PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE E I PROCESSI

  • giurisdizione

CAPITOLO XXIII

LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE

(di Giuseppe Fuochi Tinarelli )

Sommario

1 I motivi inerenti la giurisdizione e il sindacato delle Sezioni Unite. - 1.1 Il sindacato sulle decisioni del Consiglio di Stato. - 1.2 Il sindacato sulle sentenze della Corte dei conti. - 2 Il conflitto tra le giurisdizioni. - 2.1 I limiti (provvedimentali e temporali) in tema di regolamento di giurisdizione e di ricorso per cassazione. - 2.2 La translatio judicii. - 2.3 Il giudicato implicito sulla giurisdizione (e dintorni). - 3 Il riparto di giurisdizione nel pubblico impiego. - 3.1 La ripartizione ordinaria della giurisdizione. Le procedure concorsuali. - 3.2 La disciplina transitoria. La problematica del frazionamento della giurisdizione per fasi temporali: il revirement delle Sezioni Unite. - 4 La connessione di cause tra giurisdizioni. - 5 Profili in tema di giurisdizione internazionale.

1. I motivi inerenti la giurisdizione e il sindacato delle Sezioni Unite.

Nel corso del 2012 le Sezioni Unite con i propri interventi hanno ulteriormente definito e consolidato la progressiva lettura estensiva della nozione di «motivi inerenti alla giurisdizione» contenuta nell'art. 111, ottavo comma, Cost., ossia degli unici motivi per i quali, come ribadito dall'art. 362 cod. proc. civ., sono censurabili le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

Con questa formula, infatti, si fa tradizionalmente riferimento ai vizi ravvisabili nell'ipotesi in cui la sentenza abbia violato, in positivo o in negativo, l'ambito della giurisdizione in generale (invadendo la sfera riservata all'autorità politica o all'amministrazione ovvero rifiutando la giurisdizione sull'erroneo assunto della sua inesistenza in assoluto) o comunque abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione (avuto riguardo agli ambiti di competenza della giurisdizione ordinaria o delle altre giurisdizioni speciali ovvero, abbia compiuto, nel caso in cui sia riconosciuta una giurisdizione di legittimità, un sindacato sul merito amministrativo), restando, invece, escluso ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale e, dunque, agli eventuali errori in iudicando e in procedendo, che riguardano l'accertamento della fondatezza o meno della domanda.

1.1. Il sindacato sulle decisioni del Consiglio di Stato.

In tema di sconfinamento nella sfera del merito amministrativo, le Sezioni Unite hanno riaffermato gli ambiti della potestà del giudice amministrativo (e, correlativamente, i limiti al proprio sindacato) rilevando - con la sentenza Sez. Un., n. 8412 (Rv. 622514) - che le valutazioni tecniche delle commissioni giudicatrici di esami o concorsi pubblici sono assoggettabili al sindacato di legittimità del giudice amministrativo per manifesta illogicità del giudizio tecnico o travisamento di fatto in relazione ai presupposti del giudizio medesimo, senza che ciò comporti la configurazione di un eccesso di potere giurisdizionale.

Nello stesso senso, si è pure negato - Sez. Un., n. 6491 (Rv. 622256) - che la mera interpretazione della normativa (nella specie, posta a tutela del patrimonio culturale e rurale di cui alla all'art. 12, comma 7, del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387) in senso restrittivo (così negando la necessità del parere della Sovrintendenza per il paesaggio ed escludendo che l'impianto per la produzione di energia elettrica da fonte eolica, autorizzato dalla P.A. in assenza di detto parere, fosse idoneo ad arrecare pregiudizio al patrimonio culturale della popolazione) comportasse una invasione della sfera di attribuzioni della P.A. o dello stesso legislatore. Nella stessa prospettiva, poi, si è negato - Sez. Un., n. 22784 (Rv. 624255) - che il Consiglio di Stato abbia invaso la sfera riservata al legislatore nella normale attività interpretativa della legge ove ricavi la voluntas legis oltre che dal dato letterale delle singole disposizioni anche dalla ratio che il loro coordinamento sistematico disveli (nella specie, il giudice amministrativo, alla luce della normativa vigente, aveva valutato la legittimità del provvedimento ministeriale con il quale si era riconosciuta la parità solo per la classe prima di un istituto professionale non statale e non anche per gli anni successivi).

Né una diversa conclusione è stata raggiunta - Sez. Un., n. 5942 (Rv. 622258) - con riguardo alla decisione del Consiglio di Stato che, nel giudicare sulla domanda risarcitoria per equivalente proposta dal beneficiario di un finanziamento pubblico, abbia valutato il concorso di colpa del danneggiato, dimezzando il risarcimento.

L'esame di una vicenda relativa all'esclusione di alcuni soggetti dalle procedure di affidamento delle concessioni ed degli appalti di lavori, forniture e servizi ha poi permesso alle Sezioni Unite - Sez. Un., n. 2312 (Rv. 621164) - di bene individuare la linea di confine delle potestà riconosciute al giudice amministrativo. La Corte, sul rilievo che la normativa applicabile (l'art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) attribuisce alla P.A. (i.e. la stazione appaltante) «un ampio margine di apprezzamento circa la sussistenza del requisito dell'affidabilità dell'appaltatore» ha affermato che «il sindacato che il giudice amministrativo è chiamato a compiere sulle motivazioni di tale apprezzamento deve essere mantenuto sul piano della "non pretestuosità" della valutazione degli elementi di fatto compiuta e non può pervenire ad evidenziare una mera "non condivisibilità" della valutazione stessa; l'adozione del criterio della "non condivisione" si traduce, infatti, non in un errore di giudizio - insindacabile davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione - ma in uno sconfinamento nell'area della discrezionalità amministrativa, ossia in un superamento dei limiti esterni della giurisdizione tale da giustificare l'annullamento della pronuncia del giudice amministrativo».

Questo indirizzo ha trovato un'ulteriore conferma con riferimento ad una vicenda di particolare delicatezza in relazione al rilievo costituzionale del soggetto il cui operato era stato oggetto di sindacato da parte del Consiglio di Stato. Con la sentenza Sez. Un., n. 3622 (Rv. 621448) la Corte - in una controversia relativa al conferimento di un incarico direttivo da parte del Consiglio Superiore della magistratura - nel considerare la portata ed il contenuto del sindacato del giudice amministrativo su atti a contenuto fortemente valutativo, cui certamente inerisce un ampio grado di discrezionalità anche tecnica, nel riconoscere l'ammissibilità dell'intervento del Consiglio di Stato (che trae diretto fondamento dall'art. 24 Cost.), ha escluso che il giudice amministrativo ecceda dai limiti della propria giurisdizione ove «si astenga dal censurare i criteri di valutazione adottati dall'amministrazione e la scelta degli elementi ai quali la stessa amministrazione ha inteso dare peso» e si limiti, invece, ad annullare «la deliberazione per vizio di eccesso di potere, desunto dall'insufficienza o dalla contraddittorietà logica della motivazione in base alla quale il Consiglio Superiore della magistratura ha dato conto del modo in cui, nel caso concreto, gli stessi criteri da esso enunciati sono stati applicati per soppesare la posizione di contrapposti candidati».

È stata invece esclusa la giurisdizione del giudice amministrativo - Sez. Un., n. 21112 (in corso di massimazione), che ha ribadito il principio già affermato ex art. 363 cod. proc. civ. da Sez. Un, n. 19566 del 2011 (Rv. 618533) - nell'ipotesi in cui la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura abbia, in sede cautelare, disposto, oltre al trasferimento d'ufficio, anche la specifica individuazione della sede e dell'ufficio di destinazione del magistrato.

Un rilevante numero di sentenze della Suprema Corte, peraltro, ha avuto ad oggetto ipotesi in cui veniva in contestazione l'applicazione delle regole del processo amministrativo.

Tale profilo, riconducibile alla problematica valutazione degli errores in procedendo o in judicando tradizionalmente sottratta al sindacato delle Sezioni Unite, si inserisce in un percorso di progressivo ampliamento della stessa nozione di "motivi inerenti alla giurisdizione", che, in tal modo, viene sempre più ancorata al principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Nella gran parte dei casi, invero, le Sezioni Unite, pur valutando l'eventuale irregolarità o l'errata applicazione di norme e regole processuali, hanno comunque concluso nel senso di ritenere insussistente, nel caso concreto, i presupposti per l'ammissibilità di un proprio intervento.

Così è stato, in particolare, nelle seguenti decisioni:

- Sez. Un., n. 5943 (Rv. 622253) che ha ritenuto che la decisione discrezionale del giudice amministrativo che disponga la sospensione del processo, nell'attesa della soluzione di un incidente di costituzionalità sollevato dal medesimo organo giurisdizionale in un diverso processo, pone il primo in una condizione di temporanea attesa, ma non integra un'ipotesi di rifiuto della giurisdizione;

- Sez. Un., n. 8071 (R.v. 622513) che ha affermato la necessità di una valutazione complessiva e non atomistica della stessa motivazione della decisione del Consiglio di Stato, le cui affermazioni «devono comunque essere lette nel contesto complessivo della decisione stessa, non potendo la verifica dell'osservanza, da parte del giudice amministrativo, dei limiti (esterni) nella valutazione di congruità e logicità della motivazione dell'atto e della non ingerenza della scelta tra le diverse opzioni valutative essere incentrata soltanto su singole espressioni, o addirittura parole, estrapolate dal contesto argomentativo della decisione»;

- Sez. Un., n. 12607 (Rv. 623344) secondo le quali la decisione di proseguire il giudizio nonostante la proposizione di una domanda di ricusazione contro alcuni componenti del collegio non integra un error in procedendo riconducibile ai limiti esterni della giurisdizione pur prefigurandosi l'eventuale nullità della sentenza in caso di successivo accoglimento dell'istanza di ricusazione stessa.

In termini decisamente più incisivi, invece, si sono poste altre pronunce. In particolare:

- Sez. Un., n. 10294 (Rv. 623049) esclude in termini recisi la condivisibilità del principio processuale espresso dal Consiglio di Stato, secondo il quale «il ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara di affidamento di appalti pubblici, deve essere sempre esaminato prioritariamente, anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l'interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura». La Corte evidenzia, infatti, che, in tal modo, due parti (le due imprese concorrenti) che sollevano la medesima questione vengono trattate in modo ingiustificatamente differente (il ricorso dell'una viene sanzionato con l'inammissibilità mentre l'altro è convalidato con la conservazione di una aggiudicazione - in tesi - illegittima), e tale risultato denota "una crisi di un sistema", invece «di assicurare a tutti la possibilità di provocare l'intervento del giudice per ripristinare la legalità e dare alla vicenda un assetto conforme a quello voluto dalla normativa di riferimento». Le Sezioni Unite, tuttavia, non conducono questa valutazione alle sue più radicali conseguenze poiché - si afferma - la decisione «non costituisce conseguenza di un aprioristico diniego di giustizia, ma di un possibile errore di diritto che, pur rendendo ammissibile il ricorso avverso la predetta sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111, comma 8, Cost., stante l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti, non ne giustifica la cassazione per eccesso di potere giurisdizionale»;

- analogamente Sez. Un., n. 15428 (Rv. 623300) che, con estrema chiarezza, enuncia il principio secondo il quale «è configurabile l'eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia» (nella specie si deduceva il mancato termine di venti giorni dall'ultima notificazione per la fissazione della camera di consiglio per la decisione sulla sospensiva, sede in cui, poi, senza opposizione delle parti costituite, l'intero giudizio era stato definito con sentenza in forma semplificata).

La tensione che si coglie da queste decisioni, dunque, è quella di considerare come norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale ma anche quella che dà contenuto a questo potere, stabilendo le forme di tutela attraverso le quali si estrinseca: i motivi inerenti alla giurisdizione possono riguardare anche gli errores in procedendo ma solo se questi abbiano determinato uno stravolgimento del processo. Ciò, tuttavia, è sufficiente a rendere ammissibile il ricorso alle Sezioni Unite ma non ancora a giustificare la cassazione della decisione per "eccesso di potere giurisdizionale", soluzione che sembra richiedere che la statuizione impugnata abbia realizzato un concreto diniego o rifiuto di giustizia.

Tale assunto, del resto, emerge con chiarezza sul terreno che più diffusamente è stato oggetto di esame da parte delle Sezioni Unite, ossia il regime delle impugnazioni e le regole di formazione del giudicato. La Corte, infatti, ha recentemente - Sez. Un., n. 20727 (Rv. 624059) - ribadito l'ammissibilità del ricorso proposto contro la decisione del Consiglio di Stato che abbia ritenuto precluso l'esame della questione di giurisdizione (pur reiterata con l'appello) per essersi formato il giudicato sul punto, atteso che lo stesso deve ritenersi proposto per motivi inerenti la giurisdizione, a cui spetta il sindacato non solo sulle norme attributive della giurisdizione ma anche sull'applicazione di quelle che ne regolano il rilievo, "nonché di quelle correlate attinenti al sistema delle impugnazioni".

All'interno di questa stessa direttrice - sia pure con alcune significative differenze - si pone anche la giurisprudenza in tema di giudizio di ottemperanza, avviata con la sentenza Sez. Un., n. 23302 del 2011 (Rv. 619646), che nel corso del 2012 ha trovato ulteriori conferme.

Con la sentenza Sez. Un., n. 739 (Rv. 620476) la Corte ha ribadito che «le decisioni del Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza sono soggette al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sul rispetto dei limiti esterni della propria potestà giurisdizionale, tenendo presente che in tal caso è attribuita al giudice amministrativo una giurisdizione anche di merito. Al fine di distinguere le fattispecie nelle quali il sindacato è consentito da quelle nelle quali è inammissibile, è decisivo stabilire se oggetto del ricorso è il modo con cui il potere di ottemperanza è stato esercitato (limiti interni della giurisdizione) oppure se sia in discussione la possibilità stessa, in una determinata situazione, di fare ricorso al giudizio di ottemperanza (limiti esterni della giurisdizione); ne consegue che, ove le censure mosse alla decisione del Consiglio di Stato riguardino l'interpretazione del giudicato, l'accertamento del comportamento tenuto dall'Amministrazione e la valutazione di conformità di tale comportamento rispetto a quello che si sarebbe dovuto tenere, gli errori nei quali il giudice amministrativo può eventualmente incorrere, essendo inerenti al giudizio di ottemperanza, restano interni alla giurisdizione stessa e non sono sindacabili dalla Corte di cassazione». Tale principio ha poi trovato un'ulteriore riscontro con la successiva Sez. Un., n. 8513 (Rv. 622554) che, con riguardo ad un giudizio di ottemperanza, ha affermato, in termini più concisi, che «il giudice amministrativo cade in eccesso di potere giurisdizionale quando non si limiti all'interpretazione del giudicato, al quale si tratta di assicurare l'ottemperanza stessa».

Occorre ricordare, sul punto, che la posizione delle Sezioni Unite muoveva dal rilievo che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo è chiamato ad esercitare una giurisdizione di merito ma che tale rilievo non precludeva, di per sé, il sindacato della Corte di cassazione ove fosse stato ecceduto il limite entro il quale tale potere compete. Invero tale principio è stato più volte ribadito dalle Sezioni Unite anche in tempi recenti (come da ultimo Sez. Un., n. 3689, Rv. 621674), dovendosi aver riguardo, in questi casi, all'estensione dei poteri del giudice amministrativo.

Nella vicenda presa in considerazione (come anche in quella già in precedenza valutata) - relativa al conferimento di un ufficio direttivo, con una procedura caratterizzata dal fatto, sopravvenuto, che nelle more dell'ottemperanza tutti i partecipanti erano stati collocati a riposo - le Sezioni Unite avevano posto l'attenzione non sull'interesse ad agire (la cui collocazione è interna alla giurisdizione e, dunque, si sottrae al sindacato) ma sull'oggetto e sullo scopo del giudizio di ottemperanza, investendo, pertanto, i limiti (esterni) entro i quali è esercitabile la potestà giurisdizionale.

L'avvenuto pensionamento di tutti i partecipanti al concorso, in questa prospettiva, toglieva al giudizio di ottemperanza la possibilità di conseguire il suo scopo, mentre la prosecuzione dell'attività giurisdizionale in vista di conseguenze pensionistiche o risarcitorie finiva per assegnare al giudizio un diverso scopo, la cui tutela avrebbe potuto essere affrontata con un ordinario giudizio, innanzi al medesimo giudice amministrativo o ad altro giudice speciale, e non in sede di ottemperanza.

Giova rilevare che - quando oggetto dell'impugnazione sia una decisione resa in sede di ottemperanza - con questo approccio confluisce nella nozione di motivi inerenti alla giurisdizione l'analisi della fattispecie concreta su cui il giudice amministrativo ebbe a pronunciarsi al fine di valutare se fatti sopravvenuti rendano impossibile la realizzazione della causa tipica del provvedimento amministrativo cui la P.A. sia vincolata per effetto del precedente giudicato.

Non si può non sottolineare un tratto di significativa differenza di questa giurisprudenza rispetto all'intero percorso della Suprema Corte in tema di ampliamento della nozione di giurisdizione: il principio conduttore, più volte ribadito sin dalla nota sentenza Sez. Un., n. 30254 del 2008 (Rv. 605845) in tema di pregiudiziale amministrativa, pone l'accento sul valore della giurisdizione come strumento per la tutela effettiva dei diritti e degli interessi delle parti, mentre l'orientamento qui in considerazione finisce - in una prospettiva per certi versi antitetica - per ridurre gli spazi di tutela a favore della parte privata già assicurati dal giudice amministrativo in sede di ottemperanza.

La dottrina, del resto, si è espressa in termini critici e non ha mancato di osservare che, con riguardo allo specifico orientamento in esame, sembra assumere preminente rilievo l'attuazione del diritto oggettivo rispetto alla realizzazione dell'interesse sostanziale della parte che ha dato avvio al giudizio, risultato questo che è suscettibile di condurre - in ispecie per le situazioni caratterizzate dall'esistenza di uno spazio valutativo particolarmente ampio per l'amministrazione - ad un vuoto di tutela (cfr. MARI, Osservazioni alla sentenza della Cassazione, Sezioni unite, 9 novembre 2011, n. 23302: sindacato della Suprema Corte sulle sentenze del giudice amministrativo rese in sede di ottemperanza e rilevanza di sopravvenienze fattuali successive al giudicato a giustificare un sostanziale vuoto di tutela, in Dir. proc. amm., 2012, 127-170).

Da ultimo, invero, la Corte è nuovamente intervenuta - Sez. Un., n. 17936 (Rv. 623612) - sulla problematica correlata all'abuso dello strumento del giudizio di ottemperanza, precisando che si realizza eccesso di potere giurisdizionale solamente se, per effetto dell'estensione della giurisdizione al merito ex art. 134, comma 1, lett. a), cod. proc. amm., ne sia derivato un indebito sconfinamento del provvedimento giurisdizionale nella sfera delle attribuzioni proprie dell'amministrazione o, eventualmente, di un giudice appartenente ad un ordine diverso. Sembrerebbe invece esclusa l'ipotesi - oggetto di specifica considerazione nella giurisprudenza sopra citata - in cui sia lo stesso giudice amministrativo (seppure in altra veste) ad avere giurisdizione sulla questione, realizzandosi, in questo caso, un mero error in procedendo, privo di rilevanza esterna.

1.2. Il sindacato sulle sentenze della Corte dei conti.

La questione che, nel 2012, ha raccolto le maggiori attenzioni da parte delle Sezioni Unite ha ad oggetto l'estensione della responsabilità amministrativa nei confronti di soggetti che, in vario modo, hanno una relazione con la P.A.

Già nel 2011 la Corte era più volte intervenuta su questa problematica (e segnatamente con Sez. Un., n. 9846 del 2011, Rv. 615574, in tema erogazione di finanziamenti a fondo perduto a favore di una impresa privata e mala gestio del privato; con Sez. Un., n. 8129 del 2011, Rv. 616678, con riguardo agli atti compiuti dall'amministratore di una società privata incaricata della realizzazione di opere per la P.A.; con Sez. Un., n. 30786 del 2011, Rv. 620045 - poi ribadita con la decisione conforme Sez. Un., n. 11 del 2012, Rv. 621201 - sull'esistenza di un rapporto di servizio tra consulente del P.M. e amministrazione della giustizia) ma ancora più significative sono state le pronunce dell'ultimo periodo.

Una delle decisioni più rilevanti è costituita da Sez. Un., n. 3692 (Rv. 621677) che ha riguardato la specifica questione della responsabilità contabile dei dipendenti di una società a capitale pubblico (nella specie le Poste Italiane S.p.a.) per i danni arrecati al capitale sociale (cfr., al riguardo, pure il vol. I, cap. XIX, § 14.1).

La Corte, infatti, ha chiarito che le controversie riguardante l'azione di responsabilità a carico del dipendente di una società per azioni a partecipazione pubblica, anche se totalitaria, per il danno patrimoniale subito dalla società a causa della condotta illecita del dipendente (nella specie, accettazione irregolare di un vaglia cambiario) appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice contabile, atteso che, da un lato, l'autonoma personalità giuridica della società porta ad escludere l'esistenza di un rapporto di servizio tra dipendente e P.A., e, dall'altro lato, il danno cagionato dall'illecito incide in via diretta solo sul patrimonio della società, che resta privato e separato da quello dei soci.

Questi i passaggi del ragionamento, particolarmente lineare, seguiti dalle Sezioni Unite:

- assume rilievo, in primo luogo, il rapporto che lega il soggetto che rappresenta il capitale pubblico all'interno della società all'ente pubblico o allo Stato rappresentato: ove sia riconoscibile un rapporto di servizio ivi sussiste anche la giurisdizione della Corte dei conti;

- è necessario, peraltro, distinguere tra la posizione della società partecipata, con la quale intercorre questo rapporto, e la posizione personale degli amministratori (e degli altri organi della società), che non si identificano con la società: non è possibile, infatti, riferire a questi ultimi il rapporto di servizio di cui la società stessa sia parte;

- l'eccezione a tale ragionamento si ha solo - in coerenza con la disciplina del codice civile che distingue tra responsabilità dell'amministratore e degli organi di controllo societario nei confronti della società e nei confronti di singoli soci e dei terzi - nel caso in cui l'ente pubblico sia stato direttamente danneggiato dall'amministratore (o dal dipendente) della società partecipata: solamente in questa evenienza è ipotizzabile una azione di responsabilità diretta nei confronti dell'amministratore (o dal dipendente) stesso.

In altri termini, la Corte fa leva sul rilievo che l'autonoma personalità giuridica della società conduce ad escludere l'esistenza di un rapporto di servizio tra amministratori (od altri soggetti della società, ivi compresi i dipendenti) e l'ente pubblico, mentre, per contro, il danno cagionato dalla cattiva gestione dell'amministratore incide in via diretta solo sul patrimonio della società, che resta privato e separato da quello dei soci. Non va trascurato, del resto, che i dipendenti della società sono soggetti di diritto privato e, dunque, sono sottoposto ad un diverso ed autonomo regime di responsabilità.

Merita di essere sottolineato, infine, che la Corte, con la richiamata decisione, si sofferma anche sulla natura di organismo di diritto pubblico eventualmente riconosciuta a questi soggetti, limitandone la rilevanza ai soli fini dell'applicazione della procedura di evidenza pubblica richiesta dal legislatore comunitario senza che possa influire sul regime di responsabilità riconosciuto.

Questo orientamento ha trovato ulteriore conferma, poi, con Sez. Un., n. 13619 (Rv. 623289) che, con riguardo alla domanda di risarcimento del danno cagionato dagli amministratori al patrimonio della Federazione italiana hockey e pattinaggio - avente natura di associazioni con personalità giuridica di diritto privato ma sottoposta ai poteri di indirizzo e controllo del CONI in ragione della «valenza pubblicistica di specifici aspetti» dell'attività sportiva - ha escluso la giurisdizione della Corte dei conti poiché il rapporto di servizio attinente alle residue funzioni pubblicistiche della federazione non si trasferisce da questa ai suoi amministratori.

Nella stessa direzione si pone anche l'affermazione - Sez. Un., 10132 (Rv. 622752) - secondo la quale la controversia tra la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, ente privatizzato ex art. 1 del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e l'agente di riscossione dei contributi degli iscritti, che abbia omesso il riversamento degli importi a ruolo, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non alla giurisdizione della Corte dei conti, poiché la natura "pubblica" della contribuzione, inerente alla sua finalità istituzionale, riguarda unicamente il rapporto previdenziale tra la Cassa e il proprio iscritto.

L'autentico punto centrale della questione, invero, riguarda la verifica e individuazione di un rapporto di servizio tra l'amministrazione e il dipendente.

Su questa problematica l'orientamento della Corte è, da tempo, in positiva evoluzione ed ha condotto ad assegnare alla nozione - come emerge, ad esempio, con Sez. Un., n. 23599 del 2010 (Rv. 615020) e con Sez. Un., n. 20434 del 2009 (Rv. 609244) - un contenuto più ampio del mero rapporto di impiego, avvicinandosi ad un rapporto quasi funzionale, con inserimento dell'agente nell'iter procedimentale o nell'apparato organico dell'ente e compartecipazione all'attività amministrativa di quest'ultimo.

Ciò ha portato ad individuare una varia serie di ipotesi di responsabilità in cui il privato è entrato in contatto con le amministrazioni pubbliche con utilizzazione di risorse di provenienza pubblica.

Si pone in questo alveo, in particolare, Sez. Un., n. 5756 (Rv. 622043), che, nell'esaminare una fattispecie complessa, ha avuto occasione di fissare alcuni specifici punti.

Le Sezioni Unite, in particolare, hanno precisato - con la citata Sez. Un. n. 5756 - che, ai fini della giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, sussiste il rapporto di servizio tra il segretario particolare di un ministro e la P.A., non rilevando che l'attività del primo sia normativamente delimitata alla collaborazione all'opera personale del ministro stesso, con divieto di intralciare l'azione normale degli uffici amministrativi o di sostituirsi ad essi, atteso che l'opera personale del ministro è appunto quella svolta dal medesimo, quale membro del Governo posto al vertice del ramo della P.A. che fa capo al relativo dicastero, sicché il segretario particolare è comunque inserito nell'apparato organico dell'ente pubblico ed esercita un'attività di collaborazione funzionalmente collegata alla realizzazione dei fini propri del medesimo.

Si è inoltre ritenuto - Sez. Un., n. 5756 (Rv. 622045) - configurabile il rapporto di servizio tra il professore universitario di ruolo (dipendente del Ministero dell'università) nominato, quale esperto, come componente di commissioni non contemplate da disposizioni di legge e chiamate ad esprimere un parere consultivo all'organismo (CIP) abilitato a deliberare sul prezzo dei farmaci fissato poi dal Ministero dell'industria, e la suddetta amministrazione dello Stato cui i pareri sono offerti, essendo sufficiente a configurare quel rapporto anche la relazione funzionale caratterizzata dall'inserimento del soggetto nell'iter procedimentale o nell'apparato organico dell'ente, tale da rendere il primo compartecipe dell'attività amministrativa del secondo.

Si è peraltro esclusa - Sez. Un., n. 10137 (Rv. 623051) - la giurisdizione ove il rapporto risulti solo indiretto e non funzionalmente inserito atteso che in nessun caso un rapporto di servizio «può discendere dal rapporto civilistico tra il privato percettore di contributi pubblici e altro ente, pure privato, che in forza di detto rapporto si sia assunta la responsabilità ex art. 38 cod. civ. di far fronte alle obbligazioni gravanti sul primo».

Si è invece affermata - Sez. Un., n. 5756 (Rv. 622042) - la sussistenza del rapporto di servizio con riguardo all'azione di risarcimento per danno all'immagine «arrecato dal ministro e dal sottosegretario (nella specie, in relazione ad illeciti accertati in sede penale, che avevano determinato un'ingiustificata lievitazione della complessiva spesa farmaceutica) per la perdita di prestigio ed in conseguenza della minore fiducia ingenerata nell'opinione pubblica dall'operato della P.A., stante il rapporto di servizio dei medesimi con lo Stato». Si è sottolineata, sul punto, l'irrilevanza dell'individuazione del soggetto destinatario dell'effettivo pregiudizio, né che il danno fosse stato cagionato all'una o all'altra branca dell'amministrazione, giacché «quello all'immagine concerne l'unica entità soggettiva costituita dallo Stato-persona».

In linea con questa indicazione si è anche rilevato - Sez. Un., n. 9188 (Rv. 623006), nonché Sez. Un., n. 5756 (Rv. 622046) sulla legittimità costituzionale dell'irretroattività della norma - che l'art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, nel circoscrivere la possibilità del P.M. presso il giudice contabile di agire per il risarcimento del danno all'immagine di enti pubblici (pena la nullità degli atti processuali computi) ai soli fatti costituenti delitti contro la P.A., accertati con sentenza passata in giudicato, introduce una condizione di mera proponibilità dell'azione di responsabilità davanti al giudice contabile e non una questione di giurisdizione, posto che ad incardinare la giurisdizione della Corte dei conti è necessaria e sufficiente l'allegazione di una fattispecie oggettivamente riconducibile allo schema del rapporto d'impiego o di servizio del suo preteso autore, mentre afferisce al merito ogni problema relativo alla sua effettiva esistenza.

Anche con riferimento alla giurisdizione della Corte dei conti, poi, sono intervenute decisioni che hanno contribuito alla definizione del concetto di "motivi inerenti alla giurisdizione".

Ferma l'irrilevanza dei meri errores in iudicando e in procedendo ai fini del sindacato di giurisdizione - così Sez. Un., n. 5756 (622041) con riguardo all'omessa trasmissione di copia degli atti del processo alla Camera dei deputati in relazione ad un procedimento per attività connesse alle funzioni di parlamentare, nonché Sez. Un., n. 16849 (623578) relativa ad un asserito vizio di ultrapetizione - si è tuttavia affermato che - Sez. Un., n. 831 (Rv. 621103) - dovendo l'amministrazione, in via generale, provvedere ai suoi compiti con mezzi, organizzazione e personale propri, la Corte dei conti può valutare se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire. Ne consegue che non viola i limiti esterni della giurisdizione contabile né quelli relativi alla riserva di amministrazione la pronuncia con la quale la Corte dei conti condanni il sindaco, gli assessori ed alcuni dirigenti comunali a causa dell'approvazione di una variante per la realizzazione di una lottizzazione alberghiera eccedente le possibilità del Comune stesso, situato in zona prevalentemente agricola.

In tema di eccesso di potere giurisdizionale, inoltre, si è ritenuto - Sez. Un., n. 3854 (621435) - che integri una mancata erogazione di tutela giurisdizionale per ragioni non previste dal dettato normativo la pronuncia della con cui l'inammissibilità dell'istanza di definizione agevolata della controversia sulla responsabilità amministrativa, avanzata ai sensi dei commi 231-233 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, venga pronunciata in ragione della proposizione dell'appello ad opera della parte pubblica, posto che detta domanda può dichiararsi preclusa solo in difetto dei diversi presupposti indicati dalla legge, e cioè se proveniente da soggetto non legittimato, o perché non richiesta in appello dall'appellante, o domandata per condanne per fatti commessi dopo il 31 dicembre 2005, o dopo il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado che ha statuito la condanna stessa.

Sotto un diverso profilo, invece, si è escluso - Sez. Un., n. 5756 (Rv. 622044) - che sia sindacabile la sentenza che, ai fini del giudizio di responsabilità per danno erariale, tragga elementi confermativi della responsabilità dalla sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., atteso che essa, pur non determinando un accertamento insuperabile di responsabilità nei giudizi civili e amministrativi, costituisce pur sempre un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito e, sebbene priva di efficacia automatica in ordine ai fatti accertati, implica tuttavia l'insussistenza di elementi atti a legittimare l'assoluzione dell'imputato e, quindi, può essere valutata dal giudice contabile al pari degli altri elementi di giudizio.

Si è anche escluso - Sez. Un., n. 16849 (Rv. 623579) - che violi i limiti esterni della giurisdizione contabile, invadendo la sfera riservata al giudice penale, la decisione con la quale la Corte dei conti, nel giudicare sulla responsabilità amministrativa contabile di una società, richiami il parametro della culpa in vigilando di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, non per farne diretta applicazione, ma solo come criterio per verificare se nel comportamento della società sia ravvisabile l'elemento soggettivo della colpa grave, che rappresenta, in alternativa al dolo, requisito della responsabilità amministrativa contabile.

2. Il conflitto tra le giurisdizioni.

Il percorso delineato dalla giurisprudenza e dal legislatore per la risoluzione del conflitto tra le giurisdizioni - ossia per definire una volta per tutte quale giudice abbia giurisdizione sulla domanda proposta dalla parte - incrocia una varietà di argomenti che vanno dalle condizioni e tempi per la proposizione del regolamento di giurisdizione, alla sorte del processo nelle successive fasi e gradi una volta superato il primo grado di giudizio, alla problematica della translatio judicii fino alla formazione del giudicato (implicito) sulla giurisdizione.

Su ognuno di questi aspetti le Sezioni Unite hanno avuto modo, nel corso del 2012, di fornire specifiche indicazioni e di precisare gli orientamenti formatisi anche in tempi recenti, consolidando alcune delle opzioni che si sono affacciate sulla scena giudiziaria.

2.1. I limiti (provvedimentali e temporali) in tema di regolamento di giurisdizione e di ricorso per cassazione.

In tema di regolamento di giurisdizione le Sezioni Unite - Sez. Un., n. 10132 (Rv. 622751) hanno, innanzitutto, ribadito il principio secondo il quale il provvedimento di concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, ai sensi dell'art. 648 cod. proc. civ., non ha carattere definitivo e decisorio ed è, pertanto, inidoneo a contenere una statuizione sulla giurisdizione su cui possa formarsi il giudicato e non preclude la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione.

Più articolati, peraltro, sono stati gli interventi della Corte Suprema in materia di regolamento d'ufficio in relazione alla disciplina introdotta con l'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, integrata, sul piano sistematico, dall'omologa previsione contenuta nell'art. 11 del cod. proc. amm., disposizione che, indubbiamente, finisce per assolvere, rispetto alla prima norma, anche una valenza interpretativa.

Con riguardo al giudizio ordinario e alle caratteristiche della sua articolazione, infatti, la Corte - Sez. Un., n. 5873 (Rv. 622305) - ha interpretato l'art. 59, terzo comma, legge n. 69 del 2009, a norma del quale il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d'ufficio la questione di giurisdizione davanti alle Sezioni Unite "fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito", nel senso che «il limite oltre il quale il secondo giudice non può sollevare il conflitto di giurisdizione non è costituito dal compimento della prima udienza, se nell'udienza prevista dall'art. 183, primo comma, cod. proc. civ. il giudice adotta i provvedimenti indicati nello stesso primo comma, ma dal fatto che il giudice non si sia limitato all'adozione di provvedimenti ordinatori ed eventualmente decisori su questioni impedienti di ordine processuale, logicamente precedenti quella di giurisdizione; in tal caso, quel limite si sposta all'udienza che il giudice fissa in base al secondo comma del medesimo articolo».

La stessa direttrice, peraltro, ispira l'ammissibilità della rilevazione d'ufficio innanzi al giudice amministrativo atteso che con la medesima sentenza - Sez. Un., n. 5873 (Rv. 622303-622304) la Corte - interpretando l'art. 11 cod. proc. amm. - ha affermato che, ai fini del regolamento di giurisdizione d'ufficio da parte del giudice amministrativo, davanti al quale il giudizio è tempestivamente riproposto a seguito di una precedente declinatoria di giurisdizione del giudice ordinario, il Consiglio di Stato, in sede di appello, è legittimato a sollevare d'ufficio il conflitto, dinanzi alle Sezioni Unite della Cassazione, a condizione che il rilievo d'ufficio della questione di giurisdizione non sia ormai precluso, come nel caso in cui la questione di giurisdizione non sia stata esaminata dal Tar in primo grado, salvo che tale giudizio si sia chiuso in base all'esame di questioni attinenti all'ordine del processo e, quindi, logicamente pregiudiziali rispetto alla stessa questione di giurisdizione.

Una particolare ipotesi di rilevazione d'ufficio è stata poi evidenziata - con Sez. Un., n. 3237 (Rv. 621777) - in relazione all'avvenuta proposizione di regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 cod. proc. civ. Le Sezioni Unite, infatti, hanno affermato che, rispetto a quei profili e domande per cui esso non risulti specificamente denunciato dalle parti, e salva la ricorrenza di preclusioni di carattere processuale, è nei poteri della Corte rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione atteso che il regolamento, pur non essendo un mezzo di impugnazione, configura comunque, ai sensi dell'art. 37 cod. proc. civ., uno "stato" del processo, «conformandosi tale doverosità anche al canone della ragionevole durata ex art. 111 Cost.».

La verifica operata dalla Corte ha poi investito anche la rilevazione degli spazi residui dell'art. 362 cod. proc. civ. con riguardo all'area di operatività dell'art. 59 citato.

Le Sezioni Unite, in particolare, hanno precisato - con Sez. Un., n. 10139 (Rv. 622830) (ma ad una soluzione sostanzialmente analoga è giunta Sez. Un., n. 19601, in fase di massimazione, con riguardo al caso in cui sia il TAR che il Tribunale regionale delle acque avevano declinato la giurisdizione, poi riconosciuta dalle Sezioni Unite a favore del TSAP) - che la disciplina dettata dall'art. 59 della legge n. 69 del 2009 non è in grado di coprire l'intero arco delle situazioni processuali provocate da una dichiarazione di difetto di giurisdizione, e, dunque, non ha prodotto l'abrogazione implicita dell'art. 362, secondo comma, n. 1, cod. proc. civ., non potendo a ciò sopperire se non il ricorso per conflitto negativo, il quale si presta a far fronte anche ai casi in cui il secondo giudice, che declini la propria giurisdizione, manchi di sollevare d'ufficio la questione davanti alle sezioni unite della Corte di cassazione, così come previsto dall'art. 59, terzo comma, legge citata.

Ne consegue che è ammissibile il ricorso per conflitto negativo nell'ipotesi in cui il giudice ordinario ed il giudice amministrativo abbiano entrambi negato con sentenza la propria giurisdizione sulla medesima controversia, essendosi in presenza non di un conflitto virtuale di giurisdizione (risolvibile con istanza di regolamento preventivo, ex art. 41 cod. proc. civ.), quanto, piuttosto, di un conflitto reale negativo di giurisdizione, denunciabile alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 362, comma secondo, n. 1, cod. proc. civ. - con atto soggetto agli stessi requisiti formali del ricorso per cassazione - in "ogni tempo" e, quindi, indipendentemente dalla circostanza che una delle due pronunzie in contrasto sia passata in giudicato, atteso che il passaggio in giudicato della sentenza sulla giurisdizione serve agli effetti di cui al secondo comma dell'art. 59 della legge n. 69 del 2009, ma non condiziona il potere del giudice, dichiarato competente, di sollevare d'ufficio la questione davanti alle medesime Sezioni Unite della Corte di cassazione.

Merita di essere segnalata, anche per la novità della questione, la decisione - Sez. Un., n. 23464 (in corso di massimazione) - con la quale è stata ritenuta l'ammissibilità del ricorso ex art. 362 cod. proc. civ. per motivi inerenti alla giurisdizione nei confronti della decisione assunta avverso atti amministrativi definitivi per motivi di legittimità a seguito di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

Tale soluzione, del resto, come precisa la sentenza delle Sezioni Unite, costituisce il naturale e (per ora) ultimo portato di un percorso che ha visto questo strumento evolversi da mero ricorso amministrativo fino - con le recenti riforme e, in ispecie, con l'art. 69, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69 che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato che non può più essere disatteso dall'autorità governativa, e con l'art. 7, comma 8, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo) che ha affermato l'ammissibilità del ricorso straordinario solo nelle materie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo mutuandone istituti e presupposti - a vero e proprio ricorso giurisdizionale.

Un diverso ambito di interventi ha preso in considerazione i margini di ammissibilità del ricorso ordinario per cassazione in tema di giurisdizione.

La questione, in particolare, ha riguardato il caso in cui il giudice di primo grado abbia emesso una pronuncia declinatoria della giurisdizione e tale decisione sia stata riformata dal giudice d'appello con rimessione innanzi al primo giudice.

La Corte, con riguardo sia alle decisioni del Consiglio di Stato - Sez. Un, n. 9588 (Rv. 622721) - sia del giudice ordinario - Sez. Un., n. 10136 (Rv. 622831); Sez. Un., n. 18698 (in corso di massimazione) - sia della Corte dei conti - Sez. Un., 2575 (Rv. 621540) -, ha escluso l'immediata ricorribilità per cassazione per motivi di giurisdizione di una tale decisione del giudice d'appello.

Le Sezioni Unite, invero, hanno raggiunto questo esito con ragionamento articolato osservando, in primo luogo, che la sentenza pronunciata in secondo grado, a seguito di appello contro la decisione di primo grado declinatoria della giurisdizione, ove riformi la sentenza impugnata e rimetta al primo giudice, risolve, in realtà, solo una questione pregiudiziale, senza definire, neppure parzialmente, il giudizio nel merito. Ne consegue che è inammissibile il ricorso immediato contro questa sola questione atteso che la soccombenza - per raggiungere il livello del giudizio di legittimità - non deve essere meramente virtuale ma effettiva e, dunque, deve riguardare la sostanza della controversia.

Sul un piano sistematico, del resto, le parti, se hanno interesse a provocare una decisione sulla sola giurisdizione (ad esempio perché è ritenuta come risolutiva del giudizio innanzi al giudice adito), hanno a disposizione lo strumento del regolamento preventivo di giurisdizione: se non se ne avvalgono resta, quindi, precluso l'accesso immediato alla cassazione sulla sola questione di giurisdizione, per la (ormai) mancata realizzazione del presupposto richiesto dalla disciplina vigente.

2.2. La translatio judicii.

Con l'art. 59 della legge n. 69 del 2009 il legislatore è venuto a fornire una (prima) disciplina dell'assetto dei rapporti tra giurisdizione che era emerso per effetto delle note sentenze Sez. Un., n. 4109 del 2007 (Rv. 595497) e Corte Cost., n. 77 del 2007, che, seppure con argomentazioni differenti, erano giunte a superare il principio dell'incomunicabilità tra giudici diversi a favore di quello dell'unità sostanziale della giurisdizione. Con tale norma, in particolare, si era inteso dare attuazione alla regola della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta innanzi al giudice privo di giurisdizione. Sullo stesso ambito - come già osservato - il legislatore è peraltro ritornato con l'art. 11 del cod. proc. amm., norma che, in misura rilevante, ha un contenuto sovrapponibile a quello dell'art. 59, ma che, in via ulteriore, precisa profili ed aspetti relativi ad aspetti di gestione del processo (la rimessione in termini per errore scusabile; la disciplina delle misure cautelari) afferenti alle conseguenze della decisione sulla giurisdizione.

Le Sezioni Unite, nel corso del 2012, sono intervenute solo su aspetti circoscritti quanto all'ambito dell'esercizio dei poteri processuali delle parti interno al giudizio, limitandosi a precisare - Sez. Un., n. 5872 (Rv. 622301) - che la disciplina della translatio judicii non può essere applicata per disciplinare i poteri delle parti che siano stati esercitati in un momento del processo in cui essa non era in vigore, e quindi retroattivamente, giacché il regime degli atti compiuti nel processo dalla parte in base ai poteri che le sono attribuiti, quanto a validità ed effetti, è regolato dalla norma in vigore al tempo in cui l'atto è stato compiuto.

Oggetto di una più ampia analisi e trattazione, invece, è stato l'ambito di applicazione della translatio judicii e ciò sia in riferimento ai limiti della possibilità di sottoporre la vicenda ad un giudice, sia all'individuazione di un giudice nazionale, sia, infine, in relazione alle diverse tipologie di giurisdizione.

Sotto il primo profilo si è precisato - con Sez. Un., n. 2312 (Rv. 621165), relativa ad una ipotesi in cui il Consiglio di Stato era sconfinato nella sfera riservata dalla legge alla valutazione discrezionale della P.A. - che la cassazione senza rinvio deve essere disposta soltanto quando non solo il giudice adito, ma qualsiasi altro giudice sia privo di giurisdizione sulla domanda; ne consegue che «non può farsi luogo a tale tipo di pronuncia tutte le volte in cui il giudice che ha emesso la sentenza cassata sia dotato di potestas iudicandi e la motivazione della cassazione sia soltanto l'errata estensione dell'esercizio della giurisdizione stessa».

L'istituto, in secondo luogo, non ha alcun rilievo - Sez. Un., n. 5872 (Rv. 622300) - nei rapporti con i giudici stranieri: il sistema della translatio judicii, infatti, opera solo sul piano del rapporto interno alla giurisdizione nazionale fra i diversi giudici tra cui è ripartita perché «è volto ad assicurare che la tutela riconosciuta dall'ordinamento sia fornita da uno dei questi giudici, attraverso un processo che è sorretto dalla domanda originaria», situazione che non può realizzarsi quando la competenza giurisdizionale appartenga ad un giudice straniero.

Non può, infine, disporsi una translatio rispetto al giudice penale.

In un caso in cui era stato (inopinatamente) impugnato davanti al giudice amministrativo un atto di polizia giudiziaria (i.e. la prescrizione di regolarizzazione impartita dall'organo di vigilanza in tema di sicurezza ed igiene del lavoro), le Sezioni Unite, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (restando ogni questione devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario penale, che potrà provvedere nell'ambito del proprio procedimento), hanno escluso - Sez. Un., n. 3694 (Rv. 621897) e, negli stessi termini, Sez. Un., n. 19707 (Rv. 623888-9) - che potesse disporsi il trasferimento della domanda al giudice penale «poiché le caratteristiche e le finalità proprie del rito penale impongono di adire il giudice nelle forme relative».

2.3. Il giudicato implicito sulla giurisdizione (e dintorni).

L'orientamento delle Sezioni Unite - con il quale è stata ridisegnata la portata e la lettura dell'art. 37 cod. proc. civ., assumendo che la questione di giurisdizione è coperta dal giudicato interno e non è rilevabile in cassazione (né in appello) ove il giudice di primo grado si sia pronunciato solo sul merito e sia mancata la proposizione di un apposito gravame - introdotto con la sentenza n. 24883 del 2008 (Rv. 604576), a cui avevano fatto immediatamente seguito le decisioni n. 26019 del 2008 (Rv. 604949) e n. 29253 del 2008 (Rv. 605914), ha trovato un riconoscimento normativo con l'art. 9 del nuovo cod. proc. amm., secondo il quale nei giudizi di impugnazione il difetto di giurisdizione è rilevato se dedotto come specifico motivo avverso il capo della sentenza impugnata che «in modo esplicito od implicito ha statuito sulla giurisdizione».

Nel corso del 2012 le pronunce della Corte hanno coinvolto alcuni profili accessori e fattispecie peculiari. In particolare:

- con Sez. Un., n. 736 (Rv. 620475) in tema di giudizio di ottemperanza (si è rilevato che la decisione con la quale il Consiglio di Stato, in sede di ottemperanza, abbia disposto che venga che venga nominato "ora per allora" un candidato nel frattempo collocato in pensione, è impugnabile per motivi di giurisdizione, ma ciò deve essere fatto sin nei confronti della prima decisione adottata in tale ambito e non può più essere fatta valere nei confronti della successiva decisione, adottata dal Consiglio di Stato nell'ambito della medesima procedura di ottemperanza, con la quale sia stata annullato l'ulteriore provvedimento della P.A. che aveva nominato per la seconda volta il candidato la cui nomina era stata in precedenza annullata);

- con Sez. 5, n. 8622 (Rv. 622785) in ordine all'estensione del giudicato sulla giurisdizione al merito del rapporto (la controversia in materia tributaria tra il garante e l'amministrazione finanziaria appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario; ove, peraltro, si sia formato il giudicato interno a favore della giurisdizione tributaria, l'efficacia vincolante di quest'ultimo non si estende al merito della lite, con la conseguenza che il rapporto tra assicuratore ed erario resta qualificabile come rapporto privatistico, sottoposto alla relativa disciplina);

- con ord. Sez. 6-5, n. 2752 (Rv. 621692) in tema di requisiti dei motivi di impugnazione in tema di giurisdizione (la pronuncia del giudice di primo grado - nella specie del giudice tributario - nel decidere nel merito postula l'affermazione implicita della giurisdizione; la parte vittoriosa nel merito, che intenda contestare questo riconoscimento ed evitare il formarsi di un giudicato implicito, è tenuta a proporre appello incidentale, che tuttavia non richiede formule sacramentali, essendo sufficiente che dal complesso delle deduzioni e conclusioni formulate risulti chiaramente la volontà di ottenere la riforma della decisione).

Va rimarcato, con riguardo alle ultime due ipotesi che la pronuncia è stata emessa da sezioni semplici della Corte di cassazione, modalità - consentita dall'art. 374, primo comma, cod. proc. civ. - che comprova ulteriormente l'univocità dell'interpretazione.

Da ultimo va evidenziato che le Sezioni Unite nel corso del 2012 hanno ulteriormente rafforzato il principio - affermato con Sez. Un., n. 3200 del 2010 (Rv. 611508) - in merito all'impossibilità di sollevare eccezione di legittimità costituzionale sulle norme che regolano la giurisdizione ove la questione sia rimasta preclusa in forza della formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione.

La questione oggetto di disamina, invero, integra un ulteriore passo avanti nella direzione già affrontata atteso che, nella vicenda considerata da Sez. Un., n. 9594 (Rv. 623046) (relativa all'attribuzione all'agenzia delle entrate, e dunque alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie, della competenza ad irrogare sanzioni per occupazione di lavoratori irregolari), nelle more del giudizio di appello era intervenuta la sentenza n. 130 del 2008 della Corte costituzionale che aveva dichiarato illegittima la sottrazione della giurisdizione al giudice ordinario.

La Commissione Regionale Tributaria aveva disatteso la questione di giurisdizione, sollevata subito dopo la pronunzia della Consulta, rilevando che, in conformità con la pronuncia n. 24883 del 2008, si era formato il giudicato implicito sulla questione. Tale conclusione è stata confermata dalle Sezioni Unite che hanno ritenuto assolutamente irrilevante la questione di giurisdizione.

Non si può non sottolineare, peraltro, che restano intatte le perplessità già emerse in occasione del precedente del 2010 (in relazione alla versatilità delle fonti internazionali - in ispecie della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo - idonee a fondare una questione di legittimità) e al rischio di prefigurare l'esistenza, nell'ordinamento, di un regime differenziato di rilevabilità/eccepibilità delle questioni di costituzionalità a seconda della fonte di riferimento.

3. Il riparto di giurisdizione nel pubblico impiego.

Numerosi sono stati gli interventi delle Sezioni Unite in tema di riparto della giurisdizione nei rapporti lavoro con pubbliche amministrazioni, che hanno riguardato i rapporti con fondazioni pubbliche, università, ministeri, regioni ed altri enti locali.

In questo panorama giurisprudenziale assume una particolare significatività l'innovativa interpretazione fornita dalla Suprema Corte alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, con la quale si è modificato un orientamento ultradecennale.

3.1. La ripartizione ordinaria della giurisdizione. Le procedure concorsuali.

In materia di insegnamento universitario, le Sezioni Unite - con Sez. Un., n. 5760 (Rv. 621835) - hanno affermato che i docenti incaricati presso le Università per stranieri di Perugia e Siena, in quanto stabilizzati nel ruolo ad esaurimento ex art. 7 della legge 17 febbraio 1992, n. 204, rientrano fra i "professori e ricercatori universitari" agli effetti dell'art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001 e, pertanto, appartengono al personale in regime di diritto pubblico il cui rapporto di impiego è devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ragione della deroga sancita dall'art. 63 del d.lgs. n. 165 cit.. Non rileva, a tal fine, che con l'art. 31 del c.c.n.l. del 27 gennaio 2005 relativo al personale non docente del comparto Università si sia intervenuti sull'aggiornamento retributivo dei docenti stabilizzati nel predetto ruolo ad esaurimento, trattandosi di normativa che opera unicamente sul piano della disciplina sostanziale del rapporto.

Appartiene, invece, alla giurisdizione del giudice ordinario - come precisato da Sez. Un., n. 7503 (Rv. 622348) - la controversia avente ad oggetto il rapporto lavorativo del personale universitario con l'azienda sanitaria, poiché l'art. 5, comma 2, del d.lgs. 21 dicembre 1999, n. 517 distingue il rapporto di lavoro dei professori e ricercatori con l'università da quello instaurato dagli stessi con l'azienda ospedaliera e dispone che, sia per l'esercizio dell'attività assistenziale, sia per il rapporto con le aziende, si applicano le norme stabilite per il personale del servizio sanitario nazionale, con la conseguenza che, quando la parte datoriale si identifichi nell'azienda sanitaria, la qualifica di professore universitario funge da mero presupposto del rapporto lavorativo e l'attività svolta si inserisce nei fini istituzionali e nell'organizzazione dell'azienda.

Con riguardo ai rapporti di lavoro con una fondazione di natura pubblica, poi, la Corte - con Sez. Un., n. 11141 (Rv. 623218) - ha precisato che la giurisdizione sulla domanda diretta ad accertare l'illegittimità del recesso (previa disapplicazione del provvedimento di commissariamento dell'ente disposto dalla P.A.), nonché ad ottenere il risarcimento dei danni, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto la circostanza che la cessazione di tale rapporto possa essere dipesa dall'emanazione di un provvedimento amministrativo non intacca la natura di diritto soggettivo della posizione vantata dall'attore.

Diversi interventi hanno poi riguardato l'ambito delle procedure concorsuali e i limiti della distribuzione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Con Sez. Un., n. 8522 (Rv. 622518) si è inteso ribadire e precisare la nozione di "procedure concorsuali per l'assunzione" contenuta nell'art. 63, comma 4 del d.lgs. n. 165 del 2001, che si interpreta, alla stregua dei principî enucleati dalla giurisprudenza costituzionale sull'art. 97 Cost., nel senso che sono «riservate alla giurisdizione del giudice amministrativo quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di lavoro, involgente l'esercizio del relativo potere pubblico, dovendo il termine "assunzione" intendersi estensivamente, comprese le procedure riguardanti soggetti già dipendenti di pubbliche amministrazioni ove dirette a realizzare la novazione del rapporto con inquadramento qualitativamente diverso dal precedente e dovendo, di converso, il termine "concorsuale" intendersi restrittivamente con riguardo alle sole procedure caratterizzate dall'emanazione di un bando, dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria di merito».

La riserva di giurisdizione amministrativa ex art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, peraltro, non si estende - come evidenziato da Sez. Un., n. 8410 (Rv. 622466) - fino alla fase successiva all'approvazione della graduatoria e, in particolare, alle controversie relative alle pretese di assunzione basate sull'esito del concorso. Ne consegue che è devoluta alla giurisdizione ordinaria la controversia instaurata nei confronti dell'ente pubblico dal soggetto che, senza contestare la procedura concorsuale e l'utilizzo della relativa graduatoria, ne denunci il criterio di scorrimento, finalizzato alla reiterata stipulazione di contratti a tempo determinato con lo stesso lavoratore fino al raggiungimento del limite legale di utilizzo del lavoro a termine.

Sempre in tema di scorrimento, poi, si è ribadita - Sez. Un., n. 19595 (Rv. 624231) - la distinzione che fonda il riparto tra le giurisdizioni: la domanda resta devoluta al giudice amministrativo se la contestazione investa la scelta discrezionale dell'amministrazione delle modalità per la copertura dei posti vacanti (indizione di un nuovo concorso o mediante l'utilizzo della graduatoria ancora efficace), mentre appartiene al giudice ordinario la domanda diretta al solo riconoscimento del diritto allo "scorrimento" poiché, in tal caso, viene fatto valere, al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, il diritto all'assunzione.

3.2. La disciplina transitoria. La problematica del frazionamento della giurisdizione per fasi temporali: il revirement delle Sezioni Unite.

Con la privatizzazione del pubblico impiego il legislatore ha attribuito la giurisdizione del relativo contenzioso al giudice ordinario, regolando il passaggio delle attribuzioni con una disciplina transitoria, contenuta nell'art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo la quale appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le «controversie attinenti al periodo del rapporto di lavoro successive al 30 giugno 1998».

In tal modo, pertanto, il trasferimento della giurisdizione non è stato ancorato al verificarsi di una fattispecie processuale (ad es. il momento della proposizione della domanda) ma ad un dato sostanziale: l'attinenza della controversia al periodo del rapporto di lavoro successivo alla data del 30 giugno 1998.

In altri termini, secondo l'interpretazione seguita sin dall'inizio dalle Sezioni Unite - tra le tante Sez. Un., n. 10963 del 2005 (Rv. 581780), Sez. Un., n. 9509 del 2011 (Rv. 617085) - il discrimine temporale tra le due giurisdizioni deve essere riferito al dato storico costituito dall'avverarsi dei fatti materiali (posti a fondamento della domanda) in relazione alla cui giuridica rilevanza è insorta la controversia. Si sono poi individuate le diverse ipotesi suscettibili di realizzarsi:

- per il riconoscimento di pretese contributive o del diritto al compenso dovuto assumeva rilievo il momento di maturazione delle stesso o quello in cui il diritto era insorto e non quello in cui erano stati emanati dall'ente i provvedimenti di gestione del rapporto;

- ove la lesione fosse conseguente ad un atto (provvedimentale o negoziale) della P.A., invece, occorreva fare riferimento alla data della sua emanazione;

- ove, infine, la pretesa traesse origine da un comportamento illecito permanente della P.A. si doveva far riferimento, attesa la struttura del fatto, al momento di cessazione della permanenza (che integra il compimento del fatto dannoso).

Con riguardo alle situazioni protratte nel tempo, peraltro, si poneva un profilo problematico ai fini della determinazione della giurisdizione ove la pretesa (e le condotte rilevanti) si collocasse a cavallo del discrimine temporale. La tesi unanimemente recepita dalla giurisprudenza fino a tutto il 2011 era quella del frazionamento temporale della giurisdizione: anteriormente al 1° luglio 1998 la giurisdizione restava al giudice amministrativo, mentre per periodo di tempo successivo la domanda era devoluta al giudice ordinario, con necessità, dunque, di avviare, per un unitario rapporto, separati giudizi innanzi alle differenti giurisdizioni.

