solo nel caso in cui gli stessi rientrino interamente e senza soluzione di continuità nel periodo di fruizione e non anche nel caso in cui l'interessato rientri al lavoro nel giorno precedente a quello festivo e riprenda a godere del periodo di astensione da quello immediatamente successivo, senza che rilevi che, per effetto della libera decisione del lavoratore o della lavoratrice, possa esservi un trattamento differente (e peggiorativo), con fruizione effettiva di un minor numero di giorni di congedo parentale, per effetto della decisione di rientrare al lavoro in un giorno non seguito da una festività, dovendosi ritenere tale soluzione conforme ai principî di cui agli art. 30 e 31 Cost., che, nel dettare norme a tutela della famiglia e nel fissare il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare la prole, impongono una applicazione non restrittiva dell'istituto.

Con la sentenza Sez. L, n. 16460, in corso di massimazione, la Corte si è poi occupata dei permessi retribuiti di cui all'art. 33 legge n. 104 del 1992 (recante Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), affermando che tali permessi spettano anche quando i genitori non siano entrambi lavoratori, rimanendo altrimenti lo scopo perseguito dalla legge frustrato qualora il genitore non lavoratore debba da solo provvedere all'incombenza di assistere convenientemente il figlio minore gravemente handicappato. Secondo la decisione, tali agevolazioni sono dirette essenzialmente ad evitare che il bambino handicappato resti privo di assistenza, di modo che possa risultare compromessa la sua tutela psico-fisica e la sua integrazione nella famiglia e nella collettività, così confermandosi che, in generale, il destinatario della tutela realizzata mediante le agevolazioni previste dalla legge non è il nucleo familiare in sé, ovvero il lavoratore onerato dell'assistenza, bensì la persona portatrice di handicap (cfr. Corte cost. n. 19 del 2009). Una configurazione siffatta, osserva la Corte in motivazione, è in linea con la definizione contenuta nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, approvata il 13 dicembre 2006, là dove la finalità comune dei diversi ordinamenti viene identificata nella piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri, nonché con la nuova classificazione adottata nel 1999 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha definito la disabilità come difficoltà all'espletamento delle attività personali e alla partecipazione sociale. Inquadrata la disposizione di riferimento in tale contesto normativo, una interpretazione rispettosa dei principî costituzionali, porta necessariamente ad optare per il riconoscimento del diritto del lavoratore ad usufruire del beneficio richiesto: una adeguata tutela del figlio handicappato esige che alla assistenza continua da parte del genitore non lavoratore si aggiunga l'assistenza del genitore lavoratore per i tre giorni di permessi mensili previsti dalla legge, non solo perché l'handicappato ha bisogno dell'affetto anche da parte del padre lavoratore, ma anche perché sussiste tipicamente una ovvia esigenza di avvicendamento e affiancamento, almeno per quei tre giorni mensili, del genitore non lavoratore.

5. Sicurezza sul lavoro.

La prima e più immediata tutela del lavoratore avverso situazioni lavorative insalubri e insicure è l'eccezione di inadempimento opponibile al datore alle condizioni dell'art. 1460 cod. civ. Sul punto, Sez. L, n. 14375, Rv. 624033, ha affermato che, nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell'art. 2087 cod. civ., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute dei prestatori di lavoro, il lavoratore ha – in linea di principio – la facoltà di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute, essendo coinvolto un diritto fondamentale protetto dall'art. 32 Cost.

La responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. non è una responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore (in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. – Sez. L, n. 14192, Rv. 623496 – ha respinto il ricorso contro la decisione di merito che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro, previo accertamento, tramite consulenza tecnica d'ufficio, dell'idoneità a fini preventivi delle strisce antiscivolo poste sui gradini della scala, dalla quale il lavoratore era caduto).

Quanto al tipo di danni risarcibili dal datore chiamato a rispondere del danno differenziale, si è affermato (Sez. L, n. 20620, in corso di massimazione) che, in tema di risarcimento dei danni da infortuni sul lavoro e malattie professionali, ove siano accertati un danno all'integrità fisica del lavoratore, sia l'addebilità di tale danno all'insufficiente predisposizione di strumenti di sicurezza in violazione di un obbligo di legge (e, quindi, l'attribuibilità al datore di lavoro di tale condotta omissiva), l'ampia locuzione usata dall'art. 2087 cod. civ. assicura il diretto accesso del lavoratore alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, ivi incluso il danno morale, cosicché non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall'art. 2059 cod. civ., verificare se l'interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del codice civile.

Ai fini dell'indennizzabilità dell'infortunio, ai sensi dell'art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, è sufficiente che esso sia avvenuto in una "occasione" di lavoro, non occorrendo la derivazione da una "causa" di lavoro, sicché rilevano tutte le condizioni, anche ambientali e socioeconomiche, in cui l'attività lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio per il lavoratore, indipendentemente dal fatto che il rischio provenga dall'apparato produttivo, da terzi o da fatti propri del lavoratore, col solo limite, in quest'ultimo caso, del rischio elettivo, derivante da una scelta volontaria del lavoratore stesso, diretta a soddisfare esigenze personali (nella specie, la S.C. – Sez. L, n. 12779, Rv. 623308 – ha cassato la decisione di merito che aveva escluso la sussistenza di un'occasione di lavoro nel caso del ferimento di un insegnante, aggredito da un ex studente, mentre si trovava nel cortile della scuola, intento alla sorveglianza degli allievi).

L'ampia tutela del lavoratore in relazione agli infortuni è operante anche con riguardo agli infortuni in itinere, essendosi precisato (Sez. L, n. 11545, Rv. 623150) che, in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, pur nel regime precedente l'entrata in vigore del d.lgs. n. 38 del 2000, è indennizzabile l'infortunio occorso al lavoratore in itinere, ove sia derivato da eventi dannosi, anche imprevedibili ed atipici, indipendenti dalla condotta volontaria dell'assicurato, atteso che il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro è protetto in quanto ricollegabile, pur in modo indiretto, allo svolgimento dell'attività lavorativa, con il solo limite del rischio elettivo (fattispecie in tema di lesioni subite a causa di scippo subito dal lavoratore in itinere).

6. Potere di controllo e disciplinare.

Due sentenze si sono occupate in modo particolare degli impianti e delle apparecchiature di controllo del lavoratore, disciplinate, come noto, dall'art. 4 St. lav. (espressamente richiamato dall'art. 114 del d. lgs. n. 196 del 2003, e non modificato dall'art. 4 della legge n. 547 del 1993, che ha introdotto il reato di cui all'art. 615 ter cod. pen.).

In tema di controllo del lavoratore, Sez. L, n. 2722 (Rv. 621115), ha affermato che le garanzie procedurali imposte dall'art. 4, secondo comma, della legge n. 300 del 1970, per l'installazione di impianti e apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, dai quali derivi la possibilità di verifica a distanza dell'attività dei lavoratori, trovano applicazione ai controlli, c.d. difensivi, diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando, però, tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso. Ne consegue che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale (in applicazione del suddetto principio, è stato ritenuto legittimo il controllo effettuato da un istituto bancario sulla posta elettronica aziendale del dipendente accusato di aver divulgato notizie riservate concernenti un cliente, e di aver posto in essere, grazie a tali informazioni, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggi propri). Sez. L, n. 16622 (Rv. 613412) ha ribadito che le garanzie procedurali imposte dall'art. 4, secondo comma, St. lav., per l'installazione di impianti ed apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, trovano applicazione anche ai controlli c.d. difensivi, ovverosia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso, dovendo escludersi che l'insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore (la S.C. ha ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata, la quale aveva negato l'utilizzabilità a fini disciplinari dei dati acquisiti mediante programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi Internet dei dipendenti, sul presupposto che gli stessi consentono al datore di lavoro di controllare a distanza ed in via continuativa l'attività lavorativa durante la prestazione, e di accertare se la stessa sia svolta in termini di diligenza e corretto adempimento). In motivazione, la sentenza ha precisato che il divieto ex art. 4 implica che i controlli difensivi posti in essere (nella specie, con un sistema informatico che registrava le telefonate degli operatori di un call center), ricadono nell'ambito dell'art. 4, comma secondo, della legge n. 300 del 1970, e, fermo il rispetto delle garanzie procedurali previste, non possono impingere la sfera della prestazione lavorativa dei singoli lavoratori; qualora interferenze con quest'ultima vi siano, e non siano stati adottati dal datore di lavoro sistemi di filtraggio delle telefonate per non consentire, in ragione della previsione dell'art. 4, comma primo, di risalire all'identità del lavoratore, i relativi dati non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale del lavoratore medesimo.

In materia disciplinare, si segnala altra pronuncia (Sez. L, n. 7471, Rv. 622794) che ha esaminato la posizione del lavoratore che sia anche rappresentante sindacale, precisando gli obblighi di correttezza disciplinarmente rilevanti, in relazione alle dichiarazioni delle stesso lesive dell'onore del datore di lavoro. Secondo la decisione, il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all'attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest'ultimo. Tuttavia, l'esercizio, da parte del rappresentante sindacale, del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro (nella specie, sulla funzionalità del servizio espletato dall'impresa), sebbene garantito dagli art. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente assicurata (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana. Ne consegue che, ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare.

7. Retribuzione e contratto collettivo.

Il lavoratore ha diritto, ai sensi dell'art. 36 Cost., a ricevere la giusta retribuzione. A tal fine, è consolidato il principio secondo il quale (Sez. L, n. 1415, Rv. 620719), in tema di determinazione della giusta retribuzione, i contratti collettivi di lavoro costituiscono solo possibili parametri orientativi, e, poiché non esiste nell'ordinamento un criterio legale di scelta in ipotesi di plurime fonti collettive, il giudice di merito può fare riferimento al contratto collettivo aziendale anziché a quello nazionale, in quanto rispondente al principio di prossimità all'interesse oggetto di tutela, pur se peggiorativo rispetto al secondo, e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro, diversamente introducendosi, in modo surrettizio, un principio d'inderogabilità del contratto collettivo nazionale in forza di quello aziendale, sussistente invece solo rispetto al contratto individuale, e a maggior ragione da escludere quando non è possibile riferirsi direttamente alla fonte collettiva nazionale per mancanza di bilateralità d'iscrizione e di spontanea ricezione ad opera delle parti del rapporto individuale.

Peraltro, come indicato da Sez. L, n. 6044 (Rv. 621877), i contratti collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell'azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l'unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l'esplicito dissenso dall'accordo e potrebbero addirittura essere vincolati da un accordo sindacale separato (nella specie, la S.C., affermando il principio, ha ritenuto applicabile l'accordo aziendale ad un lavoratore che, senza essere iscritto all'organizzazione stipulante, non risultava tuttavia affiliato ad un sindacato dissenziente e aveva anzi invocato l'accordo medesimo a fondamento delle sue istanze).

Con riferimento all'indennità sostitutiva delle ferie non godute, si è affermato (Sez. L, n. 11462, Rv. 623178) in relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall'art. 36 Cost. e dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE (v. la sentenza 20 gennaio 2009 nei procedimenti riuniti C-350/06 e C-520/06 della Corte di giustizia dell'Unione europea) che, ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l'indennità sostitutiva che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l'istituto delle ferie è destinato e, per altro verso, costituisce erogazione di indubbia natura retributiva, perché non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell'attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse. Ne consegue l'illegittimità, per contrasto con norme imperative, delle disposizioni dei contratti collettivi che escludano il diritto del lavoratore all'equivalente economico di periodi di ferie non goduti al momento della risoluzione del rapporto, salva l'ipotesi del lavoratore che abbia disattesa la specifica offerta della fruizione del periodo di ferie da parte del datore di lavoro (nella specie, relativa ad impossibilità del lavoratore di fruire delle ferie in ragione del suo stato di malattia cui è seguita la risoluzione del rapporto, la S.C. , nell'affermare il principî su esteso, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso il diritto del lavoratore sulla base dell'art. 19, commi 8 e 15, del c.c.n.l. scuola per il quadriennio normativo 1994-1997, che subordina il diritto all'indennità sostitutiva alla mancata fruizione per esigenze di servizio).

Altro intervento interessante ha riguardato la garanzia della retribuzione prevista dall'azione verso il committente ex art. 1676 cod. civ. Secondo la sentenza Sez. L, n. 10439, Rv. 622923, la disposizione dell'art. 1676 cod. civ. – in base alla quale i dipendenti dell'appaltatore hanno azione diretta verso il committente, fino a concorrenza del debito del committente verso l'appaltatore, per conseguire quanto loro dovuto per l'attività prestata nell'esecuzione dell'appalto – si applica anche al subappalto di lavori pubblici, ai sensi dell'art. 141 del d.P.R. n. 554 del 1999, sia perché il subappalto è un vero e proprio contratto di appalto, seppure caratterizzato da derivazione da altro contratto di appalto, sia perché, nell'appalto e nel subappalto, ricorre la stessa esigenza di tutela dei lavoratori, onde preservarli dal rischio di inadempimento del datore di lavoro.

Quanto alla prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore, si è rilevato (Sez. L, n. 7640, Rv. 622517) che l'onere di provare la sussistenza del requisito occupazionale della stabilità reale, ai fini della decorrenza del termine in costanza di rapporto di lavoro grava sul datore di lavoro, che tale decorrenza eccepisca, dovendosi ritenere, alla luce della tutela ex art. 36 Cost., che la sospensione in costanza di rapporto costituisca la regola e l'immediata decorrenza l'eccezione. Né, in senso contrario, rileva il diverso principio, operante nelle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa del licenziamento, secondo il quale, a fronte della richiesta di tutela reale del lavoratore, spetta al datore di lavoro la prova dell'assenza della suddetta condizione, che rileva quale fatto impeditivo del diritto del lavoratore alla reintegrazione.

Ove si tratti poi di prescrizione presuntiva del credito retributivo da lavoro, non costituisce motivo di rigetto dell'eccezione di prescrizione, ai sensi dell'art. 2959 cod. civ., l'ammissione del debitore che l'obbligazione non è stata estinta, qualora la stessa sia resa fuori del giudizio, assumendo valore, in questo caso, solo ad interrompere il corso della prescrizione ai sensi dell'art. 2944 cod. civ. (Sez. L, n. 9509, Rv. 622698). Ai fini dell'interruzione della prescrizione, l'intimazione scritta ad adempiere può essere validamente effettuata non solo da un legale che si dichiari incaricato dalla parte, ma anche da un mandatario o da un incaricato, alla sola condizione che il beneficiario ne intenda approfittare, e senza che occorra il rilascio in forma scritta di una procura per la costituzione in mora, potendo questa risultare anche solo da un comportamento univoco e concludente idoneo a rappresentare che l'atto è compiuto per un altro soggetto, nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetti (nella specie, la S.C. ha ritenuto che l'intimazione a corrispondere le differenze retributive dovute ad un lavoratore, fatta da un rappresentante sindacale che dichiari di agire nell'interesse del lavoratore, è idonea ad interrompere la prescrizione) (Sez. L, n. 7097, Rv. 622705).

In ordine al trattamento di fine rapporto, si è precisato (Sez. L, n. 11778, Rv. 623278) che il lavoratore ancora in servizio, qualora vi abbia interesse concreto ed attuale, può proporre azione di mero accertamento avente ad oggetto le quote annuali del trattamento di fine rapporto, ancorché le quote stesse non siano ancora esigibili e, come tali, non possano formare oggetto di un'azione di condanna.

Quanto al calcolo del t.f.r. ed all'onnicomprensività della retribuzione, si è ribadito (Sez. L, n. 5591, Rv. 621940) che, in tema di retribuzione nel lavoro subordinato, ai fini della determinazione della base di calcolo degli istituti indiretti (mensilità aggiuntive, ferie, malattia e infortunio), non vige nell'ordinamento un principio di onnicomprensività, sicché il compenso per lavoro straordinario va computato, a tali fini, solo ove previsto da norme specifiche o dalla disciplina collettiva. Ne consegue che, con riferimento al personale dipendente delle aziende grafiche e affini e delle aziende editoriali (nella specie, l'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), per il calcolo della tredicesima e della quattordicesima mensilità non sono inclusi i compensi per lavoro straordinario, in quanto l'art. 19 del c.c.n.l. di settore del 1986 e l'art. 21 del c.c.n.l. di settore del 1989 (applicabili ratione temporis) non prevedono l'inserimento di tale compenso variabile nella base di calcolo degli istituti indiretti, né può ritenersi consentita, da parte dell'interprete, l'introduzione di un criterio "di riempimento" della clausola contrattuale. In senso diverso quanto alla configurabilità di un principio di onnicomprensività, ma con analoga soluzione del caso concreto per effetto dell'applicazione delle previsioni collettive, si è affermato (Sez. L, n. 4708, Rv. 621606) che la contrattazione collettiva può derogare al principio della omnicomprensività della retribuzione agli effetti della determinazione del trattamento di fine rapporto, limitando la base di calcolo, anche con modalità indirette, purché con volontà chiara, ed è libera di stabilire il parametro retributivo per le mensilità aggiuntive, in ordine alle quali neppure sussiste un criterio legale tendenzialmente omnicomprensivo; pertanto, con riferimento al personale dipendente delle aziende grafiche ed editoriali (nella specie, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), riferendosi l'art. 21 del c.c.n.l. del 1° novembre 1992 alla retribuzione per "orario normale", il trattamento di fine rapporto e la tredicesima mensilità vanno determinati, per il periodo successivo alla decorrenza del medesimo c.c.n.l., con esclusione dei compensi per lavoro straordinario.

Secondo altra pronuncia (Sez. L, n. 7987, Rv. 623009) le maggiorazioni retributive e le indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, costituiscono parte integrante dell'ordinaria retribuzione globale di fatto giornaliera e, come tali, concorrono – ai sensi della nozione omnicomprensiva di retribuzione, recepita dagli art. 2120 e 2121 cod. civ., ed in assenza di deroghe introdotte successivamente all'entrata in vigore della legge n. 297 del 1982 – alla composizione della base di computo dell'indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto.

Infine, in tema di cosiddetto prepensionamento, si è affermato (Sez. L, n. 4425, Rv. 621409) gli incentivi all'esodo vanno determinati in conformità agli scopi perseguiti dalla singola disciplina. Ne consegue che, nel caso dell'assegno straordinario di sostegno al reddito di cui all'art. 5, comma 1, lett. b), del d.m. n. 158 del 2000, mirandosi ad incentivare l'esodo con l'erogazione di un reddito pari al trattamento pensionistico netto, virtualmente determinato col computo dell'anzianità contributiva mancante, l'importo delle "ritenute di legge", che il successivo art. 10, comma 9, impone di sommare all'importo netto del trattamento pensionistico, quale componente dell'assegno straordinario, va calcolato con lo stesso criterio applicabile all'intero assegno, e cioè con l'aliquota agevolata ex art. 17, comma 4bis, del Testo unico delle imposte sui redditi, anziché con l'aliquota ordinaria di cui all'art. 17, comma 2. (Principio affermato in fattispecie relativa ai dipendenti del Banco di Napoli).

8. Organizzazione sindacale.

La sentenza Sez. L, n. 3545, Rv. 621280, in tema di rappresentanze sindacali unitarie, ha precisato che l'accordo collettivo interconfederale del 22 luglio 1993 ne disciplina l'elezione a suffragio universale, per cui i lavoratori, una volta eletti, non sono più legati al sindacato nelle cui liste si sono presentati alle elezioni stesse, ma fondano la loro carica sul voto, universale e segreto, dell'intera collettività dei dipendenti aziendali. In coerenza, non è prevista la decadenza dall'incarico per effetto delle dimissioni dell'eletto dal sindacato nelle cui liste si sia presentato, che non determinano né la perdita dei diritti sindacali connessi alla qualifica di rappresentante sindacale aziendale ed eventualmente di rappresentante della sicurezza, né la perdita dei diritti a usufruire dei permessi sindacali – anche in relazione alla diversa associazione sindacale a cui il lavoratore abbia successivamente aderito – secondo quanto previsto dagli art. 23 e 24 dello Statuto dei lavoratori.

9. Cessazione del rapporto per dimissioni.

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato può essere risolto dal lavoratore con una dichiarazione di volontà unilaterale e recettizia (dimissioni), per la quale vige il principio della libertà di forma, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto nel contratto, collettivo o individuale, una forma convenzionale, quale la forma scritta; in tal caso, quest'ultima si presume voluta per la validità dell'atto di dimissioni, a norma dell'art. 1352 cod. civ., applicabile anche agli atti unilaterali, con la conseguenza che le dimissioni rassegnate oralmente, anziché per iscritto come richiesto dalla contrattazione collettiva applicabile (nella specie, art. 130 del c.c.n.l. 8 luglio 1982 per i dipendenti del settore turismo), sono invalide per difetto della forma ad substantiam (Sez. L, n. 14343, Rv. 623525). Secondo la sentenza Sez. L, n. 6342, Rv. 622142, la dichiarazione di recesso del lavoratore, una volta comunicata al datore di lavoro, è idonea ex se a produrre l'effetto dell'estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi delle dimissioni (purché non inficiate da minaccia di licenziamento e perciò viziate come atto di volontà) ed anche in assenza di una giusta causa, atteso che l'effetto risolutorio si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento, all'atto negoziale del lavoratore, preclusivo di un'azione intesa alla conservazione del rapporto; ne consegue che il lavoratore a termine, receduto anticipatamente senza giusta causa, non ha diritto alla riammissione in servizio, né al pagamento delle retribuzioni fino alla scadenza naturale del rapporto, neppure qualora abbia costituito in mora il datore di lavoro.

Sempre con riferimento alla cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni, si è precisato (Sez. L, n. 11676, Rv. 623144), in tema di dimissioni del lavoratore padre, che l'estensione delle tutele previste per il caso di licenziamento in periodo di fruizione del congedo e fino al compimento di un anno di età del bambino anche al padre lavoratore, per il caso di dimissione volontarie presentate durante il periodo di divieto di licenziamento, è condizionata alla fruizione del congedo di paternità, in quanto altrimenti il datore di lavoro, che normalmente non conosce la situazione familiare del dipendente se non a seguito della fruizione del congedo, non potrebbe, in contrasto con il principio della certezza dei rapporti giuridici, accettare le dimissioni del lavoratore senza cautelativamente disporne la convalida dinanzi al Servizio ispettivo del Ministero del Lavoro.

10. Licenziamento individuale.

Con riferimento alla cessazione del rapporto per recesso datoriale, relativamente al licenziamento individuale, resta confermata la giurisprudenza relativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed al licenziamento per giusta causa, che riposa su principî ormai consolidati.

Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. – il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'effettività delle ragioni che giustificano l'operazione di riassetto (nella specie, il recesso era stato motivato sul presupposto della soppressione del posto cui era addetta la lavoratrice, le cui mansioni erano però state assegnate ad altra dipendente, assunta con contratto a termine per più volte, ed avente diverso inquadramento; la S.C., nell'escludere l'effettività delle ragioni indicate dal datore in ragione dell'identità delle mansioni delle lavoratrici, ha ritenuto l'illegittimità del recesso) (Sez. L, n. 7474, Rv. 622620). Si è aggiunto altresì (Sez. L, n. 11402, Rv. 623171) che, ai fini della configurabilità della soppressione del posto di lavoro integrante giustificato motivo oggettivo di licenziamento non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere quelle prevalentemente esercitate in precedenza e quindi tali da connotare la posizione lavorativa del prestatore di lavoro; tuttavia, ove le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nell'ambito del complesso dell'attività lavorativa svolta, una loro oggettiva autonomia, e non risultino quindi intimamente connesse con quelle prevalenti soppresse, può ravvisarsi la possibilità di un utilizzo parziale del lavoratore nella medesima posizione lavorativa, se del caso ridotta con l'adozione del part-time.

Con riferimento al recesso datoriale per giusta causa, questa (secondo Sez. L, n. 6498, Rv. 622158) deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento «che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto», la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principî tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. Nella specie, la Corte territoriale, nel dichiarare illegittimo per difetto di proporzionalità il licenziamento di un impiegato di banca trovato in possesso di sostanze stupefacenti, aveva evidenziato trattarsi di droghe "leggere", detenute per uso personale, e non a fini di spaccio, in circostanze di tempo e luogo compatibili con l'ipotesi del consumo non abituale; la S.C., ritenendo tale motivazione inadeguata rispetto alla clausola generale di cui all'art. 2119 cod. civ., ha cassato la sentenza.

Nella giurisprudenza di legittimità, mentre è pacifico che l'impugnativa stragiudiziale ex art. 6 legge n. 604 del 1966 può efficacemente essere eseguita in nome e per conto del lavoratore licenziato dal suo difensore previamente munito di apposita procura – applicandosi all'impugnativa del licenziamento, ai sensi della norma menzionata, in quanto esso costituisce un atto giuridico (non negoziale) unilaterale tra vivi a carattere patrimoniale, le norme sui contratti in quanto compatibili –, è controverso se il suddetto rappresentante abbia l'onere di comunicarla o documentarla, nel termine dell'impugnativa, al datore di lavoro, essendosi ritenuto da una pronuncia (Sez. L, n. 7866, Rv. 623057) l'assenza di un onere siffatto, salvo che il datore di lavoro non faccia richiesta dell'atto ai sensi dell'art. 1393 cod. civ., applicabile ex art. 1324 cod. civ. anche agli atti unilaterali (la stessa pronuncia ha affermato che, a sua volta, l'anteriorità della procura rispetto all'impugnativa manifestata dal rappresentante può dimostrarsi in giudizio con ogni mezzo), ed essendosi invece affermato da altra decisione (Sez. L, n. 15888, Rv. 623967) che, mentre deve escludersi la retroattività della ratifica dell'impugnativa fatta dal rappresentante senza poteri, anche la preventiva specifica procura o la successiva ratifica, cui è equiparata la proposizione del ricorso giudiziario con cui è impugnato il recesso datoriale, devono essere portate a conoscenza del datore di lavoro entro il termine di decadenza applicabile all'impugnativa del licenziamento.

In tema di effettività della reintegra del lavoratore, si è considerato che l'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l'esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell'azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice pati) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale, consistente, fra l'altro, nell'impartire al dipendente le opportune direttive, nell'ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione. Ciò posto, si è rilevato che l'incoercibilità non comporta la non applicabilità della sanzione specifica prevista dall'art. 18, comma 10, in quanto quest'ultima disposizione non è collegata alla coercibilità dell'ordine di reintegrazione, ma semplicemente alla "inottemperanza" dell'ordine di reintegrazione. Si è quindi affermato che l'ordine previsto dalla norma di legge ha ad oggetto la «reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro» e che "reintegrare" significa "restituire in integro" la relazione del lavoratore col "posto di lavoro", in ogni suo profilo, anche non retributivo, poiché il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche una forma di accrescimento della professionalità e di affermazione dell'identità, personale e sociale, tutelata dagli art. 1, 2 e 4 Cost. Questa integralità della posizione da ripristinare insita nel concetto di reintegrazione è poi ulteriormente rafforzata dall'utilizzo della espressione "nel posto di lavoro", che esclude ogni dubbio sul fatto che la ricostruzione debba riguardare l'integralità della posizione del lavoratore e non solo i profili retributivi ed eventualmente sindacali. Ne consegue che non ottempera all'ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente sindacale illegittimamente licenziato, e deve pagare la sanzione al Fondo adeguamento pensioni ex art. 18, decimo comma, St. lav., l'imprenditore il quale, facendo leva sull'incoercibilità specifica dell'ordine medesimo, si limiti a versare al lavoratore la retribuzione e a consentirgli l'ingresso in azienda per lo svolgimento dell'attività (Sez. L, n. 9965, Rv. 622978).

11. C.i.g. e licenziamenti collettivi.

Va preliminarmente ricordato che in caso di esuberi di personale la legge prevede una serie di oneri del datore anche in relazione ai benefici sociali previsti a sostegno dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro ha l'obbligo di attivare correttamente il procedimento di ammissione alla cassa integrazione guadagni una volta appurata la sussistenza delle condizioni legittimanti ed è tenuto, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 164 del 1975, a corrispondere ai lavoratori l'equivalente dell'integrazione salariale non percepita, ove non provi che l'inadempimento dell'obbligo di corretta attivazione (nella specie, per erronea formulazione della domanda amministrativa) non gli è imputabile ex art. 1218 cod. civ. (Sez. L, n. 11776, Rv. 623277). In tema di procedimento per la concessione della c.i.g.s., la comunicazione di apertura della procedura di trattamento di integrazione salariale, assolutamente generica in ordine ai criteri in base ai quali pervenire all'individuazione dei dipendenti interessati alla sospensione ed in ordine all'adozione di meccanismi di rotazione o di criteri specifici alternativi, tale da rendere impossibile qualunque valutazione coerente tra il criterio indicato e la selezione dei lavoratori da sospendere, viola l'obbligo di comunicazione previsto dall'art. 1, comma 7, della legge 23 luglio 1991, n. 223, e tale violazione non può ritenersi sanata dall'effettività del confronto con le organizzazioni sindacali, trovandosi queste ultime a dover interloquire sul tema senza essere a conoscenza del contenuto specifico dei dati da trattare (nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza impugnata enunciando l'anzidetto principio, ha ritenuto l'illegittimità dei criteri di scelta e di rotazione dei lavoratori operate secondo le «esigenze tecniche, organizzative e produttive», non essendo consentito che l'individuazione dei singoli destinatari dei provvedimenti datoriali venga lasciata all'iniziativa ed al mero potere discrezionale dell'imprenditore, in quanto ciò pregiudicherebbe l'interesse dei lavoratori ad una gestione trasparente ed affidabile della mobilità e della riduzione del personale: Sez. L, n. 7459, Rv. 622618).

Il potere di recesso datoriale è, come noto, procedimentalizzato. Sotto tal profilo, in tema di collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991 rappresenta una cadenza essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore è legittimato a far valere l'incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur essendo rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull'adeguatezza della comunicazione, non sana ex se il deficit informativo, atteso che il giudice di merito può accertare che il sindacato partecipò alla trattativa, sfociata nell'intesa, senza piena consapevolezza dei dati di fatto (Sez. L, n. 5582, Rv. 621791). La comunicazione in questione deve specificare i "profili professionali del personale eccedente" e non può limitarsi all'indicazione generica delle categorie di personale in esubero (operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti), non essendo tale generica indicazione sufficiente a concretizzare il piano di ristrutturazione aziendale, mentre la successiva conclusione di un accordo sindacale, nell'ambito della procedura di consultazione non sana il menzionato difetto della comunicazione iniziale se anche l'accordo non contiene la specificazione dei profili professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento (Sez. L, n. 10424, Rv. 622971).

Si è infine precisato (Sez. L, n. 13705, Rv. 623531) che, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una singola unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione, al fine di individuare i lavoratori da avviare alla mobilità, può essere limitata – ove sia giustificata dalle ragioni tecnicoproduttive che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale – agli addetti delle singole unità produttive interessate alla ristrutturazione, dovendosi intendere come tali ogni articolazione dell'azienda che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa ove si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliari o strumentali. (Nella specie, la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto giustificata la scelta di limitare il licenziamento ai dipendenti dell'unità che, producendo macchinari non più richiesti dal mercato, veniva chiusa, tanto più che le loro posizioni erano solo apparentemente fungibili rispetto ai dipendenti delle altre unità produttive, tutte distanti a più di duecentocinquanta chilometri).

Da ultimo, sul tema, con riferimento alla liquidazione del danno da licenziamento illegittimo, va ricordato (Sez. L, n. 9023, Rv. 623186) che la misura del risarcimento dovuto ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 – commisurato alle retribuzioni non percepite dal lavoratore per il periodo successivo al licenziamento – non può essere ridotta, in applicazione del principio di cui all'art. 1227, secondo comma, cod. civ., con riguardo alle conseguenze dannose riferibili al tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore, stante l'esistenza di norme che consentono ad entrambe le parti del rapporto di promuovere il giudizio ed interferire nell'attività processuale (nella specie la S.C., in accoglimento del ricorso incidentale, ha rilevato che il lavoratore aveva ritualmente messo in mora la società datrice di lavoro e che il giudice di merito aveva omesso ogni verifica con riguardo al tempo trascorso al fine di ritenere l'esistenza di una colpevole inerzia del lavoratore). Si è pure affermato sul tema (Sez. L, n. 16076, Rv. 624106) che, in tema di risarcimento del danno cui è tenuto il datore di lavoro in conseguenza del licenziamento illegittimo e con riferimento alla limitazione dello stesso ex art. 1227, secondo comma cod. civ., è correttamente motivata la sentenza che riduce il danno risarcibile, in considerazione della mancata iscrizione del lavoratore nelle liste di collocamento e del mancato impegno dello stesso nella ricerca di occupazione, e che esclude il danno per il periodo successivo al decorso di un periodo di tre anni dal licenziamento, ritenendo tale periodo sufficiente – avuto riguardo alle condizioni di mercato ed a quelle soggettive del lavoratore, ed in particolare alla sua giovane età – per reperire una nuova occupazione.

12. Trasferimento di azienda.

In tema di trasferimento di azienda, Sez. L, n. 20422, in corso di massimazione, ha affermato che l'art. 2112 cod. civ. presuppone che il trasferimento dei beni, materiali ed immateriali, destinati all'esercizio dell'impresa – nella loro funzione unitaria e strumentale e non nella loro autonoma individualità – sia effettivo e reale, sicché non vi è un legittimo trasferimento di ramo d'azienda ove vi sia la sua creazione fittizia proprio in vista della cessione (nella specie, la corte territoriale aveva escluso l'effettività del trasferimento evidenziando non soltanto l'inconsistenza dei beni materiali ceduti, sostanzialmente inidonei a consentire lo svolgimento dell'attività produttiva del cessionario, ma anche la mancanza di autonomi rapporti tra fornitori e cessionario, la mancata attribuzione di software e di strumentazione informatica autonoma allo stesso – come dimostrato dalla circostanza che per accedere al sistema del preteso cessionario bisognava prima accedere alla rete intranet del cedente –, nonché infine la circostanza che nemmeno i lavoratori coinvolti dal trasferimento risultavano costituire un gruppo coeso per professionalità, precisi legami organizzativi preesistenti alla cessione e specifico know how tale da individuarli come una struttura unitaria funzionalmente idonea e non come una mera sommatoria di dipendenti; la S.C., nel confermare la sentenza impugnata, ha affermato il principio su esteso).

13. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

In materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, all'esito del processo di contrattualizzazione del rapporto e di devoluzione del relativo contenzioso al giudice ordinario (esaminato nella parte della Rassegna relativa alla giurisdizione), fondamentale, con riferimento alla costituzione del rapporto, è la distinzione tra le qualifiche ed i livelli retributivo-funzionali per i quali non è richiesto titolo di studio superiore a quello della scuola dell'obbligo e gli altri, atteso che nel primo caso l'assunzione è effettuata sulla base di selezioni dalle liste di collocamento e di mobilità, nel secondo caso sulla base di procedura concorsuali.

La giurisprudenza di legittimità nell'anno si è occupata di entrambe le fattispecie.

13.1.

Con riferimento alla prima, si è affermato che, ai sensi dell'art. 16 della legge n. 56 del 1987, e successive modificazioni, l'assunzione da parte di ente pubblico non economico di lavoratori da inquadrare nei livelli retributivo-funzionali per i quali non è richiesto titolo di studio superiore a quello della scuola dell'obbligo è effettuata sulla base di selezioni cui gli iscritti nelle liste di collocamento e di mobilità sono avviati numericamente secondo l'ordine delle graduatorie risultante dalle liste medesime. Ne consegue che coloro che sono utilmente collocati nella graduatoria hanno un diritto soggettivo all'avviamento a selezione atteso che la legge non attribuisce all'amministrazione una potestà discrezionale nell'accertamento dei relativi presupposti , trattandosi di attività meramente tecnicoesecutiva, né autorizza l'ente pubblico a sospendere l'efficacia delle graduatorie (n. 3549, Rv. 621213).

13.2.

Quanto alle procedure concorsuali, le Sezioni unite hanno precisato (ord., Sez. Un., n. 8522, Rv. 622518) che, nel pubblico impiego privatizzato, l'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 si interpreta, alla stregua dei principî enucleati dalla giurisprudenza costituzionale sull'art. 97 Cost., nel senso che le «procedure concorsuali per l'assunzione», riservate alla giurisdizione del giudice amministrativo, sono quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di lavoro, involgente l'esercizio del relativo potere pubblico, dovendo il termine "assunzione" intendersi estensivamente, comprese le procedure riguardanti soggetti già dipendenti di pubbliche amministrazioni ove dirette a realizzare la novazione del rapporto con inquadramento qualitativamente diverso dal precedente e dovendo, di converso, il termine "concorsuale" intendersi restrittivamente con riguardo alle sole procedure caratterizzate dall'emanazione di un bando, dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria di merito (nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di una procedura concorsuale in senso proprio, finalizzata all'assunzione presso un consiglio regionale, seppur riservata a chi già vi avesse lavorato per un certo tempo).

Una volta espletate le procedure concorsuali, matura il diritto del candidato vincitore all'assunzione (diritto che radica la giurisdizione in capo al giudice ordinario). L'approvazione della graduatoria è, ad un tempo, provvedimento terminale del procedimento concorsuale e atto negoziale di individuazione del contraente, da essa discendendo, per il partecipante collocatosi in posizione utile, il diritto all'assunzione e, per l'amministrazione che ha indetto il concorso, l'obbligo correlato, quest'ultimo soggetto al regime di cui all'art. 1218 cod. civ.; sicché, in caso di ritardata assunzione, spetta al vincitore del concorso il risarcimento del danno, salvo che l'ente pubblico dimostri che il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante da causa ad esso non imputabile (ord., Sez. 6-L, n. 9807, Rv. 622927).

