Introduzione

INTRODUZIONE

Scopo della Rassegna, da quando Stefano Evangelista e Giovanni Canzio hanno dato un nuovo impulso alla raccolta espositiva delle decisioni delle Sezioni unite, è sempre stato quello di offrire una ragionata documentazione sui principi di diritto elaborati dalla Corte di Cassazione, con l’obiettivo di contribuire, come Ufficio del Massimario, a rappresentare il percorso della giurisprudenza di legittimità.

Da qualche tempo la Rassegna comprende anche alcune decisioni delle Sezioni semplici, individuate tra quelle che hanno inciso in maniera significativa sulla tutela dei diritti della persona e, in genere, sulle materie del diritto penale, sostanziale e processuale.

Anche quest’anno viene proposta, nella prima parte della Rassegna, l’intera giurisprudenza delle Sezioni unite dell’anno 2012, riportando, come di consueto, una sintesi delle decisioni e dei contrasti risolti, mentre nella seconda parte è contenuto uno studio sulle principali linee di tendenza della Corte, con una selezione delle pronunce delle Sezioni semplici.

Tuttavia, nel licenziare questo lavoro non può farsi a meno di osservare come, negli ultimi anni, attraverso la ricostruzione della giurisprudenza di legittimità emergono con maggiore evidenza le difficoltà della Corte nello svolgere la sua istituzionale funzione nomofilattica, resa sempre più ardua a causa della produzione abnorme di sentenze e di ordinanze, che nel 2012 sono state più di 51.000. Si tratta di numeri che non hanno riscontro in altre esperienze giuridiche europee e che non solo condizionano la capacità di assicurare l’uniformità del diritto oggettivo, ma che stanno operando una continua e inarrestabile trasformazione della Corte: oggi può dirsi che la funzione di nomofilachia viene assicurata, prevalentemente, dalle Sezioni unite, mentre le Sezioni semplici sono sempre più proiettate verso una giurisdizione di terza istanza, in quanto impegnate soprattutto nello ius litigatoris. Anche questo è un effetto abnorme, in quanto è la Corte di cassazione tutta che è chiamata ad assicurare non solo la giustizia della decisione, ma anche lo ius constitutionis, attraverso la funzione di interpretazione omogenea del diritto.

La Rassegna non può non registrare gli effetti della doppia natura della Corte, che si presenta ancora come il “vertice ambiguo” di cui parlava Michele Taruffo, ma al tempo stesso testimonia lo sforzo di questo giudice che presta fede alla sua funzione e che, pur nella fatica di un lavoro interpretativo svolto in una situazione di perenne emergenza, conferma la sua perseverante tensione verso il valore fondamentale di uniformità del diritto oggettivo, al servizio della prevedibilità dell’esito giudiziario, che sostanzia il significato stesso della legalità e della giustizia.

Roma, 17 gennaio 2013

Giorgio Fidelbo

PARTE I - LA GIURISPRUDENZA DELLE SEZIONI UNITE PENALI --- Sezione I LE DECISIONI IN MATERIA SOSTANZIALE

  • sequestro di beni
  • sanzione penale
  • confisca di beni
  • circostanza aggravante
  • circostanza attenuante

I - Il diritto penale di parte generale

Sommario

1 Circostanze. - 2 Estinzione del reato. - 3 Trattamento sanzionatorio (Recidiva). - 4 Misure di sicurezza (Confisca e sequestro).

1. Circostanze.

Sez. U, Sentenza n. 36258 del 24/05/2012, dep. 20/09/2012, Rv. 253152, P.G. e Biondi hanno affermato, al di fuori del contrasto affrontato, riguardante la materia degli stupefacenti, che, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta l'imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento, la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice di merito.

Nella specie, il diniego delle predette circostanze attenuanti era stato motivato evidenziando il censurabile comportamento processuale dell'imputato, improntato a reticenza ed ambiguità, e la Cassazione ha ritenuto inammissibile la censura alla sentenza di appello, in ciò richiamando Sez. 5, Sentenza n. 15547 del 19/03/2008, dep. 15/04/2008, Rv. 239489, Aceto, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione pronunciata in sede di concordato in appello, ex art. 599, comma quarto, cod. proc. pen., al fine di ottenere la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, considerato che la concessione in tale sede delle attenuanti generiche non avesse alcun rilievo ai fini della prescrizione.

2. Estinzione del reato.

Le Sezioni Unite [SENT. Sez. U, n. 15933 del 24/11/2011 (dep. 24/04/2012), Rv. 252012, P.G. in proc. Rancan] si sono pronunciate in tema di riforma della prescrizione, affermando il principio per cui, ai fini dell'operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall'esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d'appello del procedimento, ostativa all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli.

Al riguardo, con ordinanza del 22 febbraio 2011, la Sesta Sezione aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa all'individuazione del momento in cui il processo dovesse ritenersi, ai fini dell'applicazione della disciplina transitoria di cui alla legge n. 251 del 2005, pendente in grado di appello nel caso di sentenza di assoluzione in primo grado, registrando sul punto l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte.

I giudici rimettenti rilevavano come la specifica questione fosse stata oggetto di due contrapposte decisioni, entrambe adottate nel 2008.

La prima (Sez. 3, n. 18765 del 06/03/2008, Brignoli, Rv. 239868) individuava nella sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione, il discrimine per l'applicazione della norma transitoria, così come disegnata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006, poiché essa conclude il processo di primo grado e segna il passaggio tra vecchia e nuova disciplina a prescindere dalla sopravvenienza di atti interruttivi della prescrizione.

La seconda pronunzia (Sez. 6, n. 7112 del 25/11/2008, dep. 2009, Perrone, Rv. 242421), invece, faceva coincidere la pendenza del processo d'appello con l'emissione del relativo decreto di citazione a giudizio, quale primo atto, successivo alla conclusione del giudizio di primo grado, idoneo a interrompere la prescrizione, ritenendo che la ricerca di un atto di tal genere, come discriminante ai fini dell'applicazione dell'art. 10, comma terzo, legge n. 251 del 2005, fosse imposta dalla lettura della motivazione della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale.

Orbene, per le Sezioni Unite va confermata l'opzione ermeneutica compiuta dalla sentenza D'Amato (Sez. U, Sentenza n. 47008 del 29/10/2009 Ud. (dep. 10/12/2009) Rv. 244810), che aveva individuato la sentenza conclusiva del processo di primo grado come spartiacque nell'applicazione delle due discipline considerate dalla norma transitoria, escludendo che il discrimine potesse essere costituito dalla proposizione dell'impugnazione ovvero dall'iscrizione del processo nel registro del giudice di secondo grado, giacché la prima deriva da comportamenti delle parti e la seconda rappresenta un mero adempimento amministrativo.

Ciò in quanto, "divenuta operativa - per effetto della citata sentenza della Corte costituzionale - la disciplina più favorevole per tutta la durata del giudizio di primo grado, risulta legittimo far scattare l'esclusione a partire dall'atto conclusivo di quest'ultimo".

In particolare, "ravvisare la pendenza di un procedimento in appello nel momento in cui viene emesso il provvedimento che pone fine al grado precedente trova congrua spiegazione nella circostanza che questo evento comporta l'impossibilità per il giudice di assumere ulteriori decisioni in merito all'accusa nell'ambito del processo principale (non rilevando, ai fini in questione, le disposizioni in tema di competenza dettate da esigenze pratiche in relazione ai procedimenti incidentali cautelari) e che esso apre comunque la fase dell'impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla".

Per la richiamata sentenza D'Amato, a conferma di tale impostazione, "vi è la tecnica legislativa impiegata nel concepire la norma nonché la ratio a questa sottesa. Mentre il riferimento ai processi di primo grado deriva dalla indicazione di una determinata cadenza (l'apertura del dibattimento), quelli di appello e di cassazione, invece, sono richiamati nella loro globalità e come aventi, ciascuno di loro, immediato corso rispetto al precedente: il che segnala che non è ipotizzabile una soluzione di continuità tra la conclusione di un grado e la pendenza del successivo.

D'altronde va riconosciuto che il legislatore con la disposizione originaria intese apportare, in tema di prescrizione, ampia deroga al principio posto dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., al fine di impedire che si verificasse una forma generalizzata di amnistia a scapito di una coerente applicazione della legge penale; la Corte costituzionale non ha censurato la ragione che ebbe ad ispirare la limitazione (avendo anzi ritenuto che la tutela dell'efficienza del processo valga, in generale, a giustificare un'eccezione al citato principio), ma la scelta della formalità destinata a fungere da discrimine in "subiecta materia": pertanto, in relazione alla norma che residua dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale, s'impone un approccio ermeneutico che sia conforme agli enunciati in questa contenuti ed attribuisca altresì rilievo al suddetto intento, evitando di restringere senza necessità la deroga stessa.

Di conseguenza, anche sotto codesto aspetto, occorre riportarsi ad un momento che, dopo la conclusione del giudizio di primo grado, sia il più possibile risalente nel tempo".

Le sezioni Unite osservano che la frammentazione della nozione "pendenza in grado d'appello" utilizzata dalla norma transitoria determinerebbe incertezze e rischi d'ingiustificata disparità rispetto alla disciplina posta dall'art. 161 cod. pen. per i processi cumulativi, sicché privilegiano una risposta sul piano interpretativo in grado di garantire l'uniformità applicativa della norma transitoria quale che siano i diversi esiti (condanna o assoluzione) del procedimento di primo grado. Ne consegue anche la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma terzo, legge n. 251 del 2005, sollevata dalla difesa dell'imputato, nella parte in cui esclude l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione, in quanto la disposizione si porrebbe in contrasto con l'art. 3 cod. pen. derogando irragionevolmente al principio di retroattività della "lex mitior" sancito dall'art. 2, comma quarto, cod. pen.

3. Trattamento sanzionatorio (Recidiva).

Le Sezioni Unite [SENT. Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011 (dep. 15/02/2012), Marcianò] si sono pronunciate in tema di effetti penali della condanna, affermando tre principi.

Per il primo, l'estinzione di ogni effetto penale determinata dall'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale comporta che delle relative condanne non possa tenersi conto agli effetti della recidiva (v. Rv. 251688). Quanto al secondo, hanno stabilito che, nel caso in cui la causa di estinzione della pena, anche se parziale, estingua anche gli effetti penali, non può tenersi conto della condanna ai fini della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato (Rv. 251689).

Sempre in tema di recidiva facoltativa, hanno ritenuto che sia richiesto al giudice uno specifico dovere di motivazione sia ove egli ritenga sia ove egli escluda la rilevanza della stessa (Rv. 251690).

Orbene, solo il primo di tali principi si pone a risoluzione di un contrasto giurisprudenziale. Ed invero, con ordinanza del 27 giugno 2011, depositata il 12 luglio 2011, la Sesta sezione penale rilevato che in ordine alla questione dell'applicabilità o meno della recidiva in relazione a precedenti condanne la cui esecuzione sia avvenuta con l'affidamento in prova al servizio sociale, conclusasi con esito positivo, si era formato un contrasto giurisprudenziale, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.

Al riguardo, per un primo orientamento, l'effetto estintivo di cui all'art. 47, comma 12, ord. pen., non comportando la cancellazione della iscrizione della condanna nel casellario giudiziale, non impediva alla sentenza di condanna di dispiegare i suoi effetti ai fini della rilevanza della recidiva, rapportandosi l'effetto estintivo alla sola pena detentiva e non anche a quella pecuniaria (Sez. 6, n. 26093 del 06/05/2004, Tomasoni, Rv. 229745; e, in termini analoghi, Sez. 6, n. 28378 del 14/05/2004, Orsini, Rv. 229593; Sez. 2, n. 40954 del 17/09/2009, Casisa; Sez. 1, n. 43686 del 07/10/2010, Messina).

A tale orientamento se ne contrapponeva un altro, rappresentato da Sez. 4, n. 14513 del 22 marzo 2007, Crestaz (n. m.) per cui, stando all'art. 47, comma 12, ord. pen., l'esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale, diviene operante la disposizione di cui all'art. 106, secondo comma, cod. pen., "in base alla quale non si tiene conto, agli effetti della recidiva, delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena, qualora [...] estingua anche gli effetti penali".

Per altra sentenza (Sez. 3, n. 27689 del 13/05/2010, R., Rv. 247925) comportando l'esito positivo della prova l'estinzione della pena detentiva e di ogni altro effetto penale, in tale effetto estintivo doveva ricomprendersi quello derivante dalla recidiva, stante il disposto dell'art. 106, comma secondo, cod. pen.

Per le Sezioni Unite, invero, va condiviso quest'ultimo orientamento. Partendo dal presupposto per cui la recidiva è un effetto penale della condanna (in questo senso, sia pure incidentalmente, Sez. U, n. 7 del 20/04/1994, Volpe; Sez. U, n. 31 del 22/11/2000, dep. 2001, Sormani), è stato osservato che "il collegamento tra le due norme (art. 47, comma 12, ord. pen. e 106 cod. pen.) impone comunque di ritenere che la recidiva non produca effetti qualora sussista una causa di estinzione del reato o della pena che comporti anche l'estinzione degli effetti penali della condanna.

Non importa, cioè, stabilire se la recidiva abbia effettivamente (ancora) tale natura, essendo sufficiente prendere atto che, per espresso dettato normativo, anche la recidiva segue la sorte degli effetti penali della condanna allorché gli stessi vengono ad essere formalmente neutralizzati da una qualche causa di estinzione del reato o della pena, perché è in questo senso che si esprime - pragmaticamente - il comma secondo dell'art. 106 cod. pen.; ora, che l'esito positivo del periodo di prova cui è sottoposto l'affidato al servizio sociale determini l'estinzione della pena, sia pure soltanto detentiva, è positivamente scritto nell'art. 47, comma 12, ord. pen.; e dal medesimo testo si ricava che da ciò consegue anche l'estinzione di "ogni altro effetto penale".

È vero che l'estinzione della pena può essere solo parziale, non potendosi dire "estinta" la porzione di quella detentiva eventualmente già espiata, né estinguendosi quella pecuniaria se non in caso di accertata condizione di disagio economico del condannato; ma l'art. 106, comma primo, cod. pen. non richiede espressamente una estinzione "totale" della pena, e, per altro verso, l'art. 47, comma 12, ord. pen. comunque fa conseguire alla estinzione di una pena - quella detentiva, totale o residuale - l'ulteriore effetto della estinzione di "ogni altro effetto penale". Sicché, esse ritengono che quando la legge parla di "effetti penali", essi si riferiscono a quelli scaturenti da una "condanna".

4. Misure di sicurezza (Confisca e sequestro).

Le Sezioni Unite [SENT. Sez. U, n. 14484 del 19/01/2012 (dep. 17/04/2012), P.M. in proc. Sforza e altro] si sono pronunciate in tema di sequestro preventivo del veicolo finalizzato alla confisca per il reato di guida in stato di ebbrezza. Esse hanno affermato che (v. Rv. 252029) detto sequestro, se adottato prima della entrata in vigore della L. n. 120 del 2010, che ha configurato la confisca quale sanzione amministrativa accessoria, conserva di norma validità ed efficacia, dovendo tuttavia valutarsene la conformità ai nuovi requisiti sostanziali di natura amministrativa necessari per la sua adozione ed in riferimento ai presupposti che legittimano la confisca amministrativa.

Nel contempo, altro principio scaturito dalla sentenza è quello per cui, in tema di guida in stato di ebbrezza, non è confiscabile il veicolo concesso in "leasing" all'utilizzatore dello stesso se il concedente, da ritenersi proprietario del mezzo, sia estraneo al reato (v. Rv. 252030).

In particolare, la questione di diritto per la quale la Quarta Sezione Penale, cui era stato assegnato il ricorso, con ordinanza in data 27 settembre 2011 lo rimetteva alle Sezioni Unite era la seguente: "se l'autovettura condotta in stato di ebbrezza dall'indagato e da questo utilizzata in forza di un contratto di leasing sia da ritenere cosa appartenente a persona estranea al reato e se, pertanto, la società di leasing concedente abbia titolo a chiedere la restituzione dell'autovettura sottoposta a sequestro in vista della confisca".

La stessa Quarta Sezione, con sentenza n. 10688 dell'11/02/2010, Di Giovanni, Rv. 246505, aveva affermato che era legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di un veicolo il cui conducente, sorpreso alla guida in stato di ebbrezza, ne aveva la disponibilità in forza di un contratto di leasing.

Egualmente, la Terza Sezione, con sentenza n. 4746 del 12/12/2007, dep. 2008, Rocco, Rv. 238786, aveva rilevato che, in caso di dissequestro di un bene oggetto di contratto di leasing, già sottoposto a sequestro preventivo, l'avente interesse alla restituzione non era il proprietario concedente bensì l'utilizzatore in quanto soggetto che si era assunto i rischi connessi al deterioramento del bene, non dovuto all'uso, e alla perdita della res.

Peraltro, altra decisione della Corte (Sez. 3, n. 13118 del 03/02/2011, Mastroieni, Rv. 249928) aveva ritenuto che la legittimazione a richiedere la restituzione di un bene, sottoposto a sequestro preventivo e oggetto di un contratto di leasing, spettava, oltre che al proprietario concedente, all'utilizzatore quale soggetto obbligato a corrispondere il canone mensile per il suo utilizzo. Sez. 4, n. 20610 del 26/02/2010, Messina, Rv. 247326 aveva manifestato l'avviso che la nozione di "appartenenza" del veicolo a persona estranea al reato non andasse intesa in senso tecnico, come proprietà o intestazione nei pubblici registri, ma quale effettivo e concreto dominio sulla cosa, che può assumere la forma del possesso o della detenzione, purché non occasionali.

Sez. 1, n. 34722 del 07/07/2011, G. e Capital S.F. s.p.a., Rv. 251175, aveva affermato che in tema di confisca il bene detenuto in forza di un contratto di leasing appartiene all'utilizzatore, cui è attribuita la materiale disponibilità del bene stesso ed il diritto di goderne e disporne in base ad un titolo che esclude i terzi. In tal senso, è stato ritenuto legittimo il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., del veicolo condotto in stato di ebbrezza da colui che ne aveva la disponibilità in virtù di un contratto di leasing.

Per la sentenza delle Sezioni Unite "l'interpretazione del disposto contenuto nell'art. 186, comma 2, lett. c), che prevede la confisca obbligatoria del veicolo con il quale è stato commesso il reato di guida in stato di ebbrezza, richiede l'approfondimento del rapporto che deve intercorrere tra colui che guida in condizioni alterate per l'alcool ed il mezzo da lui usato.

Invero, il comma secondo dell'art. 186 esclude la confiscabilità nel caso in cui il mezzo appartenga a persona estranea al reato (analoga disposizione è contenuta in generale per la confisca amministrativa nell'art. 213, comma sesto, cod. strada): in siffatta ipotesi, viene in rilievo l'altra previsione alternativa, sempre afflittiva, in base alla quale, appartenendo il veicolo a persona estranea al reato, viene raddoppiata per l'autore della contravvenzione la durata della sospensione della patente di guida.

La nozione di appartenenza, che presenta un significato generico proprio nella pratica comune, assume nella legislazione civile vigente un significato tecnico più specifico che a sua volta si riverbera in modo essenzialmente ricognitivo in materia penale (la norma, avente maggiore analogia di contenuto rispetto a quella in esame, è il disposto generale sulla confisca ex art. 240 cod. pen.).

L'orientamento giurisprudenziale consolidato fa riferimento, in sede penale, ad una nozione di appartenenza di più ampia portata rispetto al solo diritto di proprietà e che ricomprende i diritti reali di godimento e di garanzia che i terzi hanno sul bene.

La Suprema Corte ha ripetutamente affermato che l'applicazione della confisca non determina l'estinzione dei diritti reali di garanzia costituiti a favore di terzi sulle cose e parimenti dei diritti reali di godimento (v. Sez. 2, n. 11173 del 14/10/1992, Tassinari, Rv. 193422; Sez. U, n. 9 del 18/05/1994, Longarini, Rv. 199174; Sez. 3, n. 5542 del 24/03/1998, Galantini, Rv. 210742; Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, Bacherotti, Rv. 213511; Sez. 1, n. 32648 del 16/06/2009, Rocci, Rv. 244816).

Per contro è stata esclusa, in modo prevalente, la ricomprensione nella nozione di appartenenza della semplice disponibilità giuridica qualificata del godimento del bene, sulla base di una fonte giuridica legittima; in altre parole, la mera utilizzazione libera, non occasionale e non temporanea del bene. Altra condizione per escludere la confiscabilità del bene è l'estraneità al reato del soggetto cui appartiene il veicolo.

Il terzo, innanzitutto, per considerarsi estraneo deve essere in buona fede e cioè non deve avere in alcun modo partecipato al reato, richiedendosi la mancanza di ogni collegamento diretto o indiretto con la consumazione del fatto reato.

Né egli deve avere ricavato consapevolmente vantaggi e utilità dal reato, né avere avuto comportamenti negligenti che abbiano favorito l'uso indebito della cosa. In tal senso, nell'ambito specifico della guida in stato di ebbrezza, non potrebbe ritenersi "estraneo" il soggetto che per difetto di vigilanza o per altro comportamento colposo abbia agevolato la perpetrazione della fattispecie contravvenzionale, per esempio nel caso di proprietario dell'autovettura che risulti a bordo con il trasgressore (v. Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, Bacherotti, Rv. 213511; Sez. 6, n. 37888 del 08/07/2004, Sulika, Rv. 229984; Sez. 5, n. 46824 del 15/11/2007, Comune di Arce; Sez. 3, n. 2024 del 27/11/2008, Familio, Rv. 238590; Sez. 1, n. 34722 del 07/07/2011, G. e Capital S.F. s.p.a., Rv. 251174).

Pur tuttavia, non è dubbio che il leasing presenta delle notevoli peculiarità in ordine alla ripartizione dei rischi connessi alla circolazione stradale del veicolo ed all'individuazione del soggetto che ha concrete possibilità di regolamentare la circolazione stessa.

In particolare, in materia di responsabilità civile ex art. 2054, comma terzo, cod. civ., il locatario del contratto di leasing (l'utilizzatore), e non il concedente, risponde dei danni provocati dalla circolazione del mezzo in solido con il conducente (v. art. 91, comma secondo, cod. strada); così come già disposto in detto articolo del codice civile per l'acquirente nella vendita con patto di riservato dominio.

Egualmente, l'art. 196 cod. strada prescrive l'obbligazione solidale dell'utilizzatore a titolo di locazione, e non del concedente, con l'autore della violazione per il pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie connesse alla circolazione.

Detta normativa appare giustificata in considerazione dell'evenienza per cui è solo l'utilizzatore del contratto di leasing che ha la disponibilità giuridica del godimento del bene, e, quindi, la possibilità di vietarne la circolazione.

Peraltro, le caratteristiche speciali dell'istituto, con l'atipica connotazione delle posizioni del concedente e dell'utilizzatore in ordine alla circolazione del veicolo, non appaiono consentire la configurazione di una deroga e di una ridotta tutela del diritto di proprietà del concedente sul bene, in mancanza di un'espressa disposizione normativa in tal senso.

Come detto, la nozione di "appartenenza" della cosa, sopra esposta, non ammette un'estensione illimitata di essa a posizioni generiche di disponibilità e godimento del bene. Le previsioni di specialità dell'istituto del leasing vanno mantenute nell'ambito delle relative ipotesi, ma non possono costituire il fondamento di più ampie generalizzazioni ed in specie della compressione di posizioni di diritto reale".

A sostegno dell'assunto, le Sezioni Unite citano la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo oltre che l'art. 7 CEDU il quale "esige, per punire e cioè per l'irrogazione di una pena e quindi anche della misura della confisca, la ricorrenza di un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta del soggetto cui viene applicata una sanzione sostanzialmente penale (v. Corte EDU, 09/02/1995, Welch c. Regno Unito; Corte EDU, 30/08/2007, Sud Fondi srl c. Italia; Corte EDU, 20/01/2009, sud Fondi c. Italia; Corte EDU, 17/12/2009, M. c. Germania).

La Corte EDU, sempre in materia di applicazione della confisca, ha evidenziato che il disposto ex art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione (Protezione della proprietà) consente una diminuzione patrimoniale del soggetto solo nelle condizioni previste dalla legge, per cui anche l'applicazione di una misura comportante un pregiudizio patrimoniale, al di fuori delle previsioni normative, configura un'illecita ingerenza nella sfera giuridica ed economica del singolo.

Detto inquadramento degli istituti in esame, nell'interpretazione della Convenzione proveniente dalla Corte di Strasburgo, esclude "la legittimità della confisca dell'autovettura condotta da soggetto in stato di ebbrezza per uso di alcool se la stessa risulta concessa in leasing e quindi di proprietà del concedente nel corso del contratto stesso, qualora il concedente sia pure estraneo al reato".

Ne consegue che una diversa interpretazione della normativa interna, qualora pure prospettabile, comporterebbe la violazione dell'art. 7 CEDU e dell'art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione, sicché deve affermarsi l'inapplicabilità di una sanzione penale, configurante una diminuzione patrimoniale del soggetto - privato di un suo bene - al di fuori di una responsabilità penale ed altresì di una specifica previsione legislativa e delle relative condizioni e la conseguente inapplicabilità della confisca del veicolo di proprietà del concedente nel contratto di leasing se estraneo al reato di guida in stato di ebbrezza commesso dall'utilizzatore, con la correlativa applicazione all'indagato della previsione del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida, ex art. 186, comma secondo, cod. strada.

  • reato
  • segreto professionale
  • pubblica amministrazione
  • abuso di diritto

II - Il diritto penale di parte speciale

Sommario

REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - 1 Abuso di ufficio. - 2 Rivelazioni di segreto di ufficio. - 3 Esercizio abusivo di una professione. - DELITTI CONTRO LA LIBERTÀ INDIVIDUALE - 1 Accesso abusivo ad un sistema informatico. - REATI CONTRO IL PATRIMONIO - 1 Truffa contrattuale - 2 Rapina. - 3 Estorsione. - 4 Ricettazione.

REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Abuso di ufficio.

In tema di abuso di ufficio posta in essere da un giudice dell'esecuzione le Sezioni Unite [SENT. Sez. U, n. 155 del 29/09/2011 (dep. 10/01/2012), Rv. 251498, Rossi] hanno affrontato una fattispecie relativa all'omessa riunione di trentacinque procedure esecutive complessivamente identiche quanto ai soggetti ed all'oggetto, in ciascuna delle quali partecipavano in forma di intervento le medesime trentacinque associazioni pignoranti, con conseguente abnorme lievitazione delle spese processuali liquidate dal giudice dell'esecuzione in favore delle associazioni creditrici facenti capo al coimputato, che agiva in proprio, quale difensore, e a nome delle predette associazioni di cui era rappresentante e titolare.

È stato, così, affermato il principio per cui, ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poichè lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione.

Al riguardo, le Sezioni Unite hanno riaffermato che, ai fini della violazione di legge, rileva che l'atto di ufficio non sia stato posto in essere nel rispetto delle norme di legge che regolano un'attività ovvero che attribuiscono al pubblico ufficiale il "potere" di compierla. Secondo la pronuncia "per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità".

Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa Corte, si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell'art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell'attribuzione), ciòè quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.

Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l'attribuzione (in termini analoghi, tra le tante, Sez. 6, n. 5820 del 09/02/1998, Mannucci, Rv. 211110; Sez. 6, n. 28389 del 19/05/2004, Vetrella, Rv. 229594; Sez. 6, n. 12196 dell'11/03/2005, Delle Monache, Rv. 231194; Sez. 6, n. 38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402 del 25/09/2009, D'Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera)".

Per le Sezioni Unite tali arresti "valgono allorché si tratta di definire l'ambito dell'attività per legge doverosa dei giudici. La peculiarità della categoria sta nel fatto che per dettato costituzionale i giudici sono soggetti alla legge ed esercitano una funzione, quella giurisdizionale, che postula terzietà e imparzialità e si attua in un giusto processo il cui primo requisito è d'essere regolato dalla legge".

Se si fa riferimento ai "doveri propri della pubblica funzione esercitata", si parla dunque anzitutto e inequivocabilmente di terzietà e di indifferenza rispetto agli interessi e ai soggetti coinvolti nel processo e di rispetto della legge, tassativa o ordinatoria che sia.

Neppure può indurre in errore, per il giudice, il riferimento che sovente si fa alla discrezionalità per indicare i suoi poteri di valutazione del merito. Se per discrezionalità s'intende, come per la pubblica amministrazione, la valutazione d'opportunità che attiene alla fase di ponderazione degli interessi, l'attività del giudice non ha di regola nulla di discrezionale. Il suo agire in funzione di arbitro e regolatore di una pretesa di parte non è connotato da libertà della scelta ma, come detto, dal principio di legalità ed è in tali termini sempre doveroso.

Altra cosa è la cosiddetta discrezionalità che coincide con la valutazione di merito che compete al giudice effettuare allorché si tratta di ricostruire la materialità del fatto (sostanziale o processuale) in vista della qualificazione di esso dal punto di vista della legge, cui in ogni caso consegue il cosiddetto "potere-dovere" - ossia il dovere che sorge da un potere (recte, da una potestà) a esercizio necessario - della applicazione della norma al caso concreto in essa sussumibile.

Diverso ancora è il giudizio secondo equità o la commisurazione equitativa del quantum, che non riguardano le situazioni in esame e che restano in ogni caso ancorati a parametri previsti dalla legge nonché al rispetto del principio di eguaglianza, comportante in primo luogo rispetto della "par condicio civium".

La sentenza ricorda che tra gli specifici doveri del giudice rientrano quello di non ledere alcune parti procurando un vantaggio ingiusto ad altre e quello di vigilare che le parti si comportino con lealtà e probità, secondo quanto previsto dall'art. 88 cod. proc. civ., in relazione ai connessi poteri in tema di riduzione o condanna alle spese, ai sensi quantomeno dell'art. 92 cod. proc. civ.

2. Rivelazioni di segreto di ufficio.

Altra pronuncia (sent. Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 07/02/2012, Rv. 251271, Casani ed altri) ha riguardato il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio commesso da un maresciallo dei Carabinieri. Circa tale reato le Sezioni Unite hanno ribadito che esso riveste natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta.

Secondo la Corte, dunque, "il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora informazioni d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta) ovvero a soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini dell'apporto da esse fornito (vedi Sez. 6, n. 9306 del 06/06/1994, Bandiera; Sez. 5, n. 30070 del 20/03/2009, C.)".

3. Esercizio abusivo di una professione.

Una terza pronuncia [sent. Sez. U , n. 11545 del 15/12/2011, dep. 23/03/2012, Cani] ha riguardato l'esercizio abusivo della professione di ragioniere o perito commerciale o dottore commercialista.

Le Sezioni Unite hanno affermato il principio per cui «integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato» (Rv. 251819). Ed inoltre quello per cui "le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale - quali disciplinate, rispettivamente, dai dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953 - anche se svolte da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali, in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione" (Rv. 251820).

Al riguardo la Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione, con ordinanza del 13 ottobre 2011, depositata in pari data, aveva rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, rilevando l'esistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale sulla determinazione dell'ambito applicativo del reato di cui all'art. 348 c.p., fra un primo orientamento (Sez. 6, n. 17921 del 11/03/2003, Gava Livio, Rv. 224959, e Sez. 6, n. 17702 del 03/03/2004, Bordi, Rv. 228472) che lo circoscriveva allo svolgimento delle attività specificamente riservate da un'apposita norma a una determinata professione, e un secondo filone (inaugurato da Sez. 6, n. 49 del 08/10/2002, dep. 2003, Notaristefano, Rv. 223215 seguita da Sez. 6, n. 26829 del 05/07/2006, Russo, Rv. 234420) che, nel distinguere tra atti "tipici" della professione ed atti "caratteristici", strumentalmente connessi ai primi, precisava che questi ultimi rilevano solo se vengano compiuti in modo continuativo e professionale.

In particolare, dunque, la questione rilevante concerne, oltre che l'ambito applicativo dell'art. 348 cod. pen., il quesito "se le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti integrino il reato di esercizio abusivo della professione di ragioniere, perito commerciale o dottore commercialista, se svolte - da chi non sia iscritto al relativo albo professionale - in modo continuativo, organizzato e retribuito".

Secondo le Sezioni Unite "il contrasto innescato dalla sentenza Notaristefano può e deve essere risolto attraverso una interpretazione estensiva della norma dell'art. 348 c.p., che superi i limiti dell'orientamento tradizionale, recuperando le ragioni sostanziali della detta sentenza, in un'ottica che tenga nel giusto conto la ratio della norma incriminatrice e il contesto normativo in cui è destinata a operare, ma sia nel contempo rispettosa del principio di tassatività".

Seconda la Corte, "il principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici, discendente da quello di legalità e riferibile, come questo, non solo alle previsioni direttamente contenute nelle norme penali ma anche a quelle delle fonti extrapenali che ne costituiscano sostanziale integrazione, impedisce di dare qualsiasi rilievo, ai fini della norma di cui all'art. 348 c.p., a disposizioni di carattere così indeterminato, come quella sopra indicata".

L'interpretazione estensiva proposta nella Notaristefano è invece da condividere in riferimento a quelle attività che, pur quando non siano attribuite in via esclusiva, siano però qualificate nelle singole discipline, con previsione, beninteso, puntuale e non generica (in rispetto, quindi, del principio di tassatività), come da specifica o particolare competenza di una data professione.

È innegabile, infatti, che quando tali attività siano svolte in modo continuativo e creando tutte le apparenze (organizzazione, remunerazione, ecc.) del loro compimento da parte di soggetto munito del titolo abilitante, le stesse costituiscano espressione tipica della relativa professione e ne realizzino quindi i presupposti dell'abusivo esercizio, sanzionato dalla norma penale.

Il concetto di esercizio professionale contiene già in sè un tendenziale tratto di abitualità, e, se è vero che da esso è giusto prescindere a fronte di atti che l'ordinamento riservi come tali, nell'interesse generale, a una speciale abilitazione, ne è naturale, ragionevole ed ermeneuticamente rilevante il recupero in presenza dell'indebita invasione di uno spazio operativo considerato dall'ordinamento come specificamente qualificante una determinata professione, allorché la stessa sia attuata con modalità idonee a tradire l'affidamento dei terzi, per la tutela dei cui interessi l'esercizio di quella professione è stato sottoposto a particolari cautele.

Sicché lo stesso tenore letterale dell'art. 348 c.p. impone l'adesione all'interpretazione estensiva in discorso, "la quale enuclea, in sostanza, accanto alla "riserva" professionale collegata alla attribuzione in esclusiva dell'atto singolo, una riserva collegata allo svolgimento, con modalità tipiche della professione, di atti univocamente ricompresi nella sua competenza specifica: conclusione questa che si rivela, in definitiva - come già precisato -, l'unica coerente con un sistema indistinto di albi in cui non è indispensabile l'esistenza di riserva esclusiva di specifiche attività ma che sono nel contempo ad appartenenza necessaria".

DELITTI CONTRO LA LIBERTÀ INDIVIDUALE.

1. Accesso abusivo ad un sistema informatico.

Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla tematica dell'accesso abusivo ad un sistema informatico. La già citata sent. Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 07/02/2012, Casani ed altri ha riguardato un caso di accesso di tal tipo secondo l'accusa posto in essere da un maresciallo dei Carabinieri che si introduceva nel sistema informatico denominato S.D.I. (Sistema di Indagine), in dotazione alle forze di polizia, sistema protetto da misure di sicurezza, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione di ufficiale di p.g. e con violazione delle direttive concernenti l'accesso allo S.D.I. da parte di appartenenti alle forze dell'ordine e all'Arma dei Carabinieri.

Al riguardo le Sezioni Unite hanno affermato che "integra il delitto previsto dall'art. 615ter cod. pen. colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema" (Rv. 251269) e, inoltre, che "la fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio costituisce una circostanza aggravante del delitto previsto dall'art. 615 ter, comma primo, cod. pen. e non un'ipotesi autonoma di reato" (RV. 251270).

La questione di diritto per la quale i ricorsi erano stati rimessi alle Sezioni Unite da parte della Quinta Sezione penale, all'udienza dell'11 febbraio 2011 e con ordinanza depositata il 23 marzo 2011, era relativa al se integri la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto abilitato ma per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita.

Orbene, al riguardo, un primo orientamento riteneva che il reato di cui al primo comma dell'art. 615-ter cod. pen. potesse essere integrato anche dalla condotta del soggetto che, pure essendo abilitato ad accedere al sistema informatico o telematico, vi si introducesse con la password di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell'archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per finalità diverse da quelle consentite.

Esso si fondava sostanzialmente, oltre che sull'analogia con la fattispecie della violazione di domicilio, sulla considerazione che la norma in esame punisce non soltanto l'abusiva introduzione nel sistema (da escludersi nel caso di possesso del titolo di legittimazione) ma anche l'abusiva permanenza contro la volontà di chi ha il diritto di escluderla (in questo senso v. sentenza n. 12732 del 07/11/2000, Zara; sentenza n. 30663 del 04/05/2006, Grimoldi; sentenza n. 37322 del 08/07/2008, Bassani).

Tale orientamento aveva trovato successivamente accoglimento in ulteriori pronunce della Quinta Sezione (sentenza n. 18006 del 13/02/2009, Russo; sentenza n. 2987 del 10/12/2009, dep. 2010, Matassich; sentenza n. 19463 del 16/02/2010, Jovanovic; sentenza n. 39620 del 22/09/2010, dep. 2010, Lesce).

Un altro orientamento, del tutto difforme, escludeva in ogni caso che il reato di cui all'art. 615-ter cod. pen. fosse integrato dalla condotta del soggetto il quale, avendo titolo per accedere al sistema, se ne avvalesse per finalità estranee a quelle di ufficio, ferma restando la sua responsabilità per i diversi reati eventualmente configurabili, ove le suddette finalità vengano poi effettivamente realizzate.

A sostegno di tale interpretazione, si osservava che la sussistenza della volontà contraria dell'avente diritto, cui fa riferimento la norma incriminatrice, deve essere verificata esclusivamente con riguardo al risultato immediato della condotta posta in essere dall'agente con l'accesso al sistema informatico e con il mantenersi al suo interno, e non con riferimento a fatti successivi (l'uso illecito dei dati) che, anche se già previsti, potranno di fatto realizzarsi solo in conseguenza di nuovi e diversi atti di volizione da parte dell'agente.

Ulteriore argomentazione veniva tratta dalla formula normativa "abusivamente si introduce", la quale doveva essere intesa nel senso di "accesso non autorizzato", secondo la più corretta espressione di cui alla c.d. "lista minima" della Raccomandazione R(89)9 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, sulla criminalità informatica, approvata il 13 settembre 1989 ed attuata in Italia con la legge n. 547 del 1993, e, quindi, della locuzione "accesso senza diritto" (access [...] without right) impiegata nell'art. 2 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica (cybercrime) fatta a Budapest il 23 novembre 2001 e ratificata con la legge 18 marzo 2008, n. 48.

Alle stesse conclusioni pervenivano pure la Sesta Sezione, con la sentenza n. 39290 del 08/10/2008, Peparaio, e la Quinta Sezione con la sentenza n. 40078 del 25/06/2009, Genchi.

In tale contesto interpretativo, le Sezioni Unite hanno ritenuto "che la questione di diritto controversa non debba essere riguardata sotto il profilo delle finalità perseguite da colui che accede o si mantiene nel sistema, in quanto la volontà del titolare del diritto di escluderlo si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza (per così dire "fisica") dell'agente nell'elaboratore".

Ciò significa che la volontà contraria dell'avente diritto deve essere verificata solo con riferimento al risultato immediato della condotta posta in essere, non già ai fatti successivi.

Rilevante deve ritenersi, perciò, il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto che sostanzialmente non può ritenersi autorizzato ad accedervi ed a permanervi sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema (nozione specificata, da parte della dottrina, con riferimento alla violazione delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro) sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito.

In questi casi, è proprio il titolo legittimante l'accesso e la permanenza nel sistema che risulta violato: il soggetto agente opera illegittimamente, in quanto il titolare del sistema medesimo lo ha ammesso solo a ben determinate condizioni, in assenza o attraverso la violazione delle quali le operazioni compiute non possono ritenersi assentite dall'autorizzazione ricevuta.

Il dissenso tacito del "dominus loci" non viene desunto dalla finalità (quale che sia) che anima la condotta dell'agente, bensì dall'oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in ordine all'uso del sistema. Irrilevanti devono considerarsi gli eventuali fatti successivi: "questi, se seguiranno, saranno frutto di nuovi atti volitivi e pertanto, se illeciti, saranno sanzionati con riguardo ad altro titolo di reato (rientrando, ad esempio, nelle previsioni di cui agli artt. 326, 618, 621 e 622 cod. pen.)".

Pertanto, "nei casi in cui l'agente compia sul sistema un'operazione pienamente assentita dall'autorizzazione ricevuta ed agisca nei limiti di questa, il reato di cui all'art. 615-ter cod. pen. non è configurabile, a prescindere dallo scopo eventualmente perseguito; sicché qualora l'attività autorizzata consista anche nella acquisizione di dati informatici, e l'operatore la esegua nei limiti e nelle forme consentiti dal titolare dello "ius excludendi", il delitto in esame non può essere individuato anche se degli stessi dati egli si dovesse poi servire per finalità illecite.

Il giudizio circa l'esistenza del dissenso del "dominus loci" deve assumere come parametro la sussistenza o meno di un'obiettiva violazione, da parte dell'agente, delle prescrizioni impartite dal dominus stesso circa l'uso del sistema e non può essere formulato unicamente in base alla direzione finalistica della condotta, soggettivamente intesa.

Vengono in rilievo, al riguardo, quelle disposizioni che regolano l'accesso al sistema e che stabiliscono per quali attività e per quanto tempo la permanenza si può protrarre, da prendere necessariamente in considerazione, mentre devono ritenersi irrilevanti, ai fini della configurazione della fattispecie, eventuali disposizioni sull'impiego successivo dei dati".

REATI CONTRO IL PATRIMONIO.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Truffa contrattuale

La riflessione delle Sezioni Unite si è estesa altresì al reato di truffa. La già citata sent. n. 155 del 29/09/2011, dep. 10/01/2012, Rossi e altri, in ordine alla configurabilità di detto reato ha affermato che "l'atto di disposizione patrimoniale, quale elemento costitutivo implicito della fattispecie incriminatrice, consiste in un atto volontario, causativo di un ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall'errore indotto da una condotta artificiosa", con la conseguenza che "lo stesso non deve necessariamente qualificarsi in termini di atto negoziale, ovvero di atto giuridico in senso stretto, ma può essere integrato anche da un permesso o assenso, dalla mera tolleranza o da una "traditio", da un atto materiale o da un fatto omissivo, dovendosi ritenere sufficiente la sua idoneità a produrre un danno" (Rv. 251499).

Al riguardo la sentenza ricorda che "effettivamente nella formulazione dell'art. 640 cod. pen. la condotta tipica, consistente nella realizzazione di artifici o raggiri, introduce una serie causale che porta agli eventi di ingiusto profitto con altrui danno passando attraverso l'induzione in errore; e che l'induzione in errore pur rappresentando il modo in cui si manifesta il nesso causale, non lo esaurisce.

Dottrina e giurisprudenza tradizionalmente concordano nel rilevare che il passaggio dall'errore agli eventi consumativi deve essere contrassegnato da un elemento sottaciuto dal legislatore, costituito dal comportamento "collaborativo" della vittima che per effetto dell'induzione arricchisce l'artefice del raggiro e si procura da sé medesimo danno.

La collaborazione della vittima per effetto del suo errore rappresenta in altri termini il requisito indispensabile perché ingiusto profitto e danno possano dirsi determinati dalla condotta fraudolenta dell'agente; e costituisce il tratto differenziale del reato in esame rispetto ai fatti di mera spoliazione da un lato, ai reati con collaborazione della vittima per effetto di coartazione dall'altro.

Tradizionalmente codesto requisito implicito, ma essenziale, della truffa quale fatto di arricchimento a spese di chi dispone di beni patrimoniali, realizzato tramite induzione in errore ed inganno, è definito "atto di disposizione patrimoniale". La definizione è tuttavia imprecisa, nel senso che apparentemente evoca categorie civilistiche rispetto alle quali è impropria.

Nulla nella formulazione della norma consente difatti di restringere l'ambito della "collaborazione carpita mediante inganno" ad un atto di disposizione da intendersi nell'accezione rigorosa del diritto civile e di escludere, all'inverso, che il profitto altrui e il danno proprio o di colui del cui patrimonio l'ingannato può legittimamente disporre, sia realizzato da costui mediante una qualsiasi attività rilevante per il diritto, consapevole e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione della realtà in lui indotta.

Più corretto e semplice è allora dire che per l'integrazione della truffa occorre, e basta, un comportamento del soggetto ingannato che sia frutto dell'errore in cui è caduto per fatto dell'agente e dal quale derivi causalmente una modificazione patrimoniale, a ingiusto profitto del reo e a danno della vittima.

Il così detto atto di disposizione ben può consistere per tali ragioni in un permesso o assenso, nella mera tolleranza o in una traditio, in un atto materiale o in un fatto omissivo: quello che conta è che sia un atto volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall'errore indotto da una condotta artificiosa".

2. Rapina.

Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, dep. 12/09/2012, Rv. 253153, Reina ha affrontato il delicatissimo tema della configurabilità o meno del tentativo di rapina impropria, che ha, fin dalle prime applicazione del codice Rocco, fortemente diviso dottrina e giurisprudenza. La prima, quasi unanimemente, nelle sue espressioni più alte, ha da sempre ritenuto che possa configurarsi la rapina impropria solo in presenza della sottrazione della cosa e che, in mancanza di tale presupposto, il fatto possa essere qualificato non come tentativo di rapina impropria ma, piuttosto, come tentato furto in aggiunta ad altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia.

Ecco in sintesi le argomentazioni: 1) il tenore letterale dell'art. 628 cpv. c.p. postula che la violenza o la minaccia siano successive alla sottrazione compiuta e non a quella tentata; 2) la sottrazione è il presupposto fattuale di tali condotte e non fa parte di queste ultime; 3) il reato complesso costituisce una fattispecie autonoma rispetto agli elementi costitutivi che in essa si compenetrano, i quali perdono il rilievo giuridico assunto nella figura originaria dando vita ad un fatto tipico nuovo suscettibile di autonoma considerazione. Pertanto, le condotte di sottrazione, da un lato, e di violenza o minaccia, dall'altro, si fondono in una fattispecie strutturalmente indipendente da quella del furto e della violenza privata in maniera tale da conferire alla stessa un diverso significato giuridico. Ne consegue che lo studio della configurabilità del tentativo deve riguardare necessariamente tale figura nuova, la quale, nella specie, per le sue caratteristiche strutturali, postula sicuramente una sottrazione consumata; 4) il concetto di idoneità degli atti non lascia spazio alcuno alla finalizzazione della condotta al compimento della rapina, in quanto detti atti sono diretti soltanto alla consumazione di un furto. ll tentativo di sottrazione non potrebbe considerarsi atto idoneo diretto in modo non equivoco a commettere il delitto di rapina, perché si tratta di un comportamento che non ha alcun rapporto con la violenza o la minaccia, né può esprimerne la direzione finalistica a commetterla; 5) la "ratio" del regime sanzionatorio della rapina si spiega in ragione del nesso teleologico che unisce le offese alla persona ed al patrimonio e all'oggettivo legame di consequenzialità tra l'una e l'altra; in mancanza dell'aggressione al patrimonio, sarebbe poco equa l'applicazione di una pena uguale a quella della rapina propria, in cui le due offese si materializzano entrambe, piuttosto che l'applicazione di una pena che sanzioni il concorso materiale di reati effettivamente realizzati, quello contro al patrimonio in forma tentata e quello alla persona in forma consumata.

Secondo l'orientamento ampiamente maggioritario della Cassazione, consolidatissimo fino al 1999, è invece configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l'agente, dopo aver compiuto atti idonei all'impossessamento della "res" altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l'impunità. Per tale soluzione si esprimevano sent. sez. 2 , n. 6479 del 13/01/2011, dep. 22/02/2011, Rv. 249390 Lanza; sent. sez. 2, n. 44365 del 26/11/2010, dep. 16/12/2010, Rv. 249185, Panebianco; sent. sez. 2, n. 42961 del 18/11/2010, dep. 03/12/2010, Rv. 249123, c. i.; sent. sez. 2, n. 36723 del 23/09/2010, dep. 14/10/2010, Rv. 248616, Solovchuk e altro; sent. sez. 2 , n. 22661 del 19/05/2010, dep. 14/06/2010, Rv. 247431, Tushe; sent. sez. 2, n. 23610 del 12/03/2010, dep. 18/06/2010, Rv. 247292, Russomanno; sent. sez. 6, n. 25100 del 29/04/2009, dep. 16/06/2009, Rv. 244366 Rosseghini e altro; sent. sez. 2 , n. 3769 del 16/12/2008, dep. 27/01/2009, Rv. 242558 Solimeo; sent. sez. 6, n. 45688 del 20/11/2008, dep. 10/12/2008, Rv. 241666 p.g. in proc. Bastea; sent. sez. 2, n. 19645 del 08/04/2008, dep. 16/05/2008, Rv. 240408 Petocchi; sent. sez. 2, n. 20258 del 26/03/2008, dep. 20/05/2008, Rv. 240104 Boudegzdame; sent. sez. 2, n. 29477 del 29/02/2008, dep. 16/07/2008, Rv. 240640 Chirullo; sent. sez. 2, n. 38586 del 25/09/2007, dep. 18/10/2007, Rv. 238017 Mancuso; sent. sez. 2, n. 40156 del 10/11/2006, dep. 05/12/2006, Rv. 235448 Taroni; sent. sez. 2, n. 17264 del 02/03/2004, dep. 14/04/2004, Rv. 229700 Tre Re; sent. sez. 2, n. 9262 del 30/01/2004, dep. 01/03/2004, Rv. 230067 p.g. in proc. Amodeo; sent. sez. 2, n. 49213 del 18/11/2003, dep. 23/12/2003, Rv. 227507 Maricevic; sent. sez. 2, n. 47086 del 14/10/2003, dep. 09/12/2003, Rv. 227763 Monaco; sent. sez. 2, n. 41671 del 24/09/2003, dep. 31/10/2003, Rv. 227368 Giarra; sent. sez. 5, n. 32445 del 30/05/2001, dep. 29/08/2001, Rv. 219719 pm in proc. Berisa; sent. sez. 2, n. 28044 del 16/05/2001, dep. 10/07/2001, Rv. 219629, Radosavljevic; sent. sez. 2, n. 9753 del 21/01/1988, dep. 07/10/1988, Rv. 179347, Mastrogiacomo; sent. sez. 2, n. 5565 del 12/10/1987, dep. 07/05/1988, Rv. 178340, Hudorovich; sent. sez. 6, n. 3234 del 03/09/1986, dep. 17/03/1987, Rv. 175365 Colazzo; sent. sez. 2, n. 296 del 12/06/1986, dep. 16/01/1987, Rv. 174820, Giarmoleo; sent. sez. 2, n. 8799 del 28/06/1984, dep. 18/10/1984, Rv. 166193, Stivali; sent. sez. 2, n. 7057 del 18/04/1983, dep. 23/07/1983, Rv. 160043, Schoepf; sent. sez. 2, n. 6869 del 09/02/1979, dep. 21/07/1979, Rv. 142673 Savi; sent. sez. 1, n. 5384 del 06/02/1979, dep. 15/06/1979, Rv. 142225 Foscarini; sent. sez. 2, n. 3637 del 29/11/1977, dep. 01/04/1978, Rv. 138449 Fiorini; sent. sez. 2 , n. 5365 del 01/12/1976, dep. 28/04/1977, Rv. 135698 Bonometti; sent. sez. 1, n. 9021 del 23/11/1976, dep. 14/07/1977, Rv. 136425 De Rosa; sent. sez. 2, n. 10149 del 05/04/1976, dep. 14/10/1976, Rv. 134584 Grieco; sent. sez. 2, n. 1355 del 21/11/1975, dep. 29/01/1976, Rv. 132064 Borriello; sent. sez. 2, n. 7248 del 14/11/1975, dep. 19/06/1976, Rv. 133892 Bruno; sent. sez. 2, n. 2162 del 07/11/1975, dep. 14/02/1976, Rv. 132345 Diamanti; sent. sez. 2, n. 1686 del 28/10/1975, dep. 07/02/1976, Rv. 132222 De Simone; sent. sez. 2, n. 4129 del 27/11/1974, dep. 12/04/1975, Rv. 129759 Grasso; sent. sez. 2, n. 9607 del 02/10/1974, dep. 10/12/1974, Rv. 129368 Pomponi; sent. sez. 2 , n. 1849 del 24/10/1973, dep. 04/03/1974, Rv. 126340 Lisanti; sent. sez. 1, n. 5228 del 27/02/1973, dep. 05/07/1973, Rv. 124535 Botta; sent. sez. 2, n. 6024 del 12/02/1973, dep. 11/08/1973, Rv. 124868 De Pasquale; sent. sez. 2, n. 901 del 14/04/1969, dep. 23/10/1969, Rv. 112999 Bason; ord. sez. 1, n. 2485 del 20/11/1967, dep. 05/12/1967, Rv. 106232 Caruso; sent. sez. 2, n. 1583 del 15/11/1966, dep. 24/03/1967, Rv. 103854 Esposito; sent. sez. 2, n. 526 del 28/03/1966, dep. 25/08/1966, Rv. 102414 La Guardia; sent. sez. 2, n. 1343 del 11/10/1965, dep. 03/01/1966, Rv. 100064 Rossi; sent. sez. 2 , n. 1291 del 05/10/1965, dep. 03/01/1966, Rv. 100053 Di Donato; sent. sez. 2, n. 373 del 05/03/1965, dep. 06/04/1965, Rv. 99515 Martinelli.

A sostegno di tale indirizzo, si affermava che: 1) la violenza o la minaccia sono connesse al tentativo di acquisire la disponibilità del bene da quel fine specifico di conseguire l'impunità che è elemento qualificante del reato di cui all'art. 628, comma secondo, c.p.; 2) con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l'autore del reato contro il patrimonio che ricorra alla violenza o alla minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che, pur sempre usando violenza o minaccia, attenti al patrimonio altrui e non riesca nell'intento per cause estranee alla sua volontà; 3) la rapina impropria rappresenta una fattispecie complessa in cui le fattispecie componenti la figura in esame (sottrazione e violenza) possono presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, non essendo consentito procedere, proprio per l'unità della figura delittuosa, ad una considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro la persona.

L'orientamento minoritario della giurisprudenza, invece, prendeva le mosse da sez. 5, n. 3796 del 12/07/1999, dep. 03/11/1999, Rv. 215102 pg in proc. Jovanovic, che spezza la tendenza granitica fino ad allora registratasi, aprendosi piuttosto alle argomentazioni della dottrina, fino a quel momento altrettanto monolitiche nell'opposta direzione della non ipotizzabilità del tentativo.

Tale orientamento faceva leva sull'osservazione per cui la configurabilità della rapina impropria, alla stregua del testuale tenore della norma incriminatrice (art. 628, comma secondo, cod. pen.) presuppone inderogabilmente l'avvenuta sottrazione della cosa, sicché, in mancanza di tale presupposto – il che si verifica nel caso in cui l'agente, sorpreso prima di aver effettuato la sottrazione, usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o di procurarsi altrimenti l'impunità - il fatto non può essere qualificato come tentativo di rapina impropria ma come tentato furto in aggiunta ad altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Detta tesi è stata seguita anche da sent. sez. 5, n. 16952 del 14/12/2009, dep. 04/05/2010, Rv. 246860 Mezzasalma; sent. sez. 6, n. 4264 del 10/12/2008, dep. 29/01/2009, Rv. 243057 p.g. in proc. Coteanu; sent. sez. 6, n. 10984 del 27/11/2008, dep. 12/03/2009, Rv. 243683 p.g. in proc. Strzezek; sent. sez. 6, n. 43773 del 30/10/2008, dep. 21/11/2008, Rv. 241919 p.g. in proc. Muco; sent. sez. 5, n. 32551 del 13/04/2007, dep. 09/08/2007, Rv. 236969 p.g. in proc. Mekhatria.

Su tale panorama di argomentazioni contrapposte ha inciso la sentenza delle Sezioni Unite, la quale si è espressa, a conferma dell'orientamento ampiamente maggioritario della giurisprudenza, per la configurabilità del tentativo di rapina impropria.

Le argomentazioni si ricavano nitidamente dalla parte motiva. In primo luogo la sentenza osserva che non risponde ad esattezza che la configurabilità del tentativo di rapina impropria contrasti con il principio di legalità e con il divieto di analogia, posto che detto principio trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (oltre che nell'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel "Corpus" comunitario attraverso l'art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007), fonti queste per le quali per legalità deve intendersi anche la prevedibilità della sanzione, riferite non alla semplice astratta previsione della legge, ma alla norma "vivente" quale risulta dall'applicazione e dalla interpretazione dei giudici.

Sicché, secondo la pronuncia, venendo la giurisprudenza ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell'ambito applicativo del precetto penale, «nel caso in esame la prevedibilità del risultato interpretativo con riferimento al "diritto vivente" è piuttosto rappresentata da una giurisprudenza, non proprio maggioritaria, ma addirittura granitica, per molti decenni, fino alla pronuncia di alcune sentenze difformi».

Quanto alla critica rappresentata dal dato testuale del capoverso dell'art. 628 cod. pen., che sarebbe esplicito nel richiedere che violenza e minaccia siano utilizzate "dopo la sottrazione", la sentenza oppone l'argomento per cui «il legislatore, con l'espressione "immediatamente dopo" intendeva stabilire il nesso temporale che deve intercorrere tra i segmenti dell'azione criminosa complessa, ma non anche definire le caratteristiche, consumate o tentate, di tali segmenti. In altri termini, nella formulazione della norma svolge un ruolo centrale la necessità di un collegamento logico-temporale tra le condotte di aggressione al patrimonio e di aggressione alla persona, attraverso una successione di immediatezza. È necessario e sufficiente che tra le due diverse attività concernenti il patrimonio e la persona intercorra un arco temporale tale da non interrompere il nesso di contestualità dell'azione complessiva posta in essere. Questo è il punto centrale e il solo indefettibile della norma incriminatrice del comma secondo dell'art. 628 cod. pen. che giustifica l'equiparazione del trattamento sanzionatorio tra la rapina propria e quella impropria, indipendentemente dall'essere quelle stesse condotte consumate o solo tentate».

In terzo luogo, la pronuncia si discosta dalla tesi che configura la sottrazione come un mero presupposto del reato di rapina impropria e non come parte della condotta di tale reato, osservando che «è ben difficile attribuire natura di mero presupposto alla sottrazione, trattandosi pur sempre di una condotta consapevole e già illecita dello stesso agente e non certo di un elemento naturale o giuridico anteriore all'azione delittuosa ed indipendente da essa. L'unico presupposto della rapina, nelle sue varie forme, è la mancanza di possesso della cosa oggetto dell'azione».

In quarto luogo, le Sezioni Unite criticano l'impostazione per cui lo schema del delitto tentato può ritenersi riferibile al reato complesso globalmente considerato anche allorquando un troncone della condotta sia giunto a perfezione e l'altro sia rimasto allo stadio del tentativo penalmente significativo, ma a condizione che la porzione della condotta compiutamente realizzata sia quella che la norma richiede sia realizzata per prima.

Secondo la sentenza, invece, «è opinione largamente diffusa, e certamente preferibile, che si ha tentativo di delitto complesso sia quando non sia stata ancora raggiunta la compiutezza né dell'una né dell'altra componente, sia quando sia stata raggiunta la consumazione dell'una e non quella dell'altra», il che è dimostrato dal fatto che è configurabile il tentativo di rapina impropria «nel caso in cui il soggetto agente abbia sottratto la cosa altrui e subito dopo abbia tentato un'azione violenta o anche minacciosa nei confronti della vittima del reato o di terzi per assicurarsi il possesso del bene», sicché non si vede la ragione di negare la configurabilità del tentativo nel caso in cui rimanga incompiuta l'azione di sottrazione della cosa altrui.

Infine, la sentenza dissente dall'argomento, a favore della non ipotizzabilità del tentativo di rapina impropria, che, facendo leva su ragioni di politica criminale, sostiene che l'allargamento delle maglie della fattispecie di rapina impropria nel senso indicato dalla prevalente giurisprudenza comporterebbe l'applicazione di una sanzione particolarmente grave anche per un fatto che non si ritiene dotato di significativo disvalore.

Per la pronuncia «anche tale argomentazione non può essere condivisa, poiché la mancata consumazione della condotta di aggressione al patrimonio o della condotta di aggressione alla persona non fanno venir meno il legame tra le due forme di aggressione, come struttura portante del reato complesso di rapina, che persiste nelle due forme propria e impropria e che giustifica il trattamento sanzionatorio più grave. È ben vero che nella rapina impropria non sussiste il nesso funzionale e strumentale che in quella propria unisce l'aggressione alla persona all'aggressione al patrimonio, ma una volta che il legislatore ha stabilito che la mancanza di tale specifico nesso non esclude l'equiparabilità ai fini sanzionatori della rapina impropria, deve ritenersi che la congiunta e contestuale aggressione ai due beni giuridici attribuisce di per sé maggiore gravità alle condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene sicurezza e libertà della persona e perciò è previsto che sia punita più severamente delle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici».

3. Estorsione.

Sez. U, sent. n. 21837 del 29/03/2012, dep. 05/06/2012, Rv. 252518, Alberti ha affermato il principio per cui nel reato di estorsione la circostanza aggravante speciale delle più persone riunite richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento di realizzazione della violenza o della minaccia.

Il quesito di diritto riguardava la questione, alquanto dibattuta anche in dottrina, se per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, sia necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e al momento in cui si realizzano la violenza o la minaccia, oppure sia sufficiente che il soggetto passivo del reato percepisca che la violenza o la minaccia provengano da più persone.

In ordine alla questione controversa, un primo indirizzo affermava che, ai fini della circostanza aggravante delle "più persone riunite", è richiesto necessariamente che almeno due persone siano simultaneamente presenti nel luogo e nel momento in cui si realizza l'azione di violenza o di minaccia, giacché, da un lato, il concetto di persone "riunite" non può coincidere con quello del mero concorso di più persone, e, dall'altro, deve considerarsi che la maggiore intimidazione e la minore possibilità di difesa derivanti dalla riunione, quale evidente "ratio" del previsto inasprimento di pena, sarebbero effettivamente sussistenti a condizione che la riunione stessa sia nota alla vittima e sussista al momento in cui si esplica la violenza o la minaccia.