Nel corso del 2012 le Sezioni Unite, invero, hanno, da un lato, dato continuità all'interpretazione dello snodo fondamentale dell'art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001, ribadendo che il discrimen temporale resta ancorato al dato storico costituito dall'avverarsi dei fatti materiali.

In questa prospettiva si è affermato - Sez. Un., n. 7504 (Rv. 622349) - che la giurisdizione deve essere determinata quoad tempus in base ai fatti costitutivi del diritto rivendicato «tutte le volte in cui essi vengano in rilievo a prescindere dal loro collegamento con uno specifico atto di gestione del rapporto da parte dell'amministrazione, e, invece, in base alla data dell'atto emesso da questa quando il regime del rapporto preveda che la giuridica rilevanza dei fatti sia assoggettata ad un preventivo apprezzamento dell'amministrazione medesima ed alla conseguente declaratoria della sua volontà al riguardo». Ne consegue che, con riguardo alla domanda di equo indennizzo per infermità contratta a causa di servizio, «siccome l'atto di concessione del beneficio è caratterizzato da notevole discrezionalità, il momento in cui si determina la questione è quello dell'emanazione del provvedimento amministrativo che concede o nega l'equo indennizzo».

Analogamente Sez. Un., n. 8070 (Rv. 622835) ha ribadito - con riguardo al diritto all'indennità di perequazione del trattamento economico al personale delle ASL spettante al personale universitario assegnato ad una struttura ospedaliera, che l'Università aveva rideterminato retroattivamente con provvedimento del 24 luglio 2001 - che ove la lesione del diritto azionato sia stata prodotta da un provvedimento o un atto negoziale del datore di lavoro, occorre far riferimento alla data di quest'ultimo, anche se gli effetti della rimozione dell'atto incidano su diritti sorti anteriormente alla data del 1° luglio 1998.

Si colloca in questo stesso ambito anche Sez. Un., n. 8521 (Rv. 622470) - relativa alla domanda proposta da un tecnico di laboratorio in servizio presso un policlinico universitario che aveva agito per ottenere l'indennità di equiparazione al personale sanitario - dove è stata esclusa la rilevanza dei pregressi atti di inquadramento, anteriori al 30 giugno 1998, la cui incidenza era solo indiretta poiché il fatto costitutivo del diritto alla maggiore retribuzione è stato identificato nel possesso - incontestato - della qualifica corrispondente al profilo professionale.

Altri interventi significativi hanno riguardato lo svolgimento di prestazioni di fatto in regime di subordinazione a favore di un ente pubblico svoltesi integralmente prima del 30 giugno 1998 e l'esercizio dell'azione risarcitoria conseguente a lesione dell'integrità psicofisica contro la P.A. in un caso di rapporto cessato anteriormente al 30 giugno 1998.

Nel primo caso - Sez. Un., n. 8519 (Rv. 622473) - la Corte ha precisato che «l'esecuzione delle prestazioni lavorative integra il fatto costitutivo dei diritti del lavoratore di cui all'art. 2126 cod. civ.», la quale, tuttavia, non tutela l'aspettativa del lavoratore per la prosecuzione del rapporto, con la conseguenza «che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo per i diritti - anche di natura contributiva e assicurativa - maturati dal prestatore d'opera sulla base dell'esecuzione del rapporto fino al 30 giugno 1998».

Nella seconda ipotesi - Sez. Un., n. 5764 (Rv. 621834) - ha ritenuto che la giurisdizione sulla domanda risarcitoria restasse in capo al giudice amministrativo atteso che traeva fondamento dalla responsabilità della P.A. come datrice di lavoro il quale era cessato anteriormente alla data di trasferimento della giurisdizione, senza che avesse rilievo in contrario la circostanza che l'eziologia lavorativa delle riscontrate patologie fosse stata accertata solo in un momento successivo, né che il loro aggravamento si fosse verificato dopo la data di cessazione del medesimo rapporto.

Sotto un altro versante, peraltro, le Sezioni Unite hanno anche fornito una interpretazione innovativa e non letterale del criterio di riparto dettato dall'art. 69, comma 7, citato, proprio con riguardo alle ipotesi in cui la controversia si ponga a cavallo del discrimine temporale.

La questione è stata affrontata per la prima volta con la sentenza Sez. Un., n. 3183 (Rv. 621089).

Nel caso di specie, veniva in rilievo una controversia insorta tra il comune di Bari e alcuni suoi dipendenti (autisti e commessi) per il pagamento dell'equivalente monetario dei capi di abbigliamento necessari per lo svolgimento delle mansioni, la cui fornitura era mancata da parte dell'amministrazione a far data dal 1994 e fino ad oltre il 1998. Il giudice del merito, in coerenza con l'orientamento fino a quel momento dominante, aveva giudicato per i fatti successivi al 30 giugno 1998 e aveva declinato la giurisdizione a favore del giudice amministrativo per il periodo anteriore.

La Corte, peraltro, ha sottolineato che la fattispecie era sostanzialmente unitaria sia dal punto di vista giuridico che da quello fattuale, per cui anche la giurisdizione doveva concentrarsi innanzi ad un unico giudice senza che rilevasse l'epoca della pretesa, assumendo valore l'esigenza di evitare uno spezzettamento del processo con onere per l'interessato - e possibile pregiudizio anche per il convenuto - di attivare due distinti giudizi per veder riparato un torto essenzialmente unico e possibilità di differenti risposte ad una stessa istanza di giustizia.

L'individuazione del giudice ordinario come giudice elettivo su cui concentrare il giudizio, poi, trova fondamento nel sistema disegnato dal d.lgs. n. 165 del 2001 nel quale la sopravvivenza della giurisdizione del giudice amministrativo, regolata dall'art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, costituisce ipotesi assolutamente eccezionale, sicché, quando il lavoratore deduce un inadempimento unitario dell'amministrazione, la protrazione della fattispecie oltre la data del 30 giugno 1998 necessariamente radica la giurisdizione presso il giudice ordinario anche per il periodo anteriore.

Tale soluzione è stata poi seguita da numerose decisioni:

- Sez. Un., n. 4942 (non massimata) relativa alla domanda di accertamento dell'avvenuta costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e di condanna al pagamento delle differenze retributive;

- Sez. Un., n. 5577 (Rv. 621944), relativa alla domanda di un dipendente comunale collocato a riposo anteriormente al 30 giugno 1998, il cui credito per differenze retributive era stato tuttavia riconosciuto da delibere della commissione straordinaria di liquidazione dell'ente successive a quella data;

- Sez. Un., n. 6102 (Rv. 622306), relativa alla domanda di inquadramento del direttore di un mercato comunale (l'inquadramento rifletteva la qualificazione del mercato come di particolare importanza, deliberata in epoca anteriore al 30 giugno 1998, sicché la scissione della giurisdizione sarebbe stata contraria al principio dell'effettività della tutela giurisdizionale);

- Sez. Un., n. 8520 (Rv. 622463), relativa alla domanda di un dipendente in servizio presso un tribunale amministrativo regionale, il quale, inquadrato in ottava qualifica funzionale e poi in posizione economica C2, reclamava superiore inquadramento, in nona qualifica funzionale e posizione economica C3, avendo effettivamente svolto, sin dalla presa di servizio nel 1978, funzioni di direttore di segreteria;

- Sez. Un., n. 18703 (in corso di massimazione) relativa alla domanda del dipendente di pagamento delle somme arretrate in conseguenza del reinquadramento operato dall'amministrazione (nella specie, l'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, ISPESL) con efficacia retroattiva;

- da ultimo Sez. Un., n. 20726 (Rv. 624043), che, in chiave ricostruttiva, traccia l'intero percorso giuridico ed argomentativo affrontato dalla giurisprudenza dell'ultimo decennio e fornisce un quadro particolarmente dettagliato ed articolato delle ragioni a fondamento del nuovo corso, di cui pone in evidenza taluni effetti collaterali.

Assolutamente peculiari, poi, sono talune delle conseguenze tratte dall'affermazione del nuovo orientamento.

Si è, infatti, rilevato - Sez. Un., n. 6102 (Rv. 622307) - che, nelle controversie di pubblico impiego contrattualizzato, ove «il giudice ordinario di primo grado, pur investito di una domanda sostanzialmente unitaria, rispetto alla quale non rileva dunque il discrimine temporale ex art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, abbia declinato la propria giurisdizione sulla parte di domanda relativa al periodo anteriore al 30 giugno 1998 e abbia deciso nel merito la parte relativa al periodo successivo, non ricorre il presupposto di applicazione dell'art. 353 cod. proc. civ., in quanto i giudici di primo e secondo grado hanno conosciuto anche nel merito della domanda, con sostanziale effetto sul periodo anteriore; ne consegue che, ove il giudice di secondo grado abbia confermato la sentenza di primo grado e, viceversa, in sede di legittimità sia dichiarata la giurisdizione ordinaria sull'intera domanda, giudice di rinvio, anche per la cognizione della parte relativa al periodo anteriore al 30 giugno 1998, è il giudice di appello».

Tale conclusione, invero, porta, nella sostanza, alla perdita di un grado di giurisdizione, che, nella motivazione sembra trarre fondamento da due rilievi: da un lato viene in considerazione l'unitarietà della fattispecie che, se è rilevante ai fini della giurisdizione, non può non incidere anche ai fini della competenza; dall'altro, inoltre, i giudici di primo e secondo grado hanno comunque conosciuto del merito su una parte della domanda (quella per il periodo successivo alla data del 30 giugno 1998).

Tale soluzione, peraltro, appare riconducibile alla medesima ratio presa in considerazione da Sez. Un., n. 13617 (Rv. 623438), nella quale la Corte ha ritenuto possibile, ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civ., decidere la causa nel merito ove abbia cassato la sentenza impugnata affermando la giurisdizione erroneamente disconosciuta dal giudice a quo e non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, rispondendo tale soluzione al «principio di ragionevole durata del processo».

Un altro corollario della nuova interpretazione evolutiva investe l'ambito di operatività della decadenza (di natura sostanziale) ex art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 per non essere stata azionata dal dipendente pubblico innanzi al giudice amministrativo entro il 15 settembre 2000 la pretesa per il segmento temporale anteriore al 30 giugno 1998. Tale profilo - come rilevato da Sez. Un., n. 20726 sopra citata - resta ridimensionato, ancorché la tutela dell'affidamento della parte resti definito nei limiti dell'overruling giurisprudenziale, indicati dalla sentenza Sez. Un., n. 15144 del 2011 (Rv. 617905).

4. La connessione di cause tra giurisdizioni.

La questione da ultimo considerata si pone al confine con un'altra problematica, ossia all'ammissibilità dello spostamento di giurisdizione per connessione.

L'istituto della connessione, come disciplinato dal codice di procedura civile, consente, invero, lo spostamento della competenza ma non anche della giurisdizione.

Nel corso del 2012 questo principio è stato ribadito dalla Suprema Corte con svariate pronunce. In particolare:

- Sez. Un., n. 14371 (Rv. 623297), che, in tema locazione ad uso diverso da quello abitativo, con riguardo alle domande contro il conduttore di risoluzione del contratto e di risarcimento danni, ha affermato che «la domanda di garanzia impropria esercitata nei confronti di un Comune, per la ritenuta illegittimità dell'ordinanza contingibile ed urgente dovuta all'insussistenza dei suoi presupposti qualificanti, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, senza che abbia rilievo, al fine di legittimarne l'attrazione per connessione davanti al giudice ordinario, il collegamento esistente fra detto rapporto di garanzia ed il rapporto privatistico tra locatore e conduttore»;

- analogamente Sez. Un., n. 3690 (Rv. 621343) che ha decisamente escluso la possibilità di consentire la riunione di procedimenti relativi a cause connesse pendenti davanti a giudici di diversa giurisdizione (nella specie, ricorso per cassazione contro una decisione del Consiglio di Stato e regolamento preventivo di giurisdizione, proposto nell'ambito dell'omologa causa in primo grado promossa davanti al giudice ordinario).

Sulla stessa linea di pensiero (seppure su un differente profilo), poi, si colloca Sez. Un., n. 2814 (Rv. 621384), secondo la quale il giudice munito della giurisdizione sulla domanda ha il potere-dovere di definire le questioni che integrino un antecedente logico della decisione a lui richiesta, fino a quando le stesse rimangano su un piano delibativo ed incidentale e non aprano, per previsione di legge o per libera iniziativa delle parti, una causa autonoma, di carattere pregiudiziale, sulla quale si debba statuire con pronuncia atta ad assumere autorità di giudicato.

Particolarmente interessante - alla luce del revirement sopra illustrato - è, infine, Sez. Un., n. 9185 (Rv. 622834) che ha annullato la decisione del Consiglio di Stato che, con riguardo alle domande di un dirigente amministrativo dirette ad ottenere l'annullamento degli atti presupposti posti in essere dall'amministrazione e l'attribuzione dell'incarico dirigenziale negato, aveva deciso su entrambe le domande sul presupposto che «essendo la procedura amministrativa unica», il giudice amministrativo aveva competenza non solo sulla domanda di annullamento ma anche sugli atti successivi.

Occorre osservare, del resto, che le Sezioni Unite hanno ritenuto di superare il principio di inderogabilità della giurisdizione per connessione e l'anomia che lo fonda in un unico caso in tema di espropriazione di pubblica utilità e, in specie, di retrocessione di beni espropriati: con la sentenza Sez. Un., n. 14805 del 2009 (Rv. 608638) si è affermato, infatti, che «il criterio di riparto della giurisdizione - fondato sulla natura della posizione soggettiva lesa (diritto od interesse legittimo) - che assegna al giudice ordinario la domanda di retrocessione totale ex art. 63 della legge n. 2359 del 1865, ed al giudice amministrativo quella di retrocessione parziale anteriore alla dichiarazione di inservibilità ex art. 60 e 61 della legge n. 2359 cit., si applica solo se ciascuna domanda venga autonomamente proposta», mentre se «le stesse siano proposte congiuntamente ed alternativamente, trovano invece applicazione i principî di logica processuale per cui, nelle materie di giurisdizione esclusiva, la decisione su più cause unite e/o strettamente connesse aventi od oggetto, in astratto, diritti ed interessi, spetta al giudice amministrativo, il quale, avendo cognizione su interessi e diritti, ha competenze più ampie rispetto a quelle del giudice ordinario, limitate ai diritti soggettivi».

Tale affermazione è stata particolarmente valorizzata dal Consiglio di Stato che in svariate decisioni - da ultimo v. Cons. Stato, VI, sent. 24 settembre 2010, n. 7147 - ha fatto esplicito riferimento all'introduzione del principio della connessione, per cui ove siano proposte domande connesse riferite a diverse giurisdizioni per l'individuazione «del giudice avente giurisdizione deve avere riguardo all'effettivo e maggior interesse del ricorrente».

Lo stesso ragionamento è stato poi preso in considerazione dal giudice amministrativo - prima dei recenti interventi delle Sezioni Unite - anche in materia di pubblico impiego (v. Cons. Stato, Sez. VI, sent. 15 novembre 2011, n. 6041) ancorché non abbia dato luogo ad una declinatoria di giurisdizione su tutta la domanda (ossia per la fase precedente al 30 giugno 1998 e per quella successiva) poiché, all'epoca, il Consiglio di Stato non ha ritenuto possibile «applicare la regola dello spostamento della giurisdizione per ragioni di connessione, che non ha una base normativa certa e che non è stata elaborata dalle Sezioni Unite della cassazione in relazione al rapporto di pubblico impiego».

Come sopra rilevato, le Sezioni Unite a sostegno del nuovo orientamento in materia di pubblico impiego si sono fondate esclusivamente sulla natura sostanzialmente unitaria della controversia e sull'esigenza di non consentire giudicati contrastanti sulla stessa vicenda e non hanno collocato il problema sull'ambito della connessione di cause. Ciò non toglie, peraltro, che le problematiche siano strettamente confinanti, tant'è che appare difficile distinguere i rispettivi ambiti nell'ipotesi in cui la parte abbia, in concreto, (anche in ossequio al precedente orientamento) proposto autonome e separate domande innanzi alle diverse giurisdizioni (per il periodo fino al 30 giugno innanzi al giudice amministrativo; per il periodo successivo innanzi al giudice ordinario).

5. Profili in tema di giurisdizione internazionale.

In materia di diritto internazionale privato, le Sezioni Unite sono in più occasioni intervenute nel corso del 2012.

In materia di ambito ed efficacia dei criteri di determinazione della giurisdizione, in particolare, la Corte - Sez. Un., n. 5765 (Rv. 622204) - ha precisato che, in forza dell'art. 3, comma 2, della legge del 31 maggio 1995, n. 218, per le materie non escluse dal campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, occorre - anche nei confronti di soggetto convenuto non domiciliato né residente in Italia e non appartenente ad uno Stato contraente - applicare i criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione, giacché il rinvio ai detti criteri è destinato ad operare oltre la sfera dell'efficacia personale della medesima.

Con riguardo al risarcimento da fatto illecito, inoltre, il luogo previsto dall'art. 5, n. 3, del Regolamento CE n. 44 del 2001 è stato identificato - Sez. Un., n. 8076 (Rv. 622522) - in quello in cui è avvenuta la lesione del diritto della vittima, senza avere riguardo al luogo dove si sono verificate o potranno verificarsi le conseguenze future di tale lesione (nella specie, si è ritenuta sottratta alla giurisdizione del giudice italiano l'azione proposta contro una società di rating, senza sede e non operante in Italia, per il risarcimento del danno conseguente all'ipotizzato errore nella valutazione di titoli finanziari acquistati fuori dal territorio nazionale).

Nella materia lavoristica, poi, si è ribadito - Sez. Un., n. 20228 (in corso di massimazione) - che rileva, quale criterio generale di radicamento della competenza giurisdizionale del giudice italiano, il dato oggettivo del domicilio o della residenza in Italia del convenuto, a prescindere dalla nazionalità.

Con riferimento alla derogabilità della competenza giurisdizionale italiano le Sezioni Unite - con la decisione Sez. Un., n. 9189 (Rv. 623004-623005) - sono intervenute su due importanti profili: da un lato si è ritenuta la validità della clausola contrattuale di deroga alla giurisdizione italiana, che individui la disciplina di riferimento per il procedimento giudiziario relativo mediante il rinvio a disposizioni normative dell'ordinamento estero, cui appartiene il giudice al quale è deferita la controversia, sebbene di natura regolamentare e senza riportarne il contenuto. Il giudice italiano, del resto, per la conoscenza del contenuto di tali disposizione può, oltre all'utilizzo dei tradizionali strumenti previsti dal diritto internazionale, assumere informazioni tramite esperti o istituzioni specializzate, e, comunque, al fine di garantire effettività al diritto straniero applicabile, far ricorso «a qualsiasi mezzo, anche informale, valorizzando il ruolo attivo delle parti come strumento utile per la relativa acquisizione».

Sotto altro profilo, invece, in conformità ad una antica posizione della nostra giurisprudenza (che risale addirittura a Sez. Un., n. 1178 del 1963, Rv. 261724), si è ribadito che la validità della clausola di deroga contrattuale resta in ogni caso condizionata al fatto che la legislazione dello Stato estero preveda la possibilità di adire un giudice ed assicuri il rispetto dei principî di valenza costituzionale e internazionale, posti a tutela del diritto ad un giudizio giusto ed imparziale (nella specie, relativa ad un contratto d'appalto con devoluzione convenzionale alla giurisdizione degli Stati Uniti, la Corte ha ritenuto soddisfatta tale condizione poiché il giudice federale americano aveva poteri e competenze omologhi a quelli stabiliti per il giudice italiano).

La Corte - con Sez. Un., n. 21108 (Rv. 624040-42) - è intervenuta anche con riguardo alle problematiche involgenti la litispendenza internazione.

Innanzitutto è stato precisato che il presupposto fondante la litispendenza nazionale va individuato nella circostanza che il giudizio nazionale e quello estero abbiano ad oggetto un identico rapporto sostanziale: la nozione di "stessa causa" quando è riferita ad un ambito internazionale, infatti, non può restare ancorata a criteri formalistici e restrittivi.

In presenza di tale presupposto, ossia nel caso di domande aventi medesimo oggetto e titolo proposte dalle stesse parti davanti a giudice nazionale e giudice straniero, la questione assurge necessariamente, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 218 del 1995, a criterio negativo (seppure temporaneo) della giurisdizione del giudice italiano. Si è evidenziato, infatti che tutte le questioni relative alla sussistenza o meno del rapporto di litispendenza, all'individuazione del giudice adito per primo, al conseguente obbligo del secondo di sospendere il giudizio pendente dinanzi a sé, non riguardano la disciplina del processo ma, direttamente, la potestà di decidere la causa.

La natura della questione, poi, ne impone la rilevazione d'ufficio, ferma la necessità che l'esistenza dei relativi presupposti emerga dagli elementi offerti dalle parti.

Più limitati - e sul solco della tradizione - sono stati, invece, gli interventi delle Sezioni Unite in materia di sottoposizione degli Stati esteri alla giurisdizione nazionale, che hanno ribadito il principio generale secondo il quale il principio di diritto consuetudinario di diritto internazionale sull'immunità dello Stato dalla giurisdizione di altro Stato attiene agli atti di esercizio delle funzioni pubbliche statali che siano espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione (acta jure imperii) e non si estende a quelli jure gestionis, i quali, per loro natura, non richiedono apprezzamenti ed indagini sull'esercizio dei poteri pubblicistici dello Stato estero.

In un caso - Sez. Un., n. 1981 (Rv. 621147) - le Sezioni Unite hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla domanda di reintegra, a seguito di licenziamento disciplinare, di un dipendente dell'ambasciata brasiliana a Roma nella qualità di ausiliario locale con mansioni di portiere. L'eventuale accoglimento della domanda, infatti, avrebbe interferito sulle decisioni adottate da un soggetto di diritto internazionale in ordine alla propria organizzazione (i.e. dell'ambasciata) con riguardo a una posizione caratterizzata da un obbligo di riservatezza attinente, in certa misura, anche alla sicurezza interna.

Diversa soluzione è stata invece raggiunta - Sez. Un., n. 6489 (Rv. 622216) - con riguardo alle controversie aventi ad oggetto la pretesa dell'INPS di pagamento di contributi assicurativi dovuti per l'impiego di personale civile con cittadinanza italiana, addetto a prestazione di manodopera e strumentale al funzionamento dei servizi di base della NATO. Il pagamento dei contributi, infatti, costituisce una diretta (e ordinaria) conseguenza dell'utilizzo della manodopera e, quindi, un normale atto di gestione del rapporto di lavoro, che non interferisce in alcun modo con l'esercizio delle potestà pubblicistiche di autorganizzazione.

  • spese processuali
  • giudice
  • pubblico ministero
  • responsabilità civile
  • competenza giurisdizionale
  • avvocato
  • patrocinio
  • ricusazione
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO XXIV

IL PROCESSO IN GENERALE

(di Enrico Carbone )

Sommario

1 L'organo giudiziario. - 1.1 Competenza e incompetenza. - 1.2 Litispendenza e continenza. - 1.3 Regolamento di competenza e translatio iudicii. - 1.4 Composizione dell'organo e ausiliari. - 1.5 Astensione, ricusazione e responsabilità civile. - 2 Le parti e i difensori. - 2.1 Pubblico ministero. - 2.2 Legitimatio ad processum e ad causam. - 2.3 Patrocinio e procura alla lite. - 2.4 Lealtà e probità. - 2.5 Spese processuali. - 3 L'esercizio dell'azione. - 3.1 Interesse ad agire. - 3.2 Divieto della "terza via". - 3.3 Litisconsorzio necessario e facoltativo. - 3.4 Intervento volontario, su chiamata e per ordine. - 3.5 Successione a titolo particolare nel diritto controverso. - 4 I poteri del giudice. - 4.1 Corrispondenza tra chiesto e pronunziato. - 4.2 Disponibilità e valutazione delle prove. - 5 Gli atti processuali. - 5.1 Sentenza. - 5.2 Comunicazioni. - 5.3 Notificazioni. - 5.4 Termini e overruling. - 5.5 Nullità e inesistenza.

1. L'organo giudiziario.

Per quanto concerne la disciplina dell'organo giudiziario, nei suoi diversi aspetti, la Corte ha proceduto nel consolidamento dell'esegesi di alcune innovazioni normative, come quella recata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, al criterio di prevenzione nella litispendenza e continenza.

Le Sezioni Unite hanno composto - in aderenza all'indicazione pro futuro del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 - il contrasto sulla natura, monocratica o collegiale, dell'organo giudicante in tema di liquidazione dei compensi agli avvocati ai sensi della legge 13 giugno 1942, n. 794.

Le Sezioni Unite hanno rivisitato il principio di tassatività delle fattispecie di astensione obbligatoria di cui all'art. 51 cod. proc. civ., estendendone il novero ad ogni ipotesi di cointeressenza del magistrato o di un prossimo congiunto, anche al fine di uniformare lo statuto del giudice civile rispetto a quello del giudice penale.

La Corte ha anche definito i riflessi spiegati sulla disciplina della responsabilità civile del magistrato dalla giurisprudenza del Lussemburgo, avviata dalla causa Traghetti del Mediterraneo (sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, e, poi, sentenza 24 novembre 2011, causa C-379/10).

1.1. Competenza e incompetenza.

Il quadro interpretativo attinente ai criteri di determinazione della competenza è apparso relativamente stabile.

In tema di competenza ratione valoris, si è ribadito che l'art. 12, primo comma, cod. proc. civ. - secondo il quale «il valore delle cause relative all'esistenza, alla validità o alla risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che è in contestazione» - subisce deroga nell'ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad esaminare, con efficacia di giudicato, le questioni relative all'esistenza o alla validità del rapporto, che va, pertanto, interamente preso in considerazione ai fini della determinazione del valore della causa (Sez. 2, n. 2737, Rv. 621591).

Per la competenza ratione loci, la Corte ha riaffermato che l'azione di riscatto agrario del prelazionario legale, esercitata in ordine ad un preliminare di compravendita del fondo, essendo riconducibile ad una fattispecie tipica di natura contrattuale, non è un'azione reale, devoluta in via esclusiva al forum rei sitae di cui all'art. 21 cod. proc. civ., bensì è un'azione personale, devoluta, oltre che al foro generale della persona, ai fori facoltativi stabiliti dall'art. 20 cod. proc. civ. per le cause relative a diritti di obbligazione, quali sono il forum contractus e il forum destinatae solutionis (ord., 6-1, n. 15693, in corso di massimazione).

Deve essere segnalata un'ordinanza sul foro delle gestioni tutelari, ove è stabilito che l'art. 24 cod. proc. civ., nel designare la competenza del «giudice del luogo d'esercizio della tutela», si riferisce al giudice presso il quale la tutela è formalmente aperta, al giudice, cioè, cui il tutore deve presentare il rendiconto e che, in caso di omissione, procede ex art. 386, terzo comma, cod. civ., atteso che il termine "tutela" rinvia ad una precisa nozione giuridica, che include il complesso delle attività svolte, nell'interesse della persona ad essa soggetta, non solo dal tutore, ma, soprattutto, dall'autorità giudiziaria (ord., Sez. 6-1, n. 7621, Rv. 622577).

Vanno rammentate, inoltre, alcune ordinanze in tema di foro della pubblica amministrazione e di foro del magistrato.

Ha ricevuto conferma il principio secondo cui, nelle cause relative ad obbligazioni pecuniarie delle pubbliche amministrazioni, anche diverse dalle amministrazioni dello Stato e anche a titolo di interessi per ritardato pagamento, la competenza territoriale del forum destinatae solutionis appartiene al giudice del luogo in cui hanno sede gli uffici di tesoreria, i quali, per le norme della contabilità pubblica, devono provvedere al relativo pagamento a seguito di mandato, principio che continua a trovare applicazione nei confronti degli enti locali anche dopo l'entrata in vigore della legge 8 giugno 1990, n. 142, e del d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, in quanto, pure con tale normativa, al pagamento deve provvedere il tesoriere dell'ente in base a mandato, restando inteso che tale foro, pur non essendo esclusivo o inderogabile, opera a prescindere da specifica pattuizione, ove nel contratto non sia previsto nulla in contrario (ord., Sez. 6-1, n. 6882, Rv. 622380).

È stato ribadito, altresì, che, nelle cause in cui sia parte un'amministrazione dello Stato, qualora l'obbligazione dedotta in giudizio abbia origine da fatto illecito, ai fini dell'individuazione del giudice competente per territorio, ai sensi dell'art. 6 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, e dell'art. 25 cod. proc. civ., il forum delicti concorre, in via alternativa, col forum destinatae solutionis, da determinare in base alle norme di contabilità pubblica (art. 54 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 278, 287 e 407 del r.d. 23 maggio 1924, n. 827), da determinare, cioè, con riferimento al luogo in cui ha sede l'ufficio di tesoreria tenuto ad effettuare il pagamento, che è quello della provincia in cui il creditore è domiciliato (ord., Sez. 6-3, n. 2265, Rv. 621458).

In ordine alle cause del magistrato, si è affermato che il giudice territorialmente competente a conoscere della querela di falso proposta in via principale deve individuarsi secondo i criteri ordinari ex art. 18 e 19 cod. proc. civ., senza che possa aversi riguardo agli effetti della pronunzia sui rapporti giuridici della cui prova si tratta, restando inapplicabile, quindi, il foro speciale previsto dall'art. 30 bis cod. proc. civ. (ord., Sez. 6-3, n. 6851, Rv. 622350).

Ancora circa il foro del magistrato, si è ribadito che l'incompetenza per territorio ex art. 30 bis cod. proc. civ. è soggetta al regime generale delle preclusioni di cui all'art. 38 cod. proc. civ., con la conseguenza che essa non può essere rilevata d'ufficio oltre la prima udienza di trattazione, senza che il potere di rilevazione possa esercitarsi dal giudice con l'ordinanza di cui al settimo comma dell'art. 183 cod. proc. civ., emanata fuori udienza all'esito delle memorie di trattazione (ord., Sez. 6-3, n. 10596, Rv. 623059).

Più in generale, quanto alla rilevazione dell'incompetenza, posto che, ai sensi dell'art. 38, terzo comma, cod. proc. civ., l'incompetenza per materia, quella per valore e quella territoriale inderogabile sono rilevate d'ufficio non oltre l'udienza di cui all'art. 183 cod. proc. civ., la Corte ha chiarito che questa udienza si identifica, nel processo ordinario, con l'udienza di trattazione della causa e, nel processo del lavoro, con l'udienza di discussione, sicché, pur volendo attribuire al concetto di «udienza» un carattere identificativo contenutistico, anziché meramente temporale, e pur prescindendo, quindi, dal numero di udienze in cui si sia concretamente svolta la fase processuale, risulta comunque tardivo il rilievo dell'incompetenza per materia compiuto dal giudice dopo aver posto in essere un'attività che logicamente presupponga l'affermazione della propria competenza, quale l'ammissione e l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio (ord., Sez. 6-2, n. 5609, Rv. 622206).

Quanto alla forma dell'eccezione di incompetenza territoriale, la Corte ha precisato che la regola dell'art. 38 cod. proc. civ., secondo cui tale eccezione si ha per non proposta se non contiene l'indicazione del giudice competente, subisce deroga ove a sollevare l'eccezione sia una pubblica amministrazione convenuta in giudizio in materia di obbligazioni, dovendosi, in tal caso, distinguere: se l'amministrazione è convenuta dinanzi al tribunale di una città dove ha sede un ufficio dell'avvocatura dello Stato e l'amministrazione non formuli l'eccezione in modo completo, l'eccezione stessa si ha per non proposta; se l'amministrazione è convenuta dinanzi al tribunale di una città dove non ha sede alcun ufficio dell'avvocatura dello Stato e l'amministrazione non formuli l'eccezione in modo completo, il giudice può comunque rilevare d'ufficio la propria incompetenza per territorio in favore del giudice del luogo in cui, nell'ambito dello stesso distretto, ha sede l'ufficio dell'avvocatura dello Stato (ord., Sez. 6-3, n. 13268, Rv. 623694).

In ordine al giudizio sull'eccezione di incompetenza, ha trovato conferma il parametro della prospettazione.

Qualora la parte, convenuta in giudizio per l'adempimento di un contratto, eccepisca l'incompetenza territoriale del giudice adito, affermando che il contratto non si è concluso o che è nullo o che, ammesso che sia stato concluso, si sarebbe perfezionato e avrebbe dovuto avere esecuzione in un luogo diverso, la questione di competenza deve essere risolta alla stregua della prospettazione dell'attore, attenendo al merito l'accertamento relativo all'effettiva conclusione del contratto o alla sua nullità, non potendo avere rilevanza, a tal fine, le contestazioni formulate dal convenuto e la diversa prospettazione dei fatti da lui avanzata, dovendosi tenere separate le questioni concernenti il merito della causa da quelle relative alla competenza, di guisa che, sulla determinazione del forum contractus ex art. 20 cod. proc. civ., non può influire l'eccezione del convenuto che neghi l'esistenza del contratto o deduca la sua conclusione in altro luogo, unico limite alla rilevanza dei fatti prospettati dall'attore ai fini della determinazione della competenza essendo l'eventuale prospettazione artificiosa, finalizzata a sottrarre la controversia al giudice naturale precostituito per legge (ord., Sez. 6-3, n. 8189, Rv. 622432).

Una fattispecie relativa al foro per le cause ereditarie ha dato occasione di rammentare come si atteggia l'onere della prova nell'ipotesi di eccezione d'incompetenza non funzionale: gli eredi del debitore che, ingiunti di pagare il debito ereditario, eccepiscano, con l'opposizione a decreto ingiuntivo, l'incompetenza per territorio del giudice adito, per essere competente il giudice del luogo dell'aperta successione, ai sensi dell'art. 22, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., devono provare le circostanze alle quali detta competenza è subordinata e, quindi, anche l'avvenuta proposizione della domanda del creditore prima della divisione dell'eredità, spettando a chi solleva l'eccezione d'incompetenza per territorio, fuori dei casi previsti dall'art. 28 cod. proc. civ., provare i fatti che giustificano l'eccezione (ord., Sez. 6-2, n. 14594, Rv. 623563).

Circa il foro stabilito per accordo delle parti, regolato dagli art. 28 e 29 cod. proc. civ., si è coltivata la tradizionale affermazione secondo la quale esso - attesa l'origine pattizia e non legale - dà luogo ad un'ipotesi di competenza derogata, ma non inderogabile, quand'anche sia pattuito come esclusivo, derivandone la soggezione alle fattispecie modificative della competenza per ragione di connessione.

Quindi, il foro convenzionale, anche se pattuito come esclusivo, è derogabile per connessione oggettiva ai sensi dell'art. 33 cod. proc. civ., sicché la parte, che eccepisce l'incompetenza del giudice adito in virtù della convenzione che attribuisce la competenza esclusiva ad altro giudice, ha l'onere di eccepirne l'incompetenza anche in base ai criteri degli art. 18 e 19 cod. proc. civ., in quanto richiamati dall'art. 33 cod. proc. civ. ai fini della modificazione della competenza per ragione di connessione (ord., Sez. 6-2, n. 18967, Rv. 623943).

1.2. Litispendenza e continenza.

In tema di litispendenza e continenza, si è ormai stabilizzata l'esegesi del criterio della prevenzione, come riformulato ad opera dell'art. 45 della legge n. 69 del 2009 tramite addizione dell'inciso «ovvero dal deposito del ricorso» nell'ultimo comma dell'art. 39 cod. proc. civ.

La Corte ha ribadito che, nel caso di continenza tra una causa introdotta col rito ordinario e una introdotta col rito monitorio, ai fini dell'individuazione del giudice preventivamente adito, il giudizio introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo deve ritenersi pendente alla data di deposito del ricorso, trovando applicazione il criterio di cui all'ultimo comma dell'art. 39 cod. proc. civ., come modificato dalla legge n. 69 del 2009, senza che rilevi la circostanza che l'emissione del decreto e la sua notificazione siano avvenute successivamente, agli effetti dell'art. 643, terzo comma, cod. proc. civ. (ord., Sez. 6-3, n. 6511, Rv. 622319).

Riguardo alla casistica, in linea con l'evoluzione giurisprudenziale che ha ampliato la nozione di continenza, includendovi, oltre alla continenza quantitativa (per entità del petitum), la continenza qualitativa (per comunanza logica dei petita), è stato affermato che: v'è rapporto di continenza se due cause, pendenti contemporaneamente davanti a giudici diversi, hanno ad oggetto una questione comune, ad esempio, quella diretta a stabilire chi sia creditore nell'ambito di un unico rapporto contrattuale, una domanda essendo volta ad ottenere l'accertamento dell'altrui inadempimento e la condanna al risarcimento dei danni, l'altra domanda essendo volta ad ottenere l'esecuzione del medesimo contratto (ord., Sez. 6-2, n. 13161, Rv. 623434); v'è rapporto di continenza, e non di mera connessione, tra la domanda di adempimento proposta dal creditore cedente nei confronti del debitore ceduto e la domanda proposta nei confronti di quest'ultimo dal cessionario del credito (ord., Sez. 6-3, n. 8188, Rv. 622566).

In ordine al regime di impugnazione della declaratoria di litispendenza, la Corte ha stabilito - dando seguito ad un indirizzo non univoco - che, qualora il giudice abbia dichiarato la litispendenza tra due giudizi, relativi alle domande svolte da alcuni attori nei confronti del convenuto, in quanto proposte innanzi a giudici diversi, e, contestualmente, abbia preso in esame la posizione sostanziale di un altro attore nonché deciso nel merito le domande riconvenzionali formulate dal convenuto, la sentenza deve ritenersi impugnabile nei modi ordinari, con l'appello, atteso che non si verte nell'ipotesi di pronunzia esclusivamente processuale, che abbia statuito solo sulla competenza, in relazione al disposto dell'art. 42 cod. proc. civ., il quale richiama, a tal fine, anche l'art. 39 cod. proc. civ. (ord., Sez. 6-2, n. 9480, Rv. 622712).

1.3. Regolamento di competenza e translatio iudicii.

Per quanto concerne la necessità del mezzo ex art. 42 cod. proc. civ., si è ribadito che la sentenza, o l'ordinanza di natura decisoria, dichiarativa dell'incompetenza del giudice adito va impugnata con istanza di regolamento necessario di competenza (ove il giudice indicato come competente non sollevi conflitto d'ufficio ai sensi dell'art. 45 cod. proc. civ.), acquistando, in caso contrario, efficacia di giudicato tanto la statuizione di incompetenza del giudice dichiaratosi incompetente, quanto la statuizione sulla competenza del giudice dinanzi al quale la causa sia stata tempestivamente riassunta, sicché, nei successivi gradi del processo, né le parti, né il giudice, possono rimettere in discussione quanto stabilito, in tema di competenza, dall'autorità giudiziaria originariamente adita (Sez. 2, n. 2973, Rv. 621863).

Si è confermato, inoltre, che il regolamento necessario di competenza è ammesso soltanto contro l'ordinanza che abbia dichiarato la sospensione necessaria del processo, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ., non anche contro il provvedimento che tale sospensione abbia negato, non riferendosi l'art. 42 cod. proc. civ. ad ogni provvedimento comunque assunto sulla sospensione (ord., Sez. 1, n. 12963, Rv. 623470).

È stata considerata inammissibile l'istanza di regolamento avverso la sentenza con la quale il giudice civile abbia dichiarato la competenza del giudice dell'esecuzione penale (nella specie, in tema di rimborso delle somme versate alla Cassa delle ammende in esecuzione di condanna penale), atteso che l'alternativa tra l'uno e l'altro giudice dipende dal riferimento della controversia ad un medesimo fatto materiale, suscettibile di valutazione sotto profili giuridici diversi, e non può determinare una questione di ripartizione della potestas iudicandi, ma esclusivamente un'interferenza tra giudizi, la quale si traduce in un limite che attiene alla proponibilità della domanda (ord., Sez. 6-1, n. 13329, Rv. 623582).

In ordine alla translatio iudicii ex art. 50 cod. proc. civ., sembra consolidarsi il principio - già controverso - secondo il quale, ove il giudice, sia pure erroneamente, abbia dichiarato la propria incompetenza ratione materiae e fissato un termine per la riassunzione dinanzi al giudice indicato come competente, la translatio deve avvenire con le forme e nei termini del procedimento da celebrarsi dinanzi a quest'ultimo giudice, implicando la dichiarazione di incompetenza una consapevole scelta circa il rito applicabile alla controversia (Sez. 3, n. 8723, Rv. 622778).

1.4. Composizione dell'organo e ausiliari.

Riguardo alla composizione dell'organo giudicante, le Sezioni Unite hanno stabilito che le controversie in tema di liquidazione dei compensi dovuti agli avvocati per l'opera prestata nei giudizi davanti al tribunale, ai sensi degli art. 28, 29 e 30 della legge n. 794 del 1942, rientrano fra quelle da trattare in composizione collegiale, in base alla riserva prevista per i procedimenti in camera di consiglio dall'art. 50 bis cod. proc. civ., come peraltro confermato dall'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 per i procedimenti instaurati successivamente all'entrata in vigore del decreto medesimo (Sez. Un., n. 12609, Rv. 623299).

Anche per quanto attiene ai consulenti tecnici, custodi e altri ausiliari del giudice, le questioni principali hanno interessato la liquidazione dei compensi.

In tema di liquidazione del compenso ai periti, a norma dell'art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319, si è affermato che il calcolo delle vacazioni va operato con rigoroso riferimento al numero delle ore che siano state necessarie per l'espletamento dell'incarico, indipendentemente dal termine assegnato per il deposito della relazione (Sez. 2, n. 2410, Rv. 621580).

In tema di liquidazione dell'indennità al custode di beni sequestrati nell'ambito di un procedimento penale, la Corte è stata chiamata a pronunziarsi sul parametro degli usi locali, stabilendo che: per effetto del d.m. 2 settembre 2006, n. 265, di approvazione delle tariffe, la determinazione dell'indennità di custodia per i beni diversi da quelli ivi espressamente contemplati va operata, ai sensi dell'art. 5 del predetto decreto, sulla base degli usi locali, non essendo più applicabile l'art. 276 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il quale consentiva il riferimento alle tariffe prefettizie ridotte secondo equità (ord., Sez. 6-2, n. 11281, Rv. 623137); gli usi locali sono quelli del luogo dove l'attività di custodia è svolta e non quelli del luogo dove ha sede il giudice chiamato a decidere sulla liquidazione (Sez. 1, n. 11421, Rv. 623077).

Una pronunzia tocca entrambe le materie, vertendo sull'individuazione e la composizione del giudice competente a decidere l'opposizione avverso il decreto di pagamento emesso a favore dell'ausiliario.

La Corte ha deciso che, alla luce dell'art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002 (secondo cui, quando è proposta opposizione avverso il decreto di pagamento emesso a favore dell'ausiliario del magistrato, l'ufficio giudiziario procede in composizione monocratica), la competenza a provvedere spetta ad un giudice singolo del tribunale o della corte d'appello cui appartiene il magistrato che ha effettuato la liquidazione, da identificare col presidente del medesimo ufficio giudiziario o col giudice da lui delegato, sicché, non essendo configurabile, all'interno di uno stesso ufficio giudiziario, una questione di competenza tra il presidente e i giudici da lui delegati, ma solo una questione di distribuzione degli affari in base alle tabelle di organizzazione, non costituisce ragione di invalidità dell'ordinanza, adottata in sede di opposizione al decreto di liquidazione del compenso dell'ausiliario, il fatto che essa sia stata pronunziata da un giudice diverso dal presidente del tribunale (Sez. 2, n. 9879, Rv. 622760).

1.5. Astensione, ricusazione e responsabilità civile.

Circa l'obbligo di astensione - la cui sussistenza, regolata dall'art. 51 cod. proc. civ., costituisce presupposto del potere di ricusazione ex art. 52 cod. proc. civ. -, va segnalato un penetrante intervento delle Sezioni Unite, operato in ambito disciplinare, che ha relativizzato il principio di tassatività delle fattispecie di astensione obbligatoria del giudice civile, principio in dottrina largamente sostenuto col corollario del divieto di ogni estensione interpretativa.

Le Sezioni Unite hanno affermato che l'obbligo di astensione, pur non essendo configurabile per la mera esistenza di gravi ragioni di convenienza ex art. 51, secondo comma, cod. proc. civ., sussiste non soltanto nei casi indicati specificamente dall'art. 51, primo comma, cod. proc. civ., ma anche in tutti i casi nei quali sia ravvisabile un interesse proprio del magistrato, o di un suo prossimo congiunto, a conseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale o a farlo conseguire da altri o a cagionare ad altri un danno ingiusto (Sez. Un., n. 5701, Rv. 622047).

Esse hanno precisato che, ove ricorra un interesse proprio del magistrato o di un prossimo congiunto, la facoltà del giudice civile di astenersi per gravi ragioni di convenienza deve ritenersi abrogata per incompatibilità e sostituita dall'obbligo di astensione, attesa la natura generale della corrispondente previsione dell'art. 323 cod. pen., in quanto attuativa del principio di imparzialità di cui all'art. 97 Cost., e considerato, altresì, che una diversa soluzione esporrebbe l'art. 51, secondo comma, cod. proc. civ. a dubbi di legittimità costituzionale per disparità di trattamento rispetto al giudice penale, obbligato ad astenersi per gravi ragioni di convenienza dall'art. 36, primo comma, lett. h), cod. proc. pen., nonché rispetto a tutti gli altri pubblici dipendenti, obbligati in egual modo dall'art. 6 del d.p.c.m. 28 novembre 2000, Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (Sez. Un., n. 19704, Rv. 624162-63).

Le Sezioni Unite hanno aggiunto, infine, che, ai sensi dell'art. 51, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., il contratto, anche di durata, tra il giudice e una parte in causa - esclusi soltanto i rapporti obbligatori con lo Stato o altro ente pubblico per ragioni di residenza e i rapporti di utenza con azienda erogatrice di servizi pubblici - integra quei rapporti di credito e debito che rendono obbligatoria l'astensione (Sez. Un., n. 5701, Rv. 622048).

Quanto alla responsabilità civile del giudice, è stato chiarito che la risarcibilità del danno cagionato per grave violazione di legge, ai sensi dell'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, postula che tale violazione sia ascrivibile a negligenza «inescusabile» ed esige, dunque, un quid pluris rispetto alla negligenza, dovendosi essa presentare come inspiegabile, senza agganci con peculiarità della vicenda atte a rendere l'errore - se non giustificato, almeno - comprensibile (Sez. 3, n. 2107, Rv. 621883).

Peraltro, l'art. 2 della legge n. 117 del 1988, dove esclude che possa dar luogo a responsabilità civile l'attività di interpretazione delle norme di diritto o la valutazione del fatto e della prova, è stato ritenuto in contrasto con gli obblighi comunitari, alla luce della sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del 24 novembre 2011, causa C379/10, ma soltanto con riferimento alle violazioni manifeste del diritto dell'Unione imputabili ad un giudice nazionale di ultimo grado (Sez. 3, n. 2560, Rv. 621521).

Con decisione di notevole interesse per la prassi, la Cassazione ha statuito che l'opzione del giudice, investito di un ricorso per sequestro conservativo, nel senso di fissare l'udienza per la comparizione delle parti, anziché provvedere inaudita altera parte, è discrezionale, sicché, qualora tempestivamente adottata, non può dare luogo a responsabilità per diniego di giustizia ex art. 3 della legge n. 117 del 1988, ove anche il debitore, nelle more tra la notifica del ricorso e la concessione del sequestro, abbia disperso o occultato i beni che avrebbero dovuto formarne oggetto (Sez. 3, n. 7038, Rv. 622351).

Da ultimo, va rammentata l'ordinanza a tenore della quale: la domanda di risarcimento del danno proposta direttamente nei confronti del magistrato, per fatti da lui commessi nell'esercizio delle funzioni, è improponibile, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 117 del 1988, che accorda l'azione di risarcimento nei soli confronti dello Stato, sicché il giudice investito di tale domanda, quand'anche territorialmente incompetente, deve dichiararne comunque l'improponibilità (ord., Sez. 6-3, n. 10596, Rv. 623058); il magistrato che, nel corso di una riunione convocata dal capo dell'ufficio, alla quale partecipino altri magistrati ed avvocati, adotti espressioni offensive nei confronti di un terzo spiega una condotta non riconducibile all'esercizio delle funzioni, di guisa che il danneggiato può agire per il risarcimento direttamente nei confronti del magistrato, non applicandosi, in tal caso, l'art. 2 della legge n. 117 del 1988 (ord., Sez. 6-3, n. 10596, Rv. 623060). In tema di responsabilità disciplinare, infine, si veda il cap. XXXIV, § 2.

2. Le parti e i difensori.

La Corte è stata chiamata a pronunziarsi su alcune recenti innovazioni legislative, di notevole impatto sugli aspetti soggettivi del processo e, in particolare, sulla responsabilità pro expensis.

Vuol farsi riferimento all'estromissione della parte pubblica necessaria dai giudizi sui titoli di proprietà industriale, al progressivo restringimento dei margini di esercizio del potere giudiziale di compensazione delle spese processuali, sino all'introduzione dei nuovi parametri di liquidazione degli oneri difensivi.

Molto eloquenti gli arresti che concretizzano il generico dovere di lealtà del patrono negli specifici obblighi di astenersi dai conflitti d'interesse con l'assistito e di esercitare il clare loqui a beneficio di avversari e giudice.

2.1. Pubblico ministero.

Circa il pubblico ministero agente, di cui agli art. 69 cod. proc. civ. e 2907 cod. civ., deve essere segnalata una cristallina declamazione del principio di tipicità dell'azione civile dell'organo statuale, che la migliore dottrina tradizionalmente correla al principio dispositivo, solo eccezionalmente derogabile in favore del modello lato sensu inquisitorio.

Dunque, la titolarità dell'azione del pubblico ministero in sede civile è eccezionale, derogando al principio della domanda di parte (principio dispositivo), mentre la regola della tipicità, contenuta negli art. 69 cod. proc. civ. e 2907 cod. civ., esclude interpretazioni estensive o analogiche, avendo tali enunciati carattere imperativo, sicché, fuori dalle ipotesi tassativamente previste, il pubblico ministero non ha potere di azione e, tanto meno, potere di impugnazione, con l'unica eccezione prevista in materia matrimoniale dall'art. 72, terzo e quarto comma, cod. proc. civ.: nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero avverso il decreto di liquidazione del compenso ad un consulente tecnico emesso dal tribunale nell'ambito di una procedura di concordato preventivo (Sez. 1, n. 17764, in corso di massimazione).

Circa il pubblico ministero interveniente necessario, di cui all'art. 70, primo comma, cod. proc. civ., si evidenzia la decisione relativa all'art. 122 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, Codice della proprietà industriale, il quale prevede che, «in deroga all'art. 70 cod. proc. civ., l'intervento del pubblico ministero non è obbligatorio» nelle cause che vertono sulla decadenza o nullità di un titolo di proprietà industriale, norma cui la Corte, in assenza di specifiche disposizioni transitorie, ha riconosciuto immediata applicazione nei processi in corso, relativamente agli atti da compiere successivamente alla sua entrata in vigore, in ossequio alla regola generale di cui all'art. 11 delle preleggi, sicché, a partire dal 19 marzo 2005, il pubblico ministero non è parte necessaria, ove non sia intervenuto in giudizio, e non sussiste, in grado di appello, la necessità di integrare il contraddittorio nei suoi confronti, né l'eventuale avviso datogli dal giudice di primo grado vale ad imporre il litisconsorzio processuale (Sez. 1, n. 9548, Rv. 623191).

2.2. Legitimatio ad processum e ad causam.

Ampia è stata la giurisprudenza della Corte in tema di legitimatio ad processum e di legitimatio ad causam.

Quanto alla capacità processuale, richiesta dall'art. 75 cod. proc. civ., si è affermato che, ove l'attore abbia evocato in giudizio un'entità priva di legitimatio ad processum, il giudizio s'intende instaurato nei confronti della persona fisica erroneamente convenuta in rappresentanza di tale entità, persona fisica che ha interesse, quindi, a contraddire l'altrui domanda e ad impugnare la pronunzia emessa nei suoi confronti (Sez. L, n. 2027, Rv. 620937).

Quanto alla legitimatio ad causam, istituto correlato al divieto di sostituzione processuale sancito dall'art. 81 cod. proc. civ., la Corte è tornata sui margini di rilevabilità officiosa della pertinente carenza, questione distinta dall'altra, che attiene alla titolarità effettiva del rapporto sostanziale.

Le Sezioni Unite hanno confermato che l'istituto della legitimatio ad causam, riflesso del principio dettato dall'art. 81 cod. proc. civ., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, comporta - trattandosi di materia attinente al contraddittorio ed essendo necessario evitare una sentenza inutiliter data - la verifica, preliminare al merito, da effettuare anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, col solo limite della formazione del giudicato interno, della coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge regolatrice del rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronunzia richiesta (Sez. Un., n. 1912, Rv. 620484).

La massima è stata applicata, ad esempio, in fattispecie di carenza di legittimazione passiva determinata dalla successione fra enti pubblici (Sez. L, n. 14243, Rv. 623528).

È stato ribadito, inoltre, che il giudice può accertare d'ufficio la sussistenza, in capo alle parti, del potere di promuovere il giudizio e di resistervi, ossia la sussistenza della legitimatio ad causam, attiva e passiva, mentre non può verificare d'ufficio l'effettiva titolarità dell'obbligazione dedotta in giudizio, sicché, in materia di risarcimento del danno da circolazione stradale, non è rilevabile d'ufficio la circostanza che il convenuto non sia proprietario del veicolo che ha causato il danno (Sez. 3, n. 2091, Rv. 621708).

2.3. Patrocinio e procura alla lite.

Circa l'obbligo di patrocinio, deve segnalarsi una pronunzia relativa al decreto col quale il giudice di pace autorizza la parte a stare in giudizio di persona, ai sensi dell'art. 82, secondo comma, cod. proc. civ.

La Corte ha evidenziato che tale provvedimento: non deve necessariamente precedere l'instaurazione del giudizio, né manifestarsi in forma espressa, in quanto anche l'autorizzazione sopravvenuta durante il processo e resa per facta concludentia garantisce l'effettività della difesa e la regolarità del contraddittorio (ord., Sez. 6-3, n. 3874, Rv. 621400); non può essere revocato, con l'effetto di rendere invalida la costituzione del rapporto processuale, potendo il giudice di pace, con la sentenza che definisce il giudizio, unicamente dichiarare l'eventuale nullità della concessa autorizzazione (ord., Sez. 6-3, n. 3874, Rv. 621401).

Quanto alle conseguenze del difetto di procura, nei casi in cui essa è obbligatoria, deve essere rammentata una decisione sui limiti della ratifica ad effetto retroattivo.

Il principio secondo il quale gli atti posti in essere da soggetto privo di rappresentanza possono essere ratificati con efficacia retroattiva è stato ritenuto inoperante nel campo processuale, dove la procura alle liti costituisce il presupposto della valida instaurazione del rapporto e può essere conferita con effetti retroattivi solo nei limiti stabiliti dall'art. 125 cod. proc. civ., il quale dispone che la procura al difensore può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell'atto purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata e sempre che, per l'atto di cui trattasi, non sia richiesta dalla legge la procura speciale, come nel caso del ricorso per cassazione, restando conseguentemente esclusa, in tale ipotesi, la possibilità di sanatoria e ratifica, sicché non vale a ratificare retroattivamente l'operato dell'avvocato, sprovvisto di procura speciale ex art. 365 cod. proc. civ., la dichiarazione, sottoscritta dalla parte e autenticata dal difensore, di persistenza dell'interesse alla trattazione del procedimento di cassazione, ai sensi dell'art. 26 della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Sez. 2, n. 9464, Rv. 622644).

Va richiamata, per affinità di trattazione, la decisione delle Sezioni Unite (Sez. Un., n. 10143, Rv. 622883) in tema di elezione di domicilio per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati: si rinvia, al riguardo, ad altra sede (cap. XXVII, § 4).

Quanto alla forma-contenuto della procura ad litem, disciplinata dall'art. 83 cod. proc. civ., numerose pronunzie hanno trattato dei requisiti di validità del mandato conferito a nome di una società.

Si è statuito - in adesione ad un orientamento già saldo - che l'illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce o a margine dell'atto con il quale sta in giudizio una società esattamente indicata con la sua denominazione, è irrilevante, non solo quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa o dalla certificazione d'autografia resa dal difensore o dal testo di quell'atto, ma anche quando detto nome sia con certezza desumibile dall'indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare per il tramite dei documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese (Sez. 2, n. 4143, Rv. 622029).

In assenza di tali condizioni e nei casi in cui non si menzioni alcuna funzione o carica specifica, allegandosi genericamente la qualità di legale rappresentante, vi è una nullità relativa, che la controparte può opporre con la prima difesa, a norma dell'art. 157 cod. proc. civ., facendo così carico alla parte istante d'integrare con la prima replica la lacunosità dell'atto iniziale, mediante chiara e non più rettificabile notizia del nome dell'autore della firma illeggibile, mentre, ove difetti, sia inadeguata o tardiva detta integrazione, si ha invalidità della procura e inammissibilità dell'atto cui essa accede (Sez. 1, n. 4199, Rv. 621618).

Nel caso in cui il sottoscrittore della procura a margine di un atto formato a nome di una società non risulti indicato - né nel testo della procura, né nell'epigrafe dell'atto - come legale rappresentante della società o come titolare di una funzione o carica implicante la rappresentanza della società, si configura la nullità della procura e l'inammissibilità dell'atto cui questa accede, giacché, non essendo noto neppure in quale veste la procura sia stata conferita, l'effettività della sussistenza dei poteri rappresentativi in capo all'ignoto sottoscrittore non potrebbe risultare neanche dalla consultazione del registro delle imprese (Sez. L, n. 6497, Rv. 622159).

Circa la presunzione di limitazione al grado, sancita dall'art. 83, ultimo comma, cod. proc. civ., è stato stabilito che la procura speciale rilasciata in primo grado "per il presente giudizio" con specifico riferimento sia al grado che al tribunale dinnanzi al quale esso era pendente, esprime l'inequivoca volontà della parte di limitare in tal senso il mandato, che, quindi, non può ritenersi esteso al grado d'appello (Sez. L, n. 1429, Rv. 620713).