Secondo Sez. Un., n. 16728 (Rv. 623427), non si tratta peraltro di un diritto incondizionato, essendosi precisato che il diritto del candidato vincitore all'assunzione ad assumere l'inquadramento previsto dal bando di concorso, espletato dalla P.A. per il reclutamento dei propri dipendenti, è subordinato alla permanenza, al momento dell'adozione del provvedimento di nomina, dell'assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era stato emesso.

Resta fermo invece (come ricordato da Sez. L, n. 1639, Rv. 621085) che il rapporto di lavoro subordinato instaurato da un ente pubblico non economico per i suoi fini istituzionali, affetto da nullità perché non assistito da regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra nella sfera di applicazione dell'art. 2126 cod. civ., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo e alla contribuzione previdenziale per il tempo in cui il rapporto stesso ha avuto materiale esecuzione.

In materia, si segnala, benché si tratti di rapporto formalmente privato, ord., Sez. 6-L, n. 3831 (Rv. 621266), la quale ha affermato, in tema di reclutamento del personale da parte di società a partecipazione pubblica totale o di controllo, che è affetta da nullità assoluta la clausola del contratto aziendale che subordini il reclutamento del personale all'esistenza di vincoli di parentela tra nuovo assunto e dipendenti dell'azienda, dovendosi ritenere che condizionare l'assunzione ad una circostanza estranea alla professionalità del lavoratore integri violazione del principio di imparzialità ex art. 18, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv. in legge n. 133 del 2008 (sulle società pubbliche, v. pure il cap. XIX, § 13.2).

Sempre in materia di procedure concorsuali della P.A. preordinate all'assunzione dei dipendenti, e con riferimento alla posizione degli idonei non vincitori, si è affermato (Sez. L, n. 19595, Rv. 624231) che l'istituto del cosiddetto "scorrimento della graduatoria" presuppone necessariamente una decisione dell'amministrazione di coprire il posto; pertanto l'obbligo di servirsi della graduatoria entro il termine di efficacia della stessa preclude all'amministrazione di bandire una nuova procedura concorsuale ove decida di reclutare personale, ma non la obbliga all'assunzione dei candidati non vincitori in relazione a posti che si rendano vacanti e che l'amministrazione stessa non intenda coprire, restando inoltre escluso che la volontà dell'amministrazione di coprire il posto possa desumersi da un nuovo bando concorsuale poi annullato ovvero da assunzioni di personale a termine.

13.3.

Interessanti le pronunce rese dalla Sezione Lavoro con riferimento al contratto a tempo determinato nel pubblico impiego privatizzato: in tema, si è precisato (Sez. L, n. 392, Rv. 620269) che la disciplina di cui all'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, pur escludendo, in caso di violazione di norme imperative in materia, la conversione in contratto a tempo indeterminato, introduce un proprio e specifico regime sanzionatorio con una accentuata responsabilizzazione del dirigente pubblico e il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore e, pertanto è speciale ed alternativa rispetto alla disciplina di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, ma pur sempre adeguata alla direttiva 1999/70/CE, in quanto idonea a prevenire e sanzionare l'utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte della pubblica amministrazione. Si è quindi fatta applicazione del principio con riferimento ai lavoratori a termine del settore scolastico, affermandosi (Sez. L, n. 10127, Rv. 622748) che la disciplina del reclutamento del personale a termine del settore scolastico, contenuta nel d.lgs. n. 297 del 1994, non è stata abrogata dal d.lgs. n. 368 del 2001, essendone disposta la salvezza dall'art. 70, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001, che le attribuisce un connotato di specialità, ribadito dall'art. 9, comma 18, del d.l. n. 70 del 2011, conv. in legge n. 106 del 2011, tramite la conferma dell'esclusione della conversione in contratto a tempo indeterminato dei contratti a termine stipulati per il conferimento delle supplenze. Lo speciale corpus normativo delle supplenze, integrato nel sistema di accesso ai ruoli ex art. 399 del d.lgs. n. 297 del 1994, modificato dall'art. 1 della legge n. 124 del 1999, consentendo la stipula dei contratti a termine solo per esigenze oggettive dell'attività scolastica, cui non fa riscontro alcun potere discrezionale dell'amministrazione, costituisce "norma equivalente" alle misure di cui alla direttiva 1999/70/CE e, quindi, non si pone in contrasto con la direttiva stessa, come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria. Ne consegue che la reiterazione dei contratti a termine non conferisce al docente il diritto alla conversione in contratto a tempo indeterminato, né il diritto al risarcimento del danno, ove non risulti perpetrato, ai suoi danni, uno specifico abuso del diritto nell'assegnazione degli incarichi di supplenza.

13.4.

In tema di mansioni del dipendente pubblico contrattualizzato, la sentenza Sez. Un., n. 8520 (Rv. 622465), ha affermato che la disciplina collettiva costituisce la fonte esclusiva per valutare se un dipendente sia stato assegnato a mansioni superiori, a tal fine rilevando, per gli effetti di cui all'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, l'emanazione di uno specifico ordine di servizio per un'attribuzione a titolo di supplenza, che esclude la fungibilità dell'attribuzione stessa nell'area funzionale del supplente (la pronuncia ha ritenuto che, nel sistema di classificazione del personale adottato dal c.c.n.l. del comparto Ministeri 1998-2001, la posizione economica C2 si riferisce alla direzione e al coordinamento di unità organiche, mentre la posizione economica C3 alla direzione e al coordinamento di strutture complesse nonché all'assunzione temporanea di funzioni dirigenziali in assenza del titolare; nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito, che aveva riconosciuto il diritto al trattamento economico dell'area C3 del dipendente, in servizio presso un tribunale amministrativo regionale, il quale, classificato in area C2, aveva tuttavia svolto funzioni di direttore di una segreteria composta da più uffici e aveva ricevuto l'incarico, con apposito ordine di servizio, di sostituire il segretario generale in caso di impedimento del titolare).

Quanto allo svolgimento di mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza, sempre nel rapporto di lavoro alle dipendenza delle pubbliche amministrazioni, lo svolgimento di mansioni superiori non ha effetto ai fini della progressione di carriera; ciò non implica tuttavia la sua irrilevanza giuridica. Si è così ritenuto (Sez. L, n. 9646, Rv. 622799) che l'indennità di buonuscita dei dipendenti statali, pur realizzando una funzione previdenziale, ha natura retributiva e, alla luce del principio di proporzionalità sancito dall'art. 36 Cost., deve essere commisurata all'ultima retribuzione anche se percepita per lo svolgimento di mansioni superiori, purché queste ultime siano esercitate, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, con pienezza di poteri e responsabilità. Ne consegue che, ove sia stata conferita la reggenza per un posto di dirigente con attribuzione del relativo trattamento economico e tali mansioni siano state effettivamente esercitate per lungo tempo (tre anni), ai fini del contributo dell'indennità di buonuscita del dipendente, che, nel frattempo, abbia maturato i requisiti per il collocamento a riposo, si deve considerare, quale ultimo trattamento economico percepito, quello corrisposto per l'incarico svolto a titolo di reggenza.

La fattispecie del danno da revoca di incarico dirigenziale è stata esaminata da altre decisione (Sez. L, n. 4479, Rv. 622118), secondo la quale, in caso di revoca illegittima di un incarico dirigenziale da parte del datore di lavoro pubblico, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo, ma la sua dimostrazione in giudizio può essere fornita con tutti i mezzi offerti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, alla luce della complessiva valutazione di precisi elementi in tal senso significativi – quali le ragioni dell'illegittimità del provvedimento di revoca, le caratteristiche, durata, gravità e conoscibilità nell'ambiente di lavoro dell'attuato demansionamento, la frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione, le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale – la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico e valutativo seguito dal giudice di merito.

13.5.

In tema di sicurezza sul lavoro, con riferimento alla responsabilità datoriale nel pubblico impiego privatizzato, si è esaminato il tema dell'individuazione del soggetto qualificabile quale datore di lavoro e, ove si tratti di magistrato, dell'applicabilità della norma derogatoria della competenza. Va ricordato in proposito l'art. 30 del d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242 (recante Modifiche ed integrazioni al d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626) il quale assegnava agli organi di vertice della amministrazioni pubbliche di cui al d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 1, comma 2, sessanta giorni di tempo per l'individuazione, nell'ambito dei propri uffici, delle figure di datore di lavoro ai fini della normativa sulla sicurezza. In attuazione di tale disposizione, l'art. 1, lett. g) del d.m. Grazia e Giustizia del 18 novembre 1996 individuò, tale figura nei capi degli uffici giudiziari e quindi, per i tribunali, nei presidenti degli stessi. Tale situazione non è mutata per effetto del d.lgs. 25 luglio 2006, n. 240, che individua le competenze dei capi degli uffici e dei dirigenti amministrativi preposti all'ufficio medesimo, il quale, pur assegnando a questi ultimi i compiti relativi alla gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti dell'ufficio, non appare incidere sulla materia della individuazione del responsabile quanto alla sicurezza del lavoro, come del resto confermato dalla circolare 31 ottobre 2006 del Ministro di giustizia. Ciò posto, a norma dell'art. 30-bis cod. proc. civ., «Le cause in cui sono comunque parti i magistrati, che, secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11 cod. proc. civ.». Tale norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza del 25 maggio 2004 n. 444, «ad eccezione della parte riguardante le azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 cod. proc. pen.». Sul tema, ord., Sez. 6-L, n. 2382 (Rv. 620910), ha affermato che, agli effetti della normativa sulla sicurezza dei luoghi di lavoro di cui al d.lgs. n. 626 del 1994, "datore di lavoro" del personale di un ufficio giudiziario è il capo dell'ufficio medesimo e, quindi, nel tribunale, il relativo presidente, secondo l'individuazione operata dal d.m. 18 novembre 1996, in attuazione dell'art. 30 del d.lgs. n. 242 del 1996, immutata pur a fronte delle competenze gestionali assegnate ai dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari dal d.lgs. n. 240 del 2006. Ne consegue che, per la domanda di risarcimento del danno da reato proposta da un cancelliere di tribunale a motivo delle lesioni personali cagionategli dall'inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro, la competenza territoriale si determina, in deroga all'art. 413 cod. proc. civ., con riguardo al foro per le cause in cui è parte un magistrato ex art. 30-bis cod. proc. civ. e 11 cod. proc. pen., anche se, in concreto, il presidente del tribunale non sia stato sottoposto a procedimento penale.

13.6.

In tema di retribuzione, nel (solo) settore pubblico, è configurabile un principio di parità retributiva: in proposito, il principio di parità di trattamento tra i lavoratori, sancito dall'art. 45 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, impone alla P.A. di remunerare in modo uguale i lavoratori che svolgano uguali mansioni. Ne consegue la legittimità della previsione del contratto collettivo che accordi ai lavoratori in posizione intermedia una progressione economica diversa e deteriore rispetto a quella prevista per i lavoratori della medesima area, ma addetti a posizioni apicali od iniziali. Sez. L, n. 3034 (Rv. 621258). Si è anche aggiunto che il principio espresso dall'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera nell'ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, restando quindi vietato, non ogni trattamento differenziato per singole categorie di lavoratori, ma solo quello contrastante con specifiche previsioni normative. (Nella specie, la decisione di merito aveva ritenuto contrario al principio di parità il prolungato mantenimento di differenze nell'indennità di amministrazione corrisposta ai dipendenti del Ministero delle Infrastrutture, provenienti dai soppressi Ministeri dei Trasporti e dei Lavori Pubblici; la S.C., enunciando la massima, ha cassato la decisione) (Sez. L, n. 4971, Rv. 621602).

Sempre in tema di pubblico impiego, si è confermato che (Sez. L, n. 5959, Rv. 622210) l'art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, che riconduce il passaggio diretto di personale da amministrazioni diverse alla fattispecie della "cessione del contratto", comporta, per i dipendenti trasferiti, l'applicazione del trattamento giuridico ed economico previsto dai contratti collettivi del comparto dell'Amministrazione cessionaria, salvi gli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico già acquisito, che sono destinati ad essere riassorbiti negli incrementi del trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti dell'Amministrazione cessionaria.

In materia, si è peraltro confermato (Sez. L, n. 10034, Rv. 622916) che, per il personale insegnante teorico-pratico trasferito dagli enti locali nei ruoli del personale dello Stato, ai sensi dell'art. 8, comma 3, della legge n. 124 del 1999, in analogia col personale ATA (amministrativo, tecnico, ausiliario), il legislatore, come precisato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea con la sentenza del 6 settembre 2011 in procedimento C-108/10, deve attenersi allo scopo della direttiva 77/187/CEE, consistente «nell'impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento». Ne consegue che il giudice di merito deve valutare, ai fini dell'esercizio del potere-dovere di immediata applicazione della norma europea provvista di effetto diretto, se, all'atto del trasferimento, il lavoratore abbia subito un peggioramento retributivo sostanziale rispetto alla condizione goduta immediatamente prima del trasferimento, in base ad un apprezzamento globale, non limitato cioè ad uno specifico istituto, e senza che assumano rilievo eventuali disparità coi lavoratori che, all'atto del trasferimento, già erano in servizio presso il cessionario.

13.7.

Interessanti, da ultimo, alcune pronunce in tema di indennità sostitutiva delle ferie dei dipendenti. In proposito, Sez. L, n. 17353, in corso di massimazione, che ha affermato che dal mancato godimento delle ferie – una volta divenuto impossibile per il datore di lavoro, anche senza sua colpa, adempiere l'obbligo di consentirne la fruizione – deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica, in misura pari alla retribuzione. Ne deriva che le clausole del contratto collettivo (nella specie, l'art. 18, comma 9, c.c.n.l. Regioni ed enti locali, triennio 1994-1997), che pur prevedono che le ferie non sono monetizzabili, vanno interpretate – in considerazione dell'irrinunciabilità del diritto alla ferie, ed in applicazione del principio di conservazione del contratto – nel senso che, in caso di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore, non è escluso il diritto di quest'ultimo all'indennità sostitutiva.

Nello stesso senso, più recentemente, Sez. L, n. 21028, in corso di massimazione, secondo la quale, con riferimento alle ferie del lavoratore, allorché il lavoratore, assentatosi dal lavoro a causa di una lunga malattia, non abbia goduto – in tutto o in parte – delle ferie annuali di propria spettanza entro il periodo stabilito dalla contrattazione collettiva in assenza di alcuna determinazione al riguardo da parte del datore di lavoro, non può desumersi dal silenzio serbato dall'interessato alcuna rinuncia – che, comunque, sarebbe nulla per contrasto con norme imperative (art. 36 Cost. e art. 2109 cod. civ.) – e quindi il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la relativa indennità sostitutiva delle ferie non godute. Ne deriva che le clausole di contratti collettivi (nella specie, art. 51 del CCNL dei dipendenti ferroviari) che prevedono, nel corso del rapporto, esclusivamente il diritto al godimento delle ferie e non anche all'indennità sostitutiva, in applicazione del principio di conservazione del contratto, devono essere interpretate nel senso che in ogni caso la mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore, non può escludere il diritto di quest'ultimo all'indennità sostitutiva delle ferie, in considerazione della irrinunciabilità del diritto stesso, costituzionalmente garantito.

  • assistenza sociale
  • pensione complementare
  • regime pensionistico

CAPITOLO XVI

IL DIRITTO DELLA PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE

(di Francesco Buffa )

Sommario

1 Imponibile previdenziale. - 2 Contribuzione per lavoratori migranti. - 3 Contribuzione per attività lavorative autonome. - 4 Sospensione degli obblighi contributivi e sgravi. - 5 Omissione ed evasione contributiva. - 6 Automaticità delle prestazioni. - 7 Previdenza complementare. - 8 Prestazioni previdenziali ed assistenziali. - 8.1 - 8.2 - 8.3

1. Imponibile previdenziale.

L'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all'importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (cosiddetto minimale contributivo), secondo il riferimento ad essi fatto – con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale – dall'art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, convertito nella legge n. 389 del 1989, senza le limitazioni derivanti dall'applicazione dei criteri di cui all'art. 36 Cost. (cosiddetto minimo retributivo costituzionale), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre – con conseguente influenza sul distinto rapporto di lavoro – ai fini della determinazione della giusta retribuzione; né è configurabile la violazione dell'art. 39 Cost., alla stregua dei principî espressi con la sentenza della Corte costituzionale n. 342 del 1992, per via dell'assunzione di efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali, essendo l'estensione limitata – secondo la previsione della legge – alla parte economica dei contratti soltanto in funzione di parametro contributivo minimale comune, idoneo a realizzare le finalità del sistema previdenziale e a garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del sistema stesso (Sez. L, n. 16, Rv. 620090). Un'applicazione del principio è stata fatta anche da Sez. L, n. 12244, Rv. 623291, secondo la quale, con riferimento alla disciplina di cui all'art. 12 della legge n. 153 del 1969, precedente l'entrata in vigore delle disposizioni specifiche di cui all'art. 2, comma 18, della legge n. 335 del 1995 e all'art. 3 del d.lgs. n. 314 del 1997, la concessione da parte di una banca ai propri dipendenti di mutui a condizioni più vantaggiose di quelle riservate alla clientela ordinaria integra un'attribuzione economica imputabile al rapporto di lavoro e costituente elemento della retribuzione imponibile ai fini contributivi soltanto se concorrono condizioni contrattuali non giustificabili nel quadro dell'esercizio dell'attività imprenditoriale bancaria o se sussistono altri adeguati elementi di prova, esclusa, di per sé, la rilevanza della concessione del mutuo a un tasso inferiore al saggio legale o della subordinazione del prestito a un determinato stato di servizio del dipendente.

In ragione dell'autonomia del rapporto previdenziale e dell'indisponibilità dei diritti sociali fondamentali, l'ente previdenziale è legittimato a richiedere la contribuzione correlata alla retribuzione dovuta per le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore, a prescindere dalla qualifica attribuita dal datore di lavoro e non contestata dal lavoratore, atteso che, nell'ordinamento del lavoro, sussiste un principio di corrispondenza fra mansioni e qualifica, che conferisce al lavoratore il diritto soggettivo alla retribuzione corrispondente alle superiori mansioni esercitate, indipendentemente dalla definitiva acquisizione della relativa qualifica. Ne consegue che l'art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, conv. in legge n. 389 del 1989, sancendo che la retribuzione imponibile ai fini previdenziali non può essere inferiore all'importo della retribuzione stabilito da leggi, regolamenti e contratti collettivi, non solo rende insensibile l'obbligo contributivo rispetto all'eventuale inadempimento retributivo del datore di lavoro, ma impone altresì di prendere a base di calcolo dei contributi previdenziali la retribuzione dovuta, e non quella corrisposta, di fatto, in misura inferiore (Sez. L, n. 6001, Rv. 622272).

In materia di contribuzione previdenziale, si segnala ord., Sez. 6L, n. 1497, Rv. 621078, che ha affermato che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, comma 19, del d.l. n. 98 del 2011, convertito nella legge n. 111 del 2011, secondo il quale le disposizioni di cui all'art. 64, comma 5, della legge n. 144 del 1999 si interpretano nel senso che il contributo di solidarietà sulle prestazioni integrative dell'assicurazione generale obbligatoria è dovuto anche dai lavoratori in servizio, è manifestamente infondata – oltre che con riferimento ai principî del giusto processo ex art. 6 CEDU, 111 e 117 Cost., trattandosi di intervento legislativo che, nel fare proprio un plausibile significato della norma, ne realizza effettivamente l'interpretazione autentica ex art. 70 Cost. – anche con riferimento agli art. 3 e 53 Cost., atteso che la sottoposizione delle retribuzioni dei lavoratori in servizio sia all'imposta sui redditi che al contributo speciale è giustificata in relazione al carattere differenziato della loro posizione previdenziale rispetto a quella della generalità dei cittadini e dei lavoratori.

2. Contribuzione per lavoratori migranti.

L'art. 13, comma 2, lettera a) del Regolamento CEE del 14 giugno 1971 n. 1408, stabilisce che, fatta salva la riserva delle disposizioni degli articoli da 14 a 17, il lavoratore occupato nel territorio di uno Stato membro è soggetto alla legislazione di tale Stato anche se risiede nel territorio di un altro Stato membro o se l'impresa o il datore di lavoro da cui dipende ha la propria sede o il proprio domicilio nel territorio di un altro Stato membro. L'art. 37, comma 11, del d.P.R. 18 ottobre 2004 n. 334 (T.U. sull'immigrazione) per effetto del quale l'impresa estera deve garantire lo stesso trattamento minimo retributivo del contratto collettivo nazionale di categoria applicato ai lavoratori italiani o comunitari, nonché il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali previsti dall'ordinamento italiano.

Tale norma ha sancito in termini pratici il cosiddetto principio di territorialità dell'obbligazione assicurativa in forza del quale l'impresa straniera operante in Italia è assoggettata alle norme della legislazione previdenziale italiana in assenza di convenzioni in materia di sicurezza sociale, principio, questo che è stato adottato anche dall'ordinamento comunitario per il tramite dell'art. 13, comma 2, lett. a), del Regolamento CEE n. 1408/1971. Peraltro, ove nella fattispecie venga in rilievo uno Stato che non è parte della Comunità Europea, occorre aver riguardo ad eventuali accordi, ove esistenti, stipulati tra la Comunità Europea e lo Stato in questione, ed alla ratifica operata dall'Italia e, in difetto di tale accordo, ai lavoratori stranieri impiegati in Italia non possono che essere applicate le norme dell'ordinamento italiano in base al suddetto principio della territorialità, senza che possa valere per tali lavoratori la condizione di reciprocità che presuppone la stipulazione di una convenzione bilaterale che la preveda espressamente. Tali principî sono stati confermati, con riferimento a lavoratori provenienti dalla Moldavia, dalla sentenza Sez. L, n. 16244, Rv. 624121, secondo la quale, in tema di contribuzione previdenziale dovuta per lavoratori stranieri extracomunitari distaccati in Italia alle dipendenze di una collegata società italiana, fatta salva l'ipotesi in cui un accordo tra uno Stato membro della Comunità europea ed uno Stato extracomunitario preveda espressamente una deroga al principio della territorialità dell'obbligo contributivo per effetto di una condizione di reciprocità, la società distaccataria è tenuta ai correlativi obblighi contributivi previdenziali e assistenziali ove risulti accertata la sua posizione di effettiva datrice di lavoro, ricevendone le prestazioni con carattere di stabilità e di esclusività, a prescindere dal fatto che gli stessi lavoratori siano sprovvisti della cittadinanza italiana, stante il principio della territorialità delle assicurazioni sociali.

Con riferimento al diverso caso del lavoratore italiano che svolge lavoro anche all'estero in diversi Stati, ed in generale alla liquidazione delle pensioni spettanti ai lavoratori che hanno lavorato e che sono stati assicurati in diversi Stati dell'Unione europea, va ricordato che, in un contesto di disciplina comunitario, basato per di più sul principio di libera circolazione delle persone, la maturazione dei requisiti contributivi per beneficiare delle prestazioni previdenziali avviene a prescindere dall'ordinamento nazionale nel quale la contribuzione è versata, in applicazione del principio di totalizzazione.

Il sistema è previsto dall'art. 46 del regolamento 1408 del 1971 e consta di più fasi: occorre procedere anzitutto al calcolo della prestazione "autonoma", calcolando se e quale sarebbe la misura della prestazione spettante presso il singolo Stato, senza procedere al cumulo dei periodi assicurativi compiuti presso altri Stati membri. Il secondo passaggio è la determinazione della pensione "virtuale", che si ottiene, attraverso una fictio iuris, e cioè cumulando (totalizzando) tutti i periodi di assicurazione compiuti nei diversi Stati membri, come se fossero stati compiuti presso lo Stato cui viene chiesta la prestazione. Infatti solo addivenendo alla somma dei vari periodi lavorativi, si evita che il lavoratore migrante mantenga meri "spezzoni" di contribuzione, ciascuno dei quali, essendo troppo breve, non gli darebbe diritto di conseguire prestazioni presso nessuno degli stati presso cui ha lavorato: da ciò l'importanza della totalizzazione. La pensione virtuale è calcolata da ciascun ente previdenziale, dopo avere unito i diversi periodi, sulla base delle proprie leggi nazionali. Il terzo passaggio attiene al calcolo del pro rata: la somma dei periodi assicurativi, ossia la totalizzazione, serve per garantire all'interessato il conseguimento dell'anzianità assicurativa totale, ma poi ciascuna istituzione procede al calcolo dell'importo "effettivo" in proporzione al reale periodo di assicurazione compiuto presso il proprio Stato. Ciascuna istituzione paga cioè solo la quota maturata presso il suo regime. È evidente infatti che all'applicazione del criterio della totalizzazione si accompagna necessariamente l'operatività del criterio del pro rata, perché, in assenza di qualunque trasferimento di contributi, giacché ciascuno Stato conserva quelli di sua pertinenza, l'applicazione del solo principio della totalizzazione, condurrebbe alla erogazione di una prestazione non corrispondente alla misura dei contributi versati. L'ultimo passaggio imposto all'ente previdenziale attiene al raffronto tra l'ammontare del trattamento che spetterebbe con la pensione autonoma, e cioè senza procedere alla totalizzazione, e quanto invece spetterebbe applicando la totalizzazione ed il pro rata, dovendosi erogare quello dei due che sia più favorevole all'interessato.

Sul tema, delineate le linee fondamentali della liquidazione della pensione in regime internazionale come sopra riportate, si è affermato (Sez. L, n. 950, Rv. 620712) il principio secondo il quale, in caso di prestazioni di lavoro svolte da cittadino italiano in Italia e in altro Stato dell'Unione europea, ai sensi dell'art. 46 del regolamento CEE n. 1408 del 1971, per la totalizzazione dei contributi ai fini della maturazione del pro rata italiano è sufficiente l'esistenza delle due provviste contributive, in Italia e all'estero, mentre non è necessaria l'erogazione del pro rata estero, che rileva sotto diverso aspetto, cioè per l'eventuale riassorbimento dell'integrazione al minimo del pro rata italiano.

3. Contribuzione per attività lavorative autonome.

In tema di contribuzione per lo svolgimento di attività lavorative autonome, si è posto il problema della contribuzione previdenziale nei confronti del socio amministratore di s.r.l. che, al tempo stesso, svolga attività lavorativa all'interno della società. Secondo l'INPS ed una parte della giurisprudenza di merito, si riteneva che si dovesse procedere – in base al principio generale secondo cui all'espletamento di duplice attività lavorativa, quando per entrambe si prevede la tutela assicurativa, deve corrispondere la duplicità di iscrizione – all'iscrizione sia alla gestione separata, che alla gestione commercianti, senza che ciò determini una doppia contribuzione, giacché ciascuna iscrizione riguarda una attività diversa e differentemente retribuita. La giurisprudenza della Cassazione (con orientamento fatto proprio dalle sezioni unite civili, nella sentenza n. 3240 del 2010) si era invece orientata per l'applicabilità della disciplina posta dall'art. 1, comma 208 della legge n. 662 del 1996, che prevedeva un'unica iscrizione alla gestione assicurativa individuata sulla base della attività svolta in misura prevalente. Su tale assetto è, tuttavia, successivamente intervenuto il legislatore che, con norma interpretativa, l'art. 12, comma 11, del d.l. n. 78 del 2010, convertito nella legge n. 122 del 2010, ha espressamente escluso, per i rapporti di lavoro per i quali è prevista l'iscrizione alla gestione separata, la regola dell'unicità dell'iscrizione, che resta possibile (e presso la gestione dell'attività prevalente) solo per le attività autonome esercitate in forma d'impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti. Il legislatore è quindi intervenuto dettando una norma, autoqualificantesi interpretativa, in forza della quale l'art. 1, comma 108, della legge n. 662 del 1996 doveva intendersi «nel senso che le attività autonome, per le quali opera il principio di assoggettamento all'assicurazione prevista per l'attività prevalente, sono quelle esercitate in forma d'impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti, i quali vengono iscritti in una delle corrispondenti gestioni dell'INPS. Restano, pertanto, esclusi dall'applicazione dell'art. 1, comma 208, della legge n. 662/1996 i rapporti di lavoro per i quali è obbligatoriamente prevista l'iscrizione alla gestione previdenziale di cui all'art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335».

Nel descritto contesto si sono, dunque, nuovamente pronunciate le Sezioni Unite civili della Cassazione, con la sentenza n. 17076 del 2011, optando fermamente per l'effettiva natura di norma di interpretazione autentica da ascriversi alla disposizione di cui all'art. 12, comma 11, del n. 78 del 2010, evidenziando come la norma di interpretazione di cui all'art. 12, comma 11, del d.l. n. 78 del 2010 avrebbe ex post focalizzato l'attenzione su uno di tali significati plausibili della disposizione originaria; secondo la Corte la norma, dichiaratamente ed effettivamente di interpretazione autentica, è diretta a chiarire la portata della disposizione interpretata e, pertanto, non è, in quanto tale, lesiva del principio del giusto processo di cui all'art. 6 CEDU – quanto al mutamento delle "regole del gioco" nel corso del processo – trattandosi di legittimo esercizio della funzione legislativa garantita dall'art. 70 Cost.

Sulla questione si è pronunciata anche la Corte costituzionale, escludendo il contrasto dell'art. 12, comma 11, del d.l. n. 78 del 2010, con l'art. 117, primo comma, Cost. e, per suo tramite, con la norma interposta dell'art. 6 CEDU (sentenza Corte cost. n. 15 del 2012).

La soluzione adottata dall'ultima sentenza delle Sezioni unite è stata nell'anno confermata da Sez. L, n. 9153, Rv. 622662, nonché da ord., Sez. 6-L, n. 9803, Rv. 622928, che ha affermato che, in caso di esercizio di attività in forma d'impresa ad opera di commercianti, artigiani o coltivatori diretti, contemporaneo all'esercizio di attività autonoma per la quale è obbligatoria l'iscrizione alla gestione separata ex art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995, ai sensi dell'art. 1, comma 208, della legge n. 662 del 1996, autenticamente interpretato dall'art. 12, comma 11, del d.l. n. 78 del 2010, conv. in legge n. 122 del 2010, non opera la fictio iuris dell'unificazione della contribuzione sulla base del parametro dell'attività prevalente, ma vale il principio della doppia iscrizione. Ne consegue che il socio di una società a responsabilità limitata, che svolge per la società stessa attività di lavoro autonomo, quale collaboratore coordinato e continuativo, è soggetto a doppia contribuzione, presso la gestione separata per i compensi di lavoro autonomo e presso la gestione commercianti per il reddito d'impresa.

4. Sospensione degli obblighi contributivi e sgravi.

In alcuni casi, la legge prevede la sospensione degli obblighi contributivi ovvero il riconoscimento di uno sgravio per date ragioni.

Quanto al primo aspetto, si è precisato che la sospensione del versamento dei contributi previdenziali per i soggetti residenti nelle zone colpite dagli eventi sismici dell'ottobre del 2002, ai sensi dell'art. 7, comma 1, dell'o.P.c.m. n. 3253 del 2002, interpretato alla luce dall'art. 6, comma 1-bis, del d.l. n. 263 del 2006, convertito in legge n. 290 del 2006, va a beneficio dei datori di lavoro privati, e non dei loro dipendenti, essendo finalizzata a liberare risorse economiche da destinare al sostegno delle attività imprenditoriali, e non ad incrementare le retribuzioni. (Nella specie, affermando il principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva respinto l'opposizione del datore di lavoro avverso i decreti ingiuntivi ottenuti dai lavoratori per il pagamento delle somme trattenute dalle loro spettanze a titolo di recupero dei contributi sospesi) (Sez. L, n. 4963, Rv. 621607).

Con riferimento al secondo aspetto, in tema degli sgravi contributivi a richiesta, è interessante il principio (affermato dall'ord., Sez. 6-L, n. 10768, Rv. 622965), secondo il quale, per verificare l'osservanza dell'eventuale termine di decadenza (nella specie, termine fissato dall'art. 3 quater del d.l. n. 300 del 2006, conv. in legge n. 17 del 2007, per l'istanza di sgravio dei soggetti danneggiati dall'alluvione del Piemonte nel 1994), vale il principio secondo il quale, nell'ambito dei rapporti con la P. A., l'istanza è tempestiva qualora venga presentata all'ufficio postale per la spedizione entro il termine, non rilevando che essa sia pervenuta all'ente dopo la scadenza del termine medesimo.

La concessione degli sgravi può venire in contrasto con la disciplina comunitaria sulla concorrenza e gli aiuti di Stato. È quanto avvenuto nel caso affrontato dalla sentenza Sez. L, n. 6756, Rv. 622557, secondo la quale, in tema di sgravi contributivi illegittimi, in quanto costituenti aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea, l'azione dell'ente previdenziale volta al recupero degli sgravi non costituisce azione di restituzione di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ., ma azione volta al pagamento della contribuzione differenziale, pari alla misura dell'aiuto di Stato recuperabile. Ne consegue che tale azione – alla cui proposizione è legittimato direttamente l'ente istituzionalmente deputato alla riscossione dei contributi – è soggetta al termine prescrizionale ordinario decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., e non a quello previsto per l'indebito, né a quello ex art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995, attesa l'autonomia giuridica dell'azione di recupero degli aiuti in questione (che è disciplinata da regole specifiche, è finalizzata al mero ripristino dello status quo ante e che prevede – a differenza dell'azione volta al pagamento dei contributi omessi – l'applicazione di interessi nella misura stabilita dalla Commissione e non anche delle sanzioni specifiche previste per l'omissione contributiva). La decisione sottolinea la primauté del diritto comunitario, ritenendo (Rv. 622559) che, in ragione del carattere imperativo della vigilanza sugli aiuti statali operata dalla Commissione europea ai sensi dell'art. 88 TCE, le imprese beneficiarie di un aiuto non possono fare legittimo affidamento sulla regolarità dell'aiuto ove lo stesso sia stato concesso senza il rispetto della procedura o prima della sua regolare conclusione, né possono invocare a sostegno di tale affidamento l'eventuale incertezza degli orientamenti comunitari in materia (nella specie, di aiuti all'occupazione), dovendosi altresì considerare irrilevanti sia l'esistenza di eventuali disposizioni legislative nazionali che disciplinato gli aiuti, poi giudicati illegittimi, sia eventuali pronunce dei giudici nazionali, ivi inclusa la Corte costituzionale, in quanto la valutazione di compatibilità degli aiuti con il mercato comune di portata comunitaria è di spettanza esclusiva della Commissione.

La stessa sentenza ha esaminato il problema della incidenza del decorso del tempo sulla recuperabilità dell'aiuto indebitamente concesso, osservando che (Rv. 622558), in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale riguardante gli effetti del decorso del tempo sui rapporti giuridici (sia in tema di prescrizione che di decadenza) deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione europea divenuta definitiva. (Fattispecie in tema di recupero di sgravi contributivi, fruiti per assunzioni con contratto di formazione e lavoro, incompatibili con il diritto comunitario, in quanto aiuti di Stato, secondo la decisione della Commissione europea dell'11 maggio 1999, ritenuti recuperabili dalla S.C. senza il limite del termine decadenziale per l'iscrizione a ruolo di cui all'art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999). In ordine all'applicazione del termine di prescrizione, si richiamano inoltre le considerazioni della sentenza Sez. L, n. 6671, Rv. 622314, secondo la quale, agli effetti del recupero degli sgravi contributivi integranti aiuti di Stato incompatibili col mercato comune (nella specie, sgravi per le assunzioni con contratto di formazione e lavoro, giudicati illegali con decisione della Commissione europea dell'11 maggio 1999), vale il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., decorrente dalla notifica alla Repubblica Italiana della decisione comunitaria di recupero, atteso che, ai sensi degli art. 14 e 15 del regolamento (CE) n. 659/1999, come interpretati dalla giurisprudenza comunitaria, le procedure di recupero sono disciplinate dal diritto nazionale ex art. 14 cit., nel rispetto del principio di equivalenza fra le discipline, comunitaria e interna, nonché del principio di effettività del rimedio, mentre il "periodo limite" decennale ex art. 15 cit. riguarda l'esercizio dei poteri della Commissione circa la verifica di compatibilità dell'aiuto e l'eventuale decisione di recupero. Né si può ritenere che si applichi il termine di prescrizione dell'azione di ripetizione ex art. 2033 cod. civ., perché lo sgravio contributivo opera come riduzione dell'entità dell'obbligazione contributiva, sicché l'ente previdenziale, che agisce per il pagamento degli importi corrispondenti agli sgravi illegittimamente applicati, non agisce in ripetizione di indebito oggettivo. Né, infine, è applicabile il termine di prescrizione quinquennale ex art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995, poiché questa disposizione riguarda le contribuzioni di previdenza e assistenza sociale, mentre l'incompatibilità comunitaria può riguardare qualsiasi tipo di aiuto, senza che si possa fare ricorso all'applicazione analogica della norma speciale, in quanto la previsione dell'art. 2946 cod. civ. esclude la sussistenza di una lacuna normativa.

5. Omissione ed evasione contributiva.

Con riferimento all'evasione contributiva, si è posto il problema della distinzione con la mera omissione contributiva, la quale era stata nel 1981 depenalizzata e poi nel 2000 resa rilevante solo sotto un profilo civilistico. La dottrina ha configurato le due fattispecie come dei cerchi concentrici, essendo l'evasione una specificazione dell'omissione in ragione del modus operandi e dell'intenzionalità del datore di lavoro: l'omissione contributiva, nel sistema legale, soggiace sempre e comunque all'applicazione della sanzione civile (ed un tempo anche amministrativa), mentre se si tratta di evasione contributiva, alla sanzione civile si aggiunge anche la sanzione penale.