A questo indirizzo consegue che l'aggravante non possa sussistere ove il reato sia commesso mediante minacce formulate da singole persone in tempi successivi ovvero nel caso di intervento successivo di ciascuno dei correi oppure ancora nel caso di minaccia esercitata per mezzo di scritto o telefonata o interposta persona (in tal senso Sez. 2, n. 1121 del 24/06/1966, dep. 25/02/1967, Di Grazia; Rv. 103546; Sez. 1, n. 1128 del 19/10/1966, dep. 17/01/1967, Marcadini, Rv. 103186; Sez. 6, n. 299 del 14/02/1967, dep. 29/05/1967, Pastorino, Rv. 104354; Sez. 2, n. 6662 del 19/02/1981, dep. 14/07/1981, Latella, Rv. 149657; Sez. 1, n. 2964 del 01/12/1981, dep. 18/03/1982, Samà, Rv. 152840; Sez. 2, n. 8514 del 11/02/1983, dep. 19/10/1983, Stefanelli, Rv. 160741; Sez. 6, n. 1041 del 15/04/1983, dep. 02/06/1983, Miastroni, Rv. 159341; Sez. 2, n. 7521 del 26/02/1986, dep. 21/07/1986, Usai, Rv. 173406; Sez. 2, n. 12958 del 26/03/1987, dep. 19/12/1987, Reali, Rv. 177288; Sez. 2, n. 15416 del 12/03/2008, dep. 11/04/2008, Crotti, Rv. 240011; Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, dep. 18/06/2009, Limatola e altro, Rv. 244149; Sez. 2, n. 24367 del 11/06/2010, dep. 25/06/2010, Scisci, Rv. 247865; Sez. 6, n. 41359 del 21/10/2010, dep. 23/11/2010, Cuccaro e altri, Rv. 248733; Sez. 2, n. 45043 del 08/11/2011, dep. 05/12/20012, Finato e altro, non massimata).

Un secondo indirizzo, invece, sostanzialmente maggioritario, sosteneva la configurabilità dell'aggravante anche laddove il soggetto passivo abbia avuto la "sensazione" o la "percezione" o la "conoscenza" che l'azione minatoria provenga da parte di più individui, senza che sia quindi necessaria la simultanea presenza delle persone al momento del compimento della condotta (in tal senso Sez. 1, n. 2636 del 26/10/1978, dep. 16/03/1979, Calanducci, Rv. 141445; Sez. 1, n. 3968 del 07/12/1979, dep. 21/03/1980, Nicotra, Rv. 144772; Sez. 2, n. 5575 del 10/01/1980, dep. 03/05/1980, Quagliariello, Rv. 145174; Sez. 2, n. 13286 del 01/07/1980, dep. 11/12/1980, Hassemer, Rv. 147046; Sez. 2, n. 9736 del 26/06/1981, dep. 31/10/1981, Minniti, Rv. 150790; Sez. 2, n. 9056 del 05/04/1982, dep. 13/10/1982, Gilio, Rv. 155521; Sez. 2, n. 6818 del 10/03/1983, dep. 15/07/1983, Cuozzo, Rv. 159987; Sez. 2, n. 11201 del 02/06/1983, dep. 23/12/1983, Maiuri, Rv. 161912; Sez. 2, n. 13230 del 03/10/1986, dep. 24/11/1986, Masella, Rv. 174392; Sez. 2, n. 2539 del 22/12/1987, dep. 23/02/1988, La Spada, Rv. 177691; Sez. 2, n. 10082 del 26/01/1987, dep. 28/09/1987, Franciosa, Rv. 176729; Sez. 3, n. 9824 del 12/08/1987, dep. 15/09/1987, Gaglioli, Rv. 176656, in Cass. Pen., 1989, 53; Sez. 2, n. del 17/11/1992, Berlingieri, in Foro it., 1993, II, 643; Sez. 2, n. 40208 del 22/11/2006, dep. 06/12/2006, Bevilacqua ed altro, Rv. 235591; Sez. 2, n. 16657 del 31/03/2008, dep. 22/04/2008, Di Bella, Rv. 239779; con riguardo ad estorsioni non a distanza, Sez. 1, n. 46254 del 24/10/2007, dep. 12/12/2007, Milone, Rv. 238485).

Per tale indirizzo «la maggiore intensità dell'intimidazione si riscontra in ogni caso, anche quando i compartecipi, invece di agire simultaneamente e nello stesso luogo compulsando tutti insieme fisicamente la vittima, agiscano separatamente e in tempi diversi in esecuzione del programma criminoso deliberato.

In coerenza con la "ratio", l'enunciato normativo non impone alcuna discriminazione fra le categorie di fattispecie suddette: la formula "più persone riunite" postula la partecipazione all'azione criminosa di una pluralità di soggetti associati, non anche la convergenza di tempo e di luogo dell'apporto di ciascuno all'azione medesima e meno che mai la compresenza fisica dei correi e del destinatario della violenza o della minaccia; e nessun elemento sistematico consente di introdurre l'anzidetta limitazione fattuale, la quale condurrebbe a circoscrivere in modo drastico l'ambito di applicazione dell'aggravante, invece prevista, attraverso il generico richiamo contenuto nell'art. 629 cod. pen., per ogni ipotesi rientrante nel modello legale di illecito» (Sez. 1, n. 1840 del 07/08/1984, dep. 05/09/1984, Guzzi, Rv. 165530, in Giur. it., 1986, 34; negli stessi esatti termini, anche Sez. 3, n. 9824 del 12/08/1987, dep. 15/09/1987, Gaglioli, Rv. 176656, in Cass. pen., 1989, 53).

Al cospetto di detti orientamenti, le Sezioni Unite hanno prediletto il primo di essi, affermando che «a tanto inducono la interpretazione letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice accezione della precisione-determinatezza della condotta punibile e del divieto di analogia in malam partem in materia penale, e quella logico-sistematica».

In particolare, «secondo una corretta interpretazione letterale, imposta dall'art. 12 delle preleggi, in base alla quale è necessario in primo luogo tenere conto nella interpretazione delle norme del significato lessicale delle parole utilizzate dal legislatore, il verbo "riunire", nella sua comune accezione, significa "unire, radunare più cose o persone nello stesso luogo", ed il sostantivo "riunione" indica "il riunirsi di più persone nello stesso luogo allo scopo di..."; il dato semantico, quindi, non appare di dubbia interpretazione, volendosi con il termine "riunite" indicare la compresenza in un luogo determinato di più persone, ovvero di almeno due persone».

Anche sotto un profilo diverso da quello semantico, osserva la sentenza che «il termine "riunione" risulta direttamente collegato alla modalità commissiva della condotta violenta o minacciosa, che è connotata da una evidente maggiore gravità quando venga esercitata simultaneamente da più persone; si vuoi dire cioè che, come è stato osservato da una parte della dottrina, il legislatore ha conferito alla compresenza dei concorrenti nel "locus commissi delicti" un maggior disvalore penale in virtù dell'apporto causale fornito nella esecuzione del reato e della rafforzata "vis compulsava" esercitata sulla vittima. In tal modo il legislatore ha delineato una fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue in modo netto dalla ipotesi del concorso di persone nel reato perché la fattispecie circostanziale contiene l'elemento specializzante della "riunione" riferito alla sola fase della esecuzione del reato e, più precisamente, alle sole modalità commissive della violenza e della minaccia, potendosi, invece, il concorso di persone nel reato manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa, ovvero sia in quella ideativa che in quella più propriamente esecutiva».

In definitiva, quindi, la sentenza individua la "ratio" del sensibile aggravamento di pena previsto dall'art. 629, comma secondo, cod. pen., rispetto alla fattispecie del reato-base, nel caso di condotta estorsiva realizzata da più persone, «nel dato oggettivo del contributo causale, determinato dal maggiore effetto intimidatorio della violenza o minaccia posta in essere, fornito alla realizzazione del delitto dalla simultanea presenza nel luogo e nel momento della esecuzione della violenza e minaccia dei concorrenti e non in quello soggettivo della mera percezione della provenienza della condotta da parte di più persone».

Una conseguenza dell'orientamento abbracciato è individuata nel fatto che «quando i concorrenti nel reato siano più di cinque è configurabile la circostanza aggravante di cui all'art. 112, n. 1, cod. pen.»; altra conseguenza importante sta nel fatto che «nel caso di cd. estorsione mediata, ovvero delle minacce fatte a mezzo lettera o telefono, l'aggravante delle più persone riunite sarà ravvisabile nel caso in cui la lettera sia firmata da due o più persone o se alla telefonata minatoria partecipino più persone, ma non anche nel caso in cui la parte offesa abbia la sensazione che colui che abbia spedito la lettera minatoria o abbia fatto la telefonata minacciosa sia in collegamento con altre persone. Per le stesse ragioni non sarà ravvisabile l'aggravante in discussione quando le minacce o le violenze nei confronti della parte offesa siano poste in essere da diversi coimputati non contestualmente, ma da soli in momenti successivi. In tale situazione, infatti, sarà ravvisabile un concorso di persone nel reato, ed, eventualmente, l'aggravante di cui all'art. 112, n. 1, cod. pen. nel caso i concorrenti siano cinque o più, ma non l'aggravante delle più persone riunite che, come si è detto, ha una ratio del tutto diversa».

4. Ricettazione.

Le Sezioni Unite, con sent. n. 22225 del 19/01/2012, dep. 08/06/2012, Rv. 252453 - 252454 e 252455, Micheli, hanno affermato i principi di diritto così massimati: «L'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell'illecito amministrativo previsto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in legge 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla legge 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648 cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod. pen.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall'avvenuta eliminazione della clausola di riserva "salvo che il fatto non costituisca reato", dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell'oggetto della condotta nonchè dalla rinuncia legislativa alla formula "senza averne accertata la legittima provenienza", il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa» (Rv. 242453).

Un'ulteriore massima ha precisato che «per acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in legge 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla legge 23 luglio 2009, n. 99, si intende colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale» (Rv. 252455).

Ed infine: «In tema di prodotti con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, è inammissibile la richiesta di trasmissione degli atti alla Corte europea di giustizia, in via incidentale e interpretativa, al fine di sentir dichiarare che alla legislazione nazionale è imposto l'uso delle sanzioni penali con esclusione di quelle di natura amministrativa, in quanto detto rinvio, essendo finalizzato ad una disapplicazione della norma interna per contrasto con il diritto comunitario (nella specie, la direttiva Enforcement n. 2004/48/CE), si tradurrebbe in una interpretazione in "malam partem" con conseguente punibilità di fatti non previsti come reato dallo Stato italiano al tempo della condotta» (Rv. 242454).

In particolare la Cassazione ha dovuto affrontare il caso di un imputato, assolto in primo grado e condannato in appello, il quale, al fine di profitto, facendo un ordinativo tramite corriere espresso, aveva compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a ricevere un orologio recante il marchio contraffatto Rolex, cosa proveniente dal delitto di cui all'art. 473 cod. pen., senza riuscire nel proprio intento per cause indipendenti dalla sua volontà e, segnatamente, a causa del controllo doganale cui veniva sottoposto il collo proveniente dalla Cina.

La Seconda Sezione penale, cui era stato assegnato il ricorso rilevava l'esistenza di due distinte tesi giuridiche sulla questione della specialità o meno del nuovo testo di cui all'art. 1 d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, così come modificato dall'art. 17, comma 2, legge 23 luglio 2009, n. 99, rispetto al delitto di ricettazione.

Secondo un primo orientamento, l'illecito amministrativo sarebbe speciale solo rispetto alla contravvenzione di cui all'art. 712 cod. pen., ma non rispetto alla ricettazione, atteso che soltanto l'elemento oggettivo della contravvenzione, essendo incentrato sull'acquisto o ricezione di cose di cui si abbia motivo di sospettare la provenienza da reato in ragione della loro qualità, della condizione di chi le offre o del prezzo, è seriamente sovrapponibile con l'ultima versione legislativa dell'illecito amministrativo, mentre non altrettanto può dirsi del delitto di cui all'art. 648 cod. pen., che si sostanzia nell'acquisto o ricezione di cosa proveniente da delitto a fini di profitto.

Secondo il contrario orientamento, invece, deve trovare sempre applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria, dovendosi l'illecito amministrativo considerare speciale non soltanto rispetto all'incauto acquisto, bensì anche in relazione alla ricettazione.

Tale soluzione poggia, in primo luogo, sull'interpretazione della volontà legislativa, che è maggiormente compatibile con l'esclusione dell'applicazione di sanzioni penali ai danni dell'acquirente finale di beni con marchi contraffatti; in secondo luogo, sull'esigenza di evitare che la norma sull'illecito amministrativo resti relegata a meri casi di scuola, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che l'acquirente finale di un prodotto con segni falsi - si pensi al frequente caso dell'acquisto da venditori ambulanti - non sia consapevole che l'oggetto acquistato rappresenti il provento della violazione dell'art. 474 cod. pen.; in terzo luogo, sulla considerazione per cui non è vero che l'illecito amministrativo è maggiormente compatibile con la struttura dell'art. 712 cod. pen., atteso che in esso il legislatore impiega l'espressione «inducano a ritenere», laddove nella contravvenzione la lettera della norma usa le parole «abbia motivo di sospettare», dal che si desume che lo stesso illecito amministrativo è idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale».

Orbene la sentenza, ha premesso che, dovendosi raffrontare il delitto di ricettazione con l'illecito amministrativo, i criteri sull'individuazione della norma speciale sono validamente stati fissati da Sezioni Unite, con la sentenza n. 1963 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722, anche sulla scia di Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, Giordano, Rv. 248864.

Per tali pronunce il rapporto di specialità deve essere verificato nel confronto strutturale tra le fattispecie astratte. Ciò premesso, la sentenza affronta l'analisi delle norme. Quella introdotta con l'art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, come modificato in sede di conversione dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, dispone al comma 7, nel suo testo originario: «Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.000 euro l'acquisto o l'accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70» (l'ultimo periodo è stato aggiunto dalla legge di conversione).

Successivamente l'art. 2, comma 4-bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha apportato le seguenti modificazioni: «al comma 7, al primo periodo, dopo le parole: "sanzione amministrativa pecuniaria" sono inserite le seguenti: "da 100 euro" e sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: "Qualora l'acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall'acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria è stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall'articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981, all'accertamento delle violazioni provvedono, d'ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».

Successivamente ancora l'art. 5-bis, d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, che porta nuovamente in rubrica «lotta alla contraffazione», sostituisce al primo periodo le parole «da 100 euro» con quelle «da 500 euro».

Infine, l'art. 17 legge 23 luglio 2009, n. 99, che reca in rubrica «contrasto della contraffazione», riscrive completamente la norma: sopprimendo al primo comma le parole: "Salvo che il fatto costituisca reato; sostituendo le parole: "da 500 euro fino a 10.000 euro l'acquisto o l'accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose" con le seguenti: "da 100 euro fino a 7.000 euro l'acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose"; sostituendo la parola: "intellettuale" con quella "industriale".

Sicché il testo finale, attualmente vigente, del comma 7 dell'art. 1 d.l. n. 35 del 2005 è il seguente: «E' punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l'acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70. Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l'acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall'acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria é stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall'articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981, all'accertamento delle violazioni provvedono, d'ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».

La sentenza spiega chiaramente le ragioni della specialità dell'illecito amministrativo rispetto ai reati codicistici. Secondo la stessa, infatti, «se si procede, sempre in applicazione dei principi formulati dalle citate sentenze delle Sezioni Unite n. 1963 del 2011 e n. 1235 del 2011, ad un raffronto strutturale tra le fattispecie astratte, si deve rilevare, in primo luogo, che il legislatore del 2009 ha voluto delimitare l'ambito dell'illecito amministrativo speciale al soggetto agente costituito dall'"acquirente finale", mentre i reati del codice penale (artt. 648 e 712) possono essere commessi da "chiunque"».

L'art. 648 cod. pen. richiede che colui che commette il delitto non sia concorrente nel reato presupposto, ma è evidente che la stessa qualifica di "acquirente finale" esclude tale possibilità con riferimento alla contraffazione quale presupposto della condotta amministrativamente illecita, trattandosi di qualifica del soggetto agente che intende escludere un qualsiasi concreto apporto causale all'attività criminosa presupposta, non solo sotto forma di previo concerto o di agevolazione, ma anche di concreta istigazione che abbia determinato l'autore materiale all'azione.

In secondo luogo, il concetto di «cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale», costituisce specificazione di quello di «cose provenienti da un qualsiasi delitto» di cui all'art. 648 cod. pen.. In terzo luogo, la formula relativa alla modalità dell'acquisto che doveva avvenire «senza averne prima accertata la legittima provenienza» – che aveva fatto porre in raffronto la fattispecie in esame esclusivamente con quella dell'art. 712 cod. proc. pen., che adottava analoga dicitura – è stata eliminata, in tal modo evidenziandosi la possibilità di configurare l'illecito amministrativo quale che sia l'atteggiamento psicologico del soggetto agente, poiché la semplice formula «inducano a ritenere» è idonea comprendere sia il mero sospetto che la piena consapevolezza della provenienza illecita del bene che si acquista; mentre non costituisce elemento specialistico "per aggiunta" il fine di profitto che caratterizza il delitto di ricettazione, posto che esso certamente è individuabile nei diversi profili di vantaggio che si propone l'acquirente finale di un prodotto contraffatto, sicché si tratta di un elemento che appare inerente alla fattispecie delineata, il rapporto di specialità, pertanto, sussiste sia rispetto al delitto che alla contravvenzione del codice penale, posto che, secondo quanto dispone l'art. 3 della legge n. 689 del 1981 «nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa».

Infine, la pronuncia, affrontando il problema della possibile interpretazione del diritto nazionale conforme alla normativa comunitaria, quale si desumerebbe, in particolare, dalla direttiva n. 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, oppure di un rinvio alla Corte di giustizia U.E. per la interpretazione della normativa comunitaria in materia, oppure, in via ulteriormente subordinata, di una rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa in esame con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., ha affermato che, anche alla luce della costante giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. (v. sent. 5 luglio 2007, causa C-321/05 Kofoed), nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte di giustizia, dovessero giungere alla conclusione che le norme nazionali non soddisfano gli obblighi comunitari, ne deriverebbe che gli stessi giudici del rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, tali norme, senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale.

Non è tuttavia possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l'imputato. Analogamente non è percorribile la strada della questione di legittimità costituzionale, posto che la Corte costituzionale ha più volte chiarito che il principio della riserva di legge preclude l'adozione di pronunce con effetto in "malam partem", allorché tale effetto discenda dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ovvero dal ripristino di una norma abrogata, essendo tali operazioni riservate alla discrezionalità del legislatore, non potendo la Corte costituzionale, senza esorbitare dai suoi compiti, invadere il campo ad esso riservato dall'art. 25, comma secondo, Cost., sovrapponendo alla scelta dallo stesso effettuata una diversa strategia di criminalizzazione (tra le tante: v. sentenze Corte Cost. n. 161 del 2004 e n. 57 del 2009).

  • reato tributario
  • stupefacente

III - Il diritto penale delle leggi speciali

Sommario

REATI PREVIDENZIALI - 1 Omesso versamento delle ritenute previdenziali. - STUPEFACENTI - 1 L'aggravante dell'ingente quantità. - 2 L'offerta in vendita sulla rete internet.

REATI PREVIDENZIALI.

1. Omesso versamento delle ritenute previdenziali.

Le Sezioni Unite [SENT. Sez. U , n. 1855 del 24/11/2011 (dep. 18/01/2012) Rv. 251268, Sodde] hanno affrontato il tema dell'omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali. Hanno affermato il principio per cui, ai fini della causa di non punibilità del pagamento tempestivo di quanto dovuto, il decreto di citazione a giudizio è equivalente alla notifica dell'avviso di accertamento solo se, al pari di qualsiasi altro atto processuale indirizzato all'imputato, contenga gli elementi essenziali del predetto avviso, costituiti dall'indicazione del periodo di omesso versamento e dell'importo, la indicazione della sede dell'ente presso cui effettuare il versamento entro il termine di tre mesi concesso dalla legge e l'avviso che il pagamento consente di fruire della causa di non punibilità.

Al riguardo, la Terza Sezione penale della Corte di cassazione, con ordinanza del 7 giugno 2011, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, rilevando l'esistenza di un contrasto, non composto, nella giurisprudenza di questa Corte in ordine alla conseguenze derivanti dalla omessa contestazione o notifica dell'avvenuto accertamento della violazione da parte dell'INPS ovvero dalla carenza di prove sul punto.

Alcune decisioni avevano affermato che in tale ipotesi il termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per provvedere al versamento delle somme dovute decorresse dalla notifica del decreto di citazione per il giudizio e che, qualora detto termine non fosse decorso al momento della celebrazione del processo, l'imputato potesse chiedere al giudice un rinvio al fine di provvedere all'adempimento (Sez. 3, n. 4723 del 12/12/2007, dep. 2008, Passante; Sez. 3, n. 38501 del 25/09/2007, Falzoni; Sez. 3, n. 41277 del 28/09/2004, De Berardis).

Altro orientamento giurisprudenziale ammetteva che l'avviso di accertamento delle violazioni potesse essere surrogato dal decreto di citazione a condizione che lo stesso contenesse la specifica indicazione delle somme corrispondenti alle contribuzioni omesse, con l'invito a pagarle, la messa in mora del datore di lavoro e l'avvertimento che il mancato pagamento comporta la punibilità del reato (Sez. 3, n. 6982 del 15/12/2005, dep. 2006, Ricciardi).

Per Sez. F., n. 44542 del 5/08/2008, Varesi, invece, la notifica dell'avviso di accertamento della violazione ed il decorso del termine di tre mesi costituiscono una condizione di procedibilità dell'azione penale, mentre per Sez. 3, n. 27258 del 16/05/2007, Venditti, il termine di tre mesi segna solo il limite temporale ultimo per la trasmissione della notitia criminis da parte dell'ente previdenziale all'autorità giudiziaria.

Per le Sezioni Unite, ai fini della soluzione della questione "se, ed eventualmente a quali condizioni, la notifica del decreto di citazione a giudizio sia da ritenere equivalente, nei procedimenti per il reato di omesso versamento delle ritenute assistenziali e previdenziali all'I.N.P.S., alla notifica dell'accertamento della violazione, non effettuata, e ciò ai fini del decorso del termine di tre mesi per il pagamento di quanto dovuto, che rende non punibile il fatto", occorre partire dall'esame della natura e funzioni delle condizioni di procedibilità.

In particolare, l'art. 2, comma 1-ter, d.l. n. 463 del 1983 non subordina affatto l'esercizio dell'azione penale alla contestazione della violazione ovvero alla notifica del relativo accertamento da parte dell'ente previdenziale ed al decorso del termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per adempiere. Al contrario, l'art. 2, comma 1-bis, prevede esclusivamente la non punibilità del reato, pertanto già perfezionatosi, per effetto di una condotta successiva in certa misura ripristinatoria del danno subito dall'ente pubblico, che la norma intende favorire, e, quindi, prevede una tipica causa di non punibilità, non dissimile da altre frequentemente previste dal codice penale, destinate ad operare solo sul piano sostanziale.

Sicché "la qualificazione dei citati elementi come condizione di procedibilità dell'azione penale è frutto esclusivo di un'elaborazione interpretativa che trova solo un vago aggancio nel dato normativo (obbligo per l'ente previdenziale di trasmettere senza ritardo la notitia criminis una volta avvenuto il pagamento o decorsi i tre mesi per adempiervi), ma non trova riscontro nella lettera della norma, né giustificazione nella individuazione di un interesse pubblico prevalente rispetto a quello della punizione del colpevole di un reato, che possa giustificare la deroga al principio dell'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale stabilito dall'art. 112 della Costituzione".

Le Sezioni Unite escludono pertanto che la notifica dell'accertamento della violazione ed il decorso del termine di tre mesi costituiscano una condizione di procedibilità del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali. Ciò posto, l'art. 2, comma 1ter, d.l. n. 463 del 1983, nel regolare i rapporti tra l'esercizio della facoltà, attribuita al datore di lavoro, di fruire della causa di non punibilità prevista dal comma 1-bis, ultima parte, ed il procedimento penale, ovvero al fine di impedire l'esercizio dell'azione penale in presenza di una causa di non punibilità, ha esclusivamente previsto, autorizzandola, la posticipazione dell'invio della denuncia di reato al pubblico ministero al versamento delle ritenute non corrisposte da parte del datore di lavoro o alla scadenza del termine per provvedervi.

Nulla è, invece, previsto dalla norma con riferimento all'ipotesi in cui l'esercizio dell'azione penale sia avvenuto prima che l'imputato sia stato messo in condizioni di fruire della causa di non punibilità o per l'omessa contestazione e notificazione dell'accertamento delle violazioni o per irregolarità della notificazione dell'accertamento.

Perciò, "deve essere affermato che la possibilità concessa al datore di lavoro di evitare l'applicazione della sanzione penale mediante il versamento delle ritenute entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'accertamento delle violazioni è connessa all'adempimento dell'obbligo, secondo la formulazione dell'art. 2, comma 1-bis, da parte dell'ente previdenziale di rendere noto, nelle forme previste dalla norma, al datore di lavoro l'accertamento delle violazioni, nonché le modalità e termini per eliminare il contenzioso in sede penale, a differenza di quanto previsto dal quadro normativo previgente alla riforma di cui al d.lgs. 24 marzo 1994, n. 211.

L'esercizio della facoltà di fruire della causa di non punibilità, pertanto, può essere precluso solo dalla scadenza del termine di tre mesi previsto dall'art. 2, comma 1-bis, ultimo periodo, a decorrere dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento delle violazioni ovvero da un atto ad esso equipollente che ne contenga tutte le informazioni sì che l'accesso alla causa di non punibilità risulti concretamente assicurato.

Incombe, perciò, in primo luogo sull'ente previdenziale l'obbligo di assicurare la regolarità della contestazione o della notifica dell'accertamento delle violazioni e attendere il decorso del termine di tre mesi, in caso di inadempimento, prima di trasmettere la notizia di reato al pubblico ministero. Sarà, poi, compito dello stesso pubblico ministero verificare che l'indagato sia stato posto concretamente in condizione di esercitare la facoltà di fruire della causa di non punibilità, notiziando, nel caso di esito negativo di detta verifica, l'ente previdenziale perché adempia all'obbligo di contestazione o di notifica dell'accertamento delle violazioni imposto dall'art. 2, comma 1-bis, d.l. n. 463 del 1983.

Analogamente, il giudice di entrambi i gradi di merito dovrà provvedere alla verifica che l'imputato sia stato posto in condizione di fruire della causa di non punibilità, accogliendo, in caso di esito negativo, l'eventuale richiesta di rinvio formulata dall'imputato, finalizzata a consentigli di provvedere al versamento delle ritenute, tenuto conto che la legge già prevede la sospensione del decorso della prescrizione per il periodo di tre mesi concesso al datore di lavoro per il versamento, sicché tale sospensione giustifica il rinvio del dibattimento anche in assenza di una espressa previsione normativa.

Per dare concretezza ed effettività all'esercizio della facoltà da parte dell'imputato di effettuare il versamento delle ritenute all'ente previdenziale si deve rilevare che l'avviso dell'accertamento inviato dall'ente al datore di lavoro contiene l'indicazione del periodo cui si riferisce l'omesso versamento delle ritenute ed il relativo importo, la indicazione della sede dell'ente presso il quale deve essere effettuato il versamento entro il termine di tre mesi all'uopo concesso dalla legge e l'avviso che il pagamento consente di fruire della causa di non punibilità.

Per avere la certezza, quindi, che l'imputato sia stato posto in grado di fruire della causa di non punibilità il giudice di merito, così come prima di lui il pubblico ministero, dovranno verificare, nel caso di omessa notifica dell'accertamento, se l'imputato sia stato raggiunto in sede giudiziaria da un atto di contenuto equipollente all'avviso dell'ente previdenziale che gli abbia consentito, sul piano sostanziale, di esercitare la facoltà concessagli dalla legge".

STUPEFACENTI.

In materia di stupefacenti si registrano due pronunce, entrambe di sicuro rilievo, che potrebbero avere forti ripercussioni sul piano applicativo pratico.

1. L'aggravante dell'ingente quantità.

Sez. U, Sentenza n. 36258 del 24/05/2012, dep. 20/09/2012, Rv. 253150, P.G. e Biondi, già citata nella parte sostanziale di questa rassegna nel § 1.1, ha affermato il principio per cui in tema di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, l'aggravante della ingente quantità, di cui all'art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo, in milligrammi (valore - soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata.

La pronuncia ha dovuto affrontare la questione se, per il riconoscimento della circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità nei reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si debba fare ricorso al criterio quantitativo con predeterminazione di limiti ponderali per tipo di sostanza, ovvero debba aversi riguardo ad altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute pubblica derivante dallo smercio di un elevato quantitativo e la potenzialità di soddisfare numerosi consumatori per l'alto numero di dosi ricavabili.

In argomento le Sezioni Unite penali (sentenza n. 17 del 21 giugno - 21 settembre 2000, Primavera ed altri, Rv. 216668), pur se investite della risoluzione di una diversa questione controversa, avevano avuto già modo di occuparsi della disposizione in oggetto, affermando il principio di diritto così massimato: «La circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità di sostanza stupefacente prevista dall'art. 80, comma secondo, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, la cui "ratio legis" è da ravvisare nell'incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo l'apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza».

A parere di quelle Sezioni unite, «il riferimento al concetto di "mercato" (...) introduce, nell'esegesi della disposizione di legge, un elemento non richiesto e spurio rispetto alla "ratio" della disposizione, di profilo mercantilistico ma di impossibile accertamento con gli ordinari strumenti di indagine dei quali il giudice può processualmente disporre; quindi, del tutto immaginario, affidato all'abilità dialettica di chi fornisce la motivazione della decisione, quale che sia».

Si precisò, in proposito, che «il commercio illecito degli stupefacenti, proprio perché illecito, vive nella clandestinità e sfugge, per sua stessa definizione, ad ogni indagine probatoria, che per essere valida e processualmente opponibile, deve seguire regole di garanzia comprese quelle proprie al contraddittorio».

I dati statistici, elaborati fuori del processo e secondo prospettive che non sono, e non possono essere, di "indagine di mercato", sono privi di rappresentatività e di concludenza ai fini che qui interesserebbero, poiché, quale che ne sia l'esigenza che abbia sollecitato la raccolta di siffatti dati, l'indagine raggiunge solo una parte (forse minima) del fenomeno, per molti versi davvero impenetrabile non solo per la illiceità delle condotte, ma anche per ragioni di convenzione sociale, dello stare del soggetto tossicofilo nel rapporto con gli altri membri della società in cui opera e del sostegno della quale ha bisogno.

Apparve, pertanto, corretto abbandonare la incerta nozione di "mercato", «essendo sufficiente per giudicare sussistente l'aggravante in questione il verificare che la quantità della sostanza stupefacente, di cui l'imputazione si occupa, sia oggettivamente di notevole quantità, molto elevata nella scala dei valori quantitativi, anche se non raggiunga il valore massimo che, per essere riferito a quantità, rimane sostanzialmente indeterminabile, vale a dire ampliabile all'infinito.

Ciò che conta per integrare l'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990 è, dunque, che la quantità di sostanza tossica oggetto della specifica indagine nel dato procedimento superi notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell'ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera e, per questo, è in grado di formarsi una esperienza fondata sul dato reale presente nella comunità nella quale vive. La relativa valutazione costituisce, pertanto, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito che ha solo l'obbligo di fornire adeguata e congrua motivazione, come ogni giudizio di valore legato a dati non tipizzabili (buon costume, morale pubblica, e similmente)».

Si affermò conclusivamente la regola secondo la quale «l'aggravante speciale dell'ingente quantità di sostanza stupefacente, di cui all'art. 80 comma 2 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, la cui "ratio legis" è da ravvisarsi nell'incremento del pericolo per la salute pubblica, è integrata tutte le volte in cui il quantitativo di sostanza oggetto d'imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicofili, secondo l'apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza».

L'accolto riferimento al superamento, in misura notevole e con accento di eccezionalità, della quantità usualmente trattata in transazioni del genere di quella di volta in volta in esame nell'ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera finiva per riproporre quel riferimento al «mercato» che pur si era nominalmente inteso espungere, in considerazione - tra l'altro - delle sue difficoltà di accertamento.

Orbene, il "dictum" delle Sezioni unite è stato generalmente condiviso dalle decisioni immediatamente successive delle sezioni semplici che in massima parte, abbandonato il riferimento al «mercato» (ovvero a valutazioni del dato quantitativo in relazione al contesto territoriale cui la droga di volta in volta in questione risultava destinata), hanno generalmente valorizzato il dato quantitativo inteso in assoluto.

Ma non erano mancate decisioni che, cogliendo accenti di contraddittorietà nella motivazione della sentenza Primavera, avevano riproposto il criterio dell'impatto del quantitativo di droga di volta in volta in questione sul mercato di riferimento.

Il parametro cui fare riferimento veniva indifferentemente individuato nella quantità di principio attivo o nelle dosi che ne sono mediamente ricavabili; in difetto della verifica di fatto del contenuto di principio attivo, si è ritenuto consentito far riferimento al dato ponderale complessivo, al lordo, se oggettivamente eccezionale (così, Sez. V, sentenza n. 22766 del 3 maggio 2011, dep. 7 giugno 2011, Pellegrino, Rv. 250398).

Era pacifico (in difetto di pronunzie contrarie dopo la pur risalente Sez. I, sentenza n. 8895 del 9 aprile 1985, dep. 11 ottobre 1985, Urbani, Rv. 170660), che, ai fini dell'applicabilità della circostanza aggravante in oggetto (all'epoca prevista, nei medesimi termini dell'art. 80, dall'art. 74, comma secondo, legge 22 dicembre 1975, n. 685), «qualora il fatto riguardi quantità ingenti di sostanze stupefacenti, non si richiede un quantitativo immenso, bensì una grande quantità di droga, valutata obiettivamente nel suo complesso, non essendo consentita una suddivisione "pro quota" dei singoli compartecipi, e commisurata non solo al peso, ma alle caratteristiche merceologiche della sostanza e al numero di dosi estraibili in grado di soddisfare le domande di un notevole numero di tossicodipendenti e per un periodo di consumo piuttosto lungo».

La Sesta sezione, con sentenza n. 20119 del 2 marzo - 26 maggio 2010, Castrogiovanni, Rv. 247374 (fattispecie nella quale è stata esclusa l'aggravante in oggetto in relazione a gr. 948,11 di cocaina, con principio attivo pari al 62, sufficiente per confezionare circa 4.000 dosi), aveva ritenuto che «in tema di stupefacenti, ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui all'art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, non possono di regola definirsi "ingenti" i quantitativi di droghe "pesanti" (ad es., eroina e cocaina) o "leggere" (ad es., hashish e marijuana) che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di due chilogrammi e cinquanta chilogrammi».

Tale pronuncia era seguita da Sez. VI, sentenza n. 20120 del 2 marzo - 26 maggio 2010, Mtumwa, Rv. 247375; Sez. VI, n. 42027 del 4 - 26 novembre 2010, Immorlano, Rv. 248740; Sez. VI, sentenza n. 27128 del 25 maggio 2011, dep. 12 luglio 2011, D'Antonio, Rv. 250736; Sez. VI, sentenza n. 34382 del 21 giugno 2011, dep. 16 settembre 2011, Romano, non massimata; Sez. VI, sentenza n. 12404 del 14 gennaio 2011, dep. 28 marzo 2011, Laratta ed altri, Rv. 249635. La più recente e completa riaffermazione dell'orientamento si doveva a Sez. VI, sentenza n. 31351 del 19 maggio 2011, dep. 5 agosto 2011, Turi, Rv. 250545.

In senso contrario la Quarta sezione, con sentenza n. 9927 del 1 febbraio - 11 marzo 2011, Ardizzone, Rv. 249076, aveva affermato il principio di diritto così massimato: «In tema di reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, non è consentito predeterminare i limiti quantitativi minimi che consentono di ritenere configurabile la circostanza aggravante prevista dall'art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990 (ingente quantità). (La Corte ha precisato che la fattispecie non viola comunque il principio di determinatezza, dovendo aversi riguardo, perché possa essere configurata l'aggravante, 1) all'oggettiva eccezionalità del quantitativo sotto il profilo ponderale; 2) al grave pericolo per la salute pubblica che lo smercio di un tale quantitativo comporta; 3) alla possibilità di soddisfare le richieste di numerosissimi consumatori per l'elevatissimo numero di dosi ricavabili). Nella specie, è stata ritenuta l'aggravante in oggetto in relazione a kg. 10,291 di hashish, con principio attivo sufficiente per confezionare circa 34.000 dosi».

La decisione, ribadendo un orientamento già sostenuto dalla sezione (Sez. IV, sentenza n. 24571 del 3 - 30 giugno 2010, Iberdemaj, Rv. 247823 in fattispecie nella quale era stata ritenuta l'aggravante in oggetto in relazione ad un quantitativo di cocaina ed eroina con principio attivo sufficiente per confezionare rispettivamente circa 2.400 e 9.210 dosi), e riproponendo il riferimento ai parametri valutativi già adottati dalle Sezioni unite con la sentenza Primavera, pur dichiarando di condividere le finalità delle argomentazioni della Sesta sezione, obiettava all'orientamento di quest'ultima che «la predeterminazione dell'indice quantitativo che oggettivamente segna il confine tra la quantità ingente e quella non ingente - finendo col proporsi, in sostanza, come dato avente valenza normativa - non potrebbe che essere prerogativa del legislatore», e che, «se il criterio di valutazione trova il suo fondamento nella necessità di ragguagliare il concetto di "quantità ingente" al rilevante pericolo per la salute pubblica ed all'uso della sostanza da parte di un molto elevato numero di tossicodipendenti, non è però rinvenibile alcun dato di comune esperienza che possa far ritenere che i limiti indicati dalla sesta sezione realizzino questi presupposti».

Nell'ambito di questo orientamento, si collocava anche una voce dissenziente della Sesta sezione, sentenza n. 19085 del 16 marzo - 20 maggio 2010, Giannusa ed altro, Rv. 247377, mentre in senso contrario al primo orientamento si erano pronunciate anche Sez. III, sentenza n. 16447 del 18 marzo 2011, dep. 27 aprile 2011, Ramos Vergara, Rv. 249860; Sez. IV, sentenza n. 47501 del 30 novembre 2011, dep. 21 dicembre 2011, Ben Sassi ed altro, non massimata; Sez. V, n. 36360 del 14 luglio 2011, dep. 6 ottobre 2011, Amato, non massimata, orientamento quest'ultimo, espressamente sostenuto da più sezioni, risultante senz'altro dominante.

Orbene, le richiamate sezioni Unite del 2012, nell'affermare il principio che costituisce l'"incipit" di questo paragrafo, partono dal presupposto che l'art. 80, comma 2, essendo circostanza aggravante ad effetto speciale, comporta conseguenze sanzionatorie gravissime che devono riconnettersi a condotte effettivamente gravi.

Ammettono che «espressioni come "quantità considerevoli, rilevanti, cospicue" o, appunto, "ingenti", sono tute sostanzialmente indefinite, perché ritenute mutevoli, sfuggenti, sottoposte all'interpretazione soggettiva e all'esperienza contingente. D'altronde il riferimento al mercato, che l'originario orientamento aveva effettuato, … è stato abbandonato: … trattandosi di un mercato illegale e, quindi, clandestino, nessuna credibile rilevazione della dinamica domandaofferta è possibile. A ciò si deve aggiungere che, se si fa riferimento, come è inevitabile, "ai mercati", piuttosto che al mercato, si rischia di violare il principio costituzionale di uguaglianza».

La sentenza, comunque, mostra di condividere la già citata Sez. 4, Sentenza n. 40792 del 10/07/2008, dep. 31/10/2008, Rv. 241366, Tsiripidis in ordine alla manifesta infondatezza dell'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990 (Testo Unico stupefacenti), sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 comma secondo, 25 comma secondo e 111 comma sesto Cost., in quanto il riferimento operato all'ingente quantitativo dello stupefacente detenuto quale presupposto di operatività dell'aggravante configurata dalla norma richiamata, sebbene ampio, non può ritenersi indeterminato, rispondendo all'esigenza di evitare l'introduzione di parametri legali precostituiti, i quali impedirebbero al giudice di apprezzare in concreto la gravità del fatto e quindi di determinare la pena in termini di coerente proporzionalità rispetto al suo effettivo profilo e alla personalità del suo autore.

Ciò posto, il Supremo Collegio individua la soluzione nel fatto che la normativa prevede che le sostanze stupefacenti e psicotrope siano iscritte in due tabelle, la prima comprendente le sostanze con potere drogante, le altre quelle con funzione farmacologia e terapeutica.

Dette tabelle indicano i cd. limiti-soglia, cui far riferimento per individuare il discrimine tendenziale fra l'«uso personale», che non comporta sanzione penale, e le condotte di detenzione penalmente represse.

Secondo la sentenza, «proprio per il dettato del comma 1 bis, lett. a), dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e per il rinvio che esso adotta all'apposita tabella, acquistano rilievo dirimente le soglie». Partendo da queste ultime «è conseguente stabilire, sulla base della fenomenologia relativa al traffico di sostanze stupefacenti una soglia, ponderalmente determinata, al di sotto della quale non possa parlarsi di quantità ingente. Non si tratta di usurpare una funzione normativa, ma di compiere una funzione puramente ricognitiva», effettuata sulla base di uno studio del Massimario sui quantitativi di droghe pesanti sequestrati in 65 casi. Sicchè alla Corte è parso equo, ragionevole e proporzionato il criterio di ritenere non ingente un quantitativo che non superi di 2000 volte il valore-soglia espresso in mg. nella tabella.

Nella stessa sentenza, (v. Rv. 253151), avente ad oggetto la contestazione al ricorrente di avere messo a disposizione di un altro soggetto una officina-rimessaggio dove confezionare ed occultare circa kg. 14 lordi di eroina, la Corte ha riaffermato che il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento alla illecita detenzione di sostanze stupefacenti, in costanza di detta detenzione, perché, nei reati permanenti, qualunque agevolazione del colpevole, posta in essere prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve - salvo che non sia diversamente previsto - in un concorso nel reato, quanto meno a carattere morale.

Tale assunto costituisce oramai giurisprudenza consolidata, come emerge dai numerosi precedenti, tra i quali valga citare: Sez. 4, Sentenza n. 13784 del 24/03/2011, dep. 07/04/2011, Rv. 250135, Improta ed altra; Sez. 6, Sentenza n. 35744 del 03/06/2010, dep. 05/10/2010, Rv. 248586, Petrassi; Sez. 6, Sentenza n. 37170 del 15/04/2008, dep. 30/09/2008, Rv. 241209, Imputato: Cona e altri; Sez. 4, Sentenza n. 12915 del 08/03/2006, dep. 12/04/2006, Rv. 233724, Billeci ed altro; Sez. 6, Sentenza n. 4927 del 17/12/2003, dep. 06/02/2004, Rv. 227986, P.G. in proc. Domenighini.

2. L'offerta in vendita sulla rete internet.

La seconda pronuncia dell'anno in materia di stupefacenti [Sez. Un, sentenza n. 47604 del 18/10/2012 (dep. 7/12/2012), Bargelli ed altro, Rv 253550, 253551, 253552] ha dovuto affrontare il caso di imputati che, quali legali rappresentanti di una società in nome collettivo, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo in concorso tra loro in tempi diversi e reiteratamente, avevano pubblicamente istigato all'uso illecito o alla coltivazione di piante di marijuana, offrendo e pubblicizzando su siti internet la vendita di un'ampia varietà di semi di marijuana (per un totale di 146 specie diverse).

L'offerta, infatti, era accompagnata da un catalogo scaricabile dal sito, recante, per ogni varietà di semi, precise indicazioni per la coltivazione e la resa, onde il giudice di merito aveva preliminarmente qualificato i fatti come istigazione diretta all'uso di sostanze stupefacenti ex art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990.

Ne deriverebbe - secondo la motivazione della sentenza censurata - che, nel caso di specie, difetterebbe quella spinta emotiva o morale all'uso di stupefacenti che distingue la condotta penalmente rilevante di cui all'art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990 rispetto alla semplice propaganda, penalmente irrilevante, prevista dal successivo art. 84 quale mero illecito amministrativo.

Contro la decisione ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica, denunciando, con unico motivo di impugnazione, inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 82 (e dell'art. 84) d.P.R. n. 309 del 1990, per essersi la sentenza impugnata discostata dal principio, affermato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. 6, n. 38633 del 24 settembre 2009; Sez. 4, n. 23903 del 20 maggio 2009; Sez. 4, n. 22911 del 23 marzo 2004), secondo cui la pubblicizzazione della vendita di semi di cannabis su un sito internet liberamente accessibile, con corredo di indicazioni per la coltivazione delle specie offerte, integra il reato di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 82 e non è, perciò, sussumibile nella diversa e meno grave ipotesi punita dal successivo art. 84 a titolo di illecito amministrativo.

Al riguardo la Corte ha dovuto, pertanto, affrontare il tema relativo al se, ai fini della configurabilità del reato di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti, sia sufficiente la pubblicizzazione di semi di piante idonee a produrre dette sostanze, con l'indicazione delle modalità di coltivazione e la resa, oppure siano necessari il riferimento diretto alla loro qualità e la prospettazione dei benefici derivanti dal loro uso.

In proposito il Supremo Collegio ha affermato il principio per cui l'offerta in vendita di semi di piante dalle quale è ricavabile una sostanza drogante, correlata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all'art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990, salva la possibilità della sussistenza dei presupposti per configurare il delitto previsto dall'art. 414 cod. pen. con riferimento alla condotta di istigazione della coltivazione di sostanze stupefacenti.

Deve ricordarsi che la fattispecie di cui all'art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990 è passata al vaglio della Corte di cassazione per la prima volta nel 2001 (Sez. VI, n. 16041 del 5 marzo 2001, Gobbi ed altri, Rv. 218484): in quella occasione, fu affermato il principio per cui ai fini della configurabilità del reato di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti occorre che l'agente, per il contesto in cui opera e per il contenuto delle sue esortazioni, abbia, sul piano soggettivo, l'intento di promuovere tale uso e, dal punto di vista materiale, di fatto si adoperi, con manifestazioni verbali, con scritti, o anche con il ricorso a un linguaggio "simbolico", affinché l'uso di stupefacenti da parte dei destinatari delle sue esortazioni sia effettivamente realizzato.

Successivamente, la IV Sezione (n. 22911 del 23 marzo 2004, D'Angelo, Rv. 228788) ha affermato il principio per cui, ai fini della configurabilità del reato di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti, occorre che la condotta dell'agente, per il contesto in cui si realizza e per il contenuto delle espressioni utilizzate, sia idonea a conseguire l'effetto di indurre i destinatari delle esortazioni all'uso delle suddette sostanze, anche se in concreto l'uso non si verifichi.

La decisione è stata successivamente richiamata adesivamente da Sez. IV, n. 15083 dell'8 aprile 2010, P.M. in proc. Gracis, non massimata e Sez. IV, n. 23903 del 20 maggio 2009, P.M. in proc. Malerba, Rv. 244222. Da ultimo, Sez. VI, n. 38633 del 24 settembre 2009, Barsotti, Rv. 244559 aveva espressamente ribadito il principio affermato dalla sentenza n. 22911 del 2004. In senso contrario una sola, più recente, pronuncia (Sez. IV, n. 6972 del 17 gennaio 2012, P.M. in proc. Bargelli ed altro, Rv. 251953) ha affermato il principio secondo il quale ai fini della configurabilità del reato di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti (art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990) è necessario che la induzione sia posta in essere pubblicamente attraverso propalazioni ed esaltazioni della loro qualità prospettando benefici derivanti dal loro uso e convincimenti, anche subliminali, o, anche, attraverso intimidazioni o minacce, di guisa che è indefettibile l'idoneità dell'azione a suscitare consensi ed a provocare attualmente e concretamente il pericolo dell'uso illecito di tali prodotti.

Ne deriva che non integra il reato di cui all'art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990 la condotta di coloro che, in qualità di soci ed amministratori di una società, offrano in vendita su un sito "internet" varie tipologie di semi di "cannabis", qualora la pubblicità e la descrizione del prodotto da essi ricavabile concerna unicamente le caratteristiche di ogni tipo di seme, trattandosi di attività rientrante nella propaganda pubblicitaria, di per sé non idonea ad indurre i possibili destinatari all'uso di sostanze stupefacenti.

La Corte, nel porre a confronto la condotta di "chi pubblicamente istiga all'uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope" (art. 82), con quella di "chi fa propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall'art. 14 anche se è effettuata in modo indiretto..." (art. 84), fa sua l'impostazione della sentenza Bargelli, per la quale «secondo l'accezione comune, la "propaganda pubblicitaria" (termini utilizzati nell'art. 84) consiste nell'esporre, attraverso la stampa o altri strumenti di comunicazione (televisione, internet, telefono, manifesti ecc.), le particolari caratteristiche di un prodotto evidenziandone essenzialmente i lati positivi, ed, inevitabilmente, la propaganda, riferendosi all'ambito commerciale, è finalizzata alla vendita di quel prodotto, una propaganda fine a se stessa non avrebbe alcun senso. Ma se ritenessimo che la propaganda pubblicitaria, di cui all'art. 84, è finalizzata alla vendita, certamente si esorbiterebbe dal suo ambito di sanzione amministrativa e si ricadrebbe in quello penale, essendo certo, come rilevato, che la vendita di quelle sostanze o preparazioni è sanzionata penalmente».

Ritiene, quindi, il collegio, nell'interpretare la volontà del legislatore e la reale portata della norma di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 84 che per "propaganda pubblicitaria" debba intendersi un'opera di diffusione, divulgazione, (anche in modo indiretto) di quelle sostanze o preparazioni in maniera asettica, intendendosi con tale termine riferirsi al fatto che risponde della sanzione amministrativa chi propaganda simili sostanze o preparazioni, senza indurre i destinatari della "propaganda" all'acquisto e all'uso del prodotto stesso.

Ma, nel caso specifico, la messa in vendita dei semi di cannabis, proprio perché di per sè non penalmente punibile, non rileva ai fini della configurabilità sia dell'art. 82 che dell'art. 84, apparendo, invece, rilevante nella condotta l'istigazione all'uso del prodotto ricavabile dai semi (art. 82) o la propaganda pubblicitaria di tale prodotto (art. 84).

Se si interpretasse in maniera diversa si giungerebbe al risultato assurdo, e certamente contrario alla "ratio legis", che colui che propaganda, ad es. la cocaina o l'eroina (prodotti finiti), esaltandone le caratteristiche, senza andare oltre nell'istigare all'uso di esse, sarebbe sanzionato, a norma dell'art. 84, diversamente da colui che, propagandando i semi di cannabis indica e/o sativa ed il prodotto da essi ricavabile, sarebbe sanzionato penalmente a norma dell'art. 82, sol perché si è fatto riferimento alle istruzioni per la coltivazione, attività necessaria a ricavare il prodotto stupefacente dai semi, ma senza altra ed ulteriore attività esemplificativa idonea a spingere il destinatario della propaganda all'uso del prodotto».

Le Sezioni Unite, comunque, nell'affrontare il rapporto tra art. 82 T.U. ed art. 414 cod. pen., escludono che il primo sia strutturato come una "species" del secondo, non annoverando tra le condotte punibili l'illegale coltivazione di stupefacenti, che è punita dall'art. 73 T.U. stup.

Al riguardo, esse escludono altresì che la nozione di stupefacente sia equiparabile a quella di pianta da cui si possa ricavare una sostanza drogante, non rientrando una simile esegesi nel novero di una plausibile interpretazione estensiva.

Altre importanti precisazioni attengono al fatto che, ai fini di una possibile sussunzione della condotta presa ad oggetto nel delitto di istigazione a delinquere, non rileva che la pubblicità fosse carente di indicazioni circa le modalità con le quali è estraibile lo stupefacente ed è pure influente l'esito dell'azione istigatrice, pur essendo necessaria la potenzialità della condotta. Nella specie, l'emersione di molte questioni di fatto irrisolte, ha suggerito al Collegio di annullare con rinvio la sentenza impugnata.

Dalla sentenza sono state tratte le seguenti massime: "L'offerta in vendita di semi di piante dalle quali e' ricavabile una sostanza drogante, accompagnata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all'art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990. (La S.C. ha precisato che la predetta condotta può integrare, ricorrendone i presupposti, il reato di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti, ex art. 414 cod. pen.)" (Rv 253550); "La condotta di chi si limiti a rendere nota al pubblico l'esistenza di una sostanza stupefacente, veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di determinare all'uso di sostanze stupefacenti, integra l'illecito amministrativo di propaganda pubblicitaria di sostanze stupefacenti (art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990), e non il reato di istigazione all'uso illecito di sostanze stupefacenti (art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990)" (Rv 253551); "La mera offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti non e' penalmente rilevante, configurandosi come atto preparatorio non punibile perchè non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato, non potendosi dedurne l'effettiva destinazione dei semi" (Rv 253552).

Sezione II LE DECISIONI IN MATERIA PROCESSUALE

Sommario

ATTI PROCESSUALI - 1 L'abuso del processo. - 2 Nullità del verbale. - 3 Validità del decreto di irreperibilità. - DIFESA E DIFENSORI - 1 Nomina dei difensori. - MISURE CAUTELARI - 1 Adeguatezza della custodia cautelare in carcere. - 2 Effetto estensivo dell'impugnazione. - 3 Contestazioni a catena. - UDIENZA PRELIMINARE - 1 Notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza. - PROVE - 1 Attendibilità della persona offesa. - 2 Modalità di controllo della corrispondenza del detenuto. - PROCEDIMENTI SPECIALI - 1 Giudizio abbreviato: proponibilità dell'eccezione di incompetenza territoriale. - 2 Giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria impossibile. - 3 Pena da irrogare all'esito del giudizio abbreviato. - 4 Questione di legittimità costituzionale in tema di ergastolo. - IMPUGNAZIONI - 1 Interesse ad impugnare. - 2 Declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela. - 3 Interesse ad impugnare la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa. - 4 Obbligo di trasmissione degli atti all'autorità amministrativa. - 5 Computo dei termini processuali. - 6 Notificazioni. - 7 Proroga dei termini processuali. - APPELLO - 1 Sentenza. - RICORSO PER CASSAZIONE - 1 Enunciazione d'ufficio del principio di diritto nell'interesse della legge. - 2 Statuizioni civili ed ammissibilità del ricorso straordinario. - 3 Annullamento con rinvio e ammissibilità del ricorso straordinario. - REVISIONE - 1 Parere del pubblico ministero. - RIPARAZIONE PER L'INGIUSTA DETENZIONE - ESECUZIONE - 1 Condanna alle spese. - 2 Questioni sul titolo esecutivo. - 3 Trattamento carcerario. - RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÁ STRANIERE - 1 Estradizione. - 2 Impugnabilità del mandato di arresto europeo. - 3 Assoluzione dell'imputato dai reati oggetto del m.a.e. e consegna suppletiva.

ATTI PROCESSUALI.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. L'abuso del processo.

SENT. Sez. U, n. 155 del 29/09/2011 (dep. 10/01/2012), Rv. 251497, Rossi ha affrontato la tematica dei termini a difesa e dell'abuso del processo. Al riguardo, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo il quale il diniego di termini a difesa, ovvero la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108, comma primo, cod. proc. pen., non possono dar luogo a nullità quando la relativa richiesta non risponda ad alcuna reale esigenza difensiva e l'effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell'imputato non abbia subito alcuna lesione o menomazione.

L'avvicendamento di difensori, attuato secondo uno schema reiterato e non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva, non riceve tutela giuridica qualora non abbia altra funzione che ottenere una ingiustificata dilatazione dei tempi processuali.

L'art. 108 cod. proc. pen. disciplina l'istituto del termine a difesa, che presuppone ma non disciplina la revoca o la rinuncia del difensore precedentemente nominato, che, in assenza di altra norma che espressamente disciplini anche tali facoltà, sono suscettibili di possibili strumentalizzazioni o usi arbitrari.

L'uso arbitrario trasmoda in patologia processuale, dunque in abuso o sviamento della funzione, quando l'arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo, nel caso in cui il solo scopo perseguito sia la difesa dal processo e non nel processo, in contrasto con l'interesse obiettivo dell'ordinamento e di ciascuna delle parti a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli.

In questo caso non soltanto la norma processuale non legittima "ex post" eccezioni di nullità, ma esclude, in radice, che il diritto in essa previsto possa essere riconosciuto.

2. Nullità del verbale.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 41461 del 19/07/2012 (dep. 24/10/2012), Bell'Arte, Rv. 253213] hanno affermato un importante principio in materia di nullità degli atti processuali e, in particolare, del verbale contenente l'identificazione delle persone intervenute.

È stato affermato che «in tema di nullità del verbale, affinché possa ritenersi sussistere incertezza assoluta sulle persone intervenute è necessario che l'identità del soggetto partecipante all'atto non solo non sia documentata nella parte del verbale specificamente destinata a tale attestazione, ma altresì che non sia neppure desumibile da altri dati contenuti nello stesso, né da altri atti processuali in esso richiamati o ad esso comunque riconducibili».

L'interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 142 cod. proc. pen., avvalorata dall'analisi dei lavori preparatori, consente di affermare che il legislatore ha inteso comprimere al massimo la sfera delle situazioni con effetti invalidanti sul verbale, con relativa espansione delle mere irregolarità formali.

La disposizione secondo la quale il verbale è nullo "se vi è incertezza assoluta sulle persone che sono intervenute" deve essere pertanto interpretata restrittivamente ed intesa nel senso che i requisiti indispensabili ai fini della legittimità di un verbale sono la certezza che l'ufficio che ha proceduto alla redazione sia stato effettivamente ricoperto e che siano stati assolti i compiti istituzionali [Sez. 3, Sentenza n. 17801del 20/01/2011 (dep. 06/05/2011), Rv. 249987; Sez. 2, Sentenza n. 3513 del 22/05/1997 (dep. 12/06/1997), Acampora, Rv. 208074; Sez. 6, Sentenza n. 936 del 31/03/1993 (dep. 31/05/1993), Irrera, Rv. 194379].

Pertanto la nullità del verbale si verifica solo in quei casi nei quali vi è una incertezza assoluta, tale cioè da impedire qualsiasi possibilità di identificazione delle persone intervenute, ovvero una mancanza della sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale che ha redatto il verbale [Sez. 5, Sentenza n. 6399 del 06/11/2009 (dep. 17/02/2010), Marcomini, Rv. 246057].

3. Validità del decreto di irreperibilità.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 24527 del 24/05/2012 (dep. 20/06/2012) Rv. 252692] si sono pronunciate, risolvendo il contrasto tra le Sezioni semplici, in tema di notificazioni all'imputato irreperibile, affermando il principio secondo il quale "il decreto di irreperibilità emesso dal P.M. ai fini della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari è efficace anche ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio, salvo che il P.M. effettui ulteriori indagini dopo la notifica di detto avviso".

Secondo un indirizzo interpretativo [Sez. 2, Sentenza n. 29914 del 17/05/2007 (dep. 23/07/2007), Manganaro, Rv. 237315; Sez. 2, Sentenza n. 35078 del 24/05/2007 (dep. 19/09/2007), Calcatelli, Rv. 237756; Sez. 2, Sentenza n. 18576 del 18/03/2009 (dep. 05/05/2009), Puglisi, Rv. 244444; Sez. 2, Sentenza n. 8029 del 09/02/2010 (dep. 01/03/2010), Braho, Rv. 246449; Sez. 2, Sentenza n. 42957 del 18/11/2010 (dep. 03/12/2010), Ambrogi, Rv. 249122; Sez. 5, Sentenza n. 34828 del 11/07/2011 (dep. 26/09/2011), A., Rv. 250944], l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, pur essendo emesso nei confronti di persona "sottoposta ad indagini", si colloca "oltre la fase di chiusura delle indagini" perchè "l'espressione "sottoposta ad indagini" è un'indicazione priva di valenza temporale in termini di attualità e ben può stare ad indicare che si tratta di persona che è stata sottoposta ad indagini, mediante il riferimento ad un fatto storico antecedente" (Sez. 2, n. 29914 del 17/05/2007, Manganaro, cit.).

Poichè la lettera della norma fa riferimento alla notifica di un avviso con il quale il pubblico ministero comunica all'indagato "la conclusione delle indagini preliminari", con l'avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata presso la segreteria, con facoltà per l'indagato e il difensore di prenderne visione ed estrarne copia, le indagini preliminari non sarebbero più "in corso", non potendo dunque farsi riferimento all'art. 160, comma primo, cod. proc. pen., che prevede la cessazione di efficacia del decreto emesso, appunto, "nel corso delle indagini preliminari".

Anche la "ratio" della norma sarebbe, in tal modo, pienamente rispettata considerando che il decreto di irreperibilità per la notifica dell'avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., viene emesso, di regola, in prossimità temporale al decreto di citazione a giudizio, quando la situazione di fatto che riguarda l'indagato non può subire modifiche di rilievo, sicché, in mancanza di "nuove indagini" eventualmente disposte dal pubblico ministero, sarebbe irragionevole richiedere per la notifica del provvedimento che dispone il giudizio un nuovo decreto di irreperibilità, che sarebbe meramente reiterativo di quello precedentemente emesso.

Inoltre le cautele previste dall'art. 160 cod. proc. pen. con riguardo alle limitazioni all'efficacia del decreto di irreperibilità, in sostanza volte ad assicurare una più sicura conoscibilità del procedimento a carico dell'interessato, sono da considerarsi rispettate dall'art. 415-bis cod. proc. pen., poichè questo fornisce "una sicura conoscenza del procedimento e una consapevole partecipazione della difesa" [Sez. 2, Sentenza n. 8029 del 09/02/2010 (dep. 01/03/2010), Braho, Rv. 246449] e va quindi ricondotto ad un momento successivo rispetto a quello delle indagini preliminari.