Sui poteri del mandatario alla lite, regolati dall'art. 84 cod. proc. civ., devono essere rammentate due pronunzie, attinenti, l'una, alla nomina di codifensori e, l'altra, alla rinunzia implicita ad un'eccezione in senso stretto.

La Corte ha ribadito che la procura alle liti, la quale conferisca al difensore il potere di nominare altro difensore, contiene un autonomo mandato ad negotia - non vietato dalla legge professionale, né dal codice di rito -, che abilita il difensore a nominare altri difensori, i quali non hanno veste di sostituti del legale che li ha nominati, ma sono, al pari di questo, rappresentanti processuali della parte (Sez. 3, n. 1756, Rv. 621422).

Si è confermato, altresì, che la rinunzia a far valere la prescrizione dell'azione proposta ex adverso può essere desunta dalle difese svolte dal procuratore, senza che rilevi, in contrario, l'assenza di potere dispositivo nel mandatario alle liti, questa valendo per la rinunzia espressa, non anche per le conseguenze implicite nella linea difensiva adottata dal procuratore, il quale, adempiendo il mandato, sceglie in piena autonomia la condotta tecnico-giuridica ritenuta più confacente alla tutela del proprio cliente (Sez. 2, n. 3883, Rv. 621328).

Va segnalato un arresto sul tema dell'ultrattività della procura alla lite, per tale intendendosi la persistenza del suo effetto non solo in caso di revoca e rinunzia, fino a sostituzione del difensore ex art. 85 cod. proc. civ., ma anche in caso di evento interruttivo che abbia investito la parte costituita e non sia stato dichiarato dal patrono. In particolare, riguardo all'evento-morte, si è deciso che il principio di ultrattività del mandato alle liti, derogando alla regola dell'art. 1722, n. 4, cod. civ., per cui la morte del mandante estingue il mandato, opera solo all'interno del grado processuale in cui l'evento non dichiarato si è verificato, derivandone che, esaurito tale grado, la legittimazione, attiva e passiva, compete esclusivamente alle parti reali e viventi (Sez. 3, n. 1760, Rv. 621699).

Quanto alla nomina di nuovo difensore per sostituzione in corso di causa, è stato ribadito che essa, pur potendo effettuarsi su atto diverso da quelli indicati nell'art. 83, terzo comma, cod. proc. civ., purché idoneo ad evidenziare inequivocabilmente la volontà della parte di conferire la procura, deve essere confermata in un atto lato sensu processuale (nella specie, comparse depositate in udienza), in modo che la natura processuale dell'atto ne riveli l'inerenza allo specifico processo per il quale la procura è stata rilasciata (Sez. 1, n. 13912, Rv. 623691).

Da ultimo, va rammentata la sentenza per la quale l'attività processuale posta in essere da un difensore in conflitto d'interesse col proprio assistito è affetta da nullità, rilevabile d'ufficio, giacché il vizio investe, con la validità della procura, il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente tutelati (Sez. 3, n. 13204, Rv. 623577).

2.4. Lealtà e probità.

Notevole interesse suscita un'ordinanza relativa al dovere di lealtà e probità, sancito dall'art. 88 cod. proc. civ. per la parte e il suo difensore, dovere la cui genericità - frequentemente stigmatizzata - la Corte ha mostrato di voler superare in un caso di specie.

Il dovere di lealtà e probità impone all'avvocato, di cui sia sollecitata una presa di posizione su un'istanza chiara e ben definita, non solo di rispondere, ma anche di esprimersi in maniera altrettanto comprensibile e, soprattutto, di attenersi ad una logica di tipo binario, che non ammette formule di dubbia lettura, né ipotesi terze fra l'affermazione e la negazione: nella specie, la Corte ha ritenuto che la dichiarazione di «rimettersi» al giudice, formulata da un difensore in presenza di richiesta di sospensione del giudizio proveniente da altro procuratore, dovesse intendersi equivalente ad un'adesione all'istanza, mostrando una sostanziale non avversità ad essa (ord., Sez. 6-2, n. 3338, Rv. 621962).

Circa il divieto di usare espressioni offensive, posto dall'art. 89 cod. proc. civ., si è precisato che la competenza a decidere sull'istanza di risarcimento del danno da tali espressioni cagionato spetta unicamente al giudice della causa nell'ambito della quale esse furono pronunziate, egli soltanto essendo in grado di valutare, a conclusione del giudizio, se le offese erano attinenti all'oggetto della causa e giustificate dallo ius defendendi (Sez. 3, n. 20593, in corso di massimazione).

2.5. Spese processuali.

Quanto alla responsabilità delle parti per le spese processuali, si registrano alcune conferme sull'applicazione del parametro della soccombenza, ai sensi dell'art. 91 cod. proc. civ.

Il regolamento delle spese di lite è consequenziale ed accessorio rispetto alla definizione del giudizio, potendo la condanna essere emessa, a carico del soccombente, ai sensi dell'art. 91 cod. proc. civ., anche d'ufficio e pure se non sia stata prodotta la nota spese, prevista dall'art. 75 disp. att. cod. proc. civ., anche se il giudice non è onerato, in tale ultimo caso, dell'indicazione specifica delle singole voci prese in considerazione (ord., Sez. 6-3, n. 3023, Rv. 621539).

Attesa la lata accezione con cui il termine "soccombenza" è assunto nell'art. 91 cod. proc. civ., il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato in causa il terzo, qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (Sez. 1, n. 7431, Rv. 622605).

Per quanto riguarda i criteri di liquidazione delle spese processuali, deve evidenziarsi l'intervento delle Sezioni Unite, determinato dalla recente abrogazione delle tariffe professionali.

Agli effetti dell'art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, attuativo dell'art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del decreto medesimo e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria opera, ancorché la prestazione abbia avuto inizio e si sia svolta, in parte, quando ancora erano in vigore le tariffe, atteso che l'accezione omnicomprensiva di «compenso» evoca la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata (Sez. Un., n. 17405, Rv. 623533).

Sul tema della compensazione delle spese processuali, la giurisprudenza di legittimità ha dovuto misurarsi con la stratificazione normativa prodottasi nel corso degli ultimi anni riguardo al potere giudiziale ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.

È utile rammentare che questo potere, originariamente condizionato alla soccombenza reciproca o alla concorrenza di «altri giusti motivi», ha subito una progressiva restrizione, avendo la legge 28 dicembre 2005, n. 263, prescritto l'esplicita indicazione dei giusti motivi e avendo la legge 18 giugno 2009, n. 69, sostituito alla dizione «altri giusti motivi», quale oggetto di specifica indicazione, la formula «altre gravi ed eccezionali ragioni», di guisa che la compensazione delle spese processuali si qualifica, ormai, come misura assolutamente residuale.

Del resto, la Corte ha precisato che solo la compensazione deve essere sorretta da motivazione e non già l'applicazione della regola della soccombenza (Sez. 2, n. 2730, Rv. 621586).

La compensazione può incidere sull'effettività della tutela giurisdizionale, in quanto un regolamento che, ai sensi dell'art. 92 cod. proc. civ., lasciasse a carico della parte vincitrice gli oneri difensivi in tal misura da elidere, o addirittura superare, il valore del bene conseguito si risolverebbe nella sostanziale vanificazione del diritto di azione ex art. 24 Cost., indipendentemente dal valore, più o meno rilevante, dei beni che ne formano oggetto, il cui apprezzamento compete esclusivamente al titolare: nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito la quale, avendo accertato il diritto reale dell'attore, seppure per una consistenza inferiore a quella allegata, aveva condannato l'attore stesso a rimborsare alle controparti i due terzi delle spese e aveva compensato la porzione residua (Sez. 2, n. 5696, Rv. 621788).

Quanto ai presupposti di esercizio del potere giudiziale di compensazione, è opportuno seguire la rammentata sequenza normativa.

Si è affermato che, ai sensi dell'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., pure nel testo anteriore alla modifica introdotta dalla legge n. 263 del 2005, la scelta di compensare le spese processuali è riservata al prudente, ma comunque motivato, apprezzamento del giudice di merito, la cui statuizione può essere censurata in sede di legittimità quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione, tali da inficiare, per inconsistenza o erroneità, il processo decisionale: nella specie, la Corte ha confermato la statuizione di compensazione adottata dal giudice di merito in relazione all'intransigenza dimostrata dalle parti rispetto ad una somma molto modesta, ponendo in rilievo come la risoluzione della controversia sarebbe potuta e dovuta avvenire bonariamente, ove le parti avessero dimostrato la volontà di definire la lite, anziché irrigidirsi sulle rispettive posizioni (Sez. 2, n. 7763, Rv. 622415).

La modifica introdotta dalla legge n. 263 del 2005 assume, in tal modo, un carattere essenzialmente ricognitivo, ad essa preesistendo l'obbligo di motivazione della compensazione: per i giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore della legge n. 263 del 2005, il giudice può procedere a compensazione, parziale o totale, in mancanza di soccombenza reciproca, solo se ricorrono giusti motivi esplicitamente indicati, atteso il tenore dell'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., come modificato dalla legge citata (Sez. 5, n. 13460, Rv. 623511).

Occorre attendere, invece, per verificare se la transizione normativa dai «giusti motivi» alle «gravi ed eccezionali ragioni» segni una reale cesura negli orientamenti della Corte.

Può dirsi acquisito che, ai sensi dell'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo anteriore alla legge n. 69 del 2009, costituisce giusto motivo di compensazione l'esistenza di una giurisprudenza basata su un principio di diritto astrattamente non controverso, ma variamente enunciato nella concretezza delle sue applicazioni, atteso che le decisioni altalenanti ben possono dipendere dalla difficoltà pratica di identificare la fattispecie corrispondente (ord., Sez. 6-2, n. 316, Rv. 620852).

Quanto al testo odierno, le Sezioni Unite hanno chiarito che l'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui permette la compensazione allorché concorrano «gravi ed eccezionali ragioni», costituisce una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguare la disposizione al contesto storico-sociale o a particolari situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice di merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche, sicché anche la novità delle questioni affrontate integra la nozione, in quanto sia sintomo di un atteggiamento soggettivo del soccombente, ricollegabile alla considerazione delle ragioni che lo hanno indotto ad agire o resistere in giudizio, da valutare con riguardo al momento in cui la lite è stata introdotta o è stata posta in essere l'attività che ha dato origine alle spese, sempre che si tratti di questioni sulle quali si sia determinata effettivamente la soccombenza, ossia di questioni realmente decise (Sez. Un., n. 2572, Rv. 621247).

La Corte ha avuto modo di affrontare anche varie questioni - sostanziali e processuali - inerenti alla distrazione delle spese, regolata dall'art. 93 cod. proc. civ.

Si è affermato che l'avvocato distrattario può richiedere alla parte soccombente l'importo di onorari e spese processuali, non anche l'importo dell'IVA, che gli sarebbe dovuta, a titolo di rivalsa, dal proprio cliente, abilitato a detrarla, atteso che, in materia fiscale, l'addebito di una spesa presuppone che il costo vi corrisponda e non sia recuperato, non potendo ammettersi una locupletazione del soggetto, legittimato a conseguire due volte la medesima somma di danaro (Sez. 2, n. 2474, Rv. 621951).

Riguardo al caso in cui il giudice abbia omesso di provvedere sull'istanza di distrazione, si è precisato che il soccombente può legittimamente corrispondere le spese processuali a mani della parte vittoriosa, alla quale non è consentito rifiutare il pagamento ed esigere che il debitore versi separatamente le spese di lite al proprio avvocato (Sez. 3, n. 14810, Rv. 623603).

Per il caso di rigetto dell'istanza di distrazione, il rimedio esperibile è stato individuato nella correzione degli errori materiali, ai sensi degli art. 287 e 288 cod. proc. civ., e non nei mezzi ordinari di impugnazione (Sez. 3, n. 1301, Rv. 621322).

Viceversa, qualora il giudice di primo grado abbia distratto le spese, l'avvocato distrattario non è contraddittore necessario nel giudizio d'appello, quand'anche sia stato impugnato il capo relativo alle spese con riferimento all'entità delle stesse, di modo che non è affetta da nullità la sentenza pronunziata senza instaurazione del contraddittorio verso il distrattario (Sez. 3, n. 1371, Rv. 621255).

La Corte ha avuto occasione di esprimersi anche sul disposto dell'art. 94 cod. proc. civ., che eccezionalmente autorizza il giudice a condannare per le spese processuali il rappresentante della parte in giudizio.

Al riguardo, si è attribuita la legittimazione ad intervenire nel processo al soggetto che - per carica rivestita e gravità dei motivi - è passibile della condanna alle spese processuali, soggetto da individuare, attesa la natura sanzionatoria dell'eccezionale disposizione, nella persona fisica che abbia rappresentato la parte all'epoca in cui è stato compiuto l'atto, o instaurato il rapporto, oggetto della controversia: nella specie, la Corte, con riferimento a giudizio di impugnazione di delibera condominiale, ha riconosciuto la legittimazione quale interventore adesivo dipendente all'amministratore in carica nell'epoca di assunzione della delibera, del quale era stata richiesta la condanna personale alle spese, mentre ha negato ogni rilievo agli avvicendamenti occorsi nell'incarico di gestione (Sez. 2, n. 11194, Rv. 623131).

Vanno segnalate, infine, due enunciazioni di principio attinenti al terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ., aggiunto dalla legge n. 69 del 2009, disposto - del quale la Corte ha già evidenziato il carattere sanzionatorio - per cui il giudice, «in ogni caso», anche d'ufficio, può condannare il soccombente a pagare alla controparte, oltre alle spese processuali, anche una «somma equitativamente determinata».

Si è chiarito che tale condanna aggiuntiva: presuppone, comunque, l'accertamento della mala fede o colpa grave del soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile (ord., Sez. VI-2, n. 21570, in corso di massimazione); non è vincolata ad alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, ma soltanto al criterio dell'equità, potendo essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l'unico limite della ragionevolezza (ord., Sez. VI-2, n. 21570, ora citata).

3. L'esercizio dell'azione.

Di gran momento risultano alcuni interventi della Corte, anche a Sezioni Unite, relativi al principio del contraddittorio, nella specifica declinazione che vieta le sentenze "a sorpresa" o di "terza via" (art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., aggiunto dall'art. 45 della legge n. 69 del 2009).

Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di riaffermare vari assunti in tema di concretezza dell'interesse ad agire, necessità del litisconsorzio processuale e facoltà processuali degli interventori.

Nella casistica sul litisconsorzio necessario a matrice sostanziale, è venuta delineandosi una fattispecie incerta, attinente all'esercizio delle azioni reali nell'ambito del condominio.

Sicuro rilievo hanno, da ultimo, gli arresti sull'estensione e sul regime della successione a titolo particolare nel diritto controverso.

3.1. Interesse ad agire.

Nella definizione dell'interesse ad agire ex art. 100 cod. proc. civ., la Corte è tornata ad evidenziare la concretezza che qualifica tale condizione dell'azione, sì da rendere inammissibili richieste di accertamento astratte o frazionarie.

Si è ribadito, quindi, che l'interesse ad agire postula non solo l'accertamento di una situazione giuridica, ma anche la prospettazione dell'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda conseguire, di modo che non sono proponibili azioni d'accertamento di fatti costituenti meri elementi frazionari della fattispecie costitutiva del diritto, la quale può essere oggetto di accertamento giudiziario soltanto nella sua interezza: nella specie, un lavoratore, che nel frattempo aveva rassegnato le dimissioni, aveva domandato l'accertamento dell'illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti, deducendo il proprio interesse all'accertamento dell'inadempimento datoriale, ma non vi aveva collegato alcuna domanda di condanna o di accertamento del diritto al risarcimento del danno, e la Corte ha escluso, quindi, l'interesse ad agire, costituendo l'inadempimento datoriale solo uno degli elementi della fattispecie determinativa di danno (Sez. L, n. 6749, Rv. 622515).

3.2. Divieto della "terza via".

Il divieto delle sentenze di "terza via", positivizzato dal nuovo secondo comma dell'art. 101 cod. proc. civ. nella forma della nullità per omessa attivazione del contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, non ha mancato di essere valorizzato dalla giurisprudenza di legittimità sul versante sistematico dell'effettività del principio del contraddittorio.

In particolare, le Sezioni Unite, nell'affermare che il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell'art. 474, secondo comma, n. 1, cod. proc. civ., non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l'obbligo da eseguire, essendo consentita l'interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato, hanno statuito che il giudice dell'opposizione all'esecuzione non può dichiarare d'ufficio l'illiquidità del credito, portato dalla sentenza fatta valere come titolo esecutivo, senza invitare le parti a discutere la questione e a integrare le difese, anche sul piano probatorio (Sez. Un., n. 11066, Rv. 622929, su cui cfr. anche il cap. XXIX, § 1).

Analogamente, le Sezioni Unite, pur legittimando il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, a rilevare d'ufficio la nullità contrattuale emergente ex actis, hanno condizionato la validità del rilievo officioso alla preventiva attivazione del contraddittorio sulla questione di nullità (Sez. Un., n. 14828, Rv. 623290).

Ha trovato conferma, in definitiva, che l'omessa segnalazione di una questione officiosa - questione implicante nuovi sviluppi della lite, non considerati dalle parti - determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, privando i litiganti dell'esercizio del contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie, sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria, con l'effetto che, ove la violazione sia perpetrata in appello, s'impone l'annullamento della sentenza con rinvio, affinché, in applicazione dell'art. 394, terzo comma, cod. proc. civ., sia dato spazio alle attività processuali che la parte lamenti di non aver potuto svolgere a causa della decisione "a sorpresa" (Sez. 5, n. 11928, Rv. 623340).

Il divieto della "terza via", peraltro, va coordinato col potere del giudice di ricercare le norme correttamente applicabili al fatto allegato (da mihi factum, dabo tibi ius), sicché la violazione del principio del contraddittorio sussiste quando la decisione venga calata ex abrupto sulle parti, ignare della questione officiosamente rilevata e solitariamente risolta, non anche quando il giudice pronunzi su un'eccezione sollevata da una parte (nella specie, eccezione di incompetenza territoriale derogabile), sulla base dei fatti dedotti, individuando le norme disciplinatrici della fattispecie, come vuole il principio iura novit curia (ord., Sez. VI-2, n. 22731, in corso di massimazione).

3.3. Litisconsorzio necessario e facoltativo.

Per l'individuazione dell'onerato ad eseguire l'ordine di integrazione del contraddittorio nel litisconsorzio necessario, viene indicato il parametro dell'interesse.

Invero, si è confermato che, in caso di ordine di integrazione del contraddittorio ex art. 102 cod. proc. civ., poiché l'omessa esecuzione provoca l'estinzione del giudizio ai sensi dell'art. 307 cod. proc. civ., è onerato all'incombente chiunque abbia interesse ad impedire l'estinzione (Sez. 3, n. 3967, Rv. 622083).

Riguardo al presupposto sostanziale della necessità litisconsortile, la Corte ha stabilito - in adesione a un indirizzo non univoco - che, in tema di condominio degli edifici, poiché l'accertamento della proprietà di un bene non può essere effettuato se non nei confronti di tutti i soggetti a vantaggio dei quali, o verso i quali, è destinato ad operare, secondo l'effetto di giudicato richiesto con la domanda, ove quest'ultima sia proposta da alcuni condomini per far dichiarare la natura comune di un bene, il giudizio deve svolgersi nei confronti di tutti gli altri partecipanti al condominio, i quali, altrimenti, nel caso di esito della lite favorevole agli attori, non potrebbero giovarsi del giudicato, né restare terzi non proprietari (Sez. 2, n. 6607, Rv. 622427).

Non perfettamente allineata, rispetto a questa pronunzia, appare un'altra, secondo la quale ciascun condomino può esercitare le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza che si renda necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini, il diritto di ogni condomino avendo per oggetto la cosa comune nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui (Sez. 2, n. 14765, Rv. 623805). Al riguardo, v. amplius al cap. V, § 11.

Quanto all'accettazione di eredità con beneficio d'inventario da parte di più coeredi, la Corte ha rimarcato che l'art. 504 cod. civ. prescrive l'unicità della liquidazione concorsuale, nel senso che, individuato il notaio incaricato dal coerede che abbia assunto l'iniziativa in relazione alla liquidazione, gli altri coeredi debbono parteciparvi e, in caso di reclamo ex art. 501 cod. civ., sono litisconsorti necessari nel conseguente giudizio, i cui effetti, data la suddetta unicità, sono destinati a riflettersi sulle loro posizioni (Sez. 2, n. 4972, Rv. 622026).

Viceversa, nel giudizio per la costituzione della servitù di passaggio coattivo, instaurato da un comproprietario del fondo dominante, è stata esclusa la necessità del litisconsorzio, sia perché ogni partecipante alla comunione può chiedere la costituzione di tale servitù a favore del fondo intercluso, sia perché vige il principio di indivisibilità della servitù, nel senso che, una volta riconosciute le condizioni per l'imposizione della servitù, questa deve intendersi costituita attivamente e passivamente a favore e a carico dei rispettivi fondi, con effetti che, concretandosi in una qualitas fundi, non possono essere circoscritti al solo condomino che richiese di ottenere il passaggio (ord., Sez. 6-2, n. 4399, Rv. 621650).

Per il giudizio di accertamento dell'usucapione, proposto da un coniuge in regime di comunione legale dei beni, si è ribadito che non sussiste il litisconsorzio necessario dell'altro coniuge, quale acquirente ope legis, agli effetti dell'art. 177, primo comma, lettera a), cod. civ., occorrendo la presenza in causa di tutti i comproprietari esclusivamente nel caso in cui la pluralità soggettiva sia rinvenibile dal lato passivo del rapporto, cioè tra coloro in danno dei quali la domanda di usucapione è volta, non anche nell'ipotesi in cui essa si riscontri dal lato attivo, atteso che, in tale evenienza, l'azione proposta è diretta a costituire una situazione compatibile con la pretesa che i soggetti non citati in giudizio potranno eventualmente vantare in futuro (Sez. 2, n. 14522, Rv. 623542).

Infine, la Corte ha avuto modo di riaffermare l'operatività del litisconsorzio necessario per motivi processuali, ribadendo, nell'ambito del contenzioso tributario, che, qualora il giudizio si sia svolto nei confronti di una pluralità di parti, l'impugnazione deve essere notificata a tutte loro e che, ove ciò non sia avvenuto in relazione ad alcune di esse, il giudice deve disporre l'integrazione del contradditorio, trattandosi - appunto - di litisconsorzio necessario processuale (ord., Sez. 6-5, n. 11506, Rv. 623232).

Quanto al litisconsorzio facoltativo, va segnalata una decisione sul cosiddetto litisconsorzio facoltativo improprio, il quale è caratterizzato, a differenza del litisconsorzio facoltativo proprio, non dalla connessione per l'oggetto o per il titolo delle domande, ma da una connessione per mera affinità delle questioni. A proposito del simultaneus processus sulla domanda pensionistica verso l'INPS e sulla domanda risarcitoria verso il patronato, la Corte ha ribadito che il cumulo soggettivo ex art. 33 cod. proc. civ. esprime una mera connessione per coordinazione, in cui la trattazione simultanea dipende dalla sola volontà di parte, sicché esso non consente deroghe all'ordinaria competenza territoriale, né al rito ordinario, e la separazione delle cause resta sempre possibile ex art. 103, secondo comma, cod. proc. civ. (Sez. L, n. 14386, Rv. 624183).

3.4. Intervento volontario, su chiamata e per ordine.

La scindibilità delle posizioni materiali, che esclude la necessità del litisconsorzio sostanziale, è stata ritenuta in grado di incidere sulla stabilità dell'ordine di estensione del contraddittorio, in una fattispecie di intervento iussu iudicis.

Si è affermato, infatti, che, quando il convenuto neghi di essere titolare dell'obbligazione dedotta in giudizio e indichi un terzo quale soggetto passivo, non v'è necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di quest'ultimo, giacché, potendo emettersi la pronunzia di accertamento della titolarità con effetti limitati alle parti in causa, non si versa in una situazione d'impossibilità di adottare una pronunzia idonea a produrre gli effetti giuridici voluti senza la partecipazione al giudizio di determinati soggetti, cosicché, nell'indicata ipotesi, l'intervento del terzo può essere disposto dal giudice, ai sensi dell'art. 107 cod. proc. civ., ma, qualora l'ordine rimanga inosservato e il giudice non provveda a cancellare la causa dal ruolo, deve ritenersi che l'ordine medesimo sia stato implicitamente revocato (Sez. 3, n. 1291, Rv. 621242).

In ordine all'intervento volontario, nelle declinazioni configurate dall'art. 105 cod. proc. civ. (intervento principale, intervento litisconsortile o adesivo autonomo, intervento adesivo dipendente), deve rammentarsi, anzitutto, la pronunzia delle Sezioni Unite sull'intervento della società in concordato preventivo.

Al riguardo, la Corte ha stabilito che l'intervento nel processo della società in concordato preventivo, quale soggetto terzo rispetto alla società in bonis, costituisce intervento principale, che legittima l'introduzione di nuove domande (Sez. Un., n. 9589, Rv. 622716).

Mette conto segnalare, inoltre, due conferme, l'una attinente all'intervento litisconsortile, l'altra relativa all'intervento adesivo dipendente.

È stato ribadito che l'intervento di cui all'art. 105 cod. proc. civ. concerne non la causa, ma il processo, ed è tale che il terzo, una volta intervenuto nel processo e spiegatavi domanda nei confronti delle altre parti o di una di esse, diventa parte egli stesso, al pari di tutte le altre parti e nei confronti delle stesse, sicché, qualora il terzo spieghi volontariamente intervento litisconsortile, assumendo essere lui (o anche lui) e non gli altri convenuti (o non solo loro) il soggetto nei cui riguardi si rivolge la pretesa dell'attore, la domanda iniziale, anche in difetto di espressa istanza, si intende automaticamente estesa al terzo, nei confronti del quale, perciò, il giudice è legittimato ad assumere le conseguenti statuizioni (Sez. 2, n. 743, Rv. 621237).

Le Sezioni Unite hanno confermato, altresì, che l'interventore adesivo dipendente non ha un'autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l'impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti alla qualificazione dell'intervento o alla condanna per le spese a suo carico), sicché l'impugnazione dell'interventore adesivo dipendente è inammissibile, ove la parte adiuvata non abbia esercitato il proprio diritto di impugnare o abbia fatto acquiescenza alla decisione (Sez. Un., n. 5992, Rv. 622259).

Riguardo alla chiamata in causa del terzo, o intervento su istanza di parte, istituto regolato dall'art. 106 cod. proc. civ., ha trovato conferma il parziale accostamento del terzo chiamato in garanzia impropria all'interventore autonomo, essendosi a lui riconosciuto un potere autonomo di impugnazione, finalizzato a non esporlo passivamente all'efficacia riflessa del giudicato inter alios.

Invero, la Corte ha ribadito che il terzo chiamato in garanzia impropria, com'è legittimato a svolgere le sue difese per contrastare non solo la domanda di manleva, ma anche la domanda proposta dall'attore principale, così può autonomamente impugnare le statuizioni della sentenza di primo grado relative al rapporto principale, sia pure al solo fine di sottrarsi agli effetti riflessi che la decisione spiega sul rapporto di garanzia (Sez. 3, n. 3969, Rv. 622051).

3.5. Successione a titolo particolare nel diritto controverso.

Occorre rammentare, da ultimo, gli arresti sulla successione a titolo particolare nella res litigiosa, fenomeno disciplinato dall'art. 111 cod. proc. civ.

Alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata dal principio del giusto processo e dall'inviolabilità del diritto di difesa, la Corte ha precisato che la successione a titolo particolare nel diritto controverso, di cui all'art. 111 cod. proc. civ., si determina a prescindere dalla natura, reale o personale, dell'azione esercitata tra le parti originarie, dovendosi garantire all'acquirente, il quale intenda intervenire nel processo, le stesse possibilità di difesa spettanti al suo dante causa, posto che, per lo stesso acquirente, potrebbe rivelarsi pregiudizievole la soggezione all'efficacia riflessa della sentenza inter alios, impugnabile soltanto nell'ambito delle difese esercitate dall'alienante, sicché l'acquirente di un immobile deve essere considerato successore nel diritto controverso, agli effetti dell'art. 111 cod. proc. civ., nel processo avente ad oggetto la validità, la risoluzione o l'esecuzione di un contratto preliminare, relativo allo stesso bene, stipulato in precedenza tra il dante causa e un terzo (Sez. 2, n. 12305, Rv. 623239).

Inoltre, è stato affermato che la successione a titolo particolare nel diritto controverso non determina una questione di legittimazione attiva o di legitimatio ad processum, ma una questione di merito, attinente alla titolarità del diritto, da esaminare con la decisione sulla fondatezza della domanda, e non anticipatamente, in funzione preclusiva degli atti d'impulso volti a riattivare il processo interrotto, sicché il giudice deve dare seguito all'istanza di riassunzione proposta da chi si afferma successore a titolo particolare nel diritto della parte estinta, impregiudicato l'accertamento dell'effettiva spettanza del diritto medesimo all'esito della valutazione sulla prova dell'allegata successione (Sez. 1, n. 4208, Rv. 621612).

La Corte ha chiarito, infine, che, nell'ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo prosegue fra le parti originarie, il successore interventore mantenendo tale veste processuale, salvo il caso di estromissione dell'alienante, di guisa che è inammissibile il ricorso per cassazione notificato unicamente al successore interventore e non anche alla controparte originaria (Sez. 2, n. 6471, Rv. 622125).

4. I poteri del giudice.

Quanto ai poteri del giudice, la giurisprudenza della Corte si è sviluppata essenzialmente lungo due direttrici. Per un verso, sono stati coltivati gli istituti riferibili al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato: ultrapetizione, extrapetizione, omissione di pronunzia e assorbimento. Per altro verso, è iniziata la rimodulazione del sistema probatorio, imposta dalla recente introduzione del principio di non contestazione quale canone giuridico-positivo.

4.1. Corrispondenza tra chiesto e pronunziato.

La Corte ha avuto modo di tornare su diversi aspetti della regola di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato, scolpita dall'art. 112 cod. proc. civ. mediante una formula di sintesi del tradizionale divieto di non liquet e del brocardo ne eat iudex ultra petita partium.

Tale regola è stata annoverata, ai fini dell'impugnabilità delle sentenze equitative del giudice di pace, tra i principî informatori della materia processuale, sì da imporre la cassazione della sentenza del giudice di pace che, nel condannare un'associazione non riconosciuta, aveva esteso la condanna al presidente della medesima, pur in difetto di una specifica domanda nei suoi confronti (Sez. 3, n. 552, Rv. 621166).

A proposito della violazione del principio di corrispondenza, sembra utile classificare i principali arresti di legittimità in base all'alternativa concettuale tra vizi per eccesso e vizi per difetto.

In ordine alla violazione per eccesso, la Corte ha offerto un'ampia casistica attinente all'ultrapetizione (eccesso quantitativo) e all'extrapetizione (eccesso qualitativo), rapportata anche alle problematiche della qualificazione della domanda, del principio iura novit curia e della latitudine dell'eccezione.

Di grande pregnanza è la decisione a Sezioni Unite che ha escluso l'extrapetizione nel rilievo di nullità del contratto da parte del giudice della risoluzione: alla luce del ruolo che l'ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell'assetto negoziale, e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l'esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale, escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta (Sez. Un., n. 14828, Rv. 623290, su cui amplius al cap. VIII, § 8).

L'extrapetizione è stata addebitata alla sentenza che, a fronte di una domanda di ristoro del danno patrimoniale, ha condannato il convenuto a risarcire anche il danno non patrimoniale, a nulla rilevando che l'attore avesse domandato, in via subordinata, la condanna al pagamento della «somma maggiore o minore che risulterà accertata in corso di causa» (Sez. 3, n. 12218, Rv. 623347).

Una tipica fattispecie di ultrapetizione viene stigmatizzata dall'arresto per il quale, nel giudizio di risarcimento del danno da fatto illecito, costituisce violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato, di cui all'art. 112 cod. proc. civ., travalicare le specifiche indicazioni quantitative della parte in ordine a ciascuna delle voci di danno elencate in domanda, a meno che tali indicazioni siano da ritenere non vincolanti - in base ad un apprezzamento di fatto concernente l'interpretazione della domanda, censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione -, com'è quando la parte, pur dopo l'indicazione, chieda che il danno sia liquidato secondo giustizia ed equità (Sez. L, n. 16450, Rv. 624212).

Si è ribadito che il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente l'azione e, se del caso, di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen iuris diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio, sicché incorre nel vizio di extrapetizione la decisione che, a fronte di una domanda di risoluzione della locazione per inadempimento del conduttore e di conseguente condanna al rilascio dell'immobile locato, accolga la domanda di rilascio ritenendo stipulato tra le parti un comodato senza determinazione di durata, atteso che tale decisione pone a suo fondamento un fatto estraneo alla materia del contendere, qual è la richiesta di restituzione del bene ex art. 1810 cod. civ., introducendo nel processo una causa petendi diversa da quella enunciata dalla parte a sostegno della domanda (Sez. 3, n. 13945, Rv. 623560).

Sulla medesima linea, la Corte, riaffermando che il principio iura novit curia, di cui all'art. 113, primo comma, cod. proc. civ., fonda il potere del giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite e all'azione esercitata in causa, tramite la ricerca delle norme applicabili alla fattispecie concreta, seppur diverse da quelle erroneamente richiamate dalle parti, ha precisato che tale principio deve essere coordinato col divieto di ultrapetizione ed extrapetizione, sancito dall'art. 112 cod. proc. civ., restando preclusa al giudice la decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma anche su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa (Sez. L, n. 12943, Rv. 624003).

Quanto alla distinzione tra eccezioni in senso lato, rilevabili d'ufficio (exceptiones facti), ed eccezioni in senso stretto, rimesse alla parte (exceptiones iuris), la Corte ha mostrato di enfatizzare la prima categoria ai danni della seconda, in aderenza, del resto, alla tradizionale enunciazione della normalità del rilievo d'ufficio, evincibile dall'inciso finale dello stesso art. 112 cod. proc. civ.

Le eccezioni non rilevabili d'ufficio sono soltanto le eccezioni per le quali la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva ovvero le eccezioni rispetto alle quali singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi, in ogni altro caso, ammettere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi, che risultino dal materiale probatorio legittimamente acquisito: nella specie, la Corte ha confermato la sentenza del giudice di merito che, in presenza del recesso da un preliminare immobiliare per mancanza delle pattuite caratteristiche del bene, aveva provveduto d'ufficio a verificare l'esistenza e la gravità dell'inadempimento (ord., Sez. 6-2, n. 409, Rv. 620727).

Eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio, è stata considerata quella di estinzione dell'obbligazione per effetto di transazione conclusa dopo l'introduzione del giudizio, purché l'accordo emerga da prove ritualmente acquisite (Sez. 3, n. 15931, Rv. 623701).

Posto che sono eccezioni in senso stretto esclusivamente quelle per le quali la legge richiede espressamente che sia la parte a rilevare il fatto impeditivo, estintivo o modificativo, oltre quelle corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva, l'eccezione attinente alla transazione novativa, intervenuta tra le parti in causa, non rientra nel novero di dette eccezioni, laddove introduca una questione processuale idonea a chiudere la lite con declaratoria di cessazione della materia del contendere, sulla base di un fatto che non riguarda il merito della controversia e che, dunque, non soggiace alle regole e alle preclusioni che governano l'allegazione delle circostanze di merito (Sez. 1, n. 18195, Rv. 624115).

Eccezione in senso lato è stata considerata, altresì, quella di avvenuto pagamento del debito tributario, in quanto correlata al fatto estintivo tipico dell'obbligazione pecuniaria e non implicante la deduzione di situazioni giuridiche nuove, tanto più che le eccezioni in senso stretto sono apparse ravvisabili solo quando vi sia un'espressa previsione di legge in tal senso, atteso, inoltre, che nella materia tributaria è necessario tener conto anche della derivazione legale dell'obbligazione e del connesso principio di capacità contributiva (ord., Sez. 5, n. 9610, Rv. 622873).

Anche per il difetto dell'accettazione ereditaria con beneficio d'inventario - la quale è condizione di ammissibilità dell'azione di riduzione delle liberalità in favore di persone non chiamate alla successione come eredi - non si è riscontrata un'eccezione in senso stretto, atteso che la mancanza di tale condizione, come per tutte le altre condizioni dell'azione, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice (Sez. 2, n. 18068, Rv. 623898).

Viceversa, l'eccezione in senso stretto è stata configurata per l'esistenza del diritto di rappresentazione, la quale, invero, ai sensi dell'art. 522 cod. civ. («salvo il diritto di rappresentazione»), si atteggia a fatto impeditivo dell'accrescimento, non rilevabile d'ufficio, giacché il sistema successorio dispiega in ogni caso i suoi effetti, devolvendo il compendio ereditario - se non a chi succede per rappresentazione - a chi beneficia dell'accrescimento (Sez. 2, n. 8021, Rv. 622426).

In ordine al vizio di corrispondenza perpetrato per difetto, la Corte è tornata sull'istituto dell'omissione di pronunzia, anche in rapporto alla figura dell'assorbimento, quest'ultima in grado di escludere la violazione omissiva.

L'omessa pronunzia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato ex art. 112 cod. proc. civ., ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l'attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all'attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronunzia di accoglimento o di rigetto (Sez. 5, n. 7653, Rv. 622441).

Con riguardo al giudizio di appello, l'omessa pronunzia è configurabile allorché manchi completamente l'esame di una censura mossa al giudice di primo grado, mentre il vizio non ricorre nell'ipotesi in cui il giudice di appello fondi la decisione su una costruzione logicogiuridica incompatibile con la domanda (Sez. 3, n. 16254, Rv. 623698).

L'assorbimento, idoneo ad escludere il vizio di omessa pronunzia, è stato distinto in assorbimento proprio, che si ha quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua per difetto d'interesse della parte, che, con la pronunzia sulla domanda assorbente, ha conseguito piena tutela, ed assorbimento improprio, che si ha quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni o comporta un implicito rigetto di altre domande, cosicché non rientra tra le ipotesi di assorbimento la situazione in cui la decisione adottata non esclude la necessità, né la possibilità, di pronunziare sulle altre questioni prospettate dalla parte, la quale conserva interesse alla decisione sulle questioni stesse: nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che, dopo avere ritenuto applicabile la disciplina in materia di recupero di aiuti di Stato incompatibili col mercato comune, aveva dichiarato assorbite le ulteriori questioni sulla correttezza del calcolo degli aiuti e degli interessi, sulla motivazione del provvedimento impugnato e sulla decadenza e prescrizione dell'azione di recupero (Sez. 5, n. 7663, Rv. 622529).

L'assorbimento improprio può coincidere, dunque, con la reiezione implicita della domanda assorbita, ma può anche differenziarsene, ove quest'ultima resti semplicemente impregiudicata, arrestandosi la pronunzia all'esame della domanda assorbente secondo il criterio economico della ragione più liquida: evidente risulta la diversità di conseguenze in punto di onere d'impugnazione e giudicato interno.

Invero, il giudicato interno per mancata specifica censura della sentenza impugnata si forma sui capi di questa che siano stati oggetto di decisione, espressa o implicita, situazione affine, ma non perfettamente sovrapponibile a quella in cui la decisione sia stata resa mediante la particolare applicazione della tecnica dell'assorbimento improprio riferita al criterio della ragione più liquida, che ricorre allorché una domanda è rigettata in base alla soluzione di una questione di carattere esaustivo, che rende vano esaminare tutte le altre, sicché, mentre la decisione implicita deve essere anch'essa impugnata, pena la formazione del giudicato interno, l'assorbimento improprio per maggiore liquidità della questione non onera il soccombente di formulare un apposito motivo di impugnazione circa la questione assorbita (Sez. 2, n. 17219, Rv. 624092).

In una particolare fattispecie, la violazione del principio di corrispondenza - violazione per eccesso - è stata riscontrata in correlazione ad un'opzione istruttoria, essendosi rimarcato che il potere discrezionale del giudice di merito di rinnovare le indagini peritali va coordinato con l'effetto devolutivo dell'appello, sicché, qualora l'appellante non abbia censurato la consulenza tecnica d'ufficio svolta in primo grado e anzi ne abbia posto le risultanze a fondamento del gravame, incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice di appello che disponga la rinnovazione delle operazioni peritali, derivandone la nullità della nuova consulenza e della sentenza che vi aderisca (Sez. L, n. 14338, Rv. 623494).

4.2. Disponibilità e valutazione delle prove.

Sui poteri istruttori del giudice, occorre segnalare una decisione relativa alla prova del fatto pacifico, che involge il principio di non contestazione, positivizzato dall'art. 115, primo comma, cod. proc. civ., come novellato dalla legge n. 69 del 2009.

La non contestazione, pur essendo irreversibile, non impedisce al giudice di acquisire egualmente la prova del fatto non contestato, sicché, in tale ipotesi, resta superata la questione della pregressa non contestazione, che, ove ravvisata per tempo, avrebbe escluso il fatto dal thema probandum (Sez. 3, n. 3951, Rv. 622080).

Riguardo all'art. 115, secondo comma, cod. proc. civ., fedele al brocardo notoria non egent probatione, si è stabilito che il mancato ricorso alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza deve essere motivato dal giudice di merito e può essere sindacato dal giudice di legittimità sotto il profilo del vizio d'insufficiente motivazione: nella specie, la Corte ha cassato la sentenza che, omettendo di applicare la nozione di comune esperienza secondo cui un impianto di allarme è utile, in qualche misura, per evitare il furto o attenuarne le conseguenze, aveva escluso il nesso causale tra malfunzionamento del dispositivo e furto, sul rilievo che il reato si era consumato nell'arco di pochi minuti, senza dar conto delle ragioni per le quali il suono della sirena non avrebbe potuto spiegare un effetto deterrente, idoneo a impedire o attenuare i danni ex delicto (Sez. 3, n. 5644, Rv. 622282).

Se ritiene doverosa l'applicazione del notorio (rectius, la motivazione sulla disapplicazione), una volta che del notorio medesimo sia riconosciuta la sussistenza, la Corte rinnova il tradizionale invito alla cautela nell'individuazione concreta delle nozioni di esperienza.

Il notorio, l'impiego del quale deroga al principio dispositivo e al contraddittorio, introducendo prove non fornite dalle parti, circa fatti dalle stesse non vagliati, né controllati, deve essere inteso in senso rigoroso, cioè, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività con un tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, sicché non può reputarsi nozione di fatto di comune esperienza, quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, l'elemento valutativo che implichi cognizioni particolari o anche solo la pratica di determinate situazioni, né la nozione che rientri nella scienza privata del giudice, poiché quest'ultima, in quanto non universale, non può appartenere alla categoria del notorio: nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la decisione del giudice tributario che aveva ritenuto di poter quantificare la percentuale di ricarico sulla tazzina di caffè in base del notorio, stimandola nella misura del 100 per cento (Sez. 5, n. 16959, Rv. 624073).

Circa il principio del libero convincimento, è stata riconosciuta - in un particolare giudizio di stato - l'autonomia dimostrativa dell'argomento di prova ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.

Nel giudizio promosso per la dichiarazione di paternità naturale, la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre naturale e della portata delle difese del convenuto, di guisa che, non sussistendo un ordine gerarchico delle prove riguardanti l'accertamento giudiziale della paternità naturale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici, considerando il contesto sociale e l'eventuale maggiore difficoltà di riscontri oggettivi alle dichiarazioni della madre, può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell'art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti (Sez. 1, n. 12971, Rv. 623530).

5. Gli atti processuali.

La Corte ha avuto occasione di misurarsi con la nitida tendenza legislativa verso la semplificazione motivazionale della sentenza. A fronte della novella sulla rilevanza argomentativa dei precedenti conformi, di cui all'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., modificato dalla legge n. 69 del 2009, sono state precisate le condizioni di legittimità della motivazione per relationem.

Di sicura guida per gli operatori è la decisione a Sezioni Unite sulla questione della doppia data, imposta dalla prassi di cancelleria che scinde cronologicamente le formalità del deposito della sentenza e della relativa pubblicazione.

Quanto alle notificazioni, la Corte ha proceduto nella definizione degli effetti della sentenza costituzionale 14 gennaio 2010, n. 3, in ordine alla notifica per irreperibilità ex art. 140 cod. proc. civ.; ha avuto modo, altresì, di puntualizzare la ratio semplificativa della modifica recata dalla legge n. 263 del 2005 in tema di notificazione alle persone giuridiche ex art. 145 cod. proc. civ.

Con riferimento alla disciplina dei termini, vanno segnalati tre istituti, sui quali la Corte ha assunto importanti decisioni: la rimessione in termini, figura generalizzata dalla legge n. 69 del 2009; la proroga di diritto del termine in scadenza nella giornata del sabato, novità introdotta dalla legge n. 263 del 2005; la prospective overruling, fattispecie di matrice giurisprudenziale, eccettuativa rispetto all'inderogabilità della decadenza per inosservanza dei termini perentori.

5.1. Sentenza.

Per quanto attiene al contenuto della sentenza, descritto dall'art. 132 cod. proc. civ., e, in particolare, per quanto concerne la motivazione, è stata ribadita l'ammissibilità della motivazione per relationem, purché il rinvio venga operato in modo tale da rendere possibile e agevole il controllo della motivazione stessa, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e dell'identità di tali argomentazioni rispetto a quelle esaminate nella pronunzia oggetto del rinvio (Sez. 5, n. 7347, Rv. 622892).

Il principio ha trovato ulteriore conferma nella formulazione dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., come novellata dalla legge n. 69 del 2009, che autorizza a motivare la sentenza attraverso una succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento ai precedenti conformi, di guisa che è consentita la motivazione tramite rinvio ad un precedente del medesimo ufficio, sempre che, al fine di rendere comunque possibile e agevole il controllo della motivazione, si dia conto dell'identità contenutistica della situazione di fatto e di diritto tra il caso deciso dal precedente e quello oggetto di decisione (Sez. L, n. 8053, Rv. 623010).

La motivazione per relationem è viziata quando il giudice non indichi affatto le ragioni del proprio convincimento, limitandosi ad una generica relatio al quadro probatorio, senza alcuna esplicitazione al riguardo, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Sez. 5, n. 12664, Rv. 623402).

Circa la sottoscrizione della sentenza, è stato riaffermato che, in caso di collocamento in pensione, dimissioni e in tutte le altre ipotesi in cui il magistrato abbia cessato di far parte dell'ordine giudiziario (escluso, quindi, il mero trasferimento ad altra sede o ad altro incarico), la sottoscrizione della sentenza da parte del medesimo, seppure non esiste un impedimento assoluto alla materiale apposizione, non è coercibile e può essere rifiutata, senza che il magistrato debba risponderne penalmente o disciplinarmente, non avendo carattere eccezionale la norma di cui all'art. 132, ultimo comma, cod. proc. civ. - secondo cui, se il giudice non può sottoscrivere la sentenza «per morte o altro impedimento», questa è sottoscritta dal componente più anziano del collegio - e potendosi qualificare il collocamento a riposo, per via analogica o estensiva, come un «altro impedimento», sicché, ove il presidente del collegio che ha emesso la sentenza cessi dal servizio e rifiuti di porre in essere gli adempimenti di competenza in ragione delle funzioni già esercitate, non è inesistente, né nulla, la sentenza firmata dal giudice anziano del collegio, che esplichi le relative incombenze con l'annotazione di avere sottoscritto in vece del presidente "impedito", senza che sia necessario indicare la causa dell'impedimento e senza che l'attestazione della relativa esistenza sia censurabile nei successivi gradi di giudizio, non essendo prevista, al riguardo, alcuna possibilità di impugnazione (ord., Sez. 6-2, n. 4326, Rv. 621432).

Inoltre, si è confermata la validità della sentenza deliberata dal magistrato prima del suo collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, a nulla rilevando che il deposito in cancelleria sia avvenuto successivamente a tale momento (Sez. 3, n. 7269, Rv. 622461).

Del pari, si è ribadito che, in mancanza di un'espressa comminatoria, non è configurabile alcuna nullità della sentenza nel caso in cui il testo originale, anziché formato dal cancelliere in caratteri chiari e facilmente leggibili mediante copiatura dalla minuta redatta dal giudice, risulti pubblicato direttamente nell'originale minuta scritta di pugno dal giudice, ancorché con grafia non facilmente leggibile, atteso che l'inosservanza delle disposizioni concernenti la formazione ad opera del cancelliere del testo originale della sentenza e la redazione della minuta in caratteri chiari e facilmente leggibili dà luogo a semplici irregolarità, a meno che il testo autografo del giudice non sia assolutamente inidoneo ad assolvere la sua funzione essenziale, consistente nell'esteriorizzazione del contenuto della decisione (Sez. 3, n. 7269, Rv. 622462).

Notevole rilevanza possiede la decisione a Sezioni Unite attinente alla cosiddetta doppia data, controversa fattispecie generata dalla prassi di cancelleria che introduce uno iato temporale tra deposito e pubblicazione della sentenza.

Avallando un indirizzo prevalente, ma nient'affatto univoco, le Sezioni Unite hanno osservato che, a norma dell'art. 133 cod. proc. civ., la consegna dell'originale completo del documento-sentenza nella cancelleria del giudice che l'ha emesso avvia il procedimento di pubblicazione, il quale si compie, senza soluzione di continuità, con la certificazione del deposito mediante l'apposizione da parte del cancelliere, in calce al documento, della firma e della data, che devono essere contemporanee alla consegna ufficiale della sentenza, in tal modo resa pubblica per effetto di legge, sicché, escluso che il cancelliere possa attestare che la sentenza, già pubblicata alla data del deposito, venga pubblicata in data successiva, deve ritenersi che, ove sulla sentenza siano state apposte due date - una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l'altra di pubblicazione -, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono già dalla data del deposito (Sez. Un., n. 13794, Rv. 623301).

5.2. Comunicazioni.

In ordine alle comunicazioni di cancelleria, vanno segnalati due arresti, l'uno relativo alla comunicazione eseguita a mezzo di telefax, l'altro alla comunicazione a mezzo di posta elettronica.

Nella comunicazione a mezzo di telefax, ai sensi dell'art. 136, terzo comma, cod. proc. civ., l'attestato del cancelliere, da cui risulti che il messaggio è stato trasmesso con successo al numero di fax corrispondente a quello del destinatario, è sufficiente a far considerare la comunicazione avvenuta, salvo che il destinatario medesimo fornisca elementi idonei a provare il mancato od incompleto ricevimento (Sez. 1, n. 5168, Rv. 621894).

La comunicazione a mezzo di posta elettronica, eseguita presso l'indirizzo telematico indicato dal difensore, è valida qualora il destinatario abbia dato la risposta per ricevuta, con modalità non automatica, documentata dalla relativa stampa, attesa l'esigenza di assicurare la certezza della ricezione dell'atto processuale da parte del destinatario, essendo da considerare tanto il carattere sostitutivo della procedura informatica rispetto a quella cartacea, prevista in via generale dagli art. 136 cod. proc. civ. e 145 disp. att. cod. proc. civ., quanto l'eventualità dei difetti di funzionamento del sistema di trasmissione (Sez. 2, n. 6635, Rv. 622345).

5.3. Notificazioni.

Appaiono di grande interesse alcune decisioni della Corte orientate a soggettivare gli esiti del procedimento notificatorio, valutati senz'altro nella prospettiva della diligenza e dell'imputabilità.

In tal senso, è stata affermata la tempestività della notifica dell'atto di appello che, tentata in pendenza del termine per impugnare, non sia andata a buon fine per cause indipendenti dalla volontà del notificante e sia stata da questi tempestivamente rinnovata, a nulla rilevando che la seconda notifica si sia perfezionata dopo lo spirare del termine per l'impugnazione: nella specie, la Corte ha ritenuto incolpevole la prima omessa notifica, invano tentata presso lo studio del difensore di controparte, il quale, pur avendo informalmente comunicato al notificante il proprio trasferimento, gli aveva poi notificato la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado apponendovi un timbro con l'indicazione del vecchio indirizzo (Sez. 2, n. 4842, Rv. 621806).

Si è precisato, ancora, che, quando la notificazione debba avvenire in un termine perentorio e non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, l'istante, dopo aver appreso l'esito negativo del procedimento notificatorio, ha l'onere di attivarsi tempestivamente, entro un termine rispettoso del principio della ragionevole durata del processo, per evitare decadenze, sicché, ove egli non si attivi in un tempo ragionevole, deve escludersi la sussistenza dei presupposti che consentono al giudice di disporre la rimessione in termini ai sensi dell'art. 153, secondo comma, cod. proc. civ.: nella specie, la Corte ha respinto l'istanza di rimessione in termini per la notifica di un ricorso per cassazione agli eredi di una parte che era risultata deceduta, essendo decorsi sedici mesi dalla notizia della morte, acquisita nel corso dell'attività di notifica, e non essendo allegate nell'istanza particolari giustificazioni per la protrazione dell'inerzia (Sez. 5, n. 9114, Rv. 622946).

Piuttosto, alla luce del canone di ragionevole durata, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporta pur sempre un allungamento dei tempi del processo, l'interessato ha l'onere di chiedere direttamente all'ufficiale giudiziario la sollecita ripresa del procedimento notificatorio, qualora abbia gli elementi necessari all'uopo: nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione, in quanto il ricorrente, pur essendo in possesso delle indicazioni sufficienti a riattivare il procedimento notificatorio, non vi aveva provveduto e aveva, invece, formulato istanza di rimessione in termini, senza neppure specificare il momento in cui aveva avuto conoscenza del fatto che la notifica non era andata a buon fine per intervenuto trasferimento del destinatario (Sez. 2, n. 18074, Rv. 623907).

Copiosa giurisprudenza di legittimità si è formata sulla notificazione alle persone giuridiche, la cui disciplina, contenuta nell'art. 145 cod. proc. civ., è stata modificata dall'art. 2 della legge n. 263 del 2005.

Il significato ultimo della novella è ben illustrato da una decisione che, in tema di notifica del decreto di fissazione dell'udienza prefallimentare, ha ritenuto valida, ai sensi del riformato art. 145 cod. proc. civ., la notificazione indirizzata alla persona fisica del legale rappresentante indicato in atti, giacché la modifica normativa ha trasformato da residuale ad alternativa la possibilità di notificare l'atto destinato ad un ente direttamente alla persona che lo rappresenta (purché ne siano indicati nell'atto stesso qualità, residenza, domicilio o dimora), senza che sia più necessario, dunque, il previo tentativo di notifica presso la sede legale dell'ente (ord., Sez. 6-1, n. 6693, Rv. 622493).

Del resto, la notificazione alla persona fisica del legale rappresentante evidenzia una spiccata duttilità.

Invero, la notifica fatta alla persona fisica che rappresenta l'ente, e non all'ente in forma impersonale, può eseguirsi, ove non abbiano avuto esito le forme ordinarie indicate dall'art. 145 cod. proc. civ., nelle forme previste dagli art. 140 e 143 cod. proc. civ.: segnatamente, la notifica di cui all'art. 140 cod. proc. civ. è ammissibile se il recapito della persona fisica è noto, ma sul luogo non si rinvengono persone alle quali consegnare il plico, mentre la notifica di cui all'art. 143 cod. proc. civ. è ammissibile nel caso di totale irreperibilità della persona fisica medesima (Sez. 1, n. 9237, Rv. 622720).

Ancora in tema di notificazione alle persone giuridiche, sono stati ribaditi i seguenti principî di diritto, sostanzialmente complementari: la disposizione dell'art. 46 cod. civ., secondo cui, qualora la sede legale della persona giuridica sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede anche quest'ultima, vale anche in tema di notificazione, con conseguente applicabilità dell'art. 145 cod. proc. civ., sicché la persona che risulta presente in tali sedi si presume addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, senza che il notificatore debba accertarsi della sua effettiva condizione, mentre l'ente, per vincere la presunzione in parola, ha l'onere di provare la mancanza dei presupposti per il valido completamento del procedimento notificatorio (Sez. 5, n. 3516, Rv. 621931); ai fini della validità della notificazione a persona giuridica, secondo le previsioni dell'art. 145 cod. proc. civ., non è sufficiente che la copia dell'atto sia consegnata a persona qualificatasi come incaricata della ricezione, essendo necessario l'ulteriore requisito del rinvenimento di tale incaricato presso la sede del destinatario, che non ricorre quando la persona venga trovata in un appartamento diverso da quello in cui è ubicato l'ente, ancorché nel medesimo stabile (ord., Sez. 6-5, n. 12864, Rv. 623411); agli stessi fini, è sufficiente che il consegnatario si trovi presso la sede della persona giuridica non occasionalmente, ma in virtù di un particolare rapporto, che, non dovendo essere necessariamente di prestazione lavorativa, può risultare anche dall'incarico, pur se provvisorio e precario, di ricevere le notificazioni per conto della persona giuridica, sicché, qualora dalla relata di notifica risulti la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, laddove l'ente, per vincere la presunzione in parola, ha l'onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere una sua dipendente, non era neppure addetta alla sede, per non averne mai ricevuto incarico alcuno (ord., Sez. 5, n. 14865, Rv. 623679).

Di particolare interesse risultano le decisioni assunte dalla Corte in ordine alla notifica per irreperibilità ex art. 140 cod. proc. civ., con speciale riferimento alle conseguenze prodotte dalla declaratoria di illegittimità della norma, censurata dalla sentenza costituzionale n. 3 del 2010 nella parte in cui prevedeva che la notifica si perfezionasse, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché col ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

Orbene, nella notificazione a destinatario irreperibile ex art. 140 cod. proc. civ., non occorre che dall'avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell'atto presso l'ufficio comunale, che va allegato all'atto notificato, risultino precisamente documentati l'effettiva consegna della raccomandata o l'infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l'ufficio postale, né che, in definitiva, detto avviso contenga, a pena di nullità dell'intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto risultarne, a seguito della sentenza costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento del destinatario, il suo decesso o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell'avviso stesso (Sez. 2, n. 2959, Rv. 621585).