Se formalmente la mera omissione concreta un inadempimento civilistico del debito contributivo, mentre l'evasione richiede molto di più, ossia l'occultamento del debito contributivo (ossia del rapporto o dell'imponibile), sicché la differenza tra le fattispecie può apparire netta, in concreto non sempre è così, essendo possibile che l'importo del mancato versamento sia rilevabile comunque dalla contabilità aziendale, pur non regolare, o da alcune solo delle denunce e registrazioni contabili obbligatorie. Così, si avrebbe omissione mera ove l'importo del mancato versamento è desumibile dalle denunce o registrazioni obbligatorie ovvero quando a fronte di denunce e registrazioni obbligatorie regolari manca solo il pagamento dei contributi; per aversi evasione, invece, l'inadempimento dovrà dunque atteggiarsi come la conseguenza diretta di un comportamento volontario costituente, in sé, un artificio o raggiro funzionale allo scopo di non adempiere all'obbligazione verso l'INPS.

Alla prima ipotesi – mera omissione – parte della giurisprudenza ha accomunato quella, diversa, in cui manca solo la denuncia mensile ma sia egualmente possibile desumere dalle denunce annuali o da altre registrazioni obbligatorie l'ammontare dei contributi dovuti. In proposito, particolarmente interessanti sono le sentenze che affrontano il problema della distinzione della fattispecie dell'omissione contributiva dalla più grave ipotesi dell'evasione contributiva, in relazione al mancato invio dei prospetti modelli DM/10.

In tema, va ricordato che, nel regime dell'art. 4, comma 1, della legge del 29 febbraio 1988 n. 48, di conversione del d.l. 30 dicembre 1987, n. 536, e poi dell'art. 1, comma 217, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, l'omissione contributiva si realizzava in caso di omesso o ritardato pagamento da parte del datore di lavoro di premi o contributi, «il cui ammontare era rilevabile da denunce e/o registrazioni obbligatorie»; l'evasione contributiva, invece, poneva in collegamento l'inadempienza del datore di lavoro al compimento o alla presentazione di «registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero». I tratti della distinzione erano stati quindi precisati dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 4808 del 2005, che, componendo un contrasto di giurisprudenza in seno alla Sezione Lavoro della Corte, ha affermato il principio secondo cui la mancata presentazione del modello DM/10 (recante la dettagliata indicazione dei contributi previdenziali da versare) configura la fattispecie della evasione – e non già della semplice omissione – contributiva, ricadente nella previsione della lettera b) dell'art.1, comma 217, della legge n. 662 del 1996. La sentenza in motivazione afferma chiaramente che ricorre la fattispecie dell'omissione contributiva allorché, in presenza dell'adempimento di tutte le denunce e registrazioni obbligatorie previste dalla normativa di riferimento, manchi il solo versamento della contribuzione, mentre è configurabile la fattispecie dell'evasione contributiva quando venga omesso anche uno soltanto degli adempimenti prescritti (denunce e registrazioni obbligatorie).

L'interpretazione fornita dalle Sezioni Unite riguardava, peraltro, la disciplina prevista dalle legge n. 662 del 1996 e non teneva conto delle novità introdotte con l'art. 116 della legge n. 388 del 23 dicembre 2000, con cui il legislatore interveniva in materia nuovamente prevedendo – per il caso di mancato pagamento nel termine dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali, ovvero vi provvedono in misura inferiore a quella dovuta – sanzioni differenziate a seconda che l'ammontare di tali contributi o premi sia rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, ovvero in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l'intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate.

La nuova disposizione è stata quindi interpretata in modo difforme dalla giurisprudenza di legittimità, affermandosi dalla sentenza n. 11261 del 2010 che proprio l'omessa denuncia dei lavoratori all'Inps (ossia il mancato o tardivo invio del modello DM/10) che «fa presumere l'esistenza della volontà del datore di lavoro di occultare i rapporti di lavoro al fine di non versare i contributi», presunzione che è il soggetto debitore che deve (e può) superare dando prova della sua buona fede, e ritenendosi per contro dalla sentenza n. 1230 del 2011 (in linea peraltro con le indicazioni fornite sul punto proprio dall'INPS con sua circolare) che la mera mancata presentazione del modello DM/10 configura la fattispecie della omissione – e non già della evasione – contributiva, qualora il credito dell'istituto previdenziale sia comunque evincibile dalla documentazione di provenienza del soggetto obbligato (nella specie libri contabili e denunce riepilogative annuali), dovendo in tal caso escludersi l'occultamento del rapporto di lavoro e delle retribuzioni erogate.

Sul tema, da ultimo si è tornati all'orientamento più rigoroso e si è affermato (Sez. L, n. 10509, Rv. 623170) che, in tema di obblighi contributivi verso le gestioni previdenziali e assistenziali, l'omessa o infedele denuncia mensile all'INPS attraverso i modelli DM10 circa rapporti di lavoro e retribuzioni erogate integra "evasione contributiva" ex art. 116, comma 8, lett. b), della legge n. 388 del 2000, e non la meno grave "omissione contributiva" di cui alla lett. a) della medesima norma, in quanto l'omessa o infedele denuncia fa presumere l'esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti. Ne consegue che grava sul datore di lavoro inadempiente l'onere di provare l'assenza d'intento fraudolento e, quindi, la propria buona fede (nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso dell'INPS avverso la decisione di merito che, con motivazione congrua, aveva qualificato "omissione contributiva", anziché "evasione contributiva", la condotta dell'imprenditore il quale, pur avendo spedito i modelli DM10 con ritardo, peraltro mai superiore a quattro mesi, aveva tenuto regolarmente le scritture contabili e regolarmente inviato il modello 770 contenente la denuncia riepilogativa annuale, circostanze, queste, complessivamente idonee a vincere la presunzione d'intento fraudolento).

Infine, in argomento, va ricordato che, secondo la sentenza Sez. L, n. 5773, Rv. 622293, in tema di violazioni contributive, ove il lavoratore, adibito ad attività ordinaria, figuri nelle scritture del datore di lavoro come apprendista, il mancato pagamento dei relativi contributi integra l'ipotesi dell'evasione contributiva e non quella, meno grave, dell'omissione di cui all'art. 116, comma 8, lett. a) della legge n. 388 del 2000, che riguarda solo il mancato versamento delle somme «il cui ammontare è rilevabile dalle denunce o registrazioni obbligatorie».

6. Automaticità delle prestazioni.

Come noto, per l'assicurazione generale per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti gestita dall'INPS opera il principio dell'automaticità delle prestazioni, sia pur nei limiti di cui all'art. 27 del r.d.l. n. 636 del 1939, come modificato dall'art. 40 della legge n. 153 del 1969 e dall'art. 23 ter del d.l. n. 267 del 1972, come convertito nella legge n. 485 del 1972. Pertanto, quando il giudice abbia accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro per il quale doveva essere effettuata la contribuzione, devesi ritenere soddisfatto il requisito contributivo nei limiti della prescrizione decennale (attualmente quinquennale) dei contributi, decorrente dal giorno in cui gli stessi dovevano essere versati. Il principio dell'automatismo consente al lavoratore di ottenere una pensione che tenga conto anche dei contributi dovuti e non versati sulla maggiore retribuzione percepita, ma ciò solo nell'ambito del periodo di prescrizione dei contributi medesimi, e purché il lavoratore alleghi e dimostri sia i periodi lavorativi, sia la più alta retribuzione percepita, su cui avrebbero dovuto esser versati i contributi. Sul tema, nell'anno, ord., Sez. 6-L, n. 10119, Rv. 622921, ha affermato che il principio di automaticità ex art. 2116 cod. civ., per il quale le prestazioni previdenziali spettano anche in relazione ai contributi dovuti e non versati, nei limiti della prescrizione contributiva, vale non soltanto ai fini dell'insorgenza del diritto alla pensione, ma anche per la relativa quantificazione, essendo onere del lavoratore provare l'esistenza del rapporto di lavoro e l'entità delle retribuzioni percepite.

7. Previdenza complementare.

Altro interessante settore del quale si è occupata la giurisprudenza di legittimità nell'anno è costituito dalla previdenza complementare. In particolare, si è affrontata da parte della Sezione Lavoro il problema della qualificazione della natura giuridica, retributiva ovvero previdenziale, delle somme versata dal datore di lavoro e volte ad alimentare la posizione contributiva del lavoratore nei fondi di previdenza integrativa.

In materia, pervenendo a soluzione opposta rispetto a quella seguita in passato anche dalle Sezioni Unite e finora ribadita dalla Sezione Lavoro fino alla n. 545 del 2011, la giurisprudenza di legittimità (Sez. L, n. 8695, Rv. 623056; n. 9016 e numerose altre non massimate; ord., Sez. 6-L, n. 10458, Rv. 622966) ha affermato in più occasioni che i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare non hanno natura retributiva, né l'hanno avuta in passato, trattandosi di esborsi non legati da nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa ed esonerati dalla contribuzione AGO, con assoggettamento a contributo di solidarietà, ai sensi della disposizione retroattiva dell'art. 9 bis del d.l. n. 103 del 1991, conv. in legge n. 166 del 1991. Ne consegue che le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare – quale che sia il soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti – non si computano né nell'indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982) né nel trattamento di fine rapporto, non avendo tali somme carattere e funzione retributiva ma previdenziale.

Osserva la Corte in particolare, nella motivazione della prima sentenza su richiamata, che, trattandosi di fondo di previdenza integrativa, i versamenti non sono preordinati all'immediato soddisfacimento del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, sono accantonati e non direttamente corrisposti, per garantire il trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, o in caso di invalidità sopravvenuta, secondo le condizioni previste dal relativo statuto e con divieto di distrazione ai sensi dell'art. 2117 cod. civ. Ai diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro accede, in questi casi, un ulteriore rapporto contrattuale, che obbliga il datore ai versamenti per garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa di quella obbligatoria, ma questo ulteriore rapporto, che pur costituisce un indubbio beneficio per il lavoratore, però non altera, né modifica, né si compenetra con i diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, ed in particolare, non incide sulle modalità di erogazione delle indennità ricollegate alla fine del rapporto medesimo, ed il beneficio, che al lavoratore apporta il rapporto di previdenza integrativa, non è costituito dai "versamenti" effettuati dal datore, ma dalla pensione che con essi verrà conseguita. La contribuzione infatti, data la funzione del Fondo, per sua natura, non può entrare nel patrimonio dei lavoratori interessati, i quali possono solo pretendere che venga versata al soggetto indicato nello Statuto; il lavoratore non la riceve né nel corso del rapporto, né alla sua cessazione, essendo solo il destinatario di una aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, che si concreterà esclusivamente al maturarsi di certi requisiti e condizioni. Il rapporto di previdenza integrativa ha certamente come necessario presupposto resistenza del rapporto di lavoro subordinato, ma ha poi regole proprie, tra le quali quella essenziale è certamente l'obbligo del versamento, a carico del datore di una contribuzione, ed a favore non certo del lavoratore ma, necessariamente, a favore del soggetto onerato della prestazione integrativa (e questo obbligo non può quindi "rifluire" sul rapporto di lavoro ed alterarne la fisionomia, perché non è in nesso di corrispettività diretta con la prestazione lavorativa; tanto che la prova evidente della autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare emerge considerando che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa, perché non si sono verificati i requisiti prescritti, il dipendente nulla ha diritto di ricevere).

Con la più recente sentenza Sez. L, n. 20418, in corso di massimazione, sembra riemergere peraltro il vecchio orientamento, essendosi ritenuto che i trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita, in relazione alla loro funzione previdenziale, non incidendo la funzione previdenziale del trattamento sul lato strutturale rappresentato dell'inesistenza di un rapporto giuridico previdenziale, distinto rispetto a quello di lavoro, né sul rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa; ne consegue che all'autonomia negoziale non è dato prevedere quale presupposto per il sorgere del diritto alla prestazione previdenziale che il rapporto di lavoro non sia cessato per destituzione, cioè in conseguenza di fatti rilevanti sul piano disciplinare.

Da ultimo sul tema della previdenza complementare, va segnalata la sentenza Sez. L, 19659, in corso di massimazione, secondo la quale, in tema di liquidazione di Fondo pensione chiuso di previdenza integrativa, la necessità di addivenire, nel rispetto della concorsualità, all'accertamento delle somme dovute per ripartizione delle eccedenze ai singoli partecipanti, seguendo altresì un criterio unitario che garantisca la tutela di tutti i crediti verso il Fondo, anche quelli che non hanno potuto giovarsi dell'esperimento fruttuoso dell'azione individuale, implica l'applicazione della disciplina dettata dal codice civile per la liquidazione generale, ancorché non si versi in ipotesi di incapienza dell'attivo, secondo le norme di attuazione del codice (in particolare, l'art. 16 disp. att. cod. civ.) e gli articoli 207 e 209 l. fall., con la conseguenza che l'inosservanza degli adempimenti prescritti dalle dette norme determina la nullità della procedura e del finale piano di riparto.

8. Prestazioni previdenziali ed assistenziali.

Interessanti puntualizzazioni la Corte ha operato nell'anno in materia.

8.1.

In tema di prestazioni previdenziali in favore dei lavoratori agricoli, si è consolidato il principio secondo il quale (Sez. L, n. 13877, Rv. 623364) il diritto dei lavoratori agricoli subordinati a tempo determinato all'iscrizione negli elenchi nominativi di cui al d. lgs. lgt. n. 212 del 1946 e alle prestazioni previdenziali presuppone l'esistenza di un rapporto di lavoro svolto annualmente, in regime di subordinazione, per il numero minimo di giornate previsto dalla legge. Il lavoratore deve fornire la prova della ricorrenza di tale presupposto qualora sia stato adottato nei suoi confronti un provvedimento di cancellazione dagli elenchi, mentre, nel caso in cui sia documentabile l'iscrizione, questa costituisce prova sufficiente ai fini del riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali richieste in giudizio, salvo che l'istituto previdenziale convenuto ne contesti le risultanze con il richiamo ad elementi di fatto (in particolare, al contenuto di accertamenti ispettivi o alla sussistenza di rapporti di parentela, affinità o coniugio, tra le parti), che possano far sorgere dubbi circa l'effettività del rapporto di lavoro o del suo carattere subordinato, nel qual caso il giudice non può risolvere la controversia in base al semplice riscontro dell'iscrizione, che resta pur sempre soltanto un meccanismo di agevolazione probatoria, ma deve pervenire alla decisione valutando liberamente e prudentemente la rispondenza dell'iscrizione stessa a dati obiettivi, al pari di tutti gli elementi probatori acquisiti alla causa.

Sempre nel settore agricolo, ai fini del diritto alle indennità giornaliere di maternità per il periodo di astensione obbligatoria e per il periodo di astensione facoltativa, al requisito dell'esistenza di un rapporto di lavoro in atto si sostituisce il possesso della qualifica di lavoratrice agricola, che va comprovata con l'iscrizione negli elenchi nominativi senza la necessità che la minima attività lavorativa (oltre cinquantuno giornate) richiesta per l'iscrizione agli elenchi nominativi sia stata svolta nello stesso anno cui si riferisce l'astensione predetta, dovendosi considerare sufficiente – alla luce dei principî sottesi alla legislazione di tutela della maternità – l'esistenza dei requisiti costitutivi del rapporto assicurativo nell'anno precedente all'evento assicurato, anche se l'astensione, sia obbligatoria che facoltativa, si svolga nell'anno successivo all'evento stesso (Sez. L, n. 7725, Rv. 622913).

8.2.

Diverse pronunce si sono occupate delle prestazioni assistenziali per l'invalidità civile.

Quanto alla decorrenza delle prestazioni assistenziali per invalidità civile, onde evitare che l'eventuale ritardo nello svolgimento degli accertamenti sanitari, non imputabile all'avente diritto, si risolva in suo danno, l'art. 3 della legge n. 18 del 1980 fa decorrere l'indennità di accompagnamento dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda amministrativa; tale decorrenza è differita solo se la commissione medica, nel verificare la sussistenza del presupposto sanitario del diritto, ne riferisca il perfezionamento, sulla scorta di elementi adeguatamente significativi, ad un'epoca successiva alla domanda amministrativa (Sez. L, n. 1398, Rv. 620837). Si è altresì aggiunto che la previsione legale del combinato disposto degli articoli 12 della legge 118 del 1971 e 1, comma 35, della legge 247 del 2007 – che, nel prevedere la concessione dell'assegno con le stesse condizioni previste per l'assegnazione della pensione, stabiliscono che anche l'assegno mensile di assistenza è concesso con decorrenza dal primo giorno successivo a quello della presentazione della domanda della prestazione – va interpretato nel senso che la data di decorrenza del beneficio è elemento costitutivo del diritto, il quale si perfeziona solo nel momento in cui matura la data in questione. Ne consegue che il diritto alla pensione di inabilità civile e quello all'assegno mensile di assistenza è riconoscibile solo se tutti i requisiti per essi richiesti sussistano nel primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda di accertamento dell'invalidità; con l'ulteriore conseguenza che le indicate provvidenze non spettano ai soggetti che, alle date in questione, non posseggano il prescritto requisito anagrafico. (Nella specie, in applicazione del principio su esteso, la S.C. ha escluso il diritto all'assegno di invalidità in capo a soggetto che compiva il sessantacinquesimo anno di età tra la data di presentazione della domanda ed il primo giorno del mese successivo, data di decorrenza della prestazione, e, conseguentemente, ha escluso il diritto all'assegno sociale di conversione dell'assegno di invalidità, in difetto della titolarità dello stesso alla data della invocata conversione) (Sez. L, n. 8099, Rv. 623143).

Altre decisioni hanno riguardato il termine decadenziale per l'azione in giudizio volta ad ottenere il riconoscimento ed il pagamento delle prestazioni di invalidità civile.

In tema di azione giudiziale per le prestazioni d'invalidità civile, l'art. 42, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, conv. in legge n. 326 del 2003, la cui efficacia è stata differita al 31 dicembre 2004 dall'art. 23, comma 2, del d.l. n. 355 del 2003, conv. in legge n. 47 del 2004, ha introdotto una decadenza prima inesistente, fissando il termine di sei mesi dalla data di comunicazione all'interessato del provvedimento emanato in sede amministrativa. Ne consegue che detto termine di decadenza si applica solo se il provvedimento amministrativo sia stato comunicato all'interessato dopo il 31 dicembre 2004, dovendosi ritenere, da un lato, che non rilevi l'art. 252 disp. att. cod. civ. – norma di principio, che tuttavia concerne il diverso fenomeno dell'abbreviazione del termine di decadenza già esistente – e dall'altro che la comunicazione, integrando il fatto che comporta la decorrenza della decadenza di nuova istituzione, non possa situarsi al di fuori dell'area temporale di operatività della norma che l'ha introdotta (Sez. L, n. 9647, Rv. 622798).

Secondo la sentenza Sez. L, n. 6959 (Rv. 622511), in tema di decadenza delle azioni giudiziarie volte ad ottenere la riliquidazione di una prestazione parzialmente riconosciuta, la novella dell'art. 38 lett. d) del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in l. 111 del 2011 – che prevede l'applicazione del termine decadenziale di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970 n. 639, anche alle azioni aventi ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito –, detta una disciplina innovativa con efficacia retroattiva limitata ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni, con la conseguenza che, ove la nuova disciplina non trovi applicazione, come nel caso di giudizi pendenti in appello, o in cassazione alla data predetta, vale il generale principio dell'inapplicabilità del termine decadenziale. In ordine alla prescrizione, le Sezioni Unite della Corte, con la sentenza n. 5572 (Rv. 622264) hanno affermato in tema di prestazioni di previdenza e assistenza che la prescrizione è sospesa, oltre che durante il tempo di formazione del silenzio rifiuto sulla richiesta all'istituto assicuratore ex art. 7 della legge n. 533 del 1973, anche durante il tempo di formazione del silenzio rigetto sul ricorso amministrativo condizionante la procedibilità della domanda giudiziale ex art. 443 cod. proc. civ., essendo ancora valido il principio di settore, enucleabile dall'art. 97 del r.d.l. n. 1827 del 1935 e conforme ai principî costituzionali di equità del processo ed effettività della tutela giurisdizionale, per cui il decorso del termine di prescrizione è sospeso durante il tempo di attesa incolpevole dell'assicurato; ne consegue che la prescrizione del diritto all'indennità di maternità, soggetta al termine annuale ai sensi degli art. 6 della legge n. 138 del 1943 e 15 della legge n. 1204 del 1971, è sospesa per i centoventi giorni di formazione del silenzio rifiuto di cui all'art. 7 della legge n. 533 del 1973 e per i centottanta giorni di formazione del silenzio rigetto previsto dall'art. 46 della legge n. 88 del 1989.

8.3.

Con riferimento alle prestazioni assistenziali sanitarie, un tema frequentemente portato innanzi ai giudici del lavoro è quello relativo alla concessione di prestazioni non previste dal servizio sanitario nazionale, ma disponibili all'estero o anche nel territorio nazionale con onere economico a carico dell'assistito.

In tema, particolarmente interessante è il principio (affermato dalla sentenza Sez. L, n. 9969, Rv. 622920) secondo il quale l'assistenza sanitaria indiretta per ricoveri ospedalieri all'estero deve essere erogata dal Servizio sanitario nazionale, sotto forma di rimborso delle spese e anche in difetto di preventiva autorizzazione regionale, non solo quando le cure – gravi, urgenti e impraticabili nelle strutture nazionali – siano finalizzate a debellare la malattia o ad arrestarne il corso, ma anche quando esse, come le cure palliative, siano dirette ad alleviare il pregiudizio fisico ed esistenziale del paziente, senza incidere sull'evoluzione della malattia, atteso che, nella coordinata lettura degli art. 2 e 32 Cost., il diritto alla salute, in funzione della dignità umana, assume una dimensione più ampia della tradizionale attesa dei mezzi di guarigione.

In motivazione, la sentenza afferma che nell'ipotesi in cui a fondamento della domanda di un assistito del servizio sanitario nazionale, rivolta ad ottenere il rimborso di spese ospedaliere non preventivamente autorizzate dalla Regione, vengano dedotte ragioni di urgenza – che comportano per l'assistito pericoli di vita o di aggravamento della malattia o di non adeguata guarigione, evitabili soltanto con cure tempestive non ottenibili dalla struttura pubblica – manca ogni potere autorizzatorio discrezionale della pubblica amministrazione non essendo rilevante in contrario l'eventuale discrezionalità tecnica nell'apprezzamento dei motivi di urgenza, atteso che oggetto della domanda è il diritto primario e fondamentale alla salute, il cui necessario temperamento con altri interessi, pure costituzionalmente protetti – quali l'esistenza di risorse del Servizio sanitario nazionale con le conseguenti legittime limitazioni con leggi, regolamenti ed atti amministrativi generali – non vale a privarlo della consistenza di diritto soggettivo perfetto tutelabile dinanzi al giudice ordinario.

La mancanza di preventiva autorizzazione amministrativa ad avvalersi per un intervento chirurgico di una struttura ospedaliera non convenzionata non incide sul diritto al rimborso delle spese sostenute, ove il giudice del merito accerti che l'intervento sia avvenuto in stato di necessità, cioè sia sta effettuato sollecitamente per non compromettere in maniera definitiva il risultato. Si afferma dunque il principio secondo i quale il diritto alla salute ha nel nostro ordinamento una dimensione sicuramente più ampia di quanto non possa derivare dal mero diritto alla cura od alla assistenza, intesa nel senso tradizionale di accorgimenti terapeutici idonei a debellare la malattia od ad arrestarne l'evoluzione: il necessario riferimento alla tutela della dignità umana, consente di ritenere che le condizioni di salute oggetto della previsione costituzionale coincidano non solo con l'approntamento di mezzi destinati alla guarigione del soggetto colpito ma anche con quant'altro possa farsi per alleviare il pregiudizio non solo fisico ma, se si vuole, esistenziale dell'assistito, quantomeno in ragione di tutto ciò che manifesti concreta utilità ad alleviare la limitazione funzionale ancorché senza apprezzabili risultati in ordine al possibile regresso della malattia.

Non va peraltro sottaciuto il peso che ha, in relazione all'erogazione di prestazioni assistenziali sanitarie, le esigenze finanziarie relative ai bilancio pubblici. Si è infatti affermato (dalla sentenza Sez. L, n. 5663, Rv. 622268) che, in materia di intervento del Servizio Sanitario Nazionale per l'erogazione di prestazioni protesiche, garantite nei limiti fissati dal nomenclatore-tariffario di cui all'art. 26 della legge n. 383 del 1978, l'art. 4 del d.m. del 28 dicembre 1992, emanato ai sensi dell'art. 5 della legge n. 407 del 1990, consente la somministrazione di tali dispositivi sostitutivi ad esclusivo vantaggio dei soggetti affetti da minorazioni psico-fisiche di particolare importanza, rilevanti ai fini del riconoscimento dell'invalidità civile. Ne consegue che è corretta la mancata inclusione delle protesi odontoiatriche nel nomenclatore, in quanto l'affezione più grave dell'apparato odontostomatologico (edentulia totale) riduce la capacità di lavoro in misura non superiore al venti per cento. Tale esclusione è giustificata dalla predefinizione delle disponibilità finanziarie pubbliche, poiché il diritto alla salute affermato dall'art. 32 Cost. non può essere inteso in senso assoluto, dovendosi invece conciliare con le esigenze di bilancio pubblico.

Sotto tale ultimo profilo, precisa la sentenza che la normativa vigente non riconosce ai cittadini le prestazioni protesiche per qualsiasi minorazione psico-fisica, ma limita, per esigenze di bilancio pubblico, l'assistenza protesica alle sole minorazioni gravi, salvaguardando i soggetti che presumibilmente possano avere necessità di essere recuperati da un punto di vista socio-economico. Deve, quindi, secondo la decisione, ritenersi garantita l'uniformità dell'assistenza protesica, i cui limiti nell'erogazione trovano ragionevole giustificazione nelle disponibilità finanziarie pubbliche, predefinite per il settore sanitario pubblico: il diritto alla salute, quale affermato dall'art. 32 Cost., non può essere inteso in senso assoluto, ma deve potersi conciliare con le esigenze del bilancio pubblico (vedasi Corte Cost. n. 416 del 28 luglio 1995).

PARTE SESTA IL DIRITTO DEL MERCATO

  • diritto d'autore

CAPITOLO XVII

IL DIRITTO D'AUTORE

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Diritto d'autore e plagio. - 2 Diritto d'autore e limiti al diritto di proprietà. - 3 Riproduzioni fotografiche e sottosuolo di Roma.

1. Diritto d'autore e plagio.

Secondo Sez. 1, n. 9854 (Rv. 623206), l'elaborazione creativa si differenzia dalla contraffazione, in quanto mentre quest'ultima consiste nella sostanziale riproduzione dell'opera originale, con differenze di mero dettaglio che sono frutto non di un apporto creativo, ma del mascheramento della contraffazione, la prima si caratterizza per un'elaborazione dell'opera originale con un riconoscibile apporto creativo; ciò che rileva, pertanto, non è la possibilità di confusione tra due opere, alla stregua del giudizio d'impressione utilizzato in tema di segni distintivi dell'impresa, ma la riproduzione illecita di un'opera da parte dell'altra, ancorché camuffata in modo tale da non rendere immediatamente riconoscibile l'opera originaria (fattispecie in cui il giudice di merito ha correttamente accertato l'illecita riproduzione, da parte del brano musicale On va s'aimer, dei caratteri essenziali della canzone One fille de France, per identità della melodia dei ritornelli).

Nello stesso senso si era espressa anche Sez. 1, n. 20925 del 2005 (Rv. 584669), la quale aveva ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la sussistenza della contraffazione in riferimento alle illustrazioni di una guida turistica della città di Venezia che riproducevano i disegni contenuti in un'altra guida, con il significativo apporto creativo costituito dalla scelta di una rappresentazione bidimensionale ed in bianco e nero, in luogo di quella tridimensionale ed a colori che caratterizzava le illustrazioni originali. Ha, altresì, affermato Sez. 1, n. 25173 del 2011 (Rv. 620652) che il carattere creativo e la novità dell'opera sono elementi costitutivi del diritto d'autore sull'opera dell'ingegno; pertanto, prima ancora di verificare se un'opera possa costituire plagio di un'altra, il giudice del merito deve verificare se quest'ultima abbia o meno i requisiti per beneficiare della protezione richiesta, e ciò sia sotto il profilo della compiutezza espressiva, sia sotto il profilo della novità. (Fattispecie relativa alla tutelabilità come diritto d'autore di un libro fotografico sui luoghi visitati da Goethe in Sicilia, nel quale erano riportati anche brani letterari selezionati).

Il "plagio" si materializza dunque nella riproduzione totale o parziale, da parte di un autore che fa passare per propria un'opera frutto del lavoro altrui. Quando una persona si appropria di elementi rappresentativi e creativi di un'opera per introdurli in un'altra opera sotto il proprio nome, ci troviamo in presenza di una contraffazione qualificata e aggravata, ossia di una riproduzione abusiva di un'opera altrui con appropriazione di paternità (legge n. 633 del 1941). Tuttavia, emerge dalla giurisprudenza che l'opera simile all'originale, per essere realmente definita plagio, deve suscitare nell'ascoltatore le stesse emozioni dell'originale. Tutto questo, sembrerebbe lasciare uno spiraglio agli utilizzi di tipo citazionistico, perché i frammenti usati non hanno più nulla in comune con i brani iniziali.

A tutt'oggi, la giurisprudenza è incerta se siano sufficienti 4 o 8 battute per definire un plagio. In Italia ciò non ha rilevanza specifica, ma altri sono i criteri da valutare: cfr. Sez. 1, n. 24594 del 2005, Rv. 584337, secondo cui il carattere creativo e la novità dell'opera sono elementi costitutivi del diritto d'autore sull'opera dell'ingegno; ne consegue che, prima ancora di verificare se un'opera possa costituire plagio di un'altra, il giudice del merito deve verificare se quest'ultima abbia o meno i requisiti per beneficiare della protezione richiesta, e ciò sia sotto il profilo della compiutezza espressiva, sia sotto il profilo della novità (specie relativa all'asserito plagio di un'opera musicale consistente in quattro battute: la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva omesso il richiesto accertamento circa la configurabilità di un segmento musicale composto da quattro battute come opera tutelabile).

Da notare che l'art. 158 della legge n. 633 del 1941 sulla tutela del diritto d'autore, oltre a stabilire che «chi venga leso nell'esercizio di un diritto di utilizzazione economica a lui spettante può agire in giudizio per ottenere, oltre al risarcimento del danno che, a spese dell'autore della violazione, sia distrutto o rimosso lo stato di fatto da cui risulta la violazione», prevede anche che «sono altresì dovuti i danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 del codice civile». Si tratta dunque di una di quelle ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale indicate nella lett. b) della massima di Sez. Un., n. 26972 del 2008 (Rv. 605492), ossia quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato.

Importante è l'affermazione contenuta nella sentenza Sez. 1, n. 18037, in corso di massimazione: la sentenza ha recisamente negato che la tutela contro il plagio riguardi soltanto le opere «già entrate nel mercato delle opere pubblicate».

Dunque, sebbene l'art. 185 della legge 22 aprile 1941, n. 633 assicuri protezione a tutte le opere «pubblicate per la prima volta» in Italia, tuttavia occorre fare riferimento al principio dell'art. 2575 cod. civ., il quale palesa come oggetto del diritto d'autore è «la creazione letteraria ed artistica quale bene immateriale, indipendentemente dal fatto che essa costituisca una "sorgente di utilità"», ricordando la Corte la definizione proposta dell'opera dell'autore come «messaggio personale di questo agli altri uomini», dunque «realtà pregiuridica», che conduce alla protezione degli interessi personali dell'autore.

In definitiva, un'opera inedita, persino se ancora incompleta, ben può a essere la compiuta espressione del suo autore, purché dotata del carattere soggettivamente creativo che l'autore le ha impresso; e ben possono, come nella specie, la soggettività e la creatività che devono contraddistinguere un'opera proteggibile, essere sottratte e quindi essere accortamente presentata in modo diverso, con accorgimenti che mirino a nascondere l'illecito (come mere varianti lessicali). Mentre restano prive di protezione soltanto «quelle idee, e quegli elementi iniziali ovvero embrionali di intuizione e di immaginazione, necessitanti ancora dell'elaborazione tipicamente autorale e dell'integrazione con ulteriori elementi per dare luogo ad opere, per l'appunto, compiute, in quanto realizzatrici del progetto creativo».

Nel caso di specie, un volume biografico e storico, concernente le vicende di un comandante e l'intero evento bellico che l'aveva visto protagonista, era stato a disposizione, ancora inedito, di un altro soggetto,il quale ne aveva poi tratto largamente ispirazione per un'opera propria, così rendendo impossibile all'autore la pubblicazione, peraltro già concordata con un editore. Ha, quindi, la Corte confermato la sentenza d'appello, che aveva liquidato sia il danno patrimoniale, sia quello non patrimoniale d'autore.

2. Diritto d'autore e limiti al diritto di proprietà.

Afferma Sez. 1, n. 9247 (Rv. 623075) che, in modo assolutamente perspicuo e condiviso dalla Corte costituzionale, il giudice di merito ha tenuto conto del principio generale di cui all'art. 949, comma secondo, cod. civ., che consente al proprietario di tutelare il proprio diritto non solo da pretese che contestino la sua titolarità in radice, ma anche nei confronti di più limitate aggressioni, quali possono definirsi le turbative. L'art. 167 l. aut., citato dal giudice di merito, infatti, esplicita quanto al regime dei diritti di autore di cui si tratta, la regola generale per la quale il diritto di proprietà non incontra limiti che non siano stabiliti dalla legge o dalla volontà del suo titolare. Esso si presume libero da pesi. Pertanto, incombe a chi sostiene l'esistenza di limitazioni, ovvero in concreto eserciti attività che oggettivamente pongano in essere limitazioni a quel diritto, a fronte dell'allegazione di un valido titolo di proprietà, l'onere di dimostrare l'esistenza di un proprio particolare diritto, ovvero la invalidità del titolo allegato dal suo contraddittore.

Si tratta del resto di un indirizzo conforme a quello legislativo, diretto – in un'ottica più generale che abbia riguardo ai diritti economici non solo nella visione proprietaria e dunque statica, ma anche in quella dinamica relativa all'iniziativa economica – a dare pratica attuazione al disposto del comma primo dell'art. 41 Cost., secondo cui l'iniziativa economica è libera, con il limite dell'utilità sociale.

L'art. 41 Cost. è il frutto dell'accordo fra le tre anime presenti in sede di Assemblea Costituente, quella liberale, di cui è espressione il comma 1 (libertà d'iniziativa economica), quella cattolica, di cui è espressione il comma 2 (c.d. limiti "negativi" alla libertà d'iniziativa economica) e quella comunista/socialista, di cui è espressione il comma 3 (c.d. limiti "positivi" alla libertà d'iniziativa economica). Tuttavia fin dall'inizio l'art. 41 Cost., soprattutto per quanto riguarda il limite dell'"utilità sociale" ha avuto numerose critiche, per la sua formulazione pericolosamente generica, troppo ampia, inconoscibile, indeterminata e indeterminabile.

A tale critiche ha cercato di rispondere il legislatore nel 20112012. Stabilisce infatti l'art. 1 del d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge n. 27 del 2012, che «in attuazione del principio di libertà di iniziativa economica sancito dall'articolo 41 della Costituzione e del principio di concorrenza sancito dal Trattato dell'Unione europea, sono abrogate….: a) le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell'amministrazione comunque denominati per l'avvio di un'attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità; [omissis]. Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principî costituzionali per i quali l'iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica».

Prevede, in maniera del tutto analoga, l'art. 3 del d.l. n. 138 del 2011, convertito in legge n. 148 del 2011, che Comuni, Province, Regioni e Stato adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge.

Questa impostazione legislativa è stata altresì confermata dalla sentenza n. 200 del 2012 della Corte costituzionale in tema di liberalizzazioni, che, nel reputare sostanzialmente valido l'impianto del d.l. n. 138 del 2011, ha affermato che una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L'eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale.

3. Riproduzioni fotografiche e sottosuolo di Roma.

Secondo Sez. 1, n. 4213 (Rv. 621616), in forza dell'art. 12 l. 25 marzo 1985, n. 121, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha la disponibilità esclusiva delle catacombe presenti nella città di Roma, potendo regolarne l'accesso per le visite, richiedere corrispettivi, ritrarre in foto o altri supporti i luoghi ed esigere un corrispettivo per il rilascio di copie; ne consegue che la stessa gode anche del diritto alla protezione con riguardo alla riproduzione delle opere fotografiche, ai sensi degli art. 88, 3º comma, e 89 l. 22 aprile 1941 n. 633, e, pertanto, costituisce fatto illecito l'abusiva riproduzione, da parte di terzi, delle opere ritratte nel suo archivio fotografico, determinando la perdita di opportunità di una cessione onerosa.

  • consumatore
  • concorrenza

CAPITOLO XVIII

IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Consumatore e legge antitrust. - 2 Concorrenza sleale e riferimento ai consumatori per l'individuazione del rapporto di concorrenzialità. - 3 Professionisti intellettuali, concorrenza sleale e pubblicità. - 4 La nozione di consumatore: finalità non professionale, a prescindere da una eventuale inesperienza del soggetto. - 5 La reintegrazione nei diritti del titolare della privativa.

1. Consumatore e legge antitrust.

La stretta interdipendenza tra concorrenza e consumatore è dimostrata già dal fatto che il primo testo di legge in Italia che riporta la parola consumatore è la c.d. legge antitrust (legge n. 287 del 1990). A partire dagli anni novanta in poi è stato tutto un susseguirsi di leggi a tutela del consumatore, che sono state poi raccolte dal legislatore in una sorta di testo unico rappresentato dal codice del consumo (d. lgs. n. 206 del 2005).

La relativamente recente emersione del concetto di consumatore fa dunque comprendere come negli ultimi anni siano aumentate a dismisura le sentenze della Cassazione sul tema.