In senso difforme altra giurisprudenza che sostiene l'inefficacia del decreto di irreperibilità emesso in occasione della notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis cod. proc. pen., ai fini della notificazione anche del decreto ex art. 552 c.p.p. [Sez. 1, Sentenza n. 5698 del 28/01/2003 (dep. 06/02/2003), Vedda, Rv. 223312; Sez. 1, Sentenza n. 29226 del 13/07/2005 (dep. 02/08/2005), Serigne, Rv. 232100; Sez. 2, Sentenza n. 17999 del 03/05/2006 (dep. 23/05/2006), P.M. in proc. Arnesano, Rv. 234760; Sez. 5, Sentenza n. 30072 del 24/03/2009 (dep. 20/07/2009), Pesce, Rv. 244481; Sez. 2, Sentenza n. 2741 del 14/10/2009 (dep. 21/01/2010), Tiperciuc, Rv. 246260] muove da una considerazione di ordine generale relativa alla natura del decreto di citazione diretta a giudizio: da un lato lo stesso "costituisce esercizio dell'azione penale con l'effetto di concludere la fase delle indagini preliminari, e dall'altro, con la sua notificazione all'imputato ed alle altre parti, è l'atto di impulso che segna l'inizio di una nuova fase processuale, quella del dibattimento", di talchè la chiusura delle indagini preliminari di cui all'art. 160, comma primo, cod. proc. pen., non coincide con la notificazione del decreto di citazione a giudizio, ma con la sua emissione da parte del p.m.; ne consegue che, ai fini della vocatio in iudicium dell'imputato, che si realizza con la notificazione del provvedimento, è necessario che venga emesso un nuovo decreto di irreperibilità secondo quanto previsto dall'art. 160 c.p.p., comma 2, (Sez. 1, n. 5698 del 28/01/2003, Vedda, cit.).

Tale indirizzo, richiamando espressamente Sez. U, n. 28807 del 29/05/2002 (dep. 26/07/2002), Manca, Rv. 221999 [a sua volta riproduttiva di quanto già affermato da Sez. U, n. 13390 del 28/10/1998 (dep. 18/12/1998), Boschetti, Rv. 211904] rileva che il decreto di citazione a giudizio, che è l'atto con il quale il pubblico ministero esercita l'azione penale, produce effetti anche indipendentemente dalla sua notificazione, interrompendo la prescrizione già dalla data della sua emissione.

In altri termini, poichè l'art. 160 c.p.p. limita l'efficacia del decreto di irreperibilità emesso nel corso delle indagini preliminari sino alla conclusione di detta fase, l'inizio di una nuova fase (quella del giudizio), inaugurata dalla notifica del decreto di citazione richiede necessariamente, essendo ormai caducato il precedente, un nuovo decreto di irreperibilità.

Nell'affrontare la questione, le Sezioni Unite hanno esaminato le conseguenze della modifica al codice di procedura penale vigente, apportata dall'art. 17 della legge 16 dicembre 1999, n. 79, che ha introdotto l'art. 415-bis cod. proc. pen., il quale costituisce un atto preordinato, in base agli elementi fino a quel momento noti al pubblico ministero, alla richiesta di rinvio a giudizio o all'emissione del decreto di citazione a giudizio, dal momento che è subordinato alla condizione negativa che non debba essere richiesta archiviazione.

Con il compimento di tale atto il pubblico ministero rende inoltre noti all'indagato ed al suo difensore gli atti di indagine compiuti, eloquente segno, al di là della collocazione e della rubrica, che l'organo inquirente ritiene concluse le indagini preliminari.

Con riferimento al momento dell'introduzione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari non è prevista alcuna norma di coordinamento con l'art. 160 cod. proc. pen.

Tale articolo, nel comma 1, stabilisce che il decreto di irreperibilità emesso dal giudice o dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari cessa di avere efficacia con il provvedimento che definisce l'udienza preliminare ovvero, quando questa manchi, con la chiusura delle indagini preliminari.

Come hanno già efficacemente precisato le Sezioni Unite con la sentenza n. 21833 del 22/02/2007 (dep. 05/06/2007), Iordache, Rv. 236372 "il deposito degli atti segnala soltanto la fine della attività investigativa del pubblico ministero" (pag. 21 sentenza citata) e quindi in conseguenza di tale atto le ordinarie indagini preliminari hanno termine, salvo l'eventuale compimento di ulteriore attività, d'iniziativa o a richiesta della persona sottoposta ad indagini o del suo difensore.

La tesi secondo la quale, ai fini della emissione di decreto di citazione a giudizio, il decreto di irreperibilità emesso ai fini della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari non avrebbe efficacia, muove dall'assunto che, al momento dell'emissione e della notifica di tale avviso la fase delle indagini preliminari non si sia ancora conclusa, poichè le stesse si concludono solo con l'esercizio dell'azione penale.

Questo argomento è la base sulla quale gli indirizzi di giurisprudenza e dottrina, orientati alla necessità di emissione di un nuovo decreto di irreperibilità, fondano l'affermazione che il precedente decreto emesso ai fini della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini sia inidoneo a consentire la notifica del decreto di citazione a giudizio.

Tuttavia l'assunto richiamato sembra riposare su un equivoco interpretativo: l'art. 160, comma primo, cod. proc. pen., non pone come discrimine per la efficacia del decreto di irreperibilità l'esercizio dell'azione penale, tant'è vero che, nell'ipotesi di richiesta di rinvio a giudizio, la stessa sarà validamente notificata, insieme all'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, sulla base del decreto emesso dal giudice o dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.

Quindi l'atto di esercizio dell'azione penale (la richiesta di rinvio a giudizio) ed un atto successivo a tale esercizio (l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare) sono notificati sulla scorta del decreto di irreperibilità emesso ai fini dell'avviso di cui all'art. 415-bis cod. proc. pen., per espressa disposizione di legge (il citato art. 160, comma primo, cod. proc. pen.).

Quando invece l'udienza preliminare manchi, il limite di efficacia è posto dalla stessa norma nella chiusura delle indagini preliminari, ma non nell'esercizio dell'azione penale.

La fase delle indagini preliminari sembra, dopo l'introduzione dell'art. 415-bis cod. proc. pen., essere stata scissa in due distinti periodi, quello delle indagini del pubblico ministero e quello, successivo all'avviso all'indagato della conclusione delle indagini, relativo alla possibilità per la persona sottoposta ad indagini di chiedere ulteriori attività investigative, di depositare memorie, documenti, documentazione relativa ad investigazioni difensive o di chiedere di essere interrogato.

Pertanto, è possibile che vengano, dopo la notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, compiute ulteriori indagini sia su richiesta dell'indagato che d'iniziativa del pubblico ministero, ma ciò non potrà che aver luogo a discovery avvenuta.

È del tutto irrilevante il richiamo effettuato all'art. 160, comma secondo, cod. proc. pen., operato nelle pronunzie che sostengono la non efficacia del decreto di irreperibilità emesso ai fini della notifica dell'avviso di cui all'art. 415-bis cod. proc. pen., anche ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio, dal momento che tale disposizione si limita ad affermare che "il decreto di irreperibilità emesso dal giudice per la notificazione degli atti introduttivi dell'udienza preliminare nonchè il decreto di irreperibilità emesso dal giudice o dal pubblico ministero per la notificazione del provvedimento che dispone il giudizio cessano di avere efficacia con la pronuncia della sentenza di primo grado", ma nulla dice circa l'efficacia dei decreto di irreperibilità emesso al fini della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini, nè potrebbe dire alcunché di ulteriore, posto che tale norma è anteriore all'introduzione dell'art. 415 bis c.p.p.

Di conseguenza non sembrano sussistere ragioni ostative a ritenere che il decreto di irreperibilità, emesso dal pubblico ministero ai fini della notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, dispieghi efficacia ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio.

Siffatta soluzione presenta altresì il pregio di assimilare l'efficacia del decreto di irreperibilità sia ai fini della notifica della richiesta di rinvio a giudizio (unitamente all'avviso di fissazione dell'udienza preliminare) sia ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio, rendendolo prodromico all'esercizio dell'azione penate.

Né hanno fondamento gli argomenti che tendono a limitare la efficacia del decreto di irreperibilità alla sola notifica dell'avviso di conclusione delle indagini richiamando la tutela del diritto al contraddittorio.

Benché sia apprezzabile l'intenzione del legislatore di far compiere ogni sforzo per instaurare un reale contraddittorio addivenendo al rintraccio dell'irreperibile attraverso la reiterazione delle ricerche, non pare, salva l'ipotesi di ulteriori indagini effettuate dal pubblico ministero, che la effettuazione di nuove ricerche ad un intervallo brevissimo di tempo dalle precedenti, possa essere di qualche concreta utilità al fine di addivenire al rintraccio dell'irreperibile.

La Corte Europea del Diritti Umani, con sentenza 11 novembre 2004, Sejdovic ha affermato che è onere dell'Autorità giudiziaria "compiere ogni sforzo per procurare all'accusato la conoscenza reale del procedimento, condizione essenziale di una rinuncia consapevole e non equivoca a comparire".

Tale onere implica però il compimento di sforzi che siano idonei al fine perseguito, cioè che abbiano una qualche utilità concreta sotto il profilo della possibilità di addivenire al rintraccio della persona irreperibile e che non si risolvano nella mera formale reiterazione di atti da poco compiuti, che nulla possono aggiungere per individuare il luogo dove la persona sottoposta ad indagini si possa trovare, al fine di renderla edotta dell'accusa mossa suo carico.

Diversa soluzione deve essere adottata invece nell'ipotesi in cui il pubblico ministero, dopo la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, svolga ulteriore attività di indagini.

Va premesso che è irrilevante, in proposito, l'interrogatorio della persona sottoposta ad indagini, poichè, laddove l'interrogatorio avvenisse, cesserebbe la situazione di irreperibilità dell'interrogato.

Quando, invece, il pubblico ministero, su sollecitazione del difensore o autonomamente, svolga ulteriori indagini, si deve ritenere che il decreto di irreperibilità emesso ai fini della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini cessi di avere efficacia ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio, e ciò per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo perchè in tale ipotesi le indagini non sarebbero state in concreto concluse; in secondo luogo perchè verrebbe meno l'arco temporale ristretto che rende in concreto superflua l'effettuazione di nuove ricerche e l'emissione di un nuovo decreto di irreperibilità.

In tale ipotesi diventerebbe pertanto utile la reiterazione delle ricerche e la emissione di un nuovo decreto di irreperibilità, giacchè il decorso del tempo può comportare altri accadimenti rilevabili con le ulteriori ricerche effettuate.

DIFESA E DIFENSORI.

1. Nomina dei difensori.

Le Sezioni Unite [SENT. Sez. U, n. 12164 del 15/12/2011 (dep. 30/03/2012), Rv. 252028, Di Cecca] si sono soffermate sul profili della regolarità della nomina difensiva. Esse hanno affermato che la disposizione generale per cui la nomina di un difensore in eccedenza rispetto al numero consentito rimane priva di effetto finché la parte non provvede alla revoca di quelle precedenti, non è applicabile nel giudizio di cassazione, nel quale prevale, in quanto speciale, quella dell'art. 613, comma secondo, cod. proc. pen., in forza della quale la nomina di un terzo difensore iscritto nell'albo delle giurisdizioni superiori ai fini della presentazione del ricorso o successivamente non può essere considerata eccedente e conferisce a quest'ultimo in via esclusiva nella fase di legittimità la titolarità della difesa ed il diritto a ricevere i relativi avvisi.

L'art. 613 cod. proc. pen. stabilisce, appunto, che solo in mancanza di una specifica nomina per la proposizione del ricorso «il difensore è quello che ha assistito la parte nell'ultimo giudizio, purchè abbia i requisiti indicati nel comma 1», vale a dire l'iscrizione nell'albo speciale (per tutte, Sez. U, n. 1282 del 09/10/1996, dep. 1997, Carpanelli, Rv. 206847).

Il mandato per il giudizio di cassazione «esaurisce i suoi effetti nell'ambito del solo giudizio di legittimità, essendo necessario, invece, affinché produca effetti anche nel giudizio di merito, che l'imputato, ove abbia nominato già due difensori di fiducia, provveda alla revoca di uno di essi» (v., tra le altre, Sez. 5, n. 25196 del 19/05/2010, Di Bona, Rv. 248473; Sez. 1, n. 7536 del 16/01/2002, Mesfaouyi, Rv. 220895; Sez. 3, n. 12242 del 13/11/1995, Rossit, Rv. 204560; Sez. 6, n. 2281 del 01/06/1995, Piromallo, Rv. 203068).

Con la stessa sentenza (n. 12164 del 2012, Rv. 252027, Di Cecca), le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo il quale la nomina del terzo difensore di fiducia dell'imputato, in assenza di revoca espressa di almeno uno dei due già nominati, resta priva di efficacia, salvo che si tratti di nomina per la proposizione dell'atto di impugnazione la quale, in mancanza di contraria indicazione dell'imputato, comporta la revoca dei precedenti difensori.

Ed invero, il ricorso era stato assegnato alla Quarta Sezione, che, rilevando un contrasto giurisprudenziale in ordine alla possibilità di attribuire alla nomina di un terzo difensore la valenza implicita di revoca, in deroga all'art. 24 disp. att. cod. proc. pen., di quelli già designati, rimetteva con ordinanza del 7 luglio 2011 n. 38713 la questione alle Sezioni Unite.

Secondo un orientamento (Sez. 5, n. 9478 del 09/07/1998, Petronelli, Rv. 211451; Sez. 5, n. 36341 del 03/10/2002, Zulianello, Rv. 222678) può presumersi una revoca tacita del mandato defensionale per fatti concludenti nel caso in cui un imputato, senza dismettere l'incarico al precedente legale, ne abbia nominato un altro e in concreto solo di questo si sia avvalso nel proseguimento del processo, nel quale unicamente il secondo professionista abbia esercitato la difesa in modo autonomo e personale, sicché il legale inattivo non avrebbe diritto alla notifica di un atto destinato alla difesa.

In senso sostanzialmente adesivo, altre decisioni emesse in fattispecie analoghe hanno ritenuto che la nomina di un terzo difensore, quantunque non consentita, può spiegare effetti giuridici anche in assenza di una formale revoca dei precedenti ove, a seguito di atti concludenti (consistenti essenzialmente nello svolgimento di attività difensive da parte del solo terzo difensore), emerga chiaramente la volontà dell'interessato di recidere il rapporto con gli originari legali (Sez. 1, n. 5499 del 10/11/1998, Schiavone, Rv. 211879; Sez. 5, n. 3549 del 09/02/1999, Pucciarelli, Rv. 212763; Sez. 1, n. 12876 del 06/03/2000, Lanzino, Rv. 243490).

In direzione contrapposta si pongono altre decisioni (Sez. 5, n. 8757 del 17/06/1999, Bergamaschi, Rv. 214888; Sez. 2, n. 21416 del 07/06/2006, Acri, Rv. 234661; Sez. 3, n. 8057 del 19/01/2007, Cambise, Rv. 236118; Sez. 3, n. 43009 dell'11/11/2010, Cavallo, Rv. 248671), che fanno leva sulle seguenti considerazioni: la revoca tacita del difensore che non ha svolto attività non è prevista da alcuna norma processuale; le formalità attinenti la nomina e il numero dei difensori sono funzionali alla salvaguardia dell'ordine processuale e la revoca per fatti concludenti, in occasione dell'incarico al terzo difensore, non ha base normativa; non è possibile rimettere al giudice l'individuazione di quale nomina, tra le varie effettuate, debba ritenersi efficace in base all'attività in concreto svolta dal professionista; il mancato rispetto dell'art. 24 disp. att. cod. proc. pen. provocherebbe incertezza in merito alla titolarità dell'ufficio di difesa, la cui tendenziale immodificabilità è acquisizione garantistica del codice di rito.

Secondo le Sezioni Unite efficacia dirimente assume l'art. 571, comma terzo, cod. proc. pen., in base al quale può «proporre impugnazione il difensore dell'imputato al momento del deposito del provvedimento ovvero il difensore nominato a tal fine», che è regola speciale rispetto all'art. 24 disp. att. cod. proc. pen., in quanto peculiarmente riferita alla legittimazione a proporre impugnazione.

Quindi, da un lato, la nomina effettuata da una parte privata di altro difensore in eccedenza rispetto alla precedenti (due, al massimo, per l'imputato, ex art. 96, comma 1, cod. proc. pen.; uno, ex artt. 100 e 101 cod. proc. pen., per le altre parti private), non accompagnata dalla revoca prevista dall'art. 24 disp. att. cod. proc. pen., è inidonea ad attribuire al terzo legale la qualità di difensore. Dall'altro lato, ove tale nomina sia effettuata dall'imputato "al fine" della proposizione della impugnazione, vale a conferire al nuovo difensore il relativo incarico.

Ne consegue che non solo è legittima e, quindi, ammissibile l'impugnazione ma che il nuovo legale viene con ciò stesso ad assumere la qualità di difensore per il prosieguo del procedimento, non essendo prevista dal nostro ordinamento una nomina per un singolo atto.

La natura di regola speciale dell'art. 571 cod. proc. pen. rispetto a quella generale di cui all'art. 24 disp. att. cod. proc. pen. trova agevole e razionale spiegazione nella particolare significatività e importanza dell'atto di impugnazione e nella considerazione che non si tratta di ulteriore nomina genericamente in esubero rispetto alle precedenti, ma dell'investitura di un ufficio difensivo specificamente e strutturalmente orientata dall'imputato alla proposizione di tale atto.

La nomina di un difensore per l'impugnazione implica, in assenza di specifiche manifestazioni di volontà dell'imputato, la revoca di entrambi i precedenti legali eventualmente nominati (con le conseguenti applicazioni in tema di avvisi e di partecipazione al giudizio di impugnazione e alle fasi e gradi successivi), in mancanza di un criterio normativo per stabilire quale dei due debba intendersi revocato.

Tuttavia, se il difensore anteriormente nominato è uno solo, occorre distinguere: nel caso in cui l'imputato abbia conferito mandato ad un altro legale per l'impugnazione, il precedente conserva la sua qualità, non essendovi ragione per derogare alla regola dell'art. 96, comma 1, cod. proc. pen.; se sono due i difensori officiati per l'impugnazione, prevale la nomina di questi, ex art. 571, comma terzo, con implicita revoca del primo difensore.

Sul presupposto che gli atti di impugnazione eventualmente proposti dal precedente o dai precedenti difensori mantengono validità, in base al generale canone "tempus regit actum", deriva come corollario la inoperatività (vale a dire l'inefficacia) di una ulteriore impugnazione da parte di un terzo difensore a tal fine nominato se entrambi i due legali già designati hanno proposto impugnazione.

Ed invero, non possono coesistere tre distinti atti di gravame dei difensori, perché la facoltà di impugnazione legittimamente esercitata dai due precedenti consuma quella del terzo.

E, non potendo l'ultimo legale proporre impugnazione, la sua stessa nomina resta priva di efficacia (a meno che l'imputato non provveda a norma dell'art. 24 disp. att. cod. proc. pen.).

Ulteriore logica conseguenza è che, in presenza di un atto di impugnazione già proposto da un precedente difensore, è ammessa un'unica ulteriore impugnazione; se sono due i successivi difensori nominati per l'impugnazione vale solo l'atto di gravame per primo depositato o spedito, e vale solo la nomina di chi per primo ha proposto impugnazione.

MISURE CAUTELARI.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Adeguatezza della custodia cautelare in carcere.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Ordinanza n. 34473 del 19/07/2012 (dep. 10/09/2012), Lipari, Rv. 253186], nel solco dei precedenti orientamenti della Corte Costituzionale, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. in riferimento alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per i reati aggravati dall'utilizzo del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa.

È stato affermato il principio secondo il quale «la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. opera non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari».

L'art. 275 cod. proc. pen. indica i criteri cui il giudice deve attenersi per individuare la misura idonea in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto; nel comma terzo, dello stesso articolo è però stabilita una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere per i delitti ivi elencati, "salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari": dunque, per tali delitti, è obbligatoria la più afflittiva delle misure cautelari, purchè sussistano esigenze cautelari, a nulla rilevando la natura ed il grado delle stesse.

L'art. 299, comma secondo, cod. proc. pen. è così formulato: "Salvo quanto previsto dall'art. 275, comma 3, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con un'altra meno grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalità meno gravose".

In relazione alle norme citate, è sorto in giurisprudenza un contrasto interpretativo in ordine alla questione se la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere, per i reati indicati nell'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., debba trovare applicazione solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva o riguardi anche le vicende successive, con conseguente irrilevanza dell'eventuale attenuazione delle esigenze cautelari.

La tesi secondo cui la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere governa soltanto il momento iniziale della misura è stata prospettata da Sez. 6, n. 25167 del 09/04/2010 (dep. 02/07/2010), Gargiulo, Rv. 247595: con la richiamata decisione è stato affermato che l'obbligatorietà della custodia in carcere non può avere riguardo alle vicende successive all'adozione della misura stessa, perchè in tali ipotesi occorre valutare il decorso del tempo e la concreta sussistenza della pericolosità sociale, con la conseguenza della doverosità della verifica circa la possibilità di sostituzione della misura originaria con altra meno afflittiva.

Tale decisione ha richiamato, per avvalorare la soluzione adottata, alcuni precedenti datati [Sez. 6, Sentenza n. 54 del 13/01/1995 (dep. 01/03/1995), Corea, Rv. 200564; Sez. 1, Sentenza n. 3592 del 24/05/1996 (dep. 06/08/1996), Corsanto, Rv. 205490] che enunciarono il seguente principio: "qualora in grado di appello venga affermata, nei confronti di un soggetto sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, la sussistenza, esclusa nel primo giudizio, di uno dei reati per i quali l'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., impone la custodia cautelare in carcere, ai fini della decisione sullo status libertatis dell'imputato deve aversi riguardo non già al suddetto art. 275, poichè non si verte in tema di prima applicazione di una misura cautelare di coercizione personale, bensì all'art. 299, comma quarto, cod. proc. pen., che prevede la modifica peggiorativa della precedente misura in corso quando risultino aggravate le esigenze cautelari; ne consegue che la pura e semplice intervenuta condanna per uno dei reati predetti, non accompagnata da alcun elemento sintomatico dell'emergere di qualche evenienza negativamente influente sulle esigenze cautelari, non può essere idonea a modificare il quadro giuridico-processuale esistente al momento della concessione degli arresti domiciliari ed a fondare il ripristino della custodia in carcere".

Da tale premessa si trae la conclusione che i parametri valutativi per l'accertamento delle esigenze cautelari di cui all'art. 274, comma primo, lett. b) e c), cod. proc. pen., richiamate dall'art. 300, comma quinto, stesso codice, devono essere ricavati dalla regola generale di cui all'art. 299, comma quarto, cod. proc. pen., secondo cui "il giudice, su richiesta del p.m., sostituisce la misura applicata con altra più grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalità più gravose", ove "le esigenze cautelari risultano aggravate" [in senso conforme v. anche Sez. 6, Sentenza n. 4424 del 20/10/2010, (dep. 04/02/2011), D'Angelo, Rv. 249188].

Per la soluzione contraria ha optato la prevalente giurisprudenza: già Sez. 1, Sentenza n. 3274 del 07/07/1992 (dep. 03/08/1992) Rv. 191558 precisò, quanto alla disposizione dell'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., nella formulazione allora in vigore, che "la custodia in carcere, una volta accertata l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza dell'indagato, non può essere sostituita con gli arresti domiciliari".

In senso analogo si sono espresse Sez. 1, Sentenza n. 931 del 04/03/1993 (dep. 19/05/1993), Granato, Rv. 193997, secondo cui "allorchè si procede per uno dei reati ostativi è preclusa la sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra misura meno grave: la permanenza delle esigenze cautelari, ancorché attenuate, purchè continuino a sussistere i gravi indizi di colpevolezza, comporta il mantenimento dell'originaria più grave misura coercitiva. Per poter far cessare la custodia cautelare devono venire a mancare completamente le suddette esigenze, ma a tale ipotesi consegue la revoca della misura imposta, a norma del comma primo dell'art. 299 cod. proc. pen. il quale, non prevedendo la riserva contenuta nel comma secondo in ordine ai reati contemplati nel citato art. 275, comma terzo, stabilisce che le misure coercitive (e interdittive) sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall'art. 273 cod. proc. pen., o dalle disposizioni relative alle singole misure, ovvero le esigenze cautelari previste dall'art. 274 cod. proc. pen." [nel senso che la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere opera in tutte le fasi del procedimento penale e non solo in occasione dell'applicazione della misura cautelare v. Sez. 5, Sentenza n. 1753 del 12/05/1993 (dep. 02/07/1993), Giugliano, Rv. 195408; Sez. 3, Sentenza n. 2711 del 03/08/1999 (dep. 21/04/2000), Valenza, Rv. 216556-7, Sez. 5, Sentenza n. 24924 del 07/05/2004 (dep. 01/06/2004), Santaniello, Rv. 229877; Sez. 6, Sentenza n. 9249 del 26/01/2005 (dep. 09/03/2005), Miceli Corchettino, Rv. 230938].

Questo indirizzo interpretativo si è ulteriormente rafforzato con Sez. 6, Sentenza n. 20447 del 26/01/2005 (dep. 31/05/2005), Marino, Rv. 231451, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 299, comma secondo, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che, nell'ipotesi di cui all'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., il giudice non possa sostituire la misura cautelare adottata con altra meno grave, quando le esigenze risultino attenuate: è stato affermato, sul punto, che dette norme non costituiscono nè irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, nè violazione del principio di uguaglianza, e ciò in ragione dell'elevato e specifico coefficiente di pericolosità per la convivenza e la sicurezza collettiva inerente ai reati ivi considerati.

Nello stesso senso si sono ancora espresse: Sez. 2, n. 16615 del 13/03/2008, Vitagliano ed altro, non massimata sul punto; Sez. 5, Sentenza n. 27146 del 08/06/2010 (dep. 13/07/2010), Femia, Rv. 248034; Sez. 6, Sentenza n. 32222 del 09/07/2010 (dep. 23/08/2010), Galdi, Rv. 247596; Sez. 5, Sentenza n. 34003 del 18/05/2010 (dep. 21/09/2010), Di Simone, Rv. 248410; Sez. 2, Sentenza n. 11749 del 16/02/2011 (dep. 24/03/2011), Armens, Rv. 249686, secondo cui "non avrebbe senso imporre l'adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla con misura meno afflittiva".

Da ultimo Sez. 5, Sentenza n. 35190 del 22/06/2011 (dep. 28/09/2011), Ciminello, Rv. 251201, ha ribadito che l'orientamento prevalente, ritenuto nell'occasione condivisibile, si fonda su un argomento sistematico, costituito dal rilievo che l'art. 299, comma secondo, cod. proc. pen. consente la sostituzione della misura, in caso di attenuazione delle esigenze cautelari o della sopravvenuta assenza di proporzione all'entità del fatto o alla sanzione, "ma con espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen.".

Preliminarmente occorre sottolineare che di recente le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27919 del 31/03/2011 (dep. 14/07/2011), Ambrogio, Rv. 250195-6, nel ragionare sulla portata applicativa delle interpolazioni dell'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., hanno avuto modo di precisare quanto segue: "Anche nel momento della sostituzione della misura cautelare giocano le presunzioni alle quali si è già fatto cenno nel considerare il momento genetico della misura cautelare: una diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto irrazionale il sistema. Tuttavia, in tale fase non possono operare presunzioni prima inesistenti". Le Sezioni unite hanno, dunque, avvalorato l'orientamento affermatosi come prevalente nella giurisprudenza di legittimità che, come si è visto, ha origini ormai datate.

Sulla base del descritto quadro giurisprudenziale, deve essere confermata l'opzione interpretativa prevalente per ragioni di ordine sistematico, logico e letterale, posto che la formulazione delle disposizioni che rilevano ai fini della soluzione della questione non sembra possa dare adito a particolari difficoltà interpretative in considerazione della sua sufficiente chiarezza.

Ciò premesso, è agevole argomentare, da una lettura complessiva del testo normativo, che il legislatore ha inteso per certo attribuire alla presunzione assoluta di cui all'art. 275, comma terzo, del codice di rito, il carattere di eccezionalità com'è reso palese dall'elencazione specifica dei reati cui ha voluto ricollegare detta presunzione e dall'espressione "salvo che non siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari".

Il legislatore ha ritenuto, per determinati reati, specificamente indicati, di dover stabilire una presunzione assoluta di idoneità della più afflittiva delle misure, nella necessità di ricercare un giusto contemperamento tra le opposte esigenze del diritto alla libertà dell'indagato (o imputato) e della tutela della collettività.

Così individuata la ratio della norma, deve ritenersi, quale logica conseguenza, che detta presunzione debba operare non solo nel momento genetico della misura, ma per tutte le vicende successive, in presenza di esigenze cautelari: non risponderebbe a criteri di logica imporre, per delitti ritenuti dal legislatore di particolare gravità, l'adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla con una misura meno afflittiva.

Dal punto di vista sistematico, mette conto sottolineare che: a) nel primo periodo del comma terzo dell'art. 275 cod. proc. pen., con riferimento alla custodia in carcere quale misura da adottare solo ove ogni altra misura risulti inadeguata, è stata usata la formulazione "può essere disposta", mentre con riferimento alla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, di cui al successivo periodo, il legislatore ha fatto ricorso alla diversa formulazione "è applicata": orbene, non sembra che tale diversa terminologia sia senza significato, posto che il termine "disposta" consente di individuare certamente proprio il momento genetico, a differenza della parola "applicata" che, infatti, risulta poi usata anche nell'art. 299 cod. proc. pen., dedicato alla "revoca e sostituzione delle misure"; b) nell'art. 299 cod. proc. pen. vi è, nell'incipit del comma secondo, il richiamo alla presunzione di adeguatezza di cui all'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., quale eccezione alla possibilità di sostituzione della misura in corso nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari ovvero quando la misura applicata non appare più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata.

Risulta dunque chiara l'intenzione del legislatore, avuto riguardo alla collocazione dell'eccezione ed alla formulazione della norma, di aver voluto rendere operativa la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere, prevista dal comma terzo dell'art. 275 cod. proc. pen. per i reati ivi elencati, per l'intera durata della vicenda cautelare e non per il solo momento iniziale in cui detta misura viene disposta.

Nè tale opzione ermeneutica risulta efficacemente contrastata dall'argomento che, in alcune delle sentenze, espressione dell'indirizzo minoritario, si è ritenuto di poter individuare nel comma quarto dell'art. 299 cod. proc. pen., laddove è previsto che, fermo restando quanto è stabilito nell'art. 276 cod. proc. pen. (provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizione imposte), "quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un'altra più grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalità più gravose".

Ed invero, nell'art. 299 cod. proc. pen., accanto alla revoca della misura (comma 1), è prevista anche la sostituzione della misura: in senso meno afflittivo, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari (comma 2) o in senso più severo, e su richiesta del pubblico ministero, nel caso di aggravamento delle esigenze stesse (comma 4). Le disposizioni di cui ai commi secondo e quarto dell'art. 299 cod. proc. pen. sono dunque simmetriche e non si rilevano nella formulazione del comma quarto elementi persuasivi a favore dell'orientamento interpretativo minoritario.

La sostituzione di una misura con altra meno afflittiva, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari, è chiara espressione della regola generale che comporta una continua verifica, da parte del giudice, circa il permanere delle condizioni che hanno determinato la limitazione della libertà personale e la scelta di una determinata misura cautelare.

Orbene, a tale regola - che governa l'aspetto per così dire dinamico della vicenda cautelare, il legislatore ha inteso porre un'eccezione, attenuando la discrezionalità del giudice, con l'introduzione di criteri legali di valutazione, e così ponendo una presunzione assoluta di adeguatezza della misura della custodia in carcere per determinati reati in quanto ritenuti di particolare pericolosità sociale: presunzione che deve ritenersi operante non solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva (art. 275, comma terzo, cod. proc. pen.) ma, necessariamente, anche per il prosieguo della vicenda cautelare proprio perchè espressamente richiamata nel comma secondo dell'art. 299 cod. proc. pen. ("salvo quanto previsto dall'art. 275, comma 3").

Il regime normativo anzidetto dovrebbe trovare applicazione anche in relazione ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 (convertito dalla legge n. 203 del 1991): orbene, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la presunzione di adeguatezza delle esigenze cautelari non si armonizzi con i principi costituzionali e con la giurisprudenza del giudice delle leggi.

La Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 450 del 1995 ritenne che la predeterminazione in linea generale dell'area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, per l'operatività della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare carceraria, rendesse manifesta la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato.

La Corte Europea dei diritti dell'uomo aveva avuto già modo di pronunciarsi esplicitamente in tal senso, osservando che la disciplina derogatoria in esame appariva giustificabile alla luce "della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso", e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto in questione "tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti" (sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia).

In seguito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 139 del 2010, ha ricordato che le "presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali", cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit. E ciò ha fatto in occasione dello scrutinio di costituzionalità dell'art. 76, comma 4-bis, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), del quale ha decretato l'illegittimità nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non ammette la prova contraria.

Con una pluralità di interventi, la Corte costituzionale ha poi ridisegnato i confini delle presunzioni in materia cautelare, il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il settore della criminalità mafiosa, dall'intervento normativo sulla sicurezza pubblica, vale a dire dal decreto-legge n. 11 del 2009 convertito, con modifiche, con legge n. 38 del 2009.

Più specificamente, non potendo estendersi la "ratio" calibrata sui delitti di mafia in senso stretto ad ambiti criminosi diversi, per i quali le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure alternative alla custodia in carcere, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. nella parte in cui ha esteso la presunzione di adeguatezza della custodia carceraria, senza possibilità di apprezzare in concreto l'adeguatezza di altra e meno afflittiva misura, in riferimento: ai reati di cui all'art. 600-bis, comma primo, 609-bis e 609-quater (sentenza n. 265 del 2010); al delitto di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011); all'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (sentenza n. 231 del 2011); ai delitti di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina di cui all'art. 12, comma terzo, del d.lgs. n. 286 del 1998 (sentenza n. 331 del 2010); alla fattispecie di cui all'art. 416 c.p. realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p. (sentenza n. 110 del 2012).

Pertanto, anche i delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 - avendo, o potendo avere, una struttura individualistica - potrebbero, per le loro caratteristiche, non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere.

La circostanza aggravante in esame può accompagnare, invero, la commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa, di talchè, ove si volesse ricomprendere anche i reati così aggravati nella locuzione "delitti di mafia", cui si fa ripetutamente richiamo nelle decisioni della Corte Costituzionale, si finirebbe con l'assimilare, sotto il profilo del disvalore sociale e giuridico, manifestazioni delittuose del tutto differenti, sia con riferimento alla loro portata criminale sia con riferimento alla pericolosità dell'agente.

La presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per delitti commessi al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dall'art. 416-bis cod. pen., comporterebbe, infatti, una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso agevolare le attività delle associazioni stesse. Parificazione che sembrerebbe ingiustificata sulla scorta delle considerazioni svolte dalla stessa Corte Costituzionale laddove la presunzione in argomento è stata ritenuta ragionevole e giustificata, come ricordato, solo in presenza di un legame associativo, peraltro connotato da specifiche caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo associativo stesso e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, che non sembrano riscontrabili in una condotta delittuosa pur aggravata ai sensi dell'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991.

Alla stregua di tutte le argomentazioni svolte, deve conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009 n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall'art. 416-bis c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; non manifesta infondatezza ravvisabile in relazione ai seguenti articoli della Costituzione: art. 3 per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, a quelli concernenti i delitti di mafia nonchè per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; art. 13, primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; art. 27, comma secondo, con riferimento all'attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena.

2. Effetto estensivo dell'impugnazione.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 19046 del 29/03/2012 (dep. 18/05/2012), Peroni, Rv. 252529] hanno affermato un rilevante principio in materia di effetto estensivo dell'impugnazione nei confronti della posizione di altri soggetti anche non ricorrenti.

È stato, al riguardo, deciso che «nel procedimento di riesame delle misure cautelari reali, l'estensione degli effetti favorevoli della decisione si verifica a condizione che questa non sia fondata su motivi personali dell'impugnante e che il procedimento stesso sia sorto e si sia svolto in modo unitario e cumulativo (In applicazione di tale principio, la S.C. ha annullato senza rinvio l'ordinanza impugnata e ha dichiarato la perdita di efficacia del decreto di sequestro preventivo, ritenendo il carattere dell'unitarietà del procedimento, sul rilievo che l'impugnazione autonomamente proposta da uno dei coindagati avverso un provvedimento interlocutorio non ne ha determinato la frammentazione, essendo lo stesso proseguito unitariamente nei confronti degli altri ricorrenti, ma ne ha comportato un'anticipazione di decisione su uno degli aspetti procedurali, che anche i coindagati avevano coltivato con un diverso ricorso assegnato ad altra Sezione della Corte)».

Dal punto di vista normativo, l'art. 587 cod. proc. pen., per quanto attiene alla estensione della impugnazione, prevede che essa debba verificarsi: a) quando più persone abbiano concorso nel medesimo reato e la impugnazione sia proposta da uno solo degli imputati, purchè detta impugnazione non sia fondata su motivi esclusivamente personali; b) quando, pur procedendosi per reati diversi, i procedimenti siano stati riuniti, se l'impugnazione proposta da un imputato, non essendo esclusivamente personale, riguardi la violazione di legge processuale.

Naturalmente, in virtù del disposto dell'art. 61, comma secondo, cod. proc. pen. la disciplina sopra richiamata si estende alla figura dell'indagato.

La decisione si allinea alla pregressa giurisprudenza, secondo la quale l'estensione degli effetti favorevoli della decisione può verificarsi a condizione che questa non sia fondata su "motivi personali" dell'impugnante e che il procedimento stesso sia sorto e si sia svolto in modo unitario e cumulativo [Sez. U, Sentenza n. 34623 del 26/06/2002 (dep. 16/10/2002), Di Donato, Rv. 222261].

3. Contestazioni a catena.

Le Sezioni Unite [sentenza n. 45246 del 19/07/2012 (dep. 20/11/2012), Polcino, Rv 253549] sono state, altresì, chiamate ad esaminare «se, nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare possa essere dedotta nel procedimento di riesame oppure soltanto con l'istanza di revoca ex art. 299 cod. proc. pen.».

È stato stabilito che «in tema di contestazione a catena, la questione relativa alla retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche nel procedimento di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) termine interamente scaduto, per effetto della retrodatazione, al momento del secondo provvedimento cautelare; b) desumibilità dall'ordinanza applicativa della misura coercitiva di tutti gli elementi idonei a giustificare l'ordinanza successiva».

Secondo l'orientamento prevalente in giurisprudenza, l'imputato o l'indagato in stato di custodia cautelare, nei cui confronti siano stati adottati vari provvedimenti restrittivi della libertà personale, che deduca la sussistenza di un'ipotesi di cosiddetta contestazione a catena e, conseguentemente, del diritto alla liberazione per decorrenza dei termini, deve presentare apposita istanza di scarcerazione al giudice che ha la disponibilità del procedimento e, in caso di rifiuto, può impugnare con appello al tribunale indicato nell'art. 309, comma settimo, cod. proc. pen., il provvedimento, ma non può impugnare direttamente davanti al tribunale l'ulteriore ordinanza impositiva della misura cautelare ai sensi dell'art. 309 cod. proc. pen., poichè la cosiddetta contestazione a catena non incide sul provvedimento in sè ma soltanto sulla decorrenza e sul computo dei termini di custodia cautelare [Sez. 1, Sentenza n. 1785 del 15/04/1991 (dep. 05/06/1991), Falanga, Rv. 187387; Sez. 1, Sentenza n. 1184 del 10/03/1994 (dep. 26/04/1994), Annis, Rv. 197209; Sez. 1, Sentenza n. 4776 del 09/07/1997 (dep. 24/09/1997), Suarino, Rv. 208503; Sez. 6, Sentenza n. 833 del 05/03/1999 (dep. 26/04/1999), Gozzi, Rv. 213682; Sez. 6, Sentenza n. 31497 del 22/05/2003 (dep. 25/07/2003), Dzemaili, Rv. 226286; Sez. 1, Sentenza n. 19905 del 04/03/2004 (dep. 28/04/2004), Russo, Rv. 228053; Sez. 2, Sentenza n. 41044 del 13/10/2005 (dep. 11/11/2005), Guttadauro, Rv. 232697; Sez. 1, Sentenza n. 35113 del 13/07/2007 (dep. 19/09/2007), Chiodo, Rv. 237632; Sez. 2, Sentenza n. 35605 del 27/06/2007 (dep. 26/09/2007), Crisafulli, Rv. 237991; Sez. 6, Sentenza n. 10325 del 23/01/2008 (dep. 06/03/2008), Zecchetti, Rv. 239016].

Le cause che determinano la perdita di efficacia dell'ordinanza impositiva della misura cautelare, tra le quali rientra quella prevista dal comma terzo dell'art. 297 cod. proc. pen., si risolvono in vizi processuali che non intaccano l'intrinseca legittimità dell'ordinanza, ma agiscono sul diverso piano dell'efficacia della misura, per cui devono essere dichiarati nell'ambito di un procedimento appositamente promosso con l'istanza di revoca ex art. 306 cod. proc. pen. [Sez. 6, Sentenza n. 3680 del 17/11/1998 (dep. 15/12/1998), Di Matteo, Rv. 212686].

La devoluzione al giudice del procedimento incidentale della questione relativa alla perdita di efficacia del provvedimento impugnato integrerebbe una violazione dell'art. 306 cod. proc. pen. che riserva unicamente al giudice del procedimento principale tale competenza e finirebbe con il privare la persona sottoposta alla misura cautelare della possibilità di promuovere, in ordine alla estinzione della stessa, tre gradi di giudizio [istanza di revoca, appello e ricorso per cassazione - Sez. 6, Sentenza n. 2033 del 02/06/1999, (dep. 27/07/1999), Lombardo, Rv. 214319].

Tuttavia, la giurisprudenza ha espresso anche un diverso orientamento, che trae origine da una sentenza della Sez. 3, n. 9946 del 09/02/2010, Chiaravalloti, Rv. 246237, in un caso in cui non risultava che l'indagato avesse dedotto innanzi al Tribunale del riesame la questione della retrodatazione dei termini di custodia cautelare ex art. 297 cod. proc. pen., che era stata invece proposta con il ricorso per cassazione.

Nell'occasione la Corte ha ritenuto che il tribunale fosse tenuto a rilevare d'ufficio la retrodatazione ove ne ricorressero i presupposti, poichè l'indagato aveva prospettato l'insussistenza delle esigenze cautelari e ciò determinava l'obbligo di pronunciarsi al riguardo, «atteso che: - comunque era stata chiesta la revoca della misura, e se essa fosse estinta per decorrenza dei termini di durata massima ex art. 303, comma primo, lett. a), n. 3, cod. proc. pen., ciò prevarrebbe sulla sussistenza o meno delle esigenze cautelari; - ritenendo il contrario e non applicando tale principio sussisterebbe in caso di decorrenza dei termini l'ingiusta carcerazione dell'inquisito; - tale argomento assorbe quello relativo all'avvenuta o meno deduzione sull'applicazione della retrodatazione».

Tale sentenza è stata richiamata dalla Sez. 1, n. 24784 del 29/03/2011, Bonito, Rv. 249683, che ha convalidato il ragionamento secondo il quale la retrodatazione incide sulla configurabilità delle esigenze cautelari, ma, da un lato, non parla più di rilevabilità d'ufficio della questione della retrodatazione, dall'altro lato, afferma che occorre distinguere l'ipotesi in cui sia stato dedotto che già al momento della misura i termini erano scaduti per l'ipotizzata retrodatazione - nella quale la questione della retrodatazione può essere posta in sede di riesame, poichè la misura non poteva essere emessa - dall'ipotesi in cui, invece, la dedotta retrodatazione si riferisca all'eventualità di una inefficacia sopravvenuta del titolo, nella quale la questione andrebbe posta in sede di istanza di revoca, non incidendo sul titolo (nello stesso senso si erano espresse Sez. 1, n. 30480 del 29/03/2011, La Posta, Rv. 251090, peraltro, in un caso in cui la questione della retrodatazione aveva formato oggetto di valutazione da parte del g.i.p., e Sez. 1, n. 1006 del 20/12/2011, dep. 2012, Stijepovic, Rv. 251687).

La questione della eterogenea natura e funzione del riesame rispetto alla revoca dell'ordinanza cautelare è stata affrontata per la prima volta dalle Sezioni Unite con la sentenza Buffa (n. 11 del 08/07/1994), la quale, proprio sulla base di tale diversità, aveva affermato il principio secondo il quale la richiesta di riesame non è preclusa da quella di revoca della misura e, pertanto, non può essere ritenuta inammissibile solo perchè proposta successivamente ad essa.

Mentre il riesame delle ordinanze che dispongono misure cautelari costituisce un mezzo di impugnazione, ancorché fornito di caratteristiche peculiari rispetto agli altri mezzi di impugnazione, tale natura giuridica non può essere riconosciuta alla richiesta di revoca di misura cautelare, che, tra l'altro, può essere disposta anche d'ufficio nelle ipotesi previste dal comma terzo dell'art. 299 cod. proc. pen.

Al tribunale del riesame è attribuito in via esclusiva il controllo sulla validità dell'ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell'art. 292 cod. proc. pen. e alla verifica della legittimità dell'adozione della misura cautelare.

A sua volta, l'ordinanza di revoca della misura - che può essere adottata, senza l'osservanza di termini, in qualsiasi fase del procedimento, in cui se ne ravvisi la necessità - mira a verificare la sussistenza attuale delle condizioni di applicabilità della misura prescritte dagli art. 273 e 274 cod. proc. pen. o di quelle relative alle singole misure, avendo riguardo sia ai fatti sopravvenuti, sia a quelli originari e coevi all'ordinanza impositiva, facendoli oggetto di una valutazione eventualmente diversa da quella prescelta dal giudice che ha applicato la misura.

Le Sezioni Unite, nel ricostruire lo stato della giurisprudenza, hanno tracciato la linea di confine tra le questione devolute alla cognizione del giudice dell'impugnazione e quelle affidate alle decisioni del giudice del procedimento principale, mantenendo fermo l'orientamento relativo all'ipotesi di inefficacia della misura cautelare per retrodatazione dei termini ex art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., allorquando tale inefficacia sia sopravvenuta all'adozione della misura stessa.

Tuttavia, a conclusioni parzialmente diverse deve pervenirsi nel caso in cui, in applicazione dei principi della cosiddetta contestazione a catena, il termine di custodia cautelare risulti interamente scaduto già al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare.

Occorre, a questo punto, chiarire quali siano la ratio e le modalità applicative dell'istituto della retrodatazione in presenza di contestazioni a catena.

Per quanto concerne il fondamento dell'istituto, la Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 2012) ha chiarito che esso «tende ad evitare che, rispetto a una custodia cautelare in corso, intervenga un nuovo titolo che, senza adeguata giustificazione, determini di fatto uno spostamento in avanti del termine iniziale della misura [...]. L'introduzione di "parametri certi e predeterminati" nella disciplina delle "contestazioni a catena" risponde all'esigenza di "configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale" (sentenza n. 89 del 1996), in assenza dei quali si potrebbe "espandere la restrizione complessiva della libertà personale dell'imputato, tramite il "cumulo materiale" - totale o parziale - dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato" (sentenza n. 233 del 2011). La disciplina delle "contestazioni a catena", dunque, si caratterizza per una rigidità indispensabile a scongiurare il rischio di un'espansione, potenzialmente indefinita, della restrizione complessiva della libertà personale, ed è in nome di questa rigidità che la disciplina delle "contestazioni a catena" non tollera alcuna "imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del potere cautelare».

I principi applicativi della norma di cui all'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., sono stati definiti dagli interventi della Corte costituzionale (sentenza n. 408 del 2005 e n. 233 del 2011) e della Corte di cassazione (Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia; Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato) e possono così sintetizzarsi:

- nel caso di emissione nello stesso procedimento di più ordinanze che dispongono nei confronti di un imputato una misura custodiale per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, o per fatti diversi, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica, commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con le ordinanze successive opera automaticamente, ovvero senza dipendere dalla possibilità di desumere dagli atti, al momento dell'emissione della prima ordinanza, l'esistenza degli elementi idonei a giustificare le successive misure (art. 297, comma terzo, prima parte, cod. proc. pen.);

- nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate nello stesso procedimento riguardino invece fatti diversi tra i quali non sussiste la connessione qualificata prevista dall'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., la retrodatazione opera solo se al momento dell'emissione della prima erano desumibili dagli atti elementi idonei a giustificare le misure applicate con le ordinanze successive;

- il presupposto dell'anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all'emissione della prima, non ricorre allorchè il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione (nella specie di tipo mafioso) e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l'emissione della prima ordinanza;

- quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze custodiali per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza;

- nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino invece fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero;

- la disciplina stabilita dall'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., per la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare, si applica anche nell'ipotesi in cui, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all'adozione della seconda misura (Corte cost., sent, n. 233 del 2011).

Ciò posto, deve in linea di principio osservarsi che è dovere di ogni giudice investito del problema cautelare quello di tutelare nella sua massima estensione la libertà personale, protetta come bene primario dalla Costituzione (art. 13) e dalle norme delle convenzioni internazionali che sanciscono il diritto di ogni persona sottoposta ad arresto o detenzione a ricorrere al giudice per ottenere, "entro brevi termini" (art. 5, comma quarto, Convenzione Europea dei diritti dell'uomo) o "senza indugio" (art. 9, comma quarto, Patto internazionale sui diritti civili e politici), una decisione sulla legalità della misura e sulla liberazione.

L'intervento dell'organo del riesame deve peraltro essere coordinato con le particolari caratteristiche della relativa procedura incidentale, che non prevede l'esercizio di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale "de libertate" e che si basa esclusivamente sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico ministero e su quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell'udienza (Sez. 3, n. 43695 del 10/11/2011, Bacio Terracina Coscia, Rv. 251329; Sez. 3, n. 21633 del 27/04/2011, Valentini, Rv. 250016; Sez. 2 n. 6816 del 14/11/2007, dep. 2008, Caratozzolo, Rv. 239432; Sez. 4, n. 41151 del 23/03/2004, Gogoli, Rv. 231000); pertanto, qualsiasi richiesta che comporti l'esercizio di poteri istruttori può soltanto costituire l'oggetto di questioni da proporre al giudice competente su eventuali istanze di revoca della misura cautelare.

Si consideri, inoltre, che la deduzione della questione della sussistenza della c.d. contestazione a catena può introdurre argomenti di notevole complessità ai fini del relativo accertamento e del conseguente giudizio, che aumenta in progressione allorquando debba valutarsi la sussistenza del requisito della "desumibilità dagli atti".

Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di desumibilità, presupposto che legittima il ricorso all'istituto della retrodatazione, non va confuso con la mera conoscenza o conoscibilità di determinati fatti (Sez. 2, n. 4669 del 02/12/2005, Virga, Rv. 232991; Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, Barresi, Rv. 236829; Sez. 4, n. 44316 del 03/07/2007, Dalipay, Rv. 238348; Sez. 4, n. 2649 del 25/11/2008, Endrizzi, Rv. 242498).

Se la "ratio" dell'istituto consiste nell'evitare un prolungamento artificioso dei termini di custodia cautelare, è evidente che la retrodatazione può teoricamente ipotizzarsi e concretamente operare, come istituto di garanzia, solo se il secondo provvedimento custodiale già poteva essere adottato al momento dell'emissione della prima ordinanza e ciò può affermarsi solo nei casi in cui già vi era un quadro indiziario di tale gravità e completezza, conoscibile dall'autorità giudiziaria procedente e apprezzabile in tutta la sua valenza probatoria, da integrare tutti i presupposti legittimanti l'adozione della misura.

Interpretazione, quest'ultima, peraltro avallata dalla Corte costituzionale che, nel dichiarare «l'illegittimità costituzionale dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza», ha affermato che la durata della custodia cautelare deve dipendere da un fatto obiettivo (rispettoso, dunque, del canone dell'uguaglianza e della ragionevolezza) quale quello «dell'acquisizione di elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari» (sent. n. 408 del 2005).

Si aggiunga che tutti i suddetti presupposti di applicazione della retrodatazione costituiscono una "quaestio facti" la cui soluzione è rimessa di volta in volta all'apprezzamento del giudice di merito (Sez. 5, n. 44606 del 18/10/2005, Traina, Rv. 232797; Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829; Sez. 4, n. 9990 del 18/01/2010, Napolitano, Rv. 246798) e, in quanto tale, richiede l'esame e la valutazione degli atti ed una ricostruzione dei fatti, attività precluse al giudice di legittimità, il quale deve solo verificare che il convincimento espresso in sede di merito sia correttamente e logicamente motivato.

Sulla base delle esposte caratteristiche del procedimento incidentale cautelare e delle modalità di verifica di sussistenza dei presupposti della retrodatazione dei termini di custodia cautelare ex art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., deve ritenersi che il Tribunale del riesame possa pronunciarsi in materia solo quando elementi incontrovertibili emergenti dall'ordinanza impugnata consentano di ritenere sussistenti i suddetti presupposti.

In qualsiasi altro caso, la mancanza di poteri istruttori del giudice del riesame e le esigenze di speditezza del procedimento incidentale "de libertate" devono condurre ad escludere una pronuncia dello stesso giudice, la quale, se favorevole all'indagato, potrebbe basarsi sulla sola prospettazione difensiva non sufficientemente verificata nel più ampio contraddittorio e con la completezza degli elementi di fatto e documentali utili per la decisione; se sfavorevole all'indagato, potrebbe essere suggerita da una superficiale e non completa disamina di tutti i dati rilevanti, non rimediabile in sede di legittimità, in considerazione dei limiti del relativo sindacato, con le negative conseguenze correlate al prodursi del cosiddetto giudicato cautelare.

Pertanto, è stato ribadito che soltanto nel caso in cui dalla stessa ordinanza impugnata emergano in modo incontrovertibile e completo gli elementi utili e necessari per la decisione è possibile dare spazio ai principi di economia processuale e di rapida definizione del giudizio in vista della più ampia tutela del bene primario della libertà personale.

UDIENZA PRELIMINARE.

1. Notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza.

Una riflessione [SENT. Sez. U, n. 155 del 29/09/2011 (dep. 10/01/2012), Rv. 251500, Rossi] ha riguardato la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare. Al riguardo le Sezioni Unite hanno affermato che «è legittima la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, quando la rilevata mancanza delle persone abilitate a ricevere il piego non sia stata riferita dall'ufficiale giudiziario, o dall'agente postale, mediante l'utilizzo di formule sacramentali o la pedissequa ripetizione della dizione normativa, trattandosi di una situazione di fatto che può essere certificata o risultare in modo inequivocabile da numerose altre attestazioni, relative al fatto di avere trovato il domicilio chiuso, di non avere ottenuto risposta, di non avere trovato alcuno, ovvero di essere stati costretti a procedere mediante deposito dell'atto e immissione dell'avviso nella cassetta postale».

Ciò che conta è, in altri termini, che risulti che l'ufficiale giudiziario e l'agente postale si siano recati sul posto e che, non avendo trovato alcuno, abbiano proceduto correttamente, a norma dell'art. 157, comma ottavo, cod. proc. pen.

Con la stessa sentenza (n. 155 del 2012, Rv. 251496, Rossi), le Sezioni Unite hanno tratteggiato in modo analitico e in prospettiva innovativa i confini dell'istituto dell'abuso del diritto nel diritto processuale penale.

L'abuso del processo consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, che si realizza allorchè un diritto o una facoltà processuali sono esercitati per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento processuale astrattamente li riconosce all'imputato, il quale non può in tale caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non sono in realtà effettivamente perseguiti.

In applicazione di tale principio è stata esclusa qualsiasi violazione del diritto alla difesa, configurandosi un concreto pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento e di ciascuna delle parti alla celebrazione di un giudizio equo in tempi ragionevoli, qualora lo svolgimento e la definizione del processo siano stati ostacolati da un numero esagerato di iniziative difensive - attraverso il reiterato avvicendamento di difensori, la proposizione di eccezioni di nullità manifestamente infondate e di istanze di ricusazione inammissibili - con il solo obiettivo di perseguire una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali e non di ottenere garanzie processuali effettive o più ampie.

È oramai acquisita una nozione minima dell'abuso del processo che riposa sull'altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell'abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell'utilizzazione di poteri, diritti e facoltà per il raggiungimento di finalità oggettivamente non già solo diverse, ma collidenti (nel senso di "pregiudizievoli") rispetto all'interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto.

Il carattere generale del principio dipende dal fatto che ogni ordinamento che aspiri a un minimo di ordine e completezza tende a darsi misure, per così dire di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta.

L'esigenza di individuare limiti agli abusi si estende all'ordine processuale e trascende le connotazioni peculiari dei vari sistemi, essendo ampiamente coltivata non solo negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovranazionali.

E viene univocamente risolta, a livello normativo o interpretativo, nel senso che l'uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per cui il diritto stesso è riconosciuto, non ammette alcuno spazio o tutela.

In relazione alla nozione di abuso riferita ai diritti di azione, è sufficiente richiamare, per la materia processuale civile, Sez. U. civ., sentenza n. 23726 del 15/11/2007, Rv. 599316, che rimarca come nessun procedimento giudiziale possa essere ricondotto alla nozione di processo giusto ove frutto, appunto, di abuso del processo «per l'esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della "potestas agendi"».

In ambito comunitario l'articolo 35, § 3 (a) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (secondo cui la Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell'articolo 34 se ritiene che "il ricorso è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo") consente, nell'interpretazione consolidata della Corte di Strasburgo, di ritenere "abusivo" e, dunque, irricevibile il ricorso quando la condotta ovvero l'obiettivo del ricorrente siano manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto.

In altri termini, la nozione di "abuso" deve essere compresa nel suo senso comune contemplato dalla teoria generale del diritto, ossia [come] il fatto, da parte del titolare di un diritto, di attuarlo al di fuori della sua finalità in modo pregiudizievole.

Pertanto, è abusivo qualsiasi comportamento di un ricorrente manifestamente contrario alla vocazione del diritto di ricorso stabilito dalla Convenzione e che ostacoli il buon funzionamento della Corte e il buon svolgimento del procedimento dinanzi ad essa.

Particolarmente ampia è poi la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che richiama la nozione di abuso per affermare la regola interpretativa che colui il quale si appelli al tenore letterale di disposizioni dell'ordinamento comunitario per far valere avanti alla Corte un diritto che confligga con gli scopi di questo (è contrario all'obiettivo perseguito da dette disposizioni), non merita che gli si riconosca quel diritto (v. in particolare sentenza 20 settembre 2007, causa C 16/05, Tum e Dari, punto 64; sentenza 21 febbraio 2006, causa C 255/02, Halifax e a., e ivi citate, a punto 68).

Da tali premesse consegue che l'abuso del processo consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero secondo una più efficace definizione riferita in genere all'esercizio di diritti potestativi, in una frode alla funzione.

Nell'ipotesi in cui si realizzi uno sviamento o una frode alla funzione, l'imputato, che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha alcun titolo per invocare la tutela di interessi che non siano stati lesi o che non siano in realtà effettivamente perseguiti.

PROVE.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Attendibilità della persona offesa.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 41461 del 19/07/2012 (dep. 24/10/2012), Bell'Arte, Rv. 253214] sono intervenute in tema di valutazione della prova e di attendibilità della persona offesa.

Il Supremo collegio ha affermato che «le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia altresì costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi)».

Il pregresso e consolidato indirizzo esegetico aveva in più occasioni enunciato il principio secondo il quale le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non trovano applicazione relativamente alle dichiarazioni della parte offesa: queste ultime possono essere legittimamente poste da sole a base dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca del racconto [cfr. ex multis e tra le più recenti Sez. 4, Sentenza n. 44644 del 18/10/2011 (dep. 01/12/2011), F., Rv. 251661; Sez. 3, Sentenza n. 28913 del 03/05/2011 (dep. 20/07/2011), C., Rv. 251075; Sez. 3, Sentenza n. 1818 del 03/12/2010 (dep. 20/01/2011), L. C., Rv. 249136; Sez. 6, Sentenza n. 27322 del 14/04/2008 (dep. 04/07/2008), De Ritis, Rv. 240524].

Il vaglio positivo dell'attendibilità del dichiarante deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, di talché tale deposizione può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva: può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell'imputato [Sez. 1, Sentenza n. 29732 del 24/06/2010 (dep. 27/07/2010), Stefanini, Rv. 248016; Sez. 6, Sentenza n. 33162 del 03/06/2004 (dep. 02/08/2004), Patella, Rv. 229755].

Peraltro, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni [cfr. "ex plurimis" Sez. 6, n. 27322 del 2008, De Ritis, cit.; Sez. 3, Sentenza n. 8382 del 22/01/2008 (dep. 25/02/2008), Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, Sentenza n. 443 del 04/11/2004 (dep. 13/01/2005), Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, Sentenza n. 3348 del 13/11/2003 (dep. 29/01/2004), Pacca, Rv. 227493; Sez. 3, Sentenza n. 22848 del 27/03/2003 (dep. 23/05/2003), Assenza, Rv. 225232].

2. Modalità di controllo della corrispondenza del detenuto.

Le Sezioni Unite [Sent. Sez. U, n. 28997 del 19/04/2012 (dep. 18/07/2012) Rv. 252893, Pasqua] si sono pronunciate in materia di individuazione della disciplina normativa applicabile per il controllo della disciplina dei detenuti.

Sul punto è stato affermato che «la sottoposizione a controllo e la utilizzazione probatoria della corrispondenza epistolare non è soggetta alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, dovendosi invece seguire le forme del sequestro di corrispondenza di cui agli artt. 254 e 353 cod. proc. pen. e, nel caso di corrispondenza di detenuti, anche le particolari formalità stabilite dall'art. 18-ter ord. pen».

In argomento era sorto un contrasto di giurisprudenza in ordine ai poteri di intrusione dell'autorità giudiziaria nella corrispondenza epistolare del detenuto e ai procedimenti utilizzabili, che coinvolgono la libertà e la segretezza delle modalità comunicative.

Nell'ordinanza di rimessione veniva opportunamente evidenziato che, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità [Sent. Sez. 5, n. 3579 del 18/10/2007 (dep. 23/01/2008) Rv. 238902, Costa], il provvedimento del giudice che autorizza il controllo della corrispondenza con eventuale sequestro delle lettere rilevanti per le indagini è parificabile ad un provvedimento di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, disciplinato dagli artt. 266 e seguenti cod. proc. pen., costituendo un mezzo di prova non specificamente ed autonomamente disciplinato dalla legge processuale, utilizzabile sia perchè non oggettivamente vietato sia perchè la prova è formata in modo da garantire i diritti della persona.

Secondo questa impostazione, sarebbe ammissibile l'utilizzabilità in via analogica, per la intercettazione di corrispondenza, della procedura prevista dal sistema processuale per le intercettazioni telefoniche e di comunicazioni.