Ancora, in seguito alla sentenza costituzionale n. 3 del 2010, va distinto il momento del perfezionamento della notifica nei confronti del notificante dal momento del perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario, il primo momento identificandosi con quello in cui viene completata l'attività che incombe su chi richiede l'adempimento e il secondo momento con quello in cui si realizza l'effetto della conoscibilità dell'atto, sicché, ai fini del rispetto del termine di impugnazione da parte del destinatario della notifica ex art. 140 cod. proc. civ., questa non si perfeziona col semplice invio a cura dell'agente postale della raccomandata che dà avviso dell'infruttuoso accesso e degli eseguiti adempimenti, bensì soltanto col decorso dei dieci giorni dall'inoltro della raccomandata o nel minor termine dell'effettivo ritiro del plico in giacenza (Sez. 5, n. 7324, Rv. 622910).

Per quanto riguarda la notificazione al cittadino italiano che abbia trasferito la propria residenza all'estero, la Corte ha ribadito che il ricorso alle forme della notifica agli irreperibili ex art. 143 cod. proc. civ. rappresenta l'ultima ratio.

Invero, sebbene la disciplina degli adempimenti anagrafici dei cittadini italiani che trasferiscono la propria residenza all'estero risulti improntata al principio dell'acquisizione anche dell'indirizzo, da rendere disponibile attraverso i registri dell'A.I.R.E., il pertinente difetto delle risultanze anagrafiche, ancorché imputabile in via prioritaria ad inerzia del destinatario della notificazione, non legittima, tuttavia, il notificante a ricorrere alle forme ex art. 143 cod. proc. civ., che restano, invece, subordinate all'esito negativo di ulteriori ricerche, eseguibili, con l'impiego dell'ordinaria diligenza, presso l'Ufficio consolare di cui all'art. 6 della legge 27 ottobre 1988, n. 470, tale Ufficio costituendo non solo il tramite istituzionale attraverso il quale il contenuto informativo dell'adempimento degli obblighi di dichiarazione del cittadino all'estero perviene alle amministrazioni competenti alla tenuta dei menzionati registri, ma anche l'organo cui competono poteri sussidiari di accertamento e rilevazione, intesi a porre rimedio alle lacune informative derivanti dall'inerzia del cittadino trasferito (Sez. 3, n. 1608, Rv. 621701).

Circa la relazione di notificazione, disciplinata dall'art. 148 cod. proc. civ., è stato precisato che la dimostrazione dell'insussistenza del rapporto di parentela tra il destinatario dell'atto e la persona indicata quale consegnataria nella relata di notifica può essere offerta mediante prova documentale, riguardando un'attestazione che non è frutto della diretta percezione dell'ufficiale giudiziario procedente, ma di notizie a questo fornite, e che non è, quindi, assistita da fede privilegiata, non essendo sufficiente, tuttavia, al fine di negare validità alla notifica, la produzione di uno stato integrale di famiglia, il cui contenuto non esclude il rapporto di parentela (ord., Sez. 6-5, n. 3906, Rv. 622053).

In tema di notificazione a mezzo del servizio postale, regolata dall'art. 149 cod. proc. civ., è stato ribadito che l'annotazione scritta dall'agente postale sull'avviso di ricevimento, dalla quale risulti il rifiuto, senza ulteriore specificazione, si presume riferita al rifiuto di ricevere il plico, o di firmare il registro di consegna, opposto dal destinatario, sicché l'avviso è completo e la notifica è valida (ord., Sez. 6-5, n. 5026, Rv. 621740).

Si è ulteriormente precisato che la produzione dell'avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia dell'atto processuale spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell'art. 149 cod. proc. civ., richiesta dalla legge in funzione della prova dell'avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio, può avvenire anche mediante l'allegazione di fotocopie non autenticate, ove manchi contestazione in proposito, poiché la regola posta dall'art. 2719 cod. civ. - per la quale le copie fotografiche o fotostatiche hanno la stessa efficacia di quelle autentiche, non solo se la loro conformità all'originale è attestata dal pubblico ufficiale competente, ma anche qualora detta conformità non sia disconosciuta dalla controparte, con divieto per il giudice di sostituirsi nell'attività di disconoscimento alla parte interessata, pure se contumace - trova applicazione generalizzata per tutti i documenti (ord., Sez. 5, n. 13439, Rv. 623498).

Da ultimo, va rammentata una decisione assunta dalle Sezioni Unite (nella fattispecie di integrazione del contraddittorio ex art. 371 bis cod. proc. civ. in regolamento preventivo di giurisdizione), a tenore della quale la mera pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di un avviso a contenuto sommario circa la proposizione del ricorso introduttivo è inesistente quale notificazione per pubblici proclami, non rispettando le modalità stabilite dall'art. 150 cod. proc. civ. per questa forma di notifica (ord., Sez. Un., n. 6329, Rv. 622261).

5.4. Termini e overruling.

La Corte ha fornito alcune importanti precisazioni sulla rimessione in termini, istituto già previsto dall'art. 184 bis cod. proc. civ. per il processo di cognizione davanti al tribunale e successivamente generalizzato dall'art. 153 cod. proc. civ., nella formulazione novellata dalla legge n. 69 del 2009.

Le conseguenze sistematiche della generalizzazione traspaiono da un significativo arresto in materia tributaria, il quale, pur riferendosi al vecchio quadro normativo ratione temporis, ha affermato che la rimessione si applica, alla luce dei principî costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche per le situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione, da intendere anche in relazione alla proposizione del ricorso avverso atti tributari, fermo che essa opera soltanto in relazione allo specifico atto riguardo al quale si è verificata la decadenza e non per il giudizio relativo ad un atto successivo, autonomamente impugnabile: nella specie, attinente al giudizio di impugnazione di una cartella di pagamento, è stato escluso che l'istituto potesse operare al fine della prospettazione di doglianze riguardanti il prodromico avviso di liquidazione, da tempo definitivo (Sez. 5, n. 3277, Rv. 622005).

Comunque, la rimessione in termini deve essere domandata dalla parte senza ritardo, non appena essa abbia acquisito la consapevolezza di avere violato il termine stabilito dalla legge o dal giudice per il compimento dell'atto: nella specie, la Corte ha ritenuto inammissibile l'istanza di fissazione di un nuovo termine per la rinnovazione di una notificazione non andata a buon fine, proposta a distanza di un anno e mezzo dall'infruttuoso tentativo della prima notifica (Sez. 2, n. 4841, Rv. 621802).

L'altro principio sancito dall'art. 153 cod. proc. civ., e cioè il principio di improrogabilità dei termini perentori, sconta i riflessi della giurisprudenza sulla prospective overruling, che quel principio relativizza in nome della tutela dell'affidamento incolpevole.

È ormai acquisito che un orientamento del giudice della nomofilachia non è retroattivo - come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali - se ricorrono cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in tema di mutamento della giurisprudenza su una regola del processo; che il mutamento sia stato imprevedibile, in ragione del carattere lungamente consolidato del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento; che l'overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa della parte (Sez. L, n. 12704, Rv. 623370).

Si è chiarito ulteriormente che l'overruling, quale mutamento della propria interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia, il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza o preclusione prima esclusa, dovrebbe operare - laddove il significato che esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale - come interpretazione correttiva, che si salda alla pertinente disposizione della legge processuale "ora per allora", nel senso di rendere irrituale l'atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all'orientamento precedente, atteso che il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge ex art. 101 Cost. impedisce di attribuire all'interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché essa, nella sua dimensione dichiarativa, non potrebbe rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell'atto compiuto in correlazione temporale con l'affermarsi dell'esegesi del giudice, ma che, tuttavia, qualora l'overruling si connoti del carattere dell'imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul consolidato orientamento pregresso), si giustifica una scissione tra il fatto (il comportamento della parte, risultante ex post non conforme alla corretta regola del processo) e l'effetto, di preclusione o decadenza, che dovrebbe derivarne, con la conseguenza che - per il bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo ex art. 111 Cost., volto a tutelare l'effettività dei mezzi di azione e difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito - deve escludersi l'operatività della preclusione o della decadenza nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (cioè, non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell'arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola, la quale, sul piano fattuale, aveva creato un'apparenza di conformità alla legge del tempo (Sez. L, n. 7755, Rv. 623141).

In concreto, non ricorrono i presupposti per escludere l'applicazione di una decadenza processuale ove dal deposito della pronunzia che ha mutato l'orientamento della giurisprudenza di legittimità siano trascorsi sei mesi, giacché, pur considerando i normali tempi tecnici di memorizzazione del precedente nella banca dati della Corte, consultabile in rete, deve ritenersi che la parte abbia avuto a disposizione un arco temporale sufficiente per tener conto della nuova giurisprudenza e prevenire, quindi, il verificarsi della decadenza (Sez. L, n. 3042, Rv. 621199).

Deve essere rammentata la specifica applicazione negativa dei principî sull'overruling nella decisione a Sezioni Unite per la quale il mutamento di giurisprudenza che ha portato ad escludere l'autonoma impugnabilità davanti al Consiglio nazionale forense dell'atto di apertura del procedimento disciplinare disposto dal Consiglio dell'ordine territoriale non dà luogo - in ragione dell'ipotetica preesistenza di un orientamento univoco, tale da fondare il legittimo affidamento dell'interessato sull'ammissibilità del rimedio impugnatorio - ad una fattispecie di overruling, dovendosi per tale intendere il mutamento di giurisprudenza che vanifica l'effettività del diritto di azione e difesa in modo, se non proprio repentino, quanto meno inatteso, nell'assenza di segnali anticipatori, quali un dibattito dottrinale, seppur larvato, o un qualche significativo intervento giurisprudenziale (Sez. Un., n. 17402, Rv. 623574).

Quanto al computo dei termini, disciplinato dall'art. 155 cod. proc. civ., si registrano interessanti arresti, anche in rapporto alla proroga di diritto del termine in scadenza nella giornata del sabato, introdotta dalla legge n. 263 del 2005, con decorrenza dal 1° marzo 2006.

Le Sezioni Unite hanno affermato che, nei cosiddetti termini a decorrenza successiva (quelli, cioè, che si computano escludendo il giorno iniziale e conteggiando il giorno finale), qual è il termine di dieci giorni ex art. 8, quarto comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890, nel testo di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80 (ai sensi del quale, ove il piego raccomandato depositato presso l'ufficio postale non sia stato ritirato dal destinatario, la notifica si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata di avviso), se il dies ad quem cade nel sabato, si applica la proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo, ai sensi del novellato art. 155 cod. proc. civ. (Sez. Un., n. 1418, Rv. 620511).

Identica conclusione è stata raggiunta per il termine di appello, esso pure qualificato come termine a decorrenza successiva (Sez. 5, n. 6728, Rv. 622368).

Per quel che concerne i termini a mesi o ad anni, e, fra questi, il termine di decadenza dall'impugnazione ex art. 327 cod. proc. civ., è stato ribadito che si osserva, a norma degli art. 155, secondo comma, cod. proc. civ. e 2963, quarto comma, cod. civ., il sistema della computazione civile, non ex numeratione, bensì ex nominatione dierum, nel senso che il decorso del tempo si ha allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale, indipendentemente dall'effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, ulteriormente precisandosi che, quando il termine di decadenza interferisca con la sospensione feriale, al termine medesimo devono aggiungersi quarantasei giorni computati ex numeratione dierum, ai sensi del combinato disposto degli art. 155, primo comma, cod. proc. civ. e 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, non dovendosi tenere conto dei giorni compresi tra il primo agosto e il quindici settembre di ciascun anno per effetto della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (Sez. 6-1, n. 11491, Rv. 623165).

Ancora intorno alla sospensione feriale dei termini processuali, la Corte ha statuito che la deliberazione della sentenza in un giorno ricadente nel corrispondente periodo, allorché l'udienza di discussione della causa si sia comunque tenuta al di fuori di esso, non determina violazione delle norme di cui agli art. 90 e 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, che precludono la trattazione degli affari civili non urgenti durante le ferie annuali dei magistrati, atteso che la deliberazione avviene nel segreto nella camera di consiglio, insussistenti, quindi, le ragioni che, al fine di consentire alle parti di agire e difendersi in giudizio, sono a base della disciplina delle attività consentite, non discendendo, del resto, dai principî regolatori del giusto processo alcuna norma che vieti ai magistrati, ancorché non in turno di servizio, di provvedere durante il periodo feriale, oltre che a scrivere e depositare la sentenza, a riunirsi in camera di consiglio per deliberare su una controversia già discussa dalle parti, essendo, anzi, la sollecita definizione della fase decisoria espressione del rispetto del canone del buon andamento del servizio di giustizia, funzionale alla realizzazione dell'obiettivo della ragionevole durata del processo (Sez. 2, n. 9881, Rv. 622763).

5.5. Nullità e inesistenza.

In tema di nullità degli atti processuali, si evidenzia l'enunciazione di principio secondo la quale le carenze organizzative dell'ufficio giudiziario, così come gli errori dei funzionari ad esso addetti, non possono mai comportare alcuna conseguenza pregiudizievole per le parti del processo, sicché deve qualificarsi come abnorme - e, quindi, nulla - la sentenza con la quale il giudice d'appello, rilevate la mancanza del fascicolo d'ufficio di primo grado (il che dimostra una non adeguata custodia da parte dell'ufficio stesso) e la nullità della comunicazione ad una delle parti dell'ordinanza di rimessione della causa sul ruolo e di rinnovo dell'istruttoria, abbia dichiarato inammissibile il gravame (Sez. 3, n. 12223, Rv. 623295).

Vanno segnalate, inoltre, alcune pronunzie attinenti alla sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo, istituto che, delineato in termini generali dall'art. 156, terzo comma, cod. proc. civ., trova il suo ambito elettivo di applicazione nella casistica della nullità della notificazione, disciplinata all'art. 160 cod. proc. civ.

Con palese richiamo della categoria dei vizi extraformali (esclusi, in genere, dalla sfera operativa dell'art. 156 cod. proc. civ.), la Corte ha precisato, in fattispecie attinente al termine di deposito dell'atto di integrazione del contraddittorio ex art. 371-bis cod. proc. civ., che la sanatoria per raggiungimento dello scopo concerne esclusivamente l'inosservanza delle forme in senso stretto, non anche l'inosservanza dei termini perentori (Sez. 1, n. 4747, Rv. 622088).

Riguardo alla patologia della notificazione, si è variamente declinato il principio secondo il quale la costituzione in giudizio del destinatario sana il vizio per raggiungimento dello scopo, purché la violazione non sia talmente radicale da eccedere la soglia della nullità ed attingere la categoria dell'inesistenza.

È nulla, non inesistente, la notificazione eseguita in luogo e a soggetto diversi da quelli indicati nella norma processuale, ma aventi sicuro riferimento con il destinatario dell'atto, quale la notifica effettuata al procuratore presso un indirizzo diverso da quello indicato come domicilio, ma coincidente con l'indirizzo della parte, vizio sanabile, quindi, mediante la costituzione in giudizio della parte stessa (ord., Sez. 6-1, n. 18238, Rv. 624201).

Qualora nella notificazione della sentenza la parte elegga domicilio a norma dell'art. 330 cod. proc. civ. presso un professionista diverso da quello presso il quale aveva eletto domicilio nel precedente corso di giudizio e ciò faccia senza espressamente revocare il mandato rilasciato al primo avvocato per tutti gli eventuali gradi del giudizio medesimo, la notifica dell'atto d'impugnazione eseguita presso lo studio del primo avvocato è nulla, ma non giuridicamente inesistente, di guisa che il relativo vizio è sanato dalla costituzione del destinatario della notifica nel giudizio d'impugnazione (Sez. 1, n. 2759, Rv. 621305).

Viceversa, la notifica dell'impugnazione presso il procuratore che sia stato sostituito dopo la revoca del mandato si considera inesistente e, quindi, non sanabile, con conseguente inammissibilità del gravame, una volta che l'altra parte abbia avuto conoscenza legale della sostituzione, giacché, in tal caso, la notifica al precedente difensore risulta indirizzata a persona e luogo non aventi più alcun riferimento al destinatario dell'atto, in quanto, avvenuta la sostituzione del difensore revocato, si interrompe ogni rapporto tra la parte e il procuratore cessato, quest'ultimo non essendo più gravato da alcun obbligo, né operando la proroga che si accompagna alla revoca del mandato senza nomina di nuovo difensore (Sez. 5, n. 13477, Rv. 623663).

Nonostante il principio di autonomia dei giudizi riuniti, se alla parte, rappresentata da differenti procuratori nei giudizi oggetto di riunione, l'impugnazione di un capo di sentenza sia notificata presso il procuratore di un giudizio non pertinente al capo medesimo, non si ha inesistenza della notificazione, bensì nullità, sanata dal raggiungimento dello scopo qualora la parte si sia costituita in sede di gravame, potendo ivi acquisire conoscenza dell'attività processuale svolta dalle altre parti in ciascuno dei giudizi riuniti e ivi potendosi difendere nel merito delle richieste da loro avanzate (Sez. 3, n. 9440, Rv. 622677).

In ordine al regime della nullità, si distingue un'importante applicazione della figura della nullità relativa, opponibile solo dalla parte interessata e solo nella prima difesa, ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ.

La Corte ha ribadito che, nell'ipotesi di illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce o a margine dell'atto col quale sta in giudizio una società, qualora il nome del sottoscrittore non risulti dal testo della procura, dalla certificazione d'autografia resa dal difensore o dal testo dell'atto, né sia desumibile dall'indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare mediante i documenti di causa o il registro delle imprese, come anche nei casi in cui non si menzioni alcuna funzione o carica specifica, allegandosi genericamente la qualità di legale rappresentante del conferente, si determina una nullità relativa, che la parte interessata può opporre con la prima difesa, a norma dell'art. 157 cod. proc. civ., facendo carico, in tal modo, alla controparte d'integrare con la prima replica la lacuna, tramite chiara e non più rettificabile indicazione del nome dell'autore della firma illeggibile (Sez. 1, n. 4199, Rv. 621618).

Quanto alla nullità derivante dalla costituzione del giudice, regolata dall'art. 158 cod. proc. civ., vanno segnalate due pronunzie, allineate ai precedenti, l'una in tema di immutabilità del decidente di primo grado, l'altra in tema di giudizio di rinvio prosecutorio.

La sentenza di primo grado deliberata, in violazione dell'art. 276 cod. proc. civ., da un collegio diverso da quello che ha assistito alla discussione della causa è affetta da nullità per vizio di costituzione del giudice ex art. 158 cod. proc. civ. ed è soggetta al relativo regime, sicché il giudice d'appello che rilevi la nullità, anche d'ufficio, deve trattenere la causa e rinnovare la decisione, come naturale rimedio alla nullità stessa, e non deve, invece, rimettere la causa al primo giudice, che ha pronunziato la sentenza nulla, non ricorrendo, nella specie, alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall'art. 354 cod. proc. civ. e dovendosi escludere che il vizio in questione sia assimilabile al difetto assoluto di sottoscrizione della sentenza, contemplato dall'art. 161, secondo comma, cod. proc. civ., per il quale la rimessione è imposta dallo stesso art. 354 (Sez. 1, n. 9369, Rv. 623073).

La sentenza di rinvio ex art. 383, primo comma, cod. proc. civ. (cosiddetto rinvio proprio o prosecutorio) contiene una statuizione di competenza funzionale nella parte in cui individua l'ufficio giudiziario davanti al quale dovrà svolgersi il giudizio rescissorio (che potrà essere lo stesso ufficio che ha emesso la pronunzia cassata o un ufficio territorialmente diverso, ma sempre di pari grado) e una statuizione sull'alterità del giudice rispetto ai magistrati persone fisiche che hanno emesso il provvedimento cassato, sicché, qualora il giudizio venga riassunto davanti all'ufficio individuato nella sentenza della Corte, indipendentemente dalla sezione o dai magistrati che lo trattano, non sussiste un vizio di competenza funzionale, che non può riguardare le competenze interne tra le sezioni o le persone fisiche dei magistrati, mentre, se il giudizio di rinvio si svolge davanti allo stesso magistrato persona fisica (in caso di giudizio monocratico) o davanti ad un giudice collegiale del quale anche uno solo dei componenti aveva partecipato alla pronunzia dell'atto cassato, essendo violata la statuizione sull'alterità, sussiste una nullità attinente alla costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158 cod. proc. civ., senza che occorra fare ricorso all'istituto della ricusazione ex art. 52 cod. proc. civ. (Sez. 1, n. 1527, Rv. 621528).

V'è stato, nel rito tributario, un utile esercizio del principio di conservazione degli atti processuali, affermato dall'art. 159 cod. proc. civ.

La Corte ha deciso che, riguardo alle controversie di valore inferiore a lire 5.000.000, la nullità della procura rilasciata ad un praticante procuratore, come tale non abilitato a difendere innanzi alle commissioni tributarie, non determina, di per sé, la nullità del ricorso cui accede, ove sottoscritto anche dalla parte, né implica, di per sé, la nullità degli atti compiuti dal praticante, ove non riservati al difensore abilitato, sia perché l'art. 12 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede che, nelle controversie del valore indicato, le parti possono stare in giudizio senza assistenza tecnica, sia perché, ai sensi dell'art. 159 cod. proc. civ., la nullità di un atto non comporta la nullità degli atti successivi, che ne sono indipendenti, e la nullità di una parte dell'atto non colpisce le altre parti dotate di autonomia (Sez. 5, n. 2825, Rv. 621416).

Il principio di conservazione degli atti processuali è stato evocato anche riguardo alla procura speciale per il giudizio di equa riparazione di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, essendosi ritenuta l'idoneità della procura apposta in calce al ricorso, la quale, seppure genericamente formulata e priva di riferimenti espliciti al giudizio di che trattasi, si presenta in una collocazione topografica tale da farne presumere l'attinenza al giudizio stesso (Sez. 6-1, n. 15515, Rv. 623910).

V'è stata, infine, nel rito del lavoro, una significativa declinazione del principio di conversione dei vizi di nullità in motivi di gravame, sancito dall'art. 161 cod. proc. civ.

La Corte è tornata a sostenere - contro un proprio risalente indirizzo - che, ove il giudice di primo grado il quale abbia letto il dispositivo in udienza non possa redigere la motivazione per sopravvenuto impedimento, la sentenza non è inesistente, bensì soltanto nulla per mancanza di motivazione, vizio che, ai sensi dell'art. 161, primo comma, cod. proc. civ., può essere fatto valere esclusivamente nei limiti e secondo le regole dei mezzi di impugnazione, cosicché il giudice d'appello, il quale abbia rilevato la nullità a seguito di gravame, non può rimettere la causa al primo giudice, non ricorrendo alcuna ipotesi di rimessione fra quelle tassativamente previste dagli art. 353 e 354 cod. proc. civ., né può limitarsi a dichiarare la nullità, ma deve, senz'altro, decidere la causa nel merito (Sez. L, n. 5277, Rv. 622211).

  • procedura civile
  • diritti della difesa

CAPITOLO XXV

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Completezza delle difese e regime delle preclusioni. - 2 Costituzione del convenuto. - 3 Sospensione feriale dei termini. - 4 Dichiarazione di contumacia.

1. Completezza delle difese e regime delle preclusioni.

Nell'ultimo anno, la Corte di cassazione ha proseguito la sua incessante opera di elaborazione e tipizzazione delle regole di funzionamento del processo di primo grado, sempre bilanciando la permanente esigenza di garanzia dei diritti delle parti con l'aumentato bisogno di efficienza e di efficacia. Quest'opera viene favorita dall'invocazione del principio del "giusto processo" costituzionale, ex art. 111 Cost., ma anche dalla rivitalizzazione dell'art. 88 cod. proc. civ., circa i doveri di lealtà e probità incombenti su parti e difensori.

La giurisprudenza parte dall'assunto che la vigente disciplina della sequenza procedimentale delle controversie tra privati abbia natura inderogabile, perché posta a tutela non soltanto del diritto di difesa delle parti, ma anche di ragioni di ordine pubblico, volte a garantire la celerità e la concentrazione dei giudizi civili. Allo scopo di sventare abusi delle facoltà processuali e di prevenire l'andar contro il fatto proprio, si impone, allora, la rigorosa osservanza delle preclusioni, ispirate ad un'esigenza di coerenza del comportamento antecedente e susseguente dei contendenti.

Sez. 3 n. 947 (Rv. 620415) ribadisce che, nel vigore del regime delle preclusioni, come allestito dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, la questione circa la novità delle domande è del tutto sottratta alla disponibilità delle parti e ricondotta esclusivamente al rilievo d'ufficio da parte del giudice, in virtù del principio secondo cui il thema decidendum non è più modificabile dopo la chiusura della fase di trattazione.

Sez. L, n. 7751 (Rv. 622888) afferma che, nel rito del lavoro, la rilevabilità d'ufficio della nullità non può comunque mai incidere sulle preclusioni e decadenze di cui agli art. 414 e 416 cod. proc. civ. ove, attraverso l'exceptio nullitatis, si vogliano introdurre tardivamente in giudizio questioni di fatto ed accertamenti nuovi e diversi: una diversa soluzione si porrebbe, infatti, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost.

Vanno peraltro considerate le obiezioni dottrinali, secondo cui l'applicazione quotidiana del precetto di ragionevole durata, di cui all'art. 111, comma 2º, Cost., starebbe facendo pagare un prezzo troppo alto alla certezza delle norme, alla struttura delle garanzie ed al significato stesso del diritto processuale civile; arrivandosi perciò ad auspicare un contemperamento dello stesso con un "ragionevole esercizio del diritto di difesa".

Rimane d'attualità il tema dell'esistenza di un dovere di completezza per le parti e per i difensori del processo civile. Esso, seppure enucleabile nel nostro sistema, non può tradursi in un dovere per la parte e per il difensore di dire al giudice quanto sia a loro conoscenza sui fatti di causa, sebbene si tratti di circostanze sfavorevoli, divenendo altrimenti il dovere di completezza null'altro che un succedaneo dell'inaccettabile dovere di verità. Si oppone, da alcuni, invero, che il dovere di completezza si porrebbe in contrasto col concetto stesso di parte, ovvero col ruolo e la funzione che la parte assume nel processo.

In realtà, se non è configurabile un dovere di completezza della complessiva attività difensiva delle parti, può riscontrarsi un obbligo di completezza con riferimento a singoli atti del processo, e, in particolare, in relazione agli atti propri della fase introduttiva e preparatoria del giudizio. Dagli art. 163, terzo comma, n. 3 e 4, 164, quarto e quinto comma, 414, n. 3 e 4, cod. proc. civ. si ricava, ad esempio, la prescrizione di esaustività della editio actionis in sede di citazione o ricorso introduttivi, onerandosi il giudice del rilievo, anche di ufficio, delle eventuali lacune o incertezze, indipendentemente dalla costituzione in giudizio del convenuto, sul presupposto che soltanto una domanda esaurientemente esplicitata non comprometta la difesa al convenuto, e, ad un tempo, consenta allo stesso giudice di emettere una pronuncia di merito sulla quale possa formarsi il giudicato sostanziale. Unicamente in ipotesi di mancata rinnovazione o integrazione della domanda nulla nel termine all'uopo accordato, può giustificarsi una definizione in rito della causa. Parimenti, dagli art. 167, primo comma, e 416, terzo comma, cod. proc. civ. si desume per la parte convenuta un onere di contestazione completa e tempestiva sui fatti di causa allegati dall'attore, mediante affermazioni difensive specifiche e non generiche; onere, per di più, discendente già dalla struttura dialettica del processo e dal sistema delle preclusioni, che comportano per entrambi i contendenti la necessità di collaborare, fin dalle prime battute, a circoscrivere la materia controversa. Rimane da considerare come l'incompletezza degli atti introduttivi della lite trova sanzioni quali la nullità (della citazione, ex art. 164, quarto e quinto comma, cod. proc. civ., o della domanda riconvenzionale, ex art. 167, secondo comma, cod. proc. civ.), ovvero, comunque, provoca ben definite conseguenze negative per la parte cui sia addebitata (quale l'esonero dal controllo probatorio rimesso al giudice del fatto dedotto ex adverso e non puntualmente contestato, ai sensi dell'attuale art. 115, primo comma, cod. proc. civ.).

Sez. Un., n. 8077 (Rv. 622362) ha all'uopo evidenziato come la dichiarazione di nullità della citazione, che si produce, ai sensi dell'art. 164, quarto comma, cod. proc. civ., nel caso in cui il petitum venga del tutto omesso o risulti assolutamente incerto, ovvero qualora manchi del tutto l'esposizione dei fatti costituenti la ragione della domanda, postula una valutazione che tenga conto, nell'identificazione dell'oggetto della domanda, dell'insieme delle indicazioni contenute nell'atto di citazione e nei documenti ad esso allegati, determinandosi la nullità soltanto qualora, all'esito del predetto scrutinio, l'oggetto della domanda risulti assolutamente incerto. Questo elemento deve, in ogni modo, essere vagliato coerentemente con la ratio ispiratrice della norma (consistente essenzialmente, come detto, nell'esigenza di mettere immediatamente il convenuto nelle condizione di predisporre una adeguata linea di difesa e di individuare agevolmente ciò che l'attore chiede e per quali ragioni), che impone all'attore di specificare sin dall'atto introduttivo, a pena di nullità, l'oggetto della sua domanda. La nullità dell'atto di citazione può, quindi, essere dichiarata soltanto nel caso in cui l'incertezza dell'oggetto della domanda investa il contenuto dell'atto nella sua interezza: qualora, viceversa, sia possibile individuare una o più domande sufficientemente determinate nei loro elementi essenziali, gli eventuali difetti relativi ad altre domande potranno comportare soltanto l'improponibilità di queste ultime, ma non la nullità della citazione nella sua interezza. Unicamente in ipotesi di mancata rinnovazione o integrazione della domanda nulla nel termine all'uopo accordato, può giustificarsi una definizione in rito della causa.

Sez. 3, n. 691 (Rv. 621357) ha, in particolare, aggiunto che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, prodotte da tale condotta, proprio perché l'attore deve mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi gli vengano, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo.

Sez. 3, n. 17408 (Rv. 624078-82) ha poi precisato che, quando, di fronte ad una fondata eccezione di nullità della domanda relativa alla mancanza o incertezza della c.d. editio actionis, formulata dal convenuto costituito, il giudice adito abbia omesso di ordinare l'integrazione sanante della citazione, ai sensi dell'art. 164, quinto comma, cod. proc. civ., ed abbia, piuttosto, proceduto ad individuare d'ufficio il contenuto della pretesa, le conseguenze negative della pronuncia sulla domanda nulla rimangono a carico dalla parte attrice, la quale è anch'essa responsabile, avendo a sua volta omesso di sollecitare il giudice a concederle di rinnovare la domanda, onde il processo sulla domanda nulla va definito con una pronuncia che accerti meramente il vizio in rito di essa. Né l'attore potrebbe utilmente sopperire a tale sua colpevole inerzia in sede di appello.

Ad un onere di completezza delle difese risponde altresì il divieto di frazionamento della tutela giurisdizionale: sembra, al riguardo, opportuno così ricordare Sez. 3, n. 28286 del 2011 (Rv. 620984 e 620985), la quale ha deciso che, pure in tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non possa consentirsi al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare il ricorso al giudice mediante la proposizione di distinte domande, in quanto tale disarticolazione dell'unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l'aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale. Si tratta, pertanto, di ragionare alla luce del «criterio della buona fede», il quale, secondo la S.C., costituisce «strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della tutela giurisdizionale latamente considerata, indipendentemente dalla tipologia della domanda concretamente azionata».

Simmetricamente all'onere di completezza imposto all'attore, dagli art. 167, primo comma, e 416, terzo comma, cod. proc. civ. si desume per la parte convenuta un onere di contestazione completa e tempestiva sui fatti di causa allegati dall'attore stesso, mediante affermazioni difensive specifiche e non generiche; onere, per di più, discendente già dalla struttura dialettica del processo e dal sistema delle preclusioni, che comportano per entrambi i contendenti la necessità di collaborare, fin dalle prime battute, a circoscrivere la materia controversa. Chiarisce, pertanto, Sez. 3, n. 4249 (Rv. 621956) che, se il giudice abbia ritenuto "contestato" uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all'ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all'accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte diretta a far valere l'altrui pregressa "non contestazione" risulta inammissibile.

Si è poi ribadito da Sez. 2, n. 12268 (non mass.), che le parti costituite debbano produrre, già in sede di prima udienza di trattazione, ogni documento ritenuto utile, potendo l'attività istruttoria documentale sia trovar spazio in quella sede, unitamente alla definizione del tema del decidere, sia protrarsi nelle eventuali appendici di proseguimento consentite dall'art. 184 cod. proc. civ., in base al testo antecedente alle Riforme del 2005, e poi dal vigente art. 183, sesto comma, cod. proc. civ. Questa seconda eventualità, subordinata alla specifica istanza specifica delle parti, non impedisce, peraltro, al giudice, che ritenga ormai la causa pronta per la decisione, di provvedere conseguentemente, come appare addirittura auspicabile in relazione al principio di ragionevole durata del processo, laddove, alla luce, ad esempio, della contumacia del convenuto o della evidenza decisoria, egli possa dar corso senz'altro alla fase conclusiva.

Assume significato, in proposito, Sez. 6-2, n. 5609 (Rv. 622206), la quale ha ben definito il concetto di "udienza di trattazione", sia pure ai fini della tempestività del rilievo d'ufficio dell'incompetenza, ex art. 38, terzo comma, cod. proc. civ., prescegliendone un profilo identificativo contenutistico, e non meramente temporale, in maniera da prescindere dal numero di udienze in cui si sia in concreto svolta la fase processuale. Sez. 3, n. 81 (Rv. 621101), evidenzia, similmente, come, nel regime processuale risultante dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, le preclusioni all'esercizio dei poteri processuali, fra i quali quello di chiedere nuovi mezzi di prova, si verificano solo nel momento in cui si conclude la fase della trattazione preparatoria, identificandosi tale momento con la scadenza del termine concesso dal giudice per le memorie scritte finalizzate alla definitiva precisazione di domande ed eccezioni, nonché, appunto, alle deduzioni istruttorie. Anche Sez. 3, n. 8989 (Rv. 623016) specifica che la prima udienza di trattazione e le memorie di cui all'art. 183 cod. proc. civ. possono essere utilizzate solo per precisare le domande e le eccezioni già formulate, e non per introdurre nel giudizio nuovi temi di indagine, che non siano conseguenza diretta delle difese avversarie.

2. Costituzione del convenuto.

Sez. 2, n. 3132 (Rv. 621976) ha chiarito come, ai fini della tempestiva costituzione del convenuto in primo grado, a norma dell'art. 166 cod. proc. civ., necessaria per la proposizione di domande riconvenzionali e per la chiamata in causa di un terzo, nell'ipotesi in cui il giorno dell'udienza di comparizione indicato nell'atto di citazione sia festivo, si debba aver riguardo al primo giorno seguente non festivo successivo alla data fissata nella citazione, trovando applicazione l'art. 155, quarto comma, cod. proc. civ. In analoga prospettiva, sempre ai fini della verifica della tempestività della costituzione del convenuto Sez. 2, n. 6601 (Rv. 622417), ripete che il termine di cui all'art. 166 cod. proc. civ., al pari di tutti i termini a ritroso, deve essere calcolato considerando quale dies a quo, non computabile per il disposto dell'art. 155, primo comma, cod. proc. civ., il giorno prima del quale va compiuta l'attività processuale, e, dunque, il giorno dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di citazione, ovvero quello differito ai sensi dell'art. 168-bis, quinto comma, cod. proc. civ., e quale dies ad quem, invece computabile in quanto termine non libero, il ventesimo giorno precedente l'udienza stessa.

3. Sospensione feriale dei termini.

Sez. 2, n. 9881 (Rv. 622763) ha dovuto specificare che la deliberazione della decisione in una data ricadente tra il 1° agosto ed il 15 settembre, ovvero nel periodo di sospensione feriale dei termini processuali, non determina violazione alcuna delle norme, di cui agli art. 90 e 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, che precludono la trattazione degli affari civili non urgenti durante le ferie annuali dei magistrati. La fase della deliberazione della decisione si svolge, invero, in segreto nella camera di consiglio, senza la partecipazione delle parti, con conseguente insussistenza delle ragioni che, al fine di consentire alle parti stesse di agire e di difendersi in giudizio, sono a base della disciplina delle attività consentite; né esiste norma, discendente dai principî regolatori del giusto processo, che vieti ai magistrati, ancorché non in turno di servizio, di provvedere durante il periodo feriale, oltre che a scrivere e depositare sentenze, anche a riunirsi in camera di consiglio per decidere le controversie già discusse dalle parti. Anzi, la sollecita definizione della fase decisoria risulta espressione del rispetto del canone del buon andamento del servizio giustizia, funzionale alla realizzazione dell'obiettivo della ragionevole durata del processo stesso.

4. Dichiarazione di contumacia.

Sez. 2, n. 18048 (Rv. 623925) ha messo in risalto come l'art. 59 disp. att. cod. proc. civ., per il quale la dichiarazione di contumacia della parte non costituita è fatta dal giudice di pace «quando è decorsa almeno un'ora dall'apertura della udienza», costituisce una norma speciale per la prima udienza del procedimento davanti al giudice di pace, e non costituisce, invece, un principio di carattere generale, valevole per tutte le udienze di trattazione e per tutti i giudizi. Depone in tal senso il silenzio dell'art. 83 disp. att. cod. proc. civ., che pure disciplina la trattazione delle cause, e la ratio della norma speciale, correlata al disposto dell'art. 171 cod. proc. civ., il quale, nel consentire alla parte di costituirsi direttamente in prima udienza, intende limitare l'onere dell'altra parte, tempestivamente costituitasi, di attendere la conclusione di tale udienza.

Sez. 3, n. 3704 (Rv. 621905) osserva come l'erronea dichiarazione di contumacia di una delle parti non incide sulla regolarità del processo e non determina un vizio della sentenza se non abbia in concreto pregiudicato il diritto di difesa: si fa il caso della parte, erroneamente dichiarata contumace, le cui eccezioni, in quanto comuni a quelle degli altri convenuti, siano state comunque prese in esame e disattese dal giudice.

Sez. 3, n. 12790 (Rv. 623378) ricorda come, quando il processo sospeso venga proseguito, le parti già costituite prima della sospensione conservano tale condizione, quand'anche non dovessero comparire in udienza, e non possono perciò essere dichiarate contumaci.

  • testimonianza
  • consulenza e perizia
  • prova

CAPITOLO XXVI

LE PROVE

(di Enrico Carbone )

Sommario

1 Onere della prova e non contestazione. - 2 Onere della prova e fatti negativi. - 3 Principio di acquisizione probatoria. - 4 Atto pubblico e scrittura privata. - 5 Disconoscimento, verificazione, querela di falso. - 6 Testimonianza. - 7 Presunzioni. - 8 Confessione. - 9 Giuramento. - 10 Consulenza tecnica.

1. Onere della prova e non contestazione.

La traduzione normativa del principio di non contestazione è stata ultimata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha novellato il primo comma dell'art. 115 cod. proc. civ., sicché, per i giudizi instaurati successivamente al 4 luglio 2009, il giudice deve porre a fondamento della decisione, oltre alle prove proposte dalle parti e dal pubblico ministero, «i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita»: la declamazione ha inteso recidere gli ultimi legami con la dottrina tradizionale, che reputava irrilevante la mancata contestazione del fatto non espressamente ammesso o vi scorgeva, al più, un mero argomento di prova.

L'epifania del principio di non contestazione nel processo ordinario di cognizione viene individuata nella legge 26 novembre 1990, n. 353, che ha modificato il primo comma dell'art. 167 cod. proc. civ., imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, in base al modello disegnato dall'art. 416, terzo comma, cod. proc. civ. per il rito speciale del lavoro.

Nei giudizi instaurati con rito ordinario anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 353 del 1990, affinché il fatto allegato da una parte possa considerarsi pacifico, sì da poter fondare la decisione ancorché non provato, non è sufficiente la mancata contestazione, occorrendo che la controparte ammetta il fatto esplicitamente o che imposti il sistema difensivo su circostanze e argomentazioni logicamente incompatibili con la sua negazione (Sez. 2, n. 20211, Rv. 624038).

Dopo la novella del 1990 e, a fortiori, dopo la riforma del 2009, anche nel regime processuale ordinario, il fatto non contestato, o pacifico, risulta estraneo all'onere della prova, di cui all'art. 2697 cod. civ., effetto che si produce in modo oggettivo, senza alcuna indagine sul significato tacitamente ammissivo dell'omessa contestazione, valendo i canoni obiettivi dell'auto-responsabilità e dell'economia processuale.

Immediati appaiono i riflessi sul giudizio di legittimità: il ricorrente per cassazione che deduce la violazione dell'art. 2697 cod. civ., per avere il giudice di merito ritenuto sussistente un fatto senza che la parte gravata avesse assolto il relativo onere probatorio, deve evidenziare che quel fatto era stato oggetto di contestazione, perché l'onere della prova concerne soltanto i fatti contestati, sicché il ricorrente è tenuto ad indicare se e quando, nel corso dello svolgimento processuale, il fatto era stato contestato (Sez. 3, n. 10853, Rv. 623180).

L'espletamento dell'attività istruttoria relativa ad un fatto può incidere sull'applicazione del principio di non contestazione al fatto medesimo.

La non contestazione, pur essendo irreversibile, non impedisce al giudice di acquisire egualmente la prova del fatto non contestato, sicché, in tale ipotesi, resta superata la questione della pregressa non contestazione, che, ove ravvisata per tempo, avrebbe escluso il fatto dal thema probandum (Sez. 3, n. 3951, Rv. 622080).

Se il giudice ha ritenuto contestato il fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, ha proceduto all'ammissione e all'espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all'accertamento del fatto stesso, diventa inammissibile una successiva allegazione di parte diretta a far valere l'altrui pregressa non contestazione (Sez. 3, n. 4249, Rv. 621956).

Quanto alla sfera applicativa del principio di non contestazione e alla disciplina dei relativi effetti, la Sezione Lavoro ha avuto modo di ribadire: che la non contestazione rende incontrovertibile solo il fatto costitutivo ("fatto principale"), mentre la non contestazione di un fatto dedotto a scopo indiziario ("fatto secondario") è liberamente apprezzabile dal giudice; che la non contestazione rileva soltanto per il fatto esplicito, oggetto di allegazione espressa, non anche per il fatto implicito negli assunti difensivi; che il fatto pacifico non si sottrae, in ogni caso, alla valutazione giudiziale del quadro probatorio complessivo, essendo soggetto anch'esso alla regola del libero convincimento.

In particolare, Sez. L, n. 1878 (Rv. 621111), rammenta che la mancata contestazione del fatto costitutivo rende il fatto stesso incontroverso, mentre l'omessa contestazione del fatto dedotto in funzione probatoria opera unicamente sulla formazione del convincimento del giudice, a condizione, in ogni caso, che il fatto sia chiaramente esplicitato, non sussistendo l'onere di contestare i fatti desumibili per implicito dalle formulate pretese.

Aggiunge Sez. L, n. 5363 (Rv. 621793), che la mancata contestazione di un fatto costitutivo della domanda esclude il fatto medesimo dal tema di indagine solo allorché il giudice non sia in grado, nel concreto, di accertarne l'esistenza o l'inesistenza, ex officio, in base alle altre risultanze acquisite.

2. Onere della prova e fatti negativi.

La Corte ha avuto occasione di riaffermare che il carattere negativo del factum probandum è indifferente, ai fini della distribuzione dell'onere della prova, giacché il brocardo negativa non sunt probanda - cui la dottrina ha sovente addebitato un alto tasso di equivocità - non significa che la negatività del fatto inverte l'onere della prova, bensì che la prova dei fatti negativi deve essere fornita indirettamente, mediante la prova di fatti positivi, non essendo accessibile la prova diretta di ciò che non è stato: affermazione che può rinvenire nuovo fondamento nel principio di vicinanza del mezzo istruttorio, criterio-guida del'odierno diritto delle prove.

L'onere probatorio non subisce deroga quando abbia ad oggetto fatti negativi, in quanto la negatività del fatto non esclude, né inverte, l'onere, tanto più se l'applicazione della regola ex art. 2697 cod. civ. produce un risultato coerente al principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova, riconducibile all'art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio, anche se, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (Sez. 5, n. 9099, Rv. 622990).

L'onere della prova resta insensibile anche alla connotazione negativa della domanda di accertamento, nel senso che l'onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava sempre su chi se ne afferma titolare, ancorché convenuto in giudizio di accertamento negativo, con la conseguenza che la sussistenza del credito contributivo dell'INPS, preteso sulla base di verbale ispettivo, deve essere provata dall'Istituto con riguardo ai pertinenti fatti costitutivi (ord., Sez. 6-L, n. 16917, Rv. 624120).

Di notevole impatto è il principio enunciato da Sez. 3, n. 22383 (in corso di massimazione), per la quale chi domanda il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale non ha l'onere di indicare una colpa specifica del debitore, essendo onere di quest'ultimo provare di avere tenuto una condotta diligente; malgrado il diritto al risarcimento del danno sia eterodeterminato, il creditore è sollevato, quindi, dall'onere dell'allegazione di culpa, che avrebbe la funzione di circoscrivere l'oggetto della prova liberatoria del debitore, e quest'ultimo viene gravato dell'onere della prova di non culpa, esteso ad ogni potenziale imputazione di negligenza.

3. Principio di acquisizione probatoria.

Alcune decisioni hanno riguardato il principio di acquisizione probatoria (o acquisizione processuale), la cui consolidata tradizione giurisprudenziale sposta l'onere ex art. 2697 cod. civ. dal modello dell'onere probatorio "in senso soggettivo o formale" (criterio di individuazione del soggetto tenuto all'attività istruttoria) verso il modello dell'onere probatorio "in senso oggettivo o sostanziale" (criterio di distribuzione del rischio di mancata prova).

Il principio di acquisizione è stato applicato, per esempio, in materia di opposizione agli atti esecutivi, giacché, se è vero che l'opponente ha l'onere di provare il momento in cui ha avuto conoscenza dell'atto esecutivo, ai fini della verifica della tempestività dell'opposizione, l'onere si intende assolto, tuttavia, anche qualora la prova della tempestività dell'opposizione emerga, comunque, dagli atti del fascicolo dell'esecuzione o da quelli prodotti dall'opposto (ord., Sez. 6-3, n. 19277, Rv. 623940).

La Corte ha rimarcato che il principio di acquisizione probatoria non ha la forza di derogare al principio di legalità istruttoria.

Invero, il principio di acquisizione probatoria comporta l'impossibilità per le parti di disporre degli effetti delle prove ormai assunte, le quali possono giovare o nuocere all'una o all'altra parte, indipendentemente da chi le abbia dedotte, ma non implica l'obbligo del giudice di tener ferme tutte le prove sol perché già espletate, ancorché ammesse in violazione di norme di legge, sicché il giudice d'appello può ritenere inutilizzabile, ai fini della sua decisione, la prova testimoniale espletata in primo grado, al di fuori del procedimento di querela di falso, per contestare quanto risultante da un accertamento munito di fede pubblica privilegiata (ord., Sez. 6-2, n. 15480, Rv. 623749).

4. Atto pubblico e scrittura privata.

È stato ribadito che l'efficacia fidefacente dell'atto pubblico, regolata dall'art. 2700 cod. civ., si arresta al piano documentale estrinseco: l'atto pubblico fa fede, fino a querela di falso, soltanto della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato, delle dichiarazioni a lui rese e dei fatti da lui compiuti, non estendendosi tale efficacia probatoria ai giudizi, tra i quali è compresa la valutazione relativa al possesso della capacità di intendere e volere, sicché l'autenticazione notarile della firma apposta in calce a un atto di delega non costituisce prova legale della validità del consenso manifestato dal sottoscrittore (Sez. 2, n. 3787, Rv. 621339).

Quanto alla scrittura privata di data certa, Sez. 3, n. 13943 (Rv. 623641), ha statuito che, ove manchino le situazioni tipiche di certezza previste dall'art. 2704, primo comma, cod. civ., ai fini dell'opponibilità della data ai terzi è necessario che sia dedotto e dimostrato un fatto idoneo a stabilire in modo ugualmente certo l'anteriorità della formazione del documento, sicché tale dimostrazione può anche avvalersi di prove per testimoni o presunzioni, ma solo a condizione che esse evidenzino un fatto munito della specificata attitudine, non anche quando tali prove siano rivolte, in via indiziaria e induttiva, a provocare un giudizio di mera verosimiglianza della data apposta sul documento.

Un'importante fattispecie di certezza della data, non connessa ad una situazione tipica ex art. 2704 cod. civ. (registrazione della scrittura, riproduzione della scrittura in atti pubblici, sopravvenuta morte o impossibilità fisica del sottoscrittore), è stata individuata da Sez. 1, n. 8438 (Rv. 622542), per la quale, ove la scrittura privata non autenticata formi un corpo unico col foglio sul quale è impresso il timbro postale, la data risultante da quest'ultimo è data certa della scrittura, perché la timbratura di un pubblico ufficio equivale ad attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui essa è stata eseguita, mentre grava sulla parte che contesti la certezza della data l'onere di provare - pur senza necessità di querela di falso - che la redazione del contenuto della scrittura è avvenuta in un momento diverso.

In tema di scritture contabili delle imprese, Sez. 3, n. 9522 (Rv. 622959), ha chiarito che il giudice esercita legittimamente il potere officioso di esibizione previsto dall'art. 2711 cod. civ. soltanto se la parte onerata della prova abbia tempestivamente allegato i fatti specifici da provare e l'indisponibilità di altri mezzi utili a dimostrarli.

Alla regola posta dall'art. 2719 cod. civ. - per la quale le copie fotografiche o fotostatiche di scritture hanno la stessa efficacia delle copie autentiche, non solo se la conformità all'originale è attestata dal pubblico ufficiale competente, ma anche qualora la conformità non sia disconosciuta dalla parte interessata - la già richiamata ord., Sez. 5, n. 13439 (Rv. 623498), ha attribuito portata generale con riferimento a qualunque documento (nella specie, avviso di ricevimento del piego raccomandato nella notifica a mezzo del servizio postale).

5. Disconoscimento, verificazione, querela di falso.

Sulle caratteristiche del disconoscimento della scrittura privata, necessarie affinché esso impedisca che la scrittura si abbia per riconosciuta ex art. 2702 cod. civ. e 214, 215 cod. proc. civ., la Sez. 3, n. 12448 (Rv. 623355), esige un atto formale ed inequivoco, reputando inidonea una contestazione generica o implicita, frammista ad altre difese o sottintesa nella versione dei fatti.

In presenza di un disconoscimento efficace, la mancata proposizione dell'istanza di verificazione equivale, per presunzione legale, ai sensi dell'art. 216 cod. proc. civ., alla dichiarazione di non volersi avvalere della scrittura come mezzo di prova, sicché il giudice non deve tenere conto del documento, ma la parte che l'ha disconosciuto non può trarre dall'omessa presentazione dell'istanza di verificazione elementi di prova a sé favorevoli (Sez. 3, n. 2220, Rv. 621456).

Ha ribadito Sez. 2, n. 8272 (Rv. 622419), che l'istanza di verificazione può essere implicita, come quando si insiste per l'accoglimento di una domanda che presuppone l'autenticità della scrittura disconosciuta, non occorrendo la formale apertura di un procedimento incidentale di verificazione, né l'assunzione di prove specifiche, laddove siano sufficienti gli elementi già acquisiti.

La sfera operativa della querela di falso avverso la scrittura privata viene efficacemente descritta, nei termini generali, da Sez. 2, n. 18664 (Rv. 623946), per la quale, una volta intervenuto il riconoscimento o un equipollente legale, la scrittura privata è assistita da una presunzione di veridicità per quanto attiene alla riferibilità al sottoscrittore, sicché la difformità tra l'imputabilità formale del documento e l'effettiva titolarità della volontà che esso esprime, quando non attenga ad un'intrinseca divergenza del contenuto, ma all'estrinseco collegamento dell'espressione apparente, non è accertabile con i normali mezzi di contestazione e prova, bensì soltanto con lo speciale procedimento previsto dalla legge per infirmare il collegamento fra dichiarazione e sottoscrizione, cioè, appunto, con la querela di falso.

Pertanto, la scrittura privata non disconosciuta fa prova fino a querela di falso della provenienza dal sottoscrittore e, ove la querela di falso non venga proposta, il giudice non può sindacare ex officio l'autenticità del documento (Sez. 3, n. 12448, Rv. 623353).

L'istituto della querela di falso si accredita di una certa espansività, in rapporto alla qualità del documento, cosicché la scrittura privata proveniente da terzi estranei alla lite, che in genere è liberamente contestabile dalle parti, ha un diverso trattamento qualora la sua particolare natura, come per il testamento olografo, le conferisca un'incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere, per la contestazione di autenticità, la querela di falso (Sez. 2, n. 8272, Rv. 622420).

Entro tale contesto, la citata Sez. 3, n. 22383 ha precisato che colui il quale voglia mettere in dubbio l'autenticità di un atto pubblico, in base al rilievo che l'autore dell'atto fosse interessato ad escludere una propria eventuale responsabilità nei fatti riferitivi, ha l'onere di impugnare l'atto stesso con la querela di falso, non potendo limitarsi a denunciare il conflitto d'interessi, al fine di negare l'effetto fidefacente.

6. Testimonianza.

In ordine all'oggetto della dichiarazione testimoniale, Sez. 3, n. 13693 (Rv. 623587), declinando il principio secondo il quale al teste possono affidarsi solo descrizioni fattuali e non manifestazioni valutative, ha statuito che la testimonianza non può avere ad oggetto l'affermazione o la negazione dell'esistenza del nesso di causalità tra un fatto e un danno, ma può soltanto descrivere il fatto, nella sua obiettività, essendo riservato al giudice stabilire se questo sia stato o meno causa del danno, posto che l'affermazione o la negazione del nesso causale è frutto di un giudizio e non di una mera percezione.

Quanto ai limiti sostanziali di ammissibilità della prova per testi, disciplinati dagli art. 2721 e segg. cod. civ., vanno rammentate due sentenze, attinenti, l'una, al limite posto dall'art. 2721 riguardo al valore dell'oggetto contrattuale e, l'altra, al limite fissato dall'art. 2722 per i pacta adiecta.

I limiti di valore sanciti dall'art. 2721 cod. civ. non attengono all'ordine pubblico, ma sono dettati nell'esclusivo interesse di parte, sicché, qualora la prova venga ammessa in primo grado oltre i limiti predetti, essa deve ritenersi ritualmente acquisita, ove la parte interessata non ne abbia tempestivamente eccepito l'inammissibilità in sede di assunzione o nella prima difesa successiva entro lo stesso grado di giudizio, di modo che la nullità sanata non può essere eccepita per la prima volta in appello, neppure dalla parte rimasta contumace in primo grado, e, a maggior ragione, non può essere eccepita per la prima volta in sede di legittimità (Sez. 3, n. 3959, Rv. 621403).

Il divieto della prova testimoniale relativa ai patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, sancito dall'art. 2722 cod. civ., riguarda soltanto la prova degli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto del negozio, non anche la prova diretta a individuare la reale portata di un accordo tramite l'accertamento degli elementi di fatto che determinarono il consenso dei contraenti (Sez. 3, n. 9526, Rv. 622960).

A proposito delle eccezioni ai divieti di prova testimoniale, il principio di prova per iscritto, che fonda l'eccezione ex art. 2724, n. 1, cod. civ., non è soltanto nel documento contenente un preciso riferimento al fatto controverso, bastando l'esistenza di un nesso logico tra lo scritto e il fatto, da cui emerga la verosimiglianza di quest'ultimo (Sez. 1, n. 17766, in corso di massimazione).

Circa l'estensione alla quietanza dei divieti di prova testimoniale stabiliti per i contratti, Sez. 3, n. 9297 (Rv. 622845), ribadendo un indirizzo già controverso, ma ormai assestatosi, ha statuito che la simulazione assoluta della quietanza di pagamento non può essere provata per testimoni, ostandovi il divieto di cui all'art. 2726 cod. civ.

Quanto ai limiti formali di ammissibilità della prova per testi, disciplinati dagli art. 244 e segg. cod. proc. civ., notevole è la casistica sull'incapacità a testimoniare di cui all'art. 246, improntata ad una lettura restrittiva, che, in nome del diritto alla prova, valorizza i requisiti di giuridicità, personalità, attualità e concretezza dell'interesse ostativo, trasferendo la rilevanza degli interessi meramente fattuali o ipotetici dal piano dell'ammissibilità della testimonianza al piano dell'attendibilità.

L'amministratore di società è incapace di testimoniare soltanto nel processo in cui rappresenti la società medesima, non potendo assumervi contemporaneamente la posizione di parte e quella di teste, o se nella causa abbia un interesse attuale e concreto, che potrebbe legittimarne la partecipazione al giudizio, non un interesse meramente ipotetico, come quello relativo ad un'eventuale sua responsabilità verso la società (Sez. 2, n. 14987, Rv. 623802).

Il procacciatore di affari non è incapace di testimoniare nella controversia relativa al pagamento del corrispettivo della fornitura di merci, non coinvolgendo la stessa il diritto del teste a percepire la provvigione per aver prestato la sua opera ai fini della conclusione del contratto dedotto in lite, atteso che il rapporto che lo lega ad una o ad entrambe le parti integra unicamente un elemento per la valutazione della sua attendibilità (Sez. 2, n. 9353, Rv. 622641).

I creditori concorrenti non sono, in quanto tali, incapaci di testimoniare nel giudizio di opposizione allo stato passivo introdotto da un altro creditore, in quanto non hanno, a priori, un interesse qualificato a proporre la stessa domanda o a contraddirvi, occorrendo valutare, invece, volta per volta, se sussiste un loro interesse giuridico, personale, concreto e attuale, alla partecipazione al giudizio di opposizione (Sez. 1, n. 6802, Rv. 622549; in linea, Sez. 1, n. 8239, Rv. 622596).

La madre non è incapace di testimoniare nel giudizio per la dichiarazione di paternità naturale instaurato dal figlio maggiorenne, non avendovi ella un interesse principale correlato ad un obbligo legale di mantenimento del figlio e possedendo le sue dichiarazioni un rilievo probatorio imprescindibile, ai sensi dell'art. 269, secondo e quarto comma, cod. civ., indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale terzietà della dichiarante (Sez. 1, n. 12198, Rv. 623484).