La Cassazione ha voluto ribadire il forte legame esistente tra tutela del consumatore, tutela dell'equilibrio contrattuale a livello microeconomico (ossia nell'ottica del rapporto tra singoli) e tutela dell'efficienza del mercato in genere (ossia in un'ottica macroeconomica, che coinvolge anche interessi pubblici).

In effetti, se concorrenza significa innanzitutto garantire parità di condizioni fra i contendenti, essa può essere assicurata solo fornendo una normativa che da un lato imponga alle imprese di non abusare del proprio maggior potere contrattuale (nascente da una maggiore esperienza e forza economica), adottando rapporti contrattuali corretti e uniformi con i consumatori – e, quindi, assicurando a tutti i consumatori le stesse tutele, come nel codice del consumo, la cui ratio è, secondo Sez. 2, n. 6639 (Rv. 622401), quella di garantire il consumatore dalla unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto negoziale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale – e dall'altro impedisca alle stesse di approfittare della loro eventuale posizione di forza per conseguire indebiti vantaggi di posizione (si pensi alla legge antitrust e ai relativi divieti di intese, abuso di posizione dominante e concentrazioni).

Ha coerentemente stabilito la menzionata n. 6639 che, in tema di clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore, la previsione dell'art. 33, secondo comma, lett. e), del codice del consumo è diretta a sanzionare la lesione inferta all'equilibrio negoziale che si concretizza nel trattenimento di una somma di denaro ricevuta prima dell'esecuzione delle prestazioni contrattuali, qualora non si ponga a carico dell'accipiens un obbligo restitutorio e un ulteriore obbligo sanzionatorio, allorché sia egli stesso a non concludere o a recedere.

Non può a questo punto non rilevarsi la significativa incidenza della normativa del codice del consumo – che pone non solo, come accennato, una disciplina "asimmetrica", cioè a tutela di una sola delle parti del rapporto contrattuale, ma anche una normativa caratterizzata da forti caratteri di "imperatività" – sul principio dell'autonomia negoziale, di cui le norme costituzionali di riferimento sono gli art. 3, comma primo, e 41, comma primo, Cost. Secondo la Corte costituzionale tuttavia (sentenze n. 268 del 1994 e n. 241 del 1990), il principio dell'autonomia contrattuale – che comporta, tra l'altro, libertà di scelta del contraente e del contenuto del contratto – se ha rilievo assolutamente preminente nel sistema del codice civile del 1942, non lo ha negli stessi termini nel sistema delineato dalla Costituzione, che non solo lo tutela in via meramente indiretta come strumento della libertà di iniziativa economica (sentenza n. 159 del 1988), ma pone limiti rilevanti a tale libertà.

Coerentemente con questa impostazione, ma sul versante di respiro pubblicistico della tutela della concorrenza sul mercato, le Sez. Un., n. 8511 (Rv. 622719) hanno sostenuto il principio della massima espansione possibile delle norma a tutela della concorrenza, affermando che la giurisdizione del giudice amministrativo nelle controversie relative alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, indette da organismi di diritto pubblico, ai sensi dell'art. 244 d.lgs. n. 163 del 2006 e, ora, dell'art. 133, lett. e), n. 1, cod. proc. amm., non sussiste per gli appalti riguardanti tutte ovvero l'insieme delle attività svolte dai medesimi organismi (secondo la cosiddetta teoria del "contagio") e, in particolare, per gli appalti inerenti alle attività industriali o commerciali svolte in regime di libera concorrenza ed accessibilità ai mercati, dovendo le regole di evidenza pubblica essere rigorosamente limitate alle attività volte a soddisfare bisogni generali di carattere non industriale o commerciale, in quanto direttamente interessate dalla esistenza di diritti speciali o esclusivi, dovendosi presumere che le residue attività del soggetto (di diritto privato), ancorché a partecipazione pubblica, vengano svolte nelle forme proprie del diritto comune. (Nella specie, relativa a procedura di aggiudicazione di forniture di postamat da parte di Poste italiane s.p.a., le Sezioni Unite hanno affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di settore liberalizzato e aperto alla concorrenza).

2. Concorrenza sleale e riferimento ai consumatori per l'individuazione del rapporto di concorrenzialità.

Il nesso fra concorrenza e consumatore è significativamente presente anche in tema di concorrenza sleale. Afferma infatti Sez. 1, n. 4739 (Rv. 622174) che la nozione di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 cod. civ. va desunta dalla ratio della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali. Ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Infatti, quale che sia l'anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui alla citata disposizione (nella specie, la S.C. ha ritenuto la produzione e la distribuzione di "gabbiette" per tappi di bottiglia di vino frizzante strettamente connesse con la fabbricazione delle macchine che dette gabbiette producono, così che, pur a diversi livelli, i produttori di tali oggetti insistono nel medesimo settore di attività).

In maniera analoga e coerente, Sez. 2, n. 9117 (Rv. 622656) ha specificato che la concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, non ravvisabile, pertanto, ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto "rapporto di concorrenzialità", senza che, tuttavia, la configurabilità dell'illecito concorrenziale sia da escludere quando l'atto lesivo venga compiuto da un soggetto (il cosiddetto terzo interposto), il quale agisca per conto di un concorrente del danneggiato, o comunque in collegamento con lo stesso, dovendo, in tal caso, ritenersi il terzo responsabile in solido con l'imprenditore che si sia giovato della sua condotta; per contro, in mancanza di tale collegamento tra l'autore del comportamento lesivo e l'imprenditore concorrente, il terzo può essere chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. (Nella specie, in base dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza di merito, la quale aveva escluso le condizioni necessarie ai fini dell'applicazione dell'art. 2598 cod. civ., in relazione all'attività di collocamento di strumenti finanziari compiuta da una banca, quale terza interposta, a vantaggio della preponente ed in danno dell'agente).

Non può inoltre non evidenziarsi, in entrambe le sentenze citate, il collegamento tra la nozione di concorrenza sleale e il mercato, nozione quest'ultima che invece è stata per un lungo periodo estranea alla fattispecie di cui all'art. 2598 cod. civ., considerata chiusa in una prospettiva meramente privatistica. Si è invece ormai compresa l'unitarietà del fenomeno concorrenza, intesa quale bene giuridico rappresentato dal corretto funzionamento del mercato, che non è tutelata solo dalla legge antitrust, ma, sia pure solo indirettamente, anche dalle norme del codice civile in materia di concorrenza sleale (art. 2598 e segg.) e patto di non concorrenza (art. 2596), che pure hanno come riferimento non l'interesse di una pluralità indistinta di soggetti, ma il rapporto tra singole parti ben individuate.

Inoltre, se è un dato indiscutibile che fin dal 1942 la disciplina della concorrenza sleale non solo è stata formalmente prevista dal legislatore (art. 2598 e segg.), ma è anche stata concretamente applicata dai giudici, tuttavia tale disciplina è stata quasi sempre vista in una prospettiva privatistica, non assumendo che di rado il respiro della dimensione pubblicistica che ha invece la legge antitrust (e infatti, non a caso, è chiamata a sovraintendere al rispetto di quest'ultima una Autorità amministrativa – quale è l'Autorità garante della concorrenza – portatrice per definizione di interessi pubblici).

Eppure deve evidenziarsi che la disciplina della concorrenza sleale non si pone in antitesi rispetto alla legge antitrust, ma ne costituisce il naturale completamento, andando innanzitutto a "coprire" alcune condotte distorsive della concorrenza che, per le loro ridotta portata, non assumono un rilievo pubblicistico e dunque sfuggono alla tutela offerta dalla legge n. 287 del 1990. Le due discipline peraltro non sono spesso sovrapponibili perché quella di cui alla legge antitrust prende in considerazione solo le condotte lesive della struttura concorrenziale del mercato che abbiano come punto di partenza lo sfruttamento di una posizione dominante, tenendo altresì conto degli effetti negativi non solo sugli altri imprenditori, ma altresì sui consumatori e sul progresso tecnologico, mentre l'altra, come già detto, assume come riferimento esclusivo la violazione della regole di correttezza professionale tra imprenditori (così Sez. Un., n. 21934 del 2008, Rv. 604597), secondo la quale la disciplina della concorrenza sleale non riguarda i consumatori, ma le imprese tra loro concorrenti.

In effetti la comune radice della disciplina relativa alla concorrenza sleale e di quella di cui alla legge antitrust è individuabile nell'art. 41 della Costituzione, di cui entrambe possono dirsi espressione.

Sotto questo profilo, tale logica è chiaramente affermata da Sez. 1, n. 14394 (Rv. 624016), la quale ha ricordato che – già nel regime anteriore all'entrata in vigore del Regolamento comunitario n. 1 del 2003, che ha introdotto una maggiore integrazione tra gli ordinamenti nazionali in relazione alle azioni risarcitorie conseguenti a violazione delle normativa antitrust – è possibile allegare, quale fonte di danno ingiusto nell'ambito di un giudizio fra privati, fattispecie tipiche del diritto antitrust; tuttavia, il sistema non vieta in sé il raggiungimento di una posizione dominante, ma solo il suo abuso, e, pertanto, la dimostrazione che, mediante un certo contratto, sia stata raggiunta tale posizione, con esito di mercato sfavorevole per altri imprenditori, non è prova sufficiente dell'esistenza di un illecito.

3. Professionisti intellettuali, concorrenza sleale e pubblicità.

La disciplina della concorrenza sleale soffre tuttavia della forte distinzione codicistica tra imprenditori e professionisti intellettuali e anche la giurisprudenza non ha intrapreso alcuno sforzo per estenderne la portata, cosicché tuttora la Cassazione è ferma nel ritenere inapplicabile ai professionisti intellettuali la disciplina della concorrenza sleale.

Si afferma infatti che presupposto giuridico indefettibile per la legittima configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, così che tale normativa non può ritenersi applicabile ai rapporti tra professionisti intellettuali (nella specie, avvocati: cfr. Sez. 3, n. 560 del 2005, Rv. 579358). Secondo la Cassazione infatti, la nozione di azienda di cui al n. 3 dell'art. 2598 cod. civ. coincide con quella di cui all'art. 2555 cod. civ., sicché (pur ammettendo la Suprema Corte che sotto il profilo ontologico studi di liberi professionisti siano, di fatto, per personale, mezzi tecnici impiegati e quant'altro, assimilabili ad una azienda) l'intento del legislatore, inteso a differenziare nettamente la libera professione dall'attività d'impresa va interpretato ed attuato nel senso della inapplicabilità tout court del regime di responsabilità da concorrenza sleale ai rapporti tra liberi professionisti.

Non possono però non evidenziarsi dei significativi sviluppi giurisprudenziali. Ha così affermato Sez. 6-3, n. 4721 (Rv. 621610) che, in materia di responsabilità disciplinare dei notai, l'art. 147 della legge notarile individua con chiarezza l'interesse meritevole di tutela nella salvaguardia della dignità e reputazione del notaio nonché del decoro e prestigio della classe notarile, individuando altresì la condotta idonea a ledere l'interesse tutelato e, in particolare, sanzionando come illecita la concorrenza effettuata con riduzioni di onorari, diritti o compensi, o servendosi dell'opera di procacciatori di clienti, di richiami o pubblicità non consentiti dalle norme deontologiche, o di qualunque altro mezzo non confacente al decoro e al prestigio della classe notarile; quindi, la norma, rispettosa del principio di legalità, non vieta la concorrenza tra i notai (la cui liceità, anzi, implicitamente riconosce), ma ne vieta le forme illecite, perché lesive del decoro e del prestigio della classe notarile.

Sulla stessa scia si pone la decisione presa da Sez. 3, n. 3717 (Rv. 621649), secondo cui l'abrogazione contenuta nell'art. 2, lett. b), della legge 4 agosto 2006, n. 248 delle norme in materia di pubblicità sanitaria di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 175, prescinde dalla natura (individuale, associativa, societaria) dei soggetti esercenti la professione sanitaria, atteso che la stessa è attuativa dei principî comunitari volti a garantire la libertà di concorrenza e il corretto funzionamento del mercato e sarebbe illegittimo, oltre che irragionevole, limitarne la portata all'esercizio della professione in forma individuale, fermo restando che, all'interno del nuovo sistema normativo, nel quale la pubblicità non è soggetta a forme di preventiva autorizzazione, gli Ordini professionali, ai sensi dell'art. 2, lett. b), ultima parte, della legge n. 248 del 2006, hanno il potere di verifica, al fine dell'applicazione delle sanzioni disciplinari, della trasparenza e della veridicità del messaggio pubblicitario.

Se dunque la disciplina della concorrenza sleale è tuttora considerata inapplicabile al professionista intellettuale, nonostante esso sia assimilato all'imprenditore nella nozione di professionista di cui all'art. 3 del codice del consumo, si guarda comunque con favore a forme di pubblicità del professionista intellettuale che abbiano la funzione di stimolare la concorrenza all'interno della categoria di appartenenza.

4. La nozione di consumatore: finalità non professionale, a prescindere da una eventuale inesperienza del soggetto.

Ha affermato Sez. Un., n. 3955 (Rv. 621497) che, in conformità all'art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001, va dichiarata la giurisdizione del giudice straniero in presenza di una clausola di proroga della competenza giurisdizionale approvata espressamente per iscritto dalle parti, a condizione che la medesima non sia stata realizzata in violazione delle norme sul "consumatore". Nella specie, le Sezioni Unite hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, a favore del giudice spagnolo, in relazione ad un contratto con il quale un medico odontoiatra aveva richiesto l'inserzione pubblicitaria della sua attività alla società, di diritto spagnolo, editrice di una guida europea d'informazioni commerciali e professionali, riconoscendo la validità della clausola di proroga ancorché approvata con l'unica sottoscrizione dell'intero contratto, ed escludendo la ricorrenza della tutela del consumatore, atteso che – sulla base del carattere vincolante della giurisprudenza della Corte di giustizia CE – per consumatore deve intendersi colui il quale stipuli un contratto per esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, a prescindere da sue eventuali condizioni di inesperienza o debolezza contrattuale.

Analogamente, aveva stabilito ord. Sez. 6-3, n. 15531 del 2011 (Rv. 618573) che, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della "tutela forte" di cui alla disciplina del Codice del consumo, approvato con il d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206, la qualifica di "consumatore" spetta solo alle persone fisiche, e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice "consumatore" soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività.

Un'importanza fondamentale nella definizione è dunque attribuita al fine per il quale il soggetto compie l'atto (ad esempio la compravendita) con il quale si procura il bene. Egli può anche essere un imprenditore, ma se acquista qualcosa per un motivo non inerente la sua professione (ad esempio un produttore di vini che compra un giocattolo per il figlio), è considerato, al fine limitato di quel determinato acquisto, come consumatore.

La Corte costituzionale ha escluso che la disciplina delle clausole vessatorie (all'epoca art. 1469-bis e segg. cod. civ., ora art. 33 e segg. del codice del consumo) sia incostituzionale nella parte in cui non è applicabile anche ai piccoli imprenditori e agli artigiani (i quali ad esempio acquistino un computer per tenere la contabilità della propria piccola impresa), ossia ai cosiddetti imprenditori "deboli", dotati cioè di scarso potere contrattuale.

Del resto anche evidenti esigenze di certezza sono alla base dell'esclusione dell'imprenditore "debole" dalla categoria dei consumatori. La definizione di consumatore è infatti basata su un dato formale, di relativamente facile accertamento, cioè l'assenza di finalità professionali. L'imprenditore "debole" è invece definizione sostanziale, che necessita di un riferimento ad un deficit di potere contrattuale, come tale di difficile accertamento in concreto. Il rischio poi è, per dare maggiore nitidezza alla definizione di imprenditore "debole", quello di confondere l'imprenditore "debole" con il piccolo imprenditore, che non sempre è dotato di scarso potere contrattuale, e al contrario di ritenere sempre non "debole" l'imprenditore non piccolo, che in concreto invece può benissimo avere ben poco spazio per dire la sua durante una trattativa.

La dottrina – al contrario della giurisprudenza – è favorevole ad una nozione ampia di consumatore, che comprenda anche sia colui che compie acquisti in vista di una futura attività d'impresa sia l'imprenditore che tratti con un altro dotato di un maggior potere contrattuale. Le discipline di tutela del consumatore sono caratterizzate dall'attribuzione di rilevanza alla qualifica soggettiva di quest'ultimo in relazione ad una presunzione assoluta a suo favore di inesperienza, scarsa informazione e debolezza contrattuale.

L'imprenditore "debole" non è peraltro privo di tutela legislativa in caso di abusi dello strumento contrattuale da parte dell'altro contraente: si pensi, oltre alla legge antitrust (l. 10 ottobre 1990, n. 287), al d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, relativo alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (di recente modificato dal d. lgs. 9 novembre 2012, n. 192, di recepimento della direttiva 2011/7/UE, a norma dell'art. 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180), alla disciplina del contratto di agenzia (art. 1742 e segg. cod. civ., come modificati dal d. lgs. 15 febbraio 1999, n. 65); alla disciplina del contratto di franchising (l. 6 maggio 2004, n. 129); alle norme in tema di venditori a domicilio (l. 17 agosto 2005, n. 173) alla disciplina della subfornitura (l. 18 giugno 1998, n. 192) e in particolare al suo art. 9 – norma ritenuta suscettibile di applicazione anche ad altri contratti – che vieta l'abuso della dipendenza economica, ossia di quella situazione in cui l'imprenditore debole non disponga di valide alternative sul mercato.

5. La reintegrazione nei diritti del titolare della privativa.

La Sez. 1, n. 22264, in corso di massimazione, per la prima volta interpreta l'art. 193, primo comma, del d. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, Codice della proprietà industriale, in particolare definendo il significato della «diligenza richiesta dalle circostanze», ivi prevista – in luogo della «massima diligenza esigibile» di cui all'art. 90 del r.d. n. 1127 del 1939 – quale parametro valutativo della scusabilità della condotta dell'interessato, che invochi la reintegrazione dalla norma disciplinata.

La norma indica il parametro valutativo da conmsiderare, ogni volta ed in concreto, per ravvisare la scusabilità della condotta tenuta dal richiedente, o dal titolare di un titolo di proprietà industriale, il quale non abbia osservato un termine nei confronti dell'Ufficio italiano brevetti e marchi, o della Commissione dei ricorsi.

La disposizione, nell'esigere la diligenza richiesta dalle circostanze, secondo la Corte «identifica la modalità di effettuazione della prestazione cui è affidato l'esatto adempimento, e dunque l'accadimento che, oltre ad impedire il compimento della stessa prestazione, non è stato impedito dalla predetta diligenza, inutilmente dispiegata»: dunque, di regola, è ciò che esenta la parte dalla responsabilità per l'inadempimento, e, nel caso di specie, «dalla conseguenza prevista dalla legge».

Il giudice pertanto (e, nel caso di specie, la Commissione ricorsi) deve esaminare il quadro reale nel quale l'attività da compiersi si colloca, così da valutare se una qualche rimproverabilità sussista nei confronti di chi l'attività stessa ha mancato di realizzare (nella specie la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva denegato la invocata reintegrazione considerando come evento non eccezionale, bensì evitabile mediante preventive soluzioni organizzative interne, l'impedimento, per ragioni personali, di una segretaria di uno studio internazionale depositario di delicatissimi mandati, coinvolgenti importanti interessi economici, da cui era derivato il tardivo deposito della traduzione richiesta dall'art. 56 del suddetto decreto).

  • diritto delle società

CAPITOLO XIX

IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ

(di Loredana Nazzicone )

Sommario

1 Società ed associazione. - 2 Esclusione e liquidazione nelle società di persone. - 3 La società di capitali prima della costituzione. - 4 Azioni e quote. - 4.1 Garanzie per minusvalenze del patrimonio sociale. - 4.2 Il danno diretto al valore della partecipazione. - 4.3 Il patto di prelazione. - 5 L'assemblea. - 5.1 Società quotata e diritto di intervento. - 5.2 Il "foglio presenze". - 5.3 La sostituzione della deliberazione invalida. - 5.4 Deliberazione negativa ed "impugnazione" da parte della società. - 6 Il bilancio. - 7 Gli amministratori. - 7.1 Rappresentanza. - 7.2 Revoca. - 7.3 Compenso. - 7.4 Responsabilità. - 7.4.a - 7.4.b - 7.4.c - 7.4.d - 7.4.e - 8 I sindaci. - 9 Il controllo giudiziario. - 10 La responsabilità da informazioni inesatte nei gruppi. - 11 La trasformazione. - 12 La fusione. - 12.1 - 12.2 - 13 La società a responsabilità limitata. - 13.1 - 13.2 - 14 Le società pubbliche. - 14.1 - 14.2 - 14.3 - 14.4 - 15 La cancellazione. - 15.1 - 15.2 - 15.3 - 15.4 - 15.5 - 15.6 - 16 Alcune questioni processuali.

1. Società ed associazione.

La scelta della struttura dell'ente collettivo, secondo i modelli predisposti dal legislatore, deve avvenire in coerenza con gli scopi che i fondatori si propongono; sebbene la distinzione, in qualche caso, tenda a sfumare. Quel che sicuramente non è permesso è il ricorso ad un modello a fini elusivi di norme imperative, come quelle fiscali.

Così, è stato stigmatizzato molte volte nel 2012 dalla Corte – a conferma della sua diffusione – il fenomeno dell'associazione sportiva dilettantistica, che pretenda di definirsi senza fini di lucro e di fruire, quindi, delle corrispondenti agevolazioni fiscali per imposte dirette ed indirette, pur svolgendo l'attività imprenditoriale sul libero mercato propria di una società commerciale, riconducibile all'art. 2195 cod. civ. Ciò anche perché, qualificandosi come associazione svolgente attività non commerciale, l'ente in tal modo finisce per praticare una concorrenza illecita nei confronti delle imprese che operano correttamente nel settore.

Si tratta delle sentenze Sez. 5, n. 8623 (Rv. 622732-33), n. 21406 (Rv. 624362) e n. 22578 (in corso di massimazione).

Nel primo caso, risultava l'esistenza di «un'attività commerciale caratterizzata da una cerchia ristretta di soci-gestori e da un proliferare di altri soci, oltre ad avventori esterni, concretamente trattati come clienti, paganti servizi a prezzi di mercato».

La seconda pronuncia si è occupata della vicenda di un circolo culturale che gestiva un affollato bar, ove la Corte ha affermato che l'attività in quesitone, svolta dietro pagamento di corrispettivi specifici ed anche se a favore dei soli associati, non rientra affatto tra le finalità istituzionali del circolo ed è quindi soggetta al trattamento tibutario di un'attività commerciale.

Il terzo caso riguarda una società di tre soci, unici a cumulare sia tale veste e sia quella di fruitori dei servizi del centro sportivo (da cui ricavavano profiti occulti), laddove tutti gli altri risultavano solo formalmente parti dell'ente, giusto per il tempo necessario a fruirne dei servizi, comunque resi dietro pagamento di un corrispettivo proporzionale ai corsi frequentati e senza alcuna partecipazione alla vita associativa (risultavano presenti 12, sul totale di 1869 soci) o potere decisionale. La ricorrente pretendeva, al solito, di applicare l'art. 13, n. 1, lett. m), della direttiva 77/388/CE e la corrispondente esenzione a favore di prestazioni di «servizi strettamente connesse alla pratica dello sport o dell'educazione fisica, fornite da organizzazioni senza scopo lucrativo alle persone che esercitano» tali attività; essa chiedeva, altresì, di fruire del regime di favore di cui all'art. 111 del t.u.i.r. all'epoca vigente (prima della rinumerazione come art. 148).

Le sentenze, sul solco di precedenti decisioni (Sez. 5, n. 11456 del 2010, Rv. 612991; n. 606 del 2006, Rv. 586403; n. 15321 del 2002, Rv. 558115), confermano che gli enti di tipo associativo non godono di uno status di "extrafiscalità" che li esenta da ogni prelievo, e che rileva l'attività svolta in concreto, al di là di qualsiasi oggetto e forma statutaria.

Al riguardo, poi, le citate sentenze del 2012, confermando un orientamento costante, ribadiscono che l'onere di provare i presupposti dell'esenzione grava tutto su chi la invochi.

2. Esclusione e liquidazione nelle società di persone.

Si conferma che l'esclusione del socio, quale sanzione per la sua condotta di grave inadempimento, è ammessa anche durante la fase di liquidazione.

Con la sentenza Sez. 1, n. 8860 (Rv. 622366), la Corte Suprema si riallaccia a Sez. 1, n. 19955 del 2011 (Rv. 619777) e prende definitivamente le distanze da un lontano precedente in senso opposto (Sez. 1 n. 3982 del 1980, Rv. 407887), secondo cui non potrebbe farsi luogo all'esclusione di un socio dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società.

Ha precisato la sentenza che, al riguardo, non rileva l'art. 2270 cod. civ., secondo cui la quota non può essere liquidata in favore del creditore del socio quando la società è sciolta. Sul quantum, una volta fissato il principio, dovrebbe derivarne (per l'insegnamento di Sez. 1, n. 9397 del 2011, Rv. 617808, da applicare qui al caso inverso) che al socio uscente spetti, ormai verificatisi i presupposti dello scioglimento, la quota di liquidazione risultante all'esito del riparto, e non la liquidazione della quota ex art. 2289 cod. civ.: infatti, il presupposto per l'assorbimento del procedimento di liquidazione della quota in quello di liquidazione della società è costituito dalla coincidenza sostanziale tra i due, in quanto il primo attenga ad un diritto non ancora definitivamente acquisito quando si verificano le condizioni per l'apertura del secondo.

La differenza economica fra i due criteri non è irrilevante, dal momento che per calcolare l'ammontare del diritto di credito del socio uscente si tiene conto del valore reale ed effettivo, e non prudenziale, del patrimonio sociale, mentre alla cessazione del rapporto sociale con effetti per tutti i soci consegue la suddivisione tra di essi del patrimonio residuato dopo il pagamento dei debiti sociali.

Resterebbe da valutare, peraltro, la correttezza di tale principio, nelle ipotesi in cui – alla stregua del nuovo regime della liquidazione introdotto dall'art. 2487, comma 1, lettera c), con il quale il legislatore ha superato i criteri della necessarietà degli atti e non novità dell'operazione – l'attività sociale non fosse limitata alle sole misure volte ad espletare il procedimento, ma venisse proseguita «per la conservazione del valore dell'impresa, ivi compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo»: è il caso in cui l'arresto improvviso dell'azienda potrebbe comprometterne il valore.

In caso di prosecuzione dell'attività aziendale, ed in particolare quando la chiusura della liquidazione intervenga in epoca molto successiva allo scioglimento del singolo rapporto, potrebbe allora essere iniquo far partecipare il socio, escluso in corso di liquidazione, alle conseguenze di una gestione cui egli «è rimasto totalmente estraneo e sulla quale non aveva alcun titolo per interloquire» (per usare le parole della citata n. 9397 del 2011), cui conduce il criterio dell'assorbimento della liquidazione della quota del socio nella quota derivante dalla liquidazione, al quale forse potrebbero pensarsi correttivi, peraltro di difficile applicazione già in astratto, derivanti da calcoli sul concreto sviluppo dell'attività sociale e delle attività liquidatorie.

3. La società di capitali prima della costituzione.

L'art. 2331 cod. civ., richiamato dall'art. 2463 cod. civ. per le s.r.l., prevede che solo con l'iscrizione nel registro delle imprese la società acquisti la personalità giuridica, divenendo autonomo soggetto di diritto responsabile solo con il suo patrimonio.

Prima di tale momento, pertanto, non valgono le regole organizzative tipiche dell'organismo societario. Ma la società "in attesa di iscrizione" è distinta da un soggetto inesistente, e che mai verrà ad esistenza, come dimostra la regolamentazione, sia pure di base, contenuta nelle citate disposizioni: una fra tutte, la possibilità di ratificare l'operato di colui che ha agito in nome della società.

Con riguardo alle società a responsabilità limitata, la Sez. 1, n. 12712 (Rv. 623314, 623315) ha ritenuto lecita la conclusione di un preliminare di compravendita di quote, anche prima dell'iscrizione dell'atto costitutivo nel registro delle imprese: infatti, il divieto di emissione delle azioni, di cui all'art. 2331, non ne impedisce il trasferimento secondo le regole della cessione del contratto, restando precluse in quel periodo soltanto quelle forme di negoziazione, che presuppongono la cartolarizzazione della partecipazione; mentre tale ultimo divieto, comunque, è inapplicabile al tipo s.r.l., nonostante la genericità del richiamo ad esso contenuto nell'art. 2463, terzo comma, cod. civ., atteso che l'art. 2468 cod. civ. esclude espressamente l'emissione dei titoli e l'offerta degli stessi al pubblico quali prodotti finanziari.

Non si può, al riguardo, omettere di ricordare – per l'effetto alquanto asistematico che ne deriva – che l'assolutezza di tale disposizione è stata, sullo scorcio del finire del 2012, messa in discussione, in seguito all'introduzione delle nuove start-up innovative nel nostro ordinamento, a seguito dell'art. 25 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modifiche nella l. 17 dicembre 2012, n. 221, c.d. Decreto Sviluppo "bis". In tale fattispecie, invero, è ammessa la creazione di categorie di quote fornite di diritti diversi, anche prive del diritto di voto o con voto non proporzionale al capitale detenuto, con voto limitato e con voto subordinato a particolari condizioni non meramente potestative; le quote di s.r.l. che siano start-up innovative possono anche costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari.

La citata sentenza n. 12712 ha confermato, altresì, che il contratto (anche preliminare) di compravendita di quote partecipative è a forma libera.

Quanto alla responsabilità di chi abbia contratto obbligazioni in nome di una costituenda società di capitali, essa permane anche dopo la costituzione e la ratifica degli atti compiuti: lo ha stabilito la Sez. 1, n. 13287 (Rv. 623629), dal momento che l'art. 2331 cod. civ. in nessun modo indica tale responsabilità come solo temporanea.

4. Azioni e quote.

4.1. Garanzie per minusvalenze del patrimonio sociale.

Si conferma la visuale della Corte nel senso di una netta separazione fra il patrimonio del socio, in cui si colloca la partecipazione sociale, ed il patrimonio della società, che solo indirettamente si collega a quello.

La Sez. 5, n. 17948 (Rv. 624009), ha così ribadito che i vizi o le minusvalenze, relative ai beni o al patrimonio sociale, non pertengono al negozio di compravendita delle partecipazioni, nemmeno se si tratti dell'intero capitale della società compravenduta: la sentenza si è occupata dell'applicazione dell'imposta di registro, ai sensi del primo o del secondo comma dell'art. 21 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, escludendo essa il rapporto di connessione necessaria tra la vendita delle azioni rappresentative dell'intero capitale di una società, e le garanzie coincesse dal venditore relative all'insussistenza di sopravvenienze passive di tipo tributario, nonché alla conformità dei beni strumentali alla normativa vigente ed alla copertura di costi fissi di gestione con i ricavi annuali.

4.2. Il danno diretto al valore della partecipazione.

Sebbene sia ormai acquisito che l'obiettivo dell'attività gestoria consista nella massimizzazione del valore per gli azionisti e che la redditività ed il valore della partecipazione sociale siano entità che entrano nel patrimonio proprio del socio (per uno specifico indizio normativo, si veda l'art. 2497 cod. civ.), la Sez. 3, n. 2087 (Rv. 621771, già citata al cap. XI, § 5), riformando la decisione impugnata, conforme al primo grado, ha negato il risarcimento al socio, che si reputava leso nel valore della quota sociale, in occasione di un contratto di vendita della stessa.

La sentenza argomenta dalla premessa generale che sussiste una netta distinzione tra patrimonio sociale e partecipazione al medesimo, che non legittima il socio ad agire per i danni cagionati direttamente al primo. La partecipazione sociale, aggiunge, quale frazione del capitale nominale, risente sì della consistenza del patrimonio dell'ente, costituito «dal complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società, nonché dalle prospettive di crescita o diminuzione delle potenzialità economiche dell'impresa collettiva: tale consistenza e tali prospettive determinano il valore effettivo della partecipazione, al di là di quello puramente nominale»; ma, nondimeno, la partecipazione sociale, nelle società di capitali, ha «una sua spiccata autonomia giuridica» ed il suo valore di mercato non è dato solo dalla frazione di valore del patrimonio sociale che rappresenta, ma è influenzato da fattori ulteriori. È evidente il riferimento è ai c.d. fattori economici ed a quelli extraeconomici, che non dipendano dal valore dell'azienda, ma possono nondimeno influenzare il valore delle azioni (fra i primi, si pensi alla categoria azionaria o al "pacchetto di maggioranza", e, fra i secondi, al prestigio dei dirigenti o alla qualità del personale). Ciò la C.S. ha affermato, richiamando Sez. Un., n. 27346 del 2009 (Rv. 610953), la quale si era occupata del danno cagionato dalla società di revisione.

Occorre peraltro rilevare che, nel caso esaminato, il socio totalitario di una s.r.l., proprietaria di una tenuta agricola già affittata a terzi, aveva promesso di vendere ad una società la sua partecipazione; ma, comunicato il preliminare all'affittuario, questi aveva rifiutato il rilascio del fondo. Di conseguenza, i due contraenti avevano rinegoziato il prezzo al ribasso, ed il socio aveva domandato in giudizio la condanna dell'affittuario a risarcirgli il danno patito per aver dovuto vendere a prezzo minore. Per altri spunti al riguardo, v. pure, in tema di società pubblica, il § 14.1.

4.3. Il patto di prelazione.

Interessanti puntualizzazioni la Corte ha compiuto in ordine a natura ed effetti della clausola di prelazione statutaria (Sez. 3, n. 12797, Rv. 623376-623377).

La natura solo obbligatoria del patto di prelazione – per la quale esso genera l'obbligo di una parte di dare comunicazione all'altra e di preferirla ad ogni altro possibile acquirente, mentre non inficia la validità dell'acquisto compiuto dal terzo estraneo, cui è inopponibile – viene dalla Corte riferita solo al caso in cui il vincolo sia inserito in un mero patto parasociale; come tale, la società vi è, in linea di principio, estranea.

Si distingue, quindi, l'ipotesi in cui il patto di prelazione sia inserito dai soci stipulanti nell'atto costitutivo (o nello statuto).

Ecco, allora, il rilievo organizzativo del patto, che così cessa di essere regolato «dai soli principî del diritto dei contratti, per rientrare, invece, nell'orbita più specifica della normativa societaria», ed ecco, altresì, l'efficacia reale della clausola di prelazione, opponibile anche al terzo acquirente «perché, appunto, si tratta di una regola del gruppo organizzato, alla quale non potrebbe non conformarsi colui che intendesse entrare a far parte di quel gruppo».

Peraltro, colui che allega la violazione della clausola di prelazione, chiedendo la caducazione della vendita di partecipazioni fra altri conclusa, deve anche dimostrare, ai sensi dell'art. 100 cod. proc. civ., il suo effettivo interesse a divenire socio in luogo dell'acquirente, in quanto l'interesse del socio pretermesso non consiste nel mero rispetto del procedimento di cessione: esso deve, insomma, concretizzarsi anche nella manifestazione di un «interesse patrimoniale all'acquisto della quota»; potendo, in contrario, riscontrarsi anche un comportamento concludente significativo di una rinuncia tacita a far valere le conseguenze della violazione del patto, attuato con riguardo a diritto di sicuro disponibile.

5. L'assemblea.

5.1. Società quotata e diritto di intervento.

Interessanti le osservazioni di Sez. 1, n. 22763 (in corso di massimazione) in tema di azioni dematerializzate.

Una società quotata aveva assunto la delibera di adozione di un piano di stock options ed aumento del capitale con esclusione del diritto di opzione, con il voto determinante di un socio.

L'impugnante sosteneva la violazione dell'obbligo – previsto dagli art. 2370 cod. civ. e 4 della legge n. 1745 del 1962, all'epoca vigenti (anno 2000) – di depositare presso la sede sociale, almeno cinque giorni prima dell'assemblea, la certificazione rilasciata dall'intermediario, attestante la partecipazione al sistema di gestione accentrata delle azioni dematerializzate.

La Corte ha però rilevato che, secondo la normativa speciale di settore dell'epoca, di cui all'art. 85 d. lgs. n. 58 del 1998, nessun obbligo di materiale deposito presso la sede sociale della certificazione attestante la partecipazione al sistema di deposito accentrato sussiste; mentre gli art. 2370 cod. civ. e 4 della legge n. 1745 del 1962 riguardano unicamente le società con azioni non quotate e non dematerializzate, onde non sarebbe corretto, in via interpretativa, trasporre a tale certificazione l'onere di deposito materiale dei titoli, in assenza della eadem ratio, nel sistema ordinario fondata sull'esigenza per la società di verificare tempestivamente i titoli di partecipazione ed impedire manovre dell'ultim'ora: verifica che compie l'intermediario autorizzato e professionale, allorché rilascia la certificazione.

Infine, il diritto all'intervento ed al voto deve essere verificato al momento dell'adunanza e, quindi, nell'assemblea in seconda convocazione il certificato può ben essere prodotto in tale momento. Tutto ciò non esclude però, secondo la C.S., una diversa clausola statutaria.

Per completezza, si ricorda che l'unica convocazione dell'assemblea, come norma suppletiva, a fini di semplificazione e riduzione dei costi per le società, è stata introdotta nell'art. 2369 cod. civ., in forza del d.lgs. 18 giugno 2012, n. 91, Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 27, recante attuazione della direttiva 2007/36/CE, relativa all'esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate (c.d. Shareholders' Rights Directive): tale facoltà, che in realtà non era prevista nella direttiva, era stata introdotta comunque nella prima attuazione di essa, con il d. lgs. n. 27 del 2010, solo per le società aperte.

5.2. Il "foglio presenze".

A proposito del verbale assembleare, la medesima Sez. 1, n. 22763 del 2012 ha escluso che il c.d. foglio presenze, dal notaio redatto per indicare i soci presenti ed allegato al verbale, abbia valore di prova privilegiata e faccia fede sino a querela di falso.