In senso difforme si era formato altro orientamento interpretativo [Sent. Sez. 2, n. 20228 del 23/05/2006 (dep. 13/06/2006) Rv. 234652, Rescigno; Sent. Sez. 6, n. 47009 del 13/10/2009 (dep. 10/12/2009) Rv. 245183, Giacalone; Sent. Sez. 5, n. 16575 del 4/02/2010 (dep. 29/04/2010) Rv. 246870, Azoulay], che, ritenendo impossibile il ricorso all'analogia per superare l'ostacolo letterale contenuto nell'art. 266 cod. proc. pen. (riferito alle sole intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche), aveva ritenuto decisiva l'espressa riserva assoluta di legge e di giurisdizione prevista per la compressione dei diritti tutelati dall'art. 15 Cost., soggiungendo che "nel corso della XV legislatura era stato approvato dalla Camera del Deputati il d.d.l. n. A-1638, ove si sanciva l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 266 ss. cod. proc. pen., alla corrispondenza postale, senza bisogno che la stessa fosse bloccata", osservando che "per rendere possibile la intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche era dovuto appositamente intervenire il legislatore con la legge 23 dicembre 1993, n. 547, che aveva introdotto l'art. 266-bis cod. proc. pen.".

Le Sezioni Unite hanno condiviso quest'ultimo orientamento, osservando che la materia delle intrusioni investigative sulla "corrispondenza" è regolata dall'art. 254 cod. proc. pen., che, rispetto alla normativa generale in tema di sequestri (art. 253 cod. proc. pen.), si atteggia quale disciplina speciale, in quanto incidente su aspetti presidiati dall'art. 15 Cost. (nonchè dall'art. 8 della CEDU), e che ha ad oggetto il sequestro della corrispondenza presso gestori (anche privati) di servizi postali (o, deve ritenersi, di quella che si trovi in luoghi accessori quali le cassette postali o che sia in via di recapito tramite il portalettere).

In base all'art. 254 cod. proc. pen., dunque, il sequestro da parte dell'autorità giudiziaria "di lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi o altri oggetti di corrispondenza" è assistito da particolare garanzie.

E, nel corso delle indagini preliminari, stante la previsione di cui all'art. 353, comma terzo, cod. proc. pen., gli ufficiali di polizia giudiziaria, se vi è l'urgente necessità di acquisire oggetti di corrispondenza, sono abilitati ad ordinare a chi è preposto al servizio postale di sospendere l'inoltro; ordine che cessa ad ogni effetto se il p.m. non dispone il sequestro entro le ventiquattro ore.

In ogni caso, disposto il sequestro, d'iniziativa o su impulso della polizia giudiziaria, il p.m., in base al combinato disposto degli artt. 365 e 366 cod. proc. pen., deve depositare il relativo verbale, entro il terzo giorno successivo all'atto, dandone avviso al difensore dell'indagato (salva la facoltà di ritardare il deposito, per non oltre trenta giorni, ricorrendo i presupposti dell'art. 366, comma secondo, cod. proc. pen.).

Sulla base di queste premesse non si può dubitare che sia "corrispondenza" anche quella che transita per gli istituti di detenzione, diretta verso l'esterno dal detenuto o a lui spedita; e che il detenuto ha diritto di vedere inoltrata o di ricevere, non trattandosi di res di cui abbia la disponibilità l'amministrazione carceraria.

E qui la ragione di specifica tutela, oltre che in forza della riferita norma costituzionale, riceve maggior rafforzamento proprio dallo stato di costrizione del soggetto che intrattiene contatti epistolari con soggetto libero, dovendo egli necessariamente affidarsi per tali contatti all'amministrazione, che smista la posta diretta ai detenuti o da loro spedita.

Per la speciale condizione del detenuto, cui deve essere comunque assicurato il rispetto dei diritti fondamentali compatibili con tale status (v., tra le altre, Corte cost., sentt. nn. 26 del 1999, 212 del 1997, 410 e 349 del 1993), i poteri di intrusione dell'autorità giudiziaria nella corrispondenza che transita per gli istituti penitenziari ricevono apposita regolamentazione, tra l'altro con previsione di limiti temporali e della facoltà di reclamo, ad opera dell'art. 18-ter ord. pen., inserito dalla legge 8 aprile 2004, n. 95, anche a seguito di numerose decisioni della Corte EDU (v., tra le tante, sentenze del 23 febbraio 1993 e del 28 settembre 2000, Messina c. Italia, del 15 novembre 1996, Domenichini c. Italia e del 26 luglio 2001, Di Giovine c. Italia).

Ne consegue che non può essere disposta dall'autorità giudiziaria l'apprensione in forma occulta del contenuto della corrispondenza dei detenuti (neppure di quelli sottoposti al regime dell'art. 41-bis ord. pen.), posto che, a norma dell'art. 38, comma decimo, reg. ord. pen. (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), ovverosia già anteriormente alle modifiche recate dalla predetta legge n. 95 del 2004, il detenuto doveva essere "immediatamente informato che la corrispondenza è stata trattenuta", e analogamente ora dispone l'art. 18-ter, comma quinto, ord. pen.

In considerazione della peculiare regolamentazione del sequestro di corrispondenza epistolare, non può essere condiviso l'assunto secondo cui la disciplina dell'art. 266 cod. proc. pen., sia applicabile "in via analogica" anche ad essa (sia o non riferibile a soggetto detenuto o internato).

In base all'art. 15 Cost., la libertà e la segretezza della corrispondenza può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria "con le garanzie stabilite dalla legge": in materia presidiata dalla riserva di legge e di giurisdizione, non è consentita interpretazione analogica o estensiva di discipline specificamente dettate per singoli settori, quale quella di cui agli artt. 266 e ss. cod. proc. pen., che, particolarmente, si riferisce alle intercettazioni "di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre forme di telecomunicazione".

La riprova si rinviene nella significativa presa di posizione del Governo, delegato alla emanazione del codice di procedura penale, che aveva rilevato che la direttiva 41 della leggedelega aveva individuato una specifica ratio di garanzia per le forme di intercettazione che presuppongono la "comunicazione orale e in itinere, non per forme che si traducono in intercettazioni statiche e cioè dei risultati delle comunicazioni".

D'altronde, come puntualmente rilevato nell'ordinanza di rimessione, al fine di rendere possibile le intercettazioni di comunicazioni "informatiche o telematiche", non espressamente considerate dalla disciplina codicistica, il legislatore aveva ritenuto necessaria una specifica innovazione normativa, culminata con l'introduzione dell'art. 266-bis cod. proc. pen.

Va infine soprattutto considerato che, con specifico riferimento alle intercettazioni di "corrispondenza postale che non interrompono il corso della spedizione", nel corso della XV Legislatura era stato presentato un d.d.l. governativo (C. 1638) che, nella riformulazione della Commissione Giustizia (seduta del 25 gennaio 2007), estendeva a tale materia (con la introduzione di un art. 266-ter) la disciplina dell'art. 266 e ss. cod. proc. pen.; e tale testo venne approvato dalla Camera dei deputati il 17 aprile 2007 (v. Stampato Camera n. 1638), senza peraltro che sfociasse poi in legge.

Né può ammettersi il ricorso a forme di intercettazioni interessanti la corrispondenza epistolare evocandosi la categoria della "prova atipica" (art. 189 cod. proc. pen.) non vietata dalla legge: è al contrario proprio questa la situazione ostativa - quella della prova vietata dalla legge - che caratterizza la fattispecie in esame, perchè l'acquisizione della copia della corrispondenza deve ritenersi vietata ove non preceduta dalle formalità e dal rispetto delle competenze stabilite dall'ordinamento penitenziario per l'apposizione del visto di controllo.

Infatti, anche prescindendo dalla tematica della inutilizzabilità della prova acquisita in violazione di norme costituzionali di garanzia (c.d. "prove incostituzionali"; v. Corte cost., sent. n. 81 del 1993; Sez. U, n. 21 del 13/07/1998, Gallieri, Rv. 211196), l'art. 189 cod. proc. pen., che evoca le c.d. "prove atipiche", "presuppone logicamente la formazione lecita della prova e soltanto in questo caso la rende ammissibile" (Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234270).

Nel caso di specie "non può considerarsi non disciplinata dalla legge la prova basata su un'attività che la legge vieta" e, cioè, l'acquisizione del contenuto di corrispondenza di detenuti (ma lo stesso dovrebbe dirsi con riferimento a qualsivoglia tipologia e contesto di corrispondenza epistolare) al di fuori delle formalità e competenze previste tassativamente dalla legge.

PROCEDIMENTI SPECIALI.

Una serie interessantissima di pronunce ha riguardato il rito abbreviato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Giudizio abbreviato: proponibilità dell'eccezione di incompetenza territoriale.

Sez. U, Sentenza n. 27996 del 29/03/2012, dep. 13/07/2012, Rv. 252612, Forcelli ha affermato che l'eccezione di incompetenza territoriale è proponibile "in limine" al giudizio abbreviato non preceduto dall'udienza preliminare, mentre, qualora il rito alternativo venga instaurato nella stessa udienza, l'incidente di competenza può essere sollevato, sempre "in limine" a tale giudizio, solo se già proposto e rigettato in sede di udienza preliminare.

La Corte ha affrontato la questione - in un caso in cui il giudizio abbreviato era stato chiesto, con contestuale eccezione di incompetenza per territorio, in seguito all'emissione del decreto di giudizio immediato - se in detto giudizio abbreviato, non preceduto da udienza preliminare, sia proponibile l'eccezione di incompetenza per territorio.

L'orientamento maggioritario si era rivelato per la prima volta attraverso Sez. 6 n. 44726 del 18 settembre 2003, dep. 20 novembre 2003, Ninivaggi, Rv. 227715, la quale aveva affermato che nel giudizio abbreviato introdotto in corso di udienza preliminare non è proponibile l'eccezione di incompetenza per territorio, poiché la materia, attesa l'inapplicabilità del comma primo dell'art. 491, è regolata dal comma secondo dell'art. 21 cod. proc. pen., il quale impone che l'eccezione sia proposta prima della conclusione dell'udienza preliminare.

Ne consegue che la questione prospettata per la prima volta dopo l'introduzione del rito speciale va considerata tardiva, mentre quella già proposta e respinta durante l'udienza preliminare costituisce mera reiterazione di eccezione già definita ed è dunque inammissibile (espressamente i giudici di legittimità hanno affermato che sull'eccezione «si è formato il giudicato»).

La Corte nell'occasione ha osservato altresì che, data l'inammissibilità dell'eccezione a carattere reiterativo, la parte non sarebbe gravata dall'onere di riproporla nel giudizio abbreviato, a fini di sindacato della competenza nelle fasi successive del giudizio.

Secondo la sentenza Niniviaggi, dunque, nel rito in cui sia contemplata l'udienza preliminare, l'imputato avrebbe l'onere di sollevare l'incidente di competenza anche per conservare la facoltà di sottoporre successivamente, in caso di decisione negativa sul punto, la medesima questione all'attenzione del giudice dell'appello.

Lo stesso imputato non avrebbe invece l'onere di ribadire l'eccezione di incompetenza territoriale nel giudizio abbreviato, perché le cadenze dettate in proposito per il dibattimento dall'art. 491 cod. proc. pen. riguarderebbero solo quest'ultima fase e non sarebbero traslabili in detto giudizio (in proposito la pronunzia in commento si pone consapevolmente in conflitto con la sentenza Angeli, le cui conclusioni espressamente critica).

È invece con Sez. 6, n. 33519 del 4 maggio 2006, dep. 5 ottobre 2006, Acampora, Rv. 234392, che l'orientamento maggioritario inizia a consolidarsi e, soprattutto, ad assumere, sotto il profilo argomentativo, la sua forma definitiva. Infatti la sentenza Acampora, riprendendo il dictum delle Sezioni Unite Tammaro, ne ha sviluppato l'affermazione secondo cui la scelta del giudizio abbreviato comporta la rinunzia a far valere le invalidità (non assolute) e le inutilizzabilità (non patologiche) degli atti a contenuto probatorio, rilevando come tale "regula iuris", in ragione della connotazione assunta dal rito a seguito della riforma del 1999, debba essere estesa anche «agli atti processuali propulsivi e introduttivi del rito inficiati da nullità intermedie e alle eccezioni sulla competenza territoriale, che per il regime ad essi riconosciuto rientrano nella "sfera di disponibilità degli interessati"».

Per la Corte, insomma, l'imputato «abdica alle nullità intermedie nel richiedere di essere giudicato con un rito le cui regole e articolazioni processuali escludono la deducibilità di nullità a regime intermedio verificatesi nelle fase anteriori, con eccezione di quelle assolute».

Affermazione che secondo i giudici di legittimità trova il suo fondamento nel principio espresso dall'art. 183, lett. a), cod. proc. pen., disposizione «che normativizza la sanatoria delle nullità mediante la rinuncia "per facta concludentia" che si configura nella esplicita e consapevole richiesta di un rito governato da regole diverse rispetto a quelle dell'ordinario dibattimento e la cui prima deroga è la mancanza del segmento processuale dedicato alla trattazione e risoluzione delle "questioni preliminari"».

Quella dettata dall'art. 183 cod. proc. pen. è poi, secondo la sentenza Acampora, regola di sistema che non può non riguardare tutte le questioni proponibili o già dedotte e decise nell'udienza preliminare e prima fra tutte, per l'appunto, quella relativa alla competenza territoriale, «il cui regime è modellato su quello delle nullità intermedie».

Pertanto, conclude la sentenza in commento, posta la rinunciabilità dell'eccezione di incompetenza, una volta richiesto ed ammesso il rito abbreviato ed attesa la sua alternatività a quello ordinario, la stessa diventa inammissibile anche se in precedenza proposta e già decisa in senso negativo.

Le conclusioni e le motivazioni della sentenza Acampora erano state successivamente condivise e recepite in maniera tralaticia da Sez. 6, n. 4125 del 17 ottobre 2006, dep. 1 febbraio 2007, Cimino, Rv. 235600; Sez. 6, n. 37170 del 15 aprile 2008, dep. 30 settembre 2008, Cona, Rv. 241208; Sez. 1, n. 37623 del 17 settembre 2008, dep. 3 ottobre 2008, confl. comp. in proc. Luzzi, Rv. 241141; Sez. 4, n. 2841 del 20 novembre 2008, dep. 22 gennaio 2009, Greco, Rv. 242493; Sez. 6, n. 19825 del 13 febbraio 2009, dep. 9 maggio 2009, Balmane, Rv. 243850; Sez. 1, n. 22750 del 13 maggio 2009, dep. 3 giugno 2009, Calligaro, Rv. 244111; Sez. 1, n. 38388 del 18 settembre 2009, dep. 1 ottobre 2009, Romeo, Rv. 244746; Sez. 1, n. 10399 del 13 gennaio 2010, dep. 16 marzo 2010, Amendola, Rv. 246352; Sez. 5, n. 1937 del 15 dicembre 2010, dep. 21 gennaio 2011, Dalti, Rv. 249100; Sez. 5, n. 3035 del 2 dicembre 2010, dep. 27 gennaio 2011, Aouani, Rv. 249704; Sez. 5, n. 7025 del 10 dicembre 2010, dep. 23 febbraio 2011, Bellacanzone, Rv. 249833.

L'orientamento favorevole all'ammissibilità dell'incidente di competenza nel giudizio abbreviato si era manifestato nuovamente dopo una lunga pausa con la più recente Sez. 1, n. 34686 del 5 luglio 2011, dep. 23 settembre 2011, Bega, Rv. 251135, relativa ad un caso in cui l'imputato aveva tempestivamente sollevato l'incidente di competenza nell'udienza preliminare senza esito e successivamente aveva richiesto l'accesso al giudizio abbreviato nel quale aveva ribadito l'eccezione di incompetenza territoriale del giudice adito. La sentenza Bega, nella sua articolata motivazione, si impegna in una dettagliata confutazione degli argomenti utilizzati nelle pronunzie che si riconoscono nell'orientamento maggioritario ed in proposito rileva che:

a) il difetto nel rito alternativo del segmento processuale dedicato nel dibattimento alla soluzione delle questioni preliminari sia carattere eccessivamente enfatizzato in tali pronunzie, trattandosi di conseguenza inevitabile della differenza strutturale esistente tra i due riti e non può di per sé costituire argomento sufficiente a respingere la tesi per cui, una volta compiute le formalità sulla costituzione delle parti, possano nel giudizio abbreviato essere proposte questioni pregiudiziali, ben potendosi imputare l'assetto normativo descritto all'intenzione del legislatore di non ritenere necessario, in un rito agile come quello a prova contratta, fissare per le questioni preliminari rigide scansioni procedimentali a contenuto preclusivo;

b) non si rinviene alcun dato normativo, testuale o sistematico che sia, da cui ricavare la regola per cui l'imputato, per poter essere giudicato dal giudice naturalmente competente, debba rinunziare ai riti alternativi;

c) anzi entrambe le opzioni vantano copertura costituzionale, atteso che l'accesso ai riti alternativi attiene all'esercizio del diritto di difesa, mentre perfino la tendenza dell'ordinamento a radicare la competenza per territorio nel luogo di manifestazione del reato è espressione del principio del giudice naturale precostituito per legge, come affermato più volte dal giudice delle leggi ed anche da Sezioni Unite Orlandelli, mentre la stessa Consulta (con la sentenza n. 70 del 1996) ha stigmatizzato come lesivo del diritto di difesa un sistema che, a seguito dell'erronea individuazione del giudice territorialmente competente a celebrare l'udienza preliminare, impedisca in ipotesi all'imputato di accedere al giudizio abbreviato davanti al giudice naturale.

Posti questi rilievi (che sostanzialmente riprendono e sviluppano le motivazioni della sentenza La Perna e, in parte, quelli delle pronunzie conformi che l'avevano preceduta) la sentenza Bega ammetteva però (recependo l'impostazione tracciata dalle Sezioni Unite Tammaro e sviluppata dalle Sezioni Unite Cieslinsky) che la richiesta di giudizio abbreviato implichi rinunzia a far valere nel rito le inutilizzabilità fisiologiche e relative, determinando anche un effetto sanante ex art. 183 cod. proc. pen. delle nullità intermedie, arrivando a convenire altresì che l'effetto abdicativo opererebbe perfino in relazione all'incidente sulla competenza territoriale sollevato per la prima volta nel corso del rito alternativo.

Ma la convergenza con l'orientamento maggioritario si interrompeva a questo punto, rilevando i giudici della prima sezione che tale effetto abdicativo non può prodursi allorchè la proposizione nel giudizio abbreviato dell'eccezione di incompetenza territoriale rappresenti la mera reiterazione di identica eccezione già sollevata e respinta nel corso dell'udienza preliminare.

E ciò in quanto in tal caso il comportamento tenuto dall'imputato risulta incompatibile con la "presunta" volontà del medesimo di accettare lo stravolgimento delle regole sul giudice naturale che si vorrebbe intrinseca alla sua scelta di aderire al rito alternativo.

Per la sentenza Bega, dunque, la richiesta di accesso all'abbreviato comporta una tacita rinunzia a contestare la competenza territoriale del giudice adito, con la conseguenza che la relativa eccezione è inammissibile nel rito, a meno che l'incidente di competenza non sia già stato sollevato e deciso con esito negativo anche prima dell'introduzione del rito medesimo, nel qual caso l'eccezione diviene ammissibile e deve pertanto essere decisa dal giudice dell'abbreviato.

Da ultimo l'orientamento in esame era stato riproposto da Sez. 2 n. 39756 del 5 ottobre 2011, dep. 4 novembre 2011, Ciancimino, Rv. 251196, che esplicitamente aderiva alle conclusioni cui era approdata la sentenza Bega mutuandone il percorso argomentativo.

Orbene le Sezioni Unite, in tale panorama, si sono preoccupate anzitutto di verificare la tenuta delle proposizioni che in qualche modo, e piuttosto confusamente, avevano sostenuto la tesi della inammissibilità mediante riferimenti agli «effetti negoziali» della domanda di accesso al rito speciale.

È vero - si è osservato - che deve ritenersi preclusa, nel giudizio abbreviato, la deduzione e la rilevazione di vizi «non assoluti», e dunque delle nullità a carattere relativo od intermedio, oltre che delle cd. inutilizzabilità relative o fisiologiche. Ed è vero che l'orientamento si fonda per un verso sulla portata abdicativa della richiesta e per l'altro sul carattere disponibile degli interessi tutelati dalle norme presidiate mediante la sanzione processuale.

Secondo la Corte, dalle analogie tra apparati sanzionatori non può desumersi una sorta di indifferenza dell'oggetto delle regole prese in considerazione, dato appunto che la disciplina della competenza concorre ad assicurare il diritto costituzionalmente rilevante ad essere giudicati dal giudice naturale, e non semplicemente la conformità di determinati atti processuali al relativo modello legale.

Una soluzione interpretativa idonea - come quella censurata - ad imporre (almeno in certi casi) l'alternativa tra diritto di accesso al rito (propriamente qualificato quale «diritto», ancora una volta, dalla giurisprudenza costituzionale) e diritto al giudice naturale risulterebbe incompatibile, in sostanza, con diversi parametri costituzionali.

Nella stessa prospettiva d'una presunta «abdicazione» connessa alla domanda di giudizio abbreviato si inseriva l'argomento fondato sulle sanatorie generali di cui all'art. 183 del codice di rito.

Al riguardo le Sezioni unite danno per scontato che la legge limita l'effetto sanante, sul piano della rinuncia ad eccepire, alle manifestazioni di volontà concretate « espressamente ». Alla mera domanda di essere giudicati mediante il rito speciale neanche potrebbe connettersi un significato di «accettazione degli effetti», non foss'altro perché - si aggiunge qui per inciso - la spiegazione darebbe per dimostrato ciò che dovrebbe dimostrare.

Dunque la Corte si limita ad osservare che la rinuncia a far valere la sanzione processuale, quando maturi "per facta concludentia", deve essere inoppugnabilmente desumibile dal comportamento dell'interessato, ciò che non può dirsi «a maggior ragione» quanto alle questioni di competenza territoriale.

2. Giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria impossibile.

Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, dep. 24/10/2012, Rv. 253211 e Rv. 253212, Bell'Arte ed altri (già citata) hanno affermato un importante principio di diritto. Nel ribadire che l'ordinanza di ammissione del giudizio abbreviato non può essere revocata salvo che nell'ipotesi espressamente disciplinata dall'art. 441-bis cod. proc. pen., hanno stabilito che (v. Rv. 253211), l'ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria non è revocabile nel caso in cui l'acquisizione della prova dedotta in condizione divenga impossibile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte, atteso che il vincolo di subordinazione insito nella richiesta condizionata è utilmente assolto con l'instaurazione del rito e con l'ammissione della prova sollecitata dall'imputato.

La questione controversa esaminata dalla Corte riguardava se l'ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria sia o meno revocabile nel caso in cui la condizione cui il rito è stato subordinato si riveli non realizzabile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte e l'imputato nè reiteri la richiesta di rito abbreviato incondizionato nè chieda il rito ordinario.

In argomento, in assenza di una espressa previsione normativa, l'ordinanza dispositiva del rito era stata sempre considerata irrevocabile nella vigenza dell'originaria disciplina dell'abbreviato (Sez. 1 n. 5352 del 14 aprile 1993, dep. 26 maggio 1993, Sammartino, Rv. 194216-194217). Successivamente alla riforma del 1999, l'irrevocabilità del provvedimento introduttivo del rito, salvo quando espressamente prevista, era stata costantemente ribadita dalla Suprema Corte.

Con riguardo all'abbreviato instaurato nella modalità non condizionata, Sez. 1 n. 25858 del 15 giugno 2006, dep. 25 luglio 2006, conf. comp. in proc. Miccio, Rv. 235260 aveva ad esempio precisato che la possibilità di revocare l'ammissione al rito non insorge nemmeno nel caso in cui l'imputato abbia a sua volta revocato la relativa richiesta, trattandosi di facoltà non attribuitagli dall'ordinamento processuale se non che nell'ipotesi disciplinata dall'art. 441-bis cod. proc. pen.

Quanto all'abbreviato condizionato, il principio della non retrocedibilità del rito era stata affermata invece da: Sez. 1 n. 33965 del 17 giugno 2004, dep. 9 agosto 2004, Gurliaccio, Rv. 228707; Sez. 1 n. 17317 del 11 marzo 2004, dep. 14 aprile 2004, Pawlak, Rv. 228652; Sez. 6 n. 21168 del 28 marzo 2007, dep. 29 maggio 2007, Argese, Rv. 237081; Sez. 1 n. 32905 del 9 luglio 2008, dep. 5 agosto 2008, De Silva, Rv. 240683; Sez. 3 n. 9921 del 12 novembre 2009, dep. 11 marzo 2010, Majouri, Rv. 246326; Sez. 1 n. 27578 del 23 giugno 2010, dep. 15 luglio 2010, confl. comp. in proc. Azouz, Rv. 247733, le quali indistintamente facevano riferimento anch'esse alla mancata previsione, salvo che nell'ipotesi disciplinata dal citato art. 441-bis, del potere del giudice di disporre la revoca del provvedimento ammissivo.

Ed in proposito le richiamate pronunzie concludevano nel senso illustrato sia nel caso in cui la revoca fosse stata disposta unilateralmente dal giudice, sia quando invece tale decisione fosse stata assunta su implicita sollecitazione dell'imputato che aveva dichiarato di rinunziare al rito.

La giurisprudenza di legittimità era poi unanimemente schierata nel senso di ritenere irrilevante la sopravvenuta impossibilità di assunzione dell'integrazione probatoria cui l'imputato abbia subordinato la richiesta di accesso all'abbreviato condizionato, ritenendo che non fosse configurabile in tal caso un diritto del medesimo ad ottenere la retrocessione del rito e tantomeno un potere del giudice di disporla.

In realtà la questione aveva costituito lo specifico oggetto di solo due pronunzie, entrambe evocate dai giudici rimettenti. Con la prima (Sez. 2 n. 15117 del 2 aprile 2007, dep. 13 aprile 2007, Polverino, Rv. 236391), era stato ritenuto legittimo il provvedimento di revoca dell'assunzione dell'integrazione probatoria adottato dal giudice dell'abbreviato condizionato una volta registrata l'impossibilità di procedere a tale assunzione.

In proposito l'imputato aveva eccepito che l'impossibilità di soddisfare la condizione apposta avrebbe dovuto determinare la retrocessione del rito e comunque l'inutilizzabilità delle dichiarazioni originariamente rese dal teste nel corso delle indagini preliminari.

La Corte aveva ritenuto manifestamente infondata l'eccezione invocando innanzi tutto la tassatività dei casi in cui poteva essere disposta la revoca del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato, ricordando dunque come, al di fuori dell'ipotesi disciplinata espressamente dall'art. 441-bis cod. proc. pen., un atto di tal genere dovesse ritenersi illegittimo.

L'altra pronunzia meritevole di attenzione era quella resa da Sez. 1 n. 13544 del 22 gennaio 2009, dep. 27 marzo 2009, Xie, Rv. 243130, la quale, richiamando altresì il "dictum" della sentenza Polverini, si limitava a rilevare come l'obiettiva impossibilità di assumere l'integrazione probatoria non fosse causa di nullità del giudizio abbreviato ritualmente celebrato a seguito della richiesta avanzata dal ricorrente, non essendo consentito al giudice revocare d'ufficio l'ammissione al rito solo perché l'integrazione probatoria non può avere luogo per circostanze imprevedibili e sopraggiunte.

Orbene, in tale panorama giurisprudenziale, le Sezioni Unite hanno ribadito la soluzione sostanzialmente consolidata, motivandola sotto più versanti. Per il Supremo Collegio «il giudizio abbreviato condizionato e quello semplice rappresentano modalità differenziate di sviluppo di un unico modello processuale e non espressione di istituti diversi».

I fatti imprevedibili e sopravvenuti all'introduzione del rito non esplicano alcuna influenza sui presupposti costituenti l'oggetto della condizione dedotta dall'imputato per accedervi e sulla verifica effettuata dal giudice per ammetterlo, poiché, al di fuori delle ipotesi espressamente regolate dalla legge attraverso l'art. 441 bis, comma 4, cod. proc. pen., norma quest'ultima di chiaro carattere eccezionale, l'ordinamento non contempla la possibilità di revocare il giudizio abbreviato. Sicché, per le Sezioni Unite, «il richiamo del canone ermeneutica "ubi voluit dixit", assume in tale contesto una precisa e significativa valenza».

Detta soluzione «non si pone in conflitto neppure, sotto un profilo logico – sistematico, con la pregressa valutazione di necessità ai fini della decisione compiuta dal giudice nell'ambio dell'ordinanza che ammetta il rito. L'ostacolo obiettivo all'acquisizione della prova opera, infatti, in ugual misura per il giudice dinanzi al quale si celebra il rito abbreviato e per quello del dibattimento dinanzi al quale il giudizio dovrebbe svolgersi».

Né detta opzione interpretativa contrasta con i principi generali, né menoma i diritti dell'imputato, non violando l'art. 111, comma quinto, Cost., come ribadito anche da Corte Cost., ord. n. 326 del 2001, né l'art. 3 Cost., alla luce delle palese diversità tra rito ordinario e rito abbreviato.

In particolare, la dedotta violazione dell'art. 111, quarto comma, Cost. si rivelerebbe insussistente, posto che il "consenso" all'utilizzazione degli atti di indagine, insito nella richiesta di giudizio abbreviato, ricade nell'ambito delle ipotesi di deroga al principio di formazione della prova in contraddittorio considerata dal quinto comma dello stesso art. 111, con la conseguente esclusione di ogni contrasto tra la nuova disciplina dell'abbreviato e i principi del "giusto processo". L'affermazione di principio, infine, ben si armonizza con i principi espressi dalla CEDU (Corte EDU 30 novembre 2000, Kwiatkowska; Corte EDU 18 ottobre 2006, Hermi c. Italia; Corte EDU 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia).

3. Pena da irrogare all'esito del giudizio abbreviato.

Sez. U, n. 34233 del 19/04/2012, dep. 07/09/2012, Rv. 252932, Giannone, ha affermato che in caso di condanna all'esito del giudizio abbreviato, la pena da infliggere per i reati astrattamente punibili con l'ergastolo è quella prevista dalla legge vigente nel momento della richiesta di accesso al rito: ne consegue che, ove quest'ultima sia intervenuta nel vigore dell'art. 7 d.l. n. 341 del 2000, va applicata (ed eseguita) la sanzione prevista da tale norma. In tal caso la legge intermedia più favorevole non trova applicazione quando la richiesta di accesso al rito speciale non sia avvenuta durante la vigenza di quest'ultima, ma soltanto successivamente, nel vigore della legge posteriore che modifica quella precedente.

La questione di diritto per la quale il ricorso era stato assegnato alle Sezioni Unite atteneva al se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, possa sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole.

Il caso processuale riguardava, in particolare, reati addebitati che, in quanto astrattamente punibili con la pena dell'ergastolo e dell'isolamento diurno ex art. 72 c.p., non potevano essere giudicati, all'epoca della loro consumazione (sino al 1 giugno 1999), con il rito abbreviato, considerato che tale possibilità, pur prevista originariamente dall'art. 442 c.p.p., comma 2, secondo periodo, era stata esclusa a seguito della declaratoria d'incostituzionalità - per eccesso di delega - di tale disposizione.

Durante la fase delle indagini preliminari, entrava in vigore - il 2 gennaio 2000 - la Legge 16 dicembre 1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1, lett. b), reintroduceva la possibilità del giudizio abbreviato per i reati punibili con l'ergastolo, stabilendo genericamente che, in caso di condanna, la pena perpetua (senza o con isolamento diurno) doveva essere sostituita con quella temporanea di anni trenta di reclusione.

Successivamente entrava in vigore il d.l. 24 novembre 2000, n. 341, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica al secondo periodo dell'art. 442 c.p.p., comma 2, disponeva che l'espressione "pena dell'ergastolo" ivi adoperata dovesse intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno ed inseriva all'interno della stessa disposizione un terzo periodo, secondo il quale "alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, in caso di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo".

Quando veniva celebrata l'udienza preliminare, era già entrata in vigore quest'ultima normativa, e l'imputato, in data 19 agosto 2002, aveva avanzato richiesta di giudizio abbreviato, pervenuta al g.u.p. l'11 settembre successivo.

Il g.u.p. del tribunale la corte di assise di appello, nell'infliggere la pena dell'ergastolo, facevano applicazione della legge vigente (d.l. n. 341 del 2000, art. 7) non solo al momento di tali pronunce ma sin da quando l'interessato aveva avanzato richiesta di accesso al giudizio abbreviato.

Sicché le Sezioni Unite hanno osservato che il caso in esame è ben diverso da quello deciso con la sentenza della Corte EDU 17/09/2009, Scoppola c. Italia, in cui l'accesso al rito abbreviato era stato richiesto durante la vigenza della legge più mite n. 479 del 1999, con realizzazione della fattispecie complessa in tutte le sue componenti e conseguente diritto dell'interessato all'applicazione e all'esecuzione, in forza dell'art. 7 CEDU, della pena più favorevole di trenta anni di reclusione in luogo dell'ergastolo con isolamento diurno, non potendo spiegare effetti la successiva modifica legislativa in senso più severo.

In relazione alla posizione del ricorrente, invece, non entra in gioco il principio della retroattività o della "ultrattività in mitius", difettandone i relativi presupposti operativi. Così ricostruita la questione, le Sezioni Unite hanno affermato che non vi sono ragioni che rivelano l'infondatezza dell'incidente di esecuzione proposto dal ricorrente non sussistendo «alcun problema di diritto intertemporale per individuare, con riferimento ai reati addebitati al condannato e giudicati col rito semplificato, la specie e l'entità della pena in coerenza con le regole insite nel principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, che ravvisa un nuovo profilo di tutela in tale principio: non solo la irretroattività della legge penale più severa, previsione già contenuta nell'art. 25 Cost., comma 2, ma anche, e implicitamente, la retroattività della "lex mitior", nella misura in cui va ad incidere sulla configurabilità del reato o sulla specie e sull'entità della pena e, quindi, su diritti fondamentali della persona... In sostanza, per quanto qui interessa, non può aversi riguardo soltanto alla data di commissione dei reati e ai successivi interventi legislativi in materia di pena da infliggere in caso di giudizio abbreviato, ma tali dati fattuali e normativi, per assumere rilievo ai fini della decisione, devono necessariamente integrarsi con le peculiarità del rito speciale alternativo. Non va sottaciuto, infatti, che gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato sono strettamente collegati con aspetti sostanziali, dovendosi tali ritenere quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena, profilo questo che si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore».

Alla luce di tale assunto secondo la Corte correttamente il giudice della cognizione, nell'affermare la responsabilità dell'imputato in relazione ai reati ascrittigli, punibili - in astratto - con l'ergastolo e l'isolamento diurno ex art. 72 c.p., ha inflitto al predetto la pena dell'ergastolo semplice, in applicazione dell'art. 442 c.p.p., comma 2, ultimo periodo, così come introdotto dal d.l. n. 341 del 2000, art. 7, essendo quest'ultima norma, infatti, già in vigore quando fu formulata la richiesta di giudizio abbreviato. Pertanto, in sintesi, le Sezioni Unite hanno enunciato i seguenti principi di diritto:

- «La pena da infliggere per i reati punibili astrattamente con l'ergastolo, in caso di condanna all'esito del giudizio abbreviato, è quella prevista dalla legge vigente al momento della richiesta di accesso a tale rito semplificato, con l'effetto che, ove tale scelta processuale intervenga nel vigore del D.L. n. 341 del 2000, art. 7, è la sanzione da tale norma prevista che deve essere legittimamente applicata ed eseguita»;

- «Tra le diverse leggi succedutesi nel tempo, che prevedono la specie e l'entità della pena da infliggere all'imputato, in caso di condanna nell'ambito del giudizio abbreviato, per i reati astrattamente punibili con l'ergastolo, non può applicarsi la legge intermedia più favorevole, se durante la sua vigenza non sia stato chiesto l'accesso ai rito speciale, ma tale scelta processuale sia intervenuta soltanto successivamente, nel vigore della legge posteriore che modifica quella precedente».

4. Questione di legittimità costituzionale in tema di ergastolo.

Sez. U, ord. n. 34472 del 19/04/2012, dep. 10/09/2012, Rv. 252934, Ercolano hanno affermato il principio così massimato: «Il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e circoscriverne temporalmente, in contrasto con la sua "ratio" ispiratrice, l'area operativa, perchè finirebbe in tal modo per disapplicarla, mentre l'autorità imperativa e generale della legge gli impone di adeguarvisi, il che delinea il confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale. (In applicazione del principio la S.C. ha dichiarato d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli articoli 3 e 117, comma primo, della Costituzione - quest'ultimo in relazione all'articolo 7 della Convenzione EDU-, "nella parte in cui le disposizioni interne operano retroattivamente, e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 - pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7 giugno 1923 -, era entrato in vigore il citato D.L., con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto", ritenendo impraticabile un'interpretazione della predetta normativa interna conforme all'articolo 7 Convenzione EDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo)».

La questione di diritto per la quale il ricorso era stato assegnato alle Sezioni Unite era analoga a quella sottoposta al Supremo Collegio per la sentenza Giannone e concerneva, quindi, il se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, possa sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole. La Corte di Cassazione ha deciso di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale.

A tal fine premette che la sentenza della Corte EDU, G.C., 17/09/2009, Scoppola c. Italia, che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati sostanziali di una "sentenza pilota", in quanto «pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque l'esistenza, all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU del d.l. n. 341 del 2000, art. 7 nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna».

Al paragrafo 147 la detta pronuncia, infatti, ribadisce quanto testualmente affermato da Corte EDU, Broniowski, e cioè che «in forza dell'art. 46, le parti si sono impegnate a rispettare le sentenze definitive della Corte in ogni caso in cui sono state parti (...). Da ciò consegue, "inter alia", che una sentenza nella quale la Corte ha individuato una violazione impone allo Stato resistente un obbligo legale non solo di pagare alle persone indicate dalla Corte le somme da questa stabilite a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell'art. 41, ma anche di individuare, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri, le misure generali e, se necessario, individuali da adottare nell'ordinamento giuridico interno per porre fine alla violazione accertata dalla Corte e per eliminare per quanto possibile gli effetti…. La Corte europea ritiene che l'art. 442 cod. proc. pen., nella parte in cui indica la misura della pena da infliggere in caso di condanna all'esito di giudizio abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale, che soggiace alle regole sulla retroattività di cui al menzionato art. 7 CEDU. Ne consegue la violazione di quest'ultima norma nel caso in cui non venga inflitta all'imputato la pena più mite tra quelle previste dalle diverse leggi succedutesi dal momento del fatto a quello della sentenza definitiva».

Sulla base di tale quadro normativo già illustrato nel paragrafo che precede a proposito della sentenza Giannone, le Sezioni Unite osservano che «la Corte di Strasburgo, negando il carattere di norma interpretativa del d.l. n. 341 del 2000 (art. 7) ritiene che l'imputato, essendo stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell'art. 7 CEDU così come interpretato, a vedersi infliggere la pena di anni trenta di reclusione, più mite rispetto sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) dall'art. 442 cod. proc. pen. nel testo vigente al momento della commissione del fatto, sia a quella prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dal d.l. n. 341 del 2000, art. 7, in vigore al momento del giudizio. E' indubbio che tale precedente sovranazionale, censurando il meccanismo processuale col quale si allega efficacia retroattiva al d.l. n. 341 del 2000, art. 7, comma 1, qualificato come norma d'interpretazione autentica del testo dell'art. 442 cod. proc. pen. come modificato dalla legge n. 479 del 1999, enuncia, in linea di principio, una regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata e, quindi, anche al caso che interessa l'attuale ricorrente, il quale, avvalendosi della riapertura dei termini, aveva chiesto e ottenuto, nel corso del giudizio d'appello (udienza 12/06/2000) e nel vigore della lex mitior n. 479 del 1999, l'accesso al giudizio abbreviato, ma la Corte di assise di appello gli aveva riservato il più rigoroso trattamento sanzionatorio previsto dal d.l. n. 341 del 2000, entrato in vigore prima della conclusione del giudizio».

Ed ancora, significativamente: «Se dunque al nuovo e più ampio profilo di tutela del principio di legalità convenzionale in materia penale enunciato dalla Corte EDU, all'esito dell'approfondita operazione ermeneutica dell'art. 7 CEDU, deve attribuirsi una valenza generale e, conseguentemente, un effetto vincolante per la soluzione di casi identici, è agevole trarre la conclusione che l'avere inflitto al ricorrente la pena dell'ergastolo, anziché quella di trent'anni di reclusione, sembra avere violato il suo diritto all'applicazione retroattiva (art. 7 CEDU) della legge penale più favorevole, violazione che inevitabilmente si riverbera, con effetti perduranti in fase esecutiva, sul diritto fondamentale della libertà. Una tale situazione, anche a costo di porre in crisi il "dogma" del giudicato, non può essere tollerata, perchè legittimerebbe l'esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della "species facti", illegittima dall'interprete autentico della CEDU e determinerebbe una patente violazione del principio di parità di trattamento tra condannati che versano in identica posizione».

S'impone, quindi, la verifica della compatibilità della normativa interna di riferimento e, più esattamente, del d.l. n. 341 del 2000, artt. 7 e 8 convertito in legge n. 4 del 2001, con il principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, nella interpretazione datane dalla Corte europea. In sostanza, il giudice ordinario non può risolvere il contrasto tra legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla Corte di Strasburgo, provvedendo egli stesso a disapplicare la prima, presupponendo ciò il riconoscimento di un primato delle norme contenute nella Convenzione e/o delle sentenze della Corte EDU, analogo a quello conferito al diritto dell'Unione Europea e alle sentenze della Corte di Giustizia, che incidono direttamente nell'ordinamento nazionale e possono determinare addirittura la disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti. Profilandosi un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, però, "il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica".

L'esito negativo di tale verifica e il contrasto non componibile in via interpretativa impongono al giudice ordinario - che non può disapplicare la norma interna nè farne applicazione, per il ritenuto contrasto con la CEDU e quindi con la Costituzione - di sottoporre alla Consulta la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117 Cost., comma primo, attraverso un rinvio pregiudiziale, con la conseguenza che l'eventuale operatività della norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, deve passare attraverso una declaratoria d'incostituzionalità della normativa interna di riferimento o, se del caso, l'adozione di una sentenza interpretativa o additiva. Competerà, inoltre, al Giudice delle leggi, ove accerti il denunciato contrasto tra norma interna e norma della CEDU, non risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda, che si colloca pur sempre ad un livello subcostituzionale, si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Carta fondamentale, ipotesi questa che condurrà ad escludere l'idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato.

La Corte ha dunque ritenuto che non vi fossero spazi per una interpretazione conforme alla Convenzione delle disposizioni del d.l. n. 341 del 2000, artt. 7 e 8 dalla cui applicazione è derivata e tuttora deriva la violazione del diritto fondamentale del condannato all'operatività della legge più favorevole (art. 7 CEDU), individuabile, nel caso specifico, nella legge n. 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b), il solo in vigore nell'arco temporale 2 gennaio-24 novembre 2000, quando cioè fu formulata e accolta la richiesta in data 12 giugno 2000 di accesso al rito abbreviato.

Tale violazione ha inciso in termini peggiorativi e con effetti perduranti sul trattamento sanzionatorio previsto, in caso di rito semplificato, per i reati punibili con la pena dell'ergastolo, sicchè «l'esito negativo della verifica circa la praticabilità di una interpretazione della normativa interna conforme all'art. 7 CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e l'insanabile contrasto tra dette norme a confronto impongono di sottoporre al Giudice delle leggi, non apparendo manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost. e art. 117 Cost.; comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU, del d.l. n. 341 del 2000, artt. 7 e 8 convertito dalla legge n. 4 del 2001, nella parte in cui tali disposizioni interne operano retroattivamente e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè era entrato in vigore il citato decreto legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto».

IMPUGNAZIONI.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Interesse ad impugnare.

Una pronuncia delle Sezioni Unite [SENT. Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011 (dep. 17/02/2012), Rv. 251693, Marinaj] ha riflettuto sulla nozione di interesse ad impugnare, affermando che, nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza - a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti - ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un'utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo.

Nel sistema processuale penale, infatti, la presenza di un interesse ad impugnare è espressamente richiesta dall'art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., che si atteggia a norma di carattere generale applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti "de libertate".

L'interesse come condizione dell'impugnazione e requisito soggettivo del relativo diritto è un principio da sempre immanente, per la sua ragionevolezza, nell'intero sistema processuale e ne integra un canone di carattere generale.

Il processo penale mira alla realizzazione di un unico interesse, tendenzialmente orientato alla conoscenza della verità, all'accertamento della norma eventualmente violata e all'attuazione della giustizia, intesa come affermazione del diritto oggettivo, sicché la nozione di soccombenza appare del tutto inidonea a descrivere in questo campo l'interesse ad impugnare.

Tale conclusione trova conferma nel rilievo che l'art. 570 cod. proc. pen. riconosce al Pubblico Ministero la facoltà di proporre impugnazione anche nel caso in cui la decisione abbia accolto le conclusioni da lui rassegnate nel procedimento a quo.

In prospettiva di sintesi, l'interesse ad impugnare con riferimento alle molteplici situazioni che caratterizzano il procedimento penale nelle sue varie articolazioni, non può essere ancorato semplicisticamente al concetto di soccombenza, che è proprio del sistema delle impugnazioni civili, ma deve essere costruito in chiave utilitaristica, nel senso che deve essere orientato a rimuovere un pregiudizio e ad ottenere una decisione più vantaggiosa rispetto a quella di cui si sollecita il riesame.

La medesima sentenza n. 6624 del 2012, in Rv. 251694, Marinaj ha ulteriormente affermato che, in materia di impugnazioni, la nozione della "carenza d'interesse sopraggiunta" va individuata nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, di un interesse all'impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, assorbendo la finalità perseguita dall'impugnante, o perché la stessa abbia già trovato concreta attuazione, ovvero in quanto abbia perso ogni rilevanza per il superamento del punto controverso.

Il rapporto processuale d'impugnazione, concepito come prosecuzione del rapporto processuale originario, inevitabilmente perde di significato e non può trovare ulteriore spazio, essendo intervenuto, per eventi verificatisi medio tempore, il superamento del punto controverso in conseguenza della "cristallizzazione" del rapporto giuridico di base.

L'interesse richiesto dall'art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità dell'esercizio del diritto d'impugnazione, deve essere connotato dai requisiti della concretezza e dell'attualità e deve sussistere non soltanto all'atto della proposizione dell'impugnazione, ma persistere fino al momento della decisione, perché questa possa potenzialmente avere una effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell'impugnazione (Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino; Sez. U, n. 20 del 20/10/1996, Vitale).

2. Declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela.

Le Sezioni Unite [Sent. Sez. U, n. 35599 del 21/06/2012 (dep. 17/09/2012) Rv. 253242, P.C. in proc. Di Marco] si sono pronunciate in materia di interesse ad impugnare della parte civile contro la declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela.

In argomento, risolvendo il contrasto giurisprudenziale formatosi all'interno delle sezioni semplici, è stato stabilito che «la parte civile è priva di interesse a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato per improcedibilità dell'azione penale dovuta a difetto di querela, trattandosi di pronuncia penale meramente processuale priva di idoneità ad arrecare vantaggio al proponente ai fini dell'azione civilistica».

Secondo un primo orientamento, più risalente nel tempo, era stato ritenuto inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione avanzato dalla parte civile allo scopo di rimuovere una sentenza di improcedibilità per mancanza di querela, in quanto tale pronuncia, non coinvolgendo il merito dei rapporti patrimoniali tra le parti, non impediva al giudice civile di conoscere senza vincoli le conseguenze dannose derivanti dal fatto.

Inoltre, la decisione oggetto del gravame, di carattere esclusivamente penale, non sarebbe stata nemmeno modificabile senza l'impugnazione del pubblico ministero, nè avrebbe potuto contenere alcuna statuizione sull'azione civile.

Questo indirizzo aveva ribadito l'analogo principio affermatosi sotto la vigenza del precedente codice di procedura penale del 1930, secondo cui "la parte civile non può ritenersi legittimata ad impugnare la pronuncia di improcedibilità per difetto di querela, che concerne esclusivamente l'azione penale e non incide sull'eventuale diritto al risarcimento dei danni. Non può in nessun caso essere ammesso un ricorso che sia volto a contestare esclusivamente la pronuncia di natura penale e non indichi un interesse di natura civile collegato al suo accoglimento".

Nella vigenza del nuovo codice di procedura penale l'avviso contrario alla ricorribilità è stato ulteriormente ribadito, affermando che la decisione di non doversi procedere per difetto di querela non può spiegare effetti pregiudizievoli nell'ambito dell'eventuale giudizio civile [Sez. 5, sentenza n. 36639 del 26/04/2005 (dep. 11/10/2005) Di Sevo, Rv. 232237; Sez. 5, sentenza n. 5373 dell'11/01/2008 (dep. 04/02/2008) Versienti, Rv. 239113; Sez. 5, sentenza n. 13312 del 08/02/2008 (dep. 28/03/2008) Baroni, Rv. 239388; Sez. 4, sentenza n. 45498 del 14/10/2008 (dep. 09/12/2008) Pirovano, Rv. 241758].

Secondo altro orientamento più recente, era stato ritenuto configurabile l'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di improcedibilità per mancanza di querela, atteso che la scelta di coltivare l'azione civile nel processo penale, spettante al danneggiato dal reato, rappresentava una determinazione che trovava tutela e riconoscimento nel vigente ordinamento giuridico, nè a tal fine poteva rilevare in senso impeditivo la circostanza che la pronuncia di improcedibilità non fosse vincolante nell'eventuale giudizio civile.

Difatti, sussiste comunque l'interesse del querelante, costituitosi parte civile, a perseguire il proposito di chiedere nel procedimento penale l'affermazione del diritto al risarcimento del danno [Sez. 5, sentenza n. 36640 del 27/04/2005 (dep. 11/10/2005) Morrione, Rv. 232338; Sez. 3, sentenza n. 26754 del 23/05/2008, Didier; Sez. 2, sentenza n. 24824 del 25/02/2009 (dep. 16/06/2009) Ferracini, Rv. 244335].

In particolare, nell'ordinanza di rimessione era stato evidenziato che l'assenza di preclusione per il giudizio civile assumeva una valenza sottordinata rispetto al principale interesse della parte civile a vedere affrontate nella sede penale le questioni di merito dalle quali dipendeva l'accoglimento della domanda di risarcimento [Sez. 5, n. 238 del 14/10/2011, (dep. 10/01/2012), Danieli, Rv. 251701].

Al riguardo era stata richiamata la motivazione della pronuncia delle Sezioni Unite n. 40049 del 29/05/2008 (dep. 28/10/2008) Guerra, Rv. 240815, la quale, in riferimento al caso dell'impugnazione della parte civile contro la decisione di proscioglimento dell'imputato con la formula "il fatto non costituisce reato", aveva affermato che "non è sufficiente il fatto che la sentenza di assoluzione non abbia effetto preclusivo dell'azione civile davanti al giudice civile per escludere automaticamente l'interesse della parte civile ad impugnarla per ottenere una pronuncia diversa e l'affermazione di responsabilità dell'imputato. Infatti, con la sua costituzione di parte civile nel giudizio penale, il danneggiato ha appunto inteso trasferire in sede penale l'azione civile di danno ed ha quindi interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto".

Nel dirimere il contrasto le Sezioni Unite hanno individuato i caratteri qualificanti dell'interesse a proporre impugnazione ai sensi dell'art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., ad opera delle parti processuali e, specificamente, della parte civile.

L'interesse deve essere apprezzabile non solo in termini di attualità ma anche di concretezza, nel senso che deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione del contesto pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa rispetto a quella determinatasi con la pronuncia giudiziale.

La concretezza dell'interesse è ravvisabile non solo quando l'impugnante, attraverso il gravame, si riprometta di conseguire effetti processuali diretti vantaggiosi, ma anche quando miri ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli, come quelli che l'ordinamento fa derivare dal giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione dell'imputato nei giudizi di danno (artt. 651, 652 cod. proc. pen.) o in altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 cod. proc. pen.).

In conclusione, l'impugnazione, per essere ammissibile, deve tendere all'eliminazione della lesione in concreto di un diritto o di un interesse giuridico del proponente l'impugnazione [Sez. U, sentenza n. 42 del 13/12/1995 (dep. 29/12/1995), Timpani, Rv. 203093; Sez. U, sentenza n. 40049 del 29/05/2008 (dep. 28/10/2008), Guerra, Rv. 240815].

In senso dirimente vanno esaminati, ai fini dell'interesse ad agire e della configurazione dei caratteri propri della iniziativa della parte civile che interviene nel processo penale per esercitare l'azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno, i rapporti in generale intercorrenti tra giudizio penale e giudizio civile, nonchè le connotazioni del procedimento civile instaurato nel processo penale.

Il sistema processuale ha adottato la regola, sia pure nell'ambito della riconosciuta unitarietà della giurisdizione, della separazione delle giurisdizioni civile e penale prevedendo solo alcune ipotesi tassative nelle quali il giudicato penale ha efficacia nel giudizio civile su determinati oggetti accertati o soltanto contro determinati soggetti (v. artt. 2, 3, comma quarto, 651, 652, 653, 654 cod. proc. pen.).

L'azione civile inserita nel processo penale assume carattere eventuale, accessorio e subordinato rispetto all'azione penale, sicché essa deve subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e struttura del processo penale, cioè le esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati ed alla rapida definizione del processo.

In particolare, consegue, da un verso, che l'azione civile mantiene la sua natura e caratteristiche civilistiche; e che, al di fuori di quanto attiene alla natura "civilistica" dell'azione, i poteri ed i comportamenti processuali della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale: all'uopo, è di rilievo evidenziare che l'esclusione della parte civile dal processo penale, disposta dal giudice (artt. 80, 81 cod. proc. pen.), non è oggetto di impugnazione, al fine di non impedire appunto il sollecito accertamento della contestazione penale formulata nei confronti dell'imputato.

Questi principi vanno coordinati con i limiti sussistenti alla cognizione dell'azione civile nel processo penale, che impongono al giudice penale di occuparsi dei capi civili a condizione che accerti la responsabilità penale dell'autore dell'illecito (v. artt. 538, 578 cod. proc. pen).

Parimenti, il giudice può statuire sugli interessi civili in sede di impugnazione della sola parte civile avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato ex art. 576 cod. proc. pen.: in tal caso il giudicante può accertare incidentalmente il fatto reato e la sua attribuibilità all'imputato prosciolto in primo grado, con una nuova valutazione difforme, comunque priva di effetti sul giudicato penale già formatosi [Sez. U, sentenza n. 25083 del 11/07/2006 (dep. 19/07/2006), Negri, Rv. 233918].

In senso decisivo va soggiunto che la sentenza di non doversi procedere per mancanza di querela ha carattere meramente processuale, non contiene un accertamento mediante prove del fatto storico-reato, si limita a statuire su un aspetto processuale (la non ricorrenza di una condizione di procedibilità) che non consente l'accertamento in fatto e non è idonea a fondare l'efficacia del giudicato nei processi civili, amministrativi e disciplinari in base agli artt. 652-654 cod. proc. pen.

La presenza della parte civile nel processo penale ha la finalità esclusiva di preservare e perseguire la responsabilità civile dell'imputato in quanto si riconnetta alla giurisdizione limitata spettante al giudice penale sulla domande di risarcimento e restituzione formulate dalla parte civile nei confronti dell'imputato: cognizione che presuppone appunto l'accertamento del fatto reato con effetti diretti ovvero incidentali nei confronti del prevenuto.

Ne consegue che l'interesse della parte civile ad impugnare, ex art. 568, comma quarto, cod. proc. pen. la sentenza di non doversi procedere va valutato e configurato in relazione alle peculiarità proprie dell'azione civile promossa nel giudizio penale.

La decisione processuale in esame non comporta per la parte civile alcun effetto preclusivo di accertamento in sede civile (art. 652 cod. proc. pen.), nè è idonea ad arrecare un pregiudizio di alcun genere, atteso che non avrebbe neppure la possibilità di ottenere, con l'impugnazione, l'affermazione di responsabilità dell'imputato sia pure in riferimento agli effetti civili, in mancanza di impugnazione sul punto del pubblico ministero.

Diversa sarebbe la posizione della parte civile che impugni la sentenza di assoluzione dell'imputato con la formula "il fatto non costituisce reato", trattandosi di statuizione di per sè non preclusiva di azione civile, ma in ordine alla quale l'impugnante avrebbe sicuramente interesse giuridico ad ottenere in sede di appello una statuizione incidentale di responsabilità della controparte con una rinnovata valutazione del fatto reato, in modo difforme rispetto all'accertamento assolutorio del primo giudice (v. così, la già citata Sez. U, sentenza n. 40049 del 29/05/2008, Guerra).

Egualmente, risulterebbe assicurata in sede civile per il danneggiato la risarcibilità totale dei danni patrimoniali ed anche non patrimoniali subiti, dovendo, per quest'ultimi, il giudice civile, nell'applicazione dell'art. 185 cod. pen., accertare in via incidentale se ricorrano o meno gli estremi di un reato al fine appunto della liquidazione dei danni morali (v. così, Sez. 3 civ., n. 1947 del 14/05/1977, Rv. 385671; Sez. 3 civ., n. 15022 del 21/11/2000, Rv. 541961; Sez. 3 civ., n. 13972 del 30/06/2005, Rv. 582748).

Va ulteriormente sottolineato che, in mancanza di gravame del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, l'accertamento circa la sussistenza o meno dell'atto condizionante la procedibilità penale non influirebbe in alcun modo sulla posizione processuale del danneggiato, nell'esercizio dell'azione intesa ad affermare la responsabilità civile dell'autore dell'illecito e la sua obbligazione di risarcimento del danno procurato.

La parte civile non avrebbe alcun interesse a che la querela sia qualificata o meno come sussistente: in tal guisa, l'impugnazione della parte civile di una pronuncia penale meramente processuale si paleserebbe priva di ogni idoneità ad apportare al proponente effetti di vantaggio o non pregiudizievoli di qualunque genere, non configurandosi alcuna utilità, ai fini dell'azione civilistica intentata, che, in modo concreto e attuale, immediato e diretto, risulti connessa all'accoglimento dell'impugnazione.

In prospettiva di esaurimento argomentativo del tema, il diritto al risarcimento del danno del danneggiato sarebbe congruamente garantito innanzi al giudice civile, nell'insussistenza delle condizioni (di procedibilità) che consentono l'esercizio dell'azione in sede penale nei confronti del responsabile dell'illecito.

3. Interesse ad impugnare la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa.

Le Sezioni Unite [Sent. Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012 (dep. 28/06/2012), Rv. 252693, Campagne Rudie] hanno affrontato la specifica questione relativa all'interesse dell'imputato ad impugnare la sentenza di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato in relazione alla trasmissione degli atti all'autorità amministrativa per l'eventuale irrogazione delle sanzioni amministrative.

In argomento le Sezioni Unite hanno stabilito che «nella ipotesi di assoluzione perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, sussiste l'interesse dell'imputato ex art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., ad impugnare con ricorso per cassazione la statuizione concernente l'ordine di trasmissione degli atti all'autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni relative a un illecito depenalizzato».

Nell'ordinanza di rimessione, la Terza sezione penale aveva segnalato l'esistenza di un contrasto tra opposti orientamenti in ordine alla ricorribilità della sentenza di trasmissione degli atti alla pubblica amministrazione, competente a decidere sull'irrogazione della sanzione amministrativa.

Un primo orientamento aveva ritenuto inammissibile per carenza dell'interesse ad impugnare, ex art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione avverso la statuizione della sentenza che, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, dispone la trasmissione di copia degli atti alla pubblica amministrazione per competenza anche in assenza di norme transitorie che impongano detta trasmissione [Sez. 6, Ordinanza n. 884 del 27/10/2004 (dep. 18/01/2005), Serra, Rv. 230822; Sez. 6, Sentenza n. 6486 del 13/11/2003 (dep. 17/02/2004), Arcoleo, Rv. 228370; Sez. 3, sentenza n. 16101 del 20/03/2001 (dep. 20/04/2001), Bondi, Rv. 219511; Sez. 3, sentenza n. 1209 del 16/12/1998 (dep. 29/01/1999), Ghione, Rv. 212832; Sez. 3, Sentenza n. 1209 del 16/12/1998 (dep. 29/01/1999), Simionato, Rv. 212832; Sez. 6, sentenza n. 3987 del 08/11/1995 (dep. 24/1/1996), Trabelsi, Rv. 203850].

A sostegno delle richiamate decisioni erano state sviluppate alcune argomentazioni che sinteticamente possono essere così riassunte:

a) l'unico effetto che la statuizione di trasmissione determina è quello dell'avvio di un accertamento da parte dell'organo competente circa la sussistenza o meno di una violazione amministrativa, per cui la decisione impugnata non crea alcuna situazione di concreto pregiudizio, dovendo quest'ultimo risiedere e rinvenirsi non già in una mera eventualità, ma unicamente nell'attualità degli effetti direttamente prodotti dallo stesso provvedimento oggetto di gravame;

b) nessun pregiudizio attuale, immediato e concreto deriva al ricorrente, con riguardo al thema decidendum, in ordine al quale dovrà pronunciarsi l'autorità amministrativa, le cui valutazioni non sono condizionate da quelle effettuate in sede penale;

c) l'imputato non potrebbe conseguire alcun vantaggio, neanche sul piano morale, dall'applicazione della diversa formula, atteso che il fatto addebitatogli, anche se sussistente ed a lui ascrivibile, rientrerebbe ormai nell'ambito di un comportamento penalmente non rilevante;

d) l'ordine di trasmissione degli atti sarebbe inoppugnabile perchè trattasi di disposizione non direttamente applicativa di sanzione, bensì finalizzata semplicemente a consentire l'adozione di un eventuale provvedimento amministrativo suscettibile di impugnazione nella competente sede di giustizia.

L'orientamento contrapposto ritiene invece che sussiste l'interesse dell'imputato ad impugnare con ricorso per cassazione la statuizione concernente l'ordine di trasmissione all'autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni in ordine all'illecito depenalizzato in quanto l'avvio dell'accertamento, da parte della competente autorità, circa la configurabilità di una violazione amministrativa nel fatto estromesso dall'area della illiceità penale, integra ex se un pregiudizio prodotto dall'effetto gravato, per la concreta possibilità che l'accertamento si traduca nell'applicazione delle sanzioni, una volta che il giudice penale, trasmettendo gli atti, abbia espresso un giudizio di applicabilità delle medesime [Sez. 1, Sentenza n. 28846 del 19/05/2009 (dep. 15/07/2009), Presciutti, Rv. 244293; Sez. 5, sentenza n. 21064 del 05/03/2004 (dep. 05/05/2004), De Mattei, Rv. 229237; Sez. 6, Sentenza n. 624 del 14/02/1997 (dep. 25/06/1997), Capozzi, Rv. 208003; Sez. 6, Sentenza n. 6989 del 30/03/1995 (dep. 17/06/1995), Stella, Rv. 201953].