Incapace a testimoniare è la vittima di un sinistro stradale, che non può deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento proposta da altro danneggiato, non rilevando che il testimone abbia rinunciato al proprio risarcimento, né che il relativo credito sia prescritto (Sez. 3, n. 16541, Rv. 623759).

Circa i rapporti tra (in)capacità e (in)attendibilità, Sez. 3, n. 1022 (Rv. 621367), ha confermato che l'incapacità a testimoniare non tempestivamente eccepita, per un verso, non rende il testimone automaticamente inattendibile e, per altro verso, non esonera il giudice dal dovere di esaminarne l'intrinseca credibilità.

7. Presunzioni.

Riguardo alla praesumptio hominis, disciplinata dall'art. 2729 cod. civ., assume notevole interesse una decisione che, nel ribadire la perfetta dignità probatoria degli indizi gravi, precisi e concordanti, mette in luce la struttura bifasica del procedimento inferenziale, rimarcando come esso vada portato a termine mediante un criterio sintetico e non atomistico.

La presunzione semplice è una prova completa, alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza esclusiva nella formazione del proprio convincimento, esercitando il potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, sicché, ove gli indizi abbiano raggiunto la consistenza della prova presuntiva, non vi è necessità di ricercarne altri o di assumere prove ulteriori (Sez. 5, n. 9108, Rv. 622994).

Nel governo della prova critica, il giudice di merito è tenuto a seguire un procedimento articolato in due momenti valutativi concatenati: la valutazione analitica degli elementi acquisiti, per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza indiziaria e conservare quelli che, già singolarmente, mostrino un'efficacia probatoria almeno potenziale; la valutazione sintetica degli indizi selezionati, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire la prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta in base ad una valutazione atomistica, essendo censurabile in sede di legittimità la decisione del giudice di merito che si sia limitato a negare valenza probatoria agli indizi acquisiti, senza accertare se essi, quand'anche privi di tale valenza singolarmente presi, fossero in grado di attingerla ove valutati nella loro globalità, ognuno traendo vigore dall'altro, in un rapporto di vicendevole completamento (Sez. 5, n. 9108, Rv. 622995).

Anche per Sez. 3, n. 3703 (Rv. 621641), la prova presuntiva esige che il giudice prenda in esame tutti gli indizi emersi nel corso dell'istruzione, valutandoli globalmente, gli uni per mezzo degli altri, essendo censurabile l'operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li valuti singolarmente e concluda che nessuno assurge alla dignità di prova.

Circa la presunzione legale iuris tantum di esistenza del rapporto fondamentale, che l'art. 1988 cod. civ. correla alla promessa di pagamento e alla ricognizione di debito, Sez. 3, n. 13689 (Rv. 623692), ha riaffermato la distinzione tra queste figure, implicanti una semplice relevatio ab onere probandi, e la confessione, la quale è autentico mezzo di prova, sicché le limitazioni sancite per la revoca della confessione ex art. 2732 cod. civ. non valgono per la promessa di pagamento e la ricognizione di debito, neppure se titolate.

8. Confessione.

Quanto alla confessione giudiziale - prova legale ai sensi dell'art. 2733 cod. civ. -, si è ribadito che le dichiarazioni rese in giudizio dal difensore, contenenti affermazioni di fatti sfavorevoli al rappresentato e favorevoli all'altra parte, non hanno efficacia di confessione, ma possono essere utilizzate dal giudice come elementi indiziari, valutabili agli effetti dell'art. 2729 cod. civ. (Sez. 2, n. 7015, Rv. 622155).

Quanto alla confessione stragiudiziale - prova legale, ai sensi dell'art. 2735 cod. civ., se fatta alla parte -, occorre segnalare due pronunzie attinenti a dichiarazioni rilasciate su moduli d'intermediazione finanziaria: arresti che, nella prospettiva della tutela dell'investitore, escludono la sussistenza di una fattispecie confessoria, valorizzando il profilo oggettivo della confessione, delineata dall'art. 2730 cod. civ. quale «dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte».

La dichiarazione del cliente, resa su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, in ordine alla consapevolezza, conseguente alle informazioni ricevute, circa la rischiosità dell'investimento e l'inadeguatezza al suo profilo d'investitore non costituisce dichiarazione confessoria, in quanto è rivolta alla formulazione di un giudizio e non all'affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo (Sez. 1, n. 6142, Rv. 622512).

La dichiarazione del cliente, contenuta nell'ordine di acquisto di un prodotto finanziario, con la quale egli dia atto di avere ricevuto le informazioni necessarie e sufficienti alla valutazione del grado di rischiosità dell'operazione non può essere qualificata come confessione stragiudiziale, essendo necessaria, a tal fine, la consapevolezza e volontà di ammettere un fatto specifico, sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte (Sez. 1, n. 11412, Rv. 623262). Su tali profili, si veda pure il cap. XX, § 2.

9. Giuramento.

In tema di giuramento decisorio, si evidenzia una pronunzia sulla decisorietà della formula e sulla relativa modificazione giudiziale, viste, entrambe, nella prospettiva del sindacato di legittimità.

L'accertamento concreto della decisorietà della formula di giuramento rientra nell'apprezzamento di fatto del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione esente da vizi logici e giuridici, così come incensurabile in tale sede è il mancato esercizio, da parte del giudice di merito, della facoltà di modificare la formula, esercizio consentito, peraltro, solo per quanto attiene agli aspetti formali, diretti a rendere più chiaro il contenuto della formula stessa (Sez. 2, n. 10574, Rv. 622874).

Circa l'assunzione del mezzo istruttorio, Sez. L, n. 20777 (in corso di massimazione), ha chiarito che l'omessa tempestiva notifica dell'ordinanza ammissiva del giuramento decisorio impedisce di considerare soccombente la parte cui il giuramento è stato deferito e che non si è presentata a prestarlo, secondo il disposto dell'art. 239 cod. proc. civ., ma non determina la decadenza del deferente, poiché i termini di cui al provvedimento ex art. 237 cod. proc. civ. sono ordinatori, mancando un'espressa statuizione di perentorietà.

10. Consulenza tecnica.

Il principio secondo il quale non è carente di motivazione la sentenza che faccia propri gli argomenti della consulenza tecnica d'ufficio è stato oggetto di un'applicazione estensiva, indifferente alla distinzione fra consulenza "deducente" (che non è fonte di prova, in quanto valutativa di fatti già accertati) e consulenza "percipiente" (fonte di prova, in quanto legittimata all'accertamento di fatto).

Invero, Sez. 5, n. 7364 (Rv. 622900), ha considerato idonea la motivazione della sentenza per relationem alla consulenza tecnica d'ufficio espletata in altro giudizio, pur se avente funzione non solo deducente, ma anche percipiente, ferma la necessità di una chiara ostensione delle ragioni per le quali, nonostante la diversità dei fatti storici, i rilevamenti compiuti dall'ausiliario e gli esiti peritali sono trasferibili al nuovo giudizio.

Si segnalano due pronunzie relative ai margini di autonomia del consulente tecnico d'ufficio nell'esercizio dell'attività ex art. 62 e 194 cod. proc. civ.

Il consulente può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatto accessorio, rientrante nell'ambito strettamente tecnico, presupposto della risposta ai quesiti, e non di fatto che, essendo posto a fondamento della domanda o dell'eccezione, debba essere provato dalla parte: nella specie, la Corte ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto inammissibile l'acquisizione ad opera del consulente della documentazione relativa alla certificazione catastale e alla regolarità urbanistica dell'immobile oggetto di divisione (Sez. 2, n. 14577, Rv. 623712).

Il consulente, nell'espletamento del mandato, può chiedere informazioni ai terzi e alle parti per accertare i fatti collegati con l'oggetto dell'incarico, senza bisogno di preventiva autorizzazione del giudice, potendo tali informazioni - di cui vanno indicate le fonti in modo da permettere il controllo delle parti - concorrere, con le altre risultanze di causa, alla formazione del convincimento del giudice, restando inteso che il consulente, in quanto ausiliario del giudice, è pubblico ufficiale e che, pertanto, il verbale attestante le informazioni raccolte fa fede fino a querela di falso (Sez. 2, n. 14652, Rv. 623714).

Riguardo alla perizia emato-genetica, sovente assimilata all'ispezione corporale ex art. 260 cod. proc. civ., deve rammentarsi ord., Sez. 6-1, n. 16413 (Rv. 624085), secondo la quale il provvedimento di ammissione di tale consulenza non va notificato al contumace, non essendo ravvisabile in ciò alcuna lesione del diritto di difesa, in quanto, ai sensi degli art. 260 cod. proc. civ. e 90 disp. att. cod. proc. civ., al contumace viene data notizia dell'inizio delle operazioni peritali.

Infine, la consulenza tecnica di parte, di cui all'art. 201 cod. proc. civ., è stata ritenuta idonea a fondare la decisione quale prova atipica - sebbene in fattispecie peculiare (relazioni tecniche dei consorzi sull'entità dei tributi di bonifica) -, essendosi negato carattere assoluto al principio secondo il quale nessuno può unilateralmente precostituire mezzi di prova a sé favorevoli (Sez. 5, n. 9099, Rv. 622991).

  • giurisprudenza
  • domicilio

CAPITOLO XXVII

LE IMPUGNAZIONI

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 La funzione della giurisprudenza della Corte di cassazione. - 2 L'impugnazione per vizi processuali. - 3 Errores in procedendo e cognizione della Corte di cassazione. - 4 Elezione di domicilio nei giudizi davanti alla corte d'appello.

1. La funzione della giurisprudenza della Corte di cassazione.

La giurisprudenza della S.C. ha proseguito nel 2012 il suo percorso di progressiva consapevolezza della diversa e sempre più responsabile funzione che deve riservarsi ai suoi orientamenti nell'ambito della ricerca delle regole pertinenti ai sillogismi decisori.

Assume in argomento rilevanza emblematica la sentenza Sez. Un. n. 13620 (Rv. 623343, su cui cfr. anche infra, cap. XXXV, § 1), la quale ha affermato che, pur non esistendo nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa costituisce comunque un valore, o una direttiva di tendenza immanente nell'ordinamento. Non è, cioè, più consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomofilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative. Questo vale soprattutto in tema di norme processuali, per le quali l'esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, anche alla luce dell'art. 360 bis, primo comma, n. 1, cod. proc. civ.: ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, il giudice dovrà, in sostanza, sempre preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

La stabilità dell'orientamento giurisprudenziale viene, dunque, ormai individuata come criterio maggiormente rassicurante per modulare l'esercizio della partecipazione delle corti all'opera creativa delle regole: ove esista una legge da applicare al caso da giudicare, ma essa sia suscettibile di una pluralità di plausibili interpretazioni, la scelta più opportuna da parte del giudice sarà influenzata dalla fedeltà al precedente, vieppiù se recentemente affermato.

Il tema del "precedente vincolante" è notoriamente fra quelli di più vivace confronto dialettico tra la dottrina e la Suprema Corte. Ne va del contenuto da dare a norme quali l'art. 360 bis n. 1, cod. proc. civ., che dovrebbe porre freno agli accessi del tutto ingiustificati al giudice di legittimità; e l'art. 374, comma terzo, cod. proc. civ., il quale, invece, configura il rapporto corrente tra sezione semplice e principî enunciati dalle sezioni unite.

Le voci critiche intravedono una propensione delle sentenze ad utilizzare queste due norme non soltanto come argine di carattere processuale, quanto come strumenti di conformazione del contenuto sostanziale delle decisioni della Suprema Corte, le quali verrebbero per loro tramite distolte dallo scopo unico della iurisdictio, che è poi esclusivamente quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione, senza rese pregiudiziali dovute al rispetto dell'ancor recente precedente giudiziario. Questa tendenza pregiudicherebbe la duttilità delle questioni e l'evoluzione dei pensieri. E c'è anche chi avverte come tale surrogato di stare decisis nel nostro sistema di civil law incentivi pure la deriva applicativa del retrival del precedente, allorché il recupero informatico della massima conforme induce a svilir l'analisi delle peculiarità del singolo caso in esame.

Non possono qui non ricordarsi, tuttavia, anche le ultime luminose pagine di quella dottrina che ha negato alla teoria dell'efficacia vincolante del precedente giudiziario un qualsiasi effetto usurpativo del procedimento di creazione del diritto: la funzione assolta dalla giurisprudenza rimarrebbe sempre quella di ricostruire, di scoprire, cioè, la regola di giudizio, e non di inventarla (GALGANO, La giurisprudenza fra ars inveniendi e ars combinatoria, in Contr. e impr. 2012, I, 77).

Al tema della forza del precedente è chiaramente collegato quello degli effetti dei mutamenti di indirizzi giurisprudenziali con riguardo ai rapporti in corso, e quindi oggetto di decisione.

Così, Sez. Un. n. 17402 (Rv. 623574, già richiamata al cap. XXIV, § 5.4) ha chiarito che il mutamento di una precedente interpretazione giurisprudenziale, non preceduto da un orientamento univoco, tale da fondare un legittimo affidamento sull'ammissibilità di un rimedio impugnatorio, non dà luogo ad una fattispecie di overruling. Questo fenomeno viene, invero, specificato come mutamento di giurisprudenza nell'interpretazione di una norma o di un sistema di norme, idoneo a vanificare l'effettività del diritto di azione e di difesa, avente, però, carattere, se non proprio repentino, quanto meno inatteso, o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, quali possono essere quelli di un, sia pur larvato, dibattito dottrinale o di un qualche significativo intervento giurisprudenziale sul tema.

Va, sempre in argomento, richiamata la sentenza Sez. Un., n. 16727 (Rv. 623477), la quale, ne risolvere il contrasto sul punto, ha affermato l'appellabilità dell'ordinanza emessa dal giudice istruttore, ai sensi dell'art. 789, terzo comma, cod. proc. civ., allorquando difetti il presupposto della mancanza di contestazioni da parte dei condividenti sul progetto di divisione oggetto della dichiarazione di esecutività. A tale conclusione relativa al regime impugnatorio del provvedimento, attuativa del principio della "prevalenza della sostanza sulla forma", non si è ritenuto di ostacolo il principio c.d. di "apparenza e affidabilità", alla luce delle specificità del procedimento di scioglimento di comunioni, nonché della agevole riconoscibilità della natura decisoria del provvedimento malamente reso in presenza di contestazioni. Ciò non di meno, la Sezioni Unite hanno, nella pronuncia in esame, ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione proposto nel 2005, a fronte dell'imprevedibile mutamento di giurisprudenza intrapreso soltanto a partire dal 2010 rispetto al pregresso indirizzo consolidatosi nel tempo (che fondava la ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. dell'ordinanza del giudice istruttore essenzialmente sul dato che essa provenisse da organo giurisdizionale privo di potere decisorio in materia), sebbene l'evoluzione esegetica della disciplina processuale di riferimento abbia, in materia, operato per effetto di un sopravvenuto mutamento ordinamentale, con essa interagente, quale, appunto, quello afferente alla composizione del tribunale nelle cause di scioglimento di comunioni.

La sussistenza di uno stabile orientamento della Corte funge, altresì, da criterio di dosimetria dell'obbligo motivazionale: Sez. 2, n. 11199 (Rv. 623128) ha, in tale prospettiva, ritenuta giustificata, nel giudizio di cassazione, l'adozione del modello della motivazione semplificata nella decisione dei ricorsi - sorto per esigenze organizzative di smaltimento dell'arretrato e di contenimento dei tempi di trattazione dei procedimenti civili entro termini di durata ragionevole - quando l'impugnazione proposta ponga questioni la cui soluzione comporti l'applicazione di principî già affermati in precedenza dalla S.C., e dai quali questa non intenda discostarsi. L'efficacia dei precedenti uniformi si estende, pertanto, fino al punto da divenire presupposto esonerativo dall'esercizio della funzione nomofilattica. L'utilizzazione della motivazione semplificata, precisa Sez. 2, n. 11199, non è preclusa nemmeno dalla particolare ampiezza degli atti di parte, almeno quando la prolissità degli scritti difensivi - la quale, di per sé, pur non contrastando alcuna prescrizione formale di ammissibilità, già collide con l'esigenza di chiarezza e sinteticità dettata dall'obiettivo di un processo celere - non risulti a sua volta davvero proporzionale alla complessità giuridica o all'importanza economica delle fattispecie affrontate, e si risolva, anzi, in un'inutile sovrabbondanza, connotata da assemblaggi e trascrizioni di atti e provvedimenti dei precedenti gradi del giudizio.

La funzione selettiva del persistente orientamento conforme della giurisprudenza di legittimità, la quale impone ad ogni ricorrente di prospettare gli argomenti potenzialmente idonei per pervenire all'auspicato mutamento esegetico, non viene, quindi, ovviamente irretita dalla particolare lunghezza o speciosità degli atti di gravame.

Diviene, piuttosto, "valore" la sinteticità delle difese.

Sez. Un, n. 5698 (Rv. 621813) evidenzia come, ai fini del requisito o dell'esposizione dei fatti di causa, di cui all'art. 366, n. 3, cod. proc. civ., sia del tutto inutile la zelante riproduzione dell'intero contenuto testuale degli atti processuali, e sia, anzi, inidonea allo scopo, in quanto equivale a rimettere alla Corte, dopo averla costretta "a leggere tutto" (ovvero, anche ciò di cui non occorre che essa sia informata), la scelta di quanto effettivamente rilevi in ordine ai motivi di ricorso.

Al pari della sinteticità, è ormai "valore" anche la chiarezza degli atti defensionali.

Sez. 2, n. 3338 (Rv. 621962) trae tale dovere difensivo di chiarezza dall'art. 88 cod. proc. civ., ritenendo imposto all'avvocato, cui sia stata sollecitata una presa di posizione su di un'istanza ben definita, non solo di rispondere, ma anche di esprimersi in maniera altrettanto comprensibile e, soprattutto, di attenersi ad una logica di tipo binario, che non ammette formule di dubbia lettura, né ipotesi terze fra l'affermazione e la negazione, la condivisione ed il rifiuto. L'omissione di tale dovere di chiarezza viene censurata, sotto il profilo effettuale, interpretando le difese della parte, che abbiano ingenerato dubbi o perplessità, a favore della controparte: la dichiarazione di "rimettersi" alla decisione del giudice, formulata da un difensore in presenza di richiesta proveniente da altro procuratore, va intesa come equivalente ad una adesione all'istanza, mostrando una sostanziale non avversità ad essa.

2. L'impugnazione per vizi processuali.

Conserva un'ulteriore funzione selettiva dell'accesso alla Corte di cassazione, e più in generale, ad ogni forma di impugnazione, la verifica dell'interesse concreto alla denuncia degli errores in procedendo, ovvero dei vizi dell'attività del giudice gravato, che pure comportino la nullità della sentenza o del procedimento, dovendo la parte sempre precisare quale pregiudizio sia derivato dalla denunciata carenza. Sovvengono, a tal fine, gli argomenti dell'economia processuale interna ed esterna, quello, apparentemente pletorico, dell'abuso degli strumenti impugnatori, e, soprattutto, quello della costante verifica dell'interesse ad agire: si ribadisce che la censura della perpetrata violazione processuale non tutela l'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l'eliminazione della lesione del diritto di difesa concretamente subito dalla parte che censuri l'errore, con la conseguenza che l'annullamento della sentenza impugnata si rende necessario solo allorché l'impugnante possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella eliminata (Sez. 3, n. 3712, Rv. 621429; Sez. 3, n. 1029, Rv. 621363; Sez. 1, n. 5656, Rv. 622337). Di ciò vi è conferma, del resto, nell'ulteriore limite di ammissibilità del ricorso posto dall'art. 360 bis cod. proc. civ., il quale fissa i limiti e le condizioni del potere di controllo della S.C. sulle nullità verificatesi nel giudizio di merito: la sola violazione delle regole processuali fondamentali - connesse allo svolgimento di un processo giusto - può fondare una pronuncia meramente dichiarativa della nullità del procedimento, ostativa ad un esame pieno delle condizioni della proposta azione.

Il riscontro della concreta influenza della segnalata inosservanza di norme processuali sull'aspettativa di accoglimento delle domande o eccezioni di merito proposte in corso di lite costituisce un costante parametro di riferimento nella verifica di ammissibilità delle impugnazioni fondate proprio sulla denuncia di violazioni delle regole di rito.

Così, indicativamente, Sez. 6-2, n. 10748 (Rv. 623121) ha potuto escludere ogni contrasto con gli art. 47 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, come con gli art. 2 e 6 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, e con gli art. 24 e 111 Cost., dell'abituale interpretazione data al sistema degli art. 189, 345 e 346 cod. proc. civ., letti nel senso che l'istanza istruttoria non accolta nel corso del giudizio, che non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, deve reputarsi tacitamente rinunciata. Non vi sarebbe, come decide Sez. 6-2 n. 10748, in questa accezione ermeneutica alcuna compromissione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo, poiché essa non oblitera e non rende neppure disagevole il diritto di "difendersi provando", e, piuttosto, subordina lo stesso ad una domanda della parte che, se rigettata dal giudice dell'istruttoria, va rivolta al giudice che decide la causa: ciò garantisce anche il diritto di difesa della controparte, la quale non deve controdedurre su quanto non espressamente richiamato.

Uguale è l'approccio di Sez. 2, n. 30652 del 2011 (Rv. 622396): proposto ricorso per cassazione per nullità del procedimento dalla parte rimasta contumace in secondo grado, la quale denunci l'omissione dell'avvertimento a comparire, di cui all'art. 163, terzo comma, n. 7, cod. proc. civ., nell'atto di citazione di appello notificato al difensore dell'appellato costituito in primo grado, e dunque a soggetto che deve essere a perfetta conoscenza degli obblighi e delle facoltà inerenti la difesa in appello, non può attribuirsi al censurato error in procedendo alcun automatico rilievo invalidante. L'annullamento della sentenza impugnata e la conseguente rinnovazione della citazione d'appello disposta dal giudice di rinvio rimangono, invero, condizionati a che il ricorrente indichi lo specifico e concreto pregiudizio subito per effetto della menzionata omissione, tale da riportare il vizio nell'alveo garantito delle violazioni dei principî del giusto processo.

3. Errores in procedendo e cognizione della Corte di cassazione.

Sez. Un., n. 8077 (Rv. 622361) ha chiarito che, allorché in sede di ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, ovvero il compimento di un'attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell'atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell'oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, rimanendo, piuttosto, investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda. Diverso è il caso in cui il legislatore riservi al giudice di merito il potere di operare nel processo scelte discrezionali, così lasciandogli margini valutativi in ordine alle modalità di svolgimento di una determinata attività, dovendo in tali evenienze limitarsi l'attenzione della Suprema Corte agli eventuali vizi della motivazione che quelle scelte sorreggano. D'altro canto, aggiunge la sentenza Sez. Un. n. 8077, la censura del ricorrente dovrà pur sempre essere proposta in ossequio al requisito di specificità dei motivi di gravame, sicché l'esame diretto degli atti, che pur si impone, come detto, quando sia denunciato il compimento di un attività difforme da una disciplina processuale vincolante, va subordinato al rispetto delle prescrizioni oggi fissate dagli art. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., risultando circoscritto, quindi, da quanto analiticamente indicato ed allegato col ricorso.

La denuncia per cassazione dell'errore attribuito al giudice di merito nell'accertamento della "assoluta incertezza" della domanda equivale, invero, alla denuncia di un error in procedendo, così qualificandosi tutti i vizi relativi al rapporto tra le domande delle parti e la pronuncia del giudice.

Dunque, il sindacato della S.C. deve investire direttamente l'errore di attività e la decisione che su di esso sia stata adottata, indipendentemente dalle motivazioni adoperate, in modo che la medesima Corte di cassazione sia davvero giudice anche del "fatto": ed allora, l'accertamento della violazione dell'art. 164, comma quarto, cod. proc. civ. - sia che si deduca la mancata dichiarazione di nullità di una citazione lacunosa, sia che si deduca l'erronea dichiarazione di nullità di una citazione sufficientemente completa - non può prescindere dal diretto accertamento del complesso delle indicazioni concretamente contenute nell'atto di citazione, tale essendo "il fatto" che integra la lamentata violazione della norma processuale. La cognizione della Corte, a fronte della censura di violazione o falsa applicazione degli art. 163, nn. 3 e 4, e 164 cod. proc. civ., non avrà ad oggetto la giustificazione al riguardo fornita dal precedente giudice, ma esclusivamente la decisione adottata da questo; e, come sempre in ambito di errores in procedendo, alla parte rimane preclusa la doglianza di omessa motivazione.

La valutazione di conformità di una citazione al modello legale provvisto di idoneità effettuale rientra nella funzione nomofilattica della Corte di cassazione, di tal che l'attività spiegata in proposito dal giudice di merito deve ritenersi sempre sindacabile in sede di legittimità, e non già affare discrezionale solo a quello riservato.

Essendo, dunque, prospettato, col riferimento all'art. 164, comma quarto, cod. proc. civ., un vizio di attività, e cioè la violazione di una norma processuale, dovranno essere immediatamente esaminabili dalla Corte di cassazione, in quanto giudice anche di quel "fatto" (le indicazioni in concreto fornite nella domanda), sia gli atti del procedimento, sia i documenti prodotti. Solo così la S.C. potrà davvero reiterare, alla bisogna, il giudizio storico già compiuto dal giudice del merito. Non vale opporre la resistenza ideologica secondo cui il procedimento di interpretazione e di qualificazione delle domande delle parti costituisce potestà inalienabile del giudice del merito. Quando dal ricorrente si sostenga che l'interpretazione della domanda seguita dal primo giudice abbia cagionato una violazione dell'art. 164, comma quarto, cod. proc. civ., finisce per prevalere il potere della Corte di procedere ad una rinnovata ed autonoma indagine sugli atti del processo, equivalendo il pregiudizio arrecato da una siffatta errata interpretazione della domanda - quanto meno sotto il profilo della piena realizzazione del diritto delle parti a conseguire una adeguata risposta finale alle loro istanze di giustizia, ex art. 111 Cost. - a quello imputabile ad una omessa pronuncia, o ad una pronuncia su domanda non proposta.

Se è vero che la Corte, nel sindacato sugli errores in procedendo, deve necessariamente tener conto di tutti i fatti che appaiano rilevanti per l'esatta applicazione della legge processuale e che siano "provati", giacché rinvenibili negli atti e documenti di causa, quando il vizio concerne precipuamente la domanda giudiziale, l'indagine in sede di legittimità non risulta, quindi, limitabile o condizionabile: nella specie, il controllo invocato dal ricorrente sulla violazione dell'art. 164, comma quarto, cod. proc. civ., ossia sulle modalità di esercizio del diritto di azione, può essere attuato unicamente e semplicemente mediante esame dell'atto di citazione, elemento irrinunciabile del fascicolo d'ufficio, e quindi, in tal senso, "fatto necessariamente rappresentato nel processo". La valutazione di nullità dell'atto introduttivo del giudizio - per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui la stessa si fonda - si sostanzia in un controllo di conformità della citazione al modello legale; controllo che implica necessariamente un riesame diretto dell'atto processuale.

Ogni diversa e residua esitazione, quanto agli strumenti disponibili da parte della S.C. al fine del sindacato sui vizi relativi alle domande delle parti, trascura l'assioma per cui, nei confini dell'error in procedendo, l'attenzione del giudice di legittimità è portata direttamente sull'invalidità, sulla violazione della norma processuale, sull'errore di attività nel compimento di un atto del procedimento, indipendentemente dalle motivazioni utilizzate in proposito dal giudice di merito, ed anche quando la denuncia segnali, piuttosto, la non corrispondenza della decisione adottata ai fatti rilevanti ai fini dell'applicazione della regola procedurale che si assume inosservata.

C'è da richiamare - quale ultimo connettivo argomentativo utilizzato dalla stesse Sez. Un. n. 8077 - l'interrogativo sull'ostacolo che possa trarsi all'esame diretto degli atti del giudizio di merito da parte della Corte, sotto il profilo dell'ammissibilità dell'impugnazione, alla luce dall'operatività del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (restando, evidentemente, pregiudiziale all'attivazione del potere di esame ed interpretazione degli atti il controllo di ammissibilità del motivo, come ha poi ricordato Sez. 5, n. 12664, Rv. 623401).

Poteva sostenersi che, quando si denunzi un vizio attinente alla valutazione della nullità della citazione, ex art. 164, comma quarto, cod. proc. civ., e dunque un error in procedendo, correlato al rapporto tra domande delle parti e pronuncia del giudice, essendo qui la Corte, appunto, giudice anche del fatto, nessun margine funzionale residuerebbe per il principio di autosufficienza del ricorso: piuttosto, la S.C., chiamata a riaffermare la legalità processuale violata, non avrebbe alcun limite cognitorio nel rivisitare i fascicoli di causa dei precedenti gradi, alla ricerca di quei fatti che le consentano di controllare la causalità e la fondatezza del vizio dedotto.

Rimane tuttavia, anche in relazione al ricorso che censuri un error in procedendo, la necessità di sottoporre lo stesso ad un vaglio di ammissibilità. Così, il ricorso proposto per violazione o falsa applicazione dell'art. 163 cod. proc. civ., nn. 3 e 4 e art. 164 cod. proc. civ. e vizi di motivazione, con riguardo alla valutazione della nullità per indeterminatezza della citazione operata dal giudice di merito, deve indicare in quali atti (citazione, verbale dell'udienza di trattazione, memorie dell'appendice scritta di trattazione) fossero (o meno) contenute le esatte e compiute indicazioni relative all'oggetto ed alle ragioni della domanda proposta. Ciò non implica l'obbligo di riportare testualmente la domanda nel ricorso per cassazione, ma soltanto di fare richiamo di quegli elementi fattuali che possano convincere la Corte della decisività della questione, e perciò della necessità di attivare oculatamente il proprio potere-dovere di esame diretto degli atti di causa.

Un coerente dimensionamento del principio di autosufficienza del ricorso, quanto meno in rapporto agli errores in procedendo, è quindi rinvenibile, secondo quanto aggiunge la medesima Sez. Un. n. 8077, nel novellato art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., norma che impone il requisito di contenuto della «specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda». La disposizione è collegata all'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il quale, a sua volta, impone il deposito di quegli stessi atti processuali, documenti, contratti e accordi collettivi nazionali già posti a fondamento delle censure proposte in ricorso avverso la sentenza impugnata. Il combinato di queste due norme dà, perciò, attuale fondamento all'onere di sufficiente allegazione del ricorrente, consistente (non, quindi, nella fedele trascrizione in riscorso, ma) nell'esatta localizzazione, all'interno dei fascicoli dei precedenti gradi di giudizio, degli atti o verbali di causa, cui egli faccia riferimento nell'esporre la sua doglianza.

4. Elezione di domicilio nei giudizi davanti alla corte d'appello.

Sez. Un., n. 10143 (Rv. 622883) ha stabilito che l'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 - secondo cui gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all'atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, intendendosi, in caso di mancato adempimento di detto onere, lo stesso eletto presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria adita - trova applicazione in ogni caso di esercizio dell'attività forense fuori del circondario di assegnazione dell'avvocato, come derivante dall'iscrizione al relativo ordine professionale, e, quindi, anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d'appello e l'avvocato risulti essere iscritto all'ordine di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d'appello, ancorché appartenente allo stesso distretto di quest'ultima.

Le Sezioni Unite hanno così composto un contrasto di giurisprudenza, ribadendo l'orientamento tradizionale in argomento, che nega che il citato art. 82 sia stato dettato solo per il giudizio di primo grado.

Il riferimento topografico alla "circoscrizione del tribunale" vale, invero, ad identificare non già l'autorità innanzi alla quale è in corso il giudizio, bensì l'albo professionale al quale è iscritto l'avvocato, albo che è tenuto su base della circoscrizione di ciascun tribunale e non già del distretto della corte d'appello. Tuttavia, di tale risalente norma Sez. Un. 10143 ha offerto una lettura evolutiva, affermando che, in simmetria con l'art. 366 cod. proc. civ., e coerentemente alla nuova formulazione dell'art. 125 cod. proc. civ., anche ai sensi dell'art. 82 cit. debba affiancarsi - a partire dall'entrata in vigore delle recenti modifiche delle disposizioni sulle comunicazioni e le notificazioni - all'onere dell'elezione di domicilio la possibilità di indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata. Esigenze di coerenza sistematica e di interpretazione costituzionalmente orientata inducono, quindi, ritenere che l'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 debba ormai interpretarsi nel senso che dalla mancata osservanza dell'onere di elezione di domicilio, di cui alla disposizione, per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio, solo se il difensore, non adempiendo all'obbligo prescritto dall'art. 125 cod. proc. civ., non abbia indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine.

  • giurisdizione del lavoro

CAPITOLO XXVIII

IL PROCESSO DEL LAVORO

(di Francesco Buffa )

Sommario

1 Processo di primo grado. - 2 Impugnazioni. - 3 Overruling.

1. Processo di primo grado.

Diverse pronunce hanno riguardano le condizioni dell'azione.

Posto che l'interesse ad agire richiede non solo l'accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionari della fattispecie costitutiva di un diritto: come nel caso in cui il lavoratore, che nel frattempo aveva rassegnato le proprie dimissioni, aveva domandato l'accertamento dell'illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti deducendo il proprio interesse all'accertamento dell'inadempimento datoriale, ma non vi aveva collegato alcuna domanda di condanna o di accertamento del diritto al risarcimento del danno (Sez. L, n. 6749, Rv. 622515).

Secondo Sez. L, n. 20422, in corso di massimazione, l'interesse ad agire va distinto dall'asserita incoerenza o incompatibilità della domanda con le attività negoziali poste in essere con soggetti diversi (pur se i relativi rapporti sono collegati), di per sé indifferenti al concetto di cui all'art. 100 cod. proc. civ., per il semplice che rilievo che, essendo la transazione intercorsa con soggetti terzi, è inidonea ad incidere nella sfera giuridica dei soggetti che sono in giudizio.

Quando l'attore evochi in giudizio un entità priva di legitimatio ad processum, il giudizio s'intende instaurato nei confronti della persona fisica che in rappresentanza di tale entità sia stata erroneamente convenuta, la quale, pertanto, ha interesse a contraddire l'altrui domanda e a impugnare la pronuncia emessa nei suoi confronti (Sez. L, n. 2027, Rv. 620937).

L'art. 16, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 165 del 2001, nel precedere che i dirigenti degli uffici dirigenziali generali «promuovono e resistono alle liti», precisa il riparto di competenze tra organi di gestione e organi di governo, ma non modifica il criterio di individuazione dell'organo che rappresenta legalmente l'amministrazione nei giudizi, rientrando nell'ambito delle competenze dirigenziali i soli poteri sostanziali di gestione delle liti (in applicazione del principio, la S.C. ha affermato che unico legittimato ad agire in giudizio per conto dell'Università è il rettore, suo legale rappresentante, e ha cassato la decisione di merito che aveva attribuito la legittimazione al direttore amministrativo) (Sez. L, n. 5885, Rv. 621881).

In tema di competenza, si è affermato (Sez. L, n. 13530, Rv. 624110) che, nel rito del lavoro, si applica anche alle controversie introdotte dal datore di lavoro il principio secondo il quale i fori speciali esclusivi, alternativamente concorrenti tra loro, indicati dall'art. 413, secondo e terzo comma, cod. proc. civ., per individuare il giudice territorialmente competente in una controversia individuale di lavoro subordinato, sono tre, e cioè quello ove è sorto il rapporto; quello ove si trova l'azienda e quello della dipendenza ove il lavoratore è addetto (o prestava la sua attività lavorativa alla fine del rapporto), non consentendo la lettera della legge l'unificabilità dei fori nel luogo di svolgimento dell'attività lavorativa; né della legittimità costituzionale della disciplina può dubitarsi, attesa la discrezionalità del legislatore (v. Corte cost. n. 362 del 1985 e 241 del 1993) nella fissazione dei criteri di competenza territoriale.

Sempre con riferimento alla competenza per territorio, Sez. 6-L, n. 20091, in corso di massimazione, ha affermato, in tema di repressione della condotta antisindacale, che l'esercizio in via ordinaria ad opera di una organizzazione sindacale (nella specie, da parte dell'organizzazione nazionale e non del relativo organismo locale) di un'azione denunciante una condotta antisindacale con la richiesta di provvedimenti atti a far cessare quella condotta e i suoi effetti, a norma dello Statuto dei lavoratori, non soggiace al foro esclusivo e inderogabile del luogo della condotta a norma dell'art. 28 st. lav., ma al foro generale contemplato dall'art. 413, settimo comma, cod. proc. civ., essendo seguito dall'attore il rito ordinario per tutela dei diritti garantiti dall'art. 28 st. lav. e non lo speciale procedimento da tale norma previsto.

Particolarmente interessanti sono alcune sentenze che precisano la rilevanza giuridica delle condotte passive del convenuto, quali la non contestazione o l'acquiescenza.

Con riferimento al primo profilo, nel rito del lavoro le parti concorrono a delineare la materia controversa, così che, mentre la mancata contestazione del fatto costitutivo del diritto lo rende incontroverso, la mancata contestazione dei fatti dedotti in funzione probatoria opera sulla formazione del convincimento del giudice, sempre che tali dati fattuali, interessanti la domanda attrice, siano tutti esplicitati in modo esaustivo in ricorso. Ne consegue che è viziata la decisione con la quale il giudice di merito abbia ritenuto che il resistente avrebbe dovuto contestare non solo i dati di fatto esplicitati ma anche ulteriori circostanze solo implicitamente desumibili dalla pretese formulate e impropriamente definite fatti (Sez. L, n. 1878, Rv. 621111). Si è pure precisato ulteriormente che la mancata contestazione di un fatto costitutivo della domanda, ai sensi dell'art. 416, terzo comma, cod. proc. civ., esclude il fatto non contestato dal tema di indagine solo allorché il giudice non sia in grado, in concreto, di accertarne l'esistenza o l'inesistenza, ex officio, in base alle risultanze ritualmente acquisite (Sez. L, n. 5363, Rv. 621793).

Con riferimento al secondo profilo, secondo la sentenza Sez. L, n. 8537, Rv. 623140, l'acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi dell'art. 329 cod. proc. civ. (e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all'impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge), consiste nell'accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita, in presenza allora di atti assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione. Ne consegue che la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole, anche quando la riserva d'impugnazione non venga dalla medesima a quest'ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 329 cod. proc. civ. e 49 d. lgs. n. 546 del 1992, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione (in tema di adeguamento, da parte dell'amministrazione scolastica, della graduatoria permanente provinciale del personale A.T.A. in dipendenza della statuizione di primo grado e conferimento di supplenza annuale all'avente diritto sulla base della detta graduatoria, come modificata a seguito della pronuncia del giudice).

Quanto all'onere della prova dei fatti a base della pretesa contributiva, sul piano processuale si è precisato (Sez. L, n. 14965, Rv. 623620) che, nel giudizio promosso dal contribuente per l'accertamento negativo del credito previdenziale, incombe all'INPS l'onere di provare i fatti costitutivi della pretesa contributiva, che l'Istituto fondi su rapporto ispettivo. A tal fine, il rapporto ispettivo dei funzionari dell'ente previdenziale, pur non facendo piena prova fino a querela di falso, è attendibile fino a prova contraria, quando esprime gli elementi da cui trae origine (in particolare, mediante allegazione delle dichiarazioni rese da terzi), restando, comunque, liberamente valutabile dal giudice in concorso con gli altri elementi probatori.

In senso diverso e più tradizionale, si richiama Sez. L, n. 16917, Rv. 624120, secondo la quale, in tema di riparto dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., l'onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava sempre su colui che si afferma titolare del diritto stesso ed intende farlo valere, ancorché sia convenuto in giudizio di accertamento negativo, con la conseguenza che la sussistenza del credito contributivo dell'INPS, preteso sulla base di verbale ispettivo, deve essere comprovata dall'Istituto con riguardo ai fatti costitutivi; a tal fine, nel giudizio di opposizione, l'ente previdenziale può valersi anche dei verbali redatti dai suoi funzionari, i quali fanno fede fino a querela di falso circa i fatti attestati essere avvenuti in presenza del funzionario o da lui compiuti, mentre, per le altre circostanze di fatto che il verbalizzante segnali di aver accertato nel corso dell'inchiesta per averle apprese de relato o in seguito ad ispezione di documenti, la legge non attribuisce al verbale alcun valore probatorio precostituito, neppure di presunzione semplice, ma il materiale raccolto dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuirgli il valore di vero e proprio accertamento addossando all'opponente l'onere di fornire la prova dell'insussistenza dei fatti contestatigli.

Sempre in tema di riscossione di contributi e premi assicurativi, quanto al giudizio di opposizione a cartella esattoriale, la sentenza Sez. L, n. 14149 (Rv. 623367), ha affermato che il giudice dell'opposizione alla cartella esattoriale che ritenga illegittima l'iscrizione a ruolo (nella specie, ai sensi dell'art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 46 del 1999, per difetto di un provvedimento giudiziale esecutivo sull'impugnazione dell'accertamento) non può limitarsi a dichiarare tale illegittimità, ma deve esaminare nel merito la fondatezza della domanda di pagamento dell'istituto previdenziale, valendo gli stessi principî che governano l'opposizione a decreto ingiuntivo.

In relazione al rapporto tra giudizi diversi relativi a diversi periodi contributivi, Sez. L, n. 16844, Rv. 624047, ha affermato che l'art. 295 cod. proc. civ., nel prevedere la sospensione necessaria del giudizio civile quando la decisione "dipenda" dalla definizione di altra causa, allude ad un vincolo di stretta ed effettiva conseguenzialità fra due emanande statuizioni e quindi, coerentemente con l'obiettivo di evitare un conflitto di giudicati, non ad un mero collegamento fra diverse statuizioni, per l'esistenza di una coincidenza o analogia di riscontri fattuali o di quesiti di diritto da risolvere per la loro adozione (nella specie, la S.C. ha escluso la sospensione di un giudizio di opposizione a cartella esattoriale relativa a contributi previdenziali in ragione della pendenza in grado più avanzato tra le stesse parti di altro giudizio analogo relativo a diverso periodo contributivo, in ragione della autonomia dei procedimenti e della diversità di oggetto degli stessi).

In tema di spese nei giudizi previdenziali, importante per le sue implicazioni pratiche è la sentenza Sez. L, n. 5363, Rv. 621794, che ha precisato che, ai fini dell'esenzione dal pagamento di spese, competenze e onorari, nei giudizi per prestazioni previdenziali, la dichiarazione sostitutiva di certificazione delle condizioni reddituali, da inserire nelle conclusioni dell'atto introduttivo ex art. 152 disp. att. cod. proc. civ., sostituito dall'art. 42, comma 11, del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, è inefficace se non sottoscritta dalla parte, poiché a tale dichiarazione la norma connette un'assunzione di responsabilità non delegabile al difensore, stabilendo che "l'interessato" si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito.

2. Impugnazioni.

Il principio per cui la prima impugnazione costituisce il processo nel quale debbono confluire le eventuali impugnazioni di altri soccombenti, sicché l'appello principale successivo ad altro appello si converte in appello incidentale, è generale e si estende al processo del lavoro, anche in questo rito operando la conversione dell'impugnazione, purché sia rispettato il termine per l'appello incidentale ex art. 436 cod. proc. civ. Resta ammissibile, peraltro, ai sensi dell'art. 334 cod. proc. civ., l'impugnazione tardiva, anche a tutela di un interesse autonomo dell'impugnante incidentale, se il gravame principale investe una questione attinente all'interesse di tale parte (nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha ritenuto ammissibile l'impugnazione, in quanto tardiva, diretta ad individuare il soggetto passivo obbligato ad erogare l'assegno mensile di invalidità civile) (Sez. L, n. 2026, Rv. 621082).

L'impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, tutte le volte che quella principale metta in discussione l'assetto giuridico derivante dalla sentenza cui la parte non impugnante aveva prestato acquiescenza, sorgendo l'interesse ad impugnare, anche nelle cause scindibili, come nell'ipotesi di garanzia impropria, dall'eventualità che l'accoglimento dell'impugnazione principale modifichi tale assetto giuridico (fattispecie relativa a cessionario di un ramo di azienda: Sez. L, n. 5086, Rv. 621603).

Si è pure precisato in tema (Sez. L, n. 12515, Rv. 623391) che, nel giudizio promosso nei confronti di più condebitori in solido, la sentenza loro favorevole, passata in giudicato soltanto riguardo a taluno di essi per difetto di impugnazione, non può essere opposta dagli altri per impedire l'esame dell'impugnazione proposta nei loro confronti, né può essere rilevata dal giudice ai fini della declaratoria di preclusione dell'impugnazione medesima, non trovando applicazione l'art. 1306 cod. civ., che riguarda la diversa ipotesi in cui la sentenza sia stata resa in un giudizio, cui non abbiano partecipato i condebitori.

Interessante, in tema di nullità della domanda, è la sentenza Sez. L, n. 7097 (Rv. 622704) secondo la quale, nel rito del lavoro, la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda, implica l'interpretazione dell'atto introduttivo della lite riservata - salva la censurabilità in sede di legittimità per vizi della motivazione - al giudice del merito, il quale, in sede di appello, può trarre elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al giudice di primo grado di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia.

Con riferimento all'atto di appello, nel rito del lavoro, il termine di dieci giorni assegnato all'appellante dall'art. 435, comma secondo, cod. proc. civ., per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza non è perentorio e la sua inosservanza non comporta, perciò, alcuna decadenza, sempre che, come precisato dalla Corte Cost., ord. n. 60 del 2010, resti garantito all'appellato uno spatium deliberandi non inferiore a quello legale prima dell'udienza di discussione affinché questi possa approntare le sue difese, e purché non vi sia incidenza alcuna del comportamento della parte, in mancanza di differimento dell'udienza, sulla ragionevole durata del processo (Sez. L, n. 8685, Rv. 623117).

Sul tema, si è altresì affermato che la circostanza che l'appellante principale abbia ricevuto la notifica dell'appello incidentale meno di dieci giorni prima di quello fissato per la discussione, in violazione del termine di cui all'art. 436 cod. proc. civ., non rende inammissibile l'appello incidentale, se la comparsa di risposta sia stata comunque tempestivamente depositata, e la richiesta di notifica all'ufficiale giudiziario sia avvenuta prima dello spirare del termine suddetto. In tale ipotesi, tuttavia, poiché l'appellante principale ha comunque diritto a godere per intero del termine di dieci giorni per preparare la propria difesa, dinanzi all'eccezione di tardività della notifica dell'appello incidentale, è onere di chi l'abbia proposto chiedere al giudice la fissazione di un nuovo termine per rinnovarla, restando altrimenti inammissibile l'impugnazione incidentale ove manchi detta istanza (Sez. 3, n. 8723, Rv. 622781).

Particolarmente delicato in materia di impugnazioni è il problema del rapporto tra i poteri ufficiosi del giudice e le prerogative della parte (in relazione all'effetto devolutivo proprio del giudizio).

Così, con riferimento alla consulenza tecnica d'ufficio, il principio secondo il quale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito valutare l'opportunità di rinnovare le indagini peritali va coordinato con il principio dell'effetto devolutivo dell'appello, sicché, qualora l'appellante non abbia censurato la consulenza tecnica d'ufficio svolta in primo grado e anzi ne abbia posto le risultanze a fondamento del gravame, incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice di appello che disponga la rinnovazione delle operazioni peritali, derivandone la nullità della nuova consulenza e della sentenza che vi aderisca (Sez. L, n. 14338, Rv. 623494).

Con riferimento al rilievo d'ufficio della nullità, nel rito del lavoro, esso non può incidere sulle preclusioni e decadenze di cui agli art. 414 e 416 cod. proc. civ., ove, attraverso l'exceptio nullitatis, si introducano tardivamente in giudizio questioni di fatto ed accertamenti nuovi e diversi, ponendosi, una diversa soluzione, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. (Sez. L, n. 7751, Rv. 622888).

Con riferimento alla valutazione delle sopravvenienze, nell'ipotesi in cui la sentenza di primo grado, che riconosce all'assicurato una rendita per infortunio sul lavoro commisurata ad un certo grado di inabilità, sia impugnata dal solo istituto assicuratore, la regola dell'art. 149 disp. att. cod. proc. civ., che impone al giudice di valutare nelle controversie in materia di invalidità pensionabile gli aggravamenti della malattia e le infermità verificatesi nel corso del procedimento amministrativo e di quello giudiziario, non consente al giudice di appello di valutare, in favore dell'assicurato non appellante, eventuali aggravamenti incidenti sulla misura della rendita costituita in primo grado, essendo tale valutazione estranea all'oggetto del giudizio di impugnazione e preclusa dal divieto di reformatio in pejus della decisione appellata (Sez. L, n. 2028, Rv. 620958).

In materia istruttoria, nel rito del lavoro, e in particolare nella materia della previdenza e assistenza, stante l'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 cod. proc. civ., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può in via eccezionale ammettere, anche d'ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento (Sez. L, n. 6753, Rv. 622489). Nello stesso senso, ord., Sez. 6-L, n. 3506 (Rv. 621140), che ha precisato che la produzione in appello di nuovi documenti, muniti di speciale efficacia dimostrativa e ritenuti dal giudice indispensabili ai fini della decisione, non consente alla parte di introdurre in secondo grado nuove allegazioni di fatto, restandone altrimenti snaturato il giudizio di primo grado, che finirebbe con lo svolgersi sulla base di elementi parziali.

Sez. L, n. 13353, Rv. 624050, ammette nuovi documenti, su richiesta di parte o anche d'ufficio, solo nel caso in cui essi abbiano una speciale efficacia dimostrativa e siano ritenuti dal giudice indispensabili ai fini della decisione della causa, facendosi riferimento per «indispensabilità» delle nuove prove ad una loro «influenza causale più incisiva» rispetto alle prove in genere ammissibili in quanto «rilevanti», ovvero a prove che sono idonee a fornire un contributo decisivo all'accertamento della verità materiale per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che da sola considerata, e quindi a prescindere dal suo collegamento con altri elementi e da altre indagini, conduca ad un esito «necessario» della controversia.

Sulla valutazione di indispensabilità dei nuovi documenti, ai sensi dell'art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., si è poi precisato (Sez. L, n. 8877, Rv. 62274) che tale valutazione può risultare dalla motivazione della sentenza di appello, presupponendo unicamente che i nuovi documenti siano depositati con l'atto di appello ed indicati nell'elenco a corredo, senza che occorra una richiesta espressamente rivolta al giudice affinché ne autorizzi la produzione.

Con riferimento al giudizio di cassazione, la sentenza Sez. L, n. 15523, Rv. 624107, ha affermato che, in applicazione dell'art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ. - nella sua interpretazione letterale e logicofinalistica effettuata in conformità alla ordinanza delle Sezioni unite n. 19051 del 2010 (Rv. 614183) - deve essere dichiarato inammissibile, per contrasto con la suddetta disposizione, il ricorso per cassazione che non solo non è conforme allo schema di cui all'art. 360 cod. proc. civ. (e, per tale ragione, è inammissibile) ma le cui (inammissibili) censure sono prospettate sul presupposto della contestazione dell'interpretazione della normativa applicabile adottata dalla sentenza impugnata - conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità - senza però offrire elementi validi a modificare in ipotesi gli orientamenti espressi dalla suddetta giurisprudenza da essa seguita. Nel caso di specie, la sentenza esamina l'ipotesi di ricorso avverso sentenza che abbia deciso questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, e che sia formulato in modo da tale da muovere dal presupposto della contestazione dell'interpretazione della normativa applicabile adottata dalla sentenza impugnata senza però offrire clementi validi a modificare - in ipotesi - gli orientamenti espressi dalla suddetta giurisprudenza da essa seguita. In motivazione precisa la decisione che tale ipotesi non risulta esterna al perimetro applicativo dell'art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ., nella sua interpretazione letterale e logico-finalistica effettuata in conformità alla suindicata decisione delle Sezioni unite, in quanto corrisponde alla funzione di nomofilachia propria della Corte di cassazione, che la norma è tesa a rafforzare. In quest'ottica, la violazione dell'art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ. assume carattere prevalente rispetto alle altre ragioni di inammissibilità e il ricorso non può non essere dichiarato inammissibile a causa della suindicata violazione, in assenza della condizione che ha portato le Sezioni Unite ad affermare la necessità dell'adozione di una pronuncia di manifesta infondatezza, visto che il ricorso inammissibile non potrebbe in nessun caso essere esaminato nel merito e trovare accoglimento.

Sul tema dei motivi dei ricorso in cassazione, si è poi precisato (da Sez. L, n. 18551, in corso di massimazione) che la «violazione dei principî regolatori del giusto processo», di cui alla clausola n. 2 dell'art. 360 bis, non costituisce una nuova categoria di vizi denunciabili con il ricorso, accanto a quelli di cui all'art. 360, primo comma, cod. proc. civ., in quanto il legislatore ha unicamente segnato le condizioni per la sua rilevanza, mediante l'introduzione uno specifico strumento con funzione di "filtro", sicché sarebbe contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi denunciabili.

Interessante in tema anche la sentenza Sez. L, n. 20422, in corso di massimazione, secondo la quale il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo impone al giudice, ai sensi degli art. 175 e 127 cod. proc. civ., di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti. Ne deriva che l'istanza per la trattazione congiunta di una pluralità di giudizi relativi alla medesima vicenda, non espressamente contemplata dagli art. 115 e 82 disp. att. cod. proc. civ., deve essere sorretta da ragioni idonee ad evidenziare i benefici suscettibili di bilanciare gli inevitabili ritardi conseguiti all'accoglimento della richiesta, bilanciamento che dev'essere effettuato con particolare rigore nel giudizio di cassazione in considerazione dell'impulso d'ufficio che lo caratterizza. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la mancanza di sufficiente motivazione che caratterizzava l'istanza di rinvio e riunione - afferente a un ricorso per la cassazione di una sentenza di revocazione e ad altri due ricorsi per la cassazione di sentenze relative alla medesima vicenda - si traducesse in violazione del principio di lealtà e probità processuale sancito dall'art. 88 cod. proc. civ., con conseguente applicazione dell'art. 92, primo comma, ultima parte, cod. proc. civ.).

Da ultimo, in tema di giudicato, si è precisato (Sez. L, n. 5581, Rv. 621797) che la formazione del giudicato implicito richiede che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole implicitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, tale da determinare l'assoluta inutilità di una decisione sulla seconda questione; ne consegue che il giudicato esplicito sulla domanda di risarcimento da mancata retribuzione non preclude al lavoratore la domanda di risarcimento da mancata contribuzione, trattandosi di domande che, pur unificate da una comune istanza risarcitoria, sono dirette al conseguimento di beni giuridici distinti e si fondano su fatti costitutivi autonomi.

3. Overruling.

Diverse pronunce hanno riguardato l'overruling, ossia i mutamenti di giurisprudenza. Sulla scia della pronuncia delle sezioni unite n. 15444 del 2011, con specifico riferimento alla materia del lavoro e della previdenza, ha fatto applicazione del principio la sentenza Sez. L, n. 7755 (Rv. 623141).

Ad essa si affiancano le sentenze Sez. L, n. 12704 (Rv. 623370) e Sez. L, n. 3042 (Rv. 621199): tutte queste decisioni sono già stata richiamate ante, e dunque a tale sede si rinvia (cfr. cap. XXIV, § 5.4).

  • vendita
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO XXIX

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 Interpretazione extratestuale del titolo esecutivo. - 2 Vendita forzata e stabilità dell'acquisto. - 3 Ulteriori questioni.

1. Interpretazione extratestuale del titolo esecutivo.

Tra le decisioni della Suprema Corte aventi ad oggetto la disciplina di cui al terzo libro del codice di procedura civile merita di essere immediatamente rimarcata Sez. Un., n. 11066, Rv. 622929, secondo cui il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell'art. 474, secondo comma, n. 1, cod. proc. civ., non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l'obbligo da eseguire, essendo consentita l'interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato. Ne consegue che il giudice dell'opposizione all'esecuzione non può dichiarare d'ufficio la illiquidità del credito, portato dalla sentenza fatta valere come titolo esecutivo, senza invitare le parti a discutere la questione e a integrare le difese, anche sul piano probatorio (la sentenza è richiamata pure al cap. XXIV, § 3.2).

In tal modo, le Sezioni Unite hanno composto il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità intorno a due correlate questioni: la prima riguardava l'autosufficienza del titolo esecutivo giudiziale, che un orientamento intendeva in senso assoluto e letterale ed altra opinione reputava, viceversa, compatibile con l'interpretazione extratestuale del provvedimento, fondata sugli elementi ritualmente acquisti nel giudizio a quo; la seconda investiva il regime del vizio di illiquidità del titolo esecutivo, che, per alcune pronunce, il giudice dell'opposizione all'esecuzione avrebbe dovuto rilevare d'ufficio, trattandosi di vizio attinente a una condizione necessaria dell'azione esecutiva, e che, per altro indirizzo, sarebbe rimasto, invece, soggetto ai principî della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La menzionata sentenza ha coordinato la risoluzione delle descritte questioni nella prospettiva dell'effettività della tutela giurisdizionale e dell'economia dei mezzi processuali.

In particolare, in ordine alla prima di esse, ha stabilito che la sentenza, fatta valere quale titolo esecutivo, può essere integrata sulla base degli elementi extratestuali acquisiti nel processo a quo, così da non imporre al creditore l'attivazione di ulteriori mezzi cognitivi (in particolare, quello monitorio).

Quanto alla seconda, ha escluso che il giudice dell'opposizione all'esecuzione possa rilevare d'ufficio l'incompletezza del titolo, senza invitare le parti a contraddire in merito, potendo emergere dal contraddittorio elementi utili all'integrazione del documento.

Si è perciò valorizzato il precetto del clare loqui, rimarcando come le soluzioni offerte esigano il "parlare chiaro" di entrambi i soggetti del rapporto, con specifico riferimento alle indicazioni del precetto, da un lato, ed ai motivi delle eventuali opposizioni, dall'altro.

In definitiva, proprio nell'alveo delle opposizioni all'esecuzione - oltre che nell'ambito di esercizio del potere di controllo del giudice dell'esecuzione - le Sezioni Unite hanno individuato la sede naturale del contraddittorio diretto a vincere l'incertezza testuale del documento giudiziario ed a chiarire l'estensione del titolo che vi è incorporato.