Tale documento ha, appunto, soltanto lo scopo di indicare i soggetti presenti e votanti, non certo di attestarne la qualità o i diritti di socio o l'esistenza di deleghe: non fa fede, quindi, fino a querela di falso del fatto che un soggetto sia socio, e non mero depositario o rappresentante di altro soggetto; non trattandosi dell'autenticità di un documento, ma del suo contenuto, fuori luogo è poi il richiamo all'art. 215 cod. proc. civ.

5.3. La sostituzione della deliberazione invalida.

Con la sentenza Sez. 1, n. 22762 (in corso di massimazione) è stato esaminato l'istituto della c.d. sostituzione sanante delle deliberazioni, previsto dall'art. 2377, ottavo e nono comma, cod. civ.

Nella specie, la deliberazione assembleare di approvazione del bilancio e successive operazioni sul capitale era stata, in seguito, revocata e sostituita dall'assemblea, che aveva approvato un nuovo bilancio e diverse operazioni sul capitale. La società, in sostanza, si era limitata a revocare una deliberazione e ad assumerne un'altra dai contenuti non coincidenti, onde la prima era ormai priva di effetti, ricollegabili esclusivamente alla seconda.

Del tutto privo di interesse, quindi, secondo la Corte, sia per la società che per i soci, diviene l'accertamento dell'invalidità della prima deliberazione; irrilevante, di conseguenza, stabilire se l'istituto della sostituzione sanante (o convalida, o ratifica-rinnovazione) della delibera invalida, previsto dall'art. 2377 cod. civ., sia applicabile – già prima della riforma del 2003 – alle deliberazioni nulle: in quanto tale istituto serve, in sostanza, a far salvi gli effetti della prima deliberazione, che si saldano a quelli della seconda in via retroattiva. Situazione del tutto estranea al caso in cui l'assemblea, nell'esercizio delle sue autonome determinazioni (siano poi, o no, esse spontanee, o indotte da un'impugnazione), ove non siano coinvolti diritti acquisiti di terzi, abbia proceduto semplicemente a porre nel nulla, mediante una revoca, l'originaria delibera.

5.4. Deliberazione negativa ed "impugnazione" da parte della società.

In merito alla particolare questione concernente la legittimazione della stessa società ad impugnare una deliberazione assembleare che essa reputi viziata, la sentenza Sez. 1, n. 17060 (in corso di massimazione) ha affermato che la società non è legittimata attiva, essendone, invece, unicamente la legittimata passiva.

Peraltro, nel caso di specie era accaduto che, portato il bilancio d'esercizio all'approvazione dell'assemblea, questa, in ragione della presenza di soli due soci (o gruppi di soci) titolari ciascuno del 50% del capitale, non lo aveva approvato: in sostanza, non vi era stata alcuna deliberazione sociale.

La locuzione "delibera negativa" è usata per indicare che, semplicemente, la proposta non viene approvata: la sua "impugnazione", in verità, è dunque mera azione volta all'accertamento dell'esistenza, se del caso, di un conflitto di interessi, nonché alla proclamazione di un risultato positivo.

La C.S. ha ragionato nel senso che gli amministratori hanno il potere-dovere di impugnare le deliberazioni viziate (si ricorda: individualmente, secondo la tesi minoritaria; come intero consiglio, a parere dei più): ma essi agiscono in nome proprio e non della società amministrata; questo spiega come la società sia, invece, legittimata passiva, restando la questione del conflitto di interessi in capo allo stesso amministratore legale rappresentante risolvibile mediante la nomina alla società di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ.

Nel caso esaminato, l'amministratore aveva agito spendendo il nome della società: questo, di regola, rende carente la società di legittimazione attiva ad impugnare la sua stessa deliberazione, che essa ha altri mezzi per eliminare (ad esempio, mediante la sua revoca). Ma qualche dubbio rimane, per la peculiarità del caso: "deliberazione negativa" è solo un'ellissi per dire "nessuna deliberazione". L'azione era, dunque, di mero accertamento, se si vuole costitutivo: sia dell'esistenza del conflitto in capo al socio, sia del raggiungimento effettivo del quorum e della proclamazione di un diverso risultato.

6. Il bilancio.

In tema di bilancio, la Sez. 1, n. 2758 (Rv. 621558), cui è conforme Sez. 1, n. 15944 (rv. 623784) ha fissato due importanti principî:

a) anche in caso di azzeramento del capitale e del valore della partecipazione, sussiste il diritto del socio ad una chiara, corretta e veritiera rappresentazione di bilancio, ed il conseguente interesse ad impugnare la deliberazione che lo approva;

b) il giudice è tenuto ad esaminare tutte le censure proposte al bilancio, che integrano diverse domande, essendo poi la società obbligata ad approvare un nuovo bilancio esente dai vizi riscontrati.

Quanto agli effetti della deliberazione di approvazione del bilancio, la Sez. 2, n. 4143 (Rv. 622029, cit. pure al cap. VIII, § 8) ne ha precisato i limiti, con riferimento alla convalida del negozio annullabile, che non può ravvisarsi nella mera iscrizione in bilancio del corrispettivo percepito in forza del contratto viziato da conflitto di interessi, né nella riconferma assembleare dell'amministratore nella carica.

7. Gli amministratori.

7.1. Rappresentanza.

Si ribadisce l'applicazione delle norme del diritto comune dei contratti ai profili esterni dell'attività dell'amministratore di società, cui, quando conclude contratti con i terzi, sono applicabili gli art. 1394 e 1395 cod. civ., salvo specifiche norme speciali. A tal riguardo, in tema di s.r.l. l'art. 2475 ter, primo comma, cod. civ. ha di fatto riprodotto la disciplina comune, mentre alle s.p.a. si applica direttamente quest'ultima.

La sentenza Sez. 1, n. 17640, in corso di massimazione, ha affermato, sulla scia di precedenti decisioni (cfr. Sez. 1, n. 25361 del 2008, Rv. 605375), che l'esistenza di un conflitto d'interessi tra la società garante ed il suo amministratore, ai sensi dell'art. 1394 cod. civ. – pur quando lo stesso soggetto sia, altresì, amministratore della società garantita – richiede una «relazione antagonistica d'incompatibilità degli interessi», oltre che la riconoscibilità della stessa da parte dell'altro contraente.

Interessante l'affermazione di Sez. 1, n. 3737 (Rv. 621902), la quale ha negato che l'amministratore possa ottenere dalla società il rimborso delle spese, sostenute per difendersi in un processo penale iniziato con riguardo a fatti connessi all'incarico, ai sensi dell'art. 1720 cod. civ., e ciò pure se concluso con decisione di proscioglimento, frapponendosi l'elemento causale interruttivo dell'attività di terzi.

Quanto alla presenza di un amministratore di fatto, essa – a parte i profili di responsabilità per gli atti di gestione da lui compiuti – non incide sulla qualità di rappresentante legale in capo all'amministratore formale, anche se questi non eserciti effettivi poteri gestori (Sez. 1, n. 22957, in corso di massimazione).

7.2. Revoca.

Fra le situazioni integranti giusta causa di revoca ex art. 2383 cod. civ., la Sez. 1, n. 8221 (Rv. 622597) ha ricondotto quella della partecipazione dell'amministratore ad un sindacato di gestione, il quale viola l'obbligo (e il potere) di gestire in modo esclusivo la società.

Il nuovo art. 2380 bis cod. civ. ha previsto che la gestione appartenga esclusivamente agli amministratori; il principio era immanente, secondo la Corte, all'ordinamento, già prima dell'entrata in vigore della riforma del diritto societario.

Con tale regola essenziale della materia confligge, però, la sottoscrizione ad opera dell'amministratore di un patto parasociale, che rimetta le scelte gestorie alla volontà maggioritaria dei relativi contraenti.

Dal suo canto, la sentenza Sez. 1, n. 7425 (Rv. 622534) ha valorizzato la peculiarità del rapporto gestorio, negando che la revoca costituisca una sanzione in senso tecnico ed escludendo, pertanto, la necessità della preventiva contestazione.

7.3. Compenso.

La Corte conferma il proprio orientamento, secondo cui l'incarico di amministratore di società può essere gratuito.

La S.C. ha ricondotto il rapporto tra l'amministratore di una società di capitali e la società medesima nell'ambito di un rapporto professionale autonomo, cui resta, perciò, inapplicabile l'art. 36, primo comma, Cost., che riguarda il diritto alla retribuzione in senso tecnico, laddove il diritto al compenso professionale dell'amministratore, avendo natura disponibile, può essere oggetto di una dichiarazione unilaterale di disposizione da parte del suo titolare o di rinuncia (Sez. L, n. 19714, Rv. 624428).

La Sez. L, n. 21145 (in corso di massimazione) afferma che la prescrizione del diritto al compenso decorre anche in costanza di rapporto, perché nessun conflitto di interessi con i soci può ravvisarsi, tale da impedirne il decorso, per la mera posizione di amministratore.

7.4. Responsabilità.

È affermazione tralaticia che le azioni di responsabilità di rado vengano esercitate quando la società è in bonis (caso praticamente unico è quello del cambio radicale della compagine sociale), essendo di solito intraprese dai curatori fallimentari. Non è, pertanto, infrequente che, a quel momento, sussista una situazione di grave disordine aziendale, spesso dolosa, che riguarda anche le scritture contabili, con conseguente integrazione, altresì, delle fattispecie di bancarotta.

7.4.a.

In tale evenienza, la Corte aveva da tempo affermato che la totale mancanza di contabilità sociale, o la sua tenuta in modo sommario e non intellegibile, è di per sé giustificativa della condanna dell'amministratore al risarcimento del danno in sede di azione di responsabilità promossa dalla società a norma dell'art. 2392 cod. civ., vertendosi in tema di violazione di specifici obblighi di legge, idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Sez. 1, n. 6493 del 1985, Rv. 443564). L'orientamento è stato più di recente ribadito, con la precisazione che si verifica, in tal caso, un'inversione dell'onere della prova, e l'attenuazione del relativo peso sull'attore, proprio perché il ragguardevole disordine contabile rende di fatto impossibile al medesimo fornire la dimostrazione del nesso causale fra la mala gestio ed il depauperamento del patrimonio sociale (Sez. 1, n. 5876 del 2011 Rv. 617197; n. 7606 del 2011, Rv. 617663).

Nel corso del 2012, la sentenza Sez. 1, n. 11155 (Rv. 623081) ha inteso circoscrivere tale affermazione, al riguardo chiarendo che il mancato rinvenimento della contabilità d'impresa non determina, tuttavia, in modo automatico la liquidazione del danno nella misura della differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale.

Ciò per molteplici ragioni, già altrove ricordate (cfr. Sez. 1, n. 2538 del 2005, Rv. 579472, dovuta allo stesso estensore della sentenza del 2012): lo sbilancio patrimoniale della società insolvente può avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima dell'organo, mentre la liquidazione pari al deficit fallimentare contrasta con il principio civilistico che impone di accertare l'esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno. Ad ogni modo, il criterio differenziale è ammissibile, quale parametro della liquidazione equitativa del danno, ma la rigorosa motivazione dovrà chiarire le ragioni per cui non sia stato possibile accertare gli specifici effetti pregiudizievoli, riconducibili alla condotta degli amministratori (o dei sindaci).

7.4.b.

Una delle questioni più delicate, in materia di responsabilità degli organi di società, riguarda proprio l'imputazione ed il concorso fra i singoli componenti dell'organo gestorio e sindacale, avente anche importanti implicazioni processuali: la solidarietà pone questioni concernenti l'accertamento di ciascuna singola responsabilità, l'ambito della condanna solidale e il riparto interno del debito risarcitorio.

Quando si succedano diversi amministratori, si pone il problema dell'eventuale imputazione della responsabilità a coloro che sono subentrati. La sentenza Sez. 1, n. 7425 (già citata in tema di revoca), ha chiarito, al riguardo, che non si tratta di affermare la responsabilità dei nuovi amministratori per fatti compiuti o comunque ascrivibili ai precedenti, ma di verificare se sussista una culpa in vigilando, con riguardo agli effetti che si sono prodotti nel periodo di espletamento del mandato dei nuovi amministratori, nonché di accertarne la responsabilità per non aver attivato gli atti e i comportamenti necessari a riportare la società in una situazione di legalità e regolarità gestionale.

Si è poi ribadito – Sez. 1, n. 7907 (Rv. 622795) – che fra amministratori e sindaci, convenuti con l'azione di responsabilità, si instaura un litisconsorzio facoltativo fra titolari di un'obbligazione solidale passiva. Pertanto, essi non devono necessariamente essere parti in ogni successivo grado del giudizio, e ciò anche quando taluno abbia concluso una transazione con la società per la propria quota, ai sensi dell'art. 1304 cod. civ., tale che si sciolga il vincolo di solidarietà: la graduazione di responsabilità, da operare per pronunciare le singole condanne nel quantum, potrà, invero, avvenire in via solo incidentale. Peraltro, la sentenza precisa che il litisconsorzio diviene obbligatorio, ogni volta che la fattispecie di responsabilità presupponga necessariamente l'accertamento della posizione altrui: come per la responsabilità dei sindaci, posto che la fattispecie di responsabilità ex art. 2407, comma 2, cod. civ. contempla l'omessa vigilanza; o di quella degli amministratori non esecutivi, ai sensi dell'art. 2392, commi 2 e 3, cod. civ. Gli elementi costitutivi della fattispecie, da accertare ai fini del giudizio di responsabilità dei deleganti, sono la condotta, consistente nell'inerzia; l'evento, quale fatto pregiudizievole ed antidoveroso altrui; il nesso causale mediante il c.d. giudizio controfattuale, allorché l'attivazione avrebbe impedito l'evento; la colpa, che assume le connotazioni previste dalla legge ed è presunta.

In tal caso, allora, l'accertamento dell'illecito dell'amministratore (operativo) integra un elemento necessario della fattispecie costitutiva di responsabilità in capo al soggetto tenuto alla vigilanza: dunque, a tutela del diritto di difesa l'azione contro quest'ultimo dovrà vedere in causa anche il diretto responsabile.

7.4.c.

Dal lato attivo del rapporto risarcitorio, ciascun danneggiato è titolare di un autonomo diritto di credito, né sussiste alcun legame di solidarietà attiva, sol per la comune origine del pregiudizio. Peraltro, se le parti lo chiedano, è ammissibile la liquidazione cumulativa ed equitativa del danno, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., quando, pur essendo agevole la prova del danno complessivamente patito, sia invece oltremodo difficoltosa quella del danno subito da ciascuno. Così decidendo, la Sez. 1, n. 19713 (in corso di massimazione) ha anche negato l'esistenza di un interesse meritevole di tutela del debitore alla ripartizione del quantum debeatur tra i creditori, non rilevando l'interesse di mero fatto di trarre vantaggio dalla difficoltà dei creditori di provare l'ammontare del danno patito da ciascuno di essi.

7.4.d.

In tema di reati societari, su ciascun amministratore grava – secondo Sez. 2, n. 21503 (Rv. 624317) – l'obbligo di depositare presso l'Ufficio del registro delle imprese, entro trenta giorni dall'avvenuta approvazione, una copia del bilancio societario e della documentazione ad esso correlata, ai sensi degli art. 2435 e 2630 cod. civ.: pertanto, ove lo stesso rimanga inadempiuto, ognuno risponde per fatto proprio e, pertanto, il pagamento della sanzione applicata da parte di uno degli amministratori non ha effetto estintivo del provvedimento sanzionatorio emesso nei confronti di un altro.

7.4.e.

Sul piano procedurale, infine, secondo l'art. 2393 cod. civ., è sempre possibile deliberare l'azione di responsabilità nel corso dell'assemblea fissata per l'approvazione del bilancio (anche ove non all'ordine del giorno). Pertanto, ha deciso Sez. 1, n. 13279 (Rv. 623536) che, ove lo statuto preveda la convocazione dell'assemblea ordinaria entro un dato mese dell'anno, non ne è precluso lo svolgimento in un momento successivo, sempre in sede ordinaria, e pertanto ben potrà nel corso della stessa essere deliberata, se del caso, l'azione di responsabilità sociale pur non prevista all'ordine del giorno.

8. I sindaci.

La Sez. 1, n. 15955 (Rv. 623922) ha chiarito che per i sindaci – come, deve aggiungersi, in ogni caso di responsabilità da omesso controllo – l'affermazione di responsabilità, qualora non abbiano impedito il fatto dannoso degli amministratori, richiede la specifica deduzione e prova «di eventuali fatti omissivi, addebitabili» ai medesimi, con necessaria prova dell'omesso esercizio dei doveri loro incombenti e del nesso causale con le condotte gestorie.

Pur trattandosi di profilo processuale, merita di essere segnalata, per la rarità di pronunce in tema (che ha fatto a taluno immaginare proprio nell'ambito delle inammissibilità un uso opportuno dell'art. 363 cod. proc. civ.), la Sez. 1, n. 14778 (Rv. 624190), che si è occupata del decreto di approvazione della delibera di revoca dei sindaci da parte del tribunale, ai sensi dell'art. 2400, secondo comma, cod. civ.: tale decisione puntualizza come l'esistenza della giusta causa – a differenza di quanto avviene per la revoca degli amministratori – deve essere verificata dal tribunale con accertamento sommario proprio dei riti camerali, il quale conduce ad un provvedimento che integra gli effetti della deliberazione assembleare, divenendo esso elemento di una fattispecie complessa.

Ben può, peraltro, il soggetto legittimato procedere all'impugnazione della delibera con autonomo giudizio di cognizione, ai sensi dell'art. 2377 cod. civ., che resta sempre ammissibile e non è in alcun modo vincolato al precedente decreto.

Ne consegue l'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso quest'ultimo, nonché verso il decreto della corte d'appello che abbia respinto il reclamo, non sussistendo alcuna pronuncia irrevocabile sul diritto soggettivo dell'organo al mantenimento della carica.

9. Il controllo giudiziario.

La figura dell'amministratore giudiziario nominato all'esito del procedimento di cui all'art. 2409 cod. civ. – dalla riforma del 2003, come è noto, ridimensionato nelle sue concrete possibilità applicative – è stata considerata da Sez. 1, n. 9241 (Rv. 622599), la quale ha confermato che non è un ausiliario del giudice, onde non deve trovare spazio il procedimento speciale di liquidazione dei compensi spettanti agli ausiliari, essendo invece esperibile avverso il provvedimento di liquidazione, emesso dal tribunale a norma dell'ultimo comma dell'art. 93 disp. att. cod. civ., avente natura monitoria, solo l'opposizione ex art. 645 del codice di rito (si veda da ultimo, in tal senso, Sez. 2, n. 7631 del 2011), procedimento destinato a concludersi con una sentenza appellabile.

Sebbene pubblico ufficiale, la prestazione del soggetto nominato dal tribunale resta quella propria di un amministratore di società, «pur se con caratteristiche e regole in parte sui generis, instaurandosi tra l'una e l'altro un rapporto da cui deriva un credito per remunerazione di attività che nulla consente di ritenere indisponibile».

Secondo la sentenza, dunque, è lecito un accordo tra la società e l'amministratore giudiziario concernente l'importo del compenso, che non è vincolante per il giudice, il quale, peraltro, può ben recepirlo nel suo provvedimento di liquidazione: l'accordo resta così «condizionato all'emanazione di un successivo provvedimento giudiziale che non lo contraddica». Ma, certamente, non si tratta di accordo solo per questo nullo, né, quindi, esso rende illegittimo il successivo provvedimento giudiziale di liquidazione che vi si è adeguato.

Naturalmente, potrebbero sussistere, in concreto, ragioni di nullità dell'accordo transattivo concluso fra la società e l'amministratore giudiziario e queste comporterebbero la conseguenza che, in sede di procedimento per la liquidazione del compenso, di essa il giudice non potrebb tener conto in alcun modo.

Nel caso di specie, invece, la società – in persona del nuovo amministratore unico – aveva dedotto un mero vizio di annullabilità: l'avere la società concluso l'accordo in persona dello stesso amministratore giudiziario (dunque, la fattispecie dell'art. 1395 cod. civ., integrata dal conflitto di interessi in capo al pubblico ufficiale). Ma, dal momento che l'atto annullabile produce i suoi effetti sino a quando non venga annullato, il tribunale legittimamente ha preso a fondamento l'accordo per il suo decreto e quei vizi non possono essere fatti valere in via di mera eccezione nell'ambito del procedimento, ad oggetto limitato, di opposizione alla determinazione del compenso spettante all'amministratore giudiziario.

10. La responsabilità da informazioni inesatte nei gruppi.

Interessante la questione affrontata dalla Sez. 3, n. 3003 (Rv. 621538, di cui si è fatta menzione al cap. XI, § 4.1), che ha cassato con rinvio la sentenza di appello, la quale aveva ritenuto responsabile la Gepi s.p.a. (e, per essa, la società che ne ha acquisito la posizione), quale controllante di una società, per i danni lamentati dall'altro contraente, il quale sosteneva di aver continuato ad eseguire forniture alla propria cliente, la società controllata, come conseguenza della condotta della controllante.

La C.S. ha premesso che:

- non risultava dedotta una ingiusta lesione del credito, per la quale occorre assumere che la condotta della società controllante di una delle società contraenti sia tale da determinare l'impossibilità di adempiere da parte di quest'ultima;

- parimenti, non risultava dedotta la fattispecie di responsabilità della capogruppo, disciplinata dall'art. 2497 cod. civ.;

- l'effettiva configurazione era quella di una lesione dell'affidamento riposto dalla contraente nelle "assicurazioni" della controparte contrattuale e della sua controllante, onde si tratta di illecito c.d. da informazioni (o dichiarazioni) false o inesatte (che non siano di per sé vincolanti e coercibili, come invece nella lettera di patronage "forte").

Ed allora, valendo i principî che regolano l'onere della prova degli elementi oggettivi e soggettivo della responsabilità aquiliana, la C.S. ha censurato la sentenza impugnata, che aveva imputato alla controllante tutte condotte pienamente logiche e lecite: quali l'avere, possedendo il 70% della partecipazione nella controllata, collocato persone di sua fiducia ai vertici dell'amministrazione, cosa che «corrisponde al fisiologico rapporto tra società controllante e società controllata»; il non avere manifestato la critica situazione finanziaria in cui versava la società contraente, deduzione irrilevante, dal momento che la difficoltà finanziaria era addirittura «il presupposto stesso dell'intervento della Gepi»; l'avere questa, quale socio di maggioranza, disertato le assemblee per l'approvazione del bilancio, circostanza «del tutto irrilevante, se non collegata ad un corrispondente obbligo di partecipazione», che non esiste; l'avere, infine, indotto la controllata ad acquisire ulteriori forniture di materie prime per mandare avanti l'azienda, «comportamento del tutto normale da parte di un contraente che, già in cattive condizioni finanziarie, ha visto patrimonialmente subentrare nella sua componente maggioritaria un'azienda di Stato».

E, dunque, il rinvio si imponeva, in sintesi avendo la Corte demandato al giudice del merito di «accertare se la ripresa e/o la continuazione delle forniture (…) sia stata conseguenza di dichiarazioni e/o informazioni false od ingannevoli» o se la società controllata «si sia spontaneamente indotta a riprendere le forniture perché fiduciosa nel nuovo apporto di capitale pubblico nell'azienda in crisi».

11. La trasformazione.

Se ammette il contratto preliminare di trasformazione – quale atto preparatorio utile al perseguimento di interessi meritevoli, non vietato dalla natura dell'atto definitivo – la sentenza Sez. 1, n. 13904 (Rv. 623453) esclude tuttavia il ricorso all'art. 2932 cod. civ., al fine di eseguire il preliminare in forma specifica, mediante una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso.

Com'è noto, l'art. 2932 cod. civ. contiene, molto opportunamente, l'inciso «qualora sia possibile», norma interpretata con riguardo ad ogni tipo di impedimento, per lo più giuridico, alla conclusione coattiva del contratto. Una di queste fattispecie è stata rinvenuta dalla Corte nel procedimento di trasformazione della società.

La riforma, se ha ampliato le ipotesi di legittimità dell'operazione, ha sostanzialmente confermato l'iter necessario per realizzarla, che prevede numerosi adempimenti (art. 2500 e segg. cod. civ.). Nel particolare caso della trasformazione progressiva da società in accomandita semplice a società a responsabilità limitata, dunque, la Corte non ha ritenuto possibile sostituire alla volontà delle parti una sentenza, soprattutto quanto alla decisione dei soci circa la determinazione della misura del capitale sociale.

12. La fusione.

Si ricorda che, nel corso dell'anno, è intervenuto il d. lgs. 22 giugno 2012, n. 123, il quale, in attuazione della direttiva 2009/109/CE, ha apportato alcune modifiche ai procedimenti di fusione e scissione, in particolar modo per quanto riguarda l'assolvimento dell'obbligo di pubblicazione del progetto mediante messa a disposizione dei documenti, in alternativa al registro delle imprese, sul sito internet delle società coinvolte (rilevante innovazione, dato che da quel momento decorrono i trenta giorni da attendere prima della delibera, onde si dovrà trovare il mezzo tecnico di certezza di tale momento), richiedendo la norma appunto che ciò avvenga «con modalità atte a garantire la sicurezza del sito, l'autenticità dei documenti e la certezza della data di pubblicazione»; si prevede, inoltre, l'esonero dall'obbligo di redazione della situazione patrimoniale, se sussista la rinuncia unanime dei soci e dei possessori di strumenti finanziari.

La materia delle fusioni è stata oggetto nel 2012 di alcune importanti pronunce.

12.1.

La sentenza Sez. 1, n. 8864 (Rv. 622841) ha sottolineato i limiti di legge, posti dall'art. 2504 quater cod. civ. alla possibilità di caducare la delibera di approvazione del progetto e della proposta di fusione, una volta che l'atto sia iscritto nel registro delle imprese.

Già in passato la Corte aveva individuato, nell'iscrizione dell'atto di fusione, una preclusione assoluta alla declaratoria di nullità e di annullabilità della deliberazione che la fusione abbia approvato (Sez. 1, n. 28242 del 2005), in quanto la delibera, così come ogni altra attività preparatoria, ha rilievo essenzialmente endoprocedimentale.

Tale esito viene ora affermato anche per le ipotesi di inesistenza giuridica della deliberazione assembleare di fusione, nei limiti in cui questa nozione abbia ancora spazio nell'ordinamento societario, in quanto essa non condurrà mai alla inesistenza dell'atto di fusione: purché, però, esista una «sequenza procedimentale priva di significative e riconoscibili anomalie esteriori».

Come è noto, la III direttiva 78/855/CEE del 9 ottobre 1978 limitò i casi di nullità della fusione, controbilanciando la disciplina sia con un procedimento dettagliato, al fine di assicurare un'informazione quanto più adeguata e obiettiva, sia con l'azione risarcitoria contro gli amministratori dell'incorporata e contro gli esperti.

In un primo momento, la commissione ministeriale incaricata del recepimento predispose un testo che seguiva da vicino l'art. 22 della direttiva, ammettendo la caducazione dell'atto di fusione in alcuni casi (invalidità della delibera, mancato controllo preventivo del tribunale, mancanza dell'atto pubblico ove richiesto), , di cui il primo assai generico, con il ripristino della situazione anteriore e con affidamento al giudice del compito di stabilirne le regole.

Tuttavia, l'invalidazione della fusione pone problemi spesso insolubili, con riguardo alla suddivisione dei patrimoni unificati, alla ricostituzione delle compagini sociali ed alle diseconomie in tal modo create. Si optò, pertanto, per il testo dell'art. 2504 quater cod. civ., tuttora vigente.

Più di recente, anche nelle fusioni transfrontaliere l'art. 17 del d. lgs. n. 108 del 2008 detta una disciplina preclusiva (la direttiva 2005/56/CE non conteneva la clausola di salvaguardia relativa al risarcimento del danno, da noi introdotta per conformità al diritto interno; Francia e Spagna hanno seguito il testo europeo, mentre regimi simili già avevano Inghilterra, Irlanda e Danimarca; come noi ha legiferato, invece, la Germania). Nel contempo, il legislatore italiano ha concesso un'ampia tutela risarcitoria, non limitandosi a menzionare soltanto amministratori ed esperti, quali legittimati passivi.

Varie le tesi avanzate, come è noto, sin dall'inizio dagli interpreti, al fine di ridurre la portata preclusiva dell'art. 2504 quater cod. civ.: distinguere vizi di invalidità diretta e derivata, limitando così l'applicazione della preclusione ai primi (tanto che potrebbero essere sempre fatti valere, ad esempio, i vizi relativi al bilancio di fusione, al rapporto di cambio, alle deliberazioni); escludere dall'ambito d'applicazione della norma le ipotesi di "inesistenza" della fusione (ravvisata in caso di divergenza eccessiva dell'atto di fusione rispetto alle deliberazioni prodromiche, oppure quando siano mancati il progetto, la deliberazione o la sottoscrizione dell'atto di fusione) o in ipotesi di sussistenza di vizi particolarmente gravi, come la violazione della l. 10 ottobre 1990, n. 287 in tema di antitrust; ammettere la modificazione successiva del concambio, ferma la fusione; escludere le cause d'inefficacia dell'atto di fusione, ipotizzate per la fusione iscritta in pendenza di opposizione dei creditori o del termine per proporla (nel qual caso cioè l'opposizione sarebbe ancora possibile, pur dopo l'iscrizione).

Orbene, la sentenza n. 8864 ha menzionato il dibattito esistente in dottrina al riguardo, così come nella giurisprudenza di merito, ma ha affermato «con nettezza che qualsiasi tentativo di configurare l'inesistenza giuridica di un atto di fusione regolarmente iscritto nel registro delle imprese, allo scopo di distinguerla dalla semplice invalidità e di escludere l'assoggettabilità della fattispecie al regime delineato dal citato art. 2504 quater, deve confrontarsi con la già ricordata ratio ispiratrice di detto articolo; deve, cioè, tener conto dell'esigenza di tutela dell'affidamento dei terzi e di stabilità e certezza dei traffici giuridici cui quel regime s'ispira».

Ne deriva che, a tutto concedere, l'inesistenza giuridica dell'atto iscritto nel registro si potrebbe sostenere solo qualora «il procedimento ne risultasse a tal punto stravolto da apparire manifestamente irriconoscibile nei suoi tratti essenziali anche ai terzi, ai quali però non può farsi carico di una verifica che vada oltre l'individuazione nel registro di una sequenza procedimentale completa nella sua esteriore apparenza».

Ciò che rileva, in sostanza, come emerge dal principio di diritto enunciato, è che l'iscrizione dell'atto di fusione sia avvenuta in base ad una «sequenza procedimentale priva di significative e riconoscibili anomalie esteriori»: perché, allora, neppure la pretesa inesistenza della deliberazione assembleare può comportare l'inesistenza anche dell'atto di fusione, ormai iscritto nel registro, con il conseguente difetto d'interesse a far accertare la stessa inesistenza della deliberazione.

Pertanto, a parte l'ipotesi di inefficacia dello stesso atto di fusione (su cui la sentenza non ha avuto modo di pronunciarsi), l'efficacia preclusiva viene affermata come completa, purché esista una riconoscibile sequenza procedimentale di fronte ai terzi, nel prevalente interesse alla certezza dei rapporti giuridici societari: e la Corte ricorda come la norma dell'art. 2504 quater cod. civ. sia «dichiaratamente ispirata dall'esigenza di assicurare la certezza e la stabilità dell'atto, salvaguardando perciò stesso l'affidamento dei terzi, in considerazione del fatto che la sua eliminazione rischierebbe altrimenti di travolgere gli effetti dell'avvenuta integrazione giuridicoaziendale di realtà societarie ormai non più agevolmente districabili l'una dall'altra».

La pubblicità dell'atto di fusione assume, pertanto, la duplice funzione di pubblicità costitutiva, ai fini del perfezionamento della fattispecie (art. 2504 bis, comma 2, cod. civ.) e di pubblicità sanante, idonea a rendere irretrattabili gli effetti di unificazione patrimoniale e soggettiva proprî del procedimento di fusione.

La norma non presenta profili di incostituzionalità, secondo la sentenza n. 8864: perché la regola da essa dettata si lega sia alla necessità di tutela del pubblico affidamento, sia all'irregredibilità degli effetti organizzativi prodotti.

In ogni caso, deve ricordarsi che l'efficacia sanante riguarda il procedimento e l'an della fusione, non altri vizi della nuova società, anche occasionati dalla fusione, come ad esempio un oggetto sociale o una denominazione illeciti.

12.2.

La fusione è stata esaminata dalla Corte nel 2012 anche sotto il profilo delle operazioni fiscali elusive, dal giudice di legittimità richiamate con sempre maggior cautela, attesa la delicatezza del ricorso a tale argomentazione.

La Sez. 5, n. 19234 (Rv. 624221) ha ravvisato la figura nel caso di un atto di fusione ad effetti anticipati, stipulato dopo l'entrata in vigore delle disposizioni antielusive di cui all'art. 7 del d.lgs. n. 358 del 1997, dove le parti avevano convenzionalmente fatto risalire gli effetti a data antecedente l'entrata in vigore della norma. Ciò, secondo la ormai costante nozione di abuso, quale «principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici».

In modo diverso, però, la sentenza Sez. 5, n. 21390 (Rv. 624438), dopo aver puntualizzato la richiamata nozione di abuso del diritto in materia tributaria, ha affermato che «il carattere elusivo di un'operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali» ed, ha quindi, negato che incorra nel divieto di abuso un'operazione, spiegabile altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta: come nella scelta di acquistare le quote della società proprietaria di un terreno, invece che concludere con essa una fusione societaria: non potendo, invero, ritenersi fungibili, sotto il profilo degli effetti giuridici ed economici e rispetto all'obiettivo economico da conseguire, la cessione di quote sociali e la fusione per incorporazione.

13. La società a responsabilità limitata.

Questo tipo sociale, la cui autonoma configurazione rispetto alla società azionaria è stata una delle linee conduttrici della riforma di quasi un decennio fa, è caratterizzata oggi, salvo alcuni inevitabili rinvii, da una disciplina a connotazioni proprie, essenzialmente dovute al suo carattere personalistico.

13.1.

Ciò si apprezza, fra l'altro, con riguardo ai tempi ed alle modalità per la convocazione dell'assemblea dei soci.

Per le s.p.a. chiuse, l'art. 2366 cod. civ., a parte la regola della pubblicazione dell'avviso di convocazione nella Gazzetta Ufficiale o su di un quotidiano almeno quindici giorni prima dell'assemblea, prevede che lo statuto possa consentire la convocazione mediante avviso comunicato ai soci «con mezzi che garantiscano la prova dell'avvenuto ricevimento almeno otto giorni prima dell'assemblea».

Per le s.r.l., l'art. 2479 bis cod. civ., sostanzialmente analogo al precedente art. 2484 cod. civ., richiede invece la «lettera raccomandata spedita ai soci almeno otto giorni prima dell'adunanza nel domicilio risultante dal registro delle imprese». La norma regolamenta, quindi, sia il modo (con lettera raccomandata), sia il tempo (almeno otto giorni prima dell'adunanza), sia il luogo in cui l'avviso deve essere spedito (nel domicilio risultante dal libro dei soci), prescrizioni tra loro logicamente connesse (così Sez. 1, n. 15672 del 2007, Rv. 600415).

Il dibattito sull'interpretazione della disposizione è risalente, e mai davvero composto, anche presso i giudici di merito, oscillando la soluzione fra la tutela prevalente dell'interesse del singolo socio (onde la lettera deve non solo essere spedita almeno otto giorni prima, ma anche pervenire all'indirizzo del destinatario con un anticipo tale da consentirgli sia la materiale partecipazione all'assemblea, sia un'adeguata attività di preparazione al dibattito) e quella dell'interesse all'efficienza dell'agire imprenditoriale e alla facilità di documentazione (di tal che la spedizione tempestiva fonda la presunzione di tempestività della convocazione, indipendentemente dalla data di ricezione, peraltro comunque necessaria).

La Sez. 1, n. 15672 del 2007 aveva deciso che, ove il socio, per statuto, dichiari all'uopo il suo domicilio, ed a questo la raccomandata venga spedita, la convocazione è legittima e grava su di lui il rischio dell'inesatta indicazione di domicilio causa della mancata ricezione, secondo il dovere di esecuzione secondo buona fede del rapporto tra i soci e con la società stessa. Ma, per la particolarità della fattispecie, non era stata ivi affrontata la questione se, per reputare rispettato il termine di convocazione dell'assemblea di società a responsabilità limitata, debba tenersi conto, o no, anche del momento della ricezione dell'avviso.

Uno spunto, peraltro, è in essa contenuto, laddove individua «la ragione per la quale il legislatore ha adoperato nella norma in esame il verbo "spedire" (anzichè quello "ricevere" o "comunicare"), giacchè quel che conta è appunto che l'avviso sia spedito al domicilio risultante all'amministratore che convoca l'assemblea, anche se eventualmente possa esservi un difetto di ricezione dovuto a cause imputabili al socio», ovvero l'inesattezza del domicilio indicato.

La questione è stata, ora, rimessa Sezioni Unite, in quanto di particolare importanza, dall'ordinanza Sez. 1, ord. n. 14770 del 2012, la quale ha posto l'accento anzitutto sul problema se sussista la possibilità, o no, per il socio di provare che l'avviso non sia giunto in tempo utile per cause a lui non imputabili; e, quindi, ha sollecitato una riflessione con riguardo all'ammissibilità, per il giudice del merito, di valutare se lo spatium di fatto avuto dal socio sia accettabile secondo buona fede, ed alla rilevanza dell'informazione ricevuta dal socio aliunde.

13.2.

Una delle norme più innovative in materia di s.r.l. è l'art. 2467 cod. civ., per il quale il rimborso dei finanziamenti fatti dai soci in favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori.