A sostegno di tale indirizzo giurisprudenziale era stato rilevato che, stante il principio di unitarietà dell'ordinamento giuridico, se una sentenza penale produce effetti giuridicamente rilevanti in altri campi dell'ordinamento, con pregiudizio delle situazioni giuridiche soggettive riconducibili all'imputato, questi ha interesse ad impugnare la sentenza penale qualora dalla revisione di essa possa derivare in suo favore, in modo diretto e concreto, l'eliminazione di qualsiasi effetto giuridico extrapenale pregiudizievole.

Le Sezioni Unite hanno osservato che l'art. 568 cod. proc. pen., nel delineare le regole generali in tema di impugnazione, dopo avere fissato al primo comma il principio di tassatività, stabilisce che la legittimazione a impugnare spetta soltanto a coloro ai quali la legge la conferisce espressamente (comma 3) e subordina l'attivazione dello strumento di controllo all'esistenza in capo al soggetto astrattamente legittimato di un concreto interesse ad impugnare (comma 4).

La nozione di "interesse" è stata elaborata in senso sostanzialmente utilitaristico, essendo incentrata sui requisiti della concretezza e dell'attualità, atteso che la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulti idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell'impugnante e l'eliminazione o la riforma della decisione gravata renda possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso.

Secondo un'interpretazione consolidata, l'interesse richiesto dall'art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante, tenendo conto, non solo dell'entità della pena e degli altri benefici accordati con il provvedimento impugnato, ma del complesso delle conseguenze vantaggiose che possono derivare dal giudizio di impugnazione [Sez. U, Sentenza n. 12234 del 23/11/1985 (dep. 18/12/1985), Di Trapani, Rv. 171394; Sez. U, Sentenza n. 6563 del 16/03/1994 (dep. 02/06/1994), Rusconi, Rv. 197536; Sez. U, Sentenza n. 42 del 13/12/1995 (dep. 29/12/1995), Timpani, Rv. 203093; Sez. U, Sentenza n. 10372 del 27/09/1995 (dep. 18/10/1995), Serafino, Rv. 202269; Sez. U, Sentenza n. 40049 del 29/05/2008 (dep. 28/10/2008), Guerra, Rv. 240815; Sez. U, Sentenza n. 29529 del 25/06/2009 (dep. 17/07/2009), De Marino, Rv. 244110; Sez. U, Sentenza n. 7931 del 16/12/2010 (dep. 01/03/2011), Testini, Rv. 249002].

Per quel che concerne l'impugnazione di una sentenza di assoluzione, si ritiene pacificamente che l'interesse dell'imputato manchi ogni qualvolta il proscioglimento sia adottato "perchè il fatto non sussiste" o "perchè l'imputato non lo ha commesso", poichè in questi casi, ogni epilogo diverso gli sarebbe meno utile.

E' stata riconosciuta, invece, la sussistenza dell'interesse dell'imputato ad impugnare il proscioglimento quando l'impugnazione è diretta ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli o ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli [si veda, ad esempio, Sez. 5, Sentenza n. 45091 del 24/10/2008 (dep. 04/12/2008), Burini, Rv. 242612 Sez. 3, Sentenza n. 1187 del 06/11/2007 (dep. 11/01/2008), Petrelli, Rv. 238548; Sez. 6, Sentenza n. 87 del 26/11/2002 (dep. 08/01/2003), Schiano, Rv. 223364; Sez. 6, Sentenza n. 624 del 14/02/1997 (dep. 25/06/1997), Capozzi, Rv. 208003; Sez. 6, Sentenza n. 6989 del 30/03/1995 (dep. 17/06/1995), Stella, Rv. 201953].

Le Sezioni Unite hanno ritenuto sussistente l'interesse ad impugnare per l'idoneità del provvedimento a produrre un effetto pregiudizievole, in quanto l'avvio dell'accertamento, da parte della competente autorità, circa la configurabilità di una violazione amministrativa nel fatto estromesso dall'area della illiceità penale, integra "ex se" un pregiudizio prodotto dall'effetto gravato, per la concreta possibilità che l'accertamento si traduca nell'applicazione delle sanzioni, una volta che il giudice penale, trasmettendo gli atti, abbia espresso un giudizio di applicabilità delle medesime.

L'esercizio del diritto di impugnazione, dunque, è rivolto a soddisfare una posizione oggettiva giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto e da esso può derivare un risultato giuridico pratico favorevole per il soggetto impugnante.

4. Obbligo di trasmissione degli atti all'autorità amministrativa.

Le Sezioni Unite [Sent. Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012 (dep. 28/06/2012), Rv. 252694, Campagne Rudie] si sono pronunciate sulla questione riguardante la sussistenza di un obbligo per il giudice penale, qualora accerti l'intervenuta depenalizzazione del fatto di reato per essere stato il medesimo trasformato in illecito amministrativo, di disporre la trasmissione degli atti all'autorità competente per l'irrogazione della sanzione amministrativa (in assenza di deroghe specifiche e di norme transitorie che sanzionino retroattivamente i fatti pregressi).

È stato affermato il principio in base al quale, «in caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, il giudice non ha l'obbligo di trasmettere gli atti all'autorità amministrativa competente a sanzionare l'illecito amministrativo qualora la legge di depenalizzazione non preveda norme transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione».

Nell'ordinanza di rimessione è puntualmente richiamato un remoto precedente delle Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 7394 del 16/03/1994 (dep. 27/06/1994), P.G. in proc. Mazza, Rv. 197698], cui avevano aderito anche le Sezioni semplici, che avevano escluso la sussistenza di un obbligo siffatto, tenuto conto:

a) dell'inapplicabilità del comma terzo (attualmente quarto) dell'art. 2 cod. pen., sul rilievo che si devono intendere per disposizioni "più favorevoli al reo" solo quelle che fanno rientrare il fatto-reato sotto un precetto che configura diversamente il reato stesso o lo assoggetta a una sanzione più mite, ma pur sempre penale, anche sotto il solo aspetto degli effetti penali;

b) della natura di eccezioni degli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 al divieto di retroattività e, quindi, nel caso di violazioni non ricomprese nella legge n. 689 del 1981, la necessità di altri sussidi normativi per attribuire alla condotta depenalizzata rilevanza retroattiva sotto il profilo amministrativo.

In quella decisione veniva ribadito che l'autorità giudiziaria, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, non deve rimettere gli atti all'autorità amministrativa competente, "e ciò sia in vista del principio di legalità dell'illecito amministrativo consacrato nell'art. 1 della legge n. 689 del 1981 - applicabile in forza dell'art. 194 del nuovo c.d.s. - sia per l'assenza, in quest'ultimo, di norme transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 della citata legge n. 689, la cui operatività è limitata agii illeciti da essa depenalizzati e non riguarda, pertanto, gli altri casi di depenalizzazione".

Tutti gli illeciti amministrativi, infatti, sono dotati di "piena autonomia normativa" rispetto agli illeciti penali, ed una conclusione siffatta è imposta dalla legge fondamentale della materia delle violazioni amministrative (la legge n. 689 del 1981), la quale ha stabilito norme e principi che forniscono una regolamentazione esaustiva dell'intero ordinamento punitivo amministrativo, "proprio per fissare precisi confini tra le due aree sanzionatorie penale e amministrativa, affini, ma diverse, ed evitare, così, operazioni ermeneutiche in chiave di analogia" (cd."teoria della diversità" che, secondo una interpretazione dottrinaria, "impedisce qualunque rapporto dì continuità tra l'illecito penale e l'illecito amministrativo").

La possibilità di una applicazione generalizzata degli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 sarebbe escluso sul rilievo che il contenuto di tali articoli era inizialmente collocato tra i principi generali (comma quarto dell'art. 1) mentre è stato poi definitivamente trasferito nella sezione IV del Capo 1, "sotto l'anodina rubrica disposizioni transitorie e finali".

Questa collocazione testimonierebbe la precisa volontà del legislatore di conferire alle disposizioni medesime "un carattere del tutto eccezionale e transitorio", ossia di limitarle alle sole depenalizzazioni operate dalla legge n. 689 del 1981 ed ha trovato pieno riscontro nel definitivo enunciato normativo, che, nell'individuare gli illeciti oggetto della disciplina transitoria, si riferisce esclusivamente a quelli depenalizzati dalla "presente legge".

Per il principio di irretroattività dell'illecito amministrativo, sancito dall'art. 1 della legge n. 689 del 1981 - al venir meno della sanzione penale si accompagna di regola la impossibilità di applicare la nuova sanzione amministrativa - per cui in assenza di una espressa disposizione transitoria non potrebbe farsi riferimento all'art. 40 della legge n. 689 del 1981, che non si atteggia a norma generale di inquadramento, valida per tutti i futuri casi di depenalizzazione.

Tale affermazione è stata reiteratamente sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità e, tra le decisioni più significative, possono essere in questa sede richiamate:

- Sez. 3, Sentenza n. 1401 del 15/12/2011 (dep. 17/01/2012), Clerico, Rv. 251913 (relativa alla sopravvenuta depenalizzazione del reato di cui all'art. 22 della legge 15 febbraio 1963, n. 281 [immissione in commercio e distribuzione per il consumo di mangimi non rispondenti alle prescrizioni di legge o non conformi alle dichiarazioni, indicazione e denominazioni], operata dalla legge 3 febbraio 2011);

- Sez. 3, Sentenza n. 1400 del 15/12/2011 (dep. 17/01/2012), Zhang, Rv. 251646 (relativa alla sopravvenuta depenalizzazione del reato di cui all'art. 11, comma primo, d.lgs. n. 313 del 1991 [immissione in commercio di giocattoli privi della certificazione di conformità CE], operata dal d.lgs. n. 54 del 2011);

- Sez. 4, Sentenza n. 41564 del 26/10/2010 (dep. 24/11/2010), Ossco, Rv. 248456 e Sez. 4, Sentenza n. 38692 del 28/09/2010 (dep. 03/11/2010), La Mantia, Rv. 248407 (relative alla sopravvenuta depenalizzazione, limitatamente all'ipotesi prevista dall'art. 186, comma primo, lett. a, cod. strad., del reato di guida sotto l'influenza dell'alcol ad opera della legge n. 120 del 2010 disposizioni in materia di sicurezza stradale);

- Sez. 5, Sentenza n. 21064 del 05/03/2004 (dep. 05/05/2004) , De Mattei, Rv. 229236 (relativa all'abolitio criminis del reato di impedito controllo della gestione sociale, originariamente previsto dall'art. 2623 cod. civ., n. 3, ad opera dell'art. 2625 cod. civ., introdotto dal d.lgs. n. 61 del 2002, il quale prevede che la condotta di impedito controllo, quando non abbia cagionato danno ai soci, sia punita con sanzione pecuniaria amministrativa);

- Sez. 3, Sentenza n. 2640 del 15/12/1997 (dep. 28/02/1998), Brandimarte, Rv. 209905 (relativa alla depenalizzazione attuata, in materia di tutela delle acque dall'inquinamento, dalla legge n. 172 del 1995);

- Sez. 1, Sentenza n. 4678 del 23/09/1996 (dep. 11/10/1996), Giordanengo, Rv. 205748, (relativa alla sopravvenuta trasformazione nell'illecito amministrativo previsto dall'art. 180, comma ottavo, cod. strad. [inottemperanza all'ordine di presentarsi all'autorità di polizia per esibire documenti o per fornire informazioni in merito alla disponibilità di un veicolo], prima integrante il reato previsto dall'art. 650 cod. pen.);

- Sez. 3, Sentenza n. 2724 del 21/06/1996 (dep. 21/09/1996), Taidelli, Rv. 206677 (relativa all'intervenuta depenalizzazione della condotta di rilascio di scarichi civili e fognari in epoca anteriore al 17 marzo 1995 [d.l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 1995, n. 172]);

- Sez. 4, Sentenza n. 9814 del 19/05/1994 (dep. 13/09/1994), Urbinati, Rv. 200600 (relativa alla violazione, sanzionata dal previgente c.d.s. del 1953, di sorpasso di un veicolo in corrispondenza di un dosso, oggi sanzionata solo amministrativamente a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 285 del 1992 [nuovo codice della strada]);

- Sez. 3, Sentenza n. 4135 del 19/01/1994 (dep. 13/04/1994), Antoci, Rv. 197759 (relativa alla depenalizzazione di reati finanziari disposta con l'art. 2 della legge 28 dicembre 1993, n. 562, di modifica dell'art. 39 della legge 24 novembre 1981, n. 689).

Tuttavia, il contrasto giurisprudenziale è sorto in seguito ad ulteriori decisioni delle Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 1327 del 27/10/2004 (dep. 19/01/2005), Li Calzi, Rv. 229635] e delle Sezioni semplici che hanno affermato l'opposto principio secondo il quale "in caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, la Corte di Cassazione dispone sempre la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente, in forza della disposizione di carattere generale di cui all'art. 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689".

L'ordinanza di rimessione segnala come il punto controverso riguardi proprio la statuizione che afferma il carattere generale delle disposizioni della legge n. 689 del 1981 "con la conseguenza che, a prescindere dall'esistenza di una disposizione specifica, vale comunque il principio di retroattività dell'illecito amministrativo contenuto negli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981".

Successivamente, in fattispecie relativa alla tutela del diritto d'autore posta in essere prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 68 del 2003, la Suprema Corte [Sez. 2, Sentenza n. 7180 del 25/01/2006 (dep. 24/02/2006), Seye, Rv. 233577] ha affermato che alla pronuncia dell'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per non essere il fatto previsto come reato, consegue la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente, in forza della disposizione di carattere generale di cui all'art. 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Ciò anche in difetto di apposite norme transitorie, perchè gli illeciti penali trasformati in illeciti amministrativi non possono restare sottratti a qualsiasi sanzione, ma - in considerazione della "ratio legis", che è quella di attenuare, non già di eliminare, la sanzione per un fatto che rimane illecito - deve trovare comunque applicazione quella amministrativa.

Il principio dell'applicazione della norma sopravvenuta più favorevole al reo (art. 2, comma quarto, cod. pen.) si riferisce anche al caso di trasformazione dell'illecito penale in illecito amministrativo e, comunque, l'art. 40 della legge 24 novembre 1981, n. 689 esprime un principio di carattere generale, non limitato alle violazioni contemplate nella legge stessa, ma applicabile a tutti i provvedimenti di depenalizzazione, anche successivi, in difetto di apposita disciplina transitoria.

Tale ricostruzione appare "l'unica applicabile, in fattispecie analoghe, senza incorrere in una violazione dell'art. 3 Cost.", giacché contrasterebbe con il principio di uguaglianza "una disciplina giuridica che preveda la totale impunità di coloro che hanno commesso un illecito penale, successivamente depenalizzato, e la responsabilità - sia pure sul piano dell'illecito amministrativo - di coloro che hanno commesso la stessa violazione dopo la depenalizzazione.

Quanto all'argomento secondo il quale l'art. 2 cod. pen. si riferisce solo alla successione meramente modificativa di fattispecie che restano penalmente rilevanti, la questione "può essere agevolmente superata, ove si consideri che allorquando venne compilato il codice penale, il fenomeno della depenalizzazione era un fatto assolutamente straordinario, che il Legislatore - per quanto accorto - non avrebbe potuto prevedere nella sua reale portata".

In senso conforme va segnalata anche una ulteriore decisione [Sez. 1, Sentenza n. 12659 del 15/06/1990 (dep. 22/09/1990), Daversa, Rv. 185428], che, in relazione ad una fattispecie di porto di arma per uso caccia da parte di persone munite di licenza nel caso di omesso pagamento della tassa di concessione governativa, depenalizzata dall'art. 6 della legge 21 febbraio 1990, n. 36, aveva affermato che, pur non essendo prevista espressamente la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente, quest'ultima "tuttavia, deve essere disposta in applicazione degli artt. 40 e 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

La disposizione, pur esplicitamente dettata per i procedimenti pendenti all'entrata in vigore della legge suddetta, costituisce una norma generale di inquadramento valida per tutti i futuri casi di trasformazione del reato in illecito amministrativo per effetto della depenalizzazione.

Nel dirimere il contrasto, le Sezioni Unite hanno sostenuto che, in assenza di norme transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689, l'autorità giudiziaria non ha l'obbligo di rimettere gli atti all'autorità amministrativa competente a sanzionare l'illecito amministrativo.

Vi è, infatti, piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali, sicché non può ritenersi consentita l'applicazione analogica al regime sanzionatorio amministrativo di categorie generali desunte dal diritto penale, anche se si tratta di istituti o principi favorevoli all'agente.

La regola prevista dall'art. 2, comma quarto, cod. pen. (retroattività della legge più favorevole al reo), in particolare, non è stata recepita nell'art. 1 della legge n. 689 del 1981 e non è estensibile alla disciplina della "successione" dell'illecito amministrativo rispetto all'illecito penale, essendo, invece, necessarie apposite norme, affidate alla discrezionalità del legislatore ordinario per poter superare l'autonomo principio d'irretroattività, vigente per il primo tipo d'illecito, peraltro estraneo alla costituzionalizzazione ex art. 25 comma secondo, Cost., che riguarda solo quello penale.

È consequenziale ritenere che, in assenza di disposizioni transitorie espresse, va escluso che si possa fare riferimento agli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 intesi quali norme generali di inquadramento valide per tutti i futuri casi di depenalizzazione.

Avuto riguardo al contenuto dei lavori preparatori della legge di depenalizzazione del 1981, va rilevato che una deroga all'irretroattività era stata inizialmente prevista nel comma terzo dell'art. 1, evidentemente come correttivo di fondo parallelo al principio generale dell'irretroattività sancito nei primi due commi.

E' stato proprio il legislatore dell'epoca, però, per il dichiarato scopo di non creare equivoci, ad eliminare dall'art. 1 quella disposizione che ricollegava un "effetto retroattivo" alla "depenalizzazione" (sebbene si trattasse di una norma contra reum e non a suo favore) ed a darle invece un'autonoma collocazione, ben lontana da quella riservata ai principi generali e divergente rispetto al generale principio di irretroattività, nell'art. 40 sotto l'anodina rubrica "Disposizioni transitorie e finali".

Si è voluto così sottolineare il carattere del tutto eccezionale della norma transitoria, derivante dal collegamento con il fenomeno della "depenalizzazione", che veniva all'epoca considerato come destinato storicamente ad esaurirsi.

La soluzione della non retroattività, dunque, è stata ritenuta e deve ritenersi ragionevole alla luce della riconosciuta applicabilità al sistema amministrativo dei principi di legalità e di irretroattività, e ciò a salvaguardia di esigenze di fondo della regolamentazione dei rapporti tra autorità dello Stato e libertà del cittadino.

Nè può condividersi la cosiddetta "teoria della persistenza dell'illecito", elaborata da una parte della dottrina, in quanto deve considerarsi che, nel passaggio dall'illecito penale a quello amministrativo, non viene modificata solo la natura della sanzione ma viene disconosciuta rilevanza penale al precetto in seguito ad una diversa valutazione del disvalore sociale del fatto: ciò comporta la introduzione ex novo dell'illecito amministrativo, non compatibile con una lettura estensiva dell'art. 2, comma quarto, cod. pen. che allarghi il suo oggetto sino alla successione tra legge penale e legge punitiva amministrativa.

Nè, a fronte della genesi della norma (quale deducibile dai lavori preparatori) sembra corretto affermare che l'art. 1 della legge n. 689 del 1981 nella parte statuente il divieto di retroattività, andrebbe interpretato come limitato alle sole previsioni amministrative sanzionatorie di fatti prima del tutto leciti.

Il cittadino, infatti, non deve trovarsi esposto a sanzioni amministrative (che, potrebbero comportare esborsi pecuniari ben più gravosi rispetto alle precedenti pene pecuniarie) per atti o fatti compiuti quando, non essendovi ancora una legge che tali sanzioni prevedesse, non aveva avuto la possibilità di autodeterminarsi responsabilmente in riferimento ad esse.

In seguito ad una nuova e diversa valutazione discrezionale del legislatore - che implica soluzione di continuità nella risposta sanzionatoria alla trasgressione di un determinato precetto - non sembra possa aprioristicamente profilarsi, infine, una non giustificabile disparità di trattamento violatrice dell'art. 3 della Costituzione per il solo fatto che coloro che hanno trasgredito un determinato precetto rimangono esenti da qualsiasi sanzione allorchè tale trasgressione abbiano commesso quando essa costituiva reato.

5. Computo dei termini processuali.

Le Sezioni Unite con la sentenza n. 155 del 2012, Rv. 251494, Rossi, hanno altresì affermato, in tema di computo dei termini processuali, che la regola posta dall'art. 172, comma terzo, cod. proc. pen., secondo cui il termine stabilito a giorni, che cade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo, si applica anche agli atti e ai provvedimenti del giudice, e si riferisce, pertanto, anche al termine per la redazione della sentenza.

La regola della proroga del termine che cade in giorno festivo al primo giorno immediatamente successivo non festivo, risponde, peraltro, a principio generale applicabile nei più diversi settori dell'ordinamento.

Neppure esiste alcuna ragione extratestuale che giustifichi la limitazione della sfera d'applicazione della norma in esame alla sola attività delle parti: anche il giudice, come le parti, dipende, per il deposito dei suoi atti dagli uffici di cancelleria.

Ove l'ultimo giorno in ipotesi utile coincida con un giorno festivo, la chiusura degli uffici comporterebbe, per il giudice nello stesso modo che per le parti, l'impossibilità materiale di fruire dell'ultimo giorno utile.

La giurisprudenza è sul punto consolidata: si vedano, tra molte, Sez. 6, n. 4571 del 01/12/1995 Borzoni, Rv. 204007; Sez. 2, n. 5699 del 21/10/1997 Primerano, Rv. 209027; Sez. 6, n. 1795 del 21/05/1998, Pecoraro, Rv.211252; Sez. 4, n. 42736 del 17/10/2007, Nicotra, Rv. 238304.

6. Notificazioni.

Le Sezioni Unite con la già menzionata sentenza [n. 155 del 29/9/2011 (dep. 10/01/2012), Rv. 251501, Rossi] hanno poi affermato che la notificazione è validamente eseguita quando il destinatario rifiuti di ricevere materialmente l'atto dopo averne preso cognizione dei contenuti, secondo la rituale attestazione compiuta dall'ufficiale giudiziario nella relazione di notifica, dovendosi ritenere tale comportamento equivalente alla consegna dell'atto, senza che si renda necessario procedere alle ulteriori ricerche previste dall'art. 157, comma settimo, cod. proc. pen.

Al riguardo è stato osservato che il rifiuto del destinatario di ricevere materialmente l'atto, dopo la presa di cognizione dei suoi contenuti, attestati dall'ufficiale giudiziario, equivale nel sistema ad effettiva consegna.

Enunciazione di tale regola recano gli artt. 8, comma primo, ultima parte, legge 20 novembre 1982, n. 890, e 138, comma secondo, cod. proc. civ.: ad essa fanno inequivocabile riferimento, disciplinando le specifiche modalità di conservazione degli atti rifiutati, ove il destinatario sia detenuto, gli artt. 156, comma secondo, cod. proc. pen., e 57 disp. att. cod. proc. pen.

È inoltre evidente che l'art. 157, comma settimo, laddove si riferisce alle "persone" indicate al comma primo, seconda parte, prevedendo che in caso di loro rifiuto si proceda nuovamente alla ricerca dell'imputato, si riferisce alle sole persone diverse dell'imputato abilitate a ricevere copia dell'atto in sua vece.

È del resto principio generale, sia sostanziale sia processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa inficiarne l'esecuzione.

Sul punto, la giurisprudenza è assolutamente conforme, essendo sufficiente richiamare: Sez. 4, n. 4672 del 04/12/2008, Vasta, non massimata, secondo cui in tema di notificazione del decreto di citazione a giudizio, non è necessario procedere alle ulteriori ricerche di cui all'art. 157, comma settimo, cod. proc. pen., qualora a rifiutare di ricevere l'atto sia il destinatario; Sez. 5, n. 829 del 08/10/1992 dep. 1993, Bettiga, Rv. 193479, secondo cui la notificazione eseguita personalmente all'imputato, mediante consegna di copia, può essere operata in qualsiasi luogo e il rifiuto di riceverla non ha rilevanza alcuna e la notificazione si ha per eseguita.

7. Proroga dei termini processuali.

Sempre con la sentenza n. 155 del 2012, Rv. 251495, Rossi, le Sezioni Unite hanno inoltre affermato che nelle ipotesi in cui è previsto, come nell'art. 585, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen., che il termine assegnato per il compimento di un'attività processuale decorra dalla scadenza del termine assegnato per altra attività processuale, la proroga di diritto del giorno festivo - in cui il precedente termine venga a cadere - al primo giorno successivo non festivo, determina altresì lo spostamento della decorrenza del termine successivo con esso coincidente.

Tale situazione, tuttavia, non si verifica ove ricorrano cause di sospensione quale quella prevista per il periodo feriale che, diversamente operando per i due termini, comportino una discontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolarsi l'inizio del secondo.

Sotto l'aspetto sistematico il criterio enunciato è l'unico conforme allo scopo delle regole poste dall'art. 585 cod. proc. pen. di evitare, mediante il sistema di prefissazione di termini per il deposito, costi e tempi per le notificazioni; scopo che è ragionevolmente perseguito soltanto se si assicura equanimemente alle parti il diritto di proporre impugnazione con pienezza dei tempi previsti per l'esercizio di tale diritto.

Così, da un lato, se il deposito è ritardato, anche di un solo giorno, occorre procedere a notifica; dall'altro, se la sentenza è ritualmente depositata nel giorno post-festivo successivo a quello astrattamente coincidente con lo scadere del termine, non può conseguirne per la parte la perdita di un giorno rispetto al termine che deve esserle riconosciuto.

Ad analoga soluzione sono pervenute in materia di computo dei termini dettata dall'art. 155 cod. proc. civ., le Sezioni civili, allorché hanno rilevato che la previsione del quarto comma di tale norma si applica anche nel caso in cui il "dies ad quem" prorogato di diritto costituisca, a sua volta, "dies a quo" per il termine dato a chi intenda contraddire o ricorrere avverso l'atto per il cui deposito è previsto termine finale cadente in giorno festivo (Sez. 1 civ., n. 13201 del 05/06/2006, Rv. 590480).

APPELLO.

1. Sentenza.

Le Sezioni Unite [la già citata SENT. Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011 (dep. 7/02/2012), Rv. 251272, Casani] hanno altresì affrontato il tema dell'appello avverso la sentenza pronunciata all'esito del rito abbreviato. Esse hanno affermato che nel giudizio d'appello avverso tale tipo di decisione la richiesta di partecipazione da parte dell'imputato impedito può essere tratta anche da "facta concludentia" da cui possa desumersi la sua inequivoca manifestazione di volontà di comparire all'udienza camerale.

L'art. 599, comma secondo, cod. proc. pen. dispone che, per il giudizio camerale d'appello avverso la sentenza pronunciata con il rito abbreviato, il legittimo impedimento dell'imputato comporta il rinvio dell'udienza soltanto allorché l'imputato stesso abbia manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire (cfr. Sez. U, n. 35399 del 24/6/2010, F.). Al riguardo la giurisprudenza è divisa in ordine all'individuazione delle modalità attraverso cui la volontà di comparire debba essere legittimamente manifestata.

Secondo un indirizzo interpretativo "nel giudizio di appello contro la sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato non trova applicazione l'istituto della contumacia dell'imputato, sicché il legittimo impedimento dello stesso impone il rinvio dell'udienza solo se egli abbia direttamente e tempestivamente manifestato la volontà di comparire, non essendo sufficiente a tale fine la mera istanza di rinvio avanzata dal difensore allegante l'impedimento" (Sez. 2, n. 8040 del 09/02/2010, Fiorito).

Le Sezioni Unite hanno aderito al diverso orientamento, maggiormente conforme all'esercizio dei diritti della difesa, secondo il quale "la richiesta di partecipazione da parte dell'imputato di cui all'art. 599, comma secondo, cod. proc. pen. può essere tratta anche da "facta concludentia" (quale la produzione, da parte del difensore, di una certificazione medica attestante l'impedimento a comparire dell'imputato con espressa istanza di rinvio) da cui possa desumersi la inequivoca manifestazione della volontà dell'imputato medesimo di comparire all'udienza camerale" (vedi Sez. 6, n. 1320 del 14/10/1996, Surace; Sez. 6, n. 43201 dell'11/10/2004, Viti; Sez. 6, n. 2811 del 18/12/2006, dep. 2007, Ramelli).

RICORSO PER CASSAZIONE.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Enunciazione d'ufficio del principio di diritto nell'interesse della legge.

In tema di ricorso per cassazione, le Sezioni Unite [SENT., Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011 (dep. 17/02/2012) Rv. 251692, Marinaj] hanno affermato che, nelle ipotesi in cui il ricorso è dichiarato inammissibile, la Corte di cassazione non può enunciare d'ufficio il principio di diritto nell'interesse della legge, anche quando tale pronuncia non abbia alcun effetto sul provvedimento del giudice di merito, poichè nel sistema processuale penale non è applicabile per analogia la disposizione di cui all'art. 363 cod. proc. civ., che disciplina l'esercizio del corrispondente potere nell'ambito del processo civile.

È il caso di precisare che, nel sistema processuale penale, non v'è una disposizione simile a quella di cui all'art. 363, comma terzo, cod. proc. civ., che, valorizzando la funzione nomofilattica del giudice di legittimità, consenta alla Corte di cassazione, pur quando dichiari inammissibile il ricorso, di enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge, anche se tale pronuncia non sia destinata a spiegare alcun effetto sul provvedimento del giudice di merito (comma quarto del citato articolo).

Né è, del resto, concretamente praticabile un'estensione analogica di tale disciplina nell'ambito del sistema processuale penale, attraverso l'auto-attribuzione del corrispondente potere.

2. Statuizioni civili ed ammissibilità del ricorso straordinario.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 28719 del 21/06/2012 (dep. 17/07/2012), Marani, Rv. 252695] hanno affrontato la questione relativa all'ammissibilità della proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto nei confronti della decisione di legittimità che confermi le statuizioni civili di condanna dell'imputato.

È stato, così, deciso che è legittimato alla proposizione del ricorso straordinario, a norma dell'art. 625-bis, cod. proc. pen., «anche l'imputato condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile, che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativamente al capo concernente le statuizioni civili, per l'ontologica identità di diritti processuali tra l'azione penale e l'azione civile» (conf. Sez. Unite n. 28718/12, Cappiello, non massimata).

L'orientamento negativo faceva leva sull'assunto secondo il quale, poichè il ricorso straordinario è ammesso solo a favore del condannato ed ha natura di norma eccezionale, possono costituire oggetto dell'impugnazione soltanto quei provvedimenti della Corte di cassazione che rendano definitiva la sentenza di condanna e non anche altre decisioni, fra le quali quelle che intervengano in procedimenti incidentali, o provvedimenti di altra natura, seppure collegati in modo indiretto con la pronuncia definitiva di condanna [Sez. U, Sentenza n. 16103 del 27/03/2002 (dep. 30/04/2002), Basile, Rv. 221281; Sez. U, n. 16104 del 30/04/2002, De Lorenzo, nonchè per i riflessi applicativi Sez. 4, Sentenza n. 42725 del 03/10/2007 (dep. 20/11/2007), Mediati, Rv. 238302; Sez. 5, Sentenza n. 30373 del 16/06/2006 (dep. 13/09/2006), Nappi, Rv. 235323].

Il ricorso straordinario può avere ad oggetto esclusivamente pronunce di condanna, dovendosi intendere con tale termine, l'applicazione di una sanzione penale: più in particolare, si è affermato che con l'indicazione del termine "condannato", quale specificazione soggettiva che identifica la parte legittimata alla proposizione del ricorso straordinario, l'art. 625-bis cod. proc. pen. avrebbe inteso individuare la figura del soggetto imputato, che abbia subito una condanna ad una delle pene contemplate dalle leggi penali [Sez. 3, Sentenza n. 6835 del 28/01/2004 (dep. 18/02/2004), Mongiardo, Rv. 228495; Sez. 5, Ordinanza n. 45937 del 08/11/2005 (dep. 19/12/2005), Ierinò, Rv. 233218; Sez. 1, Sentenza n.11653 del 15/02/2008 (dep. 14/03/2008), Brusa, Rv. 239519, ove si è esclusa la legittimazione della parte civile a proporre ricorso straordinario, ancorché la stessa sia stata condannata al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro alla cassa delle ammende, e dichiarata manifestamente infondata la relativa eccezione di legittimità costituzionale; Sez. 4, Sentenza n. 38269 del 21/07/2009 (dep. 30/09/2009), Somma, Rv. 245292].

Sul tema specifico in trattazione si è implicitamente soffermata Sez. 1, n. 23150 del 20/05/2008 (dep. 10/06/2008), Vitolo, Rv. 240202, ove, nel rilevare la inapplicabilità dell'art. 625-bis cod. proc. pen., in caso di proscioglimento, sia pure per prescrizione, si è tracciato un parallelismo rispetto all'istituto della revisione, rammentando come l'esperibilità di tale rimedio, ugualmente straordinario, sia preclusa nella ipotesi di sentenza dichiarativa di estinzione del reato per amnistia, anche quando vi sia stata conferma delle statuizioni civili.

In termini ancor più espliciti, si è poi affermato che deve ritenersi inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto proposto contro la sentenza di inammissibilità del ricorso dell'imputato, pronunciata dalla Corte di cassazione, che abbia reso definitiva una decisione di estinzione del reato per prescrizione contenente anche statuizioni civili, confermate in favore della parte civile, di guisa che l'imputato risulti condannato solo agli effetti civili [Sez. 1, Sentenza n. 46277 del 03/12/2008 (dep. 16/12/2008), Gava, Rv. 242079].

Per la natura straordinaria della impugnazione, la definizione normativa del perimetro di esperibilità del ricorso ha carattere tassativo, non suscettibile di interpretazione analogica, sicché deve ritenersi inammissibile per difetto di legittimazione dell'istante il ricorso straordinario proposto contro una decisione della Corte di cassazione che abbia dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.

E ciò pure nella ipotesi in cui siano state confermate la statuizioni civili in favore della parte civile, con conseguente condanna dell'imputato, sia pure soltanto agli effetti civili.

Anche in tale eventualità non è dato ravvisare una pronuncia della Corte di cassazione idonea a determinare il passaggio in giudicato di una decisione che renda incontrovertibile l'accertamento dei presupposti della potestà punitiva statale, in termini di "applicazione di una sanzione penale" e quindi di una condanna "agli effetti penali", come suggerirebbe la interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 625-bis cod. proc. pen. (come del resto già affermato dalla giurisprudenza per la corrispondente disciplina prevista per la revisione).

Per l'opposto orientamento si è ritenuto che alla proposizione dell'errore di fatto contenuto in un provvedimento della Corte di cassazione sia legittimato anche il soggetto che risulti condannato ai soli effetti civili, sul rilievo che la qualità di condannato sarebbe fatta discendere da una qualsiasi sentenza di condanna, senza ulteriori distinzioni.

In senso decisivo deve essere considerato che, per la sua natura di strumento eccezionale insuscettibile di applicazione analogica, in deroga al principio di irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione, il ricorso straordinario non è esperibile se non contro sentenze di condanna, senza tuttavia distinguere se di condanna "tout court" o anche di condanna ai soli effetti civili, cosicché sarebbe legittimo ritenere che tale strumento sia esperibile, in via generale, contro tutte le sentenze di condanna [Sez. 1, Sentenza n. 12720 del 12/02/2003 (dep. 18/03/2003), Nosari, Rv. 224026].

Nella medesima prospettiva si è più di recente anche ribadita la legittimazione a proporre ricorso straordinario a norma dell'art. 625-bis cod. proc. pen., anche in capo all'imputato (o al responsabile civile ex art. 83 cod. proc. pen.) che risulti condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, per errore di fatto prodottosi nella decisione della Corte di cassazione.

Se, per un verso, il termine "condannato" può essere giuridicamente, oltre che semanticamente, riferito tanto alle statuizioni sulla azione penale che a quelle sulla azione civile, non può trascurarsi il dato per il quale nessuna delle disposizioni contenute nei successivi commi dell'art. 625-bis cod. proc. pen., qualifichi in senso restrittivo i connotati della legittimazione attiva al ricorso.

Mentre per l'azione civile esercitata in sede propria all'accertamento dell'errore di fatto soccorre l'art. 395, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., ove l'art. 625-bis cod. proc. pen., fosse inteso come riferibile soltanto all'errore di fatto incidente su una statuizione di condanna sul capo penale, verrebbe ad essere irragionevolmente preclusa al soccombente rispetto alla azione risarcitoria esercitata dal danneggiato in sede penale nei confronti dell'imputato, qualsiasi possibilità di far valere l'errore di fatto, in ipotesi decisivo, che si annidi in una pronuncia della Corte di cassazione [Sez. 6, Sentenza n. 26485 del 27/04/2010 (dep. 09/07/2010), Chiatante, Rv. 247816].

Le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto, hanno ritenuto ammissibile la proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto anche nel caso di condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, analizzando lo svolgimento dei lavori parlamentari e, soprattutto, il contenuto di alcune sentenze della Corte costituzionale.

Con la sentenza n. 395 del 2000, la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 629 e 630 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui tali norme "non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di cassazione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura degli atti interni al giudizio", aveva tracciato alcuni punti di ineludibile risalto anche agli effetti dell'odierno scrutinio.

In tale pronuncia, infatti, il giudice delle leggi, dopo aver rievocato le varie decisioni intervenute in materia di errore di fatto commesso dalla Corte di cassazione nel campo del processo civile (in particolare, le sentenze nn. 17 del 1986, 36 del 1991 e 129 del 1995), aveva sottolineato come l'impossibilità di far valere un simile errore, si porrebbe in palese contrasto, non soltanto con l'art. 3, ma anche con l'art. 24 Cost., per di più sotto uno specifico e significativo aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio di cassazione. Secondo la sentenza, "questa garanzia si qualifica ulteriormente in funzione dell'art. 111 Cost., il quale non a caso prevede che contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge. Ciò sta dunque a significare non soltanto che il giudizio di cassazione è previsto come rimedio costituzionalmente imposto avverso tale tipo di pronunzie; ma, soprattutto, che il presidio costituzionale - il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l'espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) - contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione. Da ciò - aveva concluso la Corte - un evidente corollario. L'errore di tipo percettivo in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata l'indebita compromissione di quel diritto, deve avere un necessario rimedio".

Il percorso della giurisprudenza costituzionale (proseguito con la sentenza n. 207 del 2009 dichiarativa della illegittimità costituzionale dell'art. 391-bis, comma primo, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione con il rito camerale) aveva sottolineato come il legislatore fosse stato indotto ad operare un "riallineamento" degli istituti processuali in tema di errore di fatto della Corte di cassazione, proprio attraverso l'innesto, nel codice di procedura penale, dell'art. 625 bis.

La scelta è indicativa della volontà di imprimere non soltanto risalto ai valori che quei principi chiamavano in causa, ma anche di dimostrare la sostanziale identità delle garanzie processuali che ne devono presidiare la effettività, a prescindere dalla sede - penale o civile - in cui l'eventuale errore di tipo percettivo della Corte di cassazione si sia trovato ad incidere.

In tale prospettiva, dunque, la disciplina approntata dal legislatore attraverso il ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen., lungi dall'apparire come una soluzione semplicemente compatibile con il dettato costituzionale, finisce per rappresentare una scelta, per molti aspetti, costituzionalmente imposta, nel quadro di un fascio di diritti che coinvolge, ad un tempo, il principio di uguaglianza, quello di effettività della difesa in ogni stato e grado del processo, il diritto alla riparazione degli errori giudiziari, nonchè quello al controllo effettivo in sede di legittimità di tutte le sentenze.

La soluzione che tende a limitare il ricorso straordinario alla condanna solo per il capo penale, si rivela dunque palesemente eccentrica rispetto al diritto del condannato, anche soltanto per il capo civile, a fruire di un giudizio di legittimità non compromesso dall'errore di fatto.

Per un verso, infatti, la locuzione "condannato" che delimita soggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacchè l'essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili.

Ma di tale distinzione non v'è traccia nel testo dell'art. 625-bis cod. proc. pen., nè può dirsi ricavabile una qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma a emendare l'errore che coinvolga la posizione dell'imputato condannato solo per gli interessi civili.

Se, dunque, i richiamati principi costituzionali valgono tanto nel processo civile che in quello penale, non v'è ragione alcuna - ma anzi si offrirebbe il destro per avanzare fondati dubbi di legittimità costituzionale - ove il sistema prefigurasse un rimedio per un tipo solo di condanna e lo precludesse per l'altro, per di più a differenza di quanto è previsto al riguardo nel processo civile.

Si assisterebbe, altrimenti, ad una irragionevole disparità di trattamento, giacchè mentre, ove l'azione di danno fosse stata esercitata nella sede propria, la parte sarebbe ammessa a far valere l'errore di fatto della Corte di cassazione attraverso i rimedi previsti dal codice di procedura civile, lo stesso diritto non sarebbe esercitabile in caso di azione civile esercitata nel processo penale.

È ben vero, a questo riguardo, che la scelta di esercitare l'azione civile in sede penale comporta che, ad una siffatta opzione, corrisponda l'accettazione delle regole processuali proprie del processo penale, con la conseguenza di rendere costituzionalmente compatibili - proprio perchè liberamente accettate - le eventuali divergenze di disciplina tra le due sedi (v. Corte Cost. n. 168 del 2006).

Ma la posizione dell'imputato, "convenuto" in sede penale dalla parte civile, è reciproca e ribaltata: se, infatti, il titolare della azione di danno o per le restituzioni ex art. 185 cod. pen., è libero di scegliere la sede processuale nella quale far valere le proprie ragioni nei confronti dell'autore del reato, l'imputato, chiamato a resistere alla azione civile, subisce la scelta del danneggiato: con l'ovvia conseguenza che, ove si dovesse escludere l'applicabilità dell'art. 625-bis cod. proc. pen., per l'imputato prosciolto dal capo penale, ma condannato per il capo civile, si assisterebbe all'anomalo epilogo di far dipendere la emendabilità dell'errore di fatto compiuto nel giudizio di cassazione esclusivamente dalla scelta di dove esercitare l'azione di danno da reato operata dal relativo titolare.

L'errore sarebbe, infatti, emendabile in caso di azione esercitata in sede propria, e non emendabile se esercitata in sede penale, pur in presenza di un vizio strutturalmente identico (stesso errore di fatto, di tipo percettivo, attinente alla lettura degli atti interni al giudizio) e di un ugualmente identico tipo di giudizio (davanti alla Corte di cassazione).

Ad ulteriore e definitiva conferma di tale assunto può, infine, evocarsi l'insegnamento desumibile dalla giurisprudenza costituzionale: con la sentenza n. 112 del 1998, infatti, la Corte costituzionale ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 83 cod. proc. pen., nella parte in cui tale disposizione non prevedeva che, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 24 dicembre 1969, n. 990, l'assicuratore potesse essere citato nel processo penale a richiesta dell'imputato.

Nell'occasione, la Corte sottolineò che, se doveva ritenersi pacifica la possibilità di operare la chiamata in garanzia dell'assicuratore da parte dell'assicurato convenuto in un giudizio civile per il risarcimento del danno provocato con la circolazione di autoveicoli sottoposti alle norme della legge per l'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile, diveniva fondato domandarsi perchè analogo potere non fosse attribuito all'imputato nel processo penale. "La posizione del convenuto - soggiunse infatti la Corte - chiamato a rispondere del proprio fatto illecito in autonomo giudizio civile e quella dell'imputato per il quale, in relazione allo stesso tipo di illecito, vi sia stata costituzione di parte civile del danneggiato nel processo penale sono assolutamente identiche: il principio costituzionale di uguaglianza è violato da un sistema come quello degli artt. 83 e seguenti cod. proc. pen., per effetto del quale l'assicuratore, quando sia responsabile civile ai sensi di legge può entrare nel processo solo in forza di citazione della parte civile (o del pubblico ministero nel caso previsto dall'art. 77, n. 4) o in forza del proprio intervento volontario". Da ciò l'assunto della irrazionalità di una disciplina che "deviando - senza alcun plausibile motivo - dallo schema del rapporto processuale civile", privava l'imputato di ogni possibilità di coinvolgere nella pretesa di danno avanzata dalla parte civile il civilmente responsabile.

Affermazioni, dunque, del tutto pertinenti al caso di specie, per il quale l'immotivato scostamento dallo "schema del rapporto processuale civile" - cui si andrebbe ineluttabilmente incontro precludendo l'applicabilità dell'art. 625-bis cod. proc. pen., all'imputato condannato per il solo capo civile - determinerebbe una automatica frizione con i principi costituzionali che la Corte ha, come si è visto, in più riprese ribadito.

3. Annullamento con rinvio e ammissibilità del ricorso straordinario.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 28717 del 21/06/2012 (dep. 17/07/2012), Brunetto, Rv. 252935], chiamate a pronunciarsi sul quesito "se possa ritenersi ammissibile la proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen. avverso la sentenza della Corte di cassazione che abbia pronunciato l'annullamento con rinvio soltanto in riferimento alla configurabilità di una circostanza aggravante e che, dunque, abbia determinato la irrevocabilità del giudizio in punto di sussistenza della responsabilità penale", hanno affermato il principio di diritto per cui «la legittimazione alla proposizione del ricorso straordinario per cassazione a norma dell'art. 625-bis cod. proc. pen. spetta anche alla persona condannata nei confronti della quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili che attengono alla determinazione del trattamento sanzionatorio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile il ricorso straordinario proposto avverso la sentenza della Corte di cassazione che aveva annullato con rinvio la pronuncia di condanna esclusivamente con riferimento alla sussistenza di una circostanza aggravante)».

Secondo l'orientamento che nega la legittimazione al ricorso straordinario da parte del condannato con sentenza oggetto di annullamento parziale da parte della Corte di cassazione, è stato in particolare valorizzato il rilievo (cfr. Sez. U, n. 16104 del 27/03/2002, De Lorenzo) per il quale, considerata la natura di rimedio straordinario ed insuscettibile di applicazione analogica che caratterizza il ricorso di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen., il ricorso straordinario sarebbe ammissibile soltanto contro le sentenze di condanna.

E per sentenze di condanna, vertendosi in tema di pronunce della Corte di cassazione, non potrebbero che intendersi le sentenze che rigettano o che dichiarano inammissibili i ricorsi proposti avverso sentenze di condanna.

Pertanto, come non sono suscettibili di ricorso straordinario le decisioni di legittimità emesse nell'ambito dei procedimenti incidentali, così non lo sono le decisioni di annullamento con rinvio, perchè non determinano la formazione del giudicato e non trasformano la condizione dell'imputato in quella di condannato, che è la sola a fungere da presupposto imprescindibile della legittimazione attiva alla impugnazione straordinaria.

Con riferimento alle decisioni di annullamento, sarebbero impugnabili soltanto le sentenze di annullamento parziale, ma limitatamente a quei capi che, secondo quanto disposto dall'art. 624 cod. proc. pen., acquistano autorità di cosa giudicata perchè non in connessione essenziale con i capi annullati.

Per questi ultimi, invece, il ricorso straordinario può essere esperito soltanto all'esito del giudizio rescissorio, una volta che sia passata in giudicato la sentenza del giudice di merito.

Tale soluzione tanto più varrebbe nei casi di annullamento totale, dal momento che una siffatta pronuncia travolgerebbe tutte le parti della sentenza impugnata e quindi devolverebbe al giudizio rescissorio la intera regiudicanda, impedendo che l'imputato acquisti la qualità di condannato [Sez. 1, Ordinanza n. 4975 del 28/01/2004 (dep. 06/02/2004), Ratizzino, Rv. 227335].

In tal senso è stato ulteriormente puntualizzato che la irrevocabilità e la esecutività della sentenza, condizioni necessarie per la proponibilità del ricorso straordinario, devono riguardare il capo di imputazione nella sua interezza e non può dirsi che si sia formato il giudicato se permane la condizione di imputato: varrebbe quindi il principio secondo il quale non si è in presenza di una condanna allorchè è stata accertata soltanto la responsabilità dell'imputato, ma non è ancora stata applicata la relativa pena [Sez. 1, Sentenza n. 24659 del 15/06/2007 (dep. 21/06/2007), Metelli, Rv. 239463; in termini sostanzialmente analoghi, Sez. 1, Sentenza n. 16692 del 28/01/2009 (dep. 20/04/2009), Mancuso, Rv. 243551; Sez. 5, Sentenza n. 40171 del 16/07/2009 (dep. 15/10/2009), Metelli, Rv. 244613].

Più di recente è stato ribadito che la sentenza di annullamento parziale non comporta la completa definizione del processo e non vale ad attribuire la qualifica di "condannato" che, sola, legittima alla proposizione del ricorso: qualifica che, come si desumerebbe dall'intero sistema, non può che essere riconosciuta in capo a chi abbia esaurito tutti i gradi delle impugnazioni ordinarie.

Nel caso di annullamento della sentenza con rinvio per uno dei capi di imputazione e per la conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio complessivo, non sarebbe dunque ravvisabile lo status di "condannato": il rinvio sul trattamento sanzionatorio coinvolgerebbe anche i capi della sentenza per i quali vi è stato il rigetto del ricorso, cosicché non sarebbe invocabile il principio del giudicato parziale, pur valido ad altri fini.

Da qui, la enunciazione del principio secondo il quale in caso di sentenza parziale con rinvio anche in punto di pena, non essendosi formato il giudicato e di conseguenza non avendo l'istante ancora perso la qualifica di imputato, quest'ultimo non è legittimato a proporre il ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., neppure in forza del principio del giudicato parziale [Sez. 1, Sentenza n. 23854 del 20/05/2010 (dep. 21/06/2010), Querci, Rv. 247587].

In senso opposto, è stato invece affermato il principio per il quale deve ritenersi legittimato a proporre ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, in qualità di soggetto "condannato", anche l'imputato nei cui confronti sia intervenuta una sentenza della Corte di cassazione di annullamento con rinvio di una sentenza di condanna, quando il rinvio riguardi soltanto il quomodo della condotta ed il quantum del conseguente trattamento sanzionatorio, avendo tale pronuncia contenuto e valenza di rigetto per quel che riguarda l'accertamento dell'an della colpevolezza [Sez. 5, Sentenza n. 217 del 21/11/2007 (dep. 07/01/2008), Di Caro Scorsone, Rv. 239462].

In altra occasione, è stato operato un distinguo tra il carattere parziale o totale dell'annullamento: nel primo caso, infatti, la formazione di un giudicato parziale rende ammissibile il ricorso straordinario limitatamente a quei capi della sentenza che, a norma dell'art. 624 cod. proc. pen., acquistano autorità di cosa giudicata, non essendo in connessione essenziale con i capi annullati; nel secondo caso, invece, rispetto ai capi investiti dall'annullamento, l'impugnazione straordinaria non può essere rivolta all'annullamento con rinvio.

In tale ultima eventualità la impugnazione straordinaria può ritenersi ammissibile soltanto all'esito del giudizio rescissorio, allorquando sia passata in giudicato la sentenza emessa dal giudice del rinvio e deve riguardare sia la decisione con la quale la Corte rigetti o dichiari inammissibile il ricorso avverso la condanna adottata in sede di rinvio, sia la precedente sentenza di annullamento con rinvio, che all'ultima si salda ai fini della formazione del giudicato [Sez. 1, Sentenza n. 17362 del 15/04/2009 (dep. 23/04/2009), Di Matteo, Rv. 244067].

Più di recente, si è ugualmente ribadito il principio secondo il quale deve ritenersi legittimato a proporre ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, in qualità di soggetto condannato, l'imputato nei cui confronti sia intervenuta una sentenza della Corte di cassazione di annullamento parziale con rinvio di una sentenza di condanna, quando il rinvio sia disposto limitatamente alla necessità di rideterminare il trattamento sanzionatorio, con la conseguente formazione di un giudicato parziale per il punto della decisione relativo all'accertamento della colpevolezza [Sez. 6, Sentenza n. 25977 del 08/06/2010 (dep. 07/07/2010), Peverelli, Rv. 248003].

È stato infatti rilevato che, quando l'annullamento con rinvio è disposto limitatamente alla necessità di rideterminare il trattamento sanzionatorio, non vi è dubbio che passi in giudicato il punto dell'affermazione della responsabilità e quindi sussiste un giudicato parziale che attribuisce la non più discutibile e rimuovibile qualità di "condannato", nel rilevante significato di persona nei cui confronti è definitiva l'affermazione di responsabilità penale per un determinato fatto-reato.

L'opposta tesi condurrebbe ad evidenti aporie di sistema giacchè, a fronte di un vizio suscettibile di essere rilevato e rimosso subito con lo strumento del ricorso straordinario, occorrerebbe invece attendere l'espletamento del giudizio di rinvio e la definizione dell'eventuale giudizio di cassazione, con i possibili ulteriori sviluppi, per poi giungere all'annullamento della originaria pronuncia rescindente, della sentenza del giudice di rinvio e di quella di cassazione sul giudizio di rinvio: un esito, questo, evidentemente disfunzionale rispetto al parametro della durata ragionevole e della efficienza del processo.

Ai fini della risoluzione del contrasto, le Sezioni Unite hanno approfondito la tematica relativa al passaggio in giudicato della sentenza di condanna: a tal proposito, è noto come la giurisprudenza abbia avuto modo di porre in luce la circostanza che la formazione del giudicato ben può assumere, proprio nelle ipotesi di annullamento parziale pronunciato in sede di legittimità, i connotati tipici di una fattispecie a formazione progressiva.

Il giudicato può avere una formazione non simultanea ma progressiva e ciò può accadere sia nelle ipotesi di procedimento cumulativo, allorchè nel processo confluiscano una pluralità di domande di giudizio che comportino una pluralità di regiudicande, sia quando il procedimento riguardi un solo reato attribuito ad un solo soggetto, perchè anche in quest'ultimo caso la sentenza "definitiva" può essere la risultante di più decisioni, intervenute attraverso lo sviluppo progressivo dei mezzi di impugnazione.

D'altra parte, è diretta conseguenza proprio della definitività della decisione della Corte di cassazione, sia pure limitata nel suo contenuto all'oggetto dell'annullamento, la circostanza che l'art. 628 cod. proc. pen. espressamente consenta la impugnabilità della sentenza del giudice di rinvio soltanto in relazione ai "punti" non decisi in sede di giudizio rescindente, proprio perchè il perimetro cognitivo del giudice del rinvio è tracciato dai limiti del devoluto, senza che possano venire nuovamente in discorso le "parti" della sentenza annullata che hanno ormai assunto i connotati di intangibilità propri della cosa giudicata.

La sentenza di annullamento parziale della Corte di cassazione delimita l'oggetto del giudizio di rinvio, riducendo corrispondentemente l'oggetto del processo, senza che possa cogliersi un nesso di corrispondenza biunivoca tra la eseguibilità della sentenza penale di condanna e l'autorità di cosa giudicata attribuibile ad una o più statuizioni in essa contenute, giacchè la possibilità di dare attuazione alle decisioni definitive di una sentenza non va confusa con la irrevocabilità della pronuncia stessa in relazione all'iter processuale.

Nel primo caso, infatti, la definitività del provvedimento, in tutte le sue componenti, va raccordata alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo; nel secondo caso, invece, la definitività della pronuncia consegue all'esaurimento del giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato (Sez. U, n. 373 del 23/11/1990, dep. 1991, Agnese; nonchè, per le medesime conclusioni in punto di irrilevanza della prescrizione sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale, che abbia ad oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto al riconoscimento dell'esistenza del fatto-reato e della responsabilità dell'imputato, Sez. U, n. 6019 dell'11/05/1993, Ligresti, Rv. 193418; Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196886; Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640).

D'altra parte, l'"auctoritas" di "res iudicata" che l'art. 624, comma primo, cod. proc. pen., conferisce alla parte "autonoma" della sentenza non annullata, è rimarcata dalla esigenza di pronta riconoscibilità "esterna" del formarsi del giudicato parziale, giacchè il comma secondo del richiamato art. 624 del codice di rito demanda al medesimo giudice del rescindente il compito di dichiarare nello stesso dispositivo - con pronuncia di tipo essenzialmente ricognitivo - quali parti della sentenza del giudice a quo diventano irrevocabili, stabilendo, poi, meccanismi del tutto snelli quanto a formalità, per porre rimedio alla eventuale omissione di tale adempimento, evidentemente reputato di non trascurabile risalto.

Al tempo stesso e ad ulteriore conferma dello iato che separa il giudizio rescissorio dai precedenti gradi, sta la regola dettata dall'art. 627, comma quarto, cod. proc. pen. in forza della quale non possono essere proposte nullità, anche assolute, o inammissibilità, verificatesi in precedenza, oltre alla già segnalata inoppugnabilità dei punti già decisi dalla Corte di cassazione.

In tale cornice di riferimento come è indiscutibile il formarsi del giudicato di condanna nell'ipotesi di pluralità di regiudicande, ove l'annullamento riguardi soltanto una parte delle imputazioni, altrettanto è a dirsi per il caso in cui, divenendo irrevocabile l'affermazione della responsabilità penale in ordine ad una determinata ipotesi di reato, il giudizio debba proseguire in sede di rinvio soltanto agli effetti della determinazione del trattamento sanzionatorio, posto che i punti oggetto di annullamento non si riflettono sull'an, ma soltanto sul quantum della pena in concreto da irrogare.

In tale contesto come deve ritenersi ontologicamente venuta meno la presunzione di non colpevolezza, essendo stata quest'ultima accertata con sentenza ormai divenuta definitiva sul punto, allo stesso modo non può che inferirsene che risulti trasformata la posizione dell'imputato in quella di "condannato," anche se a pena ancora da determinare in via definitiva.

Per altro verso, in più occasioni, la stessa giurisprudenza ha avuto modo di affermare che, quando la decisione divenga irrevocabile in relazione alla affermazione della responsabilità e contenga già l'indicazione della pena minima che il condannato deve comunque espiare, la stessa deve essere messa in esecuzione, in quanto l'eventuale rinvio disposto dalla Corte di cassazione relativamente ad altri reati non incide sull'immediata eseguibilità delle statuizioni residue aventi propria autonomia [Sez. 5, Sentenza n. 2541 del 02/07/2004 (dep. 27/01/2005), Pipitone, Rv. 230891; Sez. 1, Sentenza n. 2071 del 20/03/2000 (dep. 06/05/2000), Soldano, Rv. 215949; Sez. 6, Sentenza n. 3216 del 20/08/1997 (dep. 14/11/1997), Maddaluno, Rv. 208873; Sez. U, Ordinanza n. 20 del 09/10/1996 (dep. 06/12/1996), Vitale, Rv. 206170].

La eseguibilità, anche solo teorica, della parte della sentenza non annullata, convince, dunque - anche sul piano delle garanzie di effettività e tempestività della tutela che l'istituto previsto dall'art. 625-bis cod. proc. pen. è chiamato ad assicurare - proprio perchè si tratta di una decisione che, cristallizzando il giudizio di responsabilità in termini irrevocabili, muta necessariamente lo status del soggetto, ormai definitivamente dichiarato colpevole e dunque non più semplicemente imputato, anche se ancora parzialmente sub iudice.

Ove così non fosse si darebbe vita ad una irragionevole disparità di trattamento, tra i condannati i cui ricorsi siano stati integralmente respinti - ammessi, quindi, a proporre ricorso straordinario immediatamente, e, pertanto, a fruire di un rimedio che può condurre alla sospensione della esecuzione - rispetto ai condannati che abbiano invece visto il loro ricorso in parte accolto con annullamento parziale della sentenza di condanna, i quali, invece, non potrebbero subito proporre ricorso straordinario, al fine di far valere l'errore del giudizio rescindente e prevenire, per questa via, la eventuale eseguibilità parziale della sentenza di condanna.

L'esclusione della legittimazione a proporre immediatamente ricorso straordinario nel caso di sentenza di annullamento parziale con rinvio in punto di pena provocherebbe alcune aporie all'interno del sistema.

Sul punto occorre osservare come il sistema non richieda affatto che la sentenza del giudice di rinvio possa formare oggetto di ricorso, facendo valere un errore (ostativo) della sentenza di annullamento: di conseguenza, la sentenza della cassazione che giudichi sulla pronuncia adottata in sede di rinvio (ipotesi, questa, per di più eventuale) non è contaminata da alcun tipo di vizio, posto che l'errore di fatto ha inciso esclusivamente sulla originaria pronuncia rescindente, nella parte in cui non ha annullato la sentenza di condanna del giudice di merito.

D'altra parte, la natura di rimedio straordinario che caratterizza il ricorso ex art. 625-bis cod. proc. pen. e l'esigenza di evitare che la sentenza di condanna irrevocabile possa essere esposta, per un tempo potenzialmente indefinito, alla situazione di pur relativa instabilità determinata dalla eventuale proposizione della procedura straordinaria che viene qui in discorso, hanno indotto la giurisprudenza di questa Corte a qualificare come perentorio il termine di 180 giorni entro il quale può essere presentato il ricorso per errore materiale o di fatto [Sez. 4, Sentenza n. 15717 del 07/03/2008 (dep. 16/04/2008), Spagnuolo, Rv. 239813; Sez. 5, Sentenza n. 37814 del 27/05/2009 (dep. 25/09/2009), Nunziata, Rv. 245131].

Il che, nella maggior parte dei casi, di fatto precluderebbe, "ratione temporis", la proponibilità del ricorso straordinario dopo il giudizio di rinvio e l'eventuale ricorso per cassazione, posto che il dies a quo, in mancanza di diversa previsione normativa, resa indispensabile dalla eccezionalità dell'istituto, non potrebbe che decorrere dal deposito della sentenza della Corte di cassazione adottata in occasione del giudizio rescindente.

Per altro verso, all'accoglimento della soluzione seguita non può far velo la mancata previsione di una disciplina che espressamente raccordi e coordini fra loro la eventuale immediata proposizione del ricorso straordinario con l'autonomo - ma pregiudicabile – "iter" del giudizio di rinvio, posto che, assai opportunamente, il legislatore ha tracciato, in termini di ampia snellezza di forme, tanto i possibili interventi di carattere sospensivo, che l'esito decisorio, nel quale il giudice del ricorso straordinario è chiamato, in caso di accoglimento della richiesta, ad adottare "i provvedimenti necessari per correggere l'errore".

Pertanto, ove, in ipotesi di annullamento parziale, si sia verificato nel giudizio rescindente un errore materiale o di fatto che pregiudichi la parte della sentenza di condanna che assume autorità di giudicato, la proposizione del ricorso straordinario che non sia ritenuto inammissibile, può comportare l'adozione di una ordinanza che, non soltanto determini la sospensione degli "effetti del provvedimento" che scaturiscono dalla pronuncia viziata (art. 625-bis, comma 2), ma anche la sospensione del giudizio di rinvio, ad evitare la prosecuzione di un giudizio che, in linea teorica, può essere integralmente posto nel nulla dalla decisione sul ricorso straordinario (si pensi alla eventualità di un errore che si riferisca ad un vizio che a sua volta determini l'integrale caducazione della sentenza di condanna).