Ancora in tema di interpretazione del titolo esecutivo, va segnalata Sez. 3, n. 10865, Rv. 623102, secondo cui nella procedura di esecuzione per consegna o rilascio, posto che scopo della medesima è il trasferimento del potere di fatto sul bene indicato nel titolo dall'esecutato all'esecutante, di talché il suo effetto consiste in una modificazione della situazione materiale, il giudice dell'esecuzione è privo della potestà di risolvere questioni giuridiche in ordine al diritto di procedere in executivis ed il suo ambito di intervento è limitato alla soluzione di problemi pratici relativi al modus procedendi in concreto necessario per adeguare la realtà fattuale al comando da eseguire. Ne consegue che le "difficoltà", le quali, a norma dell'art. 610 cod. proc. civ., abilitano le parti e l'ufficiale giudiziario a sollecitare al giudice provvedimenti temporanei, possono implicare, per la loro soluzione, anche l'interpretazione del titolo esecutivo, ai fini dell'individuazione della sua portata soggettiva o dell'identificazione dei beni, ma esclusivamente in vista dell'attuazione della tutela esecutiva.

2. Vendita forzata e stabilità dell'acquisto.

Certamente non può sottacersi, poi, Sez. Un., n. 21110 (Rv. 624256), pronunciatasi, ex art. 363, terzo comma, cod. proc. civ., sulla questione - di particolare importanza, in presenza di un conflitto tra due posizioni giuridiche, quella di chi ha subito un procedimento di esecuzione forzata, che non avrebbe dovuto aver luogo, e quella di chi, in buona fede, ha acquistato l'immobile in base ad una procedura svoltasi secondo canoni legali, apparentemente ineccepibili: posizioni entrambe in astratto meritevoli di tutela e, tuttavia, tra loro inconciliabili - concernente lo stabilire se, o fino qual punto, l'ordinamento garantisca stabilità al diritto di chi si sia reso aggiudicatario all'esito di una vendita forzata, ove, a seguito di opposizione proposta dall'interessato a norma dell'art. 615 cod. proc. civ., risulti poi accertata l'inesistenza del titolo esecutivo in forza del quale quella vendita era stata disposta.

Giova, in proposito, premettere che, secondo una prima opzione interpretativa, una volta che nel corso del procedimento esecutivo fosse avvenuta l'aggiudicazione, l'acquisto del terzo aggiudicatario era travolto dall'accertata esistenza di vizi tali da legittimare l'opposizione all'esecuzione: da tutti quei vizi, cioè, che riguardavano l'an della procedura esecutiva, e non le sue forme o modalità.

Per un secondo orientamento, invece, l'acquisto del terzo aggiudicatario non poteva essere caducato dall'accertata inesistenza del titolo esecutivo in base al quale era stata iniziata l'esecuzione: sia perché l'ordinamento tutela sempre l'affidamento del terzo incolpevole; sia perché se così non fosse ne sarebbe disincentivata la partecipazione alle aste giudiziarie, con pregiudizio per i creditori.

Orbene, le Sezioni Unite, nel dirimere tale contrasto ed individuare, così, quale dei due descritti interessi contrapposti fosse meritevole di maggior tutela, hanno statuito - in ciò confortate dal rilievo che il nuovo art. 187 bis disp. att. cod. proc. civ., introdotto dal decreto-legge n. 35 del 2005 (secondo cui in ogni caso di estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l'aggiudicazione, anche provvisoria, o l'assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o assegnatari, in forza dell'art. 632, secondo comma, del codice, gli effetti di tali atti), sarebbe norma che ha prodotto "ricadute di carattere sistematico" - che il sopravvenuto accertamento dell'inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l'esercizio dell'azione esecutiva non fa venir meno l'acquisto dell'immobile pignorato, che sia stato compiuto dal terzo nel corso della procedura espropriativa in conformità alle regole che disciplinano lo svolgimento di tale procedura, salvo che sia dimostrata la collusione del terzo col creditore procedente, fermo peraltro restando il diritto dell'esecutato di far proprio il ricavato della vendita e di agire per il risarcimento dell'eventuale danno nei confronti di chi, agendo senza la normale prudenza, abbia data corso al procedimento esecutivo in difetto di un titolo idoneo.

3. Ulteriori questioni.

Vanno altresì menzionate Sez. Un., n. 5994, Rv. 621916, che, ribadendo quanto già affermato da Sez. Un., n. 9840 del 2011, ha sancito che l'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ., diretta a far valere vizi della cartella di pagamento emessa in esito ad iscrizione a ruolo del contributo unificato, previsto dall'art. 9 del d.P.R. n. 115 del 2002, rientra nella giurisdizione del giudice tributario, atteso che il contributo unificato ha natura di entrata tributaria, ed ha precisato, altresì, che il controllo delle cartelle esattoriali, configurabili come atti di riscossione e non di esecuzione forzata, spetta a quel giudice quando le cartelle riguardino tributi, e Sez. 3, n. 10878, Rv. 623176, che ha ritenuto ammissibile la proposizione di una opposizione di terzo nel corso dell'esecuzione che si svolga con le forme del pignoramento presso terzi, considerando parimenti ammissibile la proposizione della detta opposizione in epoca successiva alla emanazione di un'ordinanza di assegnazione da parte del giudice dell'esecuzione.

Interessanti appaiono, infine, atteso lo scopo di questa rassegna e le peculiarità delle fattispecie concretamente affrontate, altre tre decisioni.

Sez. 3, n. 12814, Rv. 623420, ha affermato che la speciale opposizione avverso il provvedimento di fissazione del giorno di esecuzione della condanna del conduttore al rilascio, previsto dal comma terzo dell'articolo 56 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (come sostituito dall'art. 7 bis del d.l. 13 settembre 2004, n. 240, convertito con modificazioni in legge 12 novembre 2004, n. 269) non è soggetta al termine di proponibilità dell'opposizione agli atti esecutivi e può essere proposta, in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, fino a quando il termine stesso non sia spirato.

Secondo Sez. 3, n. 7267, Rv. 622615, la previsione di cui all'art. 572, terzo comma, cod. proc. civ., la quale vieta al giudice dell'esecuzione di procedere alla vendita se, in presenza di un'offerta inferiore al valore dell'immobile, vi si opponga il creditore procedente, è dettata unicamente a tutela di quest'ultimo, conseguendone, pertanto, che il debitore esecutato è privo di interesse ex art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., a dolersi della violazione di essa.

Sez. 3, n. 23625 (in corso di massimazione), ha sancito, in tema di espropriazione mobiliare presso il debitore, che l'art. 513 cod. proc. civ. pone una presunzione di appartenenza al debitore dei beni che si trovano nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti: pertanto, poiché l'attività svolta dall'ufficiale giudiziario in sede di pignoramento mobiliare è meramente esecutiva, deve ritenersi preclusa al medesimo qualsiasi valutazione giuridica dei titoli di appartenenza dei beni da sottoporre al pignoramento, rimanendo a disposizione degli eventuali terzi proprietari lo strumento processuale dell'opposizione di terzo all'esecuzione.

Non è superfluo, da ultimo, ricordare, attesa la loro generalizzata portata applicativa, Sez. 3, n. 14812, Rv. 623606, a tenore della quale, tutti i provvedimenti del giudice dell'esecuzione, dichiarativi dell'estinzione del processo, sono soggetti al controllo previsto dall'art. 630 cod. proc. civ. (e cioè il reclamo al collegio, il quale provvede con decreto che ha natura di sentenza appellabile, e non ricorribile per cassazione), a nulla rilevando la causa dell'estinzione, nonché - anche in ragione della novità della questione affrontata - la recente Sez. 6-3, n. 22838 (in corso di massimazione), secondo cui, nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi, ai fini dell'applicazione del termine lungo per la impugnazione della sentenza che lo ha concluso, ridotto a sei mesi dalla novella di cui alla legge n. 69 del 2009, non si tiene conto del momento in cui è iniziata la fase sommaria, destinata a concludersi con un provvedimento non impugnabile, bensì della data di introduzione del relativo giudizio di merito.

E parimenti degna di menzione, non rinvenendosi precedenti specifici sul punto, risulta Sez. 3, n. 23993 (in corso di massimazione), che, interrogandosi sulla revocabilità, o meno, del progetto di distribuzione approvato nel corso di un processo di espropriazione immobiliare, ha concluso - previa armonizzazione delle affermazioni, solo apparentemente incompatibili, secondo cui, da un lato, è atto idoneo a definire il processo per espropriazione immobiliare l'approvazione del progetto di distribuzione ovvero l'ordine impartito dal giudice dell'esecuzione al cancelliere; dall'altro, l'ordinanza di distribuzione e di attribuzione riceve concreta attuazione soltanto con il mandato di pagamento compilato dal cancelliere e riscosso dall'avente diritto - per la soluzione positiva fino a che detto progetto non abbia avuto esecuzione ex art. 487 cod. proc. civ., vale a dire fino a quando il cancelliere non abbia emesso i mandati di pagamento e questi non siano stati riscossi, rivelandosi tale statuizione in linea sia con la dottrina che ritiene non revocabili soltanto le ordinanze che, chiudendo la procedura esecutiva, assumano carattere satisfattorio, sia con gli arresti giurisprudenziali che hanno sancito la irrevocabilità dell'ordinanza di assegnazione ex art. 553 cod proc. civ.: infatti, l'ordine di pagamento che, nella procedura esecutiva immobiliare, segue l'approvazione del progetto di distribuzione ex art. 598 cod. proc. civ. non può dirsi satisfattivo se non dopo che abbia avuto concreta esecuzione.

Da ultimo, si impone, attesa l'utile specificazione resa con riferimento alle concrete finalità del giudizio di opposizione di terzo all'esecuzione, la segnalazione di Sez. 3, n. 19761 (in corso di massimazione), secondo cui è pienamente ammissibile l'azione, quand'anche qualificata opposizione ai sensi dell'art. 619 cod. proc. civ., che il terzo estraneo alla procedura esecutiva immobiliare abbia dispiegato, anche in tempo successivo all'aggiudicazione od al decreto di trasferimento, per fare prevalere il proprio diritto reale immobiliare nei confronti del debitore originario, del creditore procedente e degli eventuali aggiudicatari del bene oggetto del suo diritto: atteggiandosi tale azione, benché non più idonea ad incidere utilmente sul corso della procedura esecutiva, come rivendicazione, con efficacia di giudicato, del bene immobile pignorato ed aggiudicato nei confronti del debitore o degli eventuali aggiudicatari.

La medesima sentenza, peraltro, ha anche affermato principî senz'altro rilevanti con riguardo alla disciplina generale del credito fondiario, sia chiarendo che l'acquirente di un immobile ipotecato a garanzia della restituzione di un credito fondiario, se intende avere contezza e partecipare ad eventuali futuri giudizi di esecuzione forzata sull'immobile, ha l'onere, ai sensi dell'art. 20 del r.d. 16 luglio 1905, n. 646, di notificare il suo acquisto alla banca mutuante, in difetto divenendo a lui opponibile l'aggiudicazione dell'immobile poi disposta all'esito della procedura esecutiva iniziata o coltivata dalla banca mutuante nei confronti dell'originario debitore, anche se l'avente di causa di questi non vi abbia partecipato; sia riconoscendo alla banca mutuante, laddove il suo credito fondiario sia assoggettato ratione temporis al r.d. 16 luglio 1905 n. 646, la facoltà di poter sempre intervenire nel processo esecutivo iniziato da terzi nei confronti del mutuatario, a nulla rilevando che il creditore principale vanti nei confronti dell'esecutato un credito di natura non fondiaria.

  • procedimento giudiziario
  • ingiunzione
  • sfratto

CAPITOLO XXX

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Eduardo Campese )

Sommario

- 1 Il procedimento per ingiunzione. - 2 Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. - 3 I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. - 4 Il procedimento sommario di cognizione. - 5 I procedimenti camerali. - 6 Gli altri procedimenti speciali.

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Nel corso del 2012 si sono registrate numerose decisioni della Suprema Corte aventi ad oggetto i procedimenti speciali di cui al libro quarto del Codice di procedura civile. Al fine di consentirne un adeguato apprezzamento, quindi, si reputa qui opportuno procedere ad una loro trattazione distinta con riferimento a ciascuna delle tipologie procedimentali disciplinate dal menzionato libro del codice di rito.

1. Il procedimento per ingiunzione.

Meritano di essere immediatamente segnalate due pronunce, Sez. 2, n. 2242, Rv. 621441, e Sez. 1, n. 7792, Rv. 622424, con cui i Giudici di legittimità hanno dato la prima applicazione alla legge 29 dicembre 2011, n. 218, tramite la quale il legislatore ha posto definitivamente fine ad una questione che aveva suscitato scalpore ed allarme tra gli operatori pratici, vale a dire quella afferente la determinazione del termine per la costituzione in giudizio dell'opponente a decreto ingiuntivo.

Come si ricorderà, tale questione era sorta in seguito alla statuizione delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 19246 del 2010, Rv. 614394 - la quale aveva sancito che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la previsione della riduzione a metà dei termini a comparire, stabilita nell'art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., determina il dimezzamento automatico dei termini di comparizione dell'opposto e dei termini di costituzione dell'opponente, discendendo tale duplice automatismo della mera proposizione dell'opposizione con salvezza della facoltà dell'opposto, che si sia costituito nel termine dimidiato, di richiedere ai sensi dell'art. 163 bis, terzo comma, cod. proc. civ., l'anticipazione della prima udienza di trattazione - le cui conseguenze applicative si presentavano evidentemente gravi, innanzitutto, in una prospettiva squisitamente giuridica, potendo vanificare l'effettività della tutela giurisdizionale per tutti coloro i quali avevano proposto opposizioni a decreti ingiuntivi ma non si erano costituiti nei termini ridotti a metà; di riflesso, poi, sotto un profilo economico, atteso che opposizioni pure potenzialmente fondate nel merito rischiavano di essere dichiarate improcedibili per una imprevedibile ragione procedurale, esponendo, così, gli opponenti alla definitiva condanna al pagamento delle somme portate dalle ingiunzioni opposte.

La stessa Corte, del resto, già con la sentenza n. 2427 del 2011, Rv. 616485, aveva sostanzialmente cercato di ridurre al minimo i predetti rischi chiarendo che il principio secondo cui le questioni attinenti alla regolare costituzione del rapporto processuale sono rilevabili d'ufficio anche nel giudizio di legittimità va coordinato con i principî di economia processuale e di ragionevole durata del processo, che comportano un applicazione in senso restrittivo e residuale di tale rilievo officioso, conseguendone che le questioni suddette devono ritenersi coperte dal giudicato implicito allorché siano state ignorate dalle parti nei precedenti gradi di giudizio (essendosi il contraddittorio incentrato sul merito della controversia) e su esse non si sia pronunciato il giudice di merito.

Ciò aveva reso, allora, necessario l'intervento del legislatore che, con la legge 29 dicembre 2011, n. 218, composta di due articoli, aveva sancito, con il primo di essi, la modifica dell'art. 645 cod. proc. civ. (dal quale è stato espunto l'inciso «ma i termini di comparizione sono ridotti a metà», di modo tale che, in base alla norma come novellata, l'opponente non può più autonomamente assegnare all'opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all'art. 163 bis, primo comma, cod. proc. civ., secondo quella che era dalla giurisprudenza riconosciuta come una sua facoltà; il termine di comparizione dell'opposto può essere ora ridotto solo ai sensi dell'art. 163 bis, secondo comma, cod. proc. civ.), e, con il secondo, nel fornire l'interpretazione autentica dell'art. 165 cod. proc. civ. in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva stabilito che nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, l'art. 165, primo comma, si interpreta nel senso che la riduzione del termine di costituzione dell'attore ivi prevista si applica, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, solo se l'opponente abbia assegnato all'opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all'art. 163 bis, primo comma, del medesimo codice.

Proprio nei medesimi termini di tale ultima normativa, quindi, si è pronunciata Sez. 2, n. 2242, Rv. 621441, a cui si è successivamente uniformata Sez. 1, n. 7792, Rv. 622424, che ha, peraltro, ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del menzionato art. 2, ivi formulata sotto il duplice profilo della sua irragionevolezza e dell'applicazione retroattiva di detta norma, statuendo che, nella materia civile, sono pienamente legittime disposizioni retroattive, non solo interpretative, ma anche innovative, se giustificate sul piano della ragionevolezza e non contrastanti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, come la norma in questione, che non realizza un'indebita intrusione del legislatore nei procedimenti in corso, né un irragionevole attentato ai diritti del giusto processo.

Parimenti degne di attenzione, poi, in quanto contribuiscono a definire la concreta delimitazione del giudizio ex art. 645 cod. proc. civ., in particolare modo allorquando esso si concluda con una statuizione di incompetenza, ed ad individuare la forma di questo provvedimento nonché la reale natura del procedimento eventualmente instauratosi successivamente innanzi al giudice indicato come competente, si rivelano Sez. 6-2, ord. n. 14594, Rv. 623562, e Sez. 1, n. 11265, Rv. 623062.

La prima merita rilievo perché, interpretando l'art. 279 cod. proc. civ., nel testo novellato dall'art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha ritenuto che la previsione della forma terminativa dell'ordinanza, di cui alla suddetta disposizione, non si applica al provvedimento con cui il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, dichiari la carenza di competenza dell'autorità giurisdizionale che emise il decreto in via monitoria.

Tale convincimento è stato giustificato assumendosi che una siffatta statuizione non è una decisione soltanto sulla competenza, ma presenta un duplice contenuto, di accoglimento in rito dell'opposizione per incompetenza e dichiarativo della nullità del decreto. È comunque opportuno precisare, in generale, che l'emanazione da parte del giudice, per definire il processo dinanzi a lui pendente per ragioni di incompetenza, di una sentenza anziché di un'ordinanza non determina la nullità del provvedimento decisorio adottato, non essendo questa comminata dalla legge e non comportando l'inosservanza di quella prescrizione formale violazione alcuna dei principî regolatori del giusto processo.

La seconda, invece, ha stabilito che qualora alla data di notificazione di un decreto ingiuntivo sia pendente, davanti ad altro giudice, una diversa domanda la cui causa petendi sia (in tutto o in parte) identica a quella della domanda proposta nel procedimento monitorio, e nel cui petitum sia contenuto quello della domanda monitoria, il giudice dell'opposizione al decreto ingiuntivo è tenuto, con pronuncia esaustiva della sua competenza funzionale, a dichiarare la propria incompetenza, la nullità del decreto ingiuntivo ed a rimettere la causa al primo giudice. L'eventuale tempestiva riassunzione della causa innanzi al giudice dichiarato competente non può essere riferita al detto giudizio ma, in quanto svincolata dal decreto ingiuntivo ormai invalido e dai profili relativi all'azione speciale, deve essere considerata idonea ad investire il giudice indicato come competente esclusivamente dell'azione del creditore in quanto soggetta alle regole della cognizione ordinaria, per cui, nel giudizio che segue alla riassunzione sono, quindi, anche improponibili le questioni attinenti alla tempestività dell'opposizione, pregiudiziali alla questione di competenza.

Di particolare interesse, inoltre, è certamente Sez. 3, n. 3979, Rv. 621621, che, in tema di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 649 cod. proc. civ., ha ritenuto che la natura di cautela in senso lato di tale provvedimento consente di applicare la normativa sul cosiddetto procedimento cautelare uniforme e, pertanto, anche l'art. 669 sexies cod. proc. civ., nella parte in cui permette l'adozione di provvedimenti prima dell'instaurazione del contraddittorio sull'istanza cautelare stessa, salva loro conferma o modifica o revoca a contraddittorio pieno.

Giova in proposito ricordare che già la Corte costituzionale, da ultimo con la sentenza del 20 luglio 2007, n. 306, aveva avuto modo di utilizzare la definizione di «natura latamente cautelare» discorrendo della natura delle ordinanze ex art. 648 e 649 cod. proc. civ., contestualmente disattendendo una eccezione di illegittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 24 della Costituzione, dell'art. 648, nella parte in cui, in combinato disposto con l'art. 649, prevede la non impugnabilità e quindi la non revocabilità e non modificabilità dell'ordinanza che concede la provvisoria esecuzione (o sospende quella concessa ai sensi dell'art. 642 cod. proc. civ.), a differenza di quanto è previsto dagli articoli 186 bis e 186 ter con riguardo alle ordinanze per il pagamento di somme non contestate ed a quelle ingiuntive e, da ultimo, dall'art. 624, comma secondo, cod. proc. civ.

Fermo quanto precede, ragioni di completezza impongono comunque di sottolineare che la conclusione in termini di utilizzabilità, quanto all'ordinanza ex art. 649, delle norme sul procedimento cautelare uniforme lascia impregiudicata la perplessità derivante dalla circostanza che l'art. 669 quaterdecies, nell'estendere l'ambito di applicazione di dette norme, si riferisce esclusivamente «ai provvedimenti previsti nelle sezioni II, III e V di questo capo [sequestri, denunce di nuova opera e di danno temuto; provvedimenti di urgenza, ndr], nonché, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile [e non quindi da quello di rito, ndr] e dalle leggi speciali», così da rendere non implausibile l'assunto secondo cui l'art. 649 prevede solo il potere di sospendere, con efficacia ex nunc, la provvisoria esecutorietà concessa al decreto ingiuntivo ex art. 642 e che la possibilità di revoca sia, altresì, esclusa, in virtù della natura (soltanto sommaria ma) non propriamente cautelare dei provvedimenti in esame.

Sez. Un. n. 10132, Rv. 622751, poi, sebbene pronunciata in sede di regolamento di giurisdizione in una controversia, ex art. 645 cod. proc. civ., tra la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, ente privatizzato ex art. 1 del d.lgs. n. 509 del 1994, e l'agente di riscossione dei contributi degli iscritti, che aveva omesso il riversamento degli importi a ruolo, ha avuto modo di confermare che l'ordinanza con la quale il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo concede la provvisoria esecuzione, ai sensi dell'art. 648 cod. proc. civ., non ha carattere definitivo e decisorio, potendo essere modificata e revocata dal giudice che l'ha emessa ed è, pertanto, inidonea a contenere una statuizione sulla giurisdizione sulla quale possa formarsi il giudicato, così conseguendone che l'emissione di tale ordinanza non preclude l'istanza di regolamento preventivo di giurisdizione.

Orbene, non sembra che, alla luce di tale statuizione, possa fondatamente porsi in discussione la circostanza che, proprio per la espressa definizione come non impugnabile della menzionata ordinanza riportata nell'art. 648 cod. proc. civ., il riferimento alla sua modifica o revoca debba qui essere interpretato (pena la violazione dell'art. 177, terzo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui qualifica come non modificabili, né revocabili, le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge) esclusivamente nel senso che tanto possa avvenire soltanto con la sentenza che definisca il giudizio all'interno del quale essa è stata pronunciata.

Appaiono, invece, ribadire orientamenti consolidati - ciò malgrado, se ne fa menzione in questa sede perché espressioni di un aspetto (il fornire indirizzi interpretativi costanti, laddove ciò sia ipotizzabile, per mantenere, nei limiti del possibile, l'unità dell'ordinamento giuridico attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza) di quell'attività di nomofilachia propria della Suprema Corte, nonché per le finalità agevolmente desumibili dall'art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ. - Sez. 1, n. 3649, Rv. 621973, e VI-L, ord. n. 11447 (non massimata), secondo cui l'opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza delle pretese fatte valere dall'ingiungente opposto e delle eccezioni e difese dell'opponente e non già stabilire se l'ingiunzione sia stata o no legittimamente emessa, salvo che ai fini esecutivi o per le spese della fase monitoria, per cui la eventuale insussistenza delle condizioni per l'emissione del decreto ingiuntivo (tranne che per ragioni di competenza) non può essere d'ostacolo al giudizio di merito che s'instaura con l'opposizione; ed altrettanto dicasi quanto a Sez. 6-3, ord. n. 6511, Rv. 622319, a tenore della quale nel caso di continenza tra una causa introdotta col rito ordinario ed una introdotta col rito monitorio, ai fini dell'individuazione del giudice preventivamente adìto il giudizio introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo deve ritenersi pendente alla data di deposito di quest'ultimo, trovando applicazione il criterio di cui all'ultimo comma dell'art. 39 cod. proc. civ., come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, senza che rilevi la circostanza che l'emissione del decreto e la sua notifica siano avvenuti successivamente, agli effetti dell'art. 643, terzo comma, cod. proc. civ.; nonché con riguardo a Sez. 1, n. 10386, Rv. 623169, che ha ancora una volta affermato che, ai fini della legittimità dell'opposizione tardiva a decreto ingiuntivo (di cui all'art. 650 cod. proc. civ.), non è sufficiente l'accertamento dell'irregolarità della notificazione del provvedimento monitorio, ma occorre, altresì, la prova - il cui onere incombe sull'opponente - che a causa di detta irregolarità egli, nella qualità di ingiunto, non abbia avuto tempestiva conoscenza del suddetto decreto e non sia stato in grado di proporre una tempestiva opposizione.

Tale prova, peraltro, deve considerarsi raggiunta ogni qualvolta, alla stregua delle modalità di esecuzione della notificazione del richiamato provvedimento, sia da ritenere che l'atto non sia pervenuto tempestivamente nella sfera di conoscibilità del destinatario, mentre, laddove la parte opposta intenda contestare la tempestività dell'opposizione tardiva di cui all'art. 650 cod. proc. civ., in relazione alla irregolarità della notificazione così come ricostruita dall'opponente, sulla stessa ricade l'onere di provare il fatto relativo all'eventuale conoscenza anteriore del decreto da parte dell'ingiunto che sia in grado di rendere l'opposizione tardiva intempestiva e, quindi, inammissibile.

Merita, infine, di essere segnalata Sez. 3, n. 7526, Rv. 622365, in cui si è affermato che, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo soggetta al rito del lavoro (nella specie, per controversia in materia di locazione), qualora l'opponente in ricorso formuli istanza di chiamata in causa di terzo ed il giudice, nel decreto di fissazione dell'udienza di discussione, non riservi di provvedere in merito, deve intendersi implicitamente autorizzata la chiamata medesima, cui l'opponente provvederà notificando al terzo il ricorso in opposizione ed il decreto di fissazione dell'udienza; se il creditore opposto non si duole che la chiamata sia stata autorizzata senza consentirgli di interloquire e se il terzo chiamato lamenti che il ricorso in opposizione non gli consenta di intendere le ragioni azionate in monitorio, lo scopo è raggiunto ai sensi dell'art. 156, terzo comma, cod. proc. civ. e la chiamata del terzo va considerata rituale. Con tale pronuncia la Corte sembra aver voluto, in buona sostanza, adattare alle peculiarità proprie del rito locatizio il proprio insegnamento già reso, in una controversia soggetta al rito ordinario di cognizione, con Sez. 3, n. 4800 del 2007, Rv. 596382, sostanzialmente ammettendo la possibilità che l'autorizzazione per la richiesta di chiamata in causa di un terzo possa qui essere resa dal Giudice anche in modo implicito.

2. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto.

Tra le pronunce della Suprema Corte intervenute, nell'anno in rassegna, in tema di procedimento per convalida di licenza o sfratto, merita di essere rimarcata Sez. 3, n. 3696, Rv. 621626, con cui i Giudici di legittimità, affrontando il quesito di diritto attinente alla individuazione del termine entro e non oltre il quale nell'ambito del suddetto procedimento il conduttore intimato può proporre eccezioni e/o domande riconvenzionali (id est se tale termine debba essere individuato nell'emissione dell'ordinanza di mutamento del rito, di cui al combinato disposto degli art. 667 e 426 cod. proc. civ. ovvero nel termine perentorio che il giudice, nel disporre il mutamento del rito ex art. 667 cod. proc. civ., deve assegnare alle parti ex art. 426 cod. proc. civ.), ha inteso dare continuità all'indirizzo secondo cui, nel procedimento per convalida di sfratto o finita locazione l'intimato, che non ha l'onere di costituirsi in cancelleria potendosi presentare all'udienza fissata per la convalida anche personalmente, con la memoria integrativa depositata all'esito del mutamento del rito e passaggio alla fase di pieno merito, potrà proporre domanda riconvenzionale unitamente all'istanza di fissazione di nuova udienza di discussione ai sensi dell'art. 418 cod. proc. civ., poiché l'art. 660, terzo comma, cod. proc. civ., esclude espressamente, per l'intimazione per la convalida, «l'invito o l'avvertimento al convenuto previsti nell'art. 163, 3º comma, n. 7, cod. proc. civ.».

È palese che l'orientamento così ribadito miri essenzialmente a garantire il concreto esplicarsi del diritto di difesa, in particolare armonizzandolo con la facoltà della parte intimata di poter partecipare alla fase sommaria anche senza l'assistenza di un difensore.

Sez. 3, n. 5540, Rv. 622360, invece, ha confermato che in tema di locazione di immobili urbani, il conduttore che, convenuto in un giudizio di sfratto per morosità, abbia richiesto la concessione del c.d. termine di grazia, manifesta implicitamente, per ciò solo, una volontà incompatibile con quella di opporsi alla convalida, sicché al mancato adempimento nel termine fissato dal giudice consegue ipso facto l'emissione da parte di questi dell'ordinanza di convalida ex art. 663 cod. proc. civ.

Non può sottacersi, peraltro, che l'obbligazione di pagamento del canone, in mancanza di diversa pattuizione, deve essere adempiuta al domicilio del creditore al tempo della scadenza, e perciò il rischio di ritardo o mancata ricezione resta a carico del debitore, in quanto attiene alla fase preparatoria del pagamento stesso.

Sicuramente degna di menzione, poi, risulta Sez. 3, n. 15933, Rv. 623693, che ha affrontato, a quanto consta per la prima volta, il problema attinente il profilo della liquidazione delle spese in un procedimento per convalida di sfratto nel quale l'intimante non sia comparso all'udienza indicata nell'atto di citazione e l'intimato, ivi presente, ne abbia chiesto la condanna alla loro refusione.

La Corte ha, nell'occasione, statuito che, in siffatta ipotesi, è impugnabile con l'appello, e non con il ricorso straordinario per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice, ai sensi dell'art. 662 cod. proc. civ., dichiarata la estinzione del processo, pone le spese di giudizio a carico dell'intimante, trattandosi di provvedimento decisorio di merito in relazione al quale manca - a differenza di quanto previsto dall'art. 306, quarto comma, cod. proc. civ. - una espressa previsione di non impugnabilità.

Altrettanto interessante appare, altresì, Sez. 3, n. 16528 (in corso di massimazione), che, tra l'altro, ha ritenuto priva di fondamento la pretesa di far discendere dal giudicato nascente da un'ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione, pronunciata con riferimento alla deduzione - con la domanda sottesa all'intimazione di sfratto ed alla connessa citazione - della scadenza di una locazione ad uso diverso da quello abitativo, riconducibile al regime di cui all'art. 27 della legge n. 392 del 1978, un accertamento relativo alla destinazione dell'unità immobiliare ad attività non comportante contatti diretti con il pubblico, agli effetti della non spettanza della indennità per la perdita dell'avviamento commerciale.

Meritevole di segnalazione, infine, in quanto evidentemente finalizzato ad assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale, è anche il principio espresso da Sez. 3, n. 18489 (in corso di massimazione), resa in una lite in tema di comodato assoggettata al rito di cui all'art. 447 bis cod. proc. civ., secondo cui nelle controversie di rito del lavoro, ove, a seguito della pronuncia di primo grado e dell'inizio dell'esecuzione sulla base del solo dispositivo, l'appello venga proposto, in un momento in cui è stata successivamente depositata la sentenza, con un atto denominato appello con riserva dei motivi, e tuttavia, contenente motivi di appello, pur espressamente articolati dal difensore con dichiarazione di non conoscenza della motivazione della sentenza, il giudice del gravame, ove l'appellante non abbia successivamente svolto alcuna attività di integrazione a norma dell'art. 434, secondo comma, cod. proc. civ., può considerare l'atto come introduttivo di un appello pieno, se i motivi si presentano idonei a criticare la motivazione della sentenza impugnata, in quanto pongano questioni con essa correlate, mentre altrimenti deve dichiararne l'inammissibilità per tale ragione.

3. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza.

Tra le sentenze pronunciate dalla Suprema Corte, nell'anno 2012, con riferimento ai procedimenti cautelari, va immediatamente sottolineata Sez. Un., n. 12103, RV. 623271, con cui si è statuito che la misura cautelare del sequestro perde la sua efficacia in conseguenza della dichiarazione di estinzione del correlato giudizio di merito, senza che a tal fine sia necessario che la pronunzia sia divenuta inoppugnabile, dovendosi, pertanto, assumere la stessa a presupposto dei provvedimenti ripristinatori previsti dall'art. 669 novies, secondo comma, cod. proc. civ..

L'intervento delle Sezioni Unite era stato sollecitato dalla Prima Sezione civile, con l'ordinanza del 24 novembre 2011, n. 24844, per rimuovere il contrasto di orientamenti manifestatosi in ordine all'idoneità della dichiarazione di estinzione del procedimento di merito a cagionare l'inefficacia sopravvenuta del provvedimento cautelare, ai sensi dell'art. 669 novies, primo comma, cod. proc. civ., chiarendo, in particolare, se la medesima declaratoria estintiva dovesse, a tal fine, essere munita del carattere dell'irrevocabilità, o se, invece, fosse sufficiente che l'estinzione fosse stata accertata con sentenza di primo grado.

In buona sostanza, quindi, la questione rimessa alle Sezioni Unite ha riguardato, in realtà, la più ampia e dibattuta tematica relativa alle conseguenze sull'efficacia del provvedimento cautelare riconducibili a qualsivoglia ipotesi di definizione in rito del processo di merito, fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge 26 dicembre 1990, n. 353 (prevedendo l'art. 669 novies, primo comma, cod. proc. civ., tra le cause di inefficacia della misura, l'estinzione del giudizio di merito, in nome di quella strumentalità strutturale tra tutela cautelare e pronuncia a cognizione piena ed esauriente, la quale costitutiva un tratto fisionomico ed irrinunciabile dell'originaria indistinta configurazione ordinamentale del procedimento cautelare uniforme), né contemplata dai successivi interventi riformatori attuati con la legge 14 maggio 2005, n. 80, e con la legge 18 giugno 2009, n. 69.

L'esame delle Sezioni Unite si è soffermato, quindi, proprio sulla regolamentazione da dare ai casi in cui la questione di estinzione, invece d'essere necessario oggetto del procedimento aperto dal ricorso per inefficacia, abbia come luogo della sua decisione il giudizio di merito. E la risposta è stata nel senso che il legislatore ha esplicitato quali siano le ricadute dell'estinzione del giudizio di merito sulla vitalità della misura cautelare strumentale alla tutela fatta valere in quel giudizio con riferimento ad una situazione tipica. Ma non potrebbe condividersi la soluzione per cui la dichiarazione di inefficacia non sarebbe assistita da provvisoria esecutorietà se pronunciata non dal giudice del cautelare, ma dal giudice del merito. E, nei rapporti tra l'art. 669 novies, commi primo e secondo, e l'art. 669 decies, nella loro originaria formulazione, uno spazio per l'applicazione della seconda disposizione dovrebbe aprirsi pure quando la questione di estinzione emerga nel giudizio di inefficacia od in quello di merito.

Sicché, il mutamento sopravvenuto delle circostanze autorizza, di per sé, la modifica o revoca della misura cautelare; ma la stessa probabilità di una futura dichiarazione di inefficacia può fornire giustificazione a provvedimenti che siano nel frattempo altrettanto utili di fatto ad anticiparne gli effetti.

Ancora in tema di procedimento cautelare uniforme, appare significativa Sez. 2, n. 11800, Rv. 623371, che, ribadendo quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità circa la non esperibilità del ricorso ai sensi dell'art. 111 Cost. avverso l'ordinanza di rigetto del reclamo ex art. 669 terdecies cod. proc. civ. (cfr. Sez. 3, n. 11370 del 2011, Rv. 618285), ha osservato che, poiché al suddetto provvedimento non può riconoscersi, nemmeno a fini della liquidazione delle spese e dell'errore compiuto quanto ad essa, ove sia il solo di cui si abbia interesse a lamentarsi, la natura di sentenza in senso sostanziale agli effetti dell'art. 111 Cost., settimo comma, e poiché detto provvedimento viene emesso a seguito di cognizione sommaria ed è espressamente definito titolo esecutivo, si deve ritenere che il mezzo di tutela sia quello esperibile contro ogni titolo esecutivo, cioè l'opposizione al precetto intimato sulla base del provvedimento od all'esecuzione iniziata sulla base di esso, ma con la particolarità che, inerendo tale mezzo di tutela alla cognizione piena e, quindi, alla tutela dei diritti in funzione del giudicato, il provvedimento sulla liquidazione delle spese risulta ridiscutibile, come se fosse un titolo esecutivo stragiudiziale, e ciò perché si è formato sulla base di una cognizione sommaria senza che sia stato ridiscusso nell'ambito dell'ordinaria cognizione.

Più specificamente riferite alla disciplina della conversione del sequestro conservativo in pignoramento, ma non per questo meno interessanti, soprattutto se tiene conto dell'assenza di precedenti recenti su fattispecie analoghe e delle concrete vicende processuali in cui sono state rese, sono, poi, da un lato, Sez. 3, n. 1689, Rv. 621822, secondo cui la conversione in pignoramento, ai sensi dell'art. 686 cod. proc. civ., implica che il vincolo di indisponibilità dei beni sequestrati, di cui all'art. 2906 cod. civ., persista a carico del terzo, già autore della dichiarazione positiva resa ex art. 547 cod. proc. civ., nonostante questi ne abbia disposto, adempiendo alla prestazione di restituzione di detti beni nei confronti del proprio creditore, successivamente esecutato, con ciò violando l'intimazione a non disporne senza ordine del giudice; e dall'altro, Sez. 3, n. 10871, Rv. 623107, che ha sancito che il sequestro conservativo, a norma dell'art. 686 cod. proc. civ., si converte automaticamente in pignoramento quando il creditore sequestrante ottenga sentenza di condanna esecutiva, ma solo nei limiti del credito per il quale è intervenuta la condanna e non anche per l'importo, eventualmente maggiore, fino al quale il sequestro è stato autorizzato.

Si è, invece, occupata del sequestro giudiziario Sez. 3, n. 8564, Rv. 622777, a tenore della quale se nel corso del giudizio di primo grado venga concesso il sequestro giudiziario di un bene immobile, ed in grado di appello venga dichiarata l'inesistenza del diritto a cautela del quale il sequestro era preordinato, la misura cautelare perde efficacia ipso iure, ai sensi dell'art. 669 novies, terzo comma, cod. proc. civ., senza necessità di alcuna pronuncia espressa, mentre gli eventuali provvedimenti conseguenti alla cessazione dell'efficacia del sequestro, ivi comprese le statuizioni sulle spese di custodia, sono devolute al giudice che ha concesso la misura. La decisione si segnala se non altro perché, unitamente ai già riportati principî sanciti dalla menzionata Sez. Un. n. 12103, consente di definire compiutamente la perimetrazione dei rapporti tra giudice della cautela e giudice del merito con riferimento alla sopravvenuta inefficacia (per motivi di rito o di merito) del provvedimento cautelare ed alle ulteriori conseguenti determinazioni da adottarsi anche ai fini del ripristino della situazione precedente.

Lo scopo specifico di questa trattazione, infine, impone almeno di ricordare qui, oltre a Sez. 3, n. 2103, Rv. 621671 - la quale ha sottolineato che la valutazione del requisito dell'urgenza e della rilevanza dell'accertamento tecnico preventivo è riservata al giudice del merito - alcune interessanti pronunce che hanno riguardato specificamente i procedimenti possessori, e ciò in quanto questi ultimi conservano tuttora un ruolo di non scarso rilievo nell'ambito della individuazione degli strumenti di tutela di ragionevolmente rapida attuazione.

Il riferimento è, in particolare a:

- Sez. 2, n. 4845, Rv. 622375, che ha chiarito che tali procedimenti, così come risultanti dalle modifiche apportate all'art. 703 cod. proc. civ. dal decreto legge n. 35 del 2005 (convertito dalla legge n. 80 del 2005), pur essendo divisi in due fasi, mantengono una struttura unitaria, nel senso che la fase eventuale di merito non è che la prosecuzione di quella sommaria, così derivandone che la procura conferita al difensore per l'introduzione di un siffatto giudizio legittima l'avvocato, in mancanza di una diversa ed esplicita volontà della parte, a depositare altresì l'istanza di fissazione per la trattazione del merito;

- Sez. 2, n. 10588, Rv. 622878, la quale, muovendo dal presupposto che il divieto di proporre giudizio petitorio, previsto dall'art. 705 cod. proc. civ., riguarda il solo convenuto nel giudizio possessorio (trovando la propria ratio nell'esigenza di evitare che la tutela possessoria chiesta dall'attore possa essere paralizzata, prima della sua completa attuazione, dall'opposizione diretta ad accertare l'inesistenza dello ius possidendi), ha affermato che l'attore in possessorio, diversamente dal convenuto, può, anche in pendenza del medesimo giudizio possessorio, proporre autonoma azione petitoria, ma soltanto con una separata iniziativa, introducendo la domanda petitoria una causa petendi ed un petitum completamente diversi, dal che deriva l'inammissibilità della stessa se proposta dall'attore nella fase di merito del procedimento possessorio, la quale costituisce mera prosecuzione della fase sommaria;

- Sez. 3, n. 13377, Rv. 623632, secondo cui la regola indicata dall'art. 1169 cod. civ. è da intendersi dettata per il caso in cui la successione nel possesso a titolo particolare nei confronti dell'autore dello spoglio avvenga prima che contro costui sia proposta la domanda di reintegrazione nel possesso; nel caso inverso, non rileva la situazione soggettiva da parte dell'avente causa, perché, a protezione dell'attore ed a garanzia dell'effettività della tutela giurisdizionale, opera la norma di cui all'art. 111 cod. proc. civ. ed in particolare quella di cui al quarto comma, secondo cui la sentenza ha effetto anche nei confronti dell'avente causa;

- Sez. 6-2, ord. n. 4327, Rv. 621507, a tenore della quale l'opposizione di terzo di cui all'art. 404, primo comma, cod. proc. civ., in quanto mezzo di impugnazione eccezionale non è esperibile avverso l'ordinanza di reintegra nel possesso, in quanto provvedimento non avente carattere di definitività.

4. Il procedimento sommario di cognizione.

Nel corso del 2012 si sono registrati i primi interventi della giurisprudenza di legittimità aventi ad oggetto il procedimento sommario di cognizione, costituente, come è noto, una delle più importanti novità caratterizzanti la riforma di cui alla legge 18 giugno 2009, n. 69 - il cui art. 51 ha aggiunto l'ulteriore capo III bis, composto dagli art. 702 bis, 702 ter e 720 quater, al titolo primo del libro quarto del codice di procedura civile - e che, in estrema sintesi, consiste in un modello procedimentale dalla disciplina piuttosto scarna, che il giudice può in certa misura forgiare a propria discrezione all'evidente scopo di consentire una maggiore immediatezza della decisione evitando la divisione in fasi che contraddistingue il processo di cognizione ordinario.

Questi, in altri termini, fatto salvo l'imprescindibile principio del contraddittorio, ha la possibilità di definire la causa in qualsivoglia momento, così compensandosi la mancanza di preclusioni legali relative alla proposizione di eccezioni in senso lato (quelle, cioè, rilevabili di ufficio), nonché alla richiesta di prove costituende ed alla produzione di documenti, conseguendone, così, che la sommarietà del rito in esame deve essere intesa come mera semplificazione di ogni fase del processo successiva a quella introduttiva, l'unica disciplinata direttamente dall'art. 702 bis cod. proc. civ..

Tanto premesso, Sez. Un., n. 11512, Rv. 623243, ha ritenuto ammissibile la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione nel corso di tale procedimento speciale, affermando, in proposito, che l'adozione del rito sommario non esclude la natura cognitiva e non cautelare del procedimento medesimo, del resto esplicitamente affermata dalla rubrica.

Ord. Sez. 6-3, n. 3, Rv. 621004, invece, ha giudicato illegittima l'adozione, durante una controversia introdotta con il rito sommario di cognizione, di un provvedimento di sospensione, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ. o dell'art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., in tal caso determinandosi l'impossibilità di mantenimento del processo nel rito sommario.

In sostanza, in un procedimento introdotto con il rito di cui all'art. 702 bis cod. proc. civ., l'insorgenza di una questione di pregiudizialità rispetto ad esso di altro giudizio ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ., o di valutazione della sua possibile sospensione ai sensi dell'art. 337 cod. proc. civ., secondo comma, in relazione a sentenza resa in altro giudizio asseritamente pregiudicante di cui si invochi l'autorità, determina la situazione prevista dal terzo comma dell'art. 702 ter cod. proc. civ. e, quindi, il giudice deve disporre, ai sensi di tale norma, il passaggio al rito della cognizione piena.

5. I procedimenti camerali.

È noto che la giurisdizione camerale, sorta come un'attività di amministrazione del diritto affidata ad organi giurisdizionali, caratterizzata, sotto il profilo strutturale, dalla revocabilità e dalla modificabilità dei relativi provvedimenti e, sotto quello funzionale, dal non incidere su diritti, si è trasformata, soprattutto negli ultimi venti anni, per le scelte compiute dal legislatore, in un "contenitore neutro" che può assicurare, da un lato, la speditezza e la concentrazione del procedimento, ed essere, dall'altro, rispettosa dei limiti imposti all'incidenza della forma procedimentale dalla natura della controversia che, laddove relativa a diritti o status, gode di apposite garanzie costituzionali.

L'aver ipotizzato il procedimento camerale come un contenitore in cui possono trovare spazio sia i provvedimenti di volontaria giurisdizione sia i provvedimenti di natura contenziosa, ciascuno con le proprie peculiari ed innegabili caratteristiche, sia strutturali che funzionali, ha comportato, spesso in carenza di produzione normativa, il superamento degli innegabili conflitti tra profili formali, o procedimentali, e profili sostanziali connessi all'oggetto della controversia, sicché il rito camerale si è progressivamente ammantato di forme tipiche del giudizio ordinario disegnando un nuovo tipo di processo a contenuto oggettivo.

Questa breve digressione si è resa necessaria per giustificare la ragione per la quale verranno di seguito riportate decisioni della Suprema Corte che, pur riguardando fattispecie di varia natura, sono però tutte caratterizzate dall'essere avvenuta la loro trattazione nelle forme del rito camerale.

Fermo quanto precede, va in primo luogo segnalata Sez. Un., n. 13617, Rv. 623440, resa in tema di procedimento disciplinare a carico dei notai, la quale, premettendo che l'art. 158 bis della legge n. 89 del 1913 (ora abrogato, ma nella specie ritenuto applicabile ratione temporis) richiamava la disciplina dettata per i procedimenti in camera di consiglio dal codice di procedura civile, ha ribadito che in questi ultimi mai si è dubitato che sia consentita la proposizione di impugnazioni incidentali, anche tardive (amplius al cap. XXXIV, § 4).

Sez. Un., n. 12609, Rv. 623299, invece, intervenuta in tema procedimento camerale ex art. 28 e segg. della legge n. 794 del 1942 (oggi, peraltro, sostituito dalla previsione di cui all'art. 14, secondo comma, del d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150, per i procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso), ha statuito che, le controversie in tema di liquidazione dei compensi dovuti agli avvocati per l'opera prestata nei giudizi davanti al tribunale, rientrano fra quelle da trattare in composizione collegiale, in base alla riserva prevista per i procedimenti in camera di consiglio dall'art. 50 bis, secondo comma, cod. proc. civ., come peraltro confermato dall'art. 14, secondo comma, del d. lgs. n. 150 del 2011, per i procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso.

Così decidendo, le Sezioni Unite hanno risolto la questione rimessa dalla Seconda Sezione civile della Corte, con separate ordinanze interlocutorie (in data 21 febbraio 2012, n. 2476 e 23 febbraio 2012, n. 2729), al Primo Presidente e da quest'ultimo assegnate alle Sezioni Unite.

Sempre in tema di onorari (oggi compenso) di avvocato, giova altresì segnalare, sia pure per mera completezza, che, con ordinanza interlocutoria del 30 marzo 2012, n. 5149, la Seconda Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, e quest'ultimo, a sua volta, le ha assegnate alle Sezioni Unite, le questioni - tuttora sub judice - relative alla forma dell'atto con il quale può essere proposta opposizione a decreto ingiuntivo ottenuta da un avvocato nei confronti del proprio cliente per il pagamento degli onorari relativi all'attività svolta in un giudizio civile, ed alla possibilità, ed ai connessi limiti, di sanatoria dell'atto di opposizione ove irritualmente adottato: problematiche che, come è noto, implicano entrambe il richiamo alle citate disposizioni di cui agli art. 28, 29 e 30 della legge 13 giugno 1942, n. 794, ma che, è doveroso precisare, si riferiscono ad una disciplina normativa che, ancorché applicabile ratione temporis, è ormai modificata dal d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150.

Parimenti meritevole di menzione risulta, poi, Sez. 1, n. 8227, Rv. 622595, che ha sancito che nei giudizi in cui trova applicazione la riforma di cui al d. lgs. n. 169 del 2007, che ha modificato l'art. 18 legge fall. denominando l'impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento come reclamo, in luogo del precedente appello, questo mezzo, in coerenza con la natura camerale dell'intero procedimento, è caratterizzato, per la sua specialità, da un effetto devolutivo pieno, non soggetto ai limiti previsti, in tema di appello, dagli art. 342 e 345 cod. proc. civ., pur attenendo ad un provvedimento decisorio, emesso all'esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio e suscettibile di acquistare autorità di cosa giudicata.

Da ciò ha fatto conseguire che, dovendosi applicare le norme sul reclamo, in quanto non derogate dall'art. 18 legge fall., vale il principio per cui, in caso di difetto di comparizione del reclamante all'udienza di trattazione, il giudice, verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve decidere il reclamo nel merito, esclusa la possibilità di una decisione di rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione o - come nella specie - di non luogo a provvedere.

Un principio apparentemente simile, benché reso in tema di procedimento camerale ex legge Pinto, è stato peraltro affermato anche da Sez. 1, n. 7437, Rv. 622609, secondo cui, in tema di procedimento camerale per equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001, è ammissibile, e deve essere accolto, il ricorso per cassazione nei confronti del provvedimento del presidente della corte d'appello che neghi la fissazione di una nuova udienza richiesta nel ricorso in riassunzione ai sensi dell'art. 181 cod. proc. civ., proposto a seguito di statuizione di non luogo a provvedere già emessa dal collegio della medesima corte a causa della mancata comparizione delle parti all'udienza in camera di consiglio, fissata ai sensi dell'art. 3, comma 4, legge citata, in quanto, anche se il provvedimento impugnato non ha natura decisoria, tuttavia conclude in modo abnorme un processo contenzioso su diritti soggettivi, né potendo invocarsi la riproponibilità della domanda, ai sensi dell'art. 310 cod. proc. civ., ostandovi il termine di decadenza di cui all'art. 4 della medesima legge, insuscettibile d'interruzione.

In buona sostanza, entrambe le riportate decisioni censurano decisioni - in verità non infrequenti nella giurisprudenza di merito - di non luogo a provvedere resi nel corso di (distinte) fattispecie accomunate dalla trattazione in sede camerale ed in ipotesi di mancata presenza della parte ricorrente/reclamante, ma sembrano divergere nella soluzione poi concretamente adottata: nel primo caso, imponendosi al giudice di decidere nel merito; nel secondo ammettendosi, implicitamente, la possibilità di fissazione di una nuova udienza e di applicazione del regime di cui all'art. 181 cod. proc. civ.

Ed a detto ultimo filone interpretativo può ricondursi anche Sez. 1, n. 5651, Rv. 622241, a tenore della quale, in tema d'impugnazione avverso la sentenza di primo grado di divorzio, la mancata comparizione, all'udienza fissata, della parte che ha proposto il gravame non è causa di improcedibilità, dal momento che una siffatta ipotesi non è in alcun modo regolata dalla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 737 e seguenti cod. proc. civ. A tale mancanza deve porsi rimedio - ha proseguito la Corte - facendo riferimento alle norme generali sull'appello, ed, in particolare, all'art. 348 cod. proc. civ., cui non osta l'esigenza di celerità sottesa alla previsione del rito camerale, tale esigenza non consentendo peraltro di parificare il procedimento di divorzio a quello di cassazione, nel quale la mancata comparizione non comporta il rinvio della causa ad una nuova udienza.

Meritano, poi, di essere rimarcate due pronunce con le quali i giudici di legittimità hanno ritenuto espressamente applicabili anche ai procedimenti camerali principî già comunemente utilizzati per i processi a cognizione ordinaria.

Trattasi, in particolare, di Sez. 1, n. 5257, Rv. 622191, resa in ambito prefallimentare, che ha sancito che la disposizione di cui all'art. 38 cod. proc. civ., nel testo di cui all'art. 4 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (ed ora nel nuovo testo modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, applicabile ratione temporis), che ha introdotto una generale barriera temporale alla possibilità di rilevare tutti i tipi di incompetenza, fissandola nella prima udienza di trattazione, deve ritenersi applicabile non soltanto ai processi di cognizione ordinaria, ma anche ai processi di tipo camerale, qualora questi siano utilizzati dal legislatore per la tutela giurisdizionale di diritti; pertanto, la questione d'incompetenza territoriale ex art. 9 legge fall. deve essere eccepita o rilevata non oltre l'udienza di comparizione, obbligatoriamente convocata ex art. 15 legge fall., nel procedimento per la dichiarazione di fallimento.

E di Sez. 1, n. 3927, Rv. 621978, secondo cui si applica anche al rito camerale contenzioso, quale quello relativo al procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, il principio secondo il quale se il giudice, pur essendosi spogliato della potestas iudicandi, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l'onere, né l'interesse ad impugnare, con la conseguenza che è ammissibile l'impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è, viceversa, inammissibile, per difetto di interesse, l'impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata.

Infine, va fatta menzione, attesa la peculiarità della materia in cui è intervenuta, di Sez. 1, n. 2757, Rv. 621563, resa in tema di reclamo avverso provvedimenti resi dal giudice del registro, in cui si è affermato che il decreto emesso dal tribunale, ai sensi dell'art. 2192 cod. civ., sul ricorso proposto avverso il provvedimento assunto dal giudice del registro delle imprese, non è impugnabile innanzi alla corte d'appello, in quanto, da un lato, il legislatore ha escluso, salva diversa disposizione di legge, che sia a sua volta reclamabile il provvedimento emesso dal tribunale in sede reclamo (art. 739, terzo comma, cod. proc. civ.), e, dall'altro lato, né gli art. 2188 e seguenti cod. civ., né altra disposizione speciale prevedono che i decreti pronunciati dal tribunale su reclamo contro il provvedimento del giudice del registro siano, a propria volta, reclamabili. La medesima sentenza, peraltro, ha anche precisato che nel procedimento camerale previsto dall'art. 2192 cod. civ., è legittima - benché esso sia destinato a concludersi con un decreto non direttamente incidente su posizioni di diritto soggettivo, bensì volto alla gestione di un pubblico registro a tutela di interessi generali - la condanna al pagamento delle spese processuali, pronunciata in favore di colui il quale, partecipando al procedimento in forza di interessi giuridicamente qualificati, le abbia anticipate e tale condanna ben può fondarsi sulla soccombenza processuale dei controinteressati, o del ricorrente nei confronti di questi ultimi, nel contrasto delle rispettive posizioni soggettive.

6. Gli altri procedimenti speciali.

In questo ambito, deve essere immediatamente segnalata Sez. Un., n. 16727, Rv. 623477, resa in tema di scioglimento dei comunioni, che ha statuito che l'ordinanza con cui il giudice istruttore, ai sensi dell'art. 789, comma terzo, cod. proc. civ., dichiara esecutivo il progetto di divisione, pur in presenza di contestazioni, ha natura di sentenza ed è quindi impugnabile con l'appello. È tuttavia, ammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avverso detto provvedimento, in quanto proposto dalla parte facendo ragionevole affidamento sul consolidato orientamento del giudice della nomofilachia all'epoca della sua formulazione.

La riportata decisione delle Sezioni Unite n. 16727 ha quindi ritenuto di risolvere il contrasto nel senso dell'appellabilità dell'ordinanza emessa dal giudice monocratico, ai sensi dell'art. 789, terzo comma, cod. proc. civ., allorquando difetti il presupposto della mancanza di contestazioni da parte dei condividenti sul progetto di divisione oggetto della dichiarazione di esecutività, seguendo l'orientamento intrapreso da Sez. 2, n. 4245 del 2010, Rv. 611663.

A tale approdo in ordine al regime impugnatorio del provvedimento, applicativo del principio della prevalenza della sostanza sulla forma, non osta, hanno spiegato le Sezioni Unite, il principio c.d. di "apparenza e affidabilità" (di cui all'insegnamento di Sez. Un. n. 390 del 2011, Rv. 615406), per le specificità del procedimento di scioglimento di comunioni e per la agevole riconoscibilità della natura decisoria del provvedimento malamente reso in presenza di contestazioni.

Ciò malgrado, le Sezioni Unite hanno nel caso in esame ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione proposto nel 2005, alla luce dell'imprevedibile mutamento di giurisprudenza intrapreso soltanto al far tempo da Sez. 2, n. 4245 del 2010, Rv. 611663, rispetto al pregresso indirizzo, consolidatosi nel tempo (che, come detto, fondava la ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. dell'ordinanza del giudice istruttore essenzialmente sul dato che essa provenisse da organo giurisdizionale privo di potere decisorio in materia), sebbene l'evoluzione esegetica della disciplina processuale di riferimento abbia operato per effetto del sopravvenuto mutamento ordinamentale, afferente alla composizione del tribunale nelle cause di scioglimento di comunioni. Su tale decisione, v. pure cap. XXVII, § 1.