Tra la società e i soci può essere convenuta l'erogazione di capitale di rischio o di credito: con la prima, i soci effettuano versamenti in favore della società a titolo di mutuo, con o senza interessi e con diritto alla restituzione della somma; con la seconda, ove al di fuori di un ordinario aumento del capitale, il versamento ha la finalità economica di fornire alla società mezzi proprî (ulteriori rispetto a quelli forniti dai soci in via di conferimento del capitale nominale), in cui suole ravvisarsi un contratto atipico di conferimento di capitale, che in taluni casi, ed in dipendenza della pattuizione specifica fra le parti, non dà diritto alla restituzione sino allo scioglimento della società (e nei limiti dell'eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione).

La norma menzionata, nel prevedere la regola della postergazione alla soddisfazione degli altri creditori per i finanziamenti concessi dal socio alla società in presenza di un «eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento», pone una condizione di inesigibilità del credito del socio: la regola mira a tutelare i creditori sociali dalla sottocapitalizzazione della società, che viene allora finanziata con apporto di capitale di rischio, ma senza formale imputazione a capitale sociale, cosicché i soci finiscono per coinvolgere i terzi creditori nel rischio d'impresa e, in definitiva, nel rischio della insolvenza.

La regola pone, perciò, un principio di corretto finanziamento dell'impresa.

Già la C.S. aveva avuto occasione di occuparsi dell'art. 2467, statuendo che essa si riferisce alla figura dei cosiddetti prestiti anomali (o "sostitutivi del capitale") effettuati al fine di porre rimedio alle ipotesi di sottocapitalizzazione c.d. nominale (Sez. 1, n. 16393 del 2007, Rv. 599427, 599428): secondo la sentenza, è stato «introdotto, per le imprese che siano entrate o stiano per entrare in una situazione di crisi, un principio di corretto finanziamento la cui violazione comporta una riqualificazione imperativa del "prestito" in "prestito postergato" (rispetto alla soddisfazione degli altri creditori)».

La giurisprudenza di merito si è divisa, peraltro, circa l'ambito temporale di applicazione della norma, se esso vada cioè limitato ai finanziamenti eseguiti dopo la sua entrata in vigore, od esteso a quelli in corso ed ancora da rimborsare a tale data.

La sentenza Sez. 1, n. 12003 (Rv. 623449) ha ora deciso che, non esistendo una disciplina ad hoc in deroga al divieto di applicazione retroattiva della legge (art. 11 preleggi), la norma – e quella analoga dell'art. 2497 quinquies cod. civ. sui finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento – non si applica ai finanziamenti conclusi prima del 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della riforma del diritto societario di cui al d. lgs. n. 6 del 2003, avendo essa introdotto una nuova disciplina di diritto sostanziale non interpretativa.

Al riguardo, la Sez. 1, n. 2758 (Rv. 621558), sopra menzionata in tema di bilancio, ha altresì preso in esame le varie forme di erogazioni dei soci in favore della società, distinguendo le somme versate a titolo di mutuo dai versamenti destinati a confluire in apposita riserva "in conto capitale", o altre simili denominazioni, più simili al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della loro restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale residual claimant.

14. Le società pubbliche.

Le società di capitali partecipate dagli enti pubblici economici possono essere considerate, per loro natura, secondo una doppia prospettiva, cumulando i fini pubblicistici dell'ente proprietario con l'attività di impresa svolta dalla società. Di qui, i ricorrenti dubbi con riguardo ai vari aspetti della loro disciplina: dai rapporti organizzativi interni alla vendita delle partecipazioni, in bilico tra la scelta del socio privato ed il diritto dei contratti; dallo status degli amministratori di nomina pubblica al rapporto con i dipendenti; dal diritto dei beni, con riguardo al patrimonio ed al regime degli appalti attivi e passivi, sino ai problemi del gruppo societario e del fallimento.

Se, in taluni casi, norme ad hoc delineano uno statuto speciale di singole società partecipate, non può dirsi invece che le norme del codice civile in tema di società a partecipazione pubblica valgano di per sé a configurare, sempre e comunque, un simile statuto.

Gli interpreti oscillano da una nozione formale ad una sostanziale di soggetto pubblico o privato; inevitabilmente, le opinioni sembrano influenzate dalla prospettiva scientifica dell'osservatore.

Sul sistema, peraltro, potranno avere un'influenza anche le rilevanti innovazioni introdotte dal legislatore nel 2012: ci si riferisce, da un lato, alle disposizioni volte ad attribuire al governo il c.d. golden power su società operanti in settori strategici e d'interesse nazionale, ai sensi del d.l. 15 marzo 2012, n. 21, convertito nella legge 11 maggio 2012, n. 56; dall'altro, alle prescrizioni in tema di riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche, contenute nell'art. 4 del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, il cui comma 13 contiene, fra l'altro, una norma interpretativa, che non mancherà di fornire anche spunti sistematici ("Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali").

14.1.

La Corte dà continuità – in sede di riparto di giurisdizione e di azione di responsabilità (se amministrativa o civile) in società in mano pubblica – all'orientamento secondo cui le società di capitali, sebbene a partecipazione pubblica, si inscrivono nella disciplina societaria di diritto comune, salve specifiche norme derogatorie, in quanto operanti in regime di diritto privato ed aventi una personalità distinta ed una conseguente autonomia patrimoniale rispetto ai propri soci, quindi rispetto all'ente pubblico partecipante.

Le Sezioni unite, nel corso del 2012, hanno avuto occasione, in particolare, di affermare il principio con riguardo ai confini della giurisdizione, ordinaria o contabile, allorché si discuta dei danni cagionati per mala gestio dal soggetto che amministra la società o da un suo dipendente.

Sin dall'arresto delle Sez. Un. n. 26806 del 2009 (Rv. 610656), l'orientamento è stato ribadito, anche in relazione a società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totalitaria, e pure se sottoposte a penetranti poteri di controllo dell'ente pubblico o se la società gestisca un servizio pubblico essenziale (Sez. Un., ord. n. 14655 del 2011, Rv. 618242; Sez. Un., n. 14957 del 2011, Rv. 618223; Sez. Un., ord. n. 20941 del 2011, Rv. 618979; Sez. Un., n. 4309 del 2010, Rv. 611565; Sez. Un., ord. n. 519 del 2010, Rv. 611215), non senza qualche voce parzialmente discorde (n. 10062 del 2011, non massimata, e n. 10063 del 2011, Rv. 617762).

La giurisdizione della Corte dei conti viene negata perché non se ravvisano i presupposti: il rapporto di servizio e il danno erariale.

Si afferma invero, sotto il primo profilo, che, pur nell'ipotesi in cui la società per azioni intrattenga con la pubblica amministrazione un rapporto di servizio funzionale al perseguimento degli scopi di essa, l'esistenza di un tale rapporto, idoneo a fondare la giurisdizione del giudice contabile, può essere configurata in capo alla società, ma non anche personalmente in capo ai soggetti (organi o dipendenti) della stessa, essendo questa dotata di autonoma personalità giuridica che la distingue dalla persona dei soci, quale caposaldo del diritto commerciale (ciò, sebbene, com'è noto, la C.S. accolga ormai una prospettiva sostanzialistica, sostituendo al criterio eminentemente soggettivo, che identificava l'elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell'agente, un criterio oggettivo, facente leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie adoperate: il rapporto di servizio può esistere senza che rilevi la natura giuridica dell'atto di investitura – provvedimento, convenzione o contratto – o del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica).

Sotto il secondo profilo, si rileva che manca un danno erariale, perché il pregiudizio è arrecato al patrimonio della società, non al socio pubblico (che, ove risenta in via indiretta della compromissione del valore o redditività della partecipazione, può semmai esercitare un'azione di responsabilità amministrativa verso il funzionario che abbia male esercitato i poteri per conto del socio pubblico). In sostanza, quando del danno il socio risenta solo indirettamente, anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo pregiudizio.

In questa linea di pensiero, che viene estesa anche al regime di responsabilità dei dipendenti, Sez. Un., n. 3692 (Rv. 621677, su cui cfr. pure il vol. II, cap. XXIII, § 1.2), nel confermare il proprio orientamento (Sez. Un., n. 674 del 2010, Rv. 611546, in controversia analoga), ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario sull'azione di responsabilità a carico di un dipendente di Poste italiane s.p.a., per il danno patrimoniale subito dal patrimonio sociale.

Rileva la sentenza come la conclusione non muti in forza del d.l. 1° luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 30 ter, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, il quale ha limitato l'azione della procura contabile per il danno all'immagine cagionato all'ente al caso di presenza di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti.

Precisa, altresì, la Corte che a tale giurisdizione non osta la qualificazione della società come organismo di diritto pubblico (nella specie, per aver subito il danno nell'esercizio della gestione del servizio pubblico di vendita di valori bollati). Infatti, come già statuito (Sez. Un., n. 14655 del 2011, Rv. 618242), la natura di organismo di diritto pubblico non è di ostacolo alla giurisdizione del giudice ordinario per danni inferti direttamente al patrimonio della società per azioni, operando gli istituti che operano su piani differenti.

Specularmente, sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in ordine all'azione risarcitoria proposta nei confronti del rappresentante di un ente pubblico titolare di una partecipazione totalitaria in una società di capitali, laddove abbia tenuto, nella gestione del pacchetto azionario e nell'esercizio dei suoi poteri di socio, una condotta dannosa per l'ente (Sez. Un., n. 20940 del 2011, Rv. 619039). In tal caso, l'azione erariale concorre con l'azione di responsabilità per i danni al socio o al terzo, di cui agli art. 2395 e 2476, sesto comma, cod. civ.

In definitiva, si attribuisce carattere dirimente alla natura giuridica (privatistica o no) del soggetto immediatamente danneggiato e del suo patrimonio (altro, poi, è il caso di società o associazioni in tutto private, che comunque disperdano fondi pubblici, ricevuti mediante finanziamenti e dove, quindi, è ravvisabile la giurisdizione contabile: cfr. Sez. Un., n. 5019 del 2010, Rv. 611843; tema peraltro estraneo a quello delle partecipate dagli enti pubblici).

In modo solo implicito, la prevalenza della veste formale azionaria sui fini pubblicistici dell'ente controllante, al fine di risolvere le questioni relative alla revoca dell'amministratore, sembra trovarsi pure nella sentenza Sez. 1, n. 7425 (Rv. 622534), la quale – pur senza porsi espressamente la questione – con riguardo a società assicuratrice comunale ha ritenuto che non occorra, ai fini della revoca assembleare per giusta causa dell'amministratore di s.p.a., la previa contestazione degli addebiti, in quanto la revoca non costituisce una sanzione. Si trattava del regime sugli organi di amministrazione attiva, consultiva e di controllo dello Stato e degli enti pubblici, nonché delle persone giuridiche a prevalente partecipazione pubblica, introdotto da vari decreti legge non convertiti ed, infine, dal d.l. 16 maggio 1994, n. 293, convertito dalla legge 15 luglio 1994, n. 444.

14.2.

Sempre in materia di giurisdizione, l'ordinanza Sez. Un., n. 8511 (Rv. 622718) ha sancito la giurisdizione del giudice ordinario, in ordine all'appalto passivo di fornitura di distributori automatici di banconote (postamat); di essa si è dato conto altrove (cap. XVIII, § 1).

14.3.

La Corte ha poi esaminato il profilo dell'assunzione dei dipendenti delle società a partecipazione pubblica totale o di controllo, le quali – ai sensi dell'art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, convertito nella legge n. 133 del 2008 – «adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principî, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità». La S.C. (Sez. 6-L, ord. n. 3831, Rv. 621266, menzionata nel lavoro pubblico, cap. 15, § 13) ha stabilito che è nulla la clausola del contratto aziendale, il quale subordini il reclutamento del personale all'esistenza di vincoli di parentela tra nuovo assunto e dipendenti dell'azienda: come già in passato (Sez. L, n. 570 del 2002, Rv. 551676) affermato per il bando di concorso dell'ente pubblico economico, infatti, non è ammesso condizionare l'assunzione ad una circostanza estranea alla professionalità del lavoratore, né ad includendum e né ad excludendum, perché ciò viola il principio di imparzialità.

14.4.

Infine, assai interessante la sentenza Sez. 1, n. 21991 (in corso di massimazione), la quale ha affrontato il problema della fallibilità delle società a partecipazione pubblica, nella specie una società consortile di servizi, che aveva costruito e gestiva un parcheggio portuale multipiano.

Com'è noto, l'art. 1 della legge fall. esclude da fallibilità «gli enti pubblici» e tale disposizione si riconduce all'incompatibilità della procedura rispetto all'attività di tali enti, volta al perseguimento di interessi pubblici essenziali, che ne resterebbe paralizzata.

Nel caso esaminato, vari indici, secondo la ricorrente, palesavano il necessario esonero da fallimento, quali: la costituzione in forza di delibera comunale, che aveva approvato lo statuto; il ricorso alla procedura di evidenza pubblica per la selezione del socio privato; l'influenza degli "atti programmatori" del Comune sull'attività svolta dalla società; la sottoposizione ai controlli del Ministero dell'Economia ex art. 60 d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che espressamente quindi contiene la qualifica di ente pubblico, e l'avere di fatto subito un'ispezione; l'avvenuta costruzione, quale ente strumentale del Comune, di un parcheggio multipiano, al fine di risolvere i problemi della sosta degli autoveicoli in città; lo svolgimento di attività amministrativa e fiscale per conto dell'ente locale, in particolare con la riscossione della tariffa per il parcheggio; infine, l'avere la società ricevuto un rilevante finanziamento bancario da parte di istituto di credito che, per statuto, erogava il credito solo ad enti pubblici, e per il quale il Comune aveva prestato fideiussione.

L'argomento centrale, utilizzato dalla Corte Suprema per reputare la fallibilità dell'ente, è, in primo luogo, nella circostanza che l'oggetto sociale, come accertato dalla corte d'appello, era assai ampio e tipico di qualsiasi imprenditore privato (costruzione di parcheggi, gestione di servizi portuali e turistici, trasporto, gestione di mense, ecc.): laddove si esclude il fallimento soltanto «quando la società ha quale oggetto sociale esclusivo un servizio tramite il quale l'Ente pubblico raggiunge scopi istituzionali».

In secondo luogo, lo statuto, o inesistenti patti parasociali, non prevedevano poteri del socio pubblico, diversi da quelli contemplati dal diritto comune per il socio di maggioranza: quali l'attribuzione di diritti speciali, clausole di gradimento, quorum assembleari più favorevoli, autorizzazioni o pareri, cui la società dovesse sottoporre il suo operato, destinazioni alternative degli utili, nomina del liquidatore da parte del socio pubblico come tale.

Restano, invece, irrilevanti per la Corte – che conferma così la propria giurisprudenza – sia la natura pubblicistica del pagamento della tassa per il servizio, sia il potere ministeriale di vigilanza, che rileva nei rapporti con l'ente locale e non con i terzi, e che nel caso esaminato atteneva solo al costo del lavoro; mentre nessun organismo di diritto pubblico è ravvisabile ove la società operi in regime di libera concorrenza, e non sia volta a perseguire fini generali aventi carattere non industriale e commerciale (cfr. Sez. Un., n. 8225 del 2010, Rv. 612507, nonché Sez. Un., ord. n. 13792, Rv. 623288, in tema di giurisdizione del g.a. ex art. 133 cod. proc. amm., negata con riguardo ad un'associazione non riconosciuta di sviluppo delle attività enologiche sul territorio di alcuni Comuni).

15. La cancellazione.

L'art. 2495, primo comma, cod. civ. prevede che «approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese».

Già in questo momento al conservatore (ed al giudice del registro) si pone il problema dell'ambito dei controlli eseguibili, ossia se egli possa e debba rifiutare l'iscrizione, ove risultino rapporti pendenti. Occorre ricordare che la legge non prevede l'opposizione dei creditori alla liquidazione, alla cancellazione o alla distribuzione di acconti sulla quota di liquidazione (salvo la limitata tutela dell'art. 2545 octiesdecies, comma 2, cod. civ., per le cooperative).

Al secondo comma dell'art. 2495, l'inciso iniziale non lascia dubbi: con la cancellazione la società si estingue: il principio è, dunque, che la cancellazione dal registro delle imprese produce l'effetto costitutivo dell'estinzione (irreversibile?) della società, anche in presenza di rapporti di debito-credito insoddisfatti e o di altro tipo non definiti.

L'estensione temporale di applicazione della norma non è oggetto di queste brevi note, in quanto ormai dato incontestato presso la Corte Suprema sin dal 2010 (Sez. Un., n. 4060, Rv. 612083-84; n. 4061, Rv. 612085; e la gemella n. 4062, non massimata, in ordine alle cancellazioni intervenute in epoca anteriore all'entrata in vigore della riforma ed ovviamente solo a decorrere dal 1°.1.2004, nonché con riguardo alle società personali).

Si pongono, però, altre serie questioni, di natura sostanziale e processuale.

Il problema, sotto il primo sostanziale, riguarda la titolarità di beni e crediti, o di debiti, sopravvenuti all'estinzione o rimasti dopo l'estinzione; vi è chi afferma sussistere il problema, peraltro, solo per i beni ed i rapporti attivi, non per quelli passivi, perché, in tal caso, ci si potrebbe accontentare del disposto dell'art. 2495 cod. civ., coinvolgendo soci e liquidatori, in presenza dei presupposti.

Per i beni ed i rapporti attivi, varie le tesi avanzate, che presentano però tutte qualche profilo critico.

15.1.

L'una propugna l'automatica comunione ordinaria fra gli ex-soci, secondo un fenomeno successorio (mentre dei debiti rispondono, come detto, soci e liquidatori, nei limiti del distribuito per i soci e della colpa per i liquidatori, ai sensi dell'art. 2495 cod. civ.).

Si afferma che la situazione è analoga all'eredità giacente, nella quale un complesso di beni e di rapporti rimane privo di titolare perché i chiamati alla successione non l'hanno ancora accettata, con possibilità di nomina, in presenza di sopravvenienze attive, di un curatore, cui attribuire il potere di amministrare i beni e i diritti che ne conseguono e di attribuirli pro quota ai soci; si tratterebbe, pertanto, non già del curatore speciale previsto dall'art. 78 cod. proc. civ. con riguardo al caso che manchi la persona cui spetta la rappresentanza o l'assistenza di un soggetto (incapace, persona giuridica o associazione non riconosciuta), ma di un curatore cui spetti il potere di gestire una massa di beni o di rapporti rimasti privi di titolare e di attribuirli agli aventi diritto.

Il principale ostacolo da superare è il criterio di imputazione ai soci di situazioni facenti capo alla società, specie ove persona giuridica: da qui, il ricorso agli istituti della successione universale ereditaria, o della successione a titolo particolare avente titolo nel bilancio finale di liquidazione, o della trasformazione eterogenea da società a comunione di azienda; nonché, per gli immobili, il rispetto della regola della continuità delle trascrizioni (con il doppio passaggio società-soci e soci-terzo acquirente, dato che i beni scoperti nella fase successiva alla liquidazione sono ancora formalmente intestati alla società cessata ed estinta).

Questa tesi si trova nelle sentenze, pronunciate nell'anno, delle Sez. 5, n. 9110 (Rv. 622943) e Sez. 3, n. 12796 (Rv. 623375), con riguardo alle società di persone, nonché, con riferimento alla società cooperativa, in Sez. 1, n. 17637 (non massimata, essendo un obiter): per effetto della vicenda estintiva, si afferma che «la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, essendosi "in presenza di debiti insoddisfatti o di rapporti non definiti", si è trasmessa ex art. 110 cod. proc. civ.» (n. 9110); si aggiunge che «la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva … si è trasmessa …automaticamente ai soci … perché l'estinzione ha determinato la costituzione di una "comunione" fra gli stessi soci "in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione"» (così la n. 12796), parlandosi della «configurabilità di una successione a titolo universale» (n. 17637).

Una variante è accolta dalla Sez. 5, n. 7676 (Rv. 622569) e, pare, da Sez. 5, n. 21773 (Rv. 624261): il socio di una società di capitali estinta ne diviene successore a titolo universale solo «se abbia riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione», alla stregua dell'art. 2495, secondo comma, cod. civ.: che non costituisce più, allora, soltanto il limite di responsabilità del socio, ma anche la condizione per la di lui successione, che si verifica solo nella specifica ipotesi di riscossione della quota. Afferma, in particolare, la n. 21773 l'«assunzione della qualità di erede universale dell'ente in capo al socio», dal momento che «la qualità di successore dell'ente si radica in capo al socio per effetto della percezione di somme in base al bilancio finale di liquidazione»: dunque, «in materia tributaria, e con specifico riferimento all'accertamento del reddito da partecipazione in una società di persone, la suddetta qualità di successore universale si radica, in capo al socio, per il fatto stesso dell'imputazione al medesimo del reddito della società», in forza del principio di trasparenza di cui all'art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.

15.2.

Alcuni propongono di restringere la portata dell'art. 2495 cod. civ., nel senso che, atteso il disposto dell'art. 10 legge fall., le società si estinguono solo dopo un anno dalla cancellazione o dalla cessazione, ove insolventi entro tale periodo: in quei casi, la cancellazione fa venir meno la personalità giuridica e l'autonomia patrimoniale perfetta, ma non il soggetto, almeno per i rapporti precedenti non esauriti (in caso di riapertura del fallimento ex art. 118, n. 3-4, e 121 legge fall., il termine di vigenza della società come soggetto è di cinque anni successivi alla chiusura della procedura): uno spunto a favore di tale tesi si trova in Sez. 1, n. 22547 del 2010 (Rv. 615609), secondo cui il liquidatore può impugnare la sentenza dichiarativa del fallimento.

15.3.

Altri reputa possibile cancellare d'ufficio la cancellazione, ai sensi dell'art. 2191 cod. civ. (spunti in Sez. 1, n. 16758 del 2010, Rv. 614466, secondo cui, estinta una società senza esercitare un'azione – lì, di simulazione – i soci non sono legittimati ad esercitarla, perché l'avvenuta volontaria cancellazione è comportamento concludente della sua rinuncia; Sez. Un., nn. 8426 del 2010, Rv. 612504, con la gemella n. 8427, nonché Sez. 1, n. 11410, non massimata, che ad esse si adegua), così che prosegue la liquidazione: presupposto è il mero fatto oggettivo del mancato compimento della liquidazione, perché vi sono ancora rapporti attivi o passivi; il giudice del registro potrebbe essere sollecitato da chiunque vi abbia interesse riscontrabile, dunque soci, liquidatore, creditori. La cancellazione d'ufficio avrebbe l'effetto costitutivo di eliminare gli effetti della prima iscrizione ex tunc; oppure, la prima iscrizione dovrebbe reputardi a mero effetto dichiarativo (perché l'effetto costitutivo impone il duplice presupposto della cancellazione e dell'esaurimento dei rapporti) e la cancellazione attesta che l'effetto costitutivo iniziale non era avvenuto.

La principale critica a tale prospettazione riguarda il rischio di una latente abrogazione della riforma, perché viene in tal caso meno l'effetto irreversibile della cancellazione, ed in quanto l'art. 2191 cod. civ. mira a regolarizzare le iscrizioni, non a risolvere contrasto di diritti ed interessi, onde le parti potrebbero solo sollecitare il giudice (ed, inoltre, il decreto su reclamo non è ricorribile per cassazione). Una difficoltà sembra da rinvenire nel fatto che, accolta questa tesi, si dovrebbe per coerenza ritenere che il conservatore del registro delle imprese, al momento della richiesta di iscrizione della cancellazione, dovrebbe verificare non soltanto che sia stato svolto il procedimento ed approvato il bilancio finale, ma anche che non sussistano rapporti pendenti, o almeno ammettere che possa non accogliere la domanda di cancellazione ove ciò gli risulti.

15.4.

Il profilo processuale va risolto in coerenza con l'impostazione sostanziale. È certo, infatti, che la cancellazione determina la perdita della capacità processuale della società e l'interruzione del giudizio, ove dichiarata.

Già da tempo, la Corte Suprema aveva, in plurime occasioni, affermato che, cancellata la società, difetta qualsiasi legittimazione in capo al liquidatore ed il ricorso dal medesimo eventualmente proposto è inammissibile per inesistenza del soggetto proponente (sul ricorso per cassazione, cfr. Sez. 1, n. 29242 del 2008, Rv. 606064 e Sez. 2, n. 25192 del 2008, Rv. 605569; sull'istanza di fallimento, Sez. 1, n. 18618 del 2006, Rv. 591790-91; qualche difformità si trova, peraltro, laddove si afferma che sarebbe addirittura ancora parte processuale la società estinta, in persona del suo liquidatore, contraddicendo la premessa secondo cui l'estinzione sussiste: Sez. 5, n. 21510 del 2010, Rv. 615413; così pure, sembra ammettere come parte la società estinta Sez. 5, n. 27951 del 2009, Rv. 611314), e, nei processi in corso, l'estinzione della società rende il giudizio improcedibile in ragione dell'impossibilità per il giudice di pronunziare nel merito sulle domande proposte da o nei confronti della società estinta (per il ricorso in cassazione, Sez. 5, ord. n. 22863 del 2011, Rv. 619700 e Sez. 2, n. 25192 del 2008, Rv. 605569).

Nel corso dell'anno 2012, poi, la Sez. 5, n. 7327 (Rv. 622905), di cui meglio oltre, ha ancora affermato che il processo tributario non può proseguire; Sez. Trib., n. 7676 (Rv. 622568-70) ha dichiarato inammissibile il ricorso contro il liquidatore di una s.r.l. cancellata, affermando l'applicazione degli art. 299 e segg. cod. proc. civ. e dichiarando, altresì, inammissibile l'impugnazione proposta nei confronti della società di capitali cancellata; sempre la Sez. 5, n. 11968 (Rv. 623331, 623332) ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto dall'ex-liquidatore di una società estinta, che non è il successore della società, ed ha altresì ritenuto che il processo tributario, iniziato in relazione alle imposte sui redditi nei confronti di una società, non può proseguire neppure ad opera o nei confronti degli ex-soci, poiché la loro responsabilità (art. 36, terzo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) involge l'accertamento di nuove circostanze ed un diverso thema decidendum; la Sez. 2, n. 17500 (Rv. 623788) ha dichiarato l'improcedibilità del ricorso, proposto dal liquidatore di una società semplice cancellata.

Ma chi potrebbe stare in giudizio, per proseguirlo?

In modo tranchant, è stato escluso che, una volta liquidata e cancellata la società di capitali dal registro delle imprese, il processo tributario prosegua, perché in giudizio non possono stare né la persona giuridica, non più esistente, né l'ex-liquidatore o l'ex socioamministratore, atteso che la legge non prevede alcun subentro automatico di costoro nei rapporto con l'amministrazione finanziaria (Sez. 5, n. 7327, Rv. 622905).

Per coloro che reputano i soci successori a titolo universale della società, essi divengono parti, ai sensi dell'art. 110 cod. proc. civ.: il venir meno della capacità processuale in capo alla società estinta comporta la perdita di qualsiasi potere di rappresentanza del liquidatore, onde spetterebbe la capacità processuale, attiva e passiva, agli ex-soci fin dal momento della cancellazione. Così, le citate sentenze n. 9110, n. 12796 e n. 21773, le quali hanno affermato che la cancellazione dal registro delle imprese di una società di persone, analogamente a quanto avviene con riferimento ad una società di capitali, determina l'estinzione del soggetto giuridico e la perdita della sua capacità processuale; anche la Sez. L, n. 15525 (non massimata), afferma che i soci succedono nel processo (sempre che non risulti che la società abbia scelto di non contivare il processo). Lo stesso la citata n. 7676, in tema di società di capitali e nei limiti sostanziali sopra esposti. Si noti che, invece, l'eventuale notifica alla stessa società, in quanto operata a soggetto inesistente, non sarebbe sanabile neppure dalla costituzione del successore.

Se, invece, la società è successore a titolo particolare, molti escludono comunque l'applicabilità dell'art. 111 cod. proc. civ.: il processo non può continuare nei confronti del successore universale, che, nella specie, manca, bensì soltanto nei confronti dei soci, quali successori a titolo particolare.

15.5.

Ulteriore questione concerne il destinatario della notificazione dell'impugnazione, nel caso in cui il difensore della società cancellata non dichiari l'evento interruttivo: posto che le Sezioni Unite n. 26279 del 2009 (Rv. 610581) hanno affermato che l'atto di impugnazione, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, restando irrilevante altresì l'eventuale ignoranza dell'evento, anche incolpevole, da parte del soccombente, perché il processo di impugnazione deve svolgersi nei confronti della "giusta parte"; e la Sez. 3, n. 1760 (Rv. 621699) ha stabilito che il principio di ultrattività del mandato alle liti, costituente una deroga alla regola per cui la morte del mandante estingue il mandato, secondo la disciplina generale della materia ai sensi dell'art. 1722, n. 4, cod. civ., opera solo all'interno della fase processuale in cui l'evento si è verificato, derivandone che, esaurito il grado in cui l'evento morte non dichiarato si è verificato, la legittimazione attiva e passiva compete solo alle parti reali e viventi (cfr. già Sez. 1, n. 6701 del 2009, Rv. 607195, secondo cui non sussiste l'ultrattività della procura oltre i limiti della fase del processo in cui si è verificato l'evento non dichiarato né notificato).

Ove l'impugnazione sia proposta contro la società estinta, attraverso il suo procuratore non dichiarante l'evento, la parte impugnante potrebbe soltanto riproporre l'impugnazione nei confronti delle giuste parti, purché nessuna inammissibilità sia stata ancora dichiarata ed essa sia ancora in termini; inoltre, è di ardua applicazione qui l'istituto generale della rimessione in termini ex art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., dato il sistema di pubblicità-notizia del registro delle imprese, che rende non incolpevole l'avere ignorato l'evento.

15.6.

Orbene, la problematica è stata rimessa, sotto vari profili, alle Sezioni Unite per la risoluzione delle questioni di massima di particolare importanza implicate, con le ordinanze interlocutorie Sez. 1, n. 9943 e n. 14390 e Sez. 2, n. 16606.

La prima ordinanza, concernente una società personale, ha promosso la rimessione alle Sezioni Unite sulla questione degli «effetti della cancellazione della società nei processi in corso nei quali essa è costituita, soprattutto se i difensori non abbiano notificato o comunicato in udienza, nel giudizio di merito, la perdita della capacità giuridica di tale parte societaria». Ha prospettato, in astratto, le diverse soluzioni processuali: a) inammissibilità del ricorso notificato alla società ormai estinta; b) mancata estinzione sul piano processuale per il principio dell'affidamento suscitato; c) perdurare di un patrimonio allo scopo dopo l'estinzione, sul tipo dell'eredità giacente.

La seconda ordinanza, in una controversia attinente una società di capitali, ha nuovamente demandato la questione alle sezioni unite, sottolineando la tematica sostanziale della legittimazione dei soci in ordine ai rapporti sociali non liquidati.

La terza ha sottolineato il particolare quesito della legittimazione degli ex-soci della società di persone a conseguire l'indennizzo derivante dalla durata eccessiva del processo presupposto, non considerato ai fini della liquidazione: in quanto resta da stabilire se il pregiudizio in questione fosse nel patrimonio sociale già al momento della cancellazione, o sia una mera pretesa contenziosa, da intendersi rinunciata con la cancellazione volontaria dell'ente collettivo.

Fra l'altro, la Corte d'appello di Milano, con ordinanza del 18 aprile 2012, ha rimesso alla Corte costituzionale, ritenendola non manifestamente infondata, la questione di legittimità dell'art. 2495 cod. civ., proprio per l'impossibilità che ne deriva di identificare un successore nel processo.

La sistemazione della materia, dunque, si avvicina.

16. Alcune questioni processuali.

In tema di alterità soggettiva, Sez. 1, n. 7024 (Rv. 622381) ha escluso che il socio di una società di capitali sia legittimato a dolersi della violazione del termine di ragionevole durata del processo, in quanto egli resta, come tale, estraneo al processo presupposto ed il danno dal medesimo eventualmente patito è solo indiretto. La sentenza si pone sulla scia di Sez. 1, n. 15250 del 2011 (Rv. 618908), che del pari aveva escluso la legittimazione attiva in proprio dell'amministratore di una s.p.a.

Nell'ipotesi in cui una società sia convenuta in giudizio, la Sez. 1, n. 6803 (Rv. 622535) ha precisato che l'erronea indicazione del tipo nella denominazione o ragione sociale (nella specie, s.n.c. anziché s.a.s.) non comporta la nullità della citazione o della notifica, ove ovviamente non produca incertezza assoluta sull'esatta identificazione della società. La Corte ha così ribadito che quest'ultimo è il criterio-guida (come già nella sentenza n. 29864 del 2008, Rv. 606035, con riguardo all'erronea indicazione dell'accomandatario e della ragione sociale di s.a.s.).

Per altri profili, cfr. il cap. XXIV, § 2.3 sulla procura, § 5.3 sulle notifiche e § 5.5 per i vizi degli atti processuali; il cap. XXVI, § 6, quanto alla testimonianza dell'amministratore; il cap. XXXV, § 4 in tema di arbitrato.

  • mercato finanziario

CAPITOLO XX

IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI

(di Marco Rossetti, Loredana Nazzicone )

Sommario

1 O.p.a. obbligatoria e risarcimento del danno. - 2 Il contratto d'intermediazione finanziaria. - 3 La gestione individuale di portafogli. - 4 Il contratto "4YOU". - 5 Il diritto di recesso nei contratti fuori sede. - 6 Responsabilità dei soggetti abilitati e condotta dei promotori finanziari. - 7 Responsabilità da omesso controllo (nella specie, sugli agenti di cambio). - 8 Recenti modifiche normative.

1. O.p.a. obbligatoria e risarcimento del danno.

La delicata questione dei rimedi civilistici in caso di inadempimento dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto ha trovato una risposta presso la Corte Suprema.

Con la sentenza Sez. 1, n. 14392 (Rv. 623642, e le gemelle nn. 14399 e 14400), la Corte ha affermato che il soggetto, cui non sia stata proposta un'offerta pubblica d'acquisto obbligatoria come prescritta dall'art. 106 d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (t.u.f.), abbia diritto ad essere risarcito dal mancato offerente.

La Corte ha rammentato che l'istituto si fonda sull'intento di far beneficiare almeno in parte del plusvalore, lucrato dal venditore del pacchetto azionario di maggioranza, anche gli altri soci, che, pur di minoranza, hanno però contribuito al valore complessivo della società con il proprio investimento. Pertanto, sebbene avente finalità pubblicistiche, esso è destinato a realizzare nell'immediato proprio l'interesse dei soci di minoranza, avendo il legislatore inteso così preservare sia la contendibilità delle società e l'efficienza del mercato del controllo societario, sia il diritto delle minoranze di operare una scelta ponderata.

In riforma della sentenza di appello, la Corte ha dunque escluso che le norme del d. lgs. n. 58 del 1998, le quali sanciscono la sterilizzazione del voto e l'obbligo di rivendita entro l'anno delle azioni acquistate in violazione della norma sull'o.p.a., che scatta in conseguenza di acquisti azionari comportanti una partecipazione superiore al 30% del capitale, esauriscano il novero dei rimedi.

Al contrario, a fronte dell'obbligo di o.p.a., si pone il diritto soggettivo (pur di improbabile coercibilità ex art. 2932 cod. civ.) a ricevere l'offerta in capo agli azionisti, cui essa avrebbe dovuto essere rivolta. Con la conseguenza che dall'inadempimento dell'obbligo deriva la responsabilità contrattuale (o ex lege, pur palesando la S.C. di preferire la prima qualificazione) del soggetto inadempiente: per la quale occorre però la prova del valore economico effettivo dell'opzione di acquisto, che gli azionisti avrebbero dovuto ricevere.

Né il conseguimento del controllo della società scalata è presupposto dell'obbligo di o.p.a. e del correlativo diritto degli interessati a riceverla: basta che, nelle condizioni di legge, siano acquistate azioni oltre la soglia del trenta per cento e sia stato pagato un prezzo superiore a quello di mercato.

Sul quantum, l'opzione corrisponde ad un interesse giuridicamente protetto, avente ad oggetto un'entità patrimoniale a sé stante: il pregiudizio consiste nell'avere perduto l'opzione di acquisto (c.d. put), dovendosi tener conto dei fattori che abbiano influenzato il valore di borsa dell'azione ed il prezzo che essa avrebbe avuto in caso di o.p.a.

In questo modo, l'applicazione delle regole civilistiche procede di pari passo con l'apparato sanzionatorio di settore, evidenziando la coesistenza di interessi privati e pubblici nei mercati finanziari.

2. Il contratto d'intermediazione finanziaria.

Viene confermato – Sez. 1, n. 384 (Rv. 620673) e n. 18039 (in corso di massimazione) – l'orientamento che reputa l'obbligo della forma scritta riferito al contratto-quadro e non ai singoli ordini di investimento o disinvestimento, che vengano poi impartiti dal cliente all'intermediario, la cui validità non è dunque soggetta a requisiti di forma.

Molto significativa è stata anche la giurisprudenza di legittimità in tema di onere della prova dell'obbligo di informazione da parte dell'intermediario.

Nella pratica, infatti, è purtroppo non raro che all'attenzione dell'autorità giudiziaria vengano portati casi in cui si assume che tale obbligo informativo sia stato assolto in modo superficiale se non addirittura puramente formale, attraverso la sottoscrizione di moduli prestampati sottoposti dall'intermediario al cliente al momento stesso della sottoscrizione del contratto e senza alcuna adeguata illustrazione.