Allo stesso modo, ove il ricorso straordinario sia fondato, ma non ne derivino conseguenze sul piano della correttezza del decisum e, dunque, degli esiti del giudizio di rinvio, sarà la stessa Corte ad adottare i provvedimenti del caso, per correggere l'errore, senza in alcun modo compromettere l'ulteriore iter del procedimento.

Sotto altro profilo, pur non ignorandosi l'esistenza di arresti in senso opposto [Sez. 6, Sentenza n. 20093 del 24/10/2002 (dep. 05/05/2003), Laurendi, Rv. 225247], appare condivisibile la tesi secondo la quale nel procedimento di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen, ancorché risultino concettualmente distinguibili i due momenti - rescindente e rescissorio - in cui si articola la decisione in caso di accoglimento del ricorso straordinario, la definizione della procedura non deve necessariamente articolarsi nelle due distinte fasi della immediata caducazione del provvedimento viziato e della successiva udienza per la celebrazione del rinnovato giudizio sul precedente ricorso per cassazione, dal momento che essa ben può avvenire - sempre che il ricorrente sia stato concretamente posto in condizione di interloquire sul merito del ricorso straordinario e sulle relative conseguenze in punto di eventuale "riesame" del ricorso a suo tempo proposto - con l'immediata pronuncia della decisione che, se è di accoglimento del ricorso e della originaria doglianza indebitamente pretermessa, non rappresenta una semplice correzione di quella precedente, ma la può sostituire in toto [Sez. U, Sentenza n. 16103 del 27/03/2002 (dep. 30/04/2002), Basile, Rv. 221282; Sez. U., n. 16104 del 27/03/2002, De Lorenzo; Sez. 6, Sentenza n. 9926 del 12/01/2012 (dep. 14/03/2012), Rizzato, Rv. 252257].

In conclusione, adita a seguito di ricorso straordinario, la Corte di cassazione può, nel medesimo contesto procedimentale, delibare la fondatezza del ricorso, esaminare il merito che scaturisce dall'errore riscontrato ed adottare i conseguenti provvedimenti, che potranno essere di tipo demolitorio, sostitutivo o integrativo del precedente decisum, con i corrispondenti riverberi che da ciò scaturiranno sul piano della conferma o dell'annullamento della sentenza di condanna, oggetto della pronuncia viziata.

REVISIONE.

1. Parere del pubblico ministero.

La Corte si è soffermata [SENT. Sez. U, n. 15189 del 19/01/2012 (dep. 20/04/2012), Rv. 252020, Dander] sul parere del pubblico ministero nel giudizio di revisione. In particolare, ha affermato che nel giudizio di revisione, il parere del pubblico ministero che sia stato, seppure irritualmente, acquisito ai fini della valutazione sull'ammissibilità della richiesta e che abbia un contenuto argomentativo, deve essere comunicato alla parte richiedente.

La Quinta Sezione penale, con ordinanza in data 27 ottobre 2011, depositata il successivo 14 novembre, rilevando l'esistenza di un contrasto sulla mancata comunicazione all'istante del parere espresso dal procuratore generale sulla richiesta di revisione, rimetteva la questione alle Sezioni Unite.

Secondo un orientamento (Sez. 5, n. 2378 del 25/11/2010, Tantalo, Rv. 249764) doveva essere escluso ogni vizio relativo alla mancata comunicazione all'istante del parere del procuratore generale sull'ammissibilità della richiesta di revisione, poiché la pretesa di una interlocuzione successiva al parere del p.g. darebbe vita ad una fase processuale dall'esito indefinibile, implicando che, a sua volta, l'organo requirente possa ulteriormente interloquire.

Per l'orientamento di segno contrario (Sez. 1, Sent. n. 29389 del 24/06/2010, Zito, Rv. 248029, e Sez. 3, Sent. n 34917 del 13/07/2011, F., Rv. 250998) doveva ravvisarsi la nullità del provvedimento dichiarativo dell'inammissibilità dell'istanza, sottolineando che, quando la corte di appello abbia consentito al procuratore generale di precisare le proprie richieste, non poteva essere negato alla parte istante di conoscerle, onde consentire lo svolgimento delle proprie difese e l'esercizio del contraddittorio in condizione di parità, in ossequio all'interpretazione conforme ai più recenti principi affermati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo in materia di tutela dei diritti di difesa dell'imputato.

Le Sezioni Unite hanno chiarito il significato dell'inciso normativo portato dall'art. 634, comma primo, cod. proc. pen., che consente alla corte di appello di dichiarare la domanda inammissibile "anche di ufficio", mediante un giudizio espresso senza interlocuzione delle parti.

L'opzione normativa sta a significare che la legge consente al giudice di provvedere con rapidità alle valutazioni preliminari, non connotate da complessità, ma foriere di inammissibilità, sulla richiesta avanzata dalla parte, dovendosi rimettere alla trattazione in sede di giudizio i casi opinabili, con la garanzia del contraddittorio.

Nel contesto di questa impostazione, semplificata e priva di contradditorio, ristretta all'iniziativa dell'istante e all'esame della corte di appello, il codice di rito non ha previsto la partecipazione del procuratore generale, che, pertanto, non è soggetto coinvolto nella procedura in discorso, salvo che non ne sia il propulsore, ai sensi dell'art. 632, comma primo, lett. b), cod. proc. pen.

Tale conclusione è asseverata dalla lettera dell'art. 634 cod. proc. pen., che non lo menziona quale destinatario di uno specifico onere di esprimere un parere sulla richiesta del privato (da ultimo, v. Sez. 5, Sent. n. 21296 del 08/04/2010, Scuderi, Rv. 247297).

Proprio l'assenza di un obbligo di preventiva interlocuzione con il procuratore generale (a meno che non sia il soggetto che ha proposto la richiesta di revisione), rende imprevista e, anzi, imprevedibile, la presenza agli atti processuali di una requisitoria proveniente, nel contesto di un rito dominato da una sommaria delibazione preliminare da parte della corte di appello.

E poiché non sussiste alcun onere di informazione al pubblico ministero da parte del soggetto richiedente, soltanto un'espressa comunicazione del giudice a colui che ha avanzato la domanda di revisione può assicurargli la conoscenza del parere della parte pubblica, consentendogli di esprimere ogni opportuna difesa anche in relazione al suo contenuto.

Solo in tal modo è possibile allinearsi alle indicazioni della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per cui il diritto a un processo penale basato sul contraddittorio implica, tanto per l'accusa quanto per la difesa, la facoltà di conoscere le osservazioni e gli elementi di prova prodotti dalla controparte, nonché di discuterli (principio in forza del quale è stata giudicata in contrasto con l'art. 6, comma primo, CEDU la circostanza per cui il pubblico ministero avesse potuto presentare una memoria al giudice d'appello, senza darne comunicazione all'imputato: cfr. Corte EDU, 28 agosto 1991, Brandstetter c. Austria, § 67; analogamente 22 febbraio 1996, Bulut c. Austria, § 49; 27 marzo 1998, K.D.B. c. Paesi Bassi, ecc.).

In particolare la sentenza della Corte EDU del 23 ottobre 2006, Fodale c. Italia, impone un rito il quale consente concretamente ad ogni parte una ragionevole possibilità di interlocuzione processuale e non soltanto la mera facoltà di replica alle osservazioni avanzate da una parte.

Sulla base degli anzidetti principi, quando nella fase rescindente si acquisisce il (pur non dovuto) parere del procuratore generale e questo sia foriero di considerazioni, suscettibili di tradursi in profili di valutazione probatoria, si impone l'applicazione della piena dialettica processuale, consentendo anche alla parte istante di prendere conoscenza del documento.

Pertanto (escluso il caso che il procuratore generale non abbia presentato istante di revisione), al giudice è inibito l'uso, nella motivazione della propria decisione, dei profili argomentativi insiti nel parere che - al di fuori di ogni obbligo normativo - abbia, tuttavia, richiesto al procuratore generale (ed abbia acquisito agli atti processuali), poiché, in tal modo, incorre nella patologia della nullità del provvedimento giudiziale.

RIPARAZIONE PER L'INGIUSTA DETENZIONE.

Le Sezioni Unite [Ord. Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012 (dep. 25/10/2012) Rv. 253289, Nicosia] hanno affrontato la questione della necessità dell'udienza pubblica o della sufficienza del rito camerale per la trattazione in sede di legittimità dei procedimenti per la riparazione dell'ingiusta detenzione.

È stato, in tal senso, affermato che «il procedimento per la trattazione innanzi alla Corte di cassazione dei ricorsi in materia di riparazione per l'ingiusta detenzione (camera di consiglio non partecipata) non trova ostacolo nella sentenza 10 aprile 2012 della Corte europea per i diritti dell'uomo, nel caso Lorenzetti c. Italia, in quanto tale pronuncia, nell'affermare la necessità che al soggetto interessato possa quanto meno essere offerta la possibilità di richiedere una trattazione in pubblica udienza, non si riferisce al giudizio di legittimità».

La Corte Europea dei diritti dell'uomo, con sentenza in data 10 aprile 2012, nel caso Lorenzetti c. Italia, in riferimento al procedimento per l'accertamento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione previsto dagli artt. 314 e segg. cod. proc. pen., ha ravvisato la violazione dell'art. 6 della CEDU in tema di diritto ad un equo processo, per la mancanza di pubblicità del rito camerale, quale è quello che si celebra davanti alla Corte di appello a norma degli artt. 643, 646 e 127 cod. proc. pen., richiamati dall'art. 315 cod. proc. pen., per la trattazione della domanda di riparazione per ingiusta detenzione.

La pubblicità dell'udienza, costituendo un principio fondamentale sancito dall'art. 6, § 1, della Convenzione, rappresenta un valore teso a fornire una garanzia per i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico, rappresentando, dunque, uno degli strumenti destinati a contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali.

Attraverso la trasparenza che la pubblicità delle udienze fornisce alla amministrazione della giustizia, un simile principio "contribuisce a raggiungere l'obiettivo dell'art. 6, § 1, ossia il processo equo, la cui garanzia fa parte dei principi fondamentali di ogni società democratica".

La norma convenzionale, tuttavia, non impedisce che i giudici, viste le particolarità della causa sottoposta al loro esame, possano derogare a questo principio, ma l'assenza del pubblico, totale o parziale, deve essere rigorosamente dettata e giustificata dalle circostanze oggettive del procedimento.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la pubblica udienza non è necessaria in considerazione delle peculiari ed eccezionali circostanze che caratterizzano la causa, soprattutto quando quest'ultima non sollevi questioni di fatto o di diritto che non possano essere risolte in base al fascicolo ed alle osservazioni presentate dalle parti, come nel caso in cui vengano trattate situazioni che hanno ad oggetto argomenti altamente tecnici, purchè la specificità della materia non esiga il controllo del pubblico.

È stata, così, sottolineata la rilevanza che assume la pubblicità del dibattimento nel quadro delle garanzie di trasparenza del processo e di salvaguardia dei diritto ad un equo processo, che devono essere estese al caso del procedimento per la riparazione della ingiusta detenzione, nel quale il giudice è chiamato a valutare se l'interessato abbia contribuito a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave.

Nel procedimento in esame nessuna circostanza particolare giustifica la esclusione della pubblicità della udienza, "non trattandosi di questioni di natura tecnica che possano essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo".

Preso atto di tale pronuncia e considerato che la Corte di cassazione tratta quella specifica categoria di procedimenti con rito camerale non partecipato a norma dell'art. 611 cod. proc. pen. doveva essere stabilito se il principio sancito in tema di udienza pubblica dalla Convenzione EDU - per come interpretato dalla Corte di Strasburgo – doveva essere assicurato anche nel procedimento innanzi alla Corte di cassazione.

La tematica della pubblicità dell'udienza affrontata dalle Sezioni Unite presenta evidenti analogie con il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione, che ha già formato oggetto di puntuali interventi della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in riferimento alla compatibilità della scansione procedimentale rispetto all'art. 117 Cost.

Con la sentenza n. 93 del 2010, infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolgesse, davanti al tribunale e alla corte di appello, nelle forme dell'udienza pubblica.

A tale conclusione la Corte costituzionale era pervenuta facendo leva sul consolidato indirizzo secondo il quale si era espressa, sullo specifico tema, la giurisprudenza della Corte EDU, la quale aveva ravvisato una violazione dell'art. 6, § 1, della Convenzione nel fatto che le persone coinvolte in un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione non si vedessero offrire la possibilità - esclusa dalla normativa nazionale - di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti di appello.

Ciò, in particolare, avuto riguardo alla entità della "posta in gioco" nelle procedure di prevenzione, che mirano alla confisca di "beni e capitali", coinvolgendo così direttamente la situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione, nonchè gli effetti che esse possono produrre sulle persone: situazione, questa, a fronte della quale "non si può affermare che il controllo del pubblico", almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto, "non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato".

Nella richiamata pronuncia, d'altra parte, la Corte costituzionale, nell'evocare quale parametro di riferimento l'art. 117 Cost., aveva sottolineato come la norma internazionale convenzionale, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non potesse ritenersi in contrasto con le tutele offerte in materia dalla Carta fondamentale: "L'assenza di uno specifico richiamo in Costituzione non è idonea a scalfire, in effetti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, che - consacrato in altri strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con Legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull'Unione Europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1 dicembre 2009".

D'altra parte, la giurisprudenza costituzionale in più occasioni ha avuto modo di sottolineare come la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce "principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale, in forza dell'art. 101 Cost., trova in quella sovranità la sua legittimazione".

I caratteri del procedimento di prevenzione, connotati dall'esistenza di un giudizio di merito, "idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13 Cost.) e il patrimonio (...), nonchè la stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure anche gravemente "inabilitanti" previste a carico del soggetto cui è applicata la misura di prevenzione (in particolare, dall'art. 10 della legge n. 575 del 1965)", finivano, quindi, per conferire uno "specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato".

Sulle specifiche modalità di trattazione dei ricorsi, con la successiva sentenza n. 80 del 2011, la Corte costituzionale ha invece dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica.

In argomento la Corte costituzionale ha operato una attenta rilettura dei principi della Corte di Strasburgo in merito alla interpretazione da dare al disposto dell'art. 6, § 1, della Convenzione, nella parte in cui assicura ad ogni persona il diritto che la sua causa sia esaminata "pubblicamente", sottolineando come, al lume della giurisprudenza di quella Corte, il silenzio serbato a proposito del giudizio di legittimità risultasse particolarmente significativo, nel senso di assumere una valenza ad excludendum; e ciò, sia perchè la Corte Europea era stata chiamata a pronunciarsi su procedimenti di prevenzione che avevano percorso tutti i gradi della giurisdizione nazionale, compreso quello di cassazione; sia perchè era consolidata nella giurisprudenza della Corte Europea l'affermazione secondo la quale occorre guardare alla procedura nazionale nel suo complesso, con la conseguenza che, "a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l'assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta", dedicato "esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto".

Dunque, il giudizio di legittimità, proprio per le caratteristiche che ne contraddistinguono la funzione, fuoriesce dalla platea dei momenti di esercizio della giurisdizione in cui è necessaria la garanzia della pubblicità della udienza, posto che "la valenza del controllo immediato del "quisque de populo" sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all'aula di udienza si apprezza in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative e, comunque, ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorchè al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative".

In recepimento di queste linee guida, le Sezioni Unite hanno condiviso integralmente gli approdi cui è pervenuta la Corte costituzionale nel desumere dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo il principio secondo il quale, in riferimento al giudizio di legittimità, la pubblicità della udienza non rappresenta un corollario necessario e inderogabile del diritto alla pubblicità del processo garantito dall'art. 6, § 1, della CEDU, quanto meno con riferimento alla tematica dei procedimenti speciali oggetto di esame.

In ogni caso, ove si fosse verificata una violazione dell'art. 6, § 1, della CEDU, nei gradi di merito, la eventuale trattazione del ricorso per cassazione in udienza pubblica non varrebbe a rimuovere e "sanare" quella violazione, dal momento che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha più volte precisato che lo svolgimento pubblico del giudizio di impugnazione che sia a cognizione limitata, come nel caso in cui il relativo sindacato sia circoscritto ai soli motivi di diritto, non compensa la mancanza di pubblicità del giudizio anteriore, "proprio perchè sfuggono all'esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali l'esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali l'assunzione delle prove, l'esame dei fatti e l'apprezzamento della proporzionalità tra fatto e sanzione".

In conclusione, la circostanza che il procedimento per la riparazione della ingiusta detenzione sia trattato, in sede di giudizio di legittimità, con il rito camerale non partecipato, in assenza del pubblico, non evidenzia profili di contrasto tanto con il principio convenzionale dettato dall'art. 6, § 1, della CEDU - e con le altre fonti internazionali e sovranazionali che sanciscono una regola consimile - che con il precetto della pubblicità dei giudizi, insito nella tavola dei valori tracciati dalla Costituzione.

ESECUZIONE.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Condanna alle spese.

Una riflessione delle Sezioni Unite [SENT., Sez. U, n. 491 del 29/9/2011 (dep. 12/01/2012), Rv. 251266, Pislor] ha riguardato la condanna alle spese in relazione alla fase esecutiva. È stato affermato che la questione relativa alla persistenza, a seguito dell'abrogazione dell'art. 535, comma secondo, cod. proc. pen., del vincolo di solidarietà della condanna alle spese del procedimento penale, in tal senso già emessa, rientra nelle attribuzioni del giudice dell'esecuzione penale.

Ed invero, il tema relativo alla sussistenza o meno del vincolo di solidarietà, per effetto dell'abrogazione dell'art. 535, comma secondo, cod. proc. pen., ad opera della legge 18 giugno 2009, n. 69, investe propriamente la portata generale della condanna alle spese e rientra nelle attribuzioni del giudice dell'esecuzione penale.

Le Sezioni Unite, con la medesima sentenza n. 491 del 2012, Rv. 251267, Pislor, hanno affermato che l'esclusione del vincolo di solidarietà conseguente all'abrogazione dell'art. 535, comma secondo, cod. proc. pen., non ha effetto sulle statuizioni di condanna alle spese emesse anteriormente in tal senso e passate in giudicato, e ciò non per la natura processuale della suddetta disposizione abrogatrice, cui va invece riconosciuta natura di norma sostanziale, bensì in forza della preclusione di cui all'ultimo inciso del comma quarto dell'art. 2 cod. pen.

Si ritiene ormai superata l'opinione della natura prettamente civilistica dell'obbligazione di rimborso delle spese processuali, a seguito della legge sull'ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975), che ha introdotto il beneficio della rimessione del debito nei confronti dei condannati e degli internati che si trovino in disagiate condizioni economiche ed abbiano tenuto regolare condotta.

Tale esenzione premiale ha fatto mutare natura al debito di rimborso delle spese processuali: "non più obbligazione civile retta dai comuni principi della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa" (così Corte cost., sent. n. 98 del 1998, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, comma secondo, cod. pen., nella parte in cui non prevede la non trasmissibilità agli eredi dell'obbligo di rimborsare le spese del processo penale).

Per la natura di sanzione economica accessoria alla pena, che deve ormai attribuirsi alla statuizione di condanna alle spese del procedimento penale, non può non ritenersi che un intervento che delimiti l'entità di tale sanzione abbia natura di norma non processuale ma sostanziale.

Da ciò tuttavia, non può derivare l'applicabilità retroattiva della nuova regola del "proquota" alle fattispecie per le quali sia stata anteriormente pronunciata sentenza irrevocabile, stante la preclusione di cui all'ultimo inciso del comma quarto dell'art. 2 cod. pen.: preclusione che, nell'ambito in esame (di mera sopravvenienza di norma più favorevole), certamente non presenta profili di incompatibilità con principi costituzionali o sovranazionali.

Con la stessa sentenza n. 491 del 2012, Rv. 251265, Pislor, le Sezioni Unite hanno affermato che la domanda del condannato che, senza contestazione della condanna al pagamento delle spese del procedimento penale, deduca (sia quanto al calcolo del concreto ammontare delle voci di spesa, sia quanto alla loro pertinenza ai reati cui si riferisce la condanna) l'errata quantificazione, va proposta al giudice civile nelle forme dell'opposizione ex art. 615 cod. proc. civ.; non rilevando a tal fine l'attribuibilità alla statuizione di detta condanna della natura di sanzione economica accessoria alla pena (La Corte ha precisato che il giudice penale erroneamente investito, nelle forme dell'incidente di esecuzione, della domanda del condannato di accertamento dell'inesistenza dell'obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali, deve dichiarare il non luogo a provvedere sull'istanza e non il difetto di giurisdizione; tale declaratoria non preclude, di per sè, la riproposizione della stessa istanza al giudice civile competente in materia di opposizioni all'esecuzione forzata).

La Prima Sezione penale, con ordinanza n. 25858 in data 12 aprile 2011, depositata il 30 giugno 2011, per la sussistenza di un contrasto in giurisprudenza, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione riguardante "la determinazione della forma - incidente di esecuzione in sede penale od opposizione all'esecuzione in sede civile – in cui debba essere proposta la domanda del condannato di accertamento dell'inesistenza dell'obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali e le conseguenze di eventuali errori commessi in proposito dall'interessato".

Il tradizionale riparto delle attribuzioni spettanti in materia di spese processuali penali fra giudice dell'esecuzione penale e giudice dell'opposizione all'esecuzione in sede civile, già chiaramente fissato dal vigente codice di rito con le disposizioni di cui all'art. 691, comma secondo, e all'art. 695 cod. proc. pen., è, invero, pienamente rimasto in piedi con l'entrata in vigore del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che, disciplinando "ex novo" l'intera materia delle spese di giustizia e regolando specificamente, per il recupero delle spese, la riscossione mediante ruolo, ha espressamente previsto, all'art. 226, l'applicazione, per le garanzie giurisdizionali, dell'art. 29 d.lgs. 24 febbraio 1999, n. 46, secondo il quale alle entrate non tributarie "non si applica la disposizione del comma primo dell'articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602" (escludente la possibilità di proporre le opposizioni di cui agli artt. 615 e 617 cod. proc. civ.) "e le opposizioni all'esecuzione ed agli atti esecutivi si propongono nelle forme ordinarie".

Pertanto, anche alla stregua della disciplina di cui al d.P.R. n. 115 del 2002, per ogni contestazione che s'intenda sollevare, in sede di riscossione, nei riguardi della quantificazione delle spese operata dall'ufficio competente sulla base della statuizione recata dalla sentenza penale, il rimedio giurisdizionale esperibile è quello dell'opposizione all'esecuzione a sensi dell'art. 615 cod. proc. civ.

I momenti della statuizione penale sulle spese e della successiva quantificazione delle stesse sono cronologicamente e ontologicamente diversi. Il primo riguarda l'emissione e la portata (nel senso dei criteri regolatori) della condanna alle spese, il secondo l'operazione contabilmente determinativa del quantum che ne discende.

Il giudice dell'esecuzione penale è quindi chiamato a dirimere le questioni inerenti al primo dei due descritti momenti, mentre il giudice civile dell'opposizione all'esecuzione deve occuparsi delle contestazioni relative alla concreta attuazione quantificatoria della statuizione penale. Tali contestazioni possono a loro volta riguardare o aspetti squisitamente contabili o la riconducibilità di talune voci al perimetro di applicabilità della condanna.

In relazione a questa seconda ipotesi occorre chiarire che l'intervento del giudice civile dell'opposizione presuppone che non vi siano dubbi sulla definizione del detto perimetro e si verta, quindi, solo sul concreto rispetto di esso in sede di quantificazione.

È evidente infatti che, ove si discuta della reale definizione del perimetro e, quindi, della portata della stessa statuizione penale, la questione non può che appartenere alla cognizione del giudice dell'esecuzione penale.

2. Questioni sul titolo esecutivo.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Ordinanza n. 34472 del 19/04/2012 (dep. 10/09/2012), Ercolano, Rv. 252933] hanno affrontato la specifica questione relativa al quesito «se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, possa sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole».

Al riguardo è stato puntualizzato che «le decisioni della Corte EDU che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto - non correlata in via esclusiva al caso esaminato - della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell'ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale (Fattispecie riguardante la possibilità che il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati in materia dalla Corte EDU, e modificando il giudicato, sostituisca la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione)».

La tematica impone di stabilire la rilevanza che nell'ordinamento interno possono assumere, in deroga anche al giudicato, le violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU), della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

Ai sensi dell'art. 46 della CEDU, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte nelle controversie nelle quali esse sono parti e al Comitato dei Ministri è affidato il compito di vigilare sulla esecuzione di tali sentenze, con la conseguenza che lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del detto Comitato, le misure generali e/o, se del caso, individuali per porre fine alla violazione constatata, eliminarne le conseguenze e scongiurare ulteriori violazioni analoghe.

Quando la Corte EDU, alla quale è affidato il compito istituzionale di interpretare e applicare la Convenzione (art. 32), accerta violazioni connesse a problemi sistematici e strutturali dell'ordinamento giuridico nazionale pone in essere una così detta «procedura di sentenza pilota», che si propone di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello nazionale i problemi rilevati, in modo da riconoscere alle persone interessate, che versano nella stessa condizione di quella il cui caso è stato già specificamente preso in considerazione, i diritti e le libertà convenzionali, come dispone l'art. 1, offrendo loro la riparazione più rapida, in tal modo alleggerendo il carico della Corte sovranazionale, che, altrimenti, dovrebbe esaminare moltissimi ricorsi sostanzialmente simili (Corte EDU, G.C., 22/06/2004, Broniowski c. Polonia, pp. 188-194; 28/09/2005, stesse parti, pp. 34- 35).

La giurisprudenza della Corte EDU si è caratterizzata nel tempo «per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione para-costituzionale di tutela dell'interesse generale al rispetto del diritto oggettivo».

Sempre più frequentemente, infatti, le sentenze della Corte, nel rilevare la contrarietà alla CEDU di situazioni interne di portata generale, danno indicazioni allo Stato responsabile sui rimedi da adottare per rimuovere la rilevata disfunzione sistemica nel proprio ordinamento interno.

La tecnica delle cd. «sentenze pilota», affidata - dapprima - alla prassi in difetto di una esplicita base normativa, è stata recentemente formalizzata nel regolamento di procedura della Corte, emendato a tale scopo nel febbraio 2011 e in vigore, per come modificato, dal 1 aprile 2011.

L'effettività dell'esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo è stata, inoltre, accresciuta sensibilmente dall'entrata in vigore, nel giugno 2010, del Protocollo n. 14 alla CEDU, il quale, modificando l'art. 46 della Convenzione, ha introdotto una procedura di infrazione, che «giurisdizionalizza il meccanismo di supervisione sull'attuazione delle sentenze della Corte», meccanismo certamente attivabile anche in caso di mancato rispetto di «sentenza pilota».

La necessità degli ordinamenti interni di assicurare il rispetto degli obblighi convenzionali, così come già individuati dalla Corte EDU, di porre fine a persistenti violazioni degli stessi e di prevenire nuove violazioni pone certamente delicati problemi giuridici sulla tenuta di situazioni già definite con sentenze passate in giudicato, ma in palese contrasto con i diritti fondamentali tutelati convenzionalmente.

La Corte Costituzionale, con i principi cristallizzati dapprima nelle storiche sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e - successivamente - con le sentenze n. 311 e n. 317 del 2009, n. 80 e n. 113 del 2011, ha chiarito gli effetti prodotti dalle pronunce del giudice sovranazionale nel nostro ordinamento, nel senso di una maggiore resistenza delle norme CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, rispetto alle leggi ordinarie interne, che devono essere interpretate, ove possibile, in maniera conforme alle prime.

Di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza stigmatizzate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo ad un intervento dell'ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona.

La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di emendare «dallo stigma dell'ingiustizia» una tale situazione.

La sentenza della Corte EDU, G.C., 17/09/2009, Scoppola c. Italia, che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati sostanziali di una «sentenza pilota», in quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque l'esistenza, all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU dell'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000 nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna.

Da ciò consegue che una sentenza nella quale la Corte ha individuato una violazione impone allo Stato resistente un obbligo legale non solo di pagare alle persone indicate dalla Corte le somme stabilite a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell'art. 41, ma anche di individuare, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri, le misure generali e, se necessario, individuali da adottare nell'ordinamento giuridico interno per porre fine alla violazione accertata e per eliminarne per quanto possibile gli effetti.

Gli eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, devono dunque essere rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice europeo per il caso Scoppola.

La Corte di Strasburgo, innovando la precedente giurisprudenza in senso restrittivo (decisione della Commissione europea dei diritti dell'uomo, 06/03/1978, X c. Repubblica Federale Tedesca; decisioni della stessa Corte, 05/12/2000, Le Petit c. Regno Unito; 06/03/2003, Zaprianov c. Bulgaria), delinea più precisamente i confini dello "statuto" della legalità convenzionale in tema di reati e di pene.

L'art. 7 CEDU non garantisce soltanto il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l'effetto che, nell'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell'art. 7, § 1, CEDU l'applicazione della pena più sfavorevole al reo.

A tale conclusione la Corte europea perviene tenendo conto del "consenso a livello europeo e internazionale per considerare che l'applicazione della legge penale che prevede una pena meno severa, anche posteriormente alla commissione del reato, è divenuta un principio fondamentale del diritto penale".

La Corte europea, inoltre, ritiene che l'art. 442 cod. proc. pen., nella parte in cui indica la misura della pena da infliggere in caso di condanna all'esito di giudizio abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale, che soggiace alle regole sulla retroattività di cui al menzionato art. 7 CEDU.

Ne consegue la violazione di quest'ultima norma nel caso in cui non venga inflitta all'imputato la pena più mite tra quelle previste dalle diverse leggi succedutesi dal momento del fatto a quello della sentenza definitiva.

Nel caso esaminato, si sono succedute nel tempo tre diverse disposizioni di legge: l'art. 442, comma secondo, cod. proc. pen., dopo la declaratoria d'incostituzionalità nella parte in cui prevedeva la sostituzione dell'ergastolo con la reclusione di anni trenta (sentenza n. 176 del 1991), precludeva, tra il 1991 e il 1999, l'accesso al rito abbreviato per gli imputati di delitti punibili con l'ergastolo; l'art. 30, comma primo, lett. b), della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, reintroduceva la previsione, nel caso di giudizio abbreviato, della sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione di anni trenta; l'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, entrato in vigore il 24 novembre 2000 e convertito dalla legge n. 4 del 2001, stabilisce, in via di interpretazione autentica, che «nell'art. 442, comma secondo, ultimo periodo del codice di procedura penale, l'espressione "pena dell'ergastolo" deve intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno" e aggiunge, in chiusura del comma secondo, il periodo "alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo».

In via transitoria l'art. 8 del richiamato d.l. n. 341 del 2000, così come sostituito in sede di conversione, consentiva a chi avesse formulato richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della sola legge n. 479 del 1999 di revocare la richiesta entro un determinato termine, con conseguente prosecuzione del processo secondo il rito ordinario.

Sulla base di tale quadro normativo, la Corte di Strasburgo, negando il carattere di norma interpretativa dell'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000 ha ritenuto che Franco Scoppola, essendo stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell'art. 7 CEDU così come interpretato, a vedersi infliggere la pena di anni trenta di reclusione, più mite rispetto sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) dall'art. 442 cod. proc. pen. nel testo vigente al momento della commissione del fatto, sia a quella prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dall'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000 in vigore al momento del giudizio.

È indubbio che tale precedente sovranazionale, censurando il meccanismo processuale col quale si allega efficacia retroattiva all'art. 7, comma primo, del d.l. n. 341 del 2000, qualificato come norma d'interpretazione autentica del testo dell'art. 442 cod. proc. pen. come modificato dalla legge n. 479 del 1999, enuncia, in linea di principio, una regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata e, quindi, anche al caso che interessa l'attuale ricorrente, il quale, avvalendosi della riapertura dei termini, aveva chiesto e ottenuto, nel corso del giudizio d'appello (udienza 12/06/2000) e nel vigore della lex mitior n. 479 del 1999, l'accesso al giudizio abbreviato, ma la Corte di assise di appello gli aveva riservato il più rigoroso trattamento sanzionatorio previsto dal d.l. n. 341 del 2000, entrato in vigore prima della conclusione del giudizio.

A conferma della portata di più ampio respiro della decisione della Corte EDU sul caso Scoppola c. Italia, non è superfluo sottolineare che il Comitato dei Ministri, nel dichiarare chiusa, la relativa procedura di sorveglianza sull'esecuzione della sentenza, prendeva atto, dichiarandosi soddisfatto, della nota con la quale l'Autorità italiana, in ordine alle misure di carattere generale da adottare per situazioni analoghe, aveva precisato di ritenere sufficiente la pubblicazione e la diffusione della sentenza ai Tribunali competenti, in considerazione «degli effetti diretti concessi dai Tribunali italiani alle sentenze della Corte europea e [...] delle possibilità offerte dalla procedura di incidente di esecuzione a coloro che si trovino in situazioni uguali a quella del richiedente nel caso in esame. Il Comitato dei Ministri individuava così con chiarezza la strada da seguire in situazioni analoghe a quella del caso Scoppola.

Da quanto premesso è agevole trarre la conclusione che l'avere inflitto al ricorrente Ercolano, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella dello Scoppola, la pena dell'ergastolo, anziché quella di trent'anni di reclusione, sembra avere violato il suo diritto all'applicazione retroattiva (art. 7 CEDU) della legge penale più favorevole, violazione che inevitabilmente si riverbera, con effetti perduranti in fase esecutiva, sul diritto fondamentale della libertà.

Una tale situazione, anche a costo di porre in crisi il «dogma» del giudicato, non può essere tollerata, perchè legittimerebbe l'esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della "species facti", illegittima dall'interprete autentico della CEDU e determinerebbe una patente violazione del principio di parità di trattamento tra condannati che versano in identica posizione.

Diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perchè inflitta all'esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell'art. 6 CEDU: in questa ipotesi, l'apprezzamento, vertendo su eventuali "errores in procedendo" e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l'effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte a un vincolante "dictum" della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie.

Il caso in esame non è dissimile da ogni altra situazione in cui vi sia stata condanna in forza di una legge penale dichiarata ex post, nella sua parte precettiva o sanzionatoria; illegittima o comunque inapplicabile, perchè in contrasto con norme di rango superiore alla legge penale medesima.

Numerosi sono gli esempi nei quali la giurisprudenza delle massime Corti nazionali ha avvertito la necessità di adeguare le pronunce dei giudici di cognizione alle norme della CEDU nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo e ha ritenuto, pertanto, di potere superare il principio della intangibilità del giudicato, anche al di fuori delle ipotesi previste dal codice di rito, tanto da pervenire, con la sentenza n. 113 del 2011 della Corte Costituzionale, ad una declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 630 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.

L'applicazione retroattiva nel giudizio di cognizione, celebratosi prima dell'intervento interpretativo dell'art. 7 CEDU da parte della Corte di Strasburgo, di una norma penale sostanziale di sfavore produce attualmente, essendo in esecuzione la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente, una permanente lesione dei diritti fondamentali del condannato.

La crisi dell'irrevocabilità del giudicato è riscontrabile nell'art. 2, comma terzo, cod. pen. (inserito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 85), secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna definitiva si converte automaticamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore al giudicato prevede esclusivamente quest'ultima, regola questa che deroga a quella posta invece dallo stesso art. 2 cod. pen. (primato della "lex mitior", salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile).

A tale novità normativa può essere accostato, in via analogica, il "novum" dettato dalla Corte EDU in tema di legalità della pena: in entrambi i casi, è l'esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell'esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anche "in executivis", alla «più alta valenza fondativa dello statuto della pena».

Tale principio, d'altra parte, è stato già affermato da Sez. 1, n. 977 del 27/10/2011 (dep. 13/01/2012), Hauohu, Rv. 252062 che ha ravvisato il potere del giudice dell'esecuzione di rideterminare la pena inflitta a chi sia stato condannato per un delitto aggravato dalla propria condizione di clandestinità ex art. 61 n. 11-bis cod. pen., in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità di tale aggravante (sent. n. 249 del 2010), con eliminazione della frazione di pena in eccesso, da considerarsi illegittima e, pertanto, non eseguibile.

In forza dello stesso principio, consolidato è l'orientamento giurisprudenziale circa la possibilità di emendare, in sede esecutiva, l'illegalità della pena accessoria inflitta con condanna irrevocabile [ex plurimis Sez. 1, Sentenza n. 38245 del 13/10/2010 (dep. 29/10/2010), Di Marco Rv. 248300].

3. Trattamento carcerario.

Le Sezioni Unite [Sent. Sez. U, n. 28997 del 19/04/2012 (dep. 18/07/2012) Rv. 252894, Pasqua], in materia di ordinamento penitenziario, hanno enunciato un importante principio concernente le modalità di apposizione del visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti.

È stato, infatti, affermato che, per non obliterare il senso delle parole utilizzate dal legislatore, «il visto di controllo cui può essere sottoposta la corrispondenza dei detenuti ai sensi dell'art. 18-ter ord. pen. implica necessariamente che, previa apertura non occulta del plico, sul contenuto della corrispondenza stessa debba essere impresso un segno riconoscibile e idoneo ad attestare l'avvenuto controllo da parte dell'autorità, in tal modo venendone resi edotti i soggetti coinvolti nel flusso comunicativo».

Non può dubitarsi che, una volta che si apra il plico relativo alla corrispondenza sottoposta al visto di controllo, ove se ne voglia non solo apprendere il contenuto ma anche acquisire la prova documentale mediante fotocopiatura, si realizzi un sia pur temporaneo "trattenimento", che impone la "immediata informazione" al detenuto, secondo la previsione dell'art. 18 ter, comma quinto, ord. pen.

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÁ STRANIERE.

Una serie di pronunce delle Sezioni Unite ha riguardato il tema sopra indicato. Esse vengono appresso passate in rassegna nei sotto-paragrafi che seguono.

1. Estradizione.

Le Sezioni Unite [SENT., Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011 (dep. 17/02/2012), Rv.251691, Marinaj] hanno riflettuto altresì sull'estradizione per l'estero, affermando che l'intervenuta consegna allo Stato richiedente comporta l'inammissibilità, per sopraggiunta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta dalla persona reclamata avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca o di inefficacia della misura cautelare disposta a suo carico nel corso del procedimento estradizionale. In tale ipotesi, l'interesse all'impugnazione non può essere ravvisato neppure nella prospettiva di ottenere la riparazione per ingiusta detenzione.

Ed infatti, ove, in esecuzione del decreto ministeriale di estradizione, sia avvenuta di fatto la consegna della persona allo Stato richiedente, viene meno l'interesse alla definizione del procedimento "de libertate", che, avendo natura incidentale rispetto a quello di estradizione ed essendo funzionale all'obiettivo da quest'ultimo perseguito, non ha più ragion d'essere, per avere comunque assolto, in via definitiva, la sua funzione strumentale alla consegna della persona richiesta, uscita ormai dal campo di operatività della giurisdizione dello Stato italiano, che non è più in grado di incidere sullo "status libertatis" del medesimo soggetto.

Né, in tale ipotesi, l'interesse all'impugnazione della misura custodiale sofferta a fini estradizionali può essere ravvisato nella prospettiva dell'esercizio del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione.

In caso di sentenza irrevocabile favorevole all'estradizione, la detenzione eventualmente patita dall'estradando non può considerarsi ingiusta e non può costituire, pertanto, titolo per un favorevole epilogo della procedura di cui agli artt. 314 e 315 cod. proc. pen.

In mancanza di tale prospettiva, quindi, l'avvenuta esecuzione dell'estradizione fa venire meno, anche sotto tale profilo, il concreto interesse della persona ormai estradata a coltivare il ricorso in materia "de libertate".

2. Impugnabilità del mandato di arresto europeo.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 30769 del 21/06/2012 (dep. 27/07/2012), Caiazzo, Rv. 252891] si sono pronunciate in materia di impugnabilità del mandato di arresto europeo nell'ambito della procedura attiva o di estensione attiva della consegna.

È stato, al riguardo, precisato che «non sono impugnabili nell'ordinamento interno, neanche ai sensi degli artt. 111, comma settimo, Cost. e 568, comma secondo, cod. proc. pen., il mandato di arresto europeo emesso dall'autorità giudiziaria italiana nella procedura attiva di consegna (artt. 28, 29 e 30 della Legge 22 aprile 2005, n. 69) ed il provvedimento emesso (eventualmente in forma di m.a.e.) dalla stessa autorità nella procedura di estensione attiva della consegna di cui agli artt. 32 e 26 della legge sopra citata, potendo i loro eventuali vizi essere dedotti solo nello Stato richiesto, qualora incidano sulla procedura di sua pertinenza, secondo le regole, le forme ed i tempi previsti nel relativo ordinamento».

Il provvedimento dell'autorità giudiziaria straniera, in quanto manifestazione di esercizio della sovranità del Paese richiesto della cooperazione, certamente non può, in se stesso, essere soggetto a diretta impugnazione innanzi all'autorità giudiziaria italiana [Sez. 6, n. 5447 del 12/12/2001 (dep. 11/02/2002), Castellucci, Rv. 220871].

Nei confronti di tale provvedimento potrebbe semmai porsi un problema di disapplicazione per contrasto con le norme inderogabili ed i principi fondamentali dell'ordinamento interno [Sez. 1, n. 21673 dei 22/01/2009 (dep. 26/05/2009), Pizzata, Rv. 243795].

Con riguardo all'impugnabilità del mandato di arresto europeo, va ricordato che, secondo il concorde indirizzo della giurisprudenza, nell'ambito della procedura attiva di consegna è possibile contestare, dinanzi all'autorità giudiziaria italiana, soltanto il titolo su cui si fonda il m.a.e., ma non direttamente quest'ultimo, che è atto in sè consequenziale, specificamente indirizzato all'autorità estera in funzione dell'attivazione, da parte della medesima, della procedura di esecuzione [Sez. 6, sentenza n. 9273 del 05/02/2007 (dep. 05/03/2007), Shirrefs Fasola, Rv. 235557; Sez. 6, Sentenza n. 20823 del 19/01/2010 (dep. 03/06/2010), Bosti, Rv. 247360; Sez. 6, Sentenza n. 21470 del 09/05/2012 (dep. 04/06/2012), Cesano, Rv. 252722]; mentre tutte le questioni afferenti tale procedura possono e devono farsi valere nello Stato richiesto, secondo le regole, le forme e i tempi previsti dal relativo ordinamento [Sez. 6, Sentenza n. 18466 del 11/01/2007 (dep. 15/05/2007), Qerimaj Safet, Rv. 236577; Sez. 6, Sentenza n. 45769 del 31/10/2007 (dep. 06/12/2007), Di Summa, Rv. 238091; Sez. 6, Sentenza n. 20823 del 19/01/2010 (dep. 03/06/2010), Bosti, Rv. 247360].

Ne consegue che è nell'ambito di tali questioni e nei modi indicati che possono, se e in quanto incidano sulla procedura di esecuzione, essere fatti valere eventuali vizi del mandato di arresto europeo.

Tale orientamento è stato ritenuto meritevole di condivisione, in quanto è basato sulla corretta considerazione che il m.a.e. attivo è atto rivolto (non al soggetto destinatario della misura ma) all'autorità estera, con carattere chiaramente accessorio e strumentale rispetto al provvedimento restrittivo di cui vuole conseguire la concreta esecuzione mediante la cooperazione della predetta autorità.

La conferma del principio può rinvenirsi nelle disposizioni di cui agli artt. 29 e 31 della legge n. 69 del 2005, che prevedono, rispettivamente, la fungibilità del mandato di arresto europeo con la segnalazione di ricerca nel Sistema Informativo Schengen (S.I.S.) e la sua immediata perdita di efficacia al venir meno del provvedimento restrittivo di base.

Per le anzidette caratteristiche, il m.a.e. attivo, non rientrante per sè in alcuna delle categorie di atti per le quali è sancita espressamente l'impugnabilità per legge, non può evidentemente neppure essere considerato un provvedimento autonomamente incidente sulla libertà personale, agli effetti di quanto previsto dagli artt. 111, comma settimo, Cost. e 568, comma secondo, cod. proc. pen.

La conclusione prospettata appare anche in linea con la disciplina della decisione-quadro del Consiglio U.E. sul mandato d'arresto Europeo (2002/584/GAI del 13 giugno 2002), nella quale non si contempla la previsione di specifici mezzi di impugnazione a tutela dei diritti e delle garanzie processuali delle persone oggetto della richiesta di consegna.

Tale scelta, ispirata all'intento di evitare rischiose sovrapposizioni o interferenze, appare chiaramente volta a rispettare i meccanismi di impugnazione autonomamente esperibili in ciascuno degli ordinamenti coinvolti nel rapporto di cooperazione, nell'ambito delle fasi di rispettiva pertinenza.

3. Assoluzione dell'imputato dai reati oggetto del m.a.e. e consegna suppletiva.

Le Sezioni Unite [Sez. U, Sentenza n. 30769 del 21/06/2012 (dep. 27/07/2012), Caiazzo, Rv. 252892] hanno chiarito le conseguenze di una sentenza assolutoria dai reato oggetto di un precedente mandato di arresto europeo e l'interferenza con l'apertura di una procedura di estensione attiva della consegna.

Sul tema è stato affermato che, «una volta espletata regolarmente la procedura di consegna dall'estero, la definitiva assoluzione della persona consegnata dai reati per i quali sia stato precedentemente emesso il m.a.e. non preclude nei suoi confronti l'avvio della procedura di estensione attiva della consegna, dovendosi ritenere sufficiente il presupposto della sua avvenuta consegna allo Stato richiedente e dell'assenza delle condizioni di deroga al principio di specialità di cui all'art. 26, comma secondo, della legge n. 69/2005, senza che risulti necessaria la pendenza del procedimento cui afferiva la prima consegna».

L'art. 31 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (secondo il quale, "il mandato d'arresto Europeo perde efficacia quando il provvedimento restrittivo sulla base del quale è stato emesso è stato revocato o annullato ovvero è divenuto inefficace. Il procuratore generale presso la corte di appello ne dà immediata comunicazione al Ministro della giustizia ai fini della conseguente comunicazione allo Stato membro di esecuzione") non viene in rilievo, posto che si riferisce, all'evidenza, alla situazione (che solo può riflettersi sulle incombenze dell'Autorità estera) in cui si verifichi, mentre è in corso l'esecuzione del m.a.e., il venir meno del titolo che ne è alla base e non concerne, quindi, il caso (di esclusiva pertinenza dell'ordinamento interno) in cui, espletata regolarmente la procedura di consegna, nello svolgimento del processo in funzione del quale essa è avvenuta si pervenga a una pronuncia assolutoria del soggetto consegnato.

Il "legame" intercorrente tra la consegna precedente e il diverso procedimento nel quale deve applicarsi una misura restrittiva, che incontra il limite derivante dal principio di specialità, per il cui superamento occorre la richiesta e la concessione di assenso dello Stato di esecuzione della prima consegna, non richiede affatto la pendenza in atto del procedimento cui quest'ultima afferiva, ma si basa semplicemente sul presupposto che il soggetto sia stato consegnato allo Stato richiedente e non ricorra alcuna delle condizioni di deroga al principio di specialità previste dall'art. 26, comma secondo, della legge n. 69 del 2005.

Questa disciplina è posta evidentemente a garanzia dell'interessato, che altrimenti sarebbe direttamente processabile in vinculis, senza alcun onere a carico dell'autorità procedente.

L'assunto che la definitiva assoluzione dell'imputato dai reati per i quali era stato emesso il precedente m.a.e., avendo esaurito l'efficacia di quest'ultimo, lo avrebbe reso inidoneo a fondare il legittimo avvio della procedura di consegna suppletiva, appare del tutto avulso dalla disciplina come sopra ricostruita e porterebbe altrimenti alla conseguenza paradossale di privare l'interessato delle garanzie derivanti dal principio di specialità, non potendosi certo ritenere che sarebbe necessario procedere alla emissione di un vero e proprio (nuovo e autonomo) m.a.e. attivo, in assenza dell'essenziale presupposto della presenza del soggetto nello Stato estero.

Sommario

Sezione III LE SENTENZE NON ANCORA DEPOSITATE - 1 La chiamata in correità. - 2 La sottoscrizione della sentenza collegiale. - 3 L'impugnazione della parte civile. - 4 Peculato e uso del telefono di ufficio. - 5 La trasmissione degli atti al tribunale del riesame.

Sezione III. LE SENTENZE NON ANCORA DEPOSITATE

Le Sezioni Unite, nelle udienze del 29 novembre 2012 e del 20 dicembre 2012, hanno deciso controversie per le quali non risulta ancora il deposito della motivazione. Per completezza le si menziona nei paragrafi che seguono dandosi conto della questione affrontata e, sommariamente, avvalendosi delle informazioni provvisorie n. 33, 34, 35, 36 e 37, della decisione adottata.

1. La chiamata in correità.

All'udienza del 29 novembre, nel proc. n. 3607/2011, ric. Aquilina ed altri, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione se la chiamata in reità o in correità "de relato" possa essere o meno riscontrata da altra chiamata "de relato".

Una prima posizione espressa da più decisioni della Suprema Corte ritiene che la chiamata in correità o in reità "de relato" non possa essere confortata da altra di analogo tenore; in questo senso si sono espresse in particolare le sentenze: della V sezione n. 43464 del 2002 secondo cui «la chiamata in reità "de relato", affine nella struttura alla testimonianza indiretta, può costituire prova della responsabilità penale solo se sorretta da adeguati riscontri estrinseci obiettivi ed individualizzanti, in relazione alla persona incolpata e al fatto che forma oggetto dell'accusa, non essendo sufficiente il controllo sulla mera attendibilità intrinseca del collaborante (nell'affermare tale principio, la Corte ha escluso che una chiamata in reità "de relato" possa essere riscontrata da altra chiamata in reità anche essa "de relato" e, inoltre, ha ritenuto che il ritardo notevole con cui il collaborante rende le sue dichiarazioni può giustificare una valutazione negativa della genuinità delle dichiarazioni stesse)»; della V sezione n. 37239 del 2010 secondo cui «la chiamata in reità "de relato" non può essere riscontrata da altra dichiarazione "de relato", in quanto la ricerca di riscontri, a conferma di dichiarazioni caratterizzate da credibilità congenitamente carente, affine a quella della testimonianza indiretta, deve essere particolarmente rigorosa e può costituire prova solo se sorretta da riscontri estrinseci, obiettivi ed individualizzanti, tra i quali non sono ricomprese altre dichiarazioni indirette»; della VI sezione n. 16939 del 2012 secondo cui «ai fini della valutazione della chiamata in correità, le dichiarazioni "de relato" rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 cod. proc. pen. e non confermate dal soggetto indicato come fonte di informazione, possono costituire elemento indiziario idoneo a fondare la dichiarazione di colpevolezza soltanto se confortate, ai sensi dell'art 192, comma terzo, cod. proc. pen., da riscontri estrinseci certi, univoci, specifici, individualizzanti, e tali da consentire un collegamento diretto ed obiettivo con i fatti contestati e con la persona imputata. Ne consegue che il riscontro ad una chiamata in reità o correità "de relato" non può essere integrato da un'altra chiamata dello stesso tipo priva dei suddetti riscontri, mentre plurime chiamate "de relato" ben possono ritenersi reciprocamente corroborate e idonee a fondare il giudizio di colpevolezza, purchè sottoposte alla verifica di attendibilità, intrinseca ed estrinseca, e supportate da riscontri esterni muniti delle su indicate caratteristiche».

Un diverso orientamento della Cassazione ritiene, invece, che sia possibile il riscontro reciproco fra chiamate "de relato". In queste senso si sono espresse, in particolare le sentenze: della I sezione n. 33398 del 2012 secondo cui «i riscontri individualizzanti ad una chiamata in reità "de relato" possono provenire da elementi di natura logica ed anche da un'altra dichiarazione, sia pure "de relato", a condizione che quest'ultima sia sottoposta ad un pregnante vaglio critico e consenta di collegare l'imputato ai fatti a lui attribuiti dal chiamante in reità»; della I sezione n. 34525 del 2012 secondo cui «deve considerarsi rispettosa dei principi normativi di cui all'art. 192 cod. proc. pen. l'utilizzazione di convergenti dichiarazioni accusatorie "de relato", purchè le stesse si inseriscano in un quadro probatorio ovvero indiziario comunque apprezzabile, si caratterizzino nello specifico per credibilità ed affidabilità e purchè il rigoroso controllo del sapere dei dichiaranti investa tutti i momenti dell'acquisizione conoscitiva e tutti i personaggi che l'hanno resa possibile. (In motivazione, la Corte ha precisato che negare rilevanza probatoria alla chiamata indiretta riscontrata da chiamata della medesima natura darebbe luogo ad una sorta di valutazione legale della portata probatoria di un fatto comunque rilevante, in contrasto al principio del libero convincimento del giudice)».

Al riguardo la decisione delle Sezioni Unite è stata affermativa, "sempre che le due chiamate abbiano autonomia genetica e siano positivamente valutate per attendibilità, specificità e convergenza" (v. inf. Provvisoria n. 33).

2. La sottoscrizione della sentenza collegiale.

All'udienza del 20 dicembre, nel proc. n. 35138/2011, ric. Rodriguez Diaz Franklin, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione se la sentenza di appello mancante della sottoscrizione del presidente del collegio e firmata dal solo giudice estensore configuri: a) una mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell'errore materiale anche dopo l'impugnazione della sentenza; b) una nullità relativa che comporti l'annullamento con rinvio al medesimo collegio affinché provveda alla sanatoria mediante nuova redazione della sentenzadocumento; c) una nullità che investe l'intero giudizio, tale da comportare l'annullamento con rinvio ad altro collegio per la rinnovazione del giudizio medesimo.

Sulla questione la giurisprudenza di legittimità conosceva una pluralità di indirizzi riguardanti sia la natura della patologia che il rimedio consequenziale. In schematica sintesi si ricordano:

1) la tesi della mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell'errore materiale anche dopo l'impugnazione della sentenza [v. Sez. VI, sentenza n. 36158 del 12/5/2008 (dep. 19/9/2008), Rv. 241645, Campolo; Per Sez. III, Sentenza n. 44657 del 16/11/2001 (dep. 13/12/2001), Rv. 220445, Ferrara S ed altro; Sez. VI, ord. n. 49886 del 9/12/2009 (dep. 30/12/2009), Rv. 245544, Legname; Sez. VI, sentenza n. 39541 del 15/6/2005 (dep. 27/10/2005), Rv. 233474, Cultrera ed altri; Sez. I, sentenza n. 23445 del 16/4/2003 (dep. 28/5/2003), Rv. 224594, Agozzino]. La conseguenza della riconosciuta emendabilità consiste, per lo più, nell'ordine di trasmissione degli atti al collegio "a quo" ai fini della correzione dell'errore materiale costituito dall'omessa sottoscrizione;

2) la tesi della mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell'errore materiale soltanto fino all'impugnazione della sentenza [v. Sez. V, sentenza n. 6246 del 20/1/2004 (dep. 17/2/2004), Rv. 228082, P.M. in proc. Attinà];

3) la tesi della nullità relativa comportante l'annullamento con rinvio al medesimo collegio per la sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento [v. Sez. V, Sentenza n. 3544 del 10/7/2002 (dep. 24/1/2003), Rv. 224277, PM in proc. Severini; Sez. III, sentenza n. 10629 del 22/1/2003 (dep. 7/3/2003), Rv. 224255, Lombardo; Sez. III, sentenza n. 3018 del 16/1/1997 (dep. 2/4/1997), Rv. 207809, Di Marco e altri; Sez. VI, sentenza n. 3986 dell'1/2/1996 (dep. 17/4/1996), Rv. 204779, Mazza ed altri; Sez. II, Sentenza n. 10083 del 7/2/2008 (dep. 5/3/2008), Rv. 239505, Castellano; Sez. I, sentenza n. 12754 del 27/9/1999 (dep. 10/11/1999), Rv. 214395, PG in proc. Federici; Sez. V, sentenza n. 1171 dell' 11/3/1999 (dep. 30/3/1999), Rv. 212935, PM in proc. Vivallos Cruces M. I.];

4) la tesi della nullità relativa comportante l'annullamento senza rinvio con trasmissione degli atti per la sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento [v. Sez. V, sentenza n. 7094 del 29/10/2010 (dep. 23/2/2011), Rv. 249824, Cassano; Sez. VI, sentenza n. 23738 del 19/3/2010 (dep. 21/6/2010), Rv. 247298, P.G. in proc. Cascino; Sez. IV, Sentenza n. 34293 del 13/7/2007 (dep. 10/9/2007), Rv. 237243, P.G. in proc. Mancino];

5) la tesi della nullità riguardante l'intero giudizio e comportante l'annullamento con rinvio ad altro collegio per la rinnovazione del giudizio medesimo [v. Sez. III, sentenza n. 7959 del 13/1/2011 (dep. 01/03/2011), Rv. 249385, Pacilli; Sez. V, sentenza n. 19506 del 28/4/2006 (dep. 7/6/2006), Rv. 234389, Guggiari; Sez. V, sentenza n. 35769 del 19/5/2004 (dep. 1/9/2004), Rv. 229328, Prestifilippo ed altri; Sez. I, sentenza n. 8077 del 26/6/1996 (dep. 26/08/1996), Rv. 205731, D'Avena; Sez. I, sentenza n. 9759 del 8/2/2005 (dep. 11/03/2005), Rv. 231160, Gagliardi];

6) la tesi della nullità riguardante l'intero giudizio e comportante l'annullamento senza rinvio ma con trasmissione degli atti ad altro collegio per la rinnovazione del giudizio medesimo: [v. Sez. III, sentenza n. 40025 del 13/10/2011 (dep. 4/11/2011), Rv. 250872, Q.H.; Sez. I, sentenza n. 429 del 24/1/1997 (dep. 14/2/1997), Rv. 206873, Trigila; Sez. I, sentenza n. 12723 del 4/10/1995 (dep. 29/12/1995), Rv. 203333, Nicoletti; Sez. V, sentenza n. 5202 del 28/10/1999 (dep. 19/11/1999), Rv. 215045, PG in proc. Secci S.];

7) la tesi dell'inesistenza, su cui, isolatamente, Sez. II, sentenza n. 5223 del 17/10/2000 (dep. 5/12/2000), Rv. 217888, P.M. in proc. Pavani, in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata e ha disposto la trasmissione degli atti al giudice "a quo" per una nuova redazione della sentenza-documento.

Al riguardo le Sezioni Unite hanno adottato la decisione per cui si configura una nullità relativa che comporta l'annullamento con rinvio al medesimo collegio affinché provveda alla sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento (v. inf. provvisoria n. 34).

3. L'impugnazione della parte civile.

All'udienza del 20 dicembre, nel proc. n. 39791/2011, ric. Buccino, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione se la parte civile, con l'impugnazione della sentenza di proscioglimento, debba richiedere espressamente, a pena di inammissibilità, la riforma della sentenza ai soli effetti civili.

In materia, un primo orientamento di legittimità, "estensivo" e minoritario, fa conseguire, dalla disposizione contenuta nell'art. 576 c.p.p. il potere per la parte civile di proporre impugnazione anche "chiedendo l'affermazione della responsabilità penale dell'imputato sebbene ai soli effetti civili" ed escludendo la necessità di una espressa richiesta, nell'atto di gravame, di riforma della sentenza ai soli effetti civili (Sez. 5, n. 958 del 22/02/99, p.c. in proc. Bavetta, Rv. 212934; Sez. 5, n. 31904, del 02/07/2009, Rubertà, Rv. 244499).

Nel solco dell'orientamento "estensivo" vengono collocate dall'elaborazione della Corte anche quelle pronunce che, pur non parendo affermare in modo diretto la non necessità di un espresso riferimento agli effetti civili che con l'impugnazione si intendono conseguire, ritengono tuttavia ammissibile l'appello della parte civile quando tale riferimento possa desumersi anche implicitamente dai motivi, dai quali emerga in modo inequivoco la richiesta formulata (complessivamente, Sez. 5 n. 27629 del 08/06/2010, Berton e altri, Rv. 248317; Sez. 5, n. 22716 del 04/05/2010, Marengo, Rv. 247967; Sez. 5, n. 42411 del 23/09/2009, pc. in proc. Longo, Rv. 245392; Sez. 5 n. 23412 del 6/5/2003, Caratossidis, Rv. 224932; nonché, in fattispecie relativa ad appello del Pubblico Ministero, anche Sez. 6 n. 29235 del 18/5/2010, Amato, Rv. 248205 e Sez. 6 n. 42764 del 18/9/2003, Scalia, Rv. 22693).

Un più "restrittivo" orientamento, invece, individua come inammissibile l'atto di impugnazione della sentenza di proscioglimento proposto dalla parte civile che non contenga espresso e diretto riferimento agli effetti civili che si vogliono conseguire, non potendosi neppure ritenere tale riferimento implicito nella mera richiesta di verifica della responsabilità dell'imputato negata dalla pronunzia impugnata. Trattasi di: Sez. 1, del 4/3/1999, n. 7241, Pirani, Rv. 213698; Sez. 6, n. 9072 del 22/10/2009, Bianco e altro, Rv. 246168; Sez. II 20 maggio 2008, n. 25525, Gattuso, Rv. 240646; Sez. III 23 maggio 2007, n. 35224, p.c. in proc. Guerini, Rv. 237399; Sez. V 30 novembre 2005, n. 9374/2006, Princiotta, Rv. 233888; Sez. II 31 gennaio 2006, n. 5072, p.c. in proc. Pensa, Rv. 233273; Sez. II 24 ottobre 2003, n. 897/2004, p.c. in proc. Cantamessa, Rv. 227966, Sez. 2 n. 11863 del 30/1/2003, Bernardi, Rv. 225023; e recentemente Sez. 4, n. 23155 del 3/5/2012, Di Curzio, Rv. 252763).

Al riguardo le Sezioni Unite hanno adottato la decisione negativa (v. inf. provvisoria n. 35).

4. Peculato e uso del telefono di ufficio.

All'udienza del 20 dicembre, nel proc. n. 47293/2011, ric. Vattani, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione se l'utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l'appropriazione richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex art. 314, comma primo, cod. pen. ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato.