Lo specifico scopo di questa rassegna impone, poi, di segnalare quanto meno Sez. 3, n. 7525, Rv. 622474, che, consolidando l'orientamento inaugurato da Sez. 3, n. 29742 del 2011, Rv. 621031, ha sancito che il provvedimento emesso a conclusione del giudizio di liberazione degli immobili dalle ipoteche, allorquando vi sia contrasto fra le parti, tanto se di accoglimento, quanto se di rigetto dell'istanza di liberazione, pur essendo decisorio, poiché derivante da un procedimento contenzioso a carattere sommario su diritti, non può considerarsi definitivo, e, quindi, equiparabile ad una sentenza in senso sostanziale, essendo ridiscutibile, in sede di cognizione piena, mediante domanda di accertamento, positivo o negativo, delle condizioni della cancellazione, con la conseguenza che è inammissibile nei suoi confronti la proposizione del ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost..

La particolarità è che il diritto può farsi valere dal terzo acquirente sia contro il creditore ipotecario già munito di titolo esecutivo, sia contro il creditore ipotecario non ancora munito di titolo: in entrambe le ipotesi, pertanto, essendo la pretesa alla liberazione, che sia stata accolta o negata, incidente sul modo di procedere all'esecuzione, la Corte ha ritenuto che la cognizione piena sull'ingiustizia del provvedimento negativo o positivo della liberazione sia sostanzialmente riconducibile all'ambito della tutela riconosciuta a chi deve subire un'esecuzione, da parte di chi ha diritto di procedervi nei suoi confronti, circa il modo di procedervi, derivandone, così, che la tutela a cognizione piena appare rapportabile all'azione di cui all'art. 617 cod. proc. civ., salvi gli adattamenti imposti dalla particolarità della situazione.

  • assegno
  • codice della strada

CAPITOLO XXXI

I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 Codice della strada e decurtazione dei "punti". - 2 Forma dell'impugnazione. - 3 Assegni senza provvista. - 4 Sanzioni in materia finanziaria.

1. Codice della strada e decurtazione dei "punti".

Tra le decisioni della Suprema Corte, intervenute nell'anno 2012, aventi ad oggetto i giudizi concernenti opposizioni ad ordinanza ingiunzione, va subito segnalata Sez. Un., n. 3936, Rv. 161351, secondo cui in tema di sanzioni amministrative conseguenti a violazioni del codice della strada che, ai sensi dell'art. 126 bis comportino la previsione dell'applicazione della sanzione accessoria della decurtazione dei punti dalla patente di guida, il destinatario del preannuncio di detta decurtazione - di cui deve essere necessariamente fatta menzione nel verbale di accertamento - ha interesse e può quindi proporre opposizione dinanzi al giudice di pace, ai sensi dell'art. 204 bis dello stesso codice, onde far valere anche vizi afferenti alla detta sanzione amministrativa accessoria, senza necessità di attendere la comunicazione della variazione di punteggio da parte dell'Anagrafe nazionale degli abilitati alla guida.

L'esame del ricorso era stato rimesso alle Sezioni Unite dalla Seconda Sezione della Corte, in ordine alla questione di massima di particolare importanza - non esaminata dalle precedenti pronunce delle Sezioni Unite n. 20544 del 2008, Rv. 604644, e n. 22235 del 2009 (non massimata), anch'esse riguardanti la tematica della sanzione accessoria della decurtazione dei punti dalla patente di guida - inerente, appunto, l'immediata impugnabilità del verbale di accertamento di un'infrazione al codice della strada, cui consegua la decurtazione dei punti sulla patente, con riferimento specifico a tale punto.

Si dubitava, invero, dell'ammissibilità di una simile impugnazione, in quanto detto verbale conterrebbe non un provvedimento irrogativo di sanzione amministrativa, ma soltanto un preavviso di quella specifica conseguenza correlata alla futura ed eventuale definitività del provvedimento, essendo, poi, la decurtazione dei punti dalla patente irrogata, ai sensi dell'art. 126 bis C.d.S., dall'autorità centrale preposta all'anagrafe nazionale degli abilitati alla guida, quale atto vincolato all'esito della segnalazione conseguente alla definizione della contestazione relativa all'infrazione che la comporta.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in oggetto, hanno così ritenuto non condivisibile la conclusione adottata dalla giurisprudenza maggioritaria e ribadita dall'ordinanza interlocutoria, secondo cui l'opposizione in discussione dovrebbe essere dichiarata inammissibile sia per difetto dell'oggetto dell'impugnazione, id est un qualsivoglia provvedimento lesivo di diritti soggettivi dell'opponente, sia per il connesso difetto d'interesse di quest'ultimo alla proposta impugnazione.

La medesima pronuncia ha evidenziato, piuttosto, come l'accertamento, al quale viene fatta risalire l'applicazione della sanzione accessoria della decurtazione dei punti dalla patente di guida, della quale deve essere fatta menzione nel verbale di contestazione, è appunto il verbale stesso, non esistendo un diverso provvedimento che comporti autonomamente, ed a prescindere dal verbale di accertamento che detta indicazione contenga, l'applicazione della sanzione accessoria in questione.

Inoltre, si spiega in sentenza, la diversa soluzione, in base alla quale non sarebbe possibile adire il giudice di pace onde far accertare l'illegittimità del preannuncio di decurtazione dei punti, sembra non tenere conto del fatto che la contestazione della violazione può assumere carattere definitivo, quanto alla sanzione pecuniaria principale, per effetto del pagamento in misura ridotta a seguito di notifica del verbale; pagamento che non spiega effetto sull'ammissibilità dei rimedi giurisdizionali quanto alla sanzione accessoria di tipo personale.

Neppure può escludersi, avvertono le Sezioni Unite, la sussistenza dell'interesse a far valere l'illegittimità non solo della contestazione afferente alla violazione della disposizione del codice della strada, ma anche della preannunciata applicazione della sanzione accessoria, viste le conseguenze che discendono normativamente dall'accumulo di decurtazioni dei punti dalla patente di guida.

Ulteriore argomento è tratto dal sopravvenuto art. 7, comma 12, del d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150, norma che, sotto la rubrica dell'opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, ha stabilito che il giudice, quando rigetta l'opposizione, «non può escludere l'applicazione delle sanzioni accessorie o la decurtazione dei punti dalla patente di guida», così implicitamente riconoscendo che tra le sanzioni accessorie alle quali, ai sensi del medesimo art. 7, comma 4, si estende l'opposizione, è senz'altro ricompresa quella della decurtazione dei punti dalla patente di guida.

2. Forma dell'impugnazione.

Altrettanto degna di menzione, recando un principio enunciato ai sensi dell'art. 360 bis, primo comma, n. 1, cod. proc. civ., appare, poi, Sez. L., n. 3058, Rv. 621114 - intervenuta su di una fattispecie precedente l'entrata in vigore del d. lgs., n. 150 del 2011 - che, dando continuità all'orientamento già espresso da Sez. 6-2, n. 5826 del 2011, Rv. 616704, ha statuito che il procedimento di secondo grado relativo all'impugnazione di una pronuncia del tribunale riguardante un'opposizione ad ordinanza ingiunzione si deve svolgere, nel regime applicabile a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 26 del d.lgs. n. 40 del 2006, secondo le regole generali del processo ordinario, sicché il procedimento stesso deve essere introdotto mediante atto di citazione tempestivamente notificato alla parte appellata e non con ricorso.

La Corte ha ritenuto, tuttavia, di dover opportunamente chiarire che ove la parte abbia proposto l'impugnazione nella forma irrituale del ricorso, essa, per ottenere l'effetto dell'utile radicamento del contraddittorio, è tenuta a notificare tempestivamente alla controparte l'improprio atto introduttivo unitamente al decreto di fissazione di udienza (conclusione sostanzialmente analoga, peraltro, si rinviene in Sez. L, n. 2430, Rv. 621238), del quale ultimo provvedimento è suo esclusivo onere acquisire conoscenza, informandosi presso la cancelleria, la quale non è tenuta ad alcuna comunicazione relativa, alla stregua di quanto invece è previsto dalla disciplina di altri riti.

3. Assegni senza provvista.

Non riscontrandosi precedenti specifici intervenuti di recente, è utile in questa sede segnalare Sez. 2, n. 11847, Rv. 623087, che ha statuito che, in tema di sanzioni amministrative, l'omessa tempestiva notificazione degli estremi della violazione determina, ai sensi dell'art. 14, ultimo comma, della legge n. 689 del 1981, l'estinzione della sanzione principale e, con essa, per vincolo di dipendenza, l'estinzione della sanzione accessoria. Ne consegue che, in mancanza di una diversa previsione speciale, le sanzioni accessorie contemplate dall'art. 5 della legge n. 386 del 1990 per l'emissione di assegni senza provvista si estinguono, insieme alla sanzione principale, in caso di omessa tempestiva notificazione degli estremi della violazione, ai sensi del combinato disposto dell'art. 14 della legge n. 689 del 1981 e dell'art. 8 bis della legge n. 386 del 1990.

4. Sanzioni in materia finanziaria.

Un cenno, meritano, infine, in considerazione della peculiarità della materia (sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia o dalla Consob) che ne costituisce l'oggetto, Sez. 2, n. 13727, Rv. 623553, e Sez. 2, n. 4837, Rv. 621744 (per ulteriori profili, si rinvia alla Sezione Prima, cap. XX).

La prima ha avuto occasione di precisare che, in ambito di sanzioni amministrative applicate dalla Banca d'Italia o dalla Consob, l'art. 195, comma quarto, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, nel testo anteriore alla modifica ad esso recata dall'art. 16 del d. lgs. 17 settembre 2007, n. 164 (come in quello identico, attualmente vigente: cfr. Corte cost. 27 giugno 2012, n. 162), individua, per le relative opposizioni, un criterio principale di competenza territoriale, funzionale ed inderogabile, in favore della corte di appello del luogo in cui ha sede la società o l'ente cui appartiene l'autore della violazione, dovendosi apprezzare la sussistenza del menzionato legame di appartenenza al momento della commissione dell'illecito amministrativo; al criterio principale anzidetto si aggiunge, poi, l'ulteriore criterio di collegamento (quello del foro ove la violazione è stata commessa), il quale opera soltanto in linea subordinata e residuale, e cioè ove non sia applicabile il primo criterio.

Ne consegue, allora, che, con riguardo alle opposizioni a sanzioni amministrative inflitte dalla Consob ai promotori finanziari, trova applicazione il citato criterio principale di competenza territoriale, dovendo i promotori essere inclusi tra gli autori della violazione che appartengono alla società o all'ente.

La seconda, invece, ha statuito che, in tema di illeciti amministrativi per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, è sanzionabile la condotta del soggetto, cui sia affidata la funzione di controllo interno, ai sensi dell'art. 57 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, vigente ratione temporis, il quale ometta di segnalare tempestivamente le irregolarità compiute dall'agente di cambio in violazione degli art. 22 e 23 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, e relativi, il primo, ad operazioni eseguite in difformità dell'obbligo di separazione tra il patrimonio dei clienti ed il patrimonio dell'intermediario e di separazione dei patrimoni dei clienti, e, il secondo, al mancato rispetto degli obblighi di informazione alla clientela in ordine alla situazione finanziaria.

Invero, l'art. 201 del d.lgs. n. 58 del 1998 richiama, per l'attività degli agenti di cambio, indipendentemente dalla forma, societaria o individuale, in cui la stessa viene esercitata, l'art. 190 del medesimo testo normativo, il cui terzo comma prevede a carico dei soggetti che svolgono funzioni di controllo l'applicabilità delle sanzioni indicate dai primi due commi, tra le quali quelle stabilite per l'inosservanza degli obblighi di cui agli art. 22 e 23, nonché l'obbligo di segnalare senza indugio alla Consob le irregolarità riscontrate ai sensi dell'art. 8 del precisato d.lgs., che si riferisce non solo ai componenti del collegio sindacale, ma anche all'organo che svolge funzioni di controllo ed alle società incaricate della revisione, così ponendo obblighi concorrenti a carico di ciascuno di essi, ed escludendo che le verifiche della società di revisione esentino l'organo interno dai suoi doveri.

  • liquidazione di società
  • fallimento

CAPITOLO XXXII

PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI

(di Massimo Ferro )

Sommario

1 L'istruttoria prefallimentare. - 2 Le fasi impugnatorie avverso la sentenza dichiarativa di fallimento. - 3 Limiti della domanda e istruzione probatoria nelle opposizioni allo stato passivo. - 4 Le insinuazioni tardive. - 5 La liquidazione fallimentare. - 6 Il concordato fallimentare. - 7 Il concordato preventivo.

1. L'istruttoria prefallimentare.

La codificazione organizzativa del procedimento è proseguita con alcune significative pronunce, valorizzanti la peculiarità del riferimento all'ambito camerale come clausola di equilibrio tra esigenze del contraddittorio compiuto ed aspettative di definizione celere della domanda di fallimento. Lo schema processuale più volte applicato ha peraltro spesso tratto fondamento dall'elaborazione maturata in capo ad istituti ordinari del processo di cognizione o ad esso collegati. Così, per Sez. Un., n. 1418 (Rv. 620512) il termine di cui all'art. 15, terzo comma, legge fall. deve essere qualificato come dilatorio e a decorrenza successiva, dunque computato secondo il criterio generale di cui all'art. 155, primo comma, cod. proc. civ., escludendo il giorno iniziale (data di notificazione del ricorso introduttivo e del relativo decreto di convocazione) ma conteggiando quello finale (data dell'udienza di comparizione).

Superando un precedente indirizzo - espresso da Sez. 1, n. 4632 del 2009, Rv. 606989 - Sez. 1, n. 9857 (Rv. 622854) e n. 9858 (Rv. 622933) hanno affermato che il Pubblico Ministero può esercitare l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento altresì quando la notitia decoctionis gli sia segnalata dal tribunale fallimentare, che abbia rilevato l'insolvenza nel corso del procedimento ex art. 15 legge fall., poi definito per desistenza del creditore istante, in quanto anche a questo giudice e a questo procedimento civile si riferisce l'art. 7, n. 2, legge fall., allorché dispone che l'insolvenza deve essere segnalata al Pubblico Ministero «dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile». Si tratta di un'interpretazione ritenuta più conforme ai lavori preparatori della riforma del 2006, oltre tutto non contrastante con i principî di terzietà e imparzialità del giudice, sanciti dall'art. 111 Cost., in quanto la segnalazione è un atto neutro, privo di contenuto decisorio ed assunto con valutazione prima facie, potendo sempre il tribunale, all'esito dell'istruttoria prefallimentare e a cognizione piena, respingere la richiesta della pubblica accusa, originata da detta segnalazione.

La mancanza di una disciplina positiva sui gruppi di società ed il loro collegamento è poi alla base del confermato indirizzo cd. partitario, per cui Sez. 1, n. 19147 (in corso di massimazione) ha riconosciuto che il controllo o il collegamento tra società non determinano alcuna deroga al criterio generale di competenza di cui all'art. 9 legge fall.

Con un'indicazione chiarificatrice rispetto a diffusi contrasti negli indirizzi di merito, Sez. 1, n. 22756 (in corso di massimazione) ha risolto la relazione critica tra il procedimento per la dichiarazione di fallimento e la causa di sospensione a tutela delle vittime dell'usura posta dall'art. 20 della legge n. 44 del 1999, concludendo per il diniego dell'applicazione di tale istituto, dettato in realtà per i procedimenti esecutivi (così intesi in senso stretto). Indicando le conseguenze della citata sospensione sui termini di scadenza dei pagamenti, la Corte ha così reinquadrato l'insolvenza, situazione generale cui è esposto l'imprenditore, dunque da apprezzare, semmai, in un'analisi che, tenendo conto del possibile indennizzo a favore dei soggetti passivi dei reati, commisuri il relativo importo all'idoneità solutoria per l'insieme degli altri debiti, per i quali non vale detta eccezione, non potendo infatti per essi il debitore eccepire la medesima ragione di inesigibilità temporanea.

2. Le fasi impugnatorie avverso la sentenza dichiarativa di fallimento.

Un investimento d'indagine peculiare è continuato sul giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, quale disciplinato dall'art. 18 legge fall., per il quale Sez. 1, n. 14786 (Rv. 624189) ha precisato che il termine di dieci giorni dalla comunicazione per notificare l'atto di impugnazione non riveste carattere perentorio, non essendo funzionale ad assicurare la corretta instaurazione del contraddittorio. Infatti, quest'ultimo viene comunque garantito con l'effettiva notifica del reclamo e del connesso decreto di fissazione di udienza, mentre il diritto sostanziale di difesa è assicurato dalla prescrizione del comma 7, secondo cui tra la notifica e la data di udienza deve intercorrere un termine non inferiore a 30 giorni.

Evolvendo una nozione solo in parte maturata nel regime ante riforma, Sez. 1, n. 21681 (in corso di massimazione) ha interpretato l'ampia dizione dell'art. 18 legge fall. quale fonte di legittimazione ad impugnare la dichiarazione di fallimento, possibile a «qualunque interessato», nel senso che ogni soggetto che ne abbia ricevuto o possa riceverne un pregiudizio specifico, di qualsiasi natura, ed anche solo morale, riveste la relativa qualità. Pertanto, anche in caso di fallimento chiuso per mancanza di domande di ammissione al passivo o avvenuto pagamento dei creditori e delle spese di procedura, l'imprenditore fallito resta legittimato ad impugnare la dichiarazione di fallimento, essendo in re ipsa il pregiudizio che questa infligge alla sua reputazione commerciale.

3. Limiti della domanda e istruzione probatoria nelle opposizioni allo stato passivo.

L'eliminazione normativa delle competenze in materia delle corti d'appello ha determinato, come previsto e sulle impugnazioni dirette delle decisioni del tribunale in formazione collegiale, un aumento del contenzioso specifico ed altresì una distanza temporale più corta rispetto all'epoca del conflitto concorsuale. In questo senso, il valore nomofilattico degli arresti della Corte guida in modo molto seguito anche il dibattito teorico, dovendo oramai i giudici di legittimità occuparsi di tutti i nodi lasciati insoluti dalle riforme del 2006-2007.

Una netta riarticolazione di tutela dell'accesso all'opposizione allo stato passivo è stata affermata da Sez. 1, n. 6799 (Rv. 622614), per la quale i creditori esclusi o ammessi con riserva, che possono fare opposizione entro trenta giorni dalla data di ricezione delle raccomandate con avviso di ricevimento spedite dal curatore (tenuto a dare notizia dell'avvenuto deposito dello stato passivo), non hanno in realtà l'onere di dimostrare il ricevimento della raccomandata, mediante la produzione del relativo avviso, trattandosi piuttosto di un onere gravante sul curatore che ne eccepisca la tardività. È infatti tale organo che dispone del documento, secondo un'osservazione che la Corte ha espressamente riferito ad una scelta di ripartizione dell'onere probatorio condotta in base al principio della vicinanza o prossimità della prova. Sez. 1, n. 8439 (Rv. 623320) ha poi puntualizzato che il termine di dieci giorni per la notifica al curatore del ricorso, con il decreto di fissazione dell'udienza davanti al giudice delegato, deve considerarsi ordinatorio, dal momento che l'obbligo di notifica al curatore è stato disciplinato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 in maniera identica a quello previsto per la notifica al fallito, restando, a tali fini, irrilevante la soppressione di quest'ultimo con il decreto correttivo n. 169 del 2007.

Un'importante affermazione è stata resa con riguardo al termine perentorio per la presentazione delle domande di insinuazione, soggetto alla sospensione feriale per Sez. 1 n. 12960 (Rv. 623455), sulla base delle indicazioni desumibili dagli art. 92 del r.d. n. 12 del 1941 e 36 bis legge fall., data la sua veste processuale e dovendo entro il suo spirare il giudizio di necessità essere proposto. La regola, derivativamente, si applica anche al termine perentorio di fissazione dell'adunanza per l'esame dello stato passivo, stabilito dall'art. 16, primo comma, n. 4, legge fall., in quanto l'ipotetica restrizione solo al primo termine, che si calcola a ritroso rispetto all'adunanza (e con sospensione nel periodo feriale di 46 giorni), potrebbe pregiudicare il diritto di azione dei creditori, impedendo loro di usufruire di un tempo adeguato ad approntare la domanda (che però è lasciato al prudente apprezzamento del giudice, nei casi di automatica riduzione per il periodo feriale). A sua volta l'udienza, per errore fissata in anticipo dal tribunale, dovrà essere differita automaticamente per il numero dei giorni intercorsi tra la dichiarazione di fallimento e la data fissata.

La natura di giudizio diverso da quello ordinario di cognizione e non coincidente con l'appello, pur se con connotazione impugnatoria, è affermata in ord., Sez. 6-1 n. 2677 (Rv. 621297), per la quale nell'opposizione allo stato passivo del fallimento, dopo il d.lgs. n. 169 del 2007, la mancata produzione di copia autentica del provvedimento impugnato non costituisce causa di improcedibilità del giudizio, non trovando applicazione in materia la disciplina di cui agli art. 339 e segg. cod. proc. civ. Invero il novellato art. 99 legge fall., che indica il contenuto del ricorso, non fa riferimento a tale allegazione e l'unico richiamo sul punto concerne i documenti che la parte può discrezionalmente sottoporre al giudice, tant'è che, applicandosi la regola di cui all'art. 347 cod. proc. civ. - contemplante l'onere per l'appellante di inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza impugnata ed al solo scopo di permetterne l'esame al giudice -, l'esigenza può dirsi soddisfatta ove il ricorrente abbia trascritto nel ricorso il contenuto del decreto del giudice delegato, come ripreso dalla comunicazione del curatore.

Un maggior rigore è stato affermato con riguardo invece all'onere, gravante sul creditore opponente e la cui domanda sia stata respinta dal giudice delegato, sorgendo in tal caso la necessità di produrre anche nel giudizio di opposizione avanti al tribunale la documentazione, già prodotta nel corso della verifica del passivo, a sostegno della propria domanda: in difetto, per ord., Sez. 6-1, n.493 (Rv. 620930), al tribunale è precluso l'esame nel merito dell'opposizione, senza poter prendere visione dei documenti non prodotti (come prescritto alla parte, ai sensi dell'art. 99, comma quarto, legge fall., a pena di decadenza), né può essere disposta una consulenza tecnica su un materiale documentario non agli atti.

Si è poi ribadito (Sez. 1, n. 5167, Rv. 622179), ancora traendo le conseguenze dalla natura impugnatoria del giudizio ed almeno per la parte in cui se ne possa predicare la condivisione del principio dell'immutabilità della domanda, che non possono essere introdotte domande nuove o modificazioni sostanziali delle domande già avanzate in sede d'insinuazione al passivo. Ciò fonda l'inammissibilità della richiesta di riconoscimento della natura prededucibile del credito, per il quale l'opponente avesse originariamente prospettato la sola qualità privilegiata, ritenendo la Corte che, in tal modo, si sia recato al processo un diverso tema di discussione e d'indagine, stante la differenza di presupposti con cui, per tali qualità, siffatti crediti parteciperebbero al concorso.

Ha contribuito in modo decisivo al superamento di una significativa oscillazione giurisprudenziale, già formatasi nel merito, Sez. 1 n. 5659 (Rv. 622134) intervenendo sulla questione delle preclusioni a carico del creditore derivanti dal mancato esercizio di una facoltà critica - dunque ricondotta a contributo istruttorio e non a mezzo d'impugnazione preventivo o onere ad esso orientato - permessagli dalla nuova articolazione del procedimento. Infatti, la mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non implica alcuna acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre la rituale opposizione, non trovando applicazione il disposto dell'art. 329 cod. proc. civ. rispetto ad un provvedimento giudiziale non ancora emesso. Si è così precisato che l'art. 95, secondo comma, legge fall. intende che i creditori, ammessi ad esaminare il progetto, non abbiano alcun onere di replica alle difese ed alle eccezioni del curatore entro la prima udienza disposta per l'esame dello stato passivo, per cui quella scadenza non è finalizzata alla definitiva fissazione delle questioni controverse.

Simmetricamente, Sez. 1 n. 7918 (Rv. 622668) ha enunciato che il curatore, a sua volta, è ammesso a proporre, a norma dell'art. 99, comma settimo, legge fall., eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, anche nuove rispetto a quelle sollevate in sede di verifica dello stato passivo, rimanendo poi affidato al tribunale del reclamo il compito di garantire il diritto di difesa del reclamante, nelle forme compatibili con il rito camerale.

In tale giudizio non opera tuttavia la preclusione di cui all'art. 345 cod. proc. civ. in materia di ius novorum, con riguardo alle nuove eccezioni proponibili dal curatore: per Sez. 1 n. 8929 (Rv. 623029) il riesame, a cognizione piena, del risultato della cognizione sommaria proprio della verifica, così come demandato al giudice dell'opposizione, esclude che sia variabile il thema disputandum (così anche Sez. 1, n. 9341 Rv. 622697, per il divieto di domande nuove) e non ammette l'introduzione di domande riconvenzionali della curatela, ma senza compressione del diritto di difesa, essendo viceversa formulabili eccezioni non sottoposte all'esame del giudice delegato.

Quanto ai requisiti soggettivi della legittimazione a promuovere il procedimento, Sez. Un., n. 4126 (Rv. 621694) hanno evidenziato che la legittimazione del concessionario a far valere il credito tributario nell'ambito della procedura fallimentare assume valenza esclusivamente processuale, nel senso che il potere rappresentativo attribuito agli organi della riscossione non esclude la concorrente legittimazione dell'amministrazione finanziaria, che conserva la titolarità del credito azionato e perciò la possibilità di agire direttamente per farlo valere in sede di ammissione al passivo.

Circa la tradizionale questione dell'accertamento dell'anteriorità della data della scrittura privata che documenta la pretesa creditoria, la sua soggezione alle regole dell'art. 2704, primo comma, cod. civ. (data la terzietà del curatore rispetto ai creditori concorsuali e allo stesso fallito) e la rilevabilità d'ufficio dal giudice, non hanno impedito di precisare che la domanda proposta dal curatore in un separato giudizio per sentir accertare l'inadempimento del medesimo creditore alle pattuizioni trasfuse nella scrittura implica il riconoscimento dell'anteriorità della scrittura stessa, atteso che il dovere di lealtà e probità ex art. 88 cod. proc. civ. non consente alla parte di scindere la propria posizione processuale a seconda della convenienza. Ne consegue che, per Sez. 1, n. 13282 (Rv. 623389), il giudice dell'opposizione allo stato passivo deve considerare certa la data della scrittura, pur in difetto di un'espressa rinuncia del curatore all'eccezione.

4. Le insinuazioni tardive.

In tema di inimputabilità del ritardo, quale condizione di ammissibilità della domanda di credito successivamente al termine perentorio per la insinuazione tempestiva, ma dentro l'intervallo temporale di cui al nuovo art. 101, ultimo comma, legge fall. (c.d. supertardiva), Sez. 1, n. 4310 (Rv. 622027) ha chiarito che il mancato avviso al creditore da parte del curatore del fallimento, previsto dall'art. 92 legge fall., integra la necessaria causa non imputabile del ritardo, anche se il curatore ha facoltà di provare, per contrastare l'ammissibilità della domanda, che il creditore ha in realtà acquisito notizia del fallimento, indipendentemente dunque dalla rituale ricezione dell'avviso.

A sua volta, ord. Sez. 6-1, n. 19145 (Rv. 624114) ha chiarito che l'opposizione allo stato passivo è regolata dall'art. 99 della legge fall., anche in relazione alle domande tardive non accolte, per il rinvio operato dall'art. 101 legge fall.: stante l'inapplicabilità delle norme dettate per l'appello al giudizio di opposizione allo stato passivo, la mancata comparizione della parte opponente, la quale si sia costituita nei termini, in udienza successiva alla prima, peraltro fissata dal tribunale per l'ammissione dei mezzi di prova, non può dar luogo a pronuncia di improcedibilità dell'opposizione.

Un quadro di coerenza rispetto alla fattispecie decisa in tema di opposizione ex art. 98 legge fall. è stato espressamente richiamato con riguardo al termine annuale di cui all'ultimo comma dell'articolo 101, per il quale anche - secondo Sez. 1, n. 21596 - si applica la sospensione feriale di cui agli articoli 1 e 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742: ne consegue che il decreto del giudice delegato che, anche de plano e senza fissazione di udienza, sancisca la inammissibilità della domanda tardiva di credito, perché formulata oltre il termine di cui alla prima norma e così negando all'istante di provare la non imputabilità del ritardo, diviene impugnabile con l'opposizione di cui all'art. 99, trattandosi di provvedimento che concorre alla formazione definitiva dello stato passivo ed incide sul diritto alla partecipazione al concorso, né la sua natura e funzione mutano per il fatto che abbia pronunciato su questione preliminare di rito, idonea comunque a definire il giudizio e, quindi, a decidere, ai fini citati, sul bene della vita in contesa.

5. La liquidazione fallimentare.

Intervenendo con un importante chiarimento in una disciplina alla base di conflitti interpretativi diffusi e cruciali per le interferenze con le tutele penali, Sez. 1, n. 8434 (Rv. 622809) ha statuito che la sospensione dell'esecuzione forzata, accordata dall'art. 20 della legge 23 febbraio 1999, n. 44 alle vittime del delitto di usura, si applica anche alle vendite forzate delle procedure fallimentari, tenuto conto dei più ampi benefici ora introdotti espressamente, anche per i falliti, degli art. 1 e 2 della legge 27 gennaio 2012, n. 3 e dunque della possibilità, attribuendo valore di interpretazione autentica a tale norma, di giustificare tale estensione soggettiva, valevole anche per le procedure iniziate anteriormente.

Una marcata accentuazione garantistica ha poi caratterizzato l'arresto di Sez. 1, n. 12004 (Rv. 623387) con l'affermata soggezione alla sospensione feriale ai sensi dell'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742 relativamente al termine per il versamento del prezzo, di cui agli art. 576, n. 7, e 585, primo comma, cod. proc. civ. La Corte ha ritenuto che anche tale istituto sia inserito in modo sistematico nel procedimento di vendita coattiva e che, soprattutto, esso rivesta piena natura processuale, e non meramente preparatoria od organizzativa, data la sua funzionalità al trasferimento dell'immobile e quindi alla definitiva attribuzione del bene, posto che con tale adempimento viene a concludersi una fase esecutiva.

6. Il concordato fallimentare.

La materia sta rinvenendo una sua progressiva ridefinizione istituzionale, a seguito della profonda direzione competitiva che il legislatore ha voluto imprimere all'istituto.

Così, Sez. 1., n. 20977 (in corso di massimazione), ribadito che la sentenza di omologazione determina la chiusura del fallimento, salva la diversa e limitata funzione di controllo della sua esecuzione ai sensi dell'art. 136 legge fall., ha precisato che tale evento processuale produce altresì la cessazione della generale competenza funzionale del tribunale fallimentare. Va infatti escluso che i compiti di sorveglianza attribuiti dall'art. 137 al giudice delegato, al curatore ed al comitato dei creditori sull'adempimento del concordato, implichino la necessità del protrarsi, per le eventuali successive controversie tra gli assuntori e con riguardo al trasferimento, in favore di uno di essi, di beni dell'attivo del fallimento, della competenza ai sensi dell'art. 24. Tale norma radica invero la cognizione su azioni derivanti dal fallimento, ma nel limitato senso che esse originino dallo stato di dissesto o comunque restino influenzate dalla sentenza e debbano perciò svolgersi nella procedura fallimentare per assicurare l'unità della esecuzione e la par condicio creditorum.

Il valore del concordato fallimentare come strumento di ottimale allocazione dei beni, nell'interesse del ceto creditorio, è alla base dell'opzione estensiva di ord., Sez. 6-1, n. 2674 (Rv. 621298) per la quale è ammissibile anche la proposta proveniente da un terzo e che contempli a suo favore, in sede di esecuzione, un'eventuale eccedenza - contenuta nei limiti della ragionevolezza - del valore dei beni trasferiti rispetto all'ammontare di quanto necessario per il pagamento dei crediti concorsuali: tale progetto di acquisto - nel quale si risolve il senso economico dell'iniziativa - realizzerebbe invero il giusto guadagno dell'intervento del terzo, che si accolla l'onere ed il rischio dell'operazione e non può dirsi agisca a scopo di liberalità. Si tratta dunque di un'eccedenza equiparabile alle spese necessarie all'esecuzione, da ritenersi giustificate, in analogia all'art. 504 cod. proc. civ., ove così sia consentita la trasformazione del patrimonio del debitore negli strumenti volti, come detto, al miglior soddisfacimento dei creditori.

Innovativa è la puntualizzazione - ancora in Sez. 1, n. 20977 - per cui, quanto all'esecuzione del concordato, è configurabile l'esercizio, in via surrogatoria, dell'azione di cui all'art. 2932 cod. civ. da parte dell'assuntore, nel contraddittorio con altro assuntore suo debitore, nei confronti del proponente il medesimo concordato il quale sia rimasto inadempiente all'impegno di assolvere i suoi obblighi con la cessione pro soluto, tra l'altro, dei propri immobili. Si devono infatti ritenere applicabili il rimedio e la sentenza costitutiva non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali tale obbligo possa sorgere ex lege.

7. Il concordato preventivo.

Proseguendo nella focalizzazione dei meccanismi di funzionamento dell'istituto, ord. Sez. 6-1, n. 9802 (Rv. 623259) ha sancito l'inammissibilità del regolamento di competenza avverso il decreto del tribunale fallimentare, con il quale, dato atto del mancato raggiungimento della maggioranza richiesta dall'art. 177 legge fall. per l'approvazione del concordato, venga fissata l'audizione del debitore con riserva di ogni provvedimento ex art. 162 legge fall. Si tratta infatti di un decreto tradizionalmente di natura ordinatoria, non di sentenza implicita sulla competenza territoriale per l'eventuale dichiarazione di fallimento, senza dunque che la pronuncia sia idonea a pregiudicare la relativa questione.

A sua volta ord. Sez. 6-1, n. 10545 (Rv. 623252) ha sostenuto che, ai fini della determinazione del tribunale territorialmente competente a conoscere della domanda di concordato, assume carattere neutro il trasferimento della sede legale avvenuto nell'anno antecedente all'iniziativa: ciò sulla base dell'art. 9, secondo comma, legge fall., ritenuto applicabile anche a tale domanda, restando altresì irrilevante che non si tratti di trasferimento meramente fittizio.

Per la prima volta intervenendo sulla c.d. nuova finanza esterna ed ai fini dell'ammissibilità della proposta di concordato, per Sez. 1, n. 9373 (Rv. 622839) l'art. 160, secondo comma, legge fall. va inteso nel senso che l'apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società debitrice, non comportando né un incremento dell'attivo, sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro grado, né un aggravio del passivo, con il riconoscimento di ragioni di credito a favore del terzo, indipendentemente dalla circostanza che tale credito sia stato o no postergato.

All'esito di un aggiornato arresto sulle classi, Sez. 1, n. 13284 (Rv. 623738) ha affermato che la sussistenza di crediti oggetto di contestazione giudiziale non preclude il loro doveroso inserimento in una delle classi omogenee previste dalla proposta ovvero in apposita classe ad essi riservata: si tratta di un adempimento che ricade sul debitore e che il tribunale deve verificare alla stregua di elemento di regolarità della procedura, voluto dalla legge per soddisfare l'esigenza di informazione dell'intero ceto creditorio. In caso di omissione si determinerebbe un pregiudizio agli interessi di coloro che al momento non dispongono ancora dell'accertamento definitivo dei propri diritti, ma che possono essere ammessi al voto, ex art. 176 legge fall., con previsione di specifico trattamento per l'ipotesi che le pretese siano confermate o modificate in sede giurisdizionale. E d'altronde un simile assetto altererebbe le previsioni del piano di soddisfacimento degli altri creditori certi, non consentendo loro di esprimere valutazioni prognostiche corrette e di atteggiarsi in modo pienamente informato circa il proprio voto.

Particolarmente intenso è stato l'intervento nomofilattico relativo ai mezzi impugnatori. Così in ord., Sez. 6-1, n. 2671 (Rv. 621299) la Corte ha precisato che il decreto di annullamento del concordato, seguito da contestuale dichiarazione di fallimento, non possiede i requisiti in sé della reclamabilità, poiché i relativi motivi di doglianza - in analogia al principio di cui all'art. 162, terzo comma, legge fall. - debbono essere fatti valere nell'ambito di un unico mezzo avverso altresì la sentenza di fallimento. Con questa precisazione, viene ribadita la natura pregiudiziale dell'annullamento rispetto ad altre motivazioni attinenti in ipotesi ai presupposti della fallibilità: invero l'art.186 legge fall., allorché rinvia agli art. 137 e 138 legge fall. (in tema di risoluzione ed annullamento del concordato fallimentare), ricorrenti ove compatibili, se ne discosta quanto agli esiti, poiché solo per il concordato preventivo risolto od annullato non si ha automatismo della dichiarazione di fallimento, che anzi presuppone, oltre ad una verifica dei suoi presupposti, l'iniziativa di parte.

Prendendo posizione su una vicenda già attraversata da oscillazioni interpretative, Sez. 1, n. 4304 (Rv. 622028) ha posto un punto fermo ancora in materia di reclamo alla corte d'appello avverso il decreto con il quale il tribunale abbia provveduto sull'omologazione (accordandola o negandola) ai sensi dell'art. 183 legge fall.: tale rimedio va proposto entro il termine di trenta giorni, in quanto la circostanza che con lo stesso reclamo, proponibile contro il decreto che pronuncia sull'omologazione del concordato, possa essere impugnata anche la eventuale sentenza dichiarativa di fallimento impone, per una lettura costituzionalmente orientata, di reputare applicabile il medesimo termine previsto dall'art. 18 legge fall.

Circa la legittimazione all'opposizione nel giudizio di omologazione, per la prima volta affrontata in sede di legittimità, ancora Sez. 1, n. 13284 (Rv. 623737) ha ritenuto che l'espressione «qualunque interessato», prevista dall'art. 180, secondo comma, legge fall., non vada necessariamente riferita ai soli soggetti diversi dai creditori, essendo invece suscettibile di comprendere anche questi ultimi quando non dissenzienti, com'è per coloro che non abbiano votato favorevolmente alla proposta per non aver preso parte all'adunanza fissata per il voto o non convocati o, ancora, non ammessi al voto o, infine, astenuti. Si tratta infatti di soggetti che prospettano l'interesse diretto e attuale al giudizio per contrastare l'omologazione, in riferimento al trattamento loro riservato, al di là e in aggiunta a chiunque altro, a qualunque titolo, abbia interesse ad opporsi all'omologazione. La fattispecie decisa concerneva i creditori fiscali astenuti all'adunanza dei creditori e successivamente autori di dichiarazione contraria alla transazione fiscale.

Portata innovativa assume infine Sez. 1, n. 13565 (Rv. 623961) in tema di poteri del commissario giudiziale, dovendosene affermare la legittimazione a ricorrere per cassazione avverso il decreto del tribunale, reso in sede di reclamo, che abbia accolto una domanda restitutoria dei soci con riguardo a versamenti da essi eseguiti in esecuzione della proposta concordataria. Si tratta infatti di una veste discendente dal richiamo dell'art. 186, ultimo comma all'art. 138 legge fall., che espressamente affermano la legittimazione attiva al fine dell'annullamento del concordato preventivo omologato, nel caso di scoperta postuma dell'esagerazione dolosa del passivo o sottrazione o dissimulazione di parte rilevante dell'attivo, cioè alla stregua di una legitimatio ad causam del commissario giudiziale su iniziative processuali, comunque suscettibili di forzare o snaturare il contenuto della proposta e del piano, così come interpretato in sede omologativa. La Corte sottolinea pertanto l'esigenza di assicurare l'effettivo contraddittorio con l'organo di nomina dell'autorità giudiziaria, trattandosi di soggetto dotato di un bagaglio cognitivo che ne fa il rappresentante naturale degli interessi della procedura nel resistere ad una domanda suscettibile di alterare le clausole dell'accordo omologato.

  • giurisdizione tributaria

CAPITOLO XXXIII

IL PROCESSO TRIBUTARIO

(di Antonio Corbo )

Sommario

1 Premessa. - 2 I principî affermati dalle Sezioni Unite. - 3 Le decisioni in materia di atti impugnabili. - 4 Le pronunce relative al giudizio di appello. - 5 (segue) L'elaborazione relativa alla disciplina dell'appello incidentale.

1. Premessa.

Così come per il diritto tributario sostanziale, anche per il diritto tributario processuale le pronunce della Corte di cassazione sono state numerosissime.

Dovendo procedere ad una selezione tra di esse, appare doveroso dare conto delle decisioni delle Sezioni Unite, per l'ovvia importanza delle stesse, e delle decisioni in materia di atti impugnabili e di disciplina del giudizio di appello, per la novità o la rilevanza sotto il profilo sistematico dei principî affermati.

2. I principî affermati dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite si sono occupate in poche occasioni di tematiche relative, direttamente o indirettamente, al processo tributario.

La sentenza Sez. Un., n. 5771 (Rv. 621833), ha ribadito il principio secondo cui, in tema di riscossione coattiva delle imposte, l'ipoteca prevista dall'art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, soggiace agli stessi limiti previsti per l'espropriazione immobiliare, e non può essere quindi iscritta se il debito del contribuente non supera gli ottomila euro, anche se precedentemente alla legge 22 maggio 2010, n. 73. È importante precisare che questo principio ha ad oggetto le iscrizioni effettuate prima dell'entrata in vigore dell'art. 3, comma 2 ter, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito nella legge n. 73 del 2010, poiché, per effetto delle disposizioni appena indicate, è ormai vietato all'agente di riscossione - e sin dall'entrata in vigore della citata legge di conversione - iscrivere ipoteca per crediti inferiori ad ottomila euro. A fondamento della decisione, la Corte ha richiamato, anche se con qualche perplessità, l'insegnamento della sentenza Sez. Un., n. 4077 del 2010 (Rv. 611629), la quale era giunta all'affermazione del principio di diritto ribadito sul rilievo che l'ipoteca ex art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973 doveva ritenersi atto preordinato all'espropriazione e, quindi, soggiacere agli stessi limiti per questa previsti dall'art. 76 del d.P.R. citato. Ha poi aggiunto che la questione non deve essere rimeditata in ragione del nuovo testo normativo, che avrebbe implicitamente confermato l'esistenza di limiti per il periodo pregresso, in quanto il d.l. n. 40 del 2010, in realtà si è limitato semplicemente a fissare in modo autonomo il presupposto per future iscrizioni di ipoteca.

È interessante segnalare, tuttavia, che l'ordinanza Sez. 6-5, n. 10234 (Rv. 622866), ha escluso che l'ipoteca prevista dall'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973 possa essere considerata quale mezzo preordinato alla la procedura di espropriazione forzata. Può essere utile aggiungere, che, a sostegno di tale conclusione, la decisione ha osservato che l'art. 77 citato, al secondo comma, prevede che, «prima di procedere all'esecuzione, il concessionario deve iscrivere ipoteca», e, al primo comma, richiama esclusivamente il primo e non anche il secondo comma dell'art. 50 del d.P.R. n. 602 del 1973, il quale ultimo, invece, dispone che, se l'espropriazione non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, occorre procedere a notifica dell'intimazione ad adempiere.

La sentenza Sez. Un., n. 5771 (Rv. 621833), ha affermato che l'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. al fine di far valere vizi della cartella di pagamento emessa in esito ad iscrizione a ruolo del contributo unificato previsto dall'art. 9 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, rientra nella giurisdizione del giudice tributario. Ha rilevato, in proposito, che l'indicato contributo unificato ha natura di entrata tributaria e che il controllo della legittimità delle cartelle esattoriali ad esso relative spetta al giudice tributario in base alla previsione degli art. 2, comma 1, e 19 lett. d), del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto dette cartelle, oltre ad attenere ad un tributo, costituiscono atti di riscossione e non di esecuzione forzata.

La sentenza Sez. Un., n. 10145 (Rv. 622713), ha affermato che, nel giudizio di accertamento dell'IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) dovuta da una società, vi è litisconsorzio necessario tra questa e tutti i suoi soci, e che, conseguentemente, è affetto da nullità il giudizio al quale i soci, o anche uno solo di essi, non abbiano partecipato. A fondamento di tale principio, la Corte ha posto l'assimilabilità dell'IRAP all'ILOR, in relazione alla quale la regola era il litisconsorzio necessario tra la società ed i soci nel giudizio di accertamento dell'imposta dovuta da questa, e non, invece, all'IVA, in riferimento alla quale la regola è l'assenza di litisconsorzio necessario tra soci e società. Ha osservato, in proposito, in primo luogo che l'IRAP non possiede le caratteristiche dell'IVA perché non è riscossa in ciascuna fase al momento della commercializzazione, è calcolata sul valore netto della produzione dell'impresa, e non è concepita per ripercuotersi sul consumatore finale come l'IVA. Ha rilevato poi che, invece, l'IRAP possiede le caratteristiche dell'ILOR, per la sua natura reale, incidente direttamente sui cespiti produttivi di reddito, per la sua non deducibilità dalle imposte sui redditi, per la sua proporzionalità, in relazione al valore della produzione netta derivante dall'attività esercitata nel territorio della regione. Ha inoltre aggiunto che molteplici sono i "punti di contatto" tra le due imposte, in quanto: l'art. 17, comma 1, del d. lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, prevede che, ai fini della determinazione del valore imponibile ai fini IRAP, si tiene conto del regime di esenzione decennale concesso per l'ILOR; l'art. 44 del d. lgs. n. 446 del 1997 dispone che l'IRAP e l'ILOR sono equiparate ai fini dell'applicazione dei trattati internazionali contro le doppie imposizioni; l'art. 25 del medesimo testo normativo stabilisce che per le attività di rettifica e di controllo della dichiarazione, per l'accertamento e per la riscossione dell'IRAP e per il relativo contenzioso è fatto espresso richiamo alle disposizioni in materia di imposte sui redditi, e quindi di ILOR, salvo alcune espresse eccezioni. Ha quindi rilevato che sussiste una sostanziale coincidenza degli elementi economici che costituiscono i presupposti rispettivamente dell'IRAP e dell'IRPEF, essendo la base imponibile di entrambe costituita dalla differenza tra ricavi e costi, salvo marginali differenze nel computo di questi ultimi, con conseguente vincolo per il tributo dovuto dai soci derivante dal giudicato sull'imposta a carico della società.

3. Le decisioni in materia di atti impugnabili.

Alcune significative decisioni hanno riguardato il tema degli atti impugnabili, manifestando la tendenza ad ampliare l'area di possibile ricorso al giudice tributario, avendo riguardo agli effetti connaturati al provvedimento contestato, e a ritenere, perciò l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 del d. lgs. n. 546 del 1992 come non rigorosamente tassativa.

La sentenza Sez. 5, n. 3274 (Rv. 622008), ha affermato che la decisione adottata dal Direttore Regionale delle Dogane ex art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, sui ricorsi amministrativi avverso gli avvisi di accertamento suppletivi e di rettifica emessi dall'autorità, ha natura di provvedimento definitivo. Ha in proposito osservato che è irrilevante il nomen iuris adoperato dalla legge per qualificare tale provvedimento: assume infatti rilievo decisivo la sua natura di atto emesso dall'autorità competente a decidere con carattere di definitività i ricorsi proposti contro gli atti degli uffici operativi, tanto più che esso è idoneo a portare a conoscenza del contribuente la pretesa dell'Amministrazione finanziaria. Ha da ciò concluso che la mancata impugnazione della decisione rende la stessa inoppugnabile, ed esclude che eventuali vizi ad essa relativi possano essere dedotti impugnando la conseguente cartella di pagamento.

La sentenza Sez. 5, n. 13462 (Rv. 623506), ha poi evidenziato che la categoria degli atti autonomamente impugnabili prevista dall'art. 19, comma 1, lett. h), del d. lgs. n. 546 del 1992, ossia quelli costituenti «diniego di agevolazioni», comprende anche gli atti di diniego di condono. Ha addotto, sul punto, che la richiamata disposizione pone una regola generale di abilitazione del contribuente a formulare domanda di agevolazione, quale deve ritenersi l'istanza di condono, e ad opporsi ad eventuali dinieghi.

La sentenza Sez. 5, n. 7344 (Rv. 622891), ha, dal canto suo, ritenuto essere immediatamente impugnabile la comunicazione di irregolarità ex art. 36 bis, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 2009, n. 600. Ha rilevato, a tal fine, che tale comunicazione costituisce atto che porta a conoscenza del contribuente una pretesa impositiva compiuta, e che tutti gli atti dotati di questa caratteristica, ove esplicitino le concrete ragioni, fattuali e giuridiche, poste a loro fondamento debbono ritenersi impugnabili, anche se non indicati nell'elenco contenuto nell'art. 19 del d. lgs. n. 546 del 1992. Ha poi specificato che questa conclusione, già accolta in precedenti decisioni, come nella sentenza Sez. 5, n. 4513 del 2009 (Rv. 606857), è imposta dai principî costituzionali di buon andamento della Pubblica Amministrazione, di cui all'art. 97 Cost., e di tutela del contribuente, di cui agli art. 24 e 53 Cost.

La sentenza Sez. 5, n. 5843 (Rv. 621886), ha invece escluso l'impugnabilità del provvedimento con il quale il Direttore Regionale delle Entrate dichiara l'improcedibilità dell'istanza di disapplicazione della norma antielusiva, presentata a norma dell'art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. A fondamento di tale assunto, la pronuncia ha addotto che questo provvedimento ha natura interlocutoria, che non respinge nel merito la richiesta, ma si limita semplicemente a rilevarne l'insuscettibilità di ogni plausibile valutazione.

Una innovativa conclusione è quella cui è pervenuta la sentenza Sez. 5, n. 17010 (Rv. 623917), la quale ha affermato la facoltà - non anche l'onere - per il contribuente del provvedimento di diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disporre la disapplicazione della norma antielusiva, a norma dell'art. 37 bis, del d.P.R. n. 600 del 1973. La pronuncia, in esplicito disaccordo dalla sentenza Sez. Trib., n. 8663 del 2011 (Rv. 617560), muove dalla premessa secondo cui il provvedimento in questione non può ritenersi diniego di agevolazione fiscale ai sensi dell'art. 19, comma 1, lett. h), del d. lgs. n. 546 del 1992, perché la disapplicazione di norma antielusiva non dispone un trattamento derogatorio a carattere generale, ma opera in relazione a singole fattispecie concrete, oggetto di specifico esame, né di esso alcuna norma prevede l'impugnabilità. Rileva, di conseguenza, che il provvedimento di diniego di disapplicazione della norma antielusiva non può essere ritenuto atto da impugnare nei termini perentori di decadenza, pena l'inoppugnabilità. Aggiunge, però, che i principî costituzionali di buon andamento della Pubblica Amministrazione, di cui all'art. 97 Cost., e di tutela del contribuente, di cui agli art. 24 e 53 Cost., e l'allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448, hanno indotto la giurisprudenza di legittimità a ritenere l'ammissibilità dell'impugnazione avverso gli atti che portano a conoscenza del contribuente una pretesa impositiva ben individuata, con l'esplicitazione delle concrete ragioni, fattuali e giuridiche, poste a loro fondamento, senza che sia necessario attendere che gli stessi siano recepiti nei provvedimenti autoritativi elencati dall'art. 19 d. lgs. n. 546 del 1992, e ad affermare, contemporaneamente, che la mancata impugnazione degli atti comunicativi in questione, proprio per non essere gli stessi indicati dal citato art. 19, non preclude l'impugnabilità dei successivi atti autoritativi. La pronuncia, a questo punto, esamina gli effetti prodotti dal provvedimento di diniego di disapplicazione, ed evidenzia che lo stesso, da un lato, non costituisce semplice parere, bensì il primo atto con il quale l'Amministrazione porta a conoscenza del contribuente il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta, la quale deve essere obbligatoriamente presentata, ed incide sulle determinazioni del richiedente in ordine alla dichiarazione dei redditi cui si riferisce, e, dall'altro, però, può essere oggetto di rivalutazione in favore del destinatario in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell'istanza di rimborso.

4. Le pronunce relative al giudizio di appello.

Il giudizio di appello è stato oggetto di diverse decisioni, alcune delle quale relative a temi nuovi, come in riferimento alla disciplina relativa al processo per il recupero degli aiuti di Stato, o comunque innovative, soprattutto in materia di ammissibilità dell'intervento adesivo dipendente e di impugnazioni incidentali. Ne risulta un quadro complessivo che risponde ad esigenze sistematiche di fondo, caratterizzate dall'affermazione dei principî di concentrazione, di speditezza e di massima semplificazione possibile.

Le sentenze Sez. 6-5, n. 2201 (Rv. 621982), e Sez. 5, n. 10806 (Rv. 623225), hanno approfondito il tema della domanda nuova, e della sua inammissibilità in appello, individuando il criterio guida per raggiungere una soluzione affidabile nel rispetto del principio del contraddittorio. La prima decisione ha ritenuto sussistere la modifica della causa petendi, e quindi la domanda nuova, quando nell'atto di impugnazione il titolo giuridico della pretesa viene impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado: ha rilevato, infatti, che, in tal caso, viene introdotto nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, che muta i termini della controversia rispetto al giudizio di primo grado (il principio è stato affermato con riferimento alla domanda di riconoscimento dell'agevolazione prevista in materia di ICI dall'art. 8 del d.lgs. 20 dicembre 1992, n. 504, proposta in appello sul presupposto che la stessa avesse ricevuto tutela in forza di una decisione delle Sezioni Unite pubblicata dopo la sentenza di primo grado). La seconda decisione, invece, ha evidenziato che il parametro per valutare la novità della domanda in appello proposta dall'Amministrazione finanziaria è fornito dall'atto impositivo impugnato, e dai presupposti di fatto e di diritto in esso indicati; ha rappresentato, a fondamento di tale conclusione, che il processo tributario è strutturato come giudizio di impugnazione in cui l'Amministrazione è l'attore in senso sostanziale e la sua pretesa è quella che risulta dall'atto impugnato, e che, quindi, per parlarsi di domanda nuova occorre verificare se gli elementi addotti nell'atto di appello non sono stati indicati neppure nel processo verbale di constatazione e nell'avviso di accertamento oggetto di impugnazione.

La sentenza Sez. 5, n. 8316 (Rv. 622671), in termini speculari, ha chiarito che il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, previsto dall'art. 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, riguarda le sole eccezioni in senso tecnico, ossia quelle nelle quali il convenuto introduce fatti giuridici aventi efficacia estintiva o modificativa della pretesa fiscale. La sentenza Sez. 5, n. 15740 (Rv. 623767), ha inoltre affermato che la disciplina sul divieto di proporre nuove eccezioni in appello sia applica anche quando queste trovano fondamento nel diritto comunitario, se tale normativa non disponga alcunché in proposito, sempre che il regime processuale adottato non sia deteriore rispetto a quello previsto dalla legge nazionale, né renda eccessivamente difficile l'esercizio di pretese fondate sul diritto comunitario (il principio è stato enunciato con riferimento ad eccezioni con le quali il contribuente deduceva l'avvenuta prescrizione e decadenza dell'Amministrazione finanziaria in tema di recupero di dazi doganali dovuti e non versati).

La sentenza Sez. 5, n. 255 (Rv. 621169), ha poi ritenuto l'ammissibilità dell'intervento adesivo dipendente nel giudizio di appello.

La decisione, affermando un principio in contrasto con altre pronunce (specificamente: Sez. 5, n. 16937 del 2007, Rv. 600304; Sez. 5, n. 24064 del 2006, Rv. 593945; Sez. 5, n. 17934 del 2004, Rv. 576797), presenta una caratteristica di novità anche rispetto a tutti i precedenti favorevoli all'ammissibilità dell'intervento adesivo dipendente nel processo tributario (precisamente: Sez. 5, n. 14423 del 2010, Rv. 613813; Sez. 5, n. 1789 del 2004, Rv. 569807; Sez. 5, n. 18541 del 2003, Rv. 568648), perché esso viene riferito esplicitamente alla tutela di tutti i soggetti «portatori di un interesse giuridicamente rilevante e qualificato, determinato dalla sussistenza di un rapporto giuridico sostanziale tra adiuvante e adiuvato e dalla necessità di impedire che nella propria sfera giuridica possano ripercuotersi le conseguenze dannose derivanti dagli effetti riflessi o indiretti del giudicato», e, segnatamente, del responsabile d'imposta, ossia del soggetto solidalmente responsabile, in posizione dipendente, per l'adempimento di un'obbligazione tributaria in luogo di altri, in quanto «pur non avendo realizzato il fatto indice di capacità contributiva risulta collegato al fatto imponibile ovvero al contribuente sulla base di un rapporto al quale il fisco rimane estraneo».

A fondamento di tale opzione ermeneutica, si rileva che, sebbene il dato letterale dell'art. 14 del d. lgs. n. 546 del 1992 potrebbe indurre ad escludere l'ammissibilità dell'intervento adesivo dipendente nel giudizio tributario, la diversa conclusione è imposta da una «interpretazione costituzionalmente orientata» della disposizione, che deve «indurre ad una lettura estensiva del concetto di destinatario dell'atto - fino a comprendere in esso non solo il destinatario stricto iure ma anche il destinatario potenziale e mediato - nonché del concetto di titolarità del rapporto controverso - fino a comprendere in esso anche la titolarità di un rapporto dipendente o connesso rispetto a quello costituito dall'atto impugnato»; la diversa soluzione, infatti, priverebbe i responsabili solidali dipendenti di «ogni possibilità di incidere in un giudizio la cui conclusione potrebbe avere conseguenze irreversibili sulla sua sfera giuridico-economica».

La sentenza Sez. 5, n. 17950 (Rv. 623996), occupandosi della riproposizione delle questioni assorbite nella decisione impugnata, se ha escluso la necessità, per la parte vittoriosa in primo grado, di presentare appello incidentale, ha però affermato che la volontà dell'appellato deve essere espressa a pena di decadenza nell'atto di controdeduzioni, da depositare nel termine previsto per la costituzione in giudizio, e non anche in un atto successivo, procedendo ad una ricostruzione dei principî generali della disciplina del processo tributario di appello. Ha infatti evidenziato, a fondamento di tale conclusione, non solo che, a norma dell'art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992, gli atti successivi alle controdeduzioni da depositare nel termine per la costituzione in giudizio esplicano una funzione meramente illustrativa, ma, più in generale, che i principî desumibili dalla complessiva disciplina del processo tributario, improntata a criteri di speditezza e di concentrazione, esigono che l'ambito della materia del contendere devoluta al giudice del gravame sia definito da entrambe le parti sin dal primo atto difensivo.