A fronte di questa diffusa fattispecie concreta, acquista dunque particolare rilievo il principio sancito dalla decisione della Sez. 1, n. 11412 (Rv. 623262), la quale ha negato che abbia valore confessorio la dichiarazione del cliente, contenuta nell'ordine di acquisto di un prodotto finanziario, con la quale egli dia atto di avere ricevuto le informazioni necessarie e sufficienti ai fini della completa valutazione del "grado di rischiosità". Perché una dichiarazione abbia valore confessorio, infatti, secondo la sentenza appena ricordata è necessario che il dichiarante sappia e voglia ammettere un fatto specifico sfavorevole per sé e favorevole all'altra parte, che determini la realizzazione di un obiettivo pregiudizio. Un modulo generico, invece, non solo non soddisfa tali requisiti, ma nemmeno può dirsi idoneo ad assolvere gli obblighi informativi prescritti dagli art. 21 ss. d. lgs. n. 58 del 1998, trattandosi di una dichiarazione riassuntiva e generica circa l'avvenuta completezza dell'informazione sottoscritta dal cliente.

Altro è l'onere della prova che l'intermediario avrebbe dovuto fornire, per individuarvi una confessione: e, cioè, dimostrare di avere «illustrato, in concreto, le condizioni economico finanziarie del "gruppo" dal quale provenivano le obbligazioni acquistate e l'effettivo potenziale di redditività e di rischio ad esse correlato».

In generale, ha chiarito la Corte che l'adempimento di un obbligo informativo, in un settore negoziale «ad alto contenuto tecnico», non può mai essere dimostrato mediante la sottoscrizione di dichiarazioni generiche, unilateralmente predeterminate e predisposte in via generale e modulare.

Già la Sez. 1, n. 6142 (Rv. 622512) aveva osservato che la dichiarazione del cliente di essere consapevole della rischiosità ed inadeguatezza dell'investimento non costituisce dichiarazione confessoria, in quanto è rivolta alla formulazione di un giudizio e non all'affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo.

Circa l'incidenza dell'inosservanza degli obblighi informativi, viene ribadito che questi non integrano né l'elemento della mancanza del consenso ex art. 1321, n. 1, cod. civ., né quello dell'errore essenziale sull'oggetto o su una qualità determinante, ex at. 1429 nn. 1 e 2, cod. civ.; ma, avendo essa soltanto condotto ad un acquisto finanziario privo dell'andamento sperato, non si dà il vizio di annullabilità (secondo la citata Sez. 1, n. 18039).

3. La gestione individuale di portafogli.

Sotto altro profilo, la Corte Suprema – Sez. 1, n. 8237 (Rv. 622856) – si è occupata del contratto di gestione individuale di portafogli, la quale «si caratterizza per l'affidamento al gestore, da parte del cliente, delle scelte d'investimento relative ad un determinato 'portafoglio', composto da strumenti finanziari o da altri valori mobiliari, allo scopo di conservarne e possibilmente incrementarne il valore».

La Corte ha altresì precisato le peculiarità di questa gestione, che è «dinamica», «personalizzata», affidata ad un gestore dotato nel contempo di «spiccato grado di discrezionalità» ed «altrettanto elevato grado di professionalità».

Ne deriva la conseguente esigibilità di una diligenza tecnica adeguata: in mancanza di parametri predeterminati cui commisurarla, si dovrà tenere conto della singola situazione, sempre però nell'adempimento degli obblighi di comportamento, fissati per legge.

La Corte ha, quindi, individuato gli obblighi, al tempo dei fatti, posti dalla legge a carico del gestore.

Tuttavia l'obbligo dell'intermediario (o del promotore) di rispettare la best execution rule ( su cui infra il § 6) non può, secondo la S.C., spingersi sino al punto di reputarlo tenuto a prevenire le istruzioni del cliente o adottare iniziative autonome: in applicazione di tale principio, ha ritenuto la sentenza in discorso che, in difetto di un'inequivoca manifestazione di volontà da parte dell'investitore, non può esigersi che l'intermediario modifichi unilateralmente la precedente linea d'investimento. Altro è se al rapporto di gestione individuale di portafogli, pur quando non sia stata contrattualmente prevista anche la prestazione del servizio di consulenza finanziaria, inerisca comunque anche un qualche dovere di consulenza verso il cliente: ma la Corte non entra in tale questione, non pertinente nel caso di specie. Neppure vi era l'inosservanza di istruzioni impartite, non essendo sufficienti generiche raccomandazioni di "ben operare", di "esercitare maggiore oculatezza negli investimenti", di essere "più dinamici" o "più prudenti": occorre invece che il cliente abbia impartito istruzioni adeguatamente determinate.

Parimenti, ove il cliente lamenti il compimento di operazioni non adeguate, occorre che le stesse risultino sufficientemente identificate.

La Sez. 2, n. 21114 (in corso di massimazione) ha comunque riaffermato, in generale, con riguardo alla nota vicenda dei bond Cirio, che l'intermediario finanziario non è un mero "esecutore di ordini", ma costituisce un filtro tra imprese che emettono titoli e famiglie, che in detti titoli investono i propri risparmi, onde egli deve dotarsi di procedure adeguate per assolvere ai propri doveri di informazione in relazione all'individuazione dei titoli da offrire in contropartita diretta alla propria clientela non professionale: anzi, ha chiarito la Corte che tali verifiche vanno compiute dall'intermediario indipendentemente dalla causazione di un concreto pregiudizio all'investitore.

4. Il contratto "4YOU".

Intorno al 2000 la cronaca riferì di un elevatissimo numero di risparmiatori che, dopo avere stipulato con la banca un contratto denominato "4YOU", formalmente qualificato come un piano di accumulo, si era poi vista riferire della perdita del capitale versato alla banca.

Da questa vicenda scaturì un vasto contenzioso tra banche e risparmiatori, approdato alfine in sede di legittimità.

Con la sentenza pronunciata da Sez. 1, n. 1584 (Rv. 622621), la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva accertato che in realtà il contratto "4YOU" costituiva una operazione finanziaria complessa, in virtù della quale la banca erogava un mutuo al cliente, utilizzato per l'acquisto di obbligazioni e di una quota di un fondo comune di investimento. Dopodiché le obbligazioni e la quota acquistate venivano costituite in pegno in favore della banca, a garanzia della restituzione del mutuo, regolata attraverso versamenti rateali su un conto corrente acceso presso la banca medesima. Sulla base di questo accertamento in fatto, la Corte di cassazione ha ritenuto in iure che tale contratto rientrasse nella categoria degli strumenti finanziari, di cui all'art. 1, secondo comma, lett. j), del d.lgs. n. 58 del 1998 e fosse, di conseguenza, assoggettato alla disciplina dell'offerta fuori sede, ai sensi dell'art. 30 del medesimo decreto, con l'obbligo di indicare, a pena di nullità del contratto, la facoltà di recesso nei moduli e formulari.

5. Il diritto di recesso nei contratti fuori sede.

Qualche contrasto si è registrato invece sul delicato tema del diritto di recesso di cui all'art. 30, comma 6, del d.lgs. n. 58 del 1998 con riguardo alle offerte fuori sede concernenti il collocamento di strumenti finanziari. Infatti, secondo Sez. 1, n. 2065 (Rv. 621331) tale disciplina sarebbe inapplicabile ai contratti di negoziazione di obbligazioni eseguiti in attuazione di un contratto-quadro, sottoscritto fra la banca e il cliente, in quanto tali contratti non costituiscono un "servizio di collocamento": sia perché quest'ultimo presuppone un accordo tra l'emittente e l'intermediario collocatore, sia perché il legislatore ha limitato il diritto di recesso agli investitori raggiunti all'esterno dei locali commerciali del proponente e, quindi, siano stati esposti al rischio di assumere decisioni poco meditate.

Secondo Sez. 1, n. 4564 (Rv. 622119), poi, la nullità disposta dall'art. 30, commi 6 e 7, d. lgs. n. 58 del 1998 non è estensibile agli altri servizi d'investimento, ma solo ai "contratti di collocamento di strumenti finanziari" o di "gestione di portafogli individuali", e non alla "negoziazione di titoli".

In seguito tuttavia la Sez. 3, ordinanza n. 10376, ritenendo sussistenti vari indici normativi dai quali desumere l'applicabilità del diritto di recesso anche all'ipotesi di sottoscrizione di contratti-quadro, ha rimesso la questione al Primo Presidente, ai fini dell'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

6. Responsabilità dei soggetti abilitati e condotta dei promotori finanziari.

I "soggetti abilitati", ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera r), d. lgs. n. 58 del 1998, ai fini della prestazione di servizi finanziari possono svolgere le attività di investimento ad essi rispettivamente consentite, ed in particolare la promozione ed il collocamento di strumenti finanziari presso il pubblico di investitori non professionali, con due modalità: sia direttamente, cioè nelle proprie sedi ed avvalendosi di propri dipendenti; sia "fuori sede".

Quando l'offerta di "servizi ed attività di investimento" da parte di "soggetti abilitati" avviene "fuori sede", essi hanno l'obbligo di avvalersi di promotori finanziari (art. 31, comma 2, d. lgs. n. 58 del 1998, come modificato dall'art. 6, comma 2, d. lgs. 17 settembre 2007, n. 164).

Nell'interpretare l'articolato quadro normativo che disciplina l'attività dei "soggetti abilitati" e dei "promotori finanziari" (e cioè, in particolare, gli art. 21 ss. d. lgs. n. 58 del 1998; 107, 108 Deliberazione Consob 29 ottobre 2007 n. 16190, e successive modifiche), sussistono una serie di principî ormai consolidati, ed in particolare le cc.dd. "quattro regole" di condotta, ovvero:

(a) la know your customer rule, la quale esige un "flusso di informazioni inverso" dal cliente all'intermediario, affinché quest'ultimo possa conoscere la situazione patrimoniale del risparmiatore e la sua propensione al rischio, scegliendo di conseguenza il prodotto più adeguato;

(b) la suitability rule, in virtù della quale l'intermediario ha l'obbligo di accertare se il prodotto finanziario richiestogli dal cliente, od a questo proposto, sia effettivamente conveniente rispetto alla sua situazione patrimoniale;

(c) la best execution rule, in virtù della quale l'intermediario è tenuto ad attivarsi per fornire al cliente il miglior prodotto finanziario possibile;

(d) la antichurning rule, in virtù della quale l'intermediario deve astenersi dal compiere operazioni per conto del cliente che, se pur legittime individualmente considerate, eseguite in modo seriale e ripetitivo finiscono per esporre il risparmiatore a particolari rischi.

Con riguardo a tali regole di condotta, punto d'approdo dell'evoluzione della C.S. può ritenersi senza dubbio la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 12448 (Rv. 623354), la quale ha affermato ore rotundo che la società di intermediazione mobiliare risponde "a titolo oggettivo" dei danni causati ai risparmiatori dai propri preposti, sulla base dell'esistenza del solo nesso di occasionalità necessaria tra l'attività del promotore finanziario e l'illecito, a prescindere da qualsiasi indagine sullo stato soggettivo di dolo o colpa della preponente, ed a nulla rilevando che la condotta truffaldina del promotore abbia avuto inizio prima ancora del sorgere del rapporto di preposizione tra lo stesso e la SIM.

7. Responsabilità da omesso controllo (nella specie, sugli agenti di cambio).

Con riferimento al Regolamento di attuazione del d. lgs. n. 58 del 1998, concernente la disciplina degli intermediari, adottato dalla Consob con delibera n. 11522 del 1° luglio 1998 ed in seguito abrogato (cfr. il Regolamento di cui alla delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007), la Corte ha fissato alcuni parametri della responsabilità da omesso controllo, che, sebbene riferiti al responsabile della funzione di controllo interno, prescritta dall'art. 57 del Reg. citato, risultano estensibili ad altre fattispecie di similare responsabilità omissiva.

La sentenza Sez. 2, n. 4837 (Rv. 621744) ha stabilito che il soggetto tenuto al controllo sull'attività degli agenti di cambio risponde quando ometta di rilevare e di segnalare le gravi irregolarità da questi commesse.

In particolare, l'agente di cambio si era reso colpevole di molteplici violazioni, ai sensi degli art. 21 e 22 d. lgs. n. 58 del 1998, quali la confusione dei patrimoni del clienti con il proprio e fra gli stessi, e la non corretta informazione alla clientela sulla reale situazione finanziaria, protrattesi per ben quattro anni.

La Consob aveva ritenuto l'agevole ravvisabilità delle violazioni in questione, anche da una mera analisi a campione e sulla base di indizi palesi (come la "continua erosione del patrimonio dei clienti"). Sono, insomma, quei "segnali" o "campanelli di allarme" che, per il giudice penale come per quello civile, sono idonei ad integrare l'elemento della colpa omissiva.

Né il soggetto cui è demandata la funzione di controllo va esente da responsabilità, ove altri siano titolari, a diverso titolo, dello stesso compito di vigilanza: precisa, invero, la Corte che si tratta di obblighi concorrenti, onde il dovere di rilevare le anomalie e di attivarsi utilmente segnalandole alla Consob sussisteva «indipendentemente dai concorrenti obblighi della società di revisione, indipendentemente dall'esistenza o meno del collegio sindacale e indipendentemente dalla natura societaria o individuale dell'intermediario».

8. Recenti modifiche normative.

La materia finanziaria, anche nel 2012, è stata interessata da alcuni interventi del legislatore, di cui sembra opportuno dare rapido conto, anche perché costituiranno i parametri del futuro contenzioso.

Il d. lgs. 19 settembre 2012, n. 169 apporta alcune novità in materia di contratti di credito ai consumatori, disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi, con modifiche dunque al d. lgs. 13 agosto 2010, n. 141 sul credito al consumo, al d. lgs. 21 novembre 2007, n. 231 sull'antiriciclaggio ed al testo unico bancario.

Dal suo canto, il d. lgs. 11 ottobre 2012, n. 184, di attuazione della direttiva 2010/73/UE sugli obblighi di trasparenza per gli emittenti di strumenti finanziari, ha apportato rilevanti modifiche al d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, ed agli art. 2441 e 2443 cod. civ. in tema di diritto di opzione.

Ci si limita qui a ricordare che le innovazioni principali riguardano alcune semplificazioni per gli adempimenti delle società quotate, ad esempio abbreviandosi i tempi di approvazione dei prospetti di offerta al pubblico (di scambio, di vendita e di acquisto) e snellendo alcune procedure interne di Borsa italiana s.p.a., per una più rapida azione della stessa; eliminando, poi, per le società quotate l'obbligo di comunicare, alla società partecipata e alla Consob, l'acquisizione di partecipazioni superiori al 10% in società per azioni non quotate o in società a responsabilità limitata. L'avere previsto minori obblighi ha, nell'intento del legislatore, il fine di costituire un incentivo alla quotazione in borsa anche delle piccole e medie imprese.

Le modifiche riguardano, inoltre, l'art. 94 d. lgs. n. 58 del 1998 sulla "nota di sintesi" al prospetto, la quale, «concisamente e con linguaggio non tecnico, fornisce le informazioni chiave», e la responsabilità relativa, che viene precisata nel senso che la nota in questione potrà fondare una responsabilità risarcitoria solo quando essa «risulti fuorviante, imprecisa o incoerente se letta insieme ad altre parti del prospetto oppure che essa, quando viene letta insieme con altre parti del prospetto, non contenga informazioni chiave che aiutino gli investitori nel valutare se investire nei prodotti finanziari offerti»; la nozione di "investitore qualificato" dell'art. 100 d. lgs. n. 58 del 1998, in quanto le disposizioni di tutela non si applicano alle sollecitazioni all'investimento rivolte ai soli investitori professionali, eliminandosi l'inciso «comprese le persone fisiche e le piccole e medie imprese», cui quindi la tutela troverà applicazione. Per ciò che concerne l'offerta fuori sede, viene precisato che non è tale quella indirizzata ad amministratori e dipendenti presso le sedi o le dipendenze delle società del gruppo (si pensi alle stock options).

Ancora più di recente, il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modifiche nella l. 17 dicembre 2012, n. 221, c.d. Decreto Sviluppo "bis", ha introdotto, fra l'altro, all'art. 24 disposizioni attuative del regolamento (UE) n. 236/2012, concernenti l'individuazione delle autorità nazionali competenti per le vendite allo scoperto e contratti derivati; mentre ha delineato, quale operatore finanziario, la nuova figura del «gestore di portali», che è il soggetto esercente «professionalmente il servizio di gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative», ossia della «piattaforma online che abbia come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitale di rischio» per queste società, caratterizzate da un oggetto sociale volto all'innovazione tecnologica e regolate con ragguardevoli deroghe al diritto comune societario (cfr. art. 1 e 50-quinquies t.u.f., a tal fine modificati).

  • fallimento

CAPITOLO XXI

PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI

(di Massimo Ferro )

Sommario

1 I rapporti patrimoniali. - 2 Le azioni revocatorie. - 3 La garanzia prestata per i debiti del fallito nella verifica dei crediti. - 4 I requisiti di ammissione al passivo dei crediti concorsuali. - 5 La prededuzione.

1. I rapporti patrimoniali.

La legittimazione processuale del fallito relativamente a rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, per sua natura eccezionale e suppletiva, si correla a situazioni di disinteresse o inerzia degli organi fallimentari, al punto che – per Sez. 2, n. 4448 (Rv. 621436) – la negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia è sufficiente ad escludere che il fallito possa agire, quando si tratti di una legittimazione espressa con riguardo ad una controversia della quale il fallimento sia stato parte, essendo inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito. Tale conflitto invece non sussiste allorquando si tratti di una controversia alla quale il fallimento sia rimasto del tutto estraneo, come nel caso di palese riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere.

Parimenti, affrontando una vicenda di grande impatto nella prassi, Sez. 3, n. 9297 (Rv. 622844) ha precisato che il curatore che domandi in giudizio la risoluzione per inadempimento di un contratto stipulato dall'imprenditore in bonis, agisce in rappresentanza del fallito, e non della massa dei creditori. Se perciò il curatore, rispetto al contratto di cui chiede la risoluzione, non è terzo, corrispondentemente nemmeno può provare per testimoni la simulazione della quietanza di pagamento rilasciata dal fallito alla controparte contrattuale.

2. Le azioni revocatorie.

Uno dei nodi che la giurisprudenza ha dovuto riaffrontare dopo la riforma della legge fallimentare, era costituito dal valore di continuità ovvero di autonomia reciproca ad ogni effetto della consecuzione tra procedure diverse, come il concordato preventivo ed il fallimento, una frequente ipotesi pratica. Con un primo arresto di Sez. 1, n. 2335 (Rv. 621348) si è ribadito che se, dopo l'ammissione di una società di persone al concordato preventivo, segua la dichiarazione del fallimento sociale e dei soci illimitatamente responsabili, ai sensi dell'art. 147 legge fall., il termine di cui all'art. 67 legge fall. per l'esercizio dell'azione revocatoria dell'atto personale posto in essere dal socio decorre ancora dal decreto di ammissione della società alla prima procedura, e non dal fallimento del socio. La Corte ha così confermato che il carattere meramente consequenziale e dipendente del fallimento del socio rispetto a quello della società comporta, ai fini della dichiarazione di fallimento, una rilevanza unicamente conferita allo stato d'insolvenza sociale, indipendentemente dalla sussistenza o meno di analoga crisi personale del socio: va infatti escluso un vulnus all'affidamento dei terzi, cui sono noti sin dalla data di apertura della prima procedura i soggetti potenzialmente sottoposti al fallimento in esito alla stessa.

Una maturazione ancor più espressa del citato principio è poi in Sez. 1, n. 8439 (Rv. 623319), per la quale – agli effetti della cosiddetta consecuzione, ossia della considerazione unitaria della procedura di concordato preventivo, cui è succeduta quella di fallimento – l'effetto relativo alla revocatoria fallimentare, cioè la retrodatazione al momento dell'ammissione del debitore alla prima di esse del termine iniziale del periodo sospetto, è fatto dipendere non tanto dalla legittimità di tale ammissione, ma dal fatto che un'ammissione vi sia stata e una procedura di concordato sia iniziata. Ritiene così la Corte che tale circostanza in sé impone di considerare la successiva dichiarazione del fallimento come conseguenza del medesimo stato d'insolvenza, già a fondamento dell'ammissione al concordato preventivo; tant'è che il giudice investito della revocatoria, come non può sindacare la legittimità della sentenza dichiarativa di fallimento, così non può rivalutare i presupposti di ammissione al precedente concordato.

Importante è la relazione fra istituti ripercorsa da ord., Sez. 6-1, n. 3672 (Rv. 621975), per la quale gli art. 24 e 52 legge fall. implicano che il tribunale da cui è stato dichiarato il fallimento del debitore che ha compiuto l'atto pregiudizievole ai creditori, per il quale si prospetti un'azione di revoca ex art. 67 legge fall., resta il solo competente a decidere l'inefficacia o meno dell'atto, mentre le successive e consequenziali pronunzie di restituzione competono al tribunale che ha dichiarato il fallimento del beneficiario del pagamento revocato, secondo le modalità stabilite per l'accertamento del passivo e dei diritti dei terzi. In ogni caso, ha puntualizzato la Corte, la cristallizzazione della massa passiva alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo dell'azione revocatoria non ne permettono l'esperimento contro un fallimento, dopo la sua pronuncia, con la conseguenza dell'annullamento dell'eventuale ammissione al passivo in cui la domanda si sia trasfusa.

Una significativa esenzione oggettiva dall'azione è stata altresì focalizzata con riguardo all'ipoteca iscritta ai sensi dell'art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 sugli immobili del debitore e dei coobbligati al pagamento dell'imposta: sul presupposto che essa non sia riconducibile all'ipoteca legale prevista dall'art. 2817 cod. civ., né ad essa assimilabile, mancando un preesistente atto negoziale, il cui adempimento il legislatore abbia inteso garantire, se ne definisce l'autonomia anche rispetto all'ipoteca giudiziale, prevista dall'art. 2818 cod. civ. con lo scopo di rafforzare l'adempimento di una generica obbligazione pecuniaria ed avente titolo in un provvedimento del giudice. Quella esaminata da Sez. 1, n. 3232 (Rv. 621812) e poi Sez. 1, n. 3397 (Rv. 621819) si fonda invero su di un provvedimento amministrativo, per cui non rientra nel disposto dell'art. 67, primo comma, n. 4 legge fall., che riserva la revocatoria fallimentare alle sole ipoteche volontarie e giudiziali.

In tema di elemento soggettivo, nell'ambito di un'azione proposta contro una società di capitali, per Sez. 1, n. 5106 (Rv. 622181) non si danno criteri differenziati di valutazione dello stato di scienza o di ignoranza dello stato d'insolvenza, che pertanto, per le persone giuridiche, si identifica normalmente in quello delle persone fisiche che ne hanno la rappresentanza in virtù del nesso organico. La conseguenza è che il mutamento della persona dell'amministratore non incide sulla riferibilità all'ente della volontà negoziale espressa da quello precedente, né comporta che debba aversi riguardo alla scientia o inscientia del nuovo amministratore, anziché di quello che ha concluso il contratto.

Ribadendo un principio consolidato, ma nell'inedito raccordo dell'istituto con il procedimento cautelare uniforme, assente nell'originaria previsione codicistica del 1942, Sez. 1, n. 13302 (Rv. 623392) ha ricordato che l'interruzione della prescrizione dell'azione revocatoria ex art. 67 legge fall. non può avvenire mediante una messa in mora con atto extragiudiziario, trattandosi di esercizio di un diritto potestativo riservato al solo organo concorsuale e da declinare mediante l'esercizio di un'azione giudiziale, mentre è a tal fine idoneo il ricorso per sequestro giudiziario, purché individui chiaramente la predetta azione di merito. La strumentalità dell'istanza cautelare manifesta infatti la volontà dell'organo di agire in tale giudizio, dovendosi poi considerare che il riferimento dell'art. 2943, primo comma, cod. civ. alla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio «conservativo» ha riguardo ad ogni istanza di tutela anticipatrice rispetto alla successiva cognizione piena.

3. La garanzia prestata per i debiti del fallito nella verifica dei crediti.

Una prima evoluzione verso uno statuto del garante (quale solo potenziale creditore concorsuale) non gravato di oneri immediati di partecipazione processuale all'accertamento del passivo si rinviene in Sez. 1, n. 3216 (Rv. 621789), la quale ha declinato il tradizionale principio della cristallizzazione della massa passiva con una più semplice regola di sostituzione del credito spettante, in via di surrogazione o regresso, al coobbligato solidale, il quale abbia pagato in data successiva alla dichiarazione di fallimento del debitore principale. Il pagamento opera infatti come causa estintiva del credito vantato nei confronti del debitore principale, con la conseguente esclusione di qualsiasi duplicazione di poste passive: questa la ragione per cui il coobbligato non è tenuto ad insinuare al passivo il proprio credito con riserva, potendo farlo valere in sede fallimentare con l'ordinaria istanza di ammissione, tempestiva o tardiva. Nella specie, tuttavia, è stata ritenuta inammissibile la surrogazione, in quanto il pagamento effettuato dal coobbligato o dal fideiussore non era risultato interamente satisfattivo della pretesa del creditore, ostando a ciò il diverso e speciale precetto dell'art. 61, secondo comma, legge fall., vera eccezione al principio dell'opponibilità al creditore comune dei pagamenti parziali ricevuti, laddove subordina l'esercizio della rivalsa alla condizione che il creditore comune sia stato soddisfatto per l'intero credito: se il pagamento è effettuato successivamente al fallimento, la norma si applica però non solo al regresso, specificamente contemplato, ma anche alla surrogazione, posto che per entrambi ciò che rileva non è la circostanza che attraverso il pagamento il coobbligato abbia totalmente assolto la propria obbligazione, ma che l'adempimento risulti integrale e parte creditoris, cioè idoneo ad estinguere la pretesa che il creditore comune abbia insinuato o possa insinuare al passivo del fallimento.

4. I requisiti di ammissione al passivo dei crediti concorsuali.

Di particolare valore orientativo è la pronuncia con cui Sez. Un., n. 4126 (Rv. 621695), esprimendo un principio che riporta al diritto comune delle regole probatorie i crediti pubblici, hanno chiarito, superando incertezze interpretative diffuse, che la domanda di ammissione al passivo avente ad oggetto un credito di natura tributaria, presentata dall'Amministrazione finanziaria, non presuppone necessariamente, ai fini del suo buon esito, la precedente iscrizione a ruolo del credito azionato, la notifica della cartella di pagamento e l'allegazione all'istanza della documentazione comprovante l'avvenuto espletamento delle dette incombenze, potendo viceversa essere basata anche su titolo di diverso tenore.

Una rilevante apertura è stata dettata da Sez. 1, n. 4554 (Rv. 622175) la quale ha escluso che l'ammissione tardiva al passivo relativamente agli interessi già maturati alla data del fallimento possa essere conseguenza della già avvenuta richiesta ed ammissione dello stesso credito per il solo capitale: il credito degli interessi, per quanto accessorio sul piano genetico a quello del capitale, è un credito autonomo, azionabile separatamente, anche successivamente al credito principale già riconosciuto con decisione passata in giudicato.

Nell'ambito dei problematici rapporti tra fallimento e fisco, la sentenza del giudice tributario emessa nei confronti di un soggetto fallito, allorché il giudizio sia stato intrapreso prima della dichiarazione di fallimento e sia proseguito fra le parti originarie, non può fare stato nei confronti del curatore rimasto estraneo alla lite, attesa la posizione di terzietà che questi assume nel procedimento di verifica nei confronti dei creditori concorsuali e del fallito. Da questo principio, Sez. 1, n. 5494 (Rv. 622190) trae la conseguenza per cui, qualora la pretesa tributaria sia ancora sub iudice, il credito insinuato dall'agente della riscossione va ammesso al passivo con riserva, sulla base del ruolo emesso dall'Agenzia delle Entrate, previa verifica della sola natura concorsuale del credito e della sussistenza dei privilegi richiesti.

Sulla stessa scia, ribadendo il primato dell'impianto codicistico, Sez. 1, n. 16480 (Rv. 623742) ha stabilito che la misura legale cui rinvia l'art. 2749, secondo comma, cod. civ., ai fini dell'individuazione dei limiti della collocazione privilegiata del credito per interessi, deve intendersi riferita, al pari di quella prevista dagli art. 2788 e 2855 cod. civ. per i crediti pignoratizi e ipotecari, non al saggio d'interesse posto dalla legge che disciplina il singolo credito, ma a quello stabilito in via generale dall'art. 1284 cod. civ., atteso che il richiamo dell'art. 54 legge fall. alla disciplina del codice civile prevale sul riferimento a tassi diversi contenuto in leggi speciali (nella specie, art. 30 del d.P.R. n. 602 del 1973).

5. La prededuzione.

Affrontando un istituto profondamente rivisto sia dalle riforme del 2006 e 2007, sia dagli interventi successivi, Sez. 1, n. 4303 (Rv. 622074) ha puntualizzato le conseguenze di contratti ad esecuzione continuata o periodica (nella specie, somministrazione) pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, con esercizio provvisorio in corso, disposto ex art. 104 legge fall.: i relativi crediti maturati ante fallimento sono o meno prededucibili a seconda che, al termine dell'esercizio provvisorio, il curatore abbia scelto di subentrare o sciogliersi dal contratto, mentre solo quelli maturati in pendenza di esercizio provvisorio sono sempre prededucibili, al pari di quelli, successivi al termine dell'esercizio provvisorio, in caso di subentro nel contratto da parte del curatore. Infatti, ha modo di spiegare la Corte, l'eccezionalità delle disposizioni dettate dalla legge fallimentare per i contratti di durata, ex art. 74 e 82 legge fall., in ragione dell'indivisibilità delle prestazioni e con il diritto alla prededuzione dei crediti anche preesistenti, va contemperata con la ratio della disciplina dell'esercizio provvisorio, che limita la stessa prededucibilità quando la prosecuzione del rapporto è l'effetto diretto del provvedimento giudiziale, non della scelta del curatore.

In tema, Sez. 1, n. 3402 (Rv. 621934) ha stabilito che il necessario collegamento occasionale o funzionale con la procedura concorsuale, ora menzionato dall'art. 111 legge fall., va inteso non soltanto con riferimento al nesso tra l'insorgere del credito e gli scopi della procedura, ma anche con riguardo alla circostanza che il pagamento del credito, ancorché avente natura concorsuale, rientri negli interessi della massa e dunque risponda agli scopi della procedura stessa, in quanto utile alla gestione fallimentare. La Corte, affrontando gli scopi dell'istituto, ne descrive l'attuazione di un meccanismo satisfattorio destinato a regolare non solo le obbligazioni della massa sorte al suo interno, ma anche tutte quelle che interferiscono con l'amministrazione fallimentare ed influiscono sugli interessi dell'intero ceto creditorio.

Ulteriore specificazione è in tema di concordato fallimentare: per l'ordinanza Sez. 6-5, n. 5035 (Rv. 621739). l'imposta comunale sugli immobili (ICI), nell'ipotesi in cui il bene sia compreso nel fallimento, pone oneri fiscali a carico dell'assuntore che si impegni al pagamento delle spese di procedura, perché tra queste, ai sensi dell'art. 111 legge fall., rientrano, come debiti prededucibili, anche i crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali, né il creditore del tributo è tenuto ad insinuarsi al passivo, potendo soddisfarsi direttamente sul ricavato della vendita dell'immobile in via preferenziale, ed essendo l'assuntore l'unico obbligato ad eseguire le obbligazioni derivanti dal concordato.

PARTE SETTIMA IL DIRITTO TRIBUTARIO

  • diritto tributario

CAPITOLO XXII

IL DIRITTO TRIBUTARIO SOSTANZIALE

(di Antonio Corbo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Gli orientamenti giurisprudenziali sulla legge n. 212 del 2000. - 2.1 - 2.2 - 2.3 - 2.4 - 2.5 - 2.6 - 3 (segue) Il contrasto sulle conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine di sessanta giorni per la notifica dell'avviso di accertamento. - 4 L'elaborazione in materia di dazi doganali. - 4.1 - 4.2 - 4.3 - 4.4 - 5 Le pronunce in tema di recupero di aiuti di Stato. - 5.1 - 5.2 - 5.3 - 6 I limiti alla potestà impositiva derivanti dai Trattati Lateranensi. - 7 I criteri di valutazione delle operazioni transnazionali nei gruppi societari. - 8 Le fatture soggettivamente inesistenti.

1. Premessa.

Anche quest'anno le pronunce della Corte di cassazione in materia di diritto tributario sono state numerose ed hanno riguardato tutti i settori della legislazione fiscale. Essendo necessario operare una selezione che consenta una trattazione omogenea ed in spazi ragionevoli, sembra utile soffermare l'attenzione sulle decisioni che hanno riguardato la legge 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), tendendo la stessa sempre più a porsi come disciplina di parte generale per il procedimento amministrativo tributario, nonché su quelle che sono state emesse in materia di dazi doganali e di recupero di aiuti di Stato erogati nelle forme delle agevolazioni tributarie, costituendo, entrambi, settori caratterizzati dal progressivo consolidamento di principî in un quadro normativo complesso che vede l'interrelazione di fonti comunitarie e nazionali. Una specifica attenzione, anche per la delicatezza e l'attualità dei temi, va inoltre riservata alle pronunce relative, da un lato, ai limiti alla potestà impositiva derivanti dal Trattato Lateranense con la Santa Sede, e, dall'altro, alle operazioni transnazionali nell'ambito dei gruppi societari, nonché al tema sempre attuale delle fatture soggettivamente inesistenti.

2. Gli orientamenti giurisprudenziali sulla legge n. 212 del 2000.

Le decisioni della Corte di cassazione in ordine all'interpretazione ed all'applicazione della legge 27 luglio 2000, n. 212 hanno riguardato molteplici aspetti della sua disciplina. Sono stati, infatti, oggetto di esame e di precisazione: il ruolo e l'efficacia del principio direttivo dell'irretroattività delle leggi tributarie, il diritto al termine di sessanta giorni per l'effettuazione degli adempimenti, la portata ed i limiti dell'obbligo di motivazione, anche in riferimento al dovere di allegazione degli atti richiamati, l'area di operatività dell'obbligo del contraddittorio preventivo, le conseguenze della violazione dell'obbligo di indicare il responsabile del procedimento, la proiezione del principio dell'affidamento. Inoltre, si è accentuato il contrasto di orientamenti in relazione alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine di sessanta giorni tra il rilascio del verbale di constatazione e la notifica dell'avviso di accertamento, e la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite.

Può rilevarsi, in generale, la tendenza della giurisprudenza di legittimità a riconoscere ai principî posti dalla legge n. 212 del 2000 una rilevanza generale e di canone ermeneutico, ma non anche sovraordinata rispetto alle altre disposizioni di legge, e ad interpretarli in funzione delle esigenze di garanzia sostanziale del contribuente, evitando soluzioni estremamente gravose per l'Amministrazione finanziaria ove non rispondenti ad effettive necessità di tutela.

2.1.

In riferimento al principio di irretroattività della disciplina tributaria, sancito dall'art. 3 della legge n. 212 del 2000, risultano due indicazioni di fondo.

Da un lato, le sentenze della Sez. 5, n. 636 (Rv. 621544) e n. 5853 (Rv. 622278) – occupandosi entrambe dell'applicazione della legge 21 febbraio 2003, n. 27, la quale ha disposto l'inefficacia del condono relativo all'imposta unica sulle scommesse nei confronti dei contribuenti che avevano già effettuato tutti gli adempimenti richiesti prima della sua data di entra in vigore, ma dopo il 1° gennaio 2003 – hanno sottolineato che il principio di irretroattività è derogabile senza che occorra l'impiego di specifiche formule sacramentali: non è necessaria, cioè, a tal fine, l'espressa qualificazione della disposizione come regola eccezionalmente retroattiva, ma è sufficiente la previsione di efficacia della stessa da epoca anteriore alla sua data di entrata in vigore.

Dall'altro lato, però, la sentenza Sez. 5, n. 5403 (Rv. 621891), ha evidenziato che il principio di irretroattività costituisce canone ermeneutico di generale applicazione quando vi siano dubbi sulla data di efficacia di una disposizione di legge (il principio è stato affermato con riguardo alla disciplina della indeducibilità ai fini IRAP, da parte delle imprese bancarie, a partire dall'esercizio 2005, delle quote di svalutazione di crediti, stabilita dall'art. 2, comma 2, del d.l. 12 luglio 2004, n. 168, convertito in legge 30 luglio 2004, n. 191: si è, infatti, precisato che le quote di svalutazione di crediti effettuate negli esercizi precedenti al 2005, e rinviate, a fini esclusivamente fiscali, agli esercizi successivi, previa suddivisione in nove parti, a norma dell'art. 106, comma 3, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, costituiscono oggetto di una situazione sostanziale già consolidata, e sono quindi deducibili anche per gli esercizi successivi al 2005, in assenza di specifica disposizione retroattiva).

2.2.

Con riguardo al diritto al termine di sessanta giorni per l'effettuazione degli adempimenti da parte del contribuente, previsto dall'art. 3, comma 2, della legge n. 212 del 2000, l'ordinanza Sez. 6–5, n. 5324 (Rv. 622228) ha osservato che lo stesso non ha uno specifico fondamento costituzionale, né attiene all'esercizio del diritto di difesa ed è perciò derogabile per effetto di disposizioni aventi forza di legge, come è avvenuto nel caso della disciplina del credito d'imposta per i nuovi investimenti nelle aree svantaggiate, originariamente attribuito dall'art. 8 della legge 23 dicembre 2000, n. 388.

2.3.