Relativamente all'uso del telefono d'ufficio per fini privati, un primo e più remoto orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che integri il reato di peculato d'uso ex art. 314, comma secondo, cod. pen. il comportamento del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che utilizzi per uso personale il telefono in dotazione all'ufficio affidato alla sua disponibilità; in questi casi, si è osservato, vi sarebbe non «un'appropriazione degli impulsi elettronici (gli "scatti")», ma un'interversione momentanea del possesso dell'apparecchio seguita da una restituzione immediata (Sez. 6, n. 3009 del 28/01/1996, dep. 26/03/1996, Catalucci, Rv. 204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, dep. 25/07/1997, Guida, Rv. 209746; Sez. 6, 7 novembre 2000, dep. 18 gennaio 2001, Veronesi, n. 353, in Guida dir., 2001, n. 9, p. 68 (relativa ad una fattispecie concernente un numero complessivo di 878 scatti telefonici per numerose comunicazioni interurbane addebitate ad una U.S.L.

Siffatto esito decisorio è stato dalla S.C. maturato delineando un percorso argomentativo incentrato sull'inquadramento della fattispecie in esame nell'istituto del possesso in nome altrui e del deposito o della custodia a seconda delle funzioni o delle mansioni esplicate dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio.

Secondo un diverso e prevalente orientamento giurisprudenziale si ritiene, invece, che la condotta in esame integri gli estremi del peculato comune, sulla base del rilievo che l'uso del telefono si connoterebbe non propriamente nella fruizione dell'apparecchio telefonico in quanto tale, quanto piuttosto nell'utilizzazione dell'utenza telefonica.

In sostanza, l'oggetto della condotta appropriativa sarebbe rappresentato non già dall'apparecchio nella sua fisicità materiale, bensì dall'energia occorrente per le conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico, ben può costituire l'oggetto materiale del delitto di peculato, in virtù della sua equiparazione "ope legis" alla cosa mobile.

Così individuata la «cosa mobile altrui», vi sarebbe da parte dell'"intraneus" una «vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici» occorrenti per la trasmissione della voce; in più, a supporto della tesi, si aggiunge che gli impulsi elettronici non sono neppure restituibili dopo l'uso e l'eventuale rimborso delle somme corrispondenti all'importo delle telefonate vale solo come «ristoro del danno cagionato», ma non può considerarsi come «restituzione» della cosa mobile utilizzata.

Entro tale diversa prospettiva ermeneutica, pertanto, la natura degli impulsi elettronici occorrenti per la trasmissione della voce consente di ravvisare nell'ipotesi considerata una vera (definitiva) condotta di appropriazione, posto che l'art. 624, comma secondo, cod. pen., dispone che "agli effetti della legge penale si considera cosa mobile anche l'energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico".

Ne discende che, allorquando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica intestata all'Amministrazione, la utilizza per effettuare chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, bensì nell'appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche (Sez. 6, n. 3879 del 23/10/2000, dep. 15/12/2000, Di Maggio, Rv. 217710; Sez. 6, n. 9277 del 06/02/2001, dep. 05/03/2001, P.M. in proc. Menotti, Rv. 218435; Sez. 6, n. 3883 del 14/11/2001, dep. 01/02/2002, Chirico, Rv. 221510; Sez. 6, n. 7347 del 14/01/2003, dep. 14/02/2003, P.M. in proc. Di Niro, Rv. 223528; Sez. 6, n. 10671 del 15/01/2003, dep. 07/03/2003, Santone, Rv. 223780; Sez. 6, n. 7772 del 15/01/2003, dep. 17/02/2003, P.M. in proc. Russo, Rv. 224270; Sez. 6, n. 25273 del 09/05/2006, dep. 20/07/2006, Montana, Rv. 234838), secondo cui è configurabile il peculato ordinario, sempre che possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l'insieme di più telefonate, quando queste siano talmente ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come costituenti un'unica condotta; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 31/01/2005, Aiello, Rv. 231032; Sez. 6, n. 21335 del 26/02/2007, dep. 31/05/2007, Maggiore e altro, Rv. 236627, secondo cui integra gli estremi del peculato, e non del peculato d'uso, la condotta del soggetto incaricato di pubblico servizio che utilizzi il telefono d'ufficio per chiamate a linee telefoniche a contenuto erotico – nel caso di specie, dell'importo, ritenuto abnorme, da lire 10 a 25 milioni - a nulla rilevando che egli abbia successivamente rimborsato l'ente di appartenenza delle relative spese; Sez. 6, n. 26595 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Torre, Rv. 244458, in relazione ad una fattispecie di utilizzazione a scopi privati dell'utenza telefonica di una Stazione dei Carabinieri per un importo di euro 874,39, nel periodo 1/2-20/3/2003; Sez. 6, 29 aprile 2009, dep. 20 maggio 2009, n. 21165, G.A., in Foro it., 2010, III, 156, in relazione ad una fattispecie in cui il ricorrente, segretario del reparto di otorinolaringoiatria di un ospedale, aveva effettuato tra l'aprile 2000 e il maggio 2002 numerose telefonate di carattere privato, anche verso Paesi esteri come la Romania, la Germania, l'Ucraina e la Jugoslavia, per un importo complessivo di euro 2354,39, servendosi sistematicamente dell'apparecchio non per pressanti esigenze di relazione, ma per soddisfare la sua sfera ludica (frequenti contatti, anche internazionali, con appassionati della caccia), per un valore di energie sottratte pari alla somma di denaro su indicata, ritenuta nel caso di specie oltre i limiti, anche a frammentarla per i due anni della contestazione; Sez. 6, 4 novembre 2009, dep. 21 gennaio 2010, n. 2525, in Guida dir., 2010, n. 14, 79 ss., riguardo ad una fattispecie in cui un consigliere comunale, avendo, per ragioni di ufficio, la disponibilità delle utenze telefoniche comunali, le utilizzava indebitamente effettuando, nel periodo ricompreso tra il 25.2.1998 e il 12.5.2000, telefonate personali intercontinentali ad utenze esterne; Sez. 6, n. 256 del 20/12/2010, dep. 10/01/2011, Di Maria, Rv. 249201, che, nel ribadire tale orientamento, precisa che il valore economico della "cosa" sottratta – nel caso di specie, numerose telefonate private di modesta entità - se non ha rilievo per la configurabilità delle meno gravi fattispecie di abuso d'ufficio e peculato d'uso, acquista una decisiva importanza ai fini della sussistenza dell'elemento materiale del reato di peculato).

Al riguardo le Sezioni Unite hanno adottato la decisione per cui detto utilizzo integra il peculato d'uso (v. inf. provvisoria n. 36).

5. La trasmissione degli atti al tribunale del riesame.

All'udienza del 20 dicembre, nel proc. n. 45033/2011, ric. Buccino, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione se l'omessa trasmissione al tribunale del riesame, nel termine di cinque giorni dall'avviso, di alcuni degli atti posti a fondamento della richiesta di misura cautelare reale ne comporti l'inefficacia sopravvenuta o se, invece, il tribunale possa richiedere all'autorità procedente l'invio degli atti mancanti.

In ordine alla definizione delle problematiche poste dalla questione controversa, si contrappongono due orientamenti giurisprudenziali.

Con la decisione n. 24163 del 3/05/2011, dep. 16/06/2011, Wang, Rv. 250603, la Terza Sezione ha ritenuto abnorme il provvedimento di rinvio a nuovo ruolo per la trasmissione degli atti mancanti, posti a fondamento della richiesta cautelare, enunciando il principio di diritto così massimato: "È abnorme la decisione con cui il Tribunale, in sede di riesame di un provvedimento di sequestro preventivo, rilevata la parziale trasmissione da parte del P.M. degli atti posti a fondamento dell'istanza di sequestro, rinvii il procedimento a nuovo ruolo, al fine di consentire la trasmissione degli atti mancanti per poi fissare l'udienza di trattazione, invece di dichiarare l'inefficacia del provvedimento. (In motivazione la Corte ha precisato che l'abnormità discende dall'aver in tal modo il tribunale prorogato un termine perentorio già scaduto)".

Per l'orientamento maggioritario, "in tema di riesame dei provvedimenti cautelari reali, anche dopo la modifiche dell'art. 309 c.p.p. introdotte con l'art. 16 della legge 8 agosto 1995 n. 332, il termine di un giorno per la trasmissione degli atti previsto dal comma terzo dell'art. 324 cod. proc. pen. continua a trovare applicazione e conserva la sua natura ordinatoria. Non può essere applicato infatti il termine massimo di cinque giorni prescritto dall'art. 309 cod. proc. pen. a pena di decadenza per le misure cautelari personali" (Sez. 3, n. 639 del 09/02/1996, dep. 30/03/1996, D'Angiolella, Rv. 205054).

Secondo tale impostazione giurisprudenziale, ci si trova di fronte ad una "svista del legislatore, o meglio ad un mancato coordinamento fra i due disposti, strettamente compenetrati nella loro (originaria) formulazione, che rende urgente un intervento correttivo dell'art. 324 cod. proc. pen. (dopo la modifica dell'art. 309 cod. proc. pen.), volto a dargli una più netta ed univoca formulazione, con particolare riferimento ai commi 3 e 7, optando per una scelta in termini di autonomia dei due regimi di riesame ovvero, in senso opposto, di sostanziale omogeneità (in relazione agli effetti caducatori connessi a termini ivi indicati)".

Siffatta linea interpretativa – confermata anche dalle coeve pronunce della Sez. 3, n. 706 del 14/02/1996, dep. 14/03/1996, Morgera, Rv. 204268, e n. 588 del 07/02/1996, dep. 07/03/1996, Sabbadini, Rv. 204861 – si è definitivamente consolidata nella successiva elaborazione giurisprudenziale (Sez. 3, n. 79 del 15/01/1997, dep. 03/03/1997, Aiello M., Rv. 207885; Sez. 1, n. 5039 del 18/09/1997, dep. 28/11/1997, Scibilia, Rv. 208968), con l'aggiunta dell'ulteriore argomentazione secondo cui il richiamo al comma 10 dell'art. 309, contenuto nel comma 7 dell'art. 324 cod. proc. pen., è da ritenersi effettuato con riferimento al testo precedente alla modifica introdotta con la legge 8 agosto 1995 n. 332, atteso che il previgente testo dell'art 309 cod. proc. pen. non contemplava la sanzione della perdita di efficacia del provvedimento, con la conseguenza che la modifica della disciplina attiene alle sole misure cautelari personali, e non anche a quelle reali (Sez. 5, n. 698 del 08/02/1999, dep. 22/03/1999, Zamponi, Rv. 212862; Sez. 1, n. 3392 del 09/06/1998, dep. 26/06/1998, Voltolini, Rv. 210883; Sez. VI, n. 2882 del 06/10/1998, dep. 11/12/1998, Calcaterra, Rv. 212677; Sez. 1, n. 1836 del 04/03/1999, dep. 19/04/1999, Rocca, Rv. 213065; Sez. 6, n. 7827 del 13/12/2000, dep. 26/02/2001, Vasco, Rv. 218060; Sez. 4, n. 17101 del 21/02/2001, dep. 24/04/2001, Cutuli, Rv. 219208; Sez. V, n. 20274 del 02/04/2003, dep. 07/05/2003, Di Ponio, Rv. 224544; Sez. 2, n. 16922 del 28/02/2003, dep. 10/04/2003, Laforet, Rv. 224641; Sez. 6, n. 4227 del 21/11/2000, dep. 18/12/2000, Cuomo, Rv. 218898; Sez. 1, n. 5966 del 18/12/2001, dep. 13/02/2002, Rossini, Rv. 220703; Sez. 3, n. 42508, del 08/10/002, dep. 18/12/2002, Scarpa e altri, Rv. 225401; Sez. 2, n. 6597 del 16/02/2006, dep. 21/02/2006, Pietropaoli, Rv. 233163, secondo cui deve escludersi, nella materia "de qua", che la violazione dei termini sopra indicati comporti una nullità del procedimento di riesame e del provvedimento conclusivo ai sensi dell'art. 178 cod. proc. pen., considerata la rinuncia del legislatore a sanzionare l'omissione o il ritardo nella trasmissione secondo il meccanismo previsto per le misure coercitive personali, e la mancata previsione, nello stesso contesto, di sanzioni processuali alternative; da ultimo, v. Sez. 1, n. 34544 del 29/03/2011, dep. 23/09/2011, Gallace, Rv. 250778).

Anche di recente, le Sezioni Unite hanno avallato tale orientamento (Sez. Un., n. 25932 del 29/05/2008, dep. 26/06/2008, Ivanov, Rv. 239699 – 239698, in relazione ad una fattispecie in cui la decisione del Tribunale del riesame era stata fondata anche su taluni documenti prodotti dalla persona offesa in sede di udienza camerale; nella stessa udienza del 29 maggio 2008, peraltro, le Sezioni unite hanno deciso in senso conforme altro ricorso - sostanzialmente sovrapponibile a quello proposto dall'Ivanov - della moglie di quest'ultimo, Maria Letizia Malgioglio: Sez. Un., 29 maggio 2008, n. 25933, Malgioglio, non massimata sul punto).

Al riguardo le Sezioni Unite non hanno esaminato la questione, avendo dichiarato il ricorso inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse (v. inf. provvisoria n. 37).

PARTE II - LE PRINCIPALI LINEE DI TENDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE GIURISPRUDENZA PENALE --- Sezione I I DIRITTI DELL'UOMO ED IL GIUSTO PROCESSO

  • proprietà privata
  • diffamazione
  • confisca di beni
  • detenzione preventiva
  • sentenza della Corte (UE)

I DIRITTI DELL'UOMO

Sommario

1 Premessa. - 2 La pubblicità del procedimento in tema di riparazione per ingiusta detenzione e in tema di misure di prevenzione. - 3 Il diritto alla libertà di espressione ed il trattamento sanzionatorio della diffamazione a mezzo stampa. - 4 Il diritto alla protezione della proprietà e la confisca di prevenzione. - 5 Gli effetti delle sentenze della Corte EDU nei confronti dei soggetti diversi dalle parti in giudizio.

1. Premessa.

E' ormai generalizzata la consapevolezza che le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (d'ora in poi, Convenzione EDU) - nell'interpretazione ad esse attribuita dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (d'ora in poi, Corte EDU) - integrano, quali "e;norme interposte"e;, il parametro dell'art. 117 della Costituzione, nella parte in cui quest'ultimo impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, condizionando la legittimità costituzionale delle norme interne (poiché, nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna ed una norma della Convenzione EDU, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la possibilità di interpretare la prima conformemente alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali parametri di ermeneutica giuridica, e, nel caso in cui tale opzione interpretativa risulti impraticabile, egli, nell'impossibilità di disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro sopra indicato).

Può, infatti, ritenersi ormai pacifico[1] che l'art. 117, comma 1, della Costituzione, ed in particolare l'espressione "e;obblighi internazionali"e; in esso contenuta, si riferisca alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 della Costituzione: così interpretato, l'art. 117, comma 1, ha colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi, con la conseguenza che il contrasto di una norma interna con una norma convenzionale, ed in particolare della Convenzione EDU, si traduce in una violazione dell'art. 117, comma 1.

Nel caso in cui si profili tale contrasto, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un'interpretazione della norma interna conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica; se questa verifica dà esito negativo ed il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, egli, non potendo disapplicare la norma interna né farne applicazione (avendola ritenuta in contrasto con la Convenzione EDU, e pertanto con la Costituzione), deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo una questione di legittimità costituzionale della norma interna in riferimento all'art. 117, comma 1, ovvero all'art. 10, comma 1, della Costituzione. Spetterà poi alla Corte costituzionale (dopo avere accertato che il denunciato contrasto tra norma interna e norma della Convenzione EDU sussiste e non può essere risolto in via interpretativa) verificare se la norma convenzionale, che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale, si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: poiché in questa, seppur eccezionale, ipotesi, andrà esclusa l'idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato.

La Corte costituzionale non ha il potere di sindacare l'interpretazione della Convenzione EDU fornita dalla Corte EDU, sostituendo ad essa la propria interpretazione: ne consegue che le norme della Convenzione devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo. Il Giudice delle Leggi può, tuttavia, valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte EDU si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano, poiché la norma convenzionale, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 della Costituzione, da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti: compete pur sempre alla Corte costituzionale, infatti, l'apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma di volta in volta in esame, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che consenta al Giudice delle leggi di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi.

È, conseguentemente, sempre maggiore l'attenzione dedicata alle possibili ricadute applicative dei principi astrattamente sanciti dalla Convenzione EDU sull'interpretazione delle norme interne.

2. La pubblicità del procedimento in tema di riparazione per ingiusta detenzione e in tema di misure di prevenzione.

Le Sezioni Unite[2] sono chiamate a decidere «se, a seguito della sentenza della Corte EDU del 10 aprile 2012, nel caso Lorenzetti c. Italia, anche per la trattazione del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione debba procedersi nelle forme della udienza pubblica anziché con le forme del rito camerale e se, in caso positivo, l'avvenuta violazione dell'art. 6 della Convenzione EDU comporti l'annullamento della decisione», ed hanno, in proposito, stabilito che «il procedimento per la trattazione in sede di legittimità dei ricorsi in materia di riparazione per l'ingiusta detenzione (camera di consiglio non partecipata) non trova ostacolo nella sentenza 10 aprile 2012 della Corte europea per i diritti dell'uomo, nel caso Lorenzetti c. Italia, in quanto tale pronuncia, nell'affermare la necessità che al soggetto interessato possa quanto meno essere offerta la possibilità di richiedere una trattazione in pubblica udienza, non si riferisce al giudizio innanzi alla Corte di cassazione».

E' stata anche sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 315, comma 3, in relazione all'art. 646, comma 1, c.p.p., in riferimento agli artt. 117, comma 1, e 111, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il provvedimento per la riparazione per l'ingiusta detenzione si svolga, davanti alla corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica.

Le Sezioni Unite hanno condiviso integralmente gli approdi cui è pervenuta la Corte costituzionale nel desumere dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo il principio secondo il quale «in riferimento al giudizio di legittimità, la pubblicità dell'udienza non rappresenta un corollario necessario e inderogabile del diritto alla pubblicità del processo garantito dall'art. 6, § 1, della Convenzione EDU, quanto meno con riferimento alla tematica dei procedimenti speciali che vengono qui in discorso».

A conclusioni opposte si è pervenuti con riguardo al grado di merito che caratterizza il procedimento di riparazione per ingiusta detenzione: «l'art. 315, comma 3, c.p.p. stabilisce, infatti, che nel procedimento per la riparazione per ingiusta detenzione si applicano, in quanto compatibili, le norme previste sulla riparazione dell'errore giudiziario; sicché, in virtù di tale relatio, le forme di trattazione del relativo giudizio sono quelle descritte dall'art. 646, comma 1, c.p.p., il quale richiama, a sua volta, il generale modello del procedimento in camera di consiglio, disciplinato dall'art. 127 del codice di rito: vale a dire, la trattazione camerale "e;partecipata"e;, in assenza del pubblico. E ciò comporta l'evidente frizione che un siffatto modello presenta rispetto ai dicta della Corte di Strasburgo come si è detto chiaramente espressasi sul punto nel citato caso Lorenzetti - nonché, per quel che si dirà, anche con lo stesso principio del "e;giusto processo"e; stabilito dall'art. 111, comma 1, della Costituzione».

Dopo aver ritenuto la rilevanza della questione di costituzionalità del citato quadro normativo nello specifico procedimento oggetto del giudizio, con riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, si è ribadito come «a partire dalle note sentenze n. 348 e 349 del 2007, l'orientamento della giurisprudenza costituzionale è costante nell'affermare che le norme della Convenzione EDU, nel significato loro attribuito dalla Corte EDU, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali "e;norme interposte"e;, il parametro offerto dall'art. 117, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. In tale quadro di riferimento, ove si appalesi un eventuale contrasto tra la norma nazionale e la disposizione convenzionale, per come interpretata dalla competente Corte, il giudice comune è chiamato a verificare, anzitutto, la praticabilità della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia - come nella specie - esito negativo, e non essendo abilitato a procedere ad una diretta conformazione del sistema attraverso la disapplicazione della norma interna in ipotesi contrastante con la Convenzione EDU, egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro indicato. Dal canto suo, la Corte costituzionale, investita del relativo sindacato, pur non potendo discostarsi dalla interpretazione della Convenzione da parte della Corte EDU, è chiamata a verificare se la norma della Convenzione (essendo a livello sub-costituzionale) si ponga a sua volta in eventuale contrasto con altre norme della Costituzione: eventualità, questa, che, oltre ad essere additata dalla giurisprudenza costituzionale alla stregua di "e;ipotesi eccezionale"e;, certamente non ricorre nel caso di specie, avuto riguardo al già ricordato scrutinio a tal proposito condotto nelle sentenze n. 93 del 2010 e 80 del 2011. Ferma restando, comunque, la spettanza al Giudice delle leggi di un "e;margine di apprezzamento e di adeguamento"e;, che - nel rispetto della "e;sostanza"e; della giurisprudenza di Strasburgo - le consenta comunque di tenere conto delle peculiarità dell'ordinamento in cui l'interpretazione della Corte Europea è destinata ad inserirsi».

In considerazione di tali premesse, si è ritenuto che la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Lorenzetti, imponesse la devoluzione del dubbio di legittimità costituzionale de quo, in quanto, «al pari delle varie decisioni che hanno riguardato la procedura camerale nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione - e dalle quali è scaturita la più volte richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale - si è reputato non conforme al principio della pubblicità della udienza inteso come componente essenziale del diritto al "e;giusto processo"e;, di cui all'art. 6, § 1, della Convenzione EDU, la circostanza che anche il giudizio di merito davanti alla corte di appello per il procedimento di riparazione per la ingiusta detenzione, si celebri senza la presenza del pubblico e non sia prevista la possibilità, per la parte interessata, di formulare una richiesta in tal senso».

Ed oltre al contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione, in riferimento alla riscontrata violazione dell'art. 6, § 1, della Convenzione EDU, il quadro normativo in esame è apparso in contrasto anche con l'art. 111, comma 1, della Costituzione, «dal momento che i principi che sostengono il "e;giusto processo"e; regolato dalla legge, non possono ritenersi, nel caso in esame, diversi o più circoscritti di quelli che connotano tanto la norma convenzionale, che gli altri strumenti sovrannazionali di cui si è detto, e che, a loro volta, risultano del tutto sintonici con gli analoghi principi desumibili dalle consolidate tradizioni costituzionali dei Paesi democratici».

Il «giusto processo regolato dalla legge» e destinato ad attuare la giurisdizione nazionale, non può, infatti, non prevedere la pubblicità della udienza come regola generale del "e;processo"e;, ferma restando, peraltro, la derogabilità di un siffatto principio - di garanzia, ad un tempo, per il singolo, e di trasparenza per la giurisdizione - in presenza di peculiari connotazioni dei singoli modelli procedimentali che non comportino la necessità del controllo del pubblico: «ebbene, se si conviene con la Corte di Strasburgo che tali peculiarità non siano ravvisabili nel procedimento per la riparazione per la ingiusta detenzione e, soprattutto, che le stesse non giustifichino - sul piano delle ragionevoli scelte discrezionali che ciascun legislatore nazionale è abilitato a compiere - l'assenza della possibilità di una trattazione in pubblico di quel procedimento nella fase del merito, allora se ne deve desumere che la scelta normativa risulta essere, nel frangente, contrastante con la stessa regola costituzionale del "e;giusto processo"e;, proprio perché non coerente con l'assetto, anche convenzionale, che quelprincipio è chiamato a realizzare come diritto della persona e connotato della giurisdizione».

D'altro canto, «lo specifico rilievo costituzionale dei valori coinvolti dall'istituto della riparazione per ingiusta detenzione, impedisce di riguardare il relativo procedimento alla stregua di un quid minus che escluda qualsiasi risalto all'interesse per la pubblicità del relativo giudizio».

Si è conclusivamente osservato che il procedimento de quo, orientato alla salvaguardia di diritti fondamentali della persona, secondo una prospettiva risarcitoria dalla quale non appaiono estranei profili di riparazione anche "e;morale"e; presenta appieno i connotati che ben possono giustificare una richiesta di trattazione pubblica: «la preclusione normativa oggetto di censura appare, insomma, anche per tali aspetti, in contrasto con la regola del "e;giusto processo,"e; sancita dall'art. 111, comma 1, della Costituzione».

La giurisprudenza delle Sezioni[3] ha anche ritenuto, in tema di misure di prevenzione, che «l'esercizio da parte del proposto del diritto allo svolgimento del procedimento applicativo in udienza pubblica, così come riconosciuto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 93 del 2010, non comporta, qualora la relativa richiesta sia stata proposta dopo la fissazione dell'udienza camerale, l'obbligo di rinnovare la citazione con le modalità del rito dibattimentale, ma soltanto quello di rendere pubblica l'udienza già fissata».

3. Il diritto alla libertà di espressione ed il trattamento sanzionatorio della diffamazione a mezzo stampa.

L'art. 10 della Convenzione EDU tutela la libertà di espressione[4].

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo è ferma nell'evidenziare che, in una società democratica, la stampa svolge il fondamentale ruolo di "e;cane da guardia"e; delle istituzioni democratiche (Corte EDU, 25 giugno 1992, Thorgeir Thorgeirson c. Islanda); i giornalisti, pur potendo fare ricorso ad un certo grado di esagerazione, cioè di provocazione, hanno l'obbligo di comunicare al pubblico informazioni di interesse generale, purché affidabili e precise, e di esporre correttamente i fatti nel rispetto della deontologia professionale (Corte EDU, 17 luglio 2008, Riolo c. Italia), poiché «la ricerca della verità storica è parte integrante della libertà di espressione» (Corte EDU, 22 aprile 2010, Fatullayev c. Azerbaigian). Con specifico riguardo alla natura delle espressioni suscettibili di attentare alla reputazione dell'individuo, la Corte EDU distingue tradizionalmente tra "e;fatti"e; e "e;giudizi di valore"e;: «si la matérialité des premiers peut se prouver, les seconds ne se prêtent pas à une démonstration de leur exactitude» (Corte EDU, 17 luglio 2001, Feldek c. Slovacchia; 6 dicembre 2007, Katrami c. Grecia).

Ai sensi dell'art. 10 Conv. EDU, le limitazioni poste dallo Stato alla libera manifestazione del pensiero devono essere necessariamente previste dalla legge, perseguire scopi legittimi e configurarsi come misure necessarie in una società democratica per raggiungere quegli stessi scopi (e cioè come un "e;imperativo bisogno sociale"e;): pur se gli Stati membri godono di un margine di apprezzamento discrezionale in ordine all'esistenza di tale bisogno, spetta alla Corte EDU valutare se le restrizioni previste dalla legge o provenienti dalle decisioni di autorità giudiziarie indipendenti siano compatibili con la libertà di espressione.

La Corte EDU ha anche chiarito che le sanzioni previste dagli ordinamenti interni non devono risultare tanto afflittive da provocare l'effetto di dissuadere dall'esercizio della libertà di stampa, ovvero dal partecipare a discussioni su questioni di interesse generale, e che la pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa può essere inflitta solo in ipotesi eccezionali, ovvero quando tali reati siano diretti a provocare la commissione di atti lesivi dei diritti fondamentali della persona, come, ad esempio, nel caso di diffusione di discorsi che incitino all'odio etnico oppure alla violenza (Corte EDU, 10 giugno 2003, Cumpana e Mazare c. Romania; 6 dicembre 2007, Katrami c. Grecia; 22 aprile 2010, Fatullayev c. Azerbaigian), e non, quindi, in relazione a condotte meramente diffamatorie (ovvero offensive unicamente dell'onore e della reputazione di uno o più soggetti determinati).

La V sezione[5] ha escluso che le norme penali in tema di diffamazione a mezzo stampa (artt. 595 c.p. e 13 l. n. 47 del 1948) si pongano in contrasto con l'art. 10 della Convenzione EDU, affermando che in presenza di ipotesi eccezionali, è legittima, in relazione all'art. 10 della Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte EDU, l'inflizione della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa.

Con riguardo al caso in esame, nel distinguere tra diritto alla libertà d'opinione e dovere di verità dei fatti narrati, si è, in particolare, osservato che «rientra sicuramente negli spazi di libertà del pensiero, riconosciuti dalla Costituzione, ritenere che, in base al proprio credo, alle proprie convinzioni religiose e morali, l'aborto rientri nel campo dell'illecito (in quanto impedisce il sorgere di una nuova vita). Parimenti rientra nella libera manifestazione del pensiero censurare, secondo il medesimo complesso di principi e di valori, il provvedimento del giudice che rimuova un ostacolo alla volontà della donna minorenne di abortire. Va comunque rilevato che il processo è nato perché questa legittima posizione critica ha come premessa e base storica fatti mai avvenuti e mai commessi, che la pongono in contrasto con il diritto positivo che - al di là ed al di sopra di fondamentaliste ed arcaiche concezioni della vita e della libertà della donna - giustifica la critica su fatti veri e non su fatti creati ed utilizzati come espediente per aggredire onore e reputazione di chi professi e pratichi idee non condivise».

4. Il diritto alla protezione della proprietà e la confisca di prevenzione.

L'art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione EDU afferma il diritto alla protezione della proprietà[6].

La giurisprudenza delle Sezioni[7] ha ritenuto che l'istituto della confisca di prevenzione[8] non si pone in contrasto con detta garanzia, osservando che la predetta disposizione non pregiudica il «diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende. In tema di applicazione di tali disposizioni e con riferimento alla materia della confisca di prevenzione la giurisprudenza in proposito della Corte EDU (Provvedimenti del 26/7/2011, 2^ Sez.: ric. n. 55743/08, Pozzi contro Italia; ric. 55772/08, Paleari contro Italia; provv. del 17/5/2011 2^ Sez.: ric. n. 24920/07, Capitani e Campanella contro Italia) ha rilevato che la confisca di beni fondata sulla L. del 1965, art. 2 ter è volta ad impedire un uso illecito e pericoloso per la società di beni di cui non sia stata dimostrata la provenienza lecita, così che, il fine di una tale ingerenza coincide con l'interesse generale (v. anche: Arcuri ed altri tre c. Italia, n. 52024/99; Riela ed altri C. Italia, n, 52439/99, del 4 settembre 2001). E, quanto alla proporzionalità dell'ingerenza, la Corte ha osservato che, per decidere l'applicazione delle misure di prevenzione, i giudici nazionali non possono basarsi su semplici sospetti, dovendo accertare e valutare oggettivamente i fatti esposti dal ricorrente, così che il corretto procedimento di prevenzione, laddove le argomentazioni del ricorrente vengano esaminate dai giudici interni secondo il procedimento in contraddittorio, è tale da offrire all'interessato occasione adeguata per esporre la sua causa alle autorità competenti. Con la conseguenza che, secondo la Corte EDU, in considerazione del margine di apprezzamento degli Stati nel regolamentare "e;l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale"e;, in particolare nell'ambito di una politica di contrasto al fenomeno della grande criminalità, l'ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto dei beni costituita dalla confisca di prevenzione, a seguito di un corretto procedimento in contraddittorio secondo le norme del diritto nazionale, non è sproporzionata rispetto al fine legittimo perseguito».

5. Gli effetti delle sentenze della Corte EDU nei confronti dei soggetti diversi dalle parti in giudizio.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere (in relazione a due distinti procedimenti) «se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, possa sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole».

Il testo originario dell'art. 442, comma 2, c.p.p. prevedeva che nel giudizio abbreviato, in caso di condanna, «alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta». Questa disposizione era stata dichiarata incostituzionale per eccesso di delega con sentenza della Corte costituzionale n. 176 del 1991: «La direttiva contenuta nell'art. 2, punto 53, della legge di delega per l'emanazione del codice di procedura penale, nella sua chiara formulazione, è tale da far ritenere che la previsione del giudizio abbreviato riguardi solo i reati punibili con pene detentive temporanee o pecuniarie, essendo la diminuzione di un terzo, che il giudizio abbreviato comporta, concepibile solo se riferita ai reati punibili con una pena quantitativamente determinata, e non quindi, ai reati punibili con l'ergastolo. Perciò, in mancanza di un criterio sulla base del quale in tali casi operare la sostituzione della pena, criterio che il legislatore delegante avrebbe dovuto espressamente indicare se avesse inteso estendere il giudizio abbreviato anche ai delitti punibili con l'ergastolo, risulta arbitraria, rispetto alla legge n. 181 del 1987, la scelta, operata a tal fine dal codice, di sostituire l'ergastolo con trent'anni di reclusione, non bastando a giustificarla il riferimento ad altre ipotesi di sostituzione della pena dell'ergastolo, previste dal codice penale in relazione a profili in nessun modo collegabili alla diminuzione di un terzo indicata dalla legge di delega per il giudizio abbreviato. Conseguentemente è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 76 Cost., l'art. 442, secondo comma, ultimo periodo ("e;Alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta"e;) del codice di procedura penale»[9].

Con la legge n. 479 del 16 dicembre 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, era stata, peraltro, reintrodotta la possibilità per il soggetto imputato di reati punibili con l'ergastolo di accedere al rito abbreviato. L'art. 30 della predetta legge stabiliva quanto segue: «All'articolo 442 del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni: (...) (b) al comma 2, dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: "e; Alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta».

L'art. 7 del decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000 (entrato in vigore nello stesso giorno, e convertito - con modifiche non inerenti alla fattispecie in esame - nella legge n. 4 del 19 gennaio 2001), inserito all'interno del Capo III (intitolato «Interpretazione autentica dell'articolo 442 comma 2 del codice di procedura penale e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei processi per i reati puniti con l'ergastolo»), nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica del secondo periodo del comma 2 dell'articolo 442 c.p.p. aveva, da un lato, disposto che l'espressione «pena dell'ergastolo» ivi adoperata dovesse intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno, dall'altro inserito all'interno della stessa disposizione un terzo periodo, per il quale «Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, in caso di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo». Il successivo art. 8[10] recava disposizioni transitorie.

La conformità del predetto quadro normativo alle garanzie della Convenzione EDU è stata esaminata dalla Corte EDU in relazione al c.d. «caso Scoppola»[11], in relazione al quale la Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 1° settembre 2009, ha conclusivamente affermato i principi così massimati:

«L'art. 7, 1, della Convenzione EDU non garantisce solamente il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. Pertanto nell'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell'art. 7, 1, Convenzione EDU l'applicazione della pena più sfavorevole al reo»;

«Costituisce violazione dell'art. 6, 1, Convenzione EDU, relativo al diritto ad un processo equo, l'applicazione retroattiva delle nuove regole di determinazione della pena introdotte dal d.l. n. 341 del 2000 per il giudizio abbreviato, essendo stato deluso il legittimo affidamento che l'imputato aveva riposto su una riduzione di pena in sede di scelta del rito speciale».

Si è, pertanto, posto il problema dell'applicabilità o meno, in executivis, dei predetti principi anche in favore di soggetti diversi dallo Scoppola, rimasti estranei al giudizio svoltosi dinanzi alla Corte EDU.

Le Sezioni Unite[12] hanno ritenuto che «le decisioni della Corte EDU che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto - non correlata in via esclusiva al caso esaminato - della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell'ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale. (Fattispecie riguardante la possibilità che il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati in materia dalla Corte EDU, e modificando il giudicato, sostituisca la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione)».

Per quanto riguarda lo specifico fenomeno di successione di leggi (soltanto formalmente processuali, ma in realtà sostanziali, inerendo al trattamento sanzionatorio applicabile in caso di omicidio punibile con l'ergastolo, ove si sia proceduto con rito abbreviato), si è ritenuto che «in caso di condanna all'esito del giudizio abbreviato, la pena da infliggere per i reati astrattamente punibili con l'ergastolo è quella prevista dalla legge vigente nel momento della richiesta di accesso al rito: ne consegue che, ove quest'ultima sia intervenuta nel vigore dell'art. 7 D.L. n. 341 del 2000, va applicata (ed eseguita) la sanzione prevista da tale norma», e si è precisato che, tra le diverse leggi succedutesi nel tempo, le quali prevedono la specie e l'entità della pena da infliggere all'imputato in caso di condanna all'esito del giudizio abbreviato per i reati astrattamente punibili con l'ergastolo, la legge intermedia più favorevole non trova applicazione quando la richiesta di accesso al rito speciale non sia avvenuta durante la vigenza di quest'ultima, ma soltanto successivamente, nel vigore della legge posteriore che modifica quella precedente[13].

Si è, infine, osservato che «il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e circoscriverne temporalmente, in contrasto con la sua ratio ispiratrice, l'area operativa, perchè finirebbe in tal modo per disapplicarla, mentre l'autorità imperativa e generale della legge gli impone di adeguarvisi, il che delinea il confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale»[14].

In virtù di questa considerazione, è stata dichiarata d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli articoli 3 e 117, comma primo, della Costituzione - quest'ultimo in relazione all'articolo 7 della Convenzione EDU-, «nella parte in cui le disposizioni interne operano retroattivamente, e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 - pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7 giugno 1923 -, era entrato in vigore il citato D.L., con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto», ritenendo impraticabile un'interpretazione della predetta normativa interna conforme all'articolo 7 Convenzione EDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo.

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IL GIUSTO PROCESSO

Sommario

1 Premessa. - 2 L'abuso del processo. - 3 La mancata previsione della notificazione del decreto che dispone il giudizio al difensore ingiustificatamente assente all'udienza preliminare. - 4 Il diritto al contraddittorio: premessa. - 4.1 Le acquisizioni di dichiarazioni predibattimentali in corso di esame. - 4.2 L'utilizzazione nel giudizio ordinario di cognizione delle dichiarazioni predibattimentali. - 4.3 La correlazione tra accusa e sentenza.

1. Premessa.

I principi del cd. "e;giusto processo"e; (due process of law) risultano garantiti dall'art. 111 della Costituzione, il cui testo, modificato con L. costituzionale n. 2 del 1999, ha recepito il contenuto dell'art. 14, comma terzo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, e dell'art. 6, comma terzo, della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, ai quali peraltro l'emanando codice di procedura penale già doveva ispirarsi, in forza dell'espressa disposizione contenuta nell'art. 2, comma primo, della Legge delega n. 81 del 1987.

Le relative tematiche, ormai non più "e;nuove"e;, sono state esaminate in più occasioni, anche nel corso dell'anno 2012, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che generalmente è pervenuta a soluzioni coerenti con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, cui in materia va riconosciuta particolare rilevanza, sia per le appena sottolineate analogie fra i testi di legge di riferimento, sia perché le sentenze definitive della Corte di Strasburgo hanno "e;forza vincolante"e; nell'ordinamento interno, ai sensi dell'art. 46 della Convenzione.

2. L'abuso del processo.

Le Sezioni Unite[15], chiamate ad esaminare una diversa questione controversa, hanno dovuto esaminare, ai fini della decisione, una complessa situazione processuale, caratterizzata dal reiterato avvicendamento di difensori, posto in essere in chiusura del dibattimento, secondo una strategia non giustificata da alcuna reale esigenza difensiva, ma con la sola funzione di ottenere una dilatazione dei tempi processuali con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione, nella quale è stato ravvisato un abuso delle facoltà processuali, inidoneo a legittimare ex post la proposizione di eccezioni di nullità.

Si è, in particolare, affermato che «l'abuso del processo consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, e si realizza allorchè un diritto o una facoltà processuali sono esercitati per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento processuale astrattamente li riconosce all'imputato, il quale non può in tale caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti».

Premessa l'analitica esposizione delle vicende processuali de quibus, si è, in particolare, osservato che «anche l'avvicendamento di difensori, realizzato a chiusura del dibattimento secondo uno schema reiterato non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva, non avesse altra funzione che ottenere, come le eccezioni di nullità manifestamente infondate prima esaminate e la ricusazione dichiarata inammissibile, una dilatazione dei tempi processuali: che ha poi sortito, anche se solo nel prosieguo, l'effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione. Lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado sono stati insomma ostacolati da un numero esagerato di iniziative difensive, ciascuna in astratto di per sé espressione di una facoltà legittima, ma che, essendo in concreto del tutto prive di fondamento e di scopo conforme alle ragioni per cui dette facoltà sono riconosciute, hanno realizzato un abuso del processo, che rende le questioni di nullità prospettate in relazione all'art. 108 c.p.p. manifestamente infondate».

E' stato in proposito configurato un abuso degli strumenti difensivi del processo penale, utilizzati non per ottenere garanzie processuali effettive o realmente più ampie, ovvero migliori possibilità di difesa, ma una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali.

Per chiarire quali siano i termini oggettivi che consentono di qualificare abusiva una qualsivoglia strategia processuale, civile o penale, condotta apparentemente in nome del diritto fatto valere, si è ricordato che «è oramai acquisita una nozione minima comune dell'abuso del processo che riposa sull'altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell'abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell'utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo diverse ma collidenti ("e;pregiudizievoli"e;) rispetto all'interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto. Il carattere generale del principio dipende dal fatto che, come osserva autorevole Dottrina, ogni ordinamento che aspiri a un minimo di ordine e completezza tende a darsi misure, per così dire di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta. Sicché l'esigenza di individuare limiti agli abusi s'estende all'ordine processuale e trascende le connotazioni peculiari dei vari sistemi, essendo ampiamente coltivata non solo negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovrannazionali. E viene univocamente risolta, a livello normativo o interpretativo, nel senso che l'uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per cui il diritto stesso è riconosciuto, non ammette tutela».

In argomento, la giurisprudenza civile[16] ha evidenziato che «nessun procedimento giudiziale possa essere ricondotto alla nozione di processo giusto ove frutto, appunto, di abuso del processo "e;per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi"e;».

In ambito sovranazionale l'articolo 35, § 3 (a) della Convenzione EDU[17] consente, nell'interpretazione consolidata della Corte di Strasburgo, «di ritenere "e;abusivo"e; e dunque irricevibile il ricorso quando la condotta ovvero l'obiettivo del ricorrente sono manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto. In altri termini, come dice l'esplicazione della norma divulgata dalla Corte di Strasburgo nella "e;Guida pratica sulla ricevibilità"e;[18] al punto 134: "e;La nozione di "e;abuso"e; ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) deve essere compresa nel suo senso comune contemplato dalla teoria generale del diritto - ossia [come] il fatto, da parte del titolare di un diritto, di attuarlo al di fuori della sua finalità in modo pregiudizievole[19]. Pertanto, è abusivo qualsiasi comportamento di un ricorrente manifestamente contrario alla vocazione del diritto di ricorso stabilito dalla Convenzione e che ostacoli il buon funzionamento della Corte e il buono svolgimento del procedimento dinanzi ad essa[20]"e;. Non può non ricordarsi inoltre il provvedimento della Corte EDU del 18 ottobre 2011, Petrovic c. Serbia, ric. n. 56551/11, per quanto successivo alla presente decisione, in relazione al "e;concetto di "e;abuso"e;, ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione [...] inteso [...] come esercizio dannoso di un diritto, per scopi diversi da quelli per i quali è previsto"e;».

Ed anche ampia giurisprudenza della Corte di Giustizia UE richiama la nozione di abuso «per affermare la regola interpretativa che colui il quale si appelli al tenore letterale di disposizioni dell'ordinamento comunitario per far valere avanti alla Corte un diritto che confligge con gli scopi di questo (è contrario all'obiettivo perseguito da dette disposizioni), non merita che gli si riconosca quel diritto»[21].

Si è, pertanto, concluso che l'abuso del processo è configurabile in presenza di «un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all'esercizio di diritti potestativi, [di] una frode alla funzione. E quando, mediante comportamenti quali quelli descritti all'inizio del presente paragrafo 15, si realizza uno sviamento o una frode alla funzione, l'imputato che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti».

Si è, inoltre, affermato che «il diniego di termini a difesa, ovvero la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108, comma 1, c.p.p., non possono dar luogo ad alcuna nullità quando la relativa richiesta non risponda ad alcuna reale esigenza difensiva e l'effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell'imputato non abbia subito alcuna lesione o menomazione».

In applicazione dei predetti principi, è stata esclusa nel caso di specie qualsiasi violazione del diritto alla difesa, e si è anzi ravvisato un concreto pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento, e di ciascuna delle parti, alla celebrazione di un giudizio equo in tempi ragionevoli, atteso che lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado erano stati ostacolati da un numero, ritenuto esagerato ed ingiustificato, di iniziative difensive (attraverso il reiterato avvicendamento di difensori in chiusura del dibattimento, la proposizione di eccezioni di nullità manifestamente infondate e di istanze di ricusazione inammissibili - con il solo obiettivo di ottenere una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali).

3. La mancata previsione della notificazione del decreto che dispone il giudizio al difensore ingiustificatamente assente all'udienza preliminare.

La giurisprudenza delle Sezioni[22] ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 429, comma 4, c.p.p., sollevata per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede, a pena di nullità, la necessità di notificare il decreto che dispone il giudizio al difensore di fiducia non presente all'udienza preliminare senza essere legittimamente impedito a parteciparvi.

Si è, in proposito, osservato che «nel sistema del codice di rito la conoscenza legale del decreto che dispone il giudizio avviene mediante la lettura del provvedimento del giudice, all'esito dell'udienza preliminare. L'art. 424, comma 2, c.p.p. precisa che la lettura equivale a notificazione per le parti presenti. L'art. 420 c.p.p. statuisce che l'udienza preliminare si svolge in camera di consiglio "e;con la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore dell'imputato. Se all'udienza il difensore di fiducia, regolarmente avvisato non compare senza che sussista un legittimo impedimento, deve essere sostituito da un difensore d'ufficio, ai sensi dell'art. 97, comma 4, c.p.p. Alla lettura del provvedimento, la difesa viene quindi a conoscenza del decreto che dispone il giudizio. Deve escludersi, pertanto, che la mancata notifica del decreto che dispone il rinvio a giudizio al difensore di fiducia non presente all'udienza preliminare possa comportare una violazione dei diritti della difesa o dei principi costituzionali sul giusto processo. Nè può intravedersi una incisione del diritto alla difesa sul piano della sua concreta effettività in quanto il difensore di fiducia, una volta ricevuto l'avviso dell'udienza preliminare è messo in condizione di venire agevolmente a conoscenza dell'esito di tale procedimento, avendo il dovere professionale, in virtù dell'incarico ricevuto, di prendere visione del verbale».

4. Il diritto al contraddittorio: premessa.

Il principio del contraddittorio può essere inteso in duplice accezione:

- nella sua dimensione oggettiva, esso costituisce metodo di accertamento della verità;

- nella sua dimensione soggettiva, esso si sostanzia nel diritto a confrontarsi, in ogni fase del processo, con il proprio accusatore, e costituisce estrinsecazione del diritto di difesa.

Non vi è dubbio che il principio sia stato recepito dall'art. 111 della Costituzione principalmente nella sua dimensione oggettiva: in tal senso depone la collocazione sistematica della garanzia, concepita non quale corollario del diritto di difesa (nel qual caso la sua enunciazione avrebbe dovuto seguire la garanzia del diritto di difesa: cfr. art. 24, comma 2, della Costituzione), bensì quale fondamentale "e;norma sulla giurisdizione"e;, inserita (l'interprete deve ritenere non casualmente) nell'art. 111 della Costituzione, che apre la sezione dedicata alle "e;Norme sulla giurisdizione"e; (Sezione II del Titolo IV).

L'attenzione dei Costituenti non si è, pertanto, incentrata sul diritto dell'imputato a confrontarsi con il proprio accusatore (sempre rinunciabile, senza che il giudice possa interferire, e quindi di rilievo costituzionale inferiore), bensì sul contraddittorio inteso come metodo privilegiato per l'attuazione della giurisdizione (art. 111, comma 1, della Costituzione) da parte dei magistrati (Titolo IV), perché ritenuto il più affidabile ai fini della ricerca della verità: in tale accezione, esso non è mai in assoluto disponibile dalle parti, e postula logicamente che il dichiarante abbia l'obbligo di dire la verità, poiché in caso contrario l'attuazione della giurisdizione potrebbe risultare falsata.

Il contraddittorio costituisce, pertanto, uno strumento processuale funzionale ad assicurare la genuinità della prova, garantendo la completezza e quindi la maggiore corrispondenza a verità dei dati acquisiti (per la necessaria attività della parte pubblica, non necessariamente elisa, ma, nelle intenzioni dei novelli costituenti, completata dall'intervento delle parti private).

Una conferma in tal senso giunge da quelle che impropriamente vengono definite «deroghe al principio del contraddittorio» (art. 111, comma 5, della Costituzione), laddove, a ben vedere, ne costituiscono fulgida riaffermazione, nell'accezione oggettiva:

- per ragioni di economia processuale (onde evitare il rischio che l'opzione prioritaria per la formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale inter partes possa allungare a dismisura i tempi di definizione dei processi penali anche aventi ad oggetto vicende minori), si è dato rilievo al "e;consenso dell'imputato"e;, che peraltro, se vincola il giudice in quanto rinuncia al diritto di confrontarsi con il proprio accusatore, non lo vincola in quanto rinuncia al contraddittorio quale metodo più affidabile di ricerca della verità: il giudice può, ad esempio, assumere d'ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione (art. 441, comma 5, c.p.p.) nel rito abbreviato[23], e non condividere, nel giudizio, gli accordi istruttori inter partes (art. 507, comma 1-bis, c.p.p.);

- si è logicamente dovuto prendere atto che in date situazioni, per accertata impossibilità di natura oggettiva, l'assunzione delle prove dichiarative in contraddittorio non può aver luogo (ad impossibilia nemo tenetur);

- è stata, infine, attribuita rilevanza alla «provata condotta illecita» che abbia alterato i possibili esiti della prova, se assunta in contraddittorio (onde evitare che la criminalità - soprattutto quella organizzata - potesse ricorrere all'intimidazione sistematica dei testimoni): ma questa non costituisce deroga, bensì estrema riaffermazione del principio del contraddittorio quale metodo privilegiato di attuazione della giurisdizione, alla cui tutela risulta necessario ripristinare la corretta situazione, turbata dall'indebita pressione esterna, senza la quale la formazione della prova avrebbe avuto esiti diversi.

4.1. Le acquisizioni di dichiarazioni predibattimentali in corso di esame.

La giurisprudenza delle Sezioni[24] ha ritenuto utilizzabili e legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento ex art. 500, comma 4, c.p.p. le dichiarazioni predibattimentali della persona offesa, vittima di violenza sessuale, che, per sottrarsi a gravi intimidazioni finalizzate ad evitarne la deposizione o a ritrattare le accuse, sia costretta a rendersi irreperibile e non compaia in udienza per testimoniare.

Nel caso di specie, il giudice del merito aveva accertato, con motivazione ritenuta plausibile, congrua ed adeguata, che l'imputato, nel tentativo di sottrarsi ad una pressoché sicura condanna, aveva minacciato la persona offesa in modo grave e con tale forza intimidatrice da indurla a rendersi irreperibile ed a non testimoniare in dibattimento nel processo; ciò premesso, si è ritenuto, in applicazione dell'art. 500, comma 4, c.p.p., che vi fossero sicuramente «elementi concreti per ritenere che la testimone fosse stata sottoposta a minaccia affinché non deponesse in dibattimento, sicché le sue dichiarazioni rese precedentemente alla polizia giudiziaria e contenute nel fascicolo del pubblico ministero sono state correttamente acquisite nel fascicolo del dibattimento ed utilizzate», precisando che «ciò che conta è esclusivamente l'esistenza di concreti elementi per ritenere che la testimone è stata sottoposta a minaccia per non deporre, il che è sufficiente per considerare legittimamente acquisite ed utilizzate le dichiarazioni da lei rese alla polizia giudiziaria in occasione delle due denunzie e querele».

Ed in considerazione della legittimità dell'utilizzazione delle dichiarazioni della persona offesa, si è ritenuto che non fosse stato violato nemmeno l'art. 526, comma 1-bis, c.p.p.: «è, invero, palese che nel caso in esame la persona offesa non si è sottratta all'esame in dibattimento volontariamente e per libera scelta, bensì perché costretta dalla grave minaccia ricevuta ed appunto rivolta al fine di non farla deporre in dibattimento. Le sue dichiarazioni alla polizia giudiziaria, legittimamente acquisite, potevano dunque validamente costituire anche la sola prova sulla cui base fondare la colpevolezza dell'imputato. E difatti il criterio di valutazione di cui all'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, non si applica quando vi sia la prova o anche la sola presunzione di una illecita coazione, di una violenza fisica o psichica, o di altre illecite interferenze che escludano una libera determinazione».

Non è stata ritenuta configurabile neanche una violazione dell'art. 6, commi 1 e 3, lett. d), della Convenzione EDU, ed in particolare della specifica regola che da tale principio ha tratto la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo la quale «i diritti della difesa sono limitati in modo incompatibile con le garanzie dell'art. 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare ne' nella fase istruttoria ne' durante il dibattimento»[25], e ciò «innanzitutto, perché la norma convenzionale non si applica ai casi di provata condotta illecita consistente nella sottoposizione del testimone a "e;violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga"e;, in quanto, secondo un orientamento dottrinario ed una giurisprudenza della Corte EDU, il comportamento dell'imputato che abbia compiuto atti diretti a sottrarre le dichiarazioni in questione al contraddittorio dibattimentale è un comportamento volto ad alterare gli equilibri del processo, privandolo del diritto di invocare la disposizione della Convenzione di cui egli stesso ha impedito la corretta applicabilità[26]. In secondo luogo perché la norma della Convenzione EDU - quand'anche fosse applicabile in caso di condotta illecita dell'imputato - esclude che la condanna possa fondarsi in via esclusiva o determinante sulle dichiarazioni raccolte in segreto ma consente che tali dichiarazioni siano utilizzate anche ai fini della responsabilità dell'imputato quando trovino riscontro o conforto in altri elementi raccolti nel processo».

4.2. L'utilizzazione nel giudizio ordinario di cognizione delle dichiarazioni predibattimentali.

Nel corso dell'anno 2012 è stato in più occasioni ribadito il principio, ormai consolidato, secondo il quale «le dichiarazioni predibattimentali di cui sia data lettura in giudizio per sopravvenuta impossibilità di ripetizione devono essere valutate non solo sulla base della credibilità, sia soggettiva che oggettiva, del dichiarante, ma anche in relazione agli altri elementi emergenti dalle risultanze processuali»[27].

A sostegno dell'assunto, si è osservato che «la deroga al principio della formazione dialettica della prova autorizza l'acquisizione al processo dell'atto compiuto unilateralmente, ma non pregiudica la questione del valore probatorio che ad esso, in concreto, va attribuito. Non vi è quindi incompatibilità tra la norma della Convenzione EDU e l'art. 111 Cost., comma 5, con la conseguenza che le dichiarazioni acquisite mediante lettura, alla luce dei principi posti dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6 della Convenzione, come interpretato dalla Corte EDU, devono essere valutate dal giudice di merito con ogni opportuna cautela, non solo conducendo un'indagine positiva sulla credibilità sia soggettiva che oggetti va, ma anche ponendo in relazione la testimonianza con altri elementi emergenti dalle risultanze processuali» Si è, peraltro, precisato che gli ulteriori elementi che devono confermare quelli desumibili da dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 512 c.p.p. (nella specie, si trattava di dichiarazioni predibattimentali rese dalla persona offesa) per fondare l'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, non possono consistere in altre dichiarazioni acquisite con le medesime modalità[28]: si è, in proposito, ricordato che «la dichiarazione accusatoria della persona offesa acquisita ai sensi dell'art. 512 c.p.p. deve trovare conforto, per sostenere l'accusa, in ulteriori elementi individuati dal giudice, con doverosa disamina critica, nelle risultanze processuali; sennonché, tra tali ulteriori elementi, non pare possibile ricomprendere dichiarazioni che, per essere acquisite sempre ai sensi dell'art. 512 c.p.p., presentano la stessa "e;debolezza intrinseca"e; delle dichiarazioni da riscontrare.».

4.3. La correlazione tra accusa e sentenza.

Nelle precedenti edizioni di questa Rassegna è stato dedicato ampio spazio al dibattito giurisprudenziale scaturito dalla sentenza resa in tema di correlazione tra sentenza ed accusa contestata dalla Corte EDU 11 dicembre 2007 (proc. Drassich c. Italia), a parere della quale la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio.

Nel corso dell'anno 2012, la giurisprudenza delle Sezioni ha chiarito che «la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto deve ritenersi assicurata anche quando venga operata dal giudice di primo grado nella sentenza pronunziata all'esito del giudizio abbreviato, in quanto con i motivi d'appello l'imputato è posto nelle condizioni di interloquire sulla stessa, richiedendo una sua rivalutazione e l'acquisizione di integrazioni probatorie utili a smentirne il fondamento»[29] ed, in applicazione della stessa ratio, che «l'osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l'imputato è chiamato a rispondere, sancito dall'art. 6 della Convenzione EDU, §§ 1 e 3, lett. a) e b), e dall'art. 111, comma 3, della Costituzione, è assicurata anche quando il giudice d'appello provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l'imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, lett. b), c.p.p., trattandosi di questione di diritto la cui trattazione non incontra limiti nel giudizio di legittimità»[30].

Si è anche precisato che la sentenza Drassich della Corte EDU impone l'obbligo di informazione all'imputato solo nel caso in cui il titolo del reato ravvisato sia più grave e l'imputato venga a subire dalla modifica dell'imputazione conseguenze sfavorevoli: «il principio affermato dalla Corte EDU, con sentenza 11-12-2007, Drassich, che ha ravvisato la sussistenza di una violazione dell'art. 6 della Convenzione EDU per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nella riqualificazione giuridica del fatto effettuata ex officio in sede di legittimità, senza aver dato all'imputato, in alcuna fase della procedura, la possibilità di esserne informato e di predisporre la più opportuna difesa, riguarda l'ipotesi in cui il titolo di reato ravvisato sia più grave e dunque l'imputato venga a subire conseguenze sfavorevoli per effetto del mutamento del nomen iuris. Solo in questa ipotesi occorre ritenere che il diritto al contraddittorio investa ogni profilo dell'accusa e vada assicurato, informando l'imputato e il suo difensore dell'eventualità di una qualificazione giuridica del fatto diversa da quella contestata». Nel caso di specie non occorreva, peraltro, alcuna contestazione, essendo stata attribuita al fatto una qualificazione giuridica meno grave (art. 726 c.p.) di quella enunciata nell'imputazione (art. 527 c.p.)[31].

Sezione II CASSAZIONE E SOCIETA'

  • immigrazione
  • protezione della famiglia
  • diffamazione
  • discriminazione razziale
  • diritto alla salute
  • schiavitù

I DIRITTI DELLE PERSONE E DELLE FORMAZIONI SOCIALI

Sommario

1 Premessa. - 2 Il diritto alla salute ed alle cure mediche. - 3 La tutela della famiglia. - 4 Diffamazione on line e molestie tecnologiche. - 5 La tutela della privacy. - 6 La tutela degli immigrati ed il divieto di discriminazioni razziali. - 7 La riduzione in schiavitù.

1. Premessa.

Il divieto di analogia in materia penale (artt. 25, comma 2, della Costituzione, 1 c.p. e 14 disp. prel. c.c.) non consente alla Corte di cassazione di ampliare l'ambito della tutela penale oltre i confini delimitati dalle norme penali incriminatrici; nondimeno, molto frequentemente la giurisprudenza di legittimità si trova al cospetto della necessità di adeguare le astratte previsioni normative a nuove emergenze di volta in volta profilatesi, in termini non sempre prevedibili ex ante dal legislatore, e di dovere, pertanto, attualizzare il dictum normativo.

In questo ambito si è mossa anche nel corso dell'anno 2012 la Corte di cassazione, sempre particolarmente sensibile alla tutela dei diritti delle persone e delle formazioni sociali intermedie, ed alle possibili implicazioni dei principi solidaristici accolti dall'art. 2 della Costituzione, che comportano la configurazione, a carico dei consociati, quale ideale contropartita dei diritti ad essi riconosciuti, di nuovi doveri di collaborazione per la realizzazione delle finalità dello Stato sociale, con conseguente ampliamento dell'ambito delle responsabilità penali per omissione (art. 40, comma 2, c.p.), al fine di rendere sempre più incisiva la tutela di beni (si pensi, ad es., al diritto alla salute ed all'ambiente - anche lavorativo - salubre) il cui valore, in passato sottovalutato, si è progressivamente accresciuto nell'idem sentire fino ad ottenere un generalizzato riconoscimento di rilevanza costituzionale primaria, in quanto strumentali alla compiuta realizzazione della personalità umana.

2. Il diritto alla salute ed alle cure mediche.

In tema di colpa professionale del medico, la giurisprudenza delle Sezioni ha osservato che «il principio civilistico di cui all'art. 2236 c.c., che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave, può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l'addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza, in quanto la colpa del terapeuta deve essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell'intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto. Ne consegue che non sussistono i presupposti per parametrare l'imputazione soggettiva al canone della colpa grave ove si tratti di casi non difficili e fronteggiabili con interventi conformi agli standards. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la sussistenza della responsabilità, ex art. 589 c.p. del direttore sanitario di una casa di cura - nei confronti di un degente affetto da schizofrenia caduto da una finestra - il quale, nonostante la condizione del paziente fosse macroscopicamente peggiorata e gli fosse nota la necessità di nuove iniziative terapeutiche ed assistenziali, si astenne dal porre in essere le relative iniziative, di cui, peraltro, egli stesso aveva dato conto nel corso di un briefing)»[32].

In argomento, va peraltro ricordato un rilevante intervento normativo: la legge n. 189 del 2012, di conversione, con modifiche, del c.d. "e;decreto sanità"e; n. 158 del 2012 ha, infatti, stabilito che «L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Le conseguenze della modifica sulla configurabilità della responsabilità penale a titolo di colpa professionale nell'esercizio dell'attività medico-chirurgica, prima facie di grande rilievo, saranno valutate dalla giurisprudenza che verrà.

Una decisione ha chiarito che «il capo dell'équipe medica è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che non è limitata all'ambito strettamente chirurgico, ma si estende al successivo decorso post-operatorio, poiché le esigenze di cura e di assistenza dell'infermo sono note a colui che ha eseguito l'intervento più che ad ogni altro sanitario»[33].

A fondamento dell'affermazione di principio, si è rilevato che «tale enunciazione trova razionale giustificazione nel fatto che il momento immediatamente successivo all'atto chirurgico non è per nulla avulso dall'intervento operatorio; non foss'altro che per il fatto che le esigenze di cura ed assistenza del paziente sono con tutta evidenza rapportate alle peculiarità dell'atto operatorio ed al suo andamento in concreto: contingenze note al capo-equipe più che ad ogni altro sanitario».

3. La tutela della famiglia.

La tutela della famiglia ha ricevuto dalla giurisprudenza di legittimità una particolare attenzione anche nel corso dell'anno 2012.

La giurisprudenza delle Sezioni ha ritenuto che «il rifiuto di consegna di un minore da parte di uno dei genitori - o di colui che per conto di questi esercita la potestà (nella specie, la nonna) - all'altro, non integra il reato di sottrazione di persona incapace se il trattenimento del minore sia stato limitato a poche ore»[34].