La sentenza Sez. 5, n. 5871 (Rv. 621885), ha invece rilevato che la notificazione della sentenza di appello ai fini del decorso del termine breve di impugnazione con ricorso per cassazione può avvenire anche nelle forme della consegnata diretta all'ufficio finanziario o all'ente locale, ovvero della spedizione a mezzo del servizio postale, in plico raccomandato, senza busta, e con avviso di ricevimento. Ha infatti osservato che l'art. 38 del d.lgs. n. 546 del 1992, per effetto dell'art. 3, comma 1, lett. a) del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, non fa più rinvio agli art. 137 e seguenti cod. proc. civ., ma all'art. 16 del d.lgs. n. 546 del 1992. Ha inoltre aggiunto che l'applicazione delle disposizioni relative al processo primo grado non trova ostacolo nella disciplina del ricorso per cassazione, pur se questo è interamente regolato dal codice di procedura civile, poiché le notifica delle sentenze di appello resta fuori del giudizio di legittimità, in quanto il suo scopo primario è quello di rendere più celere la formazione del giudicato formale.

La sentenza Sez. 5, n. 6534 (Rv. 622340), ha esaminato la disciplina del processo tributario di appello in materia di aiuti di Stato, pur interessandosi specificamente del problema della validità della sentenza emessa all'esito di tale giudizio. Il nucleo centrale della pronuncia in rassegna, infatti, si incentra sul rilievo che l'art. 47 bis del d.lgs n. 546 del 1992 - introdotto dall'art. 2, comma 1, del d.l. 8 aprile 2008, n. 59, convertito dalla legge 6 giugno 2008, n. 101, e relativo alle controversie in cui si discute del recupero di un aiuto di Stato nel corso delle quali il contribuente abbia conseguito la sospensione dell'atto emesso in esecuzione della decisione comunitaria di recupero - stabilisce, al comma 7, l'applicazione dei precedenti commi 4, terzo e quarto periodo, 5 e 6 anche ai giudizi davanti alla Commissioni Tributarie Regionali. Muovendo da questa premessa, la decisione ha desunto che la regola di cui al comma 5 del citato art. 47 bis, secondo cui, al termine della discussione, il collegio delibera la decisione in camera di consiglio ed il presidente redige e sottoscrive il dispositivo e ne dà lettura in udienza a pena di nullità, si applica anche al processo di appello, con la conseguenza che la sentenza di secondo grado, ove sia stata omessa la lettura del dispositivo in udienza è nulla deve essere cassata con rinvio.

5. (segue) L'elaborazione relativa alla disciplina dell'appello incidentale.

Diverse pronunce, nel corso del 2012, hanno riguardato l'appello incidentale. In particolare, sono stati esaminati i profili attinenti alle situazioni in cui esso è lo strumento necessario per riproporre le questioni al giudice di seconde cure, alle modalità di proposizione, all'ammissibilità ed all'autonomia rispetto all'impugnazione principale.

La sentenza Sez. 5, n. 17950, già citata nel precedente paragrafo, ha escluso la necessità, per la parte vittoriosa in primo grado, di presentare appello incidentale al fine di riproporre le questioni assorbite nella decisione impugnata; su di esse, infatti, manca una decisione idonea a passare in giudicato. L'ordinanza Sez. 5, n. 1154 (Rv. 621366), invece, ha affermato la necessità di proporre impugnazione, eventualmente anche in via incidentale, al fine di dedurre un'eccezione in senso proprio che sia stata respinta dal giudice di prime cure. Nella stessa prospettiva, l'ordinanza Sez. 6-5, n. 2752 (Rv. 621692), ha evidenziato che, a fronte di una pronuncia, anche implicita sulla giurisdizione, la parte vittoriosa ha l'onere di proporre appello, anche in via incidentale condizionata ex art. 54 del d. lgs. n. 546 del 1992, e sia pure senza l'adozione di formule sacramentali, in quanto si tratta di decisione idonea a passare in cosa giudicata.

Per quanto attiene alle forme di proposizione dell'appello incidentale, così come, più in generale, alla costituzione dell'appellato nel giudizio di secondo grado, la sentenza Sez. 5, n. 17953 (Rv. 623993-94), ha affermato che la parte può procedere non solo mediante materiale deposito degli atti, ma anche mediante trasmissione degli stessi con plico raccomandato spedito nel termine di sessanta giorni dalla notifica dell'appello principale. Ha osservato, in proposito, che sebbene l'art. 54 del d. lgs. n. 546 del 1992 richiami l'art. 23 del medesimo d. lgs., il quale fa riferimento al solo deposito materiale degli atti, la soluzione che esclude l'ammissibilità della spedizione per posta sarebbe irragionevolmente diversa da quella relativa alla proposizione dell'appello principale, e, quindi in contrasto con gli art. 3 e 24 Cost. Ha quindi aggiunto che, invece, la soluzione accolta è in linea con il principio guida del processo tributario di massima semplificazione delle attività processuali e con le numerose previsioni legislative che, tanto nel processo civile, quanto nel processo amministrativo, consentono il ricorso a mezzi di trasmissione degli atti.

In relazione ai rapporti tra appello incidentale ed appello principale, sia la sentenza Sez. 5, n. 4679 (Rv. 621747), sia l'ordinanza Sez. 6-5, n. 12443 (Rv. 623384) hanno affermato che il primo, se tempestivamente proposto, impone al giudice di pronunciare su di esso, anche in caso di inammissibilità del secondo. In particolare, la prima decisione ha rilevato che la legge prevede l'inammissibilità della sola impugnazione incidentale tardive come conseguenza dell'inammissibilità dell'impugnazione principale. La medesima pronuncia, però, ha anche precisato che l'appellante incidentale, pur se tempestivo, ha l'onere, a pena di inammissibilità, di depositare copia della propria impugnazione nella segreteria della commissione tributaria provinciale, a norma dell'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall'art. 3 bis del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248. Ha in proposito rilevato che detto adempimento è necessario per evitare il rischio di un'erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, e non implica un onere eccessivamente gravoso ai fini dell'esercizio del diritto di difesa, in quanto l'appellante incidentale ha sessanta giorni dalla notifica dell'appello principale per costituirsi e per poter così verificare se l'altra parte abbia provveduto al deposito del proprio mezzo di gravame nella segreteria del giudice a quo.

  • magistrato
  • notaio
  • procedura disciplinare
  • avvocato

CAPITOLO XXXIV

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Antonio Corbo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Magistrati. - 2.1 - 2.2 - 3 Avvocati. - 3.1 - 3.2 - 4 Notai. - 4.1 - 4.2

1. Premessa.

Anche in relazione ai procedimenti disciplinari, la giurisprudenza di legittimità nel corso del 2012 ha pronunciato un apprezzabile numero di decisioni, talvolta affermando principî che appaiono essere un punto di approdo e di sistemazione relativamente a questioni oggetto di precedenti approfondimenti.

Per affinità di materia ed evitare frammentazioni dell'esposizione, inoltre, in questa sede si ricordano, in primo luogo, importanti principî di natura sostanziale, concernenti la responsabilità disciplinare dei soggetti di cui ci si occupa.

2. Magistrati.

La maggior parte delle pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato le fattispecie di illecito; non sono mancate però significative affermazioni anche con riferimento ai profili processuali.

2.1.

Diverse decisioni hanno riguardato il tema e l'estensione dell'obbligo di astensione, deontologicamente rilevante a norma dell'art. 2, comma 1, lett. c), del d. lgs. 23 febbraio 2006, n. 109.

La sentenza Sez. Un., n. 5701 (Rv. 622047-49), ha ritenuto che il dovere di astensione del giudice civile, pur non essendo configurabile per la mera esistenza di gravi ragioni convenienza, sussiste, oltre che nei casi espressamente previsti dall'art. 51 cod. proc. civ., anche nei casi in cui sia ravvisabile un interesse proprio del magistrato o di un suo prossimo congiunto a conseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale o a farlo conseguire ad altri o a cagionare un danno ingiusto ad altri. Ha poi osservato che l'esistenza di un contratto di durata (nella specie, di locazione) del giudice con una delle parti, salvo i casi di rapporti obbligatori del magistrato con lo Stato o con altro ente pubblico per ragioni di residenza o con aziende erogatrici di servizi pubblici per ragioni di utenza, costituisce sempre ragione di debito e credito che rende l'astensione obbligatoria a norma dell'art. 51, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. Ha però aggiunto che, nel processo esecutivo, colui che presenta offerte nella vendita forzata non è parte, almeno fino al momento in cui non si manifesti un contrasto nel quale detto soggetto sia coinvolto e che richieda l'intervento regolatore del giudice dell'esecuzione.

Successivamente, la sentenza Sez. Un., n. 19704 (Rv. 62416263), nel ribadire che l'obbligo di astensione rilevante in sede disciplinare a norma dell'art. 2, comma 1, lett. c), del d. lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, non è limitato alle sole ipotesi previste dall'art. 51, comma 1, cod. proc. civ., e dagli art. 36 e 37 cod. proc. pen., ma è configurabile in tutti i casi nei quali sia ravvisabile un interesse proprio del magistrato o di un suo prossimo congiunto, ha operato importanti precisazioni. Essa, innanzitutto, ha osservato che il fondamento dell'obbligo di astensione è riposto nell'art. 323 cod. pen., perché questo detta una norma di carattere generale che si coordina con quelle speciali, riguardanti gli «altri casi prescritti», ossia casi diversi ed ulteriori, e prevale su ogni altra disposizione nei limiti della propria statuizione. Ha precisato, poi, che il dovere generale di astenersi si pone quando sussista un conflitto, anche solo potenziale, di interessi tanto patrimoniali, quanto non patrimoniali, rilevando che la previsione dell'obbligo di astensione contenuta nell'art. 323 cod. pen. costituisce modalità di attuazione del principio di imparzialità cui deve ispirarsi tutta l'attività dei pubblici ufficiali a norma dell'art. 97 Cost., e che, invece, il richiamo effettuato dalla medesima disposizione incriminatrice ai requisiti della patrimonialità e dell'ingiustizia del danno attiene non all'interesse, ma all'evento del reato. Ha quindi concluso, con riferimento al giudice civile, che la facoltà di astenersi per gravi ragioni di convenienza deve ritenersi abrogata per incompatibilità e sostituita dal corrispondente obbligo; ha infine aggiungendo, ad adiuvandum, che la diversa soluzione esporrebbe la norma di cui all'art. 51, comma 2, cod. proc. civ. a seri dubbi di costituzionalità per disparità di trattamento rispetto al giudice penale, su cui incombe l'obbligo di astenersi ai sensi dell'art. 36, comma 1, lett. h), cod. proc. pen., e a tutti i dipendenti della P.A., gravati di identico dovere per effetto dell'art. 6 del D.M. 28 novembre 2000, emanato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funzione pubblica.

Le indicazioni sistematiche esposte nella decisione appena citata risultano condivise anche dalla sentenza Sez. Un., n. 21853 (in corso di massimazione), la quale ha affermato che, per effetto della previsione contenuta nell'art. 323 cod. pen., l'obbligo astensione sussiste in tutte le ipotesi che configurano oggettivamente un conflitto di interessi, nonostante l'art. 52 cod. proc. pen. ricorra alla locuzione "facoltà di astenersi". Ha poi aggiunto che tale soluzione che equipara, a questi fini, gli obblighi del magistrato del pubblico ministero a quelli del giudice penale, per il quale è inequivocabile il dettato dell'art. 36 cod. proc. pen., affonda le sue radici nello statuto costituzionale del pubblico ministero, il quale lo prevede come partecipe dell'indipendenza del giudice e sottratto all'influenza dell'esecutivo.

Con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2, comma 1, lett. d), del d. lgs. n. 109 del 2006, la sentenza Sez. Un., n. 6328 (Rv. 622236), ha affrontato il tema dell'individuazione del significato della nozione di comportamento gravemente scorretto. La decisione, in particolare, ha rilevato che l'illecito è integrato dalla condotta consistente nell'anticipare al difensore il prevedibile rigetto di un'istanza a causa dell'orientamento contrario degli altri componenti del collegio. Ha osservato, sul punto, che questo comportamento si connota per la violazione del segreto della camera di consiglio, almeno in via potenziale, e per l'indebita attribuzione ai colleghi del previsto esito della decisione.

La sentenza Sez. Un., n. 11069 (Rv. 623234), invece, occupandosi della previsione di cui all'art. 2, comma 1, lett. g), del d. lgs. n. 109 del 2006, ha affermato che la grave violazione di legge rileva in relazione non al risultato dell'attività giurisdizionale, ma alla valutazione complessiva dell'atteggiamento tenuto dal magistrato. La pronuncia, infatti, ha osservato che il fondamento dell'illecito è nell'esigenza di verificare se il comportamento dell'incolpato, siccome improntato quantomeno ad inescusabile negligenza, sia tale da compromettere tanto la considerazione di cui lo stesso come singolo deve godere, quanto il prestigio dell'ordine giudiziario.

La sentenza Sez. Un., n. 21913 (in corso di massimazione), poi, ha esaminato l'illecito determinato da reiterata o grave inosservanza delle disposizioni sul servizio giudiziario, previsto dall'art. 2, comma 1, lett. n), del d. lgs. n. 109 del 2006. La decisione ha enunciato il principio secondo cui detta fattispecie può essere addebitabile ad un magistrato appartenente alla Direzione Nazionale Antimafia per violazione delle disposizioni di cui al d. lgs. del 20 febbraio 2006, n. 106 e all'art. 371 bis cod. proc. pen., nelle forme dell'omessa comunicazione di dati di possibile interesse investigativo e conoscitivo relativi alla criminalità organizzata e della coltivazione di contatti con esponenti dei servizi di intelligence senza darne comunicazione al Procuratore Nazionale o alle Direzioni Distrettuali competenti per territorio, senza attivare i colloqui investigativi, procedendo anche dopo che le attività di coordinamento relative alle indagini potenzialmente interessate erano state assegnate ad altro magistrato della Procura Nazionale. A fondamento di tale conclusione, ha rappresentato che deve ritenersi applicabile anche alla Procura Nazionale Antimafia la disciplina di cui al d. lgs. n. 106 del 2006, non essendo ravvisabile l'esistenza di previsioni derogatorie in proposito, ed essendo anzi detto ufficio caratterizzato da un particolare spessore dei poteri di indirizzo e coordinamento facenti capo al Procuratore, con conseguente aggravamento dell'onere di comunicazione e informazione da parte dei sostituti circa le attività svolte e le iniziative intraprese.

In materia di ritardi nel deposito dei provvedimenti, disciplinarmente rilevanti a norma dell'art. 2, comma 1, lett. q), del d. lgs. n. 109 del 2006, la Corte ha emesso più decisioni, le quali risultano porsi nel solco della precedente elaborazione. In generale, infatti, le pronunce del 2012 tendono a non discostarsi dal principio espresso nella sentenza Sez. Un., n. 18697 del 2011 (Rv. 618628), secondo cui la durata di un anno nel ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali rende ingiustificabile la condotta dell'incolpato, se non siano allegate da quest'ultimo e accertate dalla Sezione disciplinare circostanze assolutamente eccezionali che giustifichino l'inottemperanza del precetto sui termini di deposito. Non mancano, però, alcune precisazioni.

La sentenza Sez. Un., n. 528 (Rv. 620252), ha affermato che la punibilità può essere esclusa solo se le giustificazioni addotte siano pregnanti, oggettive ed idonee a contrastare la contestazione e sempre che i ritardi non siano talmente prolungati, reiterati e sistematici da superare la soglia di ragionevolezza e da concretare un diniego di giustizia con conseguente lesione del prestigio dell'ordine giudiziario. La sentenza Sez. Un., n. 5761 (Rv. 622213), poi, ha rappresentato che gli elementi della reiterazione, della gravità e della ingiustificatezza dei ritardi vanno contestualizzati alla luce tanto del complessivo carico di lavoro, in riferimento a quello mediamente sostenibile dal magistrato a parità delle condizioni, quanto della laboriosità e dell'operosità, desumibili dall'attività svolta sotto il profilo quantitativo e qualitativo, quanto ancora da tutte quelle ulteriori circostanze idonee a fornire spiegazione dell'accaduto, le quali, per la loro natura, implicano un tipico apprezzamento di fatto rimesso alla valutazione della Sezione disciplinare del C.S.M. e sindacabile nei soli limiti della insufficienza o della contraddittorietà della motivazione. La sentenza Sez. Un., n. 6490 (Rv. 622238), invece, nel fare diretta applicazione del principio espresso nel 2011, e sopra indicato, ha precisato che la "buona" laboriosità non è idonea ad integrare una di quelle circostanze assolutamente eccezionali che giustificano un ritardo nel deposito dei provvedimenti superiore ad un anno; ha osservato, a spiegazione di tale conclusione, che è sempre doveroso per il magistrato assicurare una "buona" laboriosità. La sentenza Sez. Un., n. 8409 (Rv. 622695), ancora, ha espressamente ribadito che i ritardi superiori all'anno sono intollerabili, in quanto sforano il termine ritenuto ragionevole dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo per la durata dell'intero giudizio di legittimità, e che una loro giustificazione è possibile solo se concorrono fattori eccezionali e proporzionati alla particolare gravità attribuibile alla violazione (il principio è stato affermato con riferimento ad una vicenda in cui i ritardi erano molto gravi, talvolta eccedenti ai tre anni, anche se di numero non particolarmente elevato; la Corte ha precisato che lo svolgimento, da parte dell'incolpato, di funzioni semidirettive e di incarichi ed attività che non era obbligatorio assumere, non costituiva adeguata causa di giustificazione, anche perché il magistrato, proprio per le funzioni di organizzazione del lavoro espletate, avrebbe potuto e dovuto prevenire la situazione).

La sentenza Sez. Un., n. 6327 (Rv. 622237), ha, per parte sua, affrontato il tema dell'esimente di cui all'art. 3 bis del d. lgs. n. 109 del 2006, con riferimento ad area di operatività, elementi costitutivi ed applicabilità di ufficio. La decisione, infatti, ha osservato che la configurabilità del fatto per scarsa rilevanza ha rilievo per tutte le fattispecie di cui agli art. 2 e 3 del d. lgs. n. 109 del 2006, anche quando la gravità del comportamento è elemento costitutivo del fatto tipico, in quanto in tal senso depongono sia la formulazione letterale della disposizione, sia la collocazione sistematica e topografica della stessa. Ha poi aggiunto che, ai fini dell'applicazione dell'esimente, il giudice deve procedere ad una valutazione di ufficio, e prendere in considerazione tutte le caratteristiche e circostanze oggettive attinenti alla vicenda che risultino acquisite agli atti. Ha quindi concluso, con riferimento ad una vicenda in cui un magistrato era stato condannato dalla Sezione disciplinare del C.S.M. con l'addebito di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto per aver espresso critiche aspre e gratuite in ordine alla professionalità del collega precedente titolare del ruolo a lui successivamente assegnato, che la scarsa rilevanza del fatto poteva emergere dalla sostanziale unitarietà del comportamento e dal successivo e formale riconoscimento da parte dell'incolpato, magistrato alle prime funzioni, dell'inopportunità ed incongruità della propria condotta.

2.2.

Per quanto riguarda i profili processuali, le decisioni più significative hanno esaminato i limiti di applicabilità al procedimento disciplinare della disciplina del codice di procedura penale, dimostrando particolare attenzione alla stessa.

In particolare, la sentenza Sez. Un., n. 15832 (Rv. 623479), ha affermato che è applicabile la disposizione di cui all'art. 129 cod. proc. pen., che impone di dichiarare l'estinzione del reato «in ogni stato e grado del processo» e di pronunciare sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con formula liberatoria nel merito quando ricorre una causa di estinzione del reato, ma dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Ha rilevato che questa conclusione si fonda sul rinvio al codice di procedura penale compiuto negli art. 16, comma 2, e 18, comma 4, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, relativi l'uno alle indagini nel procedimento disciplinare ed al potere di archiviazione, l'altro alla discussione nel giudizio disciplinare. Ha però osservato che la valutazione in termini di evidenza comporta che la pronuncia della formula assolutoria in luogo di quella che rileva l'estinzione del reato può essere adottata solo se non sussista uno specifico ed articolato obbligo motivazionale.

La sentenza Sez. Un., n. 19829 (in corso di massimazione), invece, ha rilevato che non occorre procedere a lettura, indicazione o acquisizione degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del procedimento inviato dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, ai fini dell'utilizzabilità degli stessi per la decisione. La sentenza ha rappresentato, infatti, che il fascicolo in questione costituisce il corrispondente di quello previsto per il dibattimento penale dall'art. 431 cod. proc. pen., e che la lettura, a norma dell'art. 18, comma 3, lett. b), del d. lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, è contemplata come attività non obbligatoria, ma rimessa alla discrezione del giudice. Ha inoltre aggiunto, a sostegno di tale conclusione, che, anche nel processo penale, la mancata lettura o indicazione di risultanze istruttorie contenute nel fascicolo del dibattimento non comporta l'inutilizzabilità o la nullità delle stesse e, quindi, l'invalidità della decisione che di esse abbia tenuto conto.

3. Avvocati.

Le decisioni della Corte di cassazione, nel corso del 2012, hanno riguardato tanto i profili sostanziali, quanto quelli processuali.

3.1.

Per quanto attiene ai profili sostanziali, le decisioni si sono occupate tanto di problemi di carattere generale, quanto di singole fattispecie, relative ai rapporti dell'avvocato con le istituzioni dell'ordinamento professionale, oppure all'organizzazione dell'attività professionale ed ai rapporti con i colleghi, oppure ancora allo svolgimento dell'attività professionale in senso stretto.

Su di un piano generale, la sentenza Sez. Un., n. 19705 (Rv. 624130-33), ha osservato che la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare è rimessa all'ordine professionale, in quanto queste sono definite dalla legge mediante una clausola generale (abusi o mancanze nell'esercizio della professione o comunque fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale), e, quindi, in linea con risalenti impostazioni di teoria generale, la loro concretizzazione è devoluta all'organo deputato a sanzionarle. Ha quindi aggiunto che, in conseguenza di ciò, il controllo di legittimità sull'applicazione di tali norme non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nell'enunciazione di ipotesi di illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, che attiene non alla congruità della motivazione, ma all'individuazione del precetto, e che rileva, quindi, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. La sentenza Sez. Un., n. 14374 (Rv. 623482), poi, ha evidenziato che l'avvenuta abrogazione di divieti già tipizzati nel codice deontologico, non può elidere l'antigiuridicità delle condotte pregresse, secondo la regola penalistica della retroattività degli effetti derivanti dalla abolitio criminis ai procedimenti in corso, poiché l'illecito deontologico è riconducibile al genus degli illeciti amministrativi, per i quali - in difetto della eadem ratio - non trova applicazione, in via analogica, il principio del favor rei sancito dall'art. 2 cod. pen., bensì quello del tempus regit actum.

Relativamente alle fattispecie riguardanti i rapporti con le istituzioni dell'ordinamento professionale, le sentenze Sez. Un., n. 9184 (Rv. 622833), e Sez. Un., n. 20219 (Rv. 624135-36) hanno affermato che costituisce illecito disciplinare la mancata comunicazione alla Cassa di previdenza dell'ammontare dei redditi dichiarati ai fini IRPEF e del volume di affari dichiarato ai fini IVA anche nel caso di professionisti non iscritti all'ente. La seconda sentenza, inoltre, ha precisato che, in ordine a tale fattispecie, il termine di prescrizione dell'azione inizia a decorrere solo dalla data in cui l'avvocato inoltra le comunicazioni prescritte, poiché la fattispecie ha natura di illecito permanente; ha in proposito osservato che la ratio finale dell'obbligo di comunicazione è quella di consentire alla Cassa di riscuotere i contributi obbligatori, e che, di conseguenza, possono sempre provvedere a tale adempimento i soggetti ad esso tenuti.

Diverse decisioni attengono ai comportamenti riferibili all'organizzazione dell'attività professionale ed ai rapporti con i colleghi.

Le sentenze Sez. Un., n. 14368 (Rv. 623465), e Sez. Un., n. 19705 (Rv. 624130-33), hanno ritenuto che costituisce illecito disciplinare lo svolgimento di pubblicità con modalità lesive del decoro e della dignità professionale.

In particolare, la prima decisione ha ravvisato le modalità lesive del decoro e della dignità professionale nell'utilizzo presso l'ufficio e nel sito web delle espressioni "L'angolo dei diritti" e "negozio"; ha osservato, in proposito, che l'art. 2, comma 1, lett. b), del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (cd. decreto Bersani), convertito in legge n. 248 del 2006, pur consentendo ai professionisti di fornire pubblicità informativa, non autorizza qualsiasi modalità e contenuto di informazione pubblicitaria.

La seconda pronuncia ha, invece, ravvisato le modalità lesive del decoro e della dignità professionale nel ricorso a messaggi pubblicitari su di un giornale, caratterizzati da uno slogan sull'attività svolta, con grafica tale da porre enfasi sul dato economico dei costi molto bassi; essa, oltre a ribadire che l'art. 2, comma 1, lett. b), del d.l. n. 223 del 2006, non preclude agli organi disciplinari professionali di sanzionare il ricorso a messaggi pubblicitari non conformi a correttezza, ha segnalato che un messaggio contenente elementi equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo si pone in contrasto anche con l'art. 4 del d.P.R. 3 agosto 2012, n. 137, il quale, al comma secondo, statuisce che la pubblicità informativa deve essere «funzionale all'oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l'obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria».

La sentenza Sez. Un., n. 14374 (Rv. 623481), invece, ha sanzionato come contraria ai doveri di decoro e dignità professionale la condotta dell'avvocato che si avvale dell'ausilio e delle strutture organizzative ed operative di una società di consulenza, indicata come "partner" nel sito web, in quanto idonea ad ingenerare nei terzi la fondata opinione dell'esistenza di un rapporto di tipo imprenditoriale e sociale.

In riferimento alle condotte in tema di svolgimento dell'attività professionale, infine, la appena citata sentenza Sez. Un., n. 14374 (Rv. 623483), ha affermato che costituisce illecito disciplinare l'intraprendere una pluralità di iniziative giudiziarie non giustificate da un effettivo e necessitato sviluppo processuale a tutela delle proprie ragioni economiche in relazione ad un rapporto professionale svoltosi continuativamente e per un lungo periodo di tempo; ha, invero, rappresentato che quando la proposizione di più cause distinte, invece che di una sola, non abbia alcuna ragione obiettivamente apprezzabile, ma sia tale da incrementare irragionevolmente le spese processuali gravanti la posizione della controparte, deve ritenersi integrata la violazione dell'art. 49 del codice deontologico.

3.2.

Per quanto attiene ai profili processuali, le pronunce hanno riguardato: le garanzie in tema di imparzialità dell'organo decidente, nonché in tema di diritto di difesa, di rispetto del contraddittorio e dei principî del giusto processo; la disciplina del procedimento davanti al Consiglio nazionale forense, anche come giudice di rinvio; l'ambito di ammissibilità del ricorso per cassazione; i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale.

La sentenza Sez. Un., n. 11142 (Rv. 623221), ha affrontato il tema di limiti di ammissibilità dell'istanza di ricusazione, ritenendo inammissibile quella proposta contro tutti i componenti dell'organo giudicante; ha infatti osservato che detto rimedio non può essere proposto al fine di mettere in discussione l'idoneità dello stesso a decidere, in linea con quanto evidenziato anche dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo nella pronuncia emessa il 20 maggio 1998, nel proc. Gautrin c. Francia.

Ampio, anche se temperato da valutazioni di ragionevolezza, è stato il riconoscimento del diritto dell'incolpato ad essere sentito prima dell'adozione di un provvedimento cautelare o di decisione nel merito. La sentenza Sez. Un., n. 3182 (Rv. 621163), infatti, ha affermato che è affetto da nullità insanabile il provvedimento che abbia inflitto la sospensione cautelare dall'esercizio della professione all'esito di una riunione alla quale l'interessato non sia stato convocato. La sentenza Sez. Un., n. 12608 (Rv. 623403), ha però precisato che, se l'incolpato deve essere posto in condizione di essere sentito prima dell'adozione di una misura cautelare o nel giudizio di merito, l'onere di provare l'impossibilità a comparire incombe su di lui, non avendo il giudice alcun obbligo di disporre accertamenti di ufficio al fine di completare l'insufficiente documentazione prodotta. La sentenza Sez. Un., n. 11142 (Rv. 623220), ha però aggiunto che l'onere per l'incolpato di provare la propria impossibilità a comparire è escluso quando esiste una situazione tale da precludere assolutamente anche la possibilità stessa di richiedere il rinvio e di documentarne la ragione.

Per quanto attiene all'impugnabilità della delibera di apertura del procedimento disciplinare, la sentenza Sez. Un., n. 10140 (Rv. 623003), ha ribadito la soluzione negativa, in linea con quanto affermato dalla sentenza Sez. Un., n. 28335 del 2011 (Rv. 620149), ed in contrasto con l'indirizzo iniziato dalla sentenza Sez. Un., n. 29294 del 2008 (Rv. 605949). La successiva sentenza Sez. Un., n. 17402 (Rv. 623574) ha poi escluso che tale mutamento giurisprudenziale abbia dato luogo ad una fattispecie di cd. overruling; ha infatti rilevato che l'affermazione del principio di inammissibilità dell'impugnazione della delibera di apertura del procedimento disciplinare non poteva dirsi inattesa o priva di segnali che ne avessero anticipato il manifestarsi, in ragione del dibattito dottrinale in materia.

Con riferimento alla disciplina del processo davanti al Consiglio nazionale forense, procedimento di natura sicuramente giurisdizionale, si è manifestata con particolare evidenza la tendenza di escludere o ammettere l'operatività delle disposizioni del codice di procedura civile alla luce dell'esistenza o dell'inesistenza di specifiche disposizioni relative all'istituto da applicare. Paradigmatica è la sentenza Sez. Un., n. 13797 (Rv. 623404-623404). Essa, infatti, da un lato, ha escluso l'applicabilità dell'art. 132 cod. proc. civ. in materia di sottoscrizione della deliberazione del CNF, ritenendo che la stessa deve essere apposta dal presidente e dal segretario, ma non anche dal relatore, essendo le disposizioni di cui agli art. 44, 51 e 64 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, speciali rispetto a quella del codice di rito civile. Dall'altro, però, ha affermato l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 392 cod. proc. civ. per le modalità di riassunzione del giudizio disciplinare davanti al Consiglio Nazionale Forense a seguito di cassazione con rinvio, stante l'assenza di una specifica disposizione in proposito nell'ambito della legge speciale forense, e l'impossibilità di ricorrere alle regole previste per l'originario giudizio di impugnazione, in quanto dettate per assolvere alle esigenze proprie di questa diversa fase processuale.

In ordine, invece, alla disciplina del ricorso per cassazione contro le decisioni del Consiglio Nazionale Forense, significative sono le deroghe ritenute operanti rispetto alla disciplina comune. La sentenza Sez. Un., n. 11142 (Rv. 623219), ha osservato che l'eccesso di potere, previsto dall'art. 56 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, quale motivo di ricorso, non ricalca la figura dello sviamento di potere o delle cosiddette figure sintomatiche elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, ma consiste solo nel cd. eccesso di potere giurisdizionale, il quale si concreta nell'esplicazione di una potestà riservata dalla legge ad un'altra autorità, legislativa o amministrativa, o nell'arrogazione di un potere non attribuito ad alcuna autorità. La sentenza Sez. Un., n. 13791 (Rv. 623468), ha invece evidenziato che la determinazione della sanzione inflitta all'incolpato è riservata agli organi disciplinari, e pertanto non è censurabile per motivi di legittimità salvo il caso di assenza di motivazione.

Sul tema dei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, la Corte di cassazione ha individuato la disciplina applicabile muovendo dalla disposizione di cui all'art. 653 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 1 della legge 27 marzo 2001, n. 97, che attribuisce, con alcuni limiti, alle sentenze penali irrevocabili di assoluzione e di condanna efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare «davanti alle pubbliche autorità», ed ha letto la stessa come strumento per evitare il contrasto tra giudicati. In particolare, la sentenza Sez. Un., n. 5991 (Rv. 622061) ha rappresentato che, qualora l'addebito disciplinare abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, si impone la sospensione del giudizio disciplinare ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ., previa verifica di tale identità da parte degli organi competenti per l'illecito deontologico. La sentenza Sez. Un., n. 5995 (Rv. 622063) ha rilevato che la mancata sospensione del giudizio e l'irrogazione di una sanzione in pendenza di procedimento penale per i medesimi fatti, ove questo successivamente si concluda con una pronuncia di condanna, non determina nullità deducibili dall'incolpato. La sentenza Sez. Un., n. 18701 (Rv. 623980), ha, invece, precisato che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato nei giudizi disciplinari che riguardano avvocati quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, ma non esplica alcuna efficacia in ordine alla valutazione sulla rilevanza del fatto e sulla personalità del suo autore sotto il profilo deontologico, essendo tale apprezzamento riservato al giudice disciplinare, in coerenza con quanto disposto dall'art. 5 del Codice deontologico forense (il principio è stato enunciato in relazione ad una vicenda in cui la Corte ha confermato la decisione del Consiglio nazionale forense che, nell'applicare la sanzione della radiazione, aveva valutato la condotta dell'incolpato, giudicandone l'offensività in relazione ai principî supremi di giustizia e lealtà processuale ed ai valori di dignità, prestigio e decoro del medesimo professionista, degli altri colleghi coinvolti nella vicenda e dell'intera classe professionale, in piena autonomia rispetto al giudice penale il quale aveva concesso attenuati generiche e sospensione condizionale della pena escludendo il pericolo di recidiva).

4. Notai.

Anche in relazione all'ordinamento disciplinare per i notai, le decisioni della Corte di cassazione hanno riguardato sia la materia sostanziale, sia i profili procedimentali e processuali.

4.1.

Per quanto attiene ai profili procedimentali e processuali, le pronunce hanno riguardato: le garanzie davanti agli organi amministrativi; la natura del giudizio di impugnazione nel merito davanti agli organi della giurisdizione ordinaria e la compatibilità dello stesso con le disposizioni costituzionali e della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo; la disciplina del ricorso per cassazione; i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale.

Relativamente alle garanzie del procedimento nella fase amministrativa, la sentenza Sez. Un., n. 13617 (Rv. 623439), ha evidenziato che, per il valido inizio della procedura da parte del Presidente del Consiglio Notarile, non è necessario procedere alla comunicazione prevista dall'art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Ha fondato tale sua conclusione sul rilievo che l'art. 153 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, come sostituito dall'art. 39 del d.lgs. 1 agosto 2006, n. 249, siccome dispone che «il procedimento è promosso senza indugio se risultano sussistenti gli elementi costitutivi di un fatto disciplinarmente rilevante», individua una situazione di deroga ai sensi del medesimo art. 7, che esclude l'obbligo di comunicazione quando esistano «ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento».

In riferimento al giudizio di impugnazione nel merito davanti agli organi della giurisdizione ordinaria, la Corte ne ha approfondito sia la natura e l'ambito operativo, sia la compatibilità con le disposizioni costituzionali e della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo.

Precisamente, la sentenza Sez. Un., sentenza n. 13617 (Rv. 623437-623443) ha affermato che le doglianze relative all'esercizio dell'iniziativa disciplinare vanno proposte davanti al giudice ordinario e non davanti al giudice amministrativo, osservando che anche questa fase ha ad oggetto diritti soggettivi, ed è disciplinata nell'ambito del procedimento disciplinare. Ha inoltre evidenziato che la conformazione del procedimento con un unico grado in sede giurisdizionale non è in contrasto con i principî o le disposizioni della Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, poiché queste fonti di rango primario non impongono il doppio grado di giudizio, né può ritenersi violato il principio di uguaglianza, perché anche altri ordinamenti disciplinari professionali, come quello forense, prevedono un'articolazione analoga a quella fissata per i notai. Ha poi rilevato che deve ritenersi ammissibile l'impugnazione incidentale tardiva proposta dal titolare dell'azione disciplinare, in quanto la legge non stabilisce alcuna limitazione per la parte pubblica, ed anzi il riconoscimento alla stessa di tale facoltà comporta la piena uguaglianza delle parti nei poteri di impugnazione; ha anzi aggiunto che, proprio muovendo da queste osservazioni, risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata sul presupposto che il sistema sia irrazionalmente sbilanciato a favore della parte pubblica, se si ritenga a questa consentita la proposizione di reclamo incidentale tardivo.

In ordine alla disciplina del ricorso per cassazione, sono intervenute pronunce relative a più profili.

La sentenza Sez. 6-3, n. 4720 (Rv. 622116) ha enunciato il principio - affine a quello affermato con riferimento al procedimento disciplinare per gli avvocati dalla sentenza Sez. Un., n. 19705 sopra citata - secondo cui il controllo sull'applicazione delle clausole generali che definiscono le condotte illecite può essere compiuto solo nei limiti di una valutazione di ragionevolezza dei criteri impiegati, in quanto il contenuto delle condotte sanzionabili è integrato dalle regole di etica professionale e, quindi, dal complesso dei principî enucleabili dal comune sentire in un dato momento storico.

La sentenza Sez. 6-3, n. 4623 (Rv. 622106), ha invece osservato che il ricorso per cassazione, a seguito della legge 18 giugno 2009, n. 69, è affidato all'apposita sezione di cui all'art. 376 cod. proc. civ., e che, di conseguenza, il presidente di essa deve stabilire se procedere a norma dell'art. 380 bis o 380 ter cod. proc. civ. A tale pronuncia risulta però non conformarsi l'ordinanza Sez. 2, n. 17697 (Rv. 624066-68), la quale ha ritenuto l'inapplicabilità della disciplina camerale eventuale prevista dall'art. 380 bis cod. proc. civ., come di quella necessaria prevista dall'art. 380 ter cod. proc. civ., osservando che il procedimento di cassazione in materia di giudizio disciplinare notarile impone l'esplicazione piena ed immediata del contraddittorio nella fase di trattazione, che trova il suo esito in un provvedimento decisorio avente necessaria forma di sentenza.

La medesima ordinanza n. 17697 ha inoltre affermato che il termine cd. lungo per proporre ricorso per cassazione, per i procedimenti instaurati prima dell'entrata in vigore dell'art. 26 del d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150, in difetto di notifica della sentenza impugnata, è quello di un anno. Ha infatti segnalato che detto termine è previsto dall'art. 158 ter, secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, come introdotto dall'art. 46 del d. lgs. 1° agosto 2006, n. 249, il quale contempla una speciale regolamentazione processuale, che non può ritenersi derogata dalla sopravvenuta previsione generale che ha modificato l'art. 327, primo comma, cod. proc. civ. Ha poi aggiunto che tale conclusione è confermata dalla nuova disciplina del ricorso per cassazione in materia di contenzioso disciplinare per i notai, introdotta dal citato art. 26 del d.lgs. n. 150 del 2011, ed applicabile per i soli procedimenti successivi alla sua entrata in vigore.

Con riguardo ai rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, l'ordinanza Sezione VI-3, n. 3808 (621903) ha precisato che la sospensione del procedimento disciplinare per contemporanea pendenza del procedimento penale opera solo con riferimento alle contestazioni relative agli stessi fatti, e che l'unica eccezione a tale regola si configura solo nel caso in cui esista una connessione oggettiva tra tutti i fatti addebitati in sede disciplinare, che impone una trattazione unitaria del giudizio relativo ai medesimi.

4.2.

Per quanto attiene ai profili sostanziali, le decisioni si sono occupate tanto di problemi di carattere generale, riguardanti l'ambito operativo del principio di atipicità dell'illecito disciplinare, e la disciplina della punibilità, quanto di singole fattispecie, alcune in tema di organizzazione professionale del notaio e dei suoi rapporti con i colleghi, altre riguardanti lo svolgimento dell'attività professionale ed i rapporti con i clienti.

Su di un piano generale, le sentenze, Sez. 6-3, n. 4720 (Rv. 622116), e Sez. 6-3, n. 7484 (Rv. 622532), hanno evidenziato che, se in materia di illeciti disciplinari dei notai vige il principio della atipicità, un temperamento allo stesso deriva dal fatto che l'art. 147 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, comunque indica gli interessi tutelati dalla disciplina sanzionatoria, e segnatamente la dignità e reputazione del notaio ed il decoro e prestigio della classe notarile, ai quali deve essere perciò parametrata la valutazione dell'illecito.

In relazione alle vicende della punibilità, le decisioni si sono occupate della disciplina della rilevabilità della prescrizione, e di alcune cause di estinzione dell'illecito.

In materia di prescrizione, la sentenza Sez. 6-3, n. 7484 (Rv. 622533) ha rilevato che la prescrizione è rilevabile d'ufficio. L'ordinanza Sez. 2, n. 17697, sopra menzionata, ha invece rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo non manifestamente infondata la questione di questione di costituzionalità relativa all'art. 146, commi 1 e 2, della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall'art. 29 del d. lgs. n. 249 del 2006, in relazione all'art. 76 Cost.; ha, infatti, ritenuto ravvisabile un eccesso di delega da parte del legislatore delegato, con riferimento ai principî e criteri direttivi definiti nell'art. 7 della legge delega 28 novembre 2005, n. 246, con particolare riferimento alla disposizione di cui al comma 1, lett. e), n. 3, riguardante la revisione dell'ordinamento disciplinare notarile mediante la «previsione della sospensione della prescrizione in caso di procedimento penale», evidenziando che tali principî e criteri lo vincolavano a legiferare entro questi ristretti limiti, senza il conferimento di un potere normativo delegato che potesse estendersi fino alla individuazione, in via generale, di una nuova disciplina dell'interruzione della prescrizione e dell'allungamento del termine della prescrizione stessa.

In tema di cause di estinzione dell'illecito, la sentenza Sez. 6-3, n. 4001 (Rv. 621628), ha affermato che il collocamento a riposo del notaio prima del passaggio in giudicato della pronuncia disciplinare comporta la cessazione della materia del contendere e la caducazione della sentenza eventualmente pronunciata, ma non ancora divenuta irrevocabile. La sentenza Sez. 6-3, n. 4720 (Rv. 622115), ha poi osservato che l'estinzione dell'illecito mediante oblazione è ammissibile per il caso di infrazione «punibile con la sola sanzione pecuniaria», perché deve aversi riguardo alla sanzione applicabile in astratto e non a quella applicata in concreto, come, ad esempio, per la concessione delle attenuanti generiche.

Con riguardo alle fattispecie in tema di rapporti con i colleghi e di organizzazione dell'attività professionale, la sentenza Sezione VI-3, n. 4721 (Rv. 621610), ha evidenziato che costituisce illecito disciplinare lo svolgimento di attività concorrenziali effettuato con riduzioni di onorari, diritti o compensi, ovvero servendosi di procacciatori di clienti, di richiami o pubblicità in contrasto con il decoro ed il prestigio della classe notarile, poiché deve ritenersi ammessa solo la concorrenza che non leda tali interessi.

Il campo nel quale si è registrato il maggior numero di decisioni della Suprema Corte è stato quello in tema di condotte relative allo svolgimento dell'attività professionale ed ai rapporti con i clienti; anche in questi casi, il criterio selettivo ai fini della rilevanza deontologica del fatto è stato individuato nella compromissione della dignità e reputazione del notaio o nel decoro e nel prestigio della classe notarile.

La sentenza Sez. Un., n. 13617 (Rv. 623441-623442), ha affermato che costituisce illecito disciplinare sia la trascuratezza nell'attività preparatoria e la disattenzione al risultato pratico dell'atto rispetto allo scopo perseguito (la vicenda riguardava un rogito che, invece di prevedere una surroga, aveva determinato la sostituzione del precedente mutuo con un altro, così determinando un aumento dell'affidamento a carico del cliente), sia l'indebita ritenzione della carta d'identità di un cliente allo scopo di conservare una garanzia per il pagamento dell'onorario, anche se il privato abbia aderito alla richiesta di consegnare il documento senza sentirsi costretto e la conoscenza della vicenda sia inizialmente rimasta circoscritta ai suoi unici due protagonisti.

La sentenza Sez. 6-3, n. 12991 (Rv. 623478), ha invece ha sottolineato il disvalore deontologico dell'attività consistita nella redazione di atti espressamente proibiti dalla legge, purché sia pacifica l'interpretazione in tal senso della disposizione statuente tale forma di invalidità, come ad esempio in tema di donazione redatta in violazione del mandato a donare.

La sentenza Sez. 6-3, n. 12995 (Rv. 623417), ha invece escluso la sussistenza dell'illecito disciplinare quando il notaio, nello svolgimento della sua opera, compia delle irregolarità prive di conseguenze (la vicenda riguardava l'avvenuta redazione di un verbale di apertura di testamento olografo nel quale era stata omessa l'indicazione della presenza di segni indecifrabili e privi di significato presenti sulla scheda testamentaria, ma questa omissione non aveva determinato alcuna conseguenza sulla validità e l'efficacia dell'atto richiesto al notaio).

  • giurisdizione arbitrale

CAPITOLO XXXV

L'ARBITRATO

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Ricorso straordinario ex art. 111 Cost. e funzione nomofilattica della Cassazione. - 2 Teoria contrattualistica dell'arbitrato e conseguenze interpretative. - 3 Differenze tra arbitrato rituale e irrituale e conseguenze in tema di eccezione di incompetenza. - 4 L'arbitrato societario.

1. Ricorso straordinario ex art. 111 Cost. e funzione nomofilattica della Cassazione.

Il decreto legislativo n. 40 del 2006, in vigore dal 2 marzo 2006, ha introdotto importanti modifiche alla disciplina dell'arbitrato, sostituendo gli articoli da 806 a 832 del codice di procedura civile: in particolare l'art. 806 (Controversie arbitrabili) prevede che possa essere decisa da arbitri qualsiasi controversia, purché abbia per oggetto diritti disponibili, allargandosi così espressamente il novero delle materie arbitrabili rispetto alla disciplina precedente. Lo stesso articolo prevede inoltre che le controversie individuali di lavoro possano essere decise da arbitri, a condizione che ciò sia previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 13620 (Rv. 623343), hanno ribadito l'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., proposto avverso il provvedimento del competente presidente del tribunale, relativo alla determinazione del compenso e delle spese dovuti agli arbitri, ex art. 814, secondo comma, cod. proc. civ., confermando l'orientamento ancora recentemente espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 15586 del 2009 (Rv. 608906), con la quale hanno aderito alla tesi contrattualistica che ravvisa nella manifestazione di volontà espressa dal presidente del tribunale un atto integrativo, ex art. 1339 cod. civ., della volontà negoziale delle parti del "contratto d'arbitrato", con conseguente esclusione della ricorribilità ex art. 111 Cost., trattandosi di organo non di giurisdizione contenziosa, bensì di giurisdizione non contenziosa, deputato ad integrare la volontà delle parti nella quantificazione dell'ammontare del compenso.

È stato dunque ribadito il principio secondo cui il contratto d'arbitrato che, salva rinunzia espressa da parte degli aventi diritto, non contenga la quantificazione del compenso e delle spese dovuti agli arbitri dai conferenti l'incarico, è automaticamente integrato, ex art. 814 cod. proc. civ., con clausola devolutiva della pertinente determinazione al presidente del tribunale; questi, officiato in alternativa all'arbitratore, svolge funzione giurisdizionale non contenziosa, adottando un provvedimento di natura essenzialmente privatistica, privo, in quanto tale, di vocazione al giudicato e, quindi, insuscettibile d'impugnazione con ricorso straordinario per cassazione; siffatta natura del procedimento esclude l'ipotizzabilità d'una soccombenza ed osta, quindi, all'applicazione del relativo principio ed all'adozione delle consequenziali determinazioni in tema di spese.

L'importanza di questa decisione sta non tanto nel principio affermato (che, come si è visto, era stato già enunciato nel 2009), ma per il fatto che essa è stata in gran parte motivata sull'esistenza di un precedente conforme delle Sezioni Unite.

Invero, spiega la sentenza n. 13620, che, anche se nel nostro sistema processuale non esiste una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa costituisce, tuttavia, un valore o comunque una direttiva di tendenza immanente nell'ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomofilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative; in particolare, in tema di norme processuali, per le quali l'esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, anche alla luce dell'art. 360 bis, primo comma, n. 1, cod. proc. civ. (nella specie, non applicabile ratione temporis), ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

Sulla stessa lunghezza d'onda si è posta sostanzialmente la Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 230 del 2012, ha affermato che non può ritenersi manifestamente irrazionale che il legislatore valorizzi, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, e delle Sezioni unite in particolare - postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformi «tendenzialmente» alle decisioni di queste ultime. L'orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite «aspira» infatti indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: anche se si tratta di connotati solo «tendenziali», in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente "persuasivo". Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell'organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l'onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto.

Di tenore analogo è la sentenza n. 10359, Sez. 6-1 (Rv. 623095), secondo cui l'ordinanza pronunciata dal presidente del tribunale sull'istanza di ricusazione di un arbitro non è impugnabile, neanche con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., attesi l'espresso disposto dell'art. 815, terzo comma, cod. proc. civ., e la sua natura di provvedimento a contenuto ordinatorio, in quanto tale non qualificabile come sentenza in senso sostanziale. In senso contrario si era espressa la n. 23638 del 2011 (RV 620390), secondo cui l'ordinanza con cui il presidente del tribunale, decidendo sull'istanza di ricusazione di un arbitro (nella specie, con dichiarazione di cessazione della materia del contendere), provveda sulle spese processuali, è impugnabile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., trattandosi di statuizione incidente sul corrispondente diritto patrimoniale con efficacia di giudicato, non essendo previsto altro mezzo di impugnazione. Sui motivi di ricusazione di un arbitro si era pronunciata Sez. 1, n. 23056 del 2010 (Rv. 614777), secondo cui la formula contenuta nell'art. 51, n. 1, cod. proc. civ., che (nel regime anteriore alla modifica dell'art. 815 cod. proc. civ. operata dall'art. 21 del d.lgs. n. 40 del 2006) prevede tra le cause di astensione obbligatoria la situazione di «interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto», postula un legame attuale dell'arbitro, nella più varia configurazione giuridica, con una parte del processo per una coincidenza di interessi ad una determinata soluzione della causa e/o per un rapporto di consulenza ed assistenza con la stessa.

2. Teoria contrattualistica dell'arbitrato e conseguenze interpretative.

Si è detto nel precedente paragrafo che la sentenza Sez. Un., n. 13620 (Rv. 623343) ha ribadito l'adesione alla tesi contrattualistica dell'arbitrato, affermando tra l'altro che gli arbitri sono parte di un contratto con il quale le controparti attribuiscono loro, che l'accettano, l'incarico di risolvere una vertenza insorta tra le stesse: l'arbitrato dunque costituisce un accordo contrattuale per sottrarre al giudice ordinario la cognizione di una controversia ed affidarla ad arbitri privati che decidono secondo il loro prudente apprezzamento.

Le conseguenze dell'adesione alla teoria contrattualistica si fanno in effetti sentire in tema di interpretazione dello stesso, rendendosi applicabili le norme che vanno dagli art. 1362 all'art. 1371 del codice civile. Ha poi in particolare specificato Sez. 6-1, ord. n. 4919 (Rv. 621790) che in tema di interpretazione di una clausola arbitrale, l'accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un'indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che detto accertamento è censurabile in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all'atto negoziale un determinato contenuto oppure nel caso di violazione di norme ermeneutiche.

Altro corollario dell'adesione alla tesi contrattualistica dell'arbitrato è sviluppato da Sez. 1, n. 15086 (Rv. 623671), secondo cui la decisione della corte d'appello sulla impugnazione del lodo per violazione delle norme di legge in tema d'interpretazione dei contratti può essere censurata con ricorso per cassazione per vizi propri della sentenza medesima e non per vizi del lodo, spettando al giudice di legittimità verificare soltanto che la corte d'appello abbia esaminato la questione interpretativa e abbia dato motivazione adeguata e corretta della soluzione adottata.

Ha inoltre stabilito Sez. 2, n. 1674 (Rv. 621383) che la clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi causa petendi nel contratto medesimo, con esclusione quindi delle controversie che in quel contratto hanno unicamente un presupposto storico, come nella specie, in cui la causa petendi ha titolo aquiliano ex art. 1669 cod. civ., avendo gli attori dedotto gravi difetti dell'immobile da loro acquistato presso il costruttore.

Infine, per Sez. 1, n. 18041 (in corso di massimazione), il principio della rilevabilità d'ufficio del giudicato (anche) esterno, risultante da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, si giustifica nel particolare carattere della sentenza del giudice e nella natura pubblicistica dell'interesse al suo rispetto, onde non opera con riferimento al lodo arbitrale, essendo questo un atto negoziale riconducibile al dictum di soggetti privati, che non muta la propria originaria natura per l'attribuzione a posteriori degli effetti della sentenza.

3. Differenze tra arbitrato rituale e irrituale e conseguenze in tema di eccezione di incompetenza.

Secondo Sez. 6-3, n. 21869 (in corso di massimazione), arbitrato irrituale e rituale (cui solo si applica l'art. 819 ter cod. proc. civ.) sono profondamente diversi. Infatti, solo per l'arbitrato rituale si può parlare di eccezione e regolamento di competenza in senso tecnico (come si esprime l'art. 819 ter); per quello irrituale invece, che trova la sua fonte nella volontà negoziale delle parti, l'eccezione di arbitrato è una semplice questione di merito e dunque non si pongono questioni né di giurisdizione, né di competenza in senso tecnico, essendo demandata agli arbitri una mera attività negoziale e non una funzione giurisdizionale.

L'arbitrato irrituale trova, dunque, il proprio fondamento in un atto di esercizio dell'autonomia privata e infatti l'attività degli arbitri è sostitutiva di quella degli stipulanti ed è indirettamente il riflesso della concorde volontà delle parti. Aveva parimenti stabilito che la questione del se una controversia appartenga alla cognizione del giudice o sia devoluta ad arbitri mediante arbitrato irrituale non possa essere ritenuta questione di competenza la Sez. 3, n. 15474 del 2011 (Rv. 618559), ove si afferma che, configurandosi la devoluzione della controversia agli arbitri come rinuncia all'esperimento dell'azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, attraverso la scelta di una soluzione della controversia con uno strumento di natura privatistica, la relativa eccezione dà luogo ad una questione di merito che riguarda l'interpretazione e la validità del compromesso o della clausola compromissoria, e costituisce un'eccezione propria e in senso stretto avente ad oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo dell'esercizio della giurisdizione statale, con la conseguenza che deve essere proposta dalle parti nei tempi e nei modi propri delle eccezioni di merito.

4. L'arbitrato societario.

Secondo l'art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003, «gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale».

Le controversie in campo societario costituiscono l'ambito, per così dire, "naturale" dell'arbitrato: tale circostanza è legata alla capacità dell'istituto arbitrale di assicurare le esigenze di speditezza e celerità delle liti riguardanti i traffici commerciali che, se diversamente affrontate, si troverebbero a scontare i tempi più lunghi della giustizia ordinaria. Gli art. 34-37 del d. lgs. n. 5 del 2003 disciplinano così l'istituto dell'arbitrato societario, che, tra l'altro, ha poi ispirato il legislatore del 2006 costituendo la base di lavoro per molte delle novità che proprio in quell'anno sono state introdotte in materia di arbitrato di diritto comune con il d. lgs. n. 40 del 2006.

Ha affermato Sez. 6-1, n. 12333 (Rv. 623460) che la clausola compromissoria inserita nell'atto costitutivo di una società, la quale prevede la possibilità di deferire agli arbitri le controversie tra i soci, quelle tra la società e i soci nonché quelle promosse dagli amministratori e dai sindaci, in dipendenza di affari sociali o dell'interpretazione o esecuzione dello statuto sociale, non include anche l'azione di responsabilità ex art. 2476 cod. civ. promossa dal socio nei confronti dell'amministratore, non rilevando che quest'ultimo sia anche socio della società. Tale decisione è coerente con il testo dell'art. 34 sopra citato, secondo cui la clausola compromissoria comprende solo le cause tra soci fra loro o contro la società, ma non anche quelle del socio contro gli amministratori, essendo per contro irrilevante che l'amministratore rivesta anche la qualità di socio, non essendo in questa veste che viene chiamato a rispondere della sua attività.

La stessa norma è stata oggetto di un'altra pronuncia (Sez. 6-1, n. 15890, Rv. 623822), secondo la quale, sempre ragionando sul dato testuale incontrovertibile del comma 1 dell'art. 34, la controversia sulla nullità della delibera assembleare di una società a responsabilità limitata, in relazione all'omessa convocazione del socio, quale soggetta al regime di sanatoria previsto dall'art. 2379 bis cod. civ., è compromettibile in arbitri, atteso che l'area della non compromettibilità è ristretta all'assoluta indisponibilità del diritto e, quindi, alle sole nullità insanabili.

Secondo poi Sez. 1, n. 2400 (Rv. 621294), l'art. 34 del d. lgs. n. 5 del 2003 prescrive inderogabilmente che il potere di nomina degli arbitri sia conferito ad un terzo, mentre nulla dice quanto al modo d'instaurazione del procedimento; è indubbio, tuttavia, che sia necessaria la proposizione di una domanda, che identifichi gli estremi oggettivi e soggettivi del rapporto arbitrale, prevedendo il successivo art. 35 l'iscrizione di tale domanda nel registro delle imprese; ne consegue che nel cosiddetto arbitrato societario la domanda diretta alla controparte si distingue nettamente dall'istanza per la nomina degli arbitri, senza che vi sia quindi necessaria contestualità tra questi due atti, né che tale istanza debba essere notificata alla controparte, muovendo la prescrizione dell'art. 810 cod. proc. civ. dal diverso presupposto della naturale contestualità tra domanda di arbitrato ed attivazione del procedimento di nomina degli arbitri.

Il secondo comma dell'art. 34 del d. lgs. n. 5 del 2003 prescrive, inoltre, che la clausola compromissoria preveda il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società.

Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale. Coerentemente, ha affermato Sez. 6-1, n. 17287 (Rv. 623736), che la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario la quale, non adeguandosi alla prescrizione dell'art. 34 del d. lgs. n. 5 del 2003, non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla, non potendosi accettare la tesi del "doppio binario", per cui essa si convertirebbe da clausola per arbitrato endosocietario in clausola per arbitrato di diritto comune, atteso che l'art. 34 commina la nullità per garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità della decisione.