Una ripetuta attenzione è stata prestata alla previsione contenuta nell'art. 7 della legge n. 212 del 2000, che impone l'obbligo di motivazione e di allegazione, precisandosi i limiti di estensione dello stesso. La sentenza Sez. 5, n. 14026 (Rv. 623657), ha enunciato il principio secondo cui detto obbligo si riferisce esclusivamente ai provvedimenti che autoritativamente incidono sulla sfera giuridica del contribuente e sugli atti impositivi, con la conseguenza che esso non si estende all'autorizzazione rilasciata agli organi verificatori per l'espletamento di indagini bancarie, costituendo questa una atto di tipo organizzativo, incidente nei rapporti tra uffici, ed avente natura meramente preparatoria, siccome inserito nella fase di iniziativa del procedimento. La sentenza Sez. 5, n. 11944 (Rv. 623381), poi, ha escluso che l'obbligo di motivazione debba riguardare l'indicazione delle ragioni urgenza che esonerano dall'osservanza del termine di sessanta giorni, previsto per la notifica dell'avviso di accertamento e decorrente dalla data di rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni di controllo, rilevando che esso, nel dettato della legge, si intende riferito alle ragioni poste a fondamento della pretesa tributaria, ma non anche ai tempi di emanazione dei provvedimenti impositivi o alle regole procedimentali. La sentenza Sez. 5, n. 9601 (Rv. 622998), ancora, ha precisato che l'onere di allegazione degli atti richiamati in motivazione del provvedimento impositivo riguarda i soli atti non conosciuti e non conoscibili dal contribuente, ma non si estende a quelli soggetti a pubblicità legale, come le delibere del consiglio comunale, che, in quanto tali, si presumono conoscibili.

2.4.

Con riguardo al diritto al contraddittorio preventivo all'adozione di provvedimenti impositivi, fissato dall'art. 6, comma 5, della legge n. 212 del 2000, la sentenza Sez. 5, n. 8342 (Rv. 622681), ha evidenziato che la previsione del contraddittorio preventivo, in quanto imposta solo «qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione», non si applica nel caso di emissione di cartella di pagamento relativa ad omesso o insufficiente versamento di imposte dirette ed indirette dovute in base alla dichiarazione presentata.

2.5.

Per quanto attiene alla indicazione del responsabile del procedimento, la sentenza Sez. 5, n. 4516 (Rv. 622198) ha affermato che la previsione dell'art. 7, comma 2, lett. a), della legge n. 212 del 2000, non comporta l'annullabilità dell'atto privo di tale riferimento, in quanto trattasi di disposizione priva di sanzione, la cui violazione può ritenersi incidente sui diritti fondamentali del destinatario dell'atto (il principio è stato enunciato in relazione alle cartelle esattoriali consegnate agli agenti della riscossione in data anteriore al 1° giugno 2008, posto che, per quelle riferite ai ruoli consegnati a decorrere da tale data, l'art. 36, comma 4 ter del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, prevede la sanzione della nullità).

2.6.

In tema di tutela dell'affidamento, contemplata dall'art. 10 della legge n. 212 del 2000, la sentenza Sez. 5, n. 3757 (Rv. 621927), ha precisato che la conformazione del comportamento del contribuente ad un'interpretazione erronea della disciplina normativa fornita dall'Amministrazione mediante circolari ministeriali assume un rilievo articolato: essa, da un lato, esclude l'applicazione di sanzioni ed interessi, e, dall'altro, però, non costituendo le circolari ministeriali fonti di diritti ed obblighi, non esonera dall'adempimento dell'obbligazione tributaria.

3. (segue) Il contrasto sulle conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine di sessanta giorni per la notifica dell'avviso di accertamento.

Oggetto di contrasto, manifestatosi ripetutamente nel corso di quest'anno, ma risalente già a qualche anno addietro, è la soluzione della questione relativa alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine di sessanta giorni tra il rilascio del verbale di constatazione e la notifica dell'avviso di accertamento, fissato dall'art. 12 della legge n. 212 del 2000.

Va premesso che la sentenza Sez. 5, n. 16354 (Rv. 623835), con una decisione che non risulta avere specifici precedenti, ha precisato che le garanzie di cui all'art. 12 citato spettano esclusivamente al soggetto sottoposto ad accesso, ispezione o verifica, ma non anche al terzo nei cui confronti emergano dati rilevanti all'esito della verifica, o dell'esame della dichiarazione fiscale o sulla base di rapporti, comunicazioni e segnalazioni provenienti da altre autorità, o sulla base di richieste questionari o inviti, o a seguito di indagini penali.

Va inoltre aggiunto che il contrasto risulta limitato alla validità dell'avviso di accertamento, ma non si estende ad atti ad esso affini: la sentenza Sez. 5, n. 4687 (Rv. 621745) ha infatti escluso che la garanzia del termine di sessanta giorni possa essere invocata in riferimento all'avviso di recupero di un credito di imposta, rilevando che, pur essendo i due atti parificati quanto a natura, l'estensione della prerogativa implicherebbe l'imposizione di un termine non espressamente contemplato dalla legge, senza che ciò sia necessario al fine di evitare pregiudizi per il contribuente, il quale può impugnare sia l'avviso di recupero, sia l'avviso di accertamento, rispetto al quale il primo è comunque propedeutico, tanto più che, in questo caso, resta fermo l'obbligo per l'Amministrazione di rispettare il termine in questione.

Ciò detto, le ragioni poste a fondamento del contrasto risultano chiaramente evidenziate dalle sentenze della Sez. 5, n. 16992 (Rv. 624093) e n. 16999 (Rv. 624094). La prima decisione, invero, sottolinea che l'avviso di accertamento è atto a natura vincolata rispetto al verbale di constatazione sul qual si fonda, che la sanzione della invalidità non è espressamente prevista dalla legge e che il contribuente può comunque esercitare il diritto di difesa tanto in via amministrativa con il ricorso all'autotutela, quanto in via giudiziaria, nel termine ordinario previsto dalla legge. La seconda decisione, invece, anche richiamando Corte cost., ord., 24 luglio 2009, n. 244, perviene alla soluzione opposta, in applicazione degli art. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000, 3 e 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, 42, commi 2 e 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 56, comma 5, del d.P.R. 26 ottobre 1973, n. 633; la stessa, anzi, ha cura di aggiungere che il termine di sessanta giorni deve essere rispettato anche se il contribuente abbia presentato osservazioni prima dello spirare di esso, poiché solo con la sua consumazione viene meno anche la facoltà di esporre osservazioni e richieste all'Ufficio impositore.

La questione, comunque, è stata rimessa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, dall'ordinanza della Sez. 5, n. 7318, la quale ha sintetizzato le ragioni di contrasto di cui si è detto, rappresentandone l'evoluzione e lo sviluppo argomentativo.

4. L'elaborazione in materia di dazi doganali.

Un cospicuo numero di decisioni ha affrontato le questioni relative ai profili problematici in tema di presupposti per l'esenzione o la riduzione dei dazi doganali e di azione di recupero a posteriori dei dazi dovuti e non versati all'atto dell'introduzione delle merci nel territorio nazionale, allorché questo costituisca il luogo di ingresso dei beni nell'Unione europea. Sono stati così esaminati, in particolare, gli aspetti riguardanti il ruolo svolto dal certificato di origine delle merci quale presupposto per l'esenzione o la riduzione dei diritti di confine, l'ambito di rilevanza della buona fede dell'importatore ai fini dell'esonero del pagamento del dazio, i termini di decadenza e prescrizione dell'azione di recupero, le modalità di esercizio dell'azione di recupero nel caso di mancato pagamento di diritti doganali determinato da un fatto di reato, l'area di applicazione delle sanzioni per le dichiarazioni oggettivamente mendaci dell'importatore.

Le direttrici seguite dalla giurisprudenza risultano essere quelle del rigore nell'accertamento dei presupposti per l'esenzione o la riduzione dei dazi e della massima efficacia assicurata all'esercizio dell'azione di recupero dei diritti dovuti e non corrisposti, con l'unico temperamento determinato dall'esigenza di evitare al contribuente la soggezione all'attività recuperatoria per un termine indefinito, in nome del principio di certezza delle situazioni giuridiche.

4.1.

Per quanto riguarda il certificato di origine delle merci, e la sua funzione di presupposto per l'esenzione o la riduzione dei dazi doganali, le precisazioni hanno riguardato sia la nozione di "certificato regolare", sia gli adempimenti necessari a far rilevare le irregolarità dello stesso, sia la possibilità di sanatorie retroattive.

La sentenza Sez. 5, n. 3285 (Rv. 622010), ha evidenziato che il certificato di provenienza delle merci deve ritenersi inesatto sia in ipotesi di falsità materiale, sia in ipotesi di falsità ideologica, perché l'esenzione daziaria presuppone la regolarità tanto formale quanto sostanziale del certificato emesso dall'autorità deputata al suo rilascio.

La sentenza Sez. 5, n. 14036 (Rv. 623912), ha poi precisato che certificato inesatto è anche quello in relazione al quale, all'esito degli accertamenti svolti, non sia possibile disporre di elementi sufficienti per confermare l'origine della merce in esso indicata, in quanto l'esenzione doganale, in quanto derogatoria della disciplina ordinaria, spetta solo ai prodotti che hanno l'origine prevista dagli accordi istitutivi del regime preferenziale, e non anche a quelli di origine ignota.

Le sentenze della Sez. 5, n. 5400 (Rv. 622226) e n. 14032 (Rv. 623860) hanno invece affermato che il rifiuto di applicazione del beneficio del trattamento preferenziale, e conseguentemente la possibilità di procedere a recupero a posteriori dei dazi, non è subordinato ad un formale annullamento del certificato da parte delle autorità del Paese emittente, che potrebbe anche riconoscere l'autenticità dello stesso, in quanto l'adozione delle misure recuperatorie è legittimata dalle risultanze delle indagini effettuate dagli organi ispettivi comunitari, atteso il disposto dell'art. 26 del Regolamento CEE n. 2913 del 1992, adottato dal Consiglio in data 12 ottobre 1992, e del Regolamento CEE n. 2454 del 1993, adottato dalla Commissione in data 2 luglio 1993.

La sentenza Sez. 5, n. 10785 (Rv. 623317-623318), invece, ha escluso la necessità di procedere a contestazione del certificato di origine delle merci, quando, con la dichiarazione all'importazione, venga chiesta l'immissione in pratica sia di prodotti specificamente individuati nel certificato, sia di prodotti non menzionati nello stesso e l'Ufficio doganale abbia applicato anche a questi ultimi il regime preferenziale, poiché non viene in alcun modo in discussione l'efficacia probatoria o la validità del documento; ha inoltre ritenuto inammissibile la possibilità di sanare con effetto retroattivo la situazione delle merci non coperte, all'atto dell'importazione, dal certificato di origine, poiché il sistema normativo non consente, successivamente alla definizione dell'obbligazione tributaria, che si perfeziona con l'accettazione della dichiarazione doganale ed il rilascio della merce, l'emissione di certificati a posteriori in sostituzione di quelli già emessi ed utilizzati, in forza di quanto previsto dall'art. 9 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, e dagli art. 81 e 85 del Regolamento CEE n. 2454 del 1993.

4.2.

Altro profilo oggetto di ripetuti approfondimenti attiene all'ambito di rilevanza della buona fede dell'importatore ai fini dell'esonero dal pagamento dei dazi doganali. Le sentenze della Sez. 5, n. 1583 (Rv. 621388), n. 3531 (Rv. 621928), n. 4022 (Rv. 622058) e n. 14032 (Rv. 623859) hanno concordemente evidenziato che la buona fede dell'importatore preclude l'azione di recupero a posteriori dei diritti di confine dovuti solo nel caso di errore attivo imputabile alle autorità competenti per il recupero o dello Stato membro di esportazione, a norma dell'art. 220 del Regolamento CEE n. 2913 del 1992, adottato dal Consiglio in data 12 ottobre 1992, e che questo errore, tuttavia, non può consistere nella mera ricezione di dichiarazioni o documentazioni inesatte sull'origine della merce provenienti dall'esportatore, di cui l'autorità non debba preliminarmente verificare o valutare la validità, perché grava sull'importatore il rischio derivante dallo svolgimento della sua attività commerciale, e contro tale rischio è possibile premunirsi nell'ambito dei rapporti negoziali, così come affermato anche dalla giurisprudenza comunitaria, ed in particolare da Corte di Giustizia, 17 luglio 1997, C 97/95. La citata sentenza n. 4022 (Rv. 622059), ha poi precisato che la buona fede del debitore, se non può essere invocata per ottenere sgravi o rimborsi all'importazione a seguito della presentazione di certificati falsi, falsificati o irregolari per espresso disposto dell'art. 904, lett. c), del Regolamento CEE n. 2454 del 1993, adottato dalla Commissione in data 2 luglio 1993, può essere invece addotta a sostegno della domanda di sgravio a norma dell'art. 239 del Regolamento CEE n. 2913 del 1992, costituendo esso una clausola generale di equità, applicabile in costanza di situazioni particolari ed in assenza di simulazioni o di negligenza manifesta da parte dell'interessato. La sentenza Sez. 5, n. 7674 (Rv. 622448), ha inoltre affermato che l'errore attivo delle autorità competenti è in ogni caso escluso se indotto, anche in buona fede, da dichiarazioni dello stesso operatore che invoca l'esenzione (il principio è stato enunciato in relazione ad una vicenda nella quale l'operatore, in accompagnamento della merce in esportazione, aveva allegato il certificato attestante l'origine comunitaria della stessa, che, invece, pur essendo oggetto di sospensione di dazi in area comunitaria in forza del regime di perfezionamento attivo, era di provenienza extracomunitaria ed era diretta verso un Paese terzo che non riconosceva alcuna esenzione a tale tipologia di prodotti). Ancora, la sentenza Sez. 5, n. 5387 (Rv. 622221), ha escluso la rilevanza della buona fede dell'importatore ai fini dell'esenzione a posteriori dai dazi quando la Commissione europea abbia pubblicato nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, anteriormente alle operazioni di importazione, un avviso in cui sono segnalati fondati dubbi circa la corretta applicazione del regime preferenziale da parte del Paese beneficiario, alla luce di quanto previsto dall'art. 220, n. 2, lett. b) del Regolamento CEE n. 2913 del 1992, come modificato dal Regolamento CEE n. 2700 del 2000, adottato dal Consiglio in data 1 novembre 2000, ed in considerazione di quanto indicato nell'undicesimo "considerando" di questo Regolamento.

4.3.

In relazione ai termini di prescrizione e di decadenza dell'azione di recupero a posteriori per i diritti di confine dovuti e non corrisposti, la sentenza Sez. 5, n. 5387 (Rv. 622220), ha affermato che l'unico limite temporale al potere dell'Amministrazione di procedere a controllo a posteriori è quello triennale di cui all'art. 221, n. 3, del Regolamento CEE n. 2913 del 1992, adottato dal Consiglio in data 12 ottobre 1992, poiché il sistema desumibile dal combinato disposto degli art. 78, n. 3, 201, n. 1, lett. a), 217, n. 1, 220, n. 1, e 221, nn. 1) e 3), del medesimo Regolamento non consente l'individuazione di un preclusione in un termine più breve, neppure in forza del principio dell'affidamento (nella specie, invocato per l'avvenuto svincolo della garanzia fideiussoria relativa alle merci interessate), in quanto le cause di estinzione dell'obbligazione doganale sono quelle espressamente previste dagli art. 233 e 234 del Regolamento, mentre il disposto dell'art. 199 di tale atto normativo costituisce norma di azione tendente a regolare il comportamento della P.A.

La citata sentenza Sez. 5, n. 5387 (Rv. 622222), poi, ha precisato che l'inosservanza del termine di due giorni per la contabilizzazione dei dazi da riscuotere, previsto dall'art. 220, n. 1, del Regolamento CEE n. 2913 del 1992, adottato dal Consiglio in data 12 ottobre 1992, preclude all'Amministrazione di riscuotere l'importo dovuto, sia perché non avrebbe altrimenti significato il termine di tre anni a decorrere dalla data in cui è sorta l'obbligazione doganale per comunicare al debitore l'importo di questa, stabilito dall'art. 221, n. 3, del Regolamento citato, sia perché tale inosservanza non è prevista tra le cause di estinzione elencate dall'art. 233 del medesimo Regolamento.

Le sentenze della Sez. 5, n. 5384 (Rv. 622219) e n. 14016 (Rv. 623684) hanno invece affermato che il termine di prescrizione triennale di cui all'art. 221, n. 3, del Regolamento CEE n. 2913 del 1992, è prorogato fino al definitivo accertamento del reato quando la mancata determinazione del dazio sia avvenuta a causa di un atto perseguibile penalmente, ma a condizione che, nell'arco di questi tre anni, sia stata trasmessa la notitia criminis all'Autorità Giudiziaria; in particolare, la seconda decisione ha osservato che la necessità della formulazione della notitia criminis nel triennio si fonda sull'esigenza di evitare una indefinita interruzione del termine di prescrizione, e, quindi, la lesione del principio di certezza dei rapporti giuridici, che invece conseguirebbe ove si affidasse il prolungamento del termine ai tempi burocratici o alle inefficienze della P.A. nell'esercizio dei poteri di verifica o nella comunicazione della notizia di fatti penalmente rilevanti. La sentenza Sez. 5, n. 11932 (Rv. 623342), ha inoltre chiarito che il termine di prescrizione, nel caso di omessa contabilizzazione dovuta ad un atto obiettivamente integrante una fattispecie di reato dal diritto penale nazionale che procede al recupero, decorre dalla data della consumazione del fatto di reato e non da quella, precedente, delle originarie operazioni doganali (il principio è stato enunciato in relazione ad una vicenda relativa a beni importati in regime preferenziale concesso per il valore dichiarato degli stessi, ma diverso da quello derivante in considerazione di rimborsi effettuati all'importatore dai fornitori in epoca successiva alle operazioni doganali, rilevando che solo all'esito dell'effettuazione dei rimborsi era stato integrato il fatto di reato).

4.4.

Con riferimento alle modalità di esercizio dell'azione di recupero nel caso di mancato pagamento di diritti doganali determinato da un fatto di reato, le sentenze Sez. 5, n. 1574 (Rv. 621688) e n. 4510 (Rv. 621726) hanno osservato che è legittimo il ricorso all'ingiunzione prevista dall'art. 82 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, che ha regolato ex novo la revisione dell'accertamento da parte degli Uffici doganali, in quanto tale disciplina non è applicabile quando è in corso un procedimento penale, la prima sottolineando che in questo caso non occorre alcuna ulteriore indagine sulla merce, l'altra richiamando, invece, le maggiori garanzie assicurate nell'ambito del procedimento penale al diritto al contraddittorio. La prima decisione ha anche precisato che l'atto di ingiunzione è congruamente motivato con la sola indicazione della causale, ossia del fatto di reato e del ruolo in esso assunto dal destinatario dell'ingiunzione, e della somma richiesta.

In ordine al profilo sanzionatorio, le sentenze Sez. 5, n. 13489 (Rv. 623648), n. 14030 (Rv. 623654) e n. 14042 (Rv. 623866), hanno affermato, in modo convergente, il principio, in relazione al quale non risultano precedenti, secondo cui costituisce illecito amministrativo, a norma dell'art. 303 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, che punisce «le dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci destinate alla importazione definitiva» non corrispondenti all'accertamento degli Uffici finanziari, anche la falsa o difforme dichiarazione sull'origine, la provenienza e la destinazione dei beni, ritenendo di dover procedere ad una interpretazione estensiva della fattispecie. In particolare, la prima decisione ha sottolineato che l'origine della merce è uno degli elementi caratteristici della qualità, la seconda ha posto l'accento sul principio costituzionale di ragionevolezza e sull'esigenza di assicurare l'effettività della normativa comunitaria, per la quale il certificato di origine è condizione per l'ottenimento del beneficio daziario, la terza ha rimarcato che l'origine di un bene costituisce elemento distintivo di esso sia sotto il profilo civilistico, sia in relazione alla correttezza delle dichiarazioni doganali in funzione della sua circolazione e dell'efficienza dei controlli. Inoltre, la citata sentenza Sez. 5, n. 14030 (Rv. 623655), ha precisato che una volta dimostrata la sussistenza della fattispecie oggettiva dell'illecito, grava sul trasgressore l'onere di provare l'assenza di colpa, per effetto della presunzione posta dall'art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che costituisce la disciplina generale di riferimento in materia di illeciti amministrativi.

5. Le pronunce in tema di recupero di aiuti di Stato.

Un considerevole numero di pronunce ha riguardato la materia del recupero degli aiuti di Stato concessi mediante agevolazioni tributarie e ritenuti incompatibili con i principî del Trattato istitutivo delle Comunità Europee (oggi sostituito dal Trattato sull'Unione Europea e dal Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea). L'elaborazione più significativa è avvenuta in relazione all'attuazione della decisione n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, la quale ha dichiarato aiuto di Stato incompatibile con il mercato comune l'esenzione triennale dalla imposta sui redditi disposta dall'art. 66, comma 14, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427, in favore delle società di gestione dei pubblici servizi costituite a norma dell'art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142. Essa ha offerto l'occasione per puntualizzare i profili attinenti a natura e inoppugnabilità delle decisioni comunitarie, ed alla disciplina applicabile alla procedura recuperatoria.

Il quadro che emerge è quello di una giurisprudenza ispirata all'esigenza di conformarsi al principio del primato del diritto comunitario e di assicurare la massima efficacia possibile all'azione di recupero.

5.1.

Con riferimento a natura ed inoppugnabilità delle decisioni della Commissione europea, la sentenza Sez. 5, n. 15207 (Rv. 623780623781), ha affermato che detti provvedimenti, quando sono dotati dei caratteri di precisione e chiarezza, incidono anche sul piano normativo dell'ordinamento dello Stato al quale sono diretti, in quanto richiedono l'adozione degli strumenti normativi indispensabili e la disapplicazione delle norme statuali incompatibili con il ripristino della situazione antecedente alla concessione degli aiuti; ne ha perciò desunto che essi, in tal caso, come nella specie la decisione n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, possono assurgere a diretto parametro del sindacato di legittimità ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La pronuncia ha poi aggiunto che quando la decisione della Commissione sia divenuta inoppugnabile per decorso del termine, o il ricorso contro di essa sia stato respinto, è preclusa ogni ulteriore discussione e valutazione relativa alla illegittimità o invalidità delle valutazioni compiute nell'atto, poiché, a ritenere altrimenti, si vanificherebbe il sistema dei rimedi giurisdizionali predisposto dai Trattati relativi all'Unione Europea. La sentenza Sez. 5, n. 16349 (Rv. 624095), invece, ha escluso il rinvio pregiudiziale di validità della decisione n. 2003/193/CE alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea sul rilievo della compiuta dimostrazione, da parte della stessa, dei requisiti per ritenere gli aiuti in esame incompatibili con il mercato comune, e precisamente della circostanza dell'idoneità delle misure a costituire un ostacolo all'accesso al mercato italiano delle imprese non nazionali, anche se l'impresa operi in situazione di monopolio di fatto e con attività di dimensione ridotta.

5.2.

Per quanto riguarda la disciplina relativa all'azione di recupero degli aiuti indebitamente concessi, sono stati affrontati gli aspetti relativi all'applicazione delle disposizioni previste per la riscossione dei tributi, anche con riferimento agli istituti premiali, ed al tasso di interesse da corrispondere sulle somme da restituire.

5.3.

Le sentenze della Sez. 5, n. 6538 (Rv. 622353-622354), n. 8108 (Rv. 622680), n. 15207 (Rv. 623782) e la citata n. 16349 hanno sottolineato che la disciplina di cui all'art. 1 del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito in legge 4 giugno 2007, n. 46, relativa all'esecuzione della decisione n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, ha la specifica funzione di assicurare il rispetto del dovere, da parte dello Stato italiano, di procedere al recupero immediato ed effettivo degli aiuti giudicati incompatibili con il mercato comunitario, caratterizzandosi per la sua assoluta specificità rispetto ad altre discipline e per la sua diversità rispetto all'attività di accertamento contemplata nel d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Da questo principio, la prima pronuncia ha conseguito, in primo luogo, che l'atto con il quale l'Amministrazione finanziaria procede al recupero è tipizzato in funzione liquidatoria ed è pertanto sufficiente l'indicazione dei presupposti soggettivi per il recupero e dell'avvenuta fruizione dell'aiuto, ma non occorre l'allegazione della decisione comunitaria; in secondo luogo, che non opera la disciplina dei termini di decadenza di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. La seconda pronuncia, invece, ne ha desunto che, ove ai fini del recupero debba procedersi a rettifica del reddito imponibile, non è necessario emettere l'avviso di accertamento di cui all'art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973. La terza e la quarta pronuncia, ancora, hanno ribadito l'inapplicabilità della disciplina di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, aggiungendo specificamente che il termine quinquennale di decadenza è in contrasto con il principio di effettività del diritto comunitario e con l'obbligo di rispettare le decisioni della Commissione.

Le sentenze Sez. 5, n. 6538 (Rv.. 622355) e n. 15207 (Rv. 623783) hanno evidenziato che l'azione per il recupero degli aiuti di Stato indebitamente fruiti è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale, decorrente dalla data di notifica della comunicazione-ingiunzione. La prima decisione, poi, ha individuato il dies a quo in considerazione della previsione dell'art. 15 del Regolamento n. 1999/659/CE, adottato dal Consiglio il 22 marzo 1999, secondo il quale i poteri della Commissione europea sono soggetti ad un periodo limite di dieci anni a decorrere dalla data di concessione dell'aiuto, e ritenendo che il termine di diritto interno può decorrere solo dopo la consumazione di quello di diritto comunitario. La seconda pronuncia, invece, ha fondato la sua conclusione sul rilievo che solo dalla data della notifica della decisione della Commissione allo Stato membro l'aiuto erogato è qualificabile come illegale.

Le sentenze Sez. 5, n. 7659 (Rv. 622438) e n. 7663 (Rv. 622527) hanno poi affermato l'inapplicabilità di istituti di carattere premiale, anche se specificamente previsti per le controversie in materia tributaria, ove contrastanti con il principio di effettività del diritto comunitario; in particolare, la seconda pronuncia ha escluso la possibilità per il beneficiario dell'aiuto indebitamente concesso di invocare la disciplina italiana sul condono fiscale.

La sentenza Sez. 5, n. 14019 (Rv. 623660), ha infine precisato che sulle somme da recuperare per aiuti di Stati indebitamente fruiti, il criterio di determinazione degli interessi su base composta, secondo cui gli interessi maturati l'anno precedente producono interessi in ciascuno degli anni successivi, previsto dall'art. 11 del Regolamento CE n. 794/2004 della Commissione del 21 aprile 2004, si applica, in luogo di quello a tasso semplice, solo in relazione alle decisioni di recupero notificate successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo Regolamento, e limitatamente al periodo intercorrente tra la notifica della decisione della Commissione ed il recupero effettivo, per effetto dell'art. 13 del citato atto normativo comunitario, il quale stabilisce che «gli articoli 9 e 11 si applicano a tutte le decisioni di recupero notificate successivamente alla data di entrata in vigore del presente regolamento».

6. I limiti alla potestà impositiva derivanti dai Trattati Lateranensi.

Due decisioni risultano emesse nel corso del 2012 con riferimento ai limiti alla potestà impositiva dello Stato italiano per effetto dei Trattati Lateranensi. Una attiene all'assoggettabilità alla tassa sui rifiuti solidi urbani della Pontificia Università Gregoriana; l'altra, invece, riguarda l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità ai messaggi affissi sui ponteggi prospicienti le facciate dei Palazzi dei Propilei da società affidataria del contratto di appalto per la restaurazione degli stessi. Il dato comune ad entrambe le pronunce è l'interpretazione restrittiva delle disposizioni di esenzione tributaria, in un prospettiva attenta alla funzione che le stesse intendono realizzare.

In particolare, la sentenza Sez. 5, n. 4027 (Rv. 621523), ha affermato che l'immobile adibito a sede della Pontificia Università Gregoriana non è esentato dalla tassa sui rifiuti solidi urbani. Ha fondato questa sua conclusione, da un lato, sul rilievo che l'art. 16 dei Trattati Lateranensi, benché preveda che l'immobile sarà esente da tributi ordinari e straordinari verso lo stato o altri enti, costituisce una disposizione programmatica, richiedente una disposizione di attuazione, che però non risulta essere stata adottata in materia di tassa sui rifiuti solidi urbani, e, dall'altro, sulla considerazione che una specifica disciplina in questa materia è tanto più necessaria, in quanto la tassa in questione ha la valenza di corrispettivo di un servizio legato alla qualità e quantità dei rifiuti prodotti dal soggetto passivo, e quindi, la produzione ed il conferimento dei rifiuti costituiscono la ratio sia dell'imposizione, sia delle relative agevolazioni.

La sentenza Sez 5, n. 11381 (Rv. 623224), invece, ha affermato che l'affissione di messaggi pubblicitari sui ponteggi prospicienti le facciate dei Palazzi dei Propilei da società affidataria del contratto di appalto per la restaurazione degli stessi immobili, è assoggettata all'imposta sulla pubblicità, anche se gli art. 15 e 16 dei Trattati Lateranensi attribuiscono a questi edifici, in quanto in essi la Santa Sede abbia collocato i propri dicasteri, le immunità riconosciute dal diritto internazionale alle sedi degli agenti diplomatici di stati esteri e l'esenzione da ogni tipo di tributo tanto verso lo Stato, quanto verso qualsiasi altro ente. Ha infatti osservato che, da un lato, i ponteggi sono estranei agli edifici coperti da immunità, in quanto collegati a questi solo in via transitoria e contingente, e, dall'altro, che l'immunità, anche fiscale, è assicurata alla Santa Sede in quanto soggetto titolare di personalità giuridica di diritto internazionale, ed in relazione alle sue funzioni sovrane ed ai suoi compiti primari di religione e di culto, e non si estende, quindi, ad attività che a queste funzioni e a questi compiti non possano ritenersi finalisticamente collegate.

7. I criteri di valutazione delle operazioni transnazionali nei gruppi societari.

La giurisprudenza di legittimità, nell'anno in corso, ha anche avuto occasione di interessarsi, dopo alcuni anni, della disciplina fiscale relativa alle operazioni transnazionali tra società appartenenti al medesimo gruppo societario, in relazione al fenomeno del c.d. transfer price o transfer pricing. Ha così ricostruito il fondamento della disciplina dettata ai fini delle imposte sul reddito dagli art. 9 e 110, comma 7, del. d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, facendo riferimento alle fonti internazionali ed in particolare alle indicazioni provenienti dall'O.C.S.E. (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).

La sentenza Sez. 5, n. 11949 (Rv. 623334), ha premesso che la normativa in materia di transfer price ha la funzione di evitare che tra società facenti capo al medesimo gruppo si proceda ad aggiustamenti artificiali dei prezzi, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in territori caratterizzati da una fiscalità più mite. Ha poi osservato che la disposizione centrale in materia è svolta dall'art. 110, comma 7, del d.P.R. n. 917 del 1986, in forza del quale i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l'impresa o ne sono controllate, o che sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa nazionale, sono valutati in base al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato a norma dell'art. 9 del medesimo d.P.R. Ha quindi rilevato che questa disciplina non mira a combattere l'occultamento del corrispettivo, ma manovre che incidono sul corrispettivo, pattuito in misura diversa da quella "normale", e che sono rese possibili dalla sostanziale unicità del soggetto economico; essa, in altre parole, ha il significato di clausola antielusiva, in linea con i principî comunitari in tema di abuso del diritto, finalizzata ad evitare trasferimenti di utili all'interno dello stesso gruppo, mediante l'applicazione di prezzi inferiori o superiori a quelli comunemente in pratica. Ha aggiunto, ancora, che, leggendo la regola in esame in combinato disposto con l'art. 9 del modello di convenzione fiscale dell'O.C.S.E., si evince come il criterio cardine è costituito dal principio di libera concorrenza, ossia avendo riguardo al regime di rapporti che si instaurano tra imprese indipendenti. Ha ulteriormente precisato che, quando sono in discussione non ricavi, ma costi, viene in rilievo anche il profilo dell'inerenza, ossia la correlazione degli stessi a specifici ricavi, e che la dimostrazione della sua esistenza non può che cadere a carico del contribuente in forza del principio della c.d. vicinanza della prova.

La sentenza Sez. 5, n. 17953 (Rv. 623993), invece, ha approfondito la nozione di "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti. A tal fine, ha effettuato una lettura coordinata tra l'art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986 e le linee guida elaborate dall'O.C.S.E., ed ha evidenziato che per valore normale si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi, e che per la determinazione dello stesso si fa riferimento ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o servizi, ovvero, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso. Ha poi annullato, in applicazione di questo principio, la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto integrato il fenomeno del transfer pricing per l'applicazione di identici prezzi di vendita alle consociate estere indipendentemente dalle quantità di beni cedute e determinato il valore normale sulla base di generici raffronti infrannuali e di asserite medie di periodo.

8. Le fatture soggettivamente inesistenti.

Il tema dell'utilizzo di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, al fine di operare la detrazione dell'i.v.a. assolta a monte e della deducibilità dei costi inerenti agli acquisti operati dal reddito d'impresa, ha ricevuto anche quest'anno attenzione dalla Corte.

La Sez. 5, n. 7672 (Rv. 622447) ha negato che il cessionario dei beni, così come il committente dei servizio, abbia il diritto alla detrazione o alla variazione dell'imposta nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, poiché, pur essendo i beni o il servizio effettivamente entrati nella disponibilità dell'impresa utilizzatrice, la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l'evasione del tributo relativo alla diversa operazione, effettivamente realizzata tra altri soggetti.

La sentenza Sez. 5, n. 9108 del 2012 (Rv. 622993) ha quindi affermato che, essendo la fattura documento idoneo a rappresentare un costo dell'impresa, in ipotesi di fatture che l'amministrazione ritenga relative ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, questa ha l'onere di provare, anche per presunzioni, che l'operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere; a fronte di tale prova, passa sul contribuente l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni contestate, a norma dell'art. 2697, secondo comma, cod. civ.

Deciso riferimento all'ammissibilità piena della prova presuntiva si trova pure in Sez. 5, n. 15741 (in corso di massimazione), la quale ritiene di puntualizzare come la prova indiziaria richieda «la presa in considerazione dell'insieme degli indizi. Ciascun elemento della serie può ben essere compatibile con una verità diversa, ma è la serie nel suo complesso ad essere eventualmente univocamente dimostrativa. Se tutti gli elementi menzionati nel ricorso o buona parte di essi … fossero provati, sarebbe arduo per qualunque persona ragionevole ipotizzare l'estraneità e la non consapevolezza della frode».

Con la sentenza Sez. 5, n. 23074 (in corso di massimazione), la S.C. si è posta, poi, il dichiarato obiettivo, a fronte delle plurime pronunce interne e comunitarie e di loro letture non sempre corrette, di assolvere alla propria funzione nomofilattica fornendo un quadro "chiaro ed esaustivo" del problema.

Quanto all'imposta sul valore aggiunto, la Corte parte dal definire la nozione di fattura inesistente, che ricomprende anche il caso di "inesistenza soggettiva"; descrive, quindi, il meccanismo di applicazione dell'imposta, spiegando come la sua neutralità totale è quella che giustifica il diritto alla detrazione; osserva, infine, che l'alterazione del meccanismo in caso di comportamenti illeciti, per i quali l'i.v.a. sia stata pagata ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa, non permette l'ordinario dispiegarsi del diritto alla detrazione. Infatti, in caso di operazione soggettivamente inesistente, quanto all'i.v.a. si verificano due conseguenze: a) l'alterazione dei presupposti per la detrazione dell'i.v.a., con indebito vantaggio fiscale per il cessionario, che fruisce di una detrazione non dovuta; b) l'evasione con riguardo alla diversa operazione effettivamente realizzata.

La Corte ha anche colto l'occasione per qualificare la fattura – sul piano civilistico – come "atto giuridico a contenuto partecipativo", che non può costituire prova a favore di chi l'abbia emessa nei confronti di soggetto non imprenditore; laddove – sul piano tributario – certamente la fattura è elemento idoneo a rappresentare un costo per l'impresa e prova a favore dell'emittente nei rapporti con il fisco.

E tuttavia, è sufficiente la prova presuntiva circa la consapevolezza, in capo al cessionario, dell'inesistenza soggettiva dell'operazione, per escludere la detrazione dell'i.v.a.: essendo la prova ex art. 2727 cod. civ. a buon diritto inquadrabile tra quelle oggettive e capaci di costituire prova piena ed esclusiva dell'assunto.

Quanto alle imposte dirette, la citata sentenza n. 23074 prosegue affermando che i costi deducibili sono solo quelli strumentali all'impresa, ossia inerenti, come è onere del contribuente provare: e dunque deducibili, appunto, soltanto qualora non ricorra un illecito penale (falso documentale, come concorso all'emissione di fattura falsa e come utilizzo di essa a fini di evasione).

Un'ulteriore riflessione sul problema si trova nella sentenza Sez. 5, n. 23560 (in corso di massimazione), sulla scorta delle pronunce della Corte di giustizia dell'Unione europea del 21 giugno 2012, C80/11 e 142/11, Mahagében e del 6 settembre 2012, C-324/11, Toth.

Sulla base di tali enunciati vincolanti, la Suprema Corte ha, dapprima, ricordato i proprî arresti, secondo cui spetta all'amministrazione l'onere di provare le circostanze che giustificano la contestazione della detrazione d'imposta, per il sospetto dell'inesistenza delle operazioni, e secondo cui la fattura è elemento idoneo a rappresentare un costo dell'impresa; e, quindi, ha precisato il suo orientamento, statuendo che è onere dell'amministrazione «provare, alla luce di elementi oggettivi, che il soggetto passivo interessato sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva (…) in un'evasione commessa dall'emittente delle fatture contestate o da un altro operatore, intervenuta a monte nella catena di prestazioni». Si tratta di elementi oggettivi «tali, per la loro idoneità indiziante, da porre sull'avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull'inesistenza sostanziale del contraente».

La Corte ribadisce ancora che l'amministrazione può assolvere il proprio onere mediante presunzioni semplici, dotate dei requisiti di cui all'art. 2729 cod. civ., ed allora spetta al contribuente l'onere della prova contraria.