A fondamento dell'affermazione, si è ricordato che l'art. 574 c.p. è posto a tutela dell'esercizio della potestà dei genitori o di analoghe situazioni soggettive previste nell'interesse della persona incapace, ed è violato in tutti i casi nei quali l'agente, contro la volontà dell'avente diritto, operi una sottrazione o eserciti una ritenzione di quella persona: «in linea generale tale violazione può dirsi consumata qualunque sia il periodo di tempo in cui la sottrazione o la ritenzione si protraggano, dato che la condotta corrispondente a quella della norma penale si manifesta immediatamente come lesiva della volontà e quindi del potere-dovere del titolare. La situazione risulta tuttavia più complessa nel caso in cui, essendo più soggetti titolari della potestà dei genitori o di analoghe situazioni soggettive, la condotta vietata dalla norma venga addebitata a uno di questi a danno di altri. In questa evenienza è compito dell'interprete stabilire la linea di demarcazione tra quella che deve essere intesa come una manifestazione dell'esercizio della propria potestà e il comportamento che si configuri come diretto a contrastare il diritto dell'altro, dovendosi considerare, a questo fine, la gerarchia che la stessa legge pone tra le potestà, con prevalenza di una volontà sull'altra, nonché, ove sussista, il regolamento che il giudice ha determinato con gli eventuali provvedimenti di affidamento. Sempre peraltro nella considerazione che nella specie si tratta di situazioni potestative e cioè non dettate nell'interesse esclusivo del loro titolare, ma per il soddisfacimento di quello della persona incapace».

Proprio al fine di contemperare tali situazioni contrapposte, deve ritenersi, nell'evenienza descritta, che il reato non si configura come istantaneo, ma sia necessario che l'impedimento dell'esercizio dell'altrui potestà si protragga per un periodo di tempo rilevante, «e ciò perché la sottrazione o la ritenzione non possono ritenersi immediatamente lesive dell'interesse dell'incapace, in quanto per altro verso sono esse stesse un esercizio di una potestà sul minore, sebbene recessiva rispetto a quella di altro titolare».

Nella specie si verteva nella descritta situazione di conflitto di potestà, perché l'imputata esercitava la vigilanza sulla minore su mandato della madre ed, in quanto nonna della piccola contesa, vantava essa stessa una potestà sulla bambina, ancorché subordinata a quella dei genitori: il Collegio ha ritenuto necessario prendere in considerazione non soltanto l'interesse del padre, ma anche quello della minore, «la cui serenità era posta in pericolo dall'eventualità di spiacevoli scenate che entrambe le sentenze di merito danno per avvenute in precedenti occasioni. E in questo senso deve allora concludersi, in linea con la sentenza del primo giudice, che nella situazione descritta il rifiuto di consegna con trattenimento per poche ore della piccola non ha avuto un rilievo tale da integrare il reato di sottrazione di persona».

In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e quello di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), si è affermato che, «salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall'art. 612-bis, comma 1, - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall'art. 612-bis, comma 2) in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. (In motivazione, la S.C. ha precisato che ciò può valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto)»[35].

In tema di violazione degli obblighi economici di assistenza familiare (art. 570 c.p.), si è evidenziato che «l'art. 12-sexies della legge 1 dicembre 1970, n. 898, punisce il mero inadempimento dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice, in sede di divorzio, in favore dei figli senza limitazione di età, purché economicamente non autonomi, mentre l'art. 570, comma 2, n. 2, c.p. prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro, sicché non integra tale ultimo reato la violazione dell'obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza ai figli maggiorenni, non inabili al lavoro, anche se studenti»[36].

Si è, in proposito, ricordato che «costituisce ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, che la L. 1 dicembre 1970, art. 12-sexies punisca il mero inadempimento dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice, in sede di divorzio, in favore dei figli senza limitazione di età, purché economicamente non autonomi. È dunque irrilevante il momento in cui l'ultima figlia dell'imputato è divenuta maggiorenne. Quest'ultimo momento assume rilievo non nell'ottica del delitto di cui alla L. cit., art. 12-sexies ma soltanto nella prospettiva delineata dalla norma incriminatrice di cui all'art. 570 c.p., comma 2 n. 2, essendosi ritenuto, in giurisprudenza, conformemente al tenore testuale della norma, che contempla soltanto, come soggetti passivi, i figli minori o inabili al lavoro, che non integri il reato la mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza ai figli maggiorenni, non inabili al lavoro, anche se studenti. Correttamente risulta, pertanto, determinato, nell'imputazione, l'arco temporale lungo il quale si è esplicata la condotta omissiva, il cui dies a quo, ancorché non espressamente indicato nel capo d'imputazione, coincide con il momento dell'affidamento e non con il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio poiché il reato di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 12-sexies, è configurabile indipendentemente da esso, stante la provvisoria esecutorietà della pronuncia intervenuta in sede civile, con la conseguente possibilità di azionare nelle sedi proprie la pretesa civilistica. Mentre il dies ad quem, trattandosi di reato permanente, coincide con la data di emanazione della sentenza di primo grado».

Con riguardo alla non punibilità dei reati contro il patrimonio commessi in danno di prossimi congiunti, si è affermato che «il tentativo di estorsione commesso con minaccia in danno del genitore (o, come nella specie, dell'affine in linea retta) non è punibile ex art. 649, comma 3, ultima parte, c.p., in quanto le ipotesi criminose che rimangono escluse dall'operatività della disposizione concernono solamente, da un lato, i delitti consumati di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p., e, dall'altro, tutti gli altri delitti contro il patrimonio, anche se tentati, che siano commessi con violenza; ne consegue che la predetta causa di non punibilità opera con riguardo a tutti i delitti tentati contro il patrimonio commessi con minaccia», e si è precisato che, «nel caso in cui uno dei coniugi abbia un figlio nato da precedente matrimonio, ai fini dell'operatività della causa di non punibilità di cui all'art. 649, comma 1, n. 2, seconda ipotesi, il figlio del coniuge è affine in linea retta dell'altro coniuge»[37].

4. Diffamazione on line e molestie tecnologiche.

Gli orizzonti giuridici del terzo millennio non possono ignorare la rilevanza - in continua ed inarrestabile crescita - dei reati posti in essere con l'ausilio dei nuovi mezzi tecnologici di comunicazione di massa.

La giurisprudenza delle Sezioni, sempre attenta nel relazionarsi con i nuovi fenomeni criminosi, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento penale, ha ritenuto, in tema di diffamazione tramite internet, che, «ai fini della tempestività della querela, occorre considerare che la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano immesse sul web, nel momento in cui il collegamento sia attivato, di guisa che l'interessato, normalmente, ha notizia della immissione in internet del messaggio offensivo o accedendo direttamente in rete o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne siano venuti a conoscenza. Ne deriva se non la assoluta contestualità tra immissione in rete e cognizione del diffamato, almeno una prossimità temporale di essi, sempre che l'interessato non dia dimostrazione del contrario. (Nella specie la pubblicazione delle espressioni offensive sul sito è avvenuta il 7 luglio 2009, la querela è stata presentata il successivo 9 dicembre ed è stata ritenuta tardivamente proposta dal G.u.p. con decisione ritenuta immune da censure dalla S.C.)»[38].

Si è anche valutato se il modello di condotta tipizzato dall'art. 660 c.p. con riferimento alla comunicazione telefonica, possa ricomprendere, in via di interpretazione estensiva, le comunicazioni telematiche non foniche effettuate mediante elaboratore elettronico attraverso la rete internet (nella specie, il riferimento era ad una condotta di molestie attraverso la messaggeria telematica MSN); in proposito, si è ritenuto che «non integra la fattispecie contravvenzionale della molestia o disturbo alle persone l'invio, mediante la messaggistica elettronica, di una pluralità di messaggi e immagini a contenuto osceno, perché la messaggeria telematica non presenta il carattere invasivo proprio del mezzo telefonico e il destinatario dei messaggi indesiderati può evitarne la ricezione agevolmente senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione»[39].

Si è, in particolare, osservato che «il progresso tecnologico realizzato sia nella telefonia (inizialmente circoscritta alle comunicazioni tra postazioni fisse, ora ampiamente integrata dalla radiotelefonia tra apparecchi mobili connessi attraverso il sistema cellulare), sia nella elettronica, caratterizzato dalla miniaturizzazione degli elaboratori, e, soprattutto, la integrazione delle due tecnologie, estrinsecatasi nella produzione di apparecchi telefonici mobili, con implementazioni delle funzioni peculiari dell'elaboratore elettronico, e di elaboratori di ridottissime dimensioni, agevolmente portabili, connessi alla rete telefonica e telematica e anche idonei a comunicare, attenuano, indubbiamente, le differenze - prima nettissime - tra la comunicazione telefonica e le altre forme di comunicazione telematica. Purtuttavia la tipizzazione del mezzo del reato, contenuta nella norma incriminatrice dell'art. 660 c.p., impone la individuazione del discrimen della comunicazione (molesta), riconducibile al mezzo del telefono, rispetto alle altre varie forme di telecomunicazione, le quali - pel divieto di applicazione analogica delle norme penali ai sensi dell'art. 14 preleggi - non consentono, invece, di ritenere integrata la contravvenzione».

Ciò premesso, si è affermato che l'uso della messaggistica elettronica non costituisce comunicazione telefonica, né è ad essa assimilabile: «tale sistema di comunicazione, sebbene utilizzi la rete telefonica e le bande di frequenza della rete cellulare, non costituisce, tuttavia, applicazione della telefonia che consiste, invece, nella teletrasmissione, in modalità sincrona, di voci o di suoni; e si caratterizza sul piano della interazione tra il mittente e il destinatario - in relazione al profilo saliente dell'oggetto giuridico della norma incriminatrice - per la incontrollata possibilità di intrusione, immediata e diretta, del primo nella sfera delle attività del secondo».

A differenza della comunicazione fatta col mezzo del telefono, la messaggeria telematica non presenta, pertanto, il "e;carattere invasivo"e;, «ben potendo il destinatario di messaggi non desiderati da un determinato utente (sgradito), evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere, in alcun modo, la propria libertà di comunicazione, neppure in relazione all'impiego della particolare tecnologia in parola».

In conclusione, una volta escluso l'elemento della fattispecie penale del mezzo (tipizzato) del reato (poiché il messaggio telematico non è assimilabile alla comunicazione col mezzo del telefono), la contravvenzione de qua non è configurabile: «l'evento immateriale - o psichico - del turbamento del soggetto passivo costituisce condizione necessaria ma non sufficiente della previsione di cui all'art. 660 c.p. Per integrare la contravvenzione prevista e punita dall'art. 660 c.p., devono, invero, concorrere (alternativamente) gli ulteriori elementi circostanziali della condotta del soggetto attivo, contemplati dalla norma incriminatrice: la pubblicità (o l'apertura al pubblico) del teatro dell'azione ovvero l'utilizzazione del telefono come mezzo del reato. E il mezzo telefonico assume rilievo - ai fini dell'ampliamento della tutela penale altrimenti limitata alle molestie arrecate in luogo pubblico o aperto al pubblico - proprio per il carattere invasivo della comunicazione alla quale il destinatario non può sottrarsi, se non disattivando l'apparecchio telefonico, con conseguente lesione, in tale evenienza, della propria libertà di comunicazione, costituzionalmente garantita (art. 15 Cost., comma 1)».

Si è, infine, ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema, «nel fissare il principio di diritto della inclusione nella previsione della norma incriminatrice dei messaggi di testo telefonici[40] ("e;La disposizione di cui all'art. 660 c.p. punisce la molestia commessa col mezzo del telefono, e quindi anche la molestia posta in essere attraverso l'invio di short messages System - SMS - trasmessi attraverso sistemi telefonici mobili o fissi"e;), ha, per l'appunto, argomentato che "e;il destinatario di (detti SMS) è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, il quale in tal modo realizza l'obiettivo di recare disturbo al destinatario"e;».

5. La tutela della privacy.

La giurisprudenza delle Sezioni ha esaminato la possibile rilevanza penale dell'invio di messaggi pubblicitari non autorizzati (il cosiddetto spamming) osservando che «integra il reato di trattamento illecito di dati personali (art. 167 del D.Lgs. n. 196 del 2003) l'indebito utilizzo di un data-base contenente l'elenco di utenti iscritti ad una newsletter ai quali venivano inviati messaggi pubblicitari non autorizzati provenienti da altro operatore, che traeva profitto dalla percezione di introiti commerciali e pubblicitari, con corrispondente nocumento per l'immagine del titolare della banca dati abusivamente consultata e per gli stessi utenti, costretti a cancellare i messaggi di posta indesiderata, a predisporre accorgimenti per impedire ulteriori invii ed a tutelare la privacy dalla circolazione non autorizzata delle informazioni personali»[41].

In tema, si è anche precisato che a nulla rileva, ai fini della determinatezza dell'accusa, la mancanza di puntuali indicazioni circa il volume, la frequenza, la data degli invii indesiderati ed i destinatari degli stessi: «nel mondo internautico, infatti, la circolazione dei dati avviene con modalità del tutto proprie caratterizzate da singolarità nella identificazione della clientela (sia nominativamente che come recapiti) e dalla estrema rapidità della diffusione (l'apposizione di un indirizzo di posta elettronica nella "e;lista"e; consente - con un semplice "e;click"e; - la simultanea trasmissione di una serie imprecisata di dati ad un numero illimitato di soggetti la cui identificazione - per nome e cognome e recapito postale tradizionali - sarebbe - diversamente - oltremodo lunga e complessa). A fronte di tali indiscutibili "e;peculiarità"e;, cercare di applicare al traffico telematico gli stessi parametri di quello ordinario è fuorviante. (...) se si dovesse, invece, sostenere che, per rendere l'accusa precisa, sarebbe stato necessario indicare i nomi dei destinatari degli invii indesiderati ovvero descrivere in dettaglio il volume e la frequenza di questi ultimi, si finirebbe per rendere il reato di cui trattasi di "e;impossibile"e; contestazione, non essendo nemmeno ipotizzabile la complessità dello sforzo investigativo per identificare, uno per uno, i soggetti fisici corrispondenti ad "e;identificativi"e; o "e;indirizzi mail"e; e, magari, (...) contattarli, tramite p.g., per accertare il gradimento o meno della ricezione.

Con riguardo all'identificazione del «nocumento», costituente condizione obiettiva di punibilità dall'art. 167 Cod. privacy, la citata decisione ha premesso che «l'introduzione del "e;nocumento"e; nella novella legislativa che ha interessato il D.Lgs. n. 196 del 1993, art. 167, sembra finalizzata ad evitare che la disposizione trovi un'applicazione eccessivamente formale e, quindi, anche a dare "e;effettività"e; alla tutela della riservatezza dei dati personali. Non appare inesatto ritenere che il legislatore, con la valorizzazione del fattore "e;nocumento"e; abbia inteso richiamare l'attenzione sulla concreta offensività della condotta», affermando conclusivamente che con l'inserimento della condizione obiettiva di punibilità de qua «il legislatore abbia inteso, in qualche modo, arretrare la soglia dell'intervento penale anche alla semplice esposizione al pericolo di una lesione dell'unico bene protetto dal D.Lgs. n. 196 del 1993 (vale a dire il diritto dell'interessato al controllo sulla circolazione delle sue informazioni personali) formulando la norma come se si fosse al cospetto di un reato di pericolo concreto con dolo di danno. In altri termini, il reato è perfetto quando la condotta si sostanzia in un trattamento dei dati personali, in violazione di precise disposizioni di legge, effettuato con il fine precipuo di trame un profitto per sè o per altri o di recare ad altri un danno ma la sua punibilità discende dalla ricorrenza di un effettivo "e;nocumento"e; (nel senso, cioè, che il profitto conseguito o il danno causato siano apprezzabili sotto più punti di vista). (...) L'illecita utilizzazione dei dati personali è punibile, non già in sè e per sè, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento (cosa che, ovviamente, deve essere valutata caso per caso) alla persona dell'interessato e/o al suo patrimonio. Ciò vuoi dire che, per un verso, rimane tutelato l'imputato perché l'oggettiva inidoneità della condotta a ledere il bene giuridico protetto lo salvaguarda anche nel caso in cui la sua azione sia stata animata da un chiaro intento di profitto, al contempo, però, garantisce la persona offesa con un raggio di azione più ampio, viste e considerate le peculiarità della fattispecie di cui si sta trattando».

6. La tutela degli immigrati ed il divieto di discriminazioni razziali.

L'integrazione nel tessuto sociale italiano di persone provenienti da culture (anche giuridiche) eterogenee pone con sempre maggior frequenza il problema di delineare i limiti entro i quali sia possibile configurare, a beneficio di queste ultime, l'ignoranza inevitabile della legge penale interna.

La giurisprudenza delle Sezioni, premesso che l'errore di diritto inevitabile esclude la colpevolezza dell'agente anche quando cada su una norma extrapenale integratrice del precetto penale, e che integra il delitto di abusivo esercizio di una professione (art. 348 c.p.) la condotta di colui che pratichi la «circoncisione rituale» in difetto dell'abilitazione all'esercizio della professione medica, ha ritenuto, con riguardo ad una fattispecie nella quale era stato ipotizzato il concorso della madre dell'infante nel delitto di cui all'art. 348 c.p., che «la valutazione dell'inevitabilità dell'errore di diritto, rilevante ai fini dell'esclusione della colpevolezza, deve tenere conto dei tanti fattori esterni che possono aver determinato nell'agente l'ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo», attribuendo conclusivamente rilevanza, ai fini dell'esclusione del necessario elemento soggettivo, all'ignoranza da parte di essa della natura medica della predetta circoncisione rituale, e della conseguente necessità che ad effettuarla fosse un soggetto abilitato all'esercizio della professione medica, e ciò per essere quella madre di recente immigrata da un paese straniero in cui tale pratica è diffusa per tradizione etnica, dalla quale la donna era risultata essere fortemente influenzata in ragione del suo basso grado di cultura[42].

Si è inoltre ritenuto che «integra il reato di minaccia aggravato dalla circostanza della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso (artt. 612 c.p. e 3 D.L. n. 122 del 1993, conv. in l. n. 205 del 1993), la condotta di colui che effettui telefonate all'indirizzo della persona offesa - nella specie docente di storia e studiosa delle persecuzioni razziali antisemite avvenute in Italia durante l'occupazione nazista - prospettandole alcuni mali ingiusti, rientranti nel genere di quelli praticati in un lager nazista (stupro etnico-razziale), e manifesti odio nei confronti del popolo ebraico ed esultanza per le persecuzioni di cui è stato vittima, considerato che la finalità di odio razziale e religioso - integrante l'aggravante in questione - sussiste non solo quando il reato (nella specie minaccia) sia rivolto ad un appartenente al popolo ebraico, in quanto tale, ma anche quando sia indirizzato a coloro che, per le più diverse ragioni, siano accomunati dall'agente alla essenza e ai destini del detto popolo»[43].

7. La riduzione in schiavitù.

Con frequente in preoccupante crescita la giurisprudenza è chiamata a valutare la rilevanza di condotte concretizzatesi nell'asservimento di esseri umani, generalmente propiziate dalle condizioni di debolezza nelle quali possono trovarsi i molti immigrati clandestini giunti in Italia inseguendo la speranza di un domani migliore.

La III sezione[44] ha ritenuto configurabile la causa di giustificazione dello stato di necessità (art. 54 c.p.) in favore di una donna straniera, ridotta in condizione di schiavitù e costretta a prostituirsi, la quale era stata indotta a commettere i reati previsti dagli artt. 495 e 496 c.p. per il timore che, in caso di disobbedienza, potesse essere esposta a pericolo la vita o l'incolumità fisica dei suoi familiari.

  • immigrazione
  • politica ambientale
  • circolazione stradale
  • sicurezza del lavoro
  • sicurezza pubblica
  • stupefacente
  • violenza sessuale
  • mafia

I DIRITTI SOCIALI

Sommario

1 Premessa. - 2 La tutela della sicurezza pubblica: mafia e misure di prevenzione. - 3 La diffusione delle sostanze stupefacenti. - 4 Gli interventi delle Sezioni Unite in materia di stupefacenti: ingente quantità e istigazione all'uso. - 5 I reati sessuali. - 6 L'immigrazione clandestina. - 7 La sicurezza della circolazione stradale. - 8 La tutela penale del lavoro. - 9 Il mobbing. - 10 La tutela penale dell'ambiente e del territorio.

1. Premessa.

L'esigenza di rafforzare, in ogni settore, la tutela dei beni-interessi collettivi (sicurezza pubblica, ambiente e territorio, ambienti di lavoro) è stata, anche nel corso dell'anno 2012, alla base di numerose decisioni della Corte di cassazione.

2. La tutela della sicurezza pubblica: mafia e misure di prevenzione.

La giurisprudenza delle sezioni ha precisato i rapporti tra «partecipazione» e «concorso esterno» ad associazione di tipo mafioso con riguardo alle condotte poste in essere dagli appartenenti alla c.d. «borghesia mafiosa», osservando che «nei rapporti tra partecipazione ad associazione mafiosa e mero concorso esterno, la differenza tra il soggetto intraneus ed il concorrente esterno risiede nel fatto che quest'ultimo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur fornendo ad essa un contributo causalmente rilevante ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione, e, sotto il profilo soggettivo, è privo della affectio societatis, mentre il partecipe intraneus è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell'accordo, e quindi del programma delittuoso, in modo stabile e permanente»[45].

Il contributo degli appartenenti alla c.d. "e;borghesia mafiosa"e; può, quindi, integrare anche gli estremi della vera e propria partecipazione all'associazione mafiosa, e non necessariamente del mero concorso esterno.

Si è anche ritenuto che, per la configurabilità del reato di scambio elettorale politico - mafioso (art. 416-ter c.p.) «non basta l'elargizione di denaro, in cambio dell'appoggio elettorale, ad un soggetto aderente a consorteria di tipo mafioso, ma occorre anche che quest'ultimo faccia ricorso all'intimidazione ovvero alla prevaricazione mafiosa, con le modalità precisate nel terzo comma dell'art. 416-bis c.p. (cui l'art. 416-ter fa esplicito richiamo), per impedire ovvero ostacolare il libero esercizio del voto e per falsare il risultato elettorale, elementi, questi ultimi, da ritenersi determinanti ai fini della distinzione tra la figura di reato in questione ed i similari illeciti di cui agli artt. 96 e 97 T.U. delle leggi elettorali approvato con d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361»[46].

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, si è ritenuto che «le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell'indiziato di appartenenza a sodalizi di tipo mafioso tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso» ed è, pertanto, legittimo «il provvedimento di confisca di beni del prevenuto che ne giustifichi il possesso dichiarando di averli acquistati con i proventi del reato di evasione fiscale»[47], ed inoltre che «la confisca dei beni del proposto può essere disposta alla sua morte anche nei confronti dei suoi eredi a condizione che sia accertata la consapevolezza di questi ultimi dell'attività illecita svolta dal loro dante causa e della genesi illecita dei cespiti patrimoniali oggetto della successione»[48].

3. La diffusione delle sostanze stupefacenti.

L'esigenza di ridurre la diffusione dei traffici e del consumo di sostanze stupefacenti è particolarmente sentita in ambito sovranazionale[49].

Il Consiglio dell'Unione europea ha predisposto una nuova strategia in materia di droga, per il periodo 2005 - 2012, a tutela del benessere della società e dell'individuo, e a salvaguardia della salute pubblica, onde ridurre sia l'offerta che la domanda di droga: preso atto che i dati disponibili non testimoniano alcuna significativa riduzione né dell'una che dell'altra, con specifico riguardo alla riduzione dell'offerta, è stata evidenziata la necessità di «uno sforzo globale che comprenda azione di contrasto, eliminazione delle coltivazioni illegali, riduzione della domanda».

La nuova strategia dell'UE si concentra sui due aspetti principali della politica antidroga, ossia la riduzione della domanda e dell'offerta di stupefacenti, ed affronta anche i temi trasversali del miglioramento delle politiche nazionali e comunitarie, del potenziamento della cooperazione internazionale e dell'incremento delle attività di informazione, ricerca e valutazione.

La Commissione ha, conseguentemente, adottato, in data 19 settembre 2008, un nuovo Piano quadriennale d'azione dell'UE in materia di lotta contro la droga 2009-2012, che prevede misure di ampio respiro intese a potenziare la cooperazione europea in materia di lotta alla narcocriminalità e ridurre le ripercussioni del consumo di stupefacenti; le misure contemplano anche un'alleanza europea contro la droga attraverso la quale si intende ridurre i danni causati dal fenomeno nella società.

Il Piano d'azione 2009-2012, che si inscriveva nella strategia europea antidroga 20052012, delineando un modello europeo basato su un approccio equilibrato inteso a ridurre la domanda e l'offerta di stupefacenti, perseguiva alcune priorità:

- facilitare una maggiore comprensione del fenomeno-droga, sensibilizzando l'opinione pubblica, per ottenere una mobilitazione dei cittadini europei;

- ridurre la domanda di stupefacenti;

- migliorare la cooperazione internazionale;

Tra le azioni proposte, figurano misure intese a migliorare la qualità, la disponibilità e la copertura dei programmi di trattamento ed a ridurre i danni per i consumatori di droghe, ed il varo di operazioni doganali e di polizia improntate sull'intelligence per contrastare i gruppi criminali che operano su ampia scala tanto nell'UE che lungo le rotte del narcotraffico, dall'Afghanistan e dall'America Latina.

Sulla scia del Piano di Azione dell'UE in materia di lotta contro la droga 2009-2012, è stato elaborato il nuovo Piano di Azione Nazionale (PAN) sulle Droghe, che costituisce importante base di partenza da prendere in considerazione per delineare i bisogni emergenti ed identificati nel settore della tossicodipendenza. Il PAN ha, in particolare, sottolineato che l'attività di prevenzione deve essere il più precoce possibile, dovendo essere attivati interventi specifici fin dalle scuole elementari: è, infatti, auspicabile la scoperta precoce da parte dei genitori dell'uso di sostanze da parte dei figli, con tecniche di drug test professionali, evitando il "e;fai da te"e; e valorizzando l'approccio educativo sia nella famiglia che nella scuola. Sono già attivi, e verranno sempre più incentivati, i sistemi di allerta nazionali per contrastare l'introduzione di nuove droghe sul mercato, le cui basi fondamentali sono costituite dalla lotta agli smart shop ed al traffico di sostanze via internet, e dall'adozione di sistemi avanzati di monitoraggio dei consumi attraverso il controllo dei metaboliti nelle acque reflue e nell'aria.

E' stata valutata la possibilità di iniziare un percorso di riadattamento della normativa di settore, che dovrebbe caratterizzarsi per la revisione funzionale dell'art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990, con la possibilità di incentivare l'accesso al SERT in alternativa alla sanzione amministrativa, ed un piano per favorire l'uscita dal carcere delle persone tossicodipendenti verso le comunità terapeutiche ed i trattamenti ambulatoriali condizionati e strettamente monitorati; è allo studio una nuova norma che permetta addirittura di evitare l'entrata in carcere mediante l'accettazione di una alternativa terapeutica presso le comunità; si prevede, infine, l'incremento dei controlli stradali anche per rilevare l'uso di sostanze stupefacenti e non solo per l'alcool.

Nella seduta del 10 ed 11 dicembre 2010, il Consiglio Europeo ha adottato il Programma di Stoccolma, su base quinquennale, che avrà il compito di sviluppare l'azione europea nel settore riguardante lo "e;spazio di libertà, sicurezza e giustizia"e;. In particolare in tema di droga (par. 4.4.6.) il programma di Stoccolma richiama la strategia dell'Unione Europea per il periodo 2005-2012, confermando l'approccio globale equilibrato, fondato sulla riduzione contemporanea dell'offerta e della domanda: tale strategia, che giungerà a termine nel corso del programma stesso, andrà rinnovata partendo da una valutazione approfondita del Piano d'azione dell'UE in materia di lotta contro la droga (2009-2012), che dovrà essere condotta dalla Commissione, con il sostegno dell'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze e di Europol.

La nuova strategia fonda su tre principi:

- migliorare il coordinamento e la cooperazione avvalendosi di tutti i mezzi disponibili a norma del trattato di Lisbona, soprattutto nei Balcani occidentali, in America latina, nei paesi del partenariato orientale, nell'Africa occidentale, in Russia, nell'Asia centrale - Afghanistan compreso - e negli Stati Uniti;

- mobilitare la società civile, in particolare rafforzando iniziative come l'Azione europea sulla droga;

- contribuire al lavoro di ricerca e raffrontabilità delle informazioni in modo da disporre di dati attendibili.

Il Consiglio europeo ha, inoltre, invitato la Commissione ad assicurare che la nuova strategia in materia di droga sostenga la strategia di sicurezza interna dell'UE e sia di complemento ad altri strumenti politici correlati, come la "e;valutazione della minaccia rappresentata dalla criminalità organizzata"e; (OCTA), la futura strategia di lotta alla criminalità organizzata e le conclusioni del Consiglio sulla lotta contro le forme gravi di criminalità organizzata.

4. Gli interventi delle Sezioni Unite in materia di stupefacenti: ingente quantità e istigazione all'uso.

Le Sezioni Unite[50] sono state chiamate a decidere «se, per il riconoscimento della circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità nei reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si debba fare ricorso al criterio quantitativo con predeterminazione di limiti ponderali per tipo di sostanza, ovvero debba aversi riguardo ad altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute pubblica derivante dallo smercio di un elevato quantitativo e la potenzialità di soddisfare numerosi consumatori per l'alto numero di dosi ricavabili» ed hanno ritenuto di poter precostituire un criterio quantitativo di individuazione del carattere «ingente» della droga oggetto di illecito traffico, affermando, pertanto, che «in tema di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, l'aggravante della ingente quantità, di cui all'art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo, in milligrammi (valore - soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata»[51].

La stessa decisione ha anche ribadito che «il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento alla illecita detenzione di sostanze stupefacenti, in costanza di detta detenzione, perché, nei reati permanenti, qualunque agevolazione del colpevole, posta in essere prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve - salvo che non sia diversamente previsto - in un concorso nel reato, quanto meno a carattere morale. (Fattispecie nella quale si contestava al ricorrente di avere messo a disposizione di un altro soggetto una officinarimessaggio dove confezionare ed occultare circa kg. 14 lordi di eroina)».

Le Sezioni Unite sono state, inoltre, chiamate a stabilire «se, ai fini della configurabilità del reato di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti, sia sufficiente la pubblicizzazione di semi di piante idonee a produrre dette sostanze, con l'indicazione delle modalità di coltivazione e la resa, oppure siano necessari il riferimento diretto alla loro qualità e la prospettazione dei benefici derivanti dal loro uso», ed hanno deciso che «l'offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, accompagnata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all'art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990»: peraltro, ricorrendone i presupposti, la predetta condotta potrà integrare, ai sensi dell'art. 414 c.p., il reato di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti[52].

Il Supremo collegio ha precisato che «la condotta di chi si limiti a rendere nota al pubblico l'esistenza di una sostanza stupefacente, veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di determinare all'uso di sostanze stupefacenti, integra l'illecito amministrativo di propaganda pubblicitaria di sostanze stupefacenti (art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990), e non il reato di istigazione all'uso illecito di sostanze stupefacenti (art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990)», e che «la mera offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti non è penalmente rilevante, configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato, non essendo dato dedurne l'effettiva destinazione dei semi».

5. I reati sessuali.

La giurisprudenza delle Sezioni ha ritenuto che «integra il reato di violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica (art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p.) la condotta di chi si congiunga carnalmente con una donna addormentatasi a seguito di ingestione di sostanze alcooliche, essendo l'aggressione alla sfera sessuale della vittima connotata da modalità insidiose e fraudolente»[53].

Si è anche affermato che «l'abuso di autorità rilevante ai sensi dell'art. 609- bis, comma 1, c.p. presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, sostanzialmente dipendente dall'affidamento del soggetto passivo in ragione del pubblico ufficio ricoperto dall'agente e determina una costrizione al compimento degli atti sessuali. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello, in sede di rinvio, ha affermato la responsabilità di un professore, in ordine al reato di violenza sessuale aggravata dall'abuso di autorità, ai danni di una studentessa)»[54].

Si è, infine, chiarito che «il rifiuto di continuare una relazione sentimentale non integra un "e;fatto ingiusto"e; idoneo a legittimare, nel delitto di violenza sessuale, il riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione, costituendo tale rifiuto espressione del diritto alla libertà sessuale»[55].

6. L'immigrazione clandestina.

Nel corso dell'anno 2012 all'attenzione del dibattito giurisprudenziale si è posto il problema della compatibilità di varie fattispecie di reato previste dal D.Lgs. n. 286 del 1998 con la Direttiva della Commissione CEE 16 dicembre 2008 n. 115 (c.d. direttiva europea sui rimpatri).

Si è ritenuto che la fattispecie contravvenzionale prevista dall'art. 10-bis del citato D.Lgs., che punisce l'ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non viola la direttiva europea sui rimpatri, «non comportando alcun intralcio alla finalità primaria perseguita dalla direttiva predetta di agevolare ed assecondare l'uscita dal territorio nazionale degli stranieri extracomunitari privi di valido titolo di permanenza e non è in contrasto con l'art. 7, par. 1 della medesima, che, nel porre un termine compreso tra i 7 e 30 giorni per la partenza volontaria del cittadino di paese terzo, non per questo trasforma da irregolare a regolare la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato»[56].

Dopo la modifica dell'art. 12, commi 1 e 3, del D.Lgs. cit. ad opera dell'art.1 della l. n. 189 del 2002, «non integra più reato la condotta di chi favorisce l'ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni in materia ove la stessa non si sia estrinsecata anche in atti che abbiano procurato un tale ingresso. (In motivazione la Corte Suprema ha chiarito che il comportamento di "e;favorire"e;, richiesto nella previgente formulazione, ha un ambito di applicazione più esteso del "e;procurare"e;, dato che il primo comprende anche il secondo, ma non viceversa)»[57].

Al contrario, «la condotta di reingresso, senza autorizzazione, nel territorio dello Stato del cittadino extracomunitario, già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, ha conservato rilevanza penale pur dopo l'emissione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio dell'Unione europea del 16 dicembre 2008 e la conseguente pronuncia della Corte di giustizia del 28 aprile 2011 nel caso El Dridi, perché i principi affermati con riguardo alle modalità di rimpatrio non possono assumere rilievo ai fini della valutazione della condotta di reingresso in assenza di autorizzazione»[58].

Ed anche la fattispecie delittuosa prevista dal comma tredicesimo-bis dell'art. 13 del D.Lgs. n. 286 del 1998 «non contrasta con la direttiva n. 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, in quanto l'art. 2, paragrafo 2, lett. b) della medesima consente agli stati membri di non applicarla quando il rimpatrio abbia natura di sanzione penale o consegua ad una sanzione penale. (Fattispecie relativa a reingresso nel territorio dello Stato di straniero accompagnato alla frontiera in virtù di un provvedimento di espulsione emesso dal magistrato di sorveglianza)»[59].

Si è, infine, chiarito, in tema di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, che «per "e;attività dirette a favorire l'ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione della legge"e; non devono intendersi soltanto quelle condotte specificamente finalizzate a consentire l'arrivo in Italia degli stranieri, ma anche quelle, immediatamente successive, intese a garantire il buon esito dell'operazione, la sottrazione ai controlli della polizia e l'avvio dei clandestini verso la località di destinazione e, in genere, tutte quelle attività di fiancheggiamento e di cooperazione collegabili all'ingresso degli stranieri»[60].

7. La sicurezza della circolazione stradale.

Le violazioni della normativa sulla circolazione stradale, spesso propedeutiche rispetto agli eccidi che troppo frequentemente si verificano nel corso della circolazione stradale (efficacemente definiti, nel linguaggio mass-mediale, come vere e proprie "e;stragi"e;) hanno costituito anche nel corso dell'anno 2012 oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza della Corte Suprema.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto, in tema di guida in stato di ebbrezza, che «non è confiscabile il veicolo concesso in leasing all'utilizzatore dello stesso se il concedente, da ritenersi proprietario del mezzo, sia estraneo al reato», precisando, altresì, che «il sequestro preventivo del veicolo finalizzato alla confisca per il reato di guida in stato di ebbrezza adottato prima della entrata in vigore della L. n. 120 del 2010, che ha configurato la confisca quale sanzione amministrativa accessoria, conserva di norma validità ed efficacia, dovendo tuttavia valutarsene la conformità ai nuovi requisiti sostanziali di natura amministrativa necessari per la sua adozione ed in riferimento ai presupposti che legittimano la confisca amministrativa»[61].

La giurisprudenza delle Sezioni ha osservato, in tema di responsabilità per omicidio colposo da sinistro stradale, che «la circostanza aggravante della violazione della normativa sulla circolazione stradale è ravvisabile non solo quando la violazione della normativa di riferimento sia commessa da utenti della strada alla guida di veicoli e, pertanto, in fase di circolazione, bensì anche nel caso di violazione di qualsiasi norma che preveda a carico di un soggetto, pur non impegnato in concreto nella fase della circolazione, un obbligo di garanzia finalizzato alla tutela della sicurezza degli utenti della strada. (Fattispecie in cui è stata ritenuta configurabile l'aggravante nei confronti dell'amministratore della società cui erano stati appaltati dalla locale Provincia lavori di manutenzione della strada, che aveva omesso di adottare gli accorgimenti necessari per la sicurezza stradale - presenza di sabbia e terriccio, assenza di segnali luminosi, curva non protetta da idonea barriera ma da rete in plastica -, cagionando così la morte del conducente del veicolo che perdendo il controllo dell'auto finiva su una scarpata)»[62].

8. La tutela penale del lavoro.

La giurisprudenza delle Sezioni è intervenuta per precisare l'ambito degli obblighi di formazione dei lavoratori che incombono sul datore di lavoro, evidenziando che quest'ultimo è tenuto a rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti ed a fornire loro adeguata formazione in relazione alle mansioni cui sono assegnati, e risponde degli infortuni occorsi in caso di violazione di tale obbligo[63].

Nella specie, il lavoratore, cui era stata comandata la pulitura dell'albero motore di un autocarro aziendale, aveva subito un infortunio mortale mentre stava espletando mansioni non corrispondenti alla qualifica di assunzione (che era quella di "e;impiegato tecnico di cantiere"e;), in particolare per effetto della chiusura repentina del cassone di copertura del motore conseguente all'incauto smontaggio del raccordo del tubo idraulico, che sarebbe stato evitato da una specifica formazione; la Corte Suprema ha osservato in proposito che «dal punto di vista del diritto civile, il datore di lavoro può esercitare unilateralmente lo ius variandi delle mansioni del dipendente, sebbene nei limiti consentiti dall'art. 2103 cod. civ. Ma dal punto di vista del rispetto delle esigenze di prevenzione infortuni, al cambio delle mansioni deve seguire un'adeguata formazione del lavoratore ed informazione sui rischi della sua attività. Con consolidata giurisprudenza, questa Corte ha affermato che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro ha l'obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto. Inoltre, poiché il datore di lavoro è tenuto a rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti, consegue che è ascrivibile al datore di lavoro, in caso di violazione di tale obbligo, la responsabilità del delitto di lesioni colpose allorché abbia destinato il lavoratore, poi infortunatosi, all'improvviso ed occasionalmente, a mansioni diverse da quelle cui questi abitualmente attendeva senza fornirgli, contestualmente, una informazione dettagliata e completa non solo sulle mansioni da svolgere, ma anche sui rischi connessi a dette mansioni».

In definitiva, al lavoratore rimasto vittima dell'infortunio erano state attribuite mansioni "e;indefinite"e;, con conseguente deficit di formazione ed informazione: «ne consegue che, una volta che il lavoratore sia addetto a svolgere funzioni per le quali non ha ricevuto adeguata formazione;

soprattutto, come nel caso che ci occupa, quando la "e;fluidità"e; di tali mansioni non consente di definire in modo preciso il suo profilo professionale; quando questi ponga in essere comportamenti imprudenti (smontaggio di un circuito idraulico a cassano alzato), non può dirsi che gli eventi letali che ne conseguono sono il frutto di condotte anomale ed imprevedibili, in quanto la imperizia del comportamento è direttamente ricollegabile alla sua mancata formazione ed informazione».

Si è anche chiarito che «la delega di funzioni - ora disciplinata precipuamente dall'art. 16 T.U. sulla sicurezza - non esclude l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite; tuttavia, detta vigilanza non può avere per oggetto la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni - che la legge affida al garante - concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato. Ne consegue che l'obbligo di vigilanza del delegante è distinto da quello del delegato - al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo - e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni. (In applicazione del principio, la S.C. ha censurato la decisione con cui la Corte di appello - in riforma di quella assolutoria del Tribunale - ha affermato la responsabilità, in ordine al reato di omicidio colposo, dell'imputato, legale rappresentante di una società e datore di lavoro, pur in presenza di valida delega concernente la parte 'tecnicaoperativà attribuita ad altro soggetto, separatamente giudicato)[64].

In proposito, si è, in particolare, osservato che «il tema della vigilanza presenta particolare interesse; anche perché in passato si è discusso se una delega piena determinasse il venir meno dell'obbligo di vigilanza e, soprattutto, se in ogni caso essa, implicando solo un ruolo di sorveglianza, determinasse il permanere di una posizione di garanzia. Pare che queste incertezze siano fugate dalla nuova normativa che colma una lacuna di quella precedente e, come si è accennato, recepisce opinioni condivise da questa Corte ed accreditate già nel passato sia in dottrina che in giurisprudenza. Va dunque ribadito che la delega di cui si discute non fa venir meno l'obbligo di vigilanza. Tuttavia, come il richiamato art. 16 chiarisce, si parla qui di una vigilanza "e;alta"e;, che riguarda il corretto svolgimento delle proprie funzioni da parte del soggetto delegato; e che si attua anche attraverso i sistemi di verifica e controllo previsti dall'art. 30, comma 4, che a sua volta disciplina il modello di organizzazione e gestione idoneo ad avere efficacia esimente dalla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Tale rinvio costituisce una norma assai rilevante, che introduce nel sistema della responsabilità penale un importante frammento del sistema di responsabilità degli enti; e rende al contempo più chiara la reale natura dell'obbligo di vigilanza».

Assume particolare rilievo l'affermazione che la vigilanza, quale che ne sia l'esatta estensione, di certo non può identificarsi con un'azione di vigilanza sulla concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni che la legge affida, appunto, al garante: «se così non fosse, l'istituto della delega si svuoterebbe di qualsiasi significato. La delega ha senso se il delegante (perché non sa, perché non può, perché non vuole agire personalmente) trasferisce incombenze proprie ad altri, cui demanda i pertinenti poteri: al delegato vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo. Ne consegue che l'obbligo di vigilanza del delegante è distinto da quello del delegato. Esso riguarda, come si è accennato, precipuamente la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato medesimo e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle lavorazioni. Dunque, erra certamente la Corte d'appello quando ipotizza un dovere di vigilanza esteso sino a controllare personalmente la gestione di aspetti contingenti delle singole lavorazioni».

Con riguardo alla tematica delle morti dei lavoratori conseguenti a patologie determinate dall'esposizione a polveri di amianto, si è affermato che «l'accertamento del nesso di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili al datore di lavoro e l'evento-morte, dovuto a adenocarcinoma, di un lavoratore fumatore esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa, all'amianto deve, anzitutto, aver riguardo al carattere multifattoriale della predetta patologia e, pertanto, alla sua riconducibilità ad una pluralità di possibili fattori causali; in tal caso il giudice non può ricercare il legame eziologico, necessario per la tipicità del fatto, sulla base di una nozione di concausalità meramente medica, dovendo le conoscenze scientifiche essere ricondotte nell'alveo di una causa condizionalistica necessaria. Ne consegue che, per affermare la causalità della condotta omissiva del datore di lavoro, nell'insorgenza del tumore polmonare del lavoratore, occorre dimostrare che esso non abbia avuto esclusiva origine dal prolungato ed intenso fumo di sigarette e che l'esposizione all'amianto sia stata una condizione necessaria per l'insorgenza o per la significativa accelerazione della patologia»[65].

Ritornando ad esaminare il problema, la IV Sezione ha ritenuto che «sussiste il nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso - nella specie legato all'inalazione di polveri di amianto - anche quando non si possa stabilire il momento preciso dell'insorgenza della malattia tumorale, in quanto, a tal fine, è sufficiente che la condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza, considerato che anche quest'ultimo incide in modo significativo sull'evento morte, riducendo la durata della vita. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello, confermando quella di primo grado, ha affermato la responsabilità per omicidio colposo degli imputati, legali rappresentanti di una ditta, per avere adibito il dipendente ai lavori di copertura di tetti con lastre di eternit senza apprestare le precauzioni previste dalla legge, determinando la morte dello stesso lavoratore per mesotelioma pleurico)»[66].

9. Il mobbing.

Il termine mobbing (da to mob, letteralmente accalcarsi intorno a qualcuno) fu coniato nel 1971 dall'etologo Konrad per descrivere «il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell'atto di respingere un rapace loro predatore», ed è stato successivamente mutuato per designare quel fenomeno che si concretizza in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito (mobbing ambientale) o dal suo capo (mobbing gerarchico), e caratterizzati dall'intento di persecuzione ed emarginazione per escludere la vittima dal gruppo. Trattasi di comportamenti posti in essere generalmente in danno di lavoratori da parte dei superiori (mobbing verticale) per indurli all'auto-licenziamento, ma anche dai colleghi (mobbing orizzontale) con finalità discriminatorie, in reazione a condotte non approvate (ad es., la denuncia ai superiori ovvero alle Forze dell'Ordine del verificarsi di fatti illeciti nel luogo di lavoro), ovvero più in generale al rifiuto di accondiscendere a proposte o richieste immorali (ad es., di favori sessuali, di tenere condotte contrarie alla deontologia professionale o all'etica) o tout court illegali.

Il fenomeno non costituisce ancora oggetto di una disciplina ad hoc, nonostante l'esistenza di una delibera del Consiglio d'Europa del 2000, che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa ad hoc.

Nelle precedenti edizioni di questa Rassegna era stato segnalato l'emergere di un orientamento giurisprudenziale che, per colmare la lacuna, aveva valutato la possibilità di ricondurre il mobbing alla fattispecie al reato di cui all'art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli), il cui primo comma, nella parte conclusiva, incrimina anche le condotte poste in essere in danno di persone affidate al soggetto attivo «per l'esercizio di una professione o di un'arte».

Nel corso dell'anno 2012 si è, in proposito osservato che «le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un ATER nei confronti di una dipendente)»[67].

Si è, più in generale, osservato che «il delitto di maltrattamenti previsto dall'art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all'azione di chi ha ed esercita l'autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità»[68].

10. La tutela penale dell'ambiente e del territorio.

La giurisprudenza delle Sezioni ha chiarito che «il danno, necessariamente diverso da quello della lesione dell'ambiente come bene pubblico, risarcibile in favore delle associazioni ambientaliste costituite parti civili nei procedimenti per reati ambientali, può avere natura, oltre che patrimoniale, anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all'attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo»[69].

La L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18 (istitutiva del Ministero dell'ambiente) ha introdotto nel nostro ordinamento, quale forma particolare di tutela, l'obbligo di risarcire il danno cagionato all'ambiente (alterazione, deterioramento o distruzione anche parziale) a seguito di una qualsiasi attività, dolosa o colposa, compiuta in violazione di un dispositivo di legge o di un provvedimento adottato in base a legge «È stata così prevista una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale (aquiliana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno "e;ingiusto"e; all'ambiente, dove l'ingiustizia è stata correlata alla violazione di una disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento è stato individuato nello Stato. Il citato art. 18 prescriveva che l'azione di risarcimento dei danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, potesse essere promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo (comma 3). La strada risarcitoria restava aperta ai privati solo ove essi lamentassero la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale, sia esso la salute che il diritto di proprietà o altro diritto reale».

L'art. 318 del D.Lgs. n. 152 del 2006 ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale) l'art, 18 della L. n. 349 del 1986, e, nell'art. 300, commi 1 e 2, ha definito la nozione di "e;danno ambientale"e; con riferimento a quella posta, in ambito comunitario, dalla direttiva 2004/35/CE; l'art. 311 riserva allo Stato, ed in particolare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale; ai sensi del successivo art. 313, comma 7, «resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella foro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti dei responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi».

La normativa speciale dal «danno ambientale» sin qui descritta si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, «sicché le associazioni ambientaliste - pure dopo l'abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9, comma 3, abrogato dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 318) - sono legittimate alla costituzione di parte civile jure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all'ambiente, per il risarcimento non del danno all'ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell'ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale. Le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l'interesse all'ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato».

Ciò premesso, si è ritenuto che «il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica possa configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all'attività concretamente svolta dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela. La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 cod. civ., poiché l'art. 185 c.p., comma 2, - che costituisce l'ipotesi più importante "e;determinata dalla legge"e; per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. - dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale"e; obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi "e;danneggiato"e; per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo».

Con riguardo al tema dello smaltimento dei rifiuti, si è affermato che costituiscono rifiuti «gli imballaggi in plastica sottoposti ad apposito procedimento di triturazione, non assoggettati alla disciplina delle materie prime secondarie o dei sottoprodotti»[70] ed «i materiali inerti di composizione eterogenea (nella specie, un miscuglio di cotto, cemento e calcestruzzo), sottoposti a procedimento di macinatura e non destinati ad attività di recupero»[71].

Si è anche ritenuto che «il mancato rispetto, in caso di spedizioni transfrontaliere di rifiuti, delle garanzie e delle formalità previste dagli Stati riceventi, quand'anche non membri Ocse (nella specie la Repubblica Popolare cinese), in quanto recepite nei regolamenti comunitari che regolano la materia a norma dell'art. 194 D.Lgs. n. 152 del 2006, integra il carattere abusivo dell'esportazione con conseguente configurabilità, nella ricorrenza dei restanti presupposti, del reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti»[72].

In tema di protezione delle bellezze naturali, si è ritenuto che «il reato, formale e di pericolo, previsto dall'art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, che, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, sanziona la violazione del divieto di intervento in determinate zone vincolate senza la preventiva autorizzazione, può concorrere con la contravvenzione punita dall'art. 734 c.p., che presuppone l'effettivo danneggiamento delle aree sottoposte a protezione»[73].

In tema di tutela del territorio, si è evidenziato che «costituisce "e;costruzione"e; in senso tecnico-giuridico qualsiasi manufatto tridimensionale, comunque realizzato, che comporti una ben definita occupazione del terreno e dello spazio aereo. (Fattispecie in cui la Corte ha disatteso la tesi dell'imputato secondo cui il manufatto - costituito da un edificio a destinazione residenziale ad unica elevazione della superficie di mq. 70 - non richiedeva il permesso di costruire, trattandosi di costruzione "e;avente una superficie di minima entità"e;)»[74].

Si è, inoltre, affermato che «i parcheggi realizzati nelle aree urbane fuori dal perimetro dell'edificio e quelli, sotterranei o meno, costruiti fuori del centro urbano richiedono il permesso di costruire, conseguendone, in difetto, il reato previsto dall'art. 44, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. (In motivazione la Corte ha precisato che se tali opere sono realizzate in area vincolata, il titolo abilitativo deve essere rilasciato nel rispetto dei vincoli ambientali e paesaggistici)»[75].

Si è, infine, ritenuto che «integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, la realizzazione di impianti fotovoltaici, che deve essere preceduta dal rilascio dell'autorizzazione unica, che ha carattere omnicomprensivo ed è sostitutiva del permesso di costruire all'esito della conferenza di servizi appositamente indetta dall'amministrazione competente per la verifica della compatibilità urbanistico-edilizia dell'intervento»[76].

  • gioco d'azzardo
  • persona giuridica
  • marchio commerciale
  • brevetto
  • diritto d'autore
  • fallimento

IMPRESA E MERCATO

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità delle persone giuridiche. - 3 I reati fallimentari. - 4 Diritto d'autore, marchi e brevetti. - 5 Produzione, commercio e consumo. - 6 Finanze e tributi. - 7 Giochi e scommesse clandestine.

1. Premessa.

Anche nel corso dell'anno 2012 la giurisprudenza della Corte di cassazione ha dedicato particolare attenzione alla tutela della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 della Costituzione) e dei coesistenti beni di rilievo costituzionale, ispirandosi al principio secondo cui l'iniziativa economica non può essere esercitata in contrasto con l'utilità sociale ed in modo da arrecare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana.

2. La responsabilità delle persone giuridiche.

La giurisprudenza delle Sezioni ha chiarito che la normativa sulla responsabilità da illecito degli enti, prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, non si applica alle imprese individuali, in quanto è riferita ai soli soggetti collettivi[77].

Si è anche ritenuto che l'accertamento della sussistenza di gravi indizi di responsabilità dell'ente indagato costituisce requisito necessario per l'adozione ex art. 53 D.Lgs. n. 231 del 2001 a carico del medesimo di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto del reato presupposto: in proposito, si è osservato che, nel sistema normativo di riferimento, la confisca è configurata come sanzione principale, al pari delle sanzioni interdittive, per la cui applicazione a titolo cautelare l'art. 45 dello stesso D.Lgs. - contrariamente all'art. 53 - richiede l'acquisizione di gravi indizi di responsabilità dell'ente. Il carattere omogeneo delle due misure cautelari impone di ritenere che la loro applicazione debba necessariamente dipendere dall'accertamento di presupposti analoghi[78].

Si è, infine, evidenziato che il fallimento di una società non costituisce causa di estinzione dell'illecito previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 né delle sanzioni irrogate a seguito dell'accertamento della responsabilità da illecito dell'ente: si è, infatti, osservato che, in assenza di una espressa previsione normativa in tal senso, non è possibile ritenere che siffatto effetto estensivo si produca richiamando per analogia l'art. 150 c.p., non essendo equiparabile il fallimento della persona giuridica alla morte della persona fisica, atteso che l'apertura della procedura concorsuale non determina la cessazione dell'ente, bensì soltanto il suo assoggettamento alla regole di detta procedura[79].

3. I reati fallimentari.

In tema di bancarotta fraudolenta, si è affermato che «qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo gruppo, solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l'interessato a dover fornire la prova di tale circostanza» e che «un'operazione distrattiva infragruppo dal carattere marcatamente patologico per la gravità delle condizioni finanziarie di tutte le società coinvolte - idonea, quindi, a determinare un trasferimento di valori connotato da "e;fraudolenza"e; - trova inquadramento nella fattispecie di cui all'art. 223, comma 1, L. fall. e non in quella disciplinata dall'art. 2634 c.c., richiamato dal comma secondo dello stesso art. 223»[80].

La decisione ha esaminato il tema dell'esatto inquadramento giuridico della fattispecie di storni di capitale in favore di altre società appartenenti ad un medesimo gruppo, quando sia la società concedente che le beneficiane versino in gravissime difficoltà economiche e finanziarie, con ulteriore impoverimento della prima, la quale, in seguito, fallisca.

Si è, in proposito, affermato che «il criterio della "e;conformità"e; dell'atto dispositivo all'interesse della società che ne rimane depauperata può ammettersi che sia da modulare in maniera specifica quando la società stessa si trovi ad operare nell'ambito di un gruppo, perché mutando le condizioni di esercizio della impresa sociale non può non mutare il parametro di verifica delle convenienza delle singole decisioni. In tal senso si è espressa già da tempo la giurisprudenza civile di questa Corte affrontando la tematica dei vantaggi compensativi che è strettamente connessa e intrecciata al problema in esame e che era stata già peraltro recepita dal legislatore a seguito della riforma del diritto penale societario del 2002 e del 2003: basterà ricordare in proposito come gran parte della dottrina abbia condivisibilmente rilevato che la clausola del vantaggio compensativo, definendo in negativo uno degli elementi costitutivi dell'illecito, concorre comunque a tracciare i confini del fatto tipico. Il tema è stato poi ripreso anche di recente con analoghe conclusioni, essendo stato affrontato, con riferimento sempre al tema di "e;gruppi"e; di società collegate tra loro in senso economico e dirigenziale, dal punto di vista della validità di atti compiuti dall'organo amministrativo di una di esse in favore di altra ad essa collegata, essendosi ritenuto che tale validità è condizionata all'esistenza di un interesse economicamente e giuridicamente apprezzabile in capo alla società agente».

A seguito del riconoscimento della valenza anche giuridica del gruppo ad opera della riforma delle norme societarie del codice civile del 2003, anche la giurisprudenza penale di legittimità ha finito per ribadire, in linea generale, il principio secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, nel valutare come distrattiva un'operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo per una delle società collegate, occorre tenere conto del rapporto di gruppo, poiché, in tale ottica, e salvo il rispetto di tutti i parametri del caso, potrebbe anche ipotizzarsi la esclusione del reato se l'operazione fosse apparsa incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società concedente.

Si è, peraltro, precisato che «ovviamente, un simile tipo di analisi non può certo valere a mettere in discussione né può essere messa in rotta di collisione col principio della necessaria tutela spettante ai creditori della singola società del gruppo, dichiarata fallita, tutela che non può in alcun modo essere limitata o reinterpretata alla luce dell'interesse del gruppo o di uno dei soggetti del gruppo diverso dalla fallita: e ciò, per l'evidente ragione che i creditori sociali sono terzi rispetto alla singola società e sono portatori dell'interesse all'integrità del patrimonio sociale su cui vantano le proprie pretese, come bene sottolineato anche dalla dottrina. La proporzione così impostata non fa venire meno dunque il principio che solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, quando si verifichi cioè che per questa vi è stato un ritorno di utilità».

La stessa giurisprudenza ha, peraltro, sottolineato che «la prova degli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta non può restare nel limbo delle presunzioni connesse alla esistenza del gruppo. Essa deve essere data in concreto dall'interessato, sul quale incombe dunque il relativo onere. (...) Il principio non è peraltro del tutto nuovo neppure per la giurisprudenza penale antecedente alla riforma, giurisprudenza la quale aveva di fatto dimostrato implicitamente di non volere negare rilievo, nella valutazione della offensività della condotta distrattiva, alle operazioni infragruppo che fossero risultate - sia pure con prognosi ex ante - dotate di sera contropartita».

Altra decisione ha affermato, in tema di bancarotta impropria da reato societario, che «il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico. (Fattispecie relativa alla ritenuta configurabilità del reato fallimentare in relazione a false comunicazioni dirette ad un'azienda di credito per l'erogazione di maggiore finanza pur accompagnate dalla convinzione della probabile restituzione)»; la decisione ha aggiunto che «il componente del consiglio di amministrazione risponde del concorso nella bancarotta impropria da reato societario per mancato impedimento del reato anche quando egli sia consapevolmente venuto meno al dovere di acquisire tutte le informazioni necessarie all'espletamento del suo mandato»[81].

La V sezione penale, con decisione assunta alla pubblica udienza del 24 settembre 2012, depositata il 6 dicembre 2012, n. 47502, Corvetta ed altri, Rv. 253493 ha affermato il principio di diritto così massimato:

"e;Nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che da luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e deve essere, altresì, sorretto dall'elemento soggettivo del dolo."e;

All'affermazione da ultimo indicata la Corte è giunta all'esito di un lungo ed articolato ragionamento che risulta esplicitamente così sintetizzato nella parte conclusiva della motivazionedella sentenza (pagg. 25 e 26):

· le norme sulla bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione sembrano, dal punto di vista letterale, considerare il fallimento quale condizione oggettiva di punibilità (tale interpretazione consentirebbe di unificare la struttura dei vari reati di bancarotta);

-· la giurisprudenza consolidata degli ultimi cinquant'anni della Corte ha sempre escluso che il fallimento sia condizione obiettiva di punibilità di un illecito di condotta;

-· la condizione oggettiva di punibilità nei reati fallimentari suscita perplessità di natura costituzionale;

-· l'interprete, posto di fronte a più significati alternativi delle norme, deve privilegiare, ove possibile, quello conforme a costituzione;

-· considerare il fallimento quale elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione è consentito dalle norme della legge fallimentare, tanto da essere interpretazione affermata dalle sezioni Unite della Corte di cassazione, poi consolidatasi nel corso di alcuni decenni;

-· considerare il fallimento quale elemento essenziale del reato in oggetto ne comporta la soggezione ai principi generali dell'ordinamento in materia di responsabilità penale personale, di cui agli articoli 27 della Costituzione e 40 e seguenti del codice penale;

-· ne consegue che la situazione di dissesto che da luogo al fallimento deve essere rappresentata e voluta (o quantomeno accettata come rischio concreto della propria azione) dall'imprenditore e deve porsi in rapporto di causalità con la condotta di distrazione patrimoniale.

La conclusione cui è giunta la V sezione della Corte con la sentenza da ultimo citata si pone in consapevole contrasto sotto più di un profilo con l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, che appariva fino ad oggi assolutamente consolidato ed indiscusso, anche se l'orientamento in questione era stato sostenuto da una parte significativa della dottrina.Detto contrasto è stato segnalato dall'Ufficio del Massimario con relazione n. 22 del 19 dicembre 2012.

4. Diritto d'autore, marchi e brevetti.

Chiamate a stabilire «se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata», le Sezioni Unite hanno preliminarmente osservato che, in tema di prodotti con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, «è inammissibile la richiesta di trasmissione degli atti alla Corte europea di giustizia, in via incidentale e interpretativa, al fine di sentir dichiarare che alla legislazione nazionale è imposto l'uso delle sanzioni penali con esclusione di quelle di natura amministrativa, in quanto detto rinvio, essendo finalizzato ad una disapplicazione della norma interna per contrasto con il diritto comunitario (nella specie, la direttiva Enforcement n. 2004/48/CE), si tradurrebbe in una interpretazione in malam partem con conseguente punibilità di fatti non previsti come reato dallo Stato italiano al tempo della condotta»[82].

Con specifico riguardo alla questione controversa, premesso che «per acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, di cui al D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla l. 23 luglio 2009, n. 99, si intende colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale», si è poi affermato che «l'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell'illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla l. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648 c.p.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 c.p.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall'avvenuta eliminazione della clausola di riserva "e;salvo che il fatto non costituisca reato"e;, dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell'oggetto della condotta nonchè dalla rinuncia legislativa alla formula "e;senza averne accertata la legittima provenienza"e;, il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa».

La giurisprudenza delle Sezioni ha stabilito che, alla luce delle modifiche apportate dalla l. n. 99 del 2009 agli artt. 473 e 474 c.p., per la sussistenza del reato di commercio di prodotti con segni distintivi falsi (art. 474 c.p.) non è sufficiente che prima della sua consumazione sia stata depositata la domanda tesa ad ottenere il titolo di privativa, essendo invece necessario che il suddetto titolo sia stato effettivamente conseguito; in difetto, e ricorrendone i diversi presupposti, potrà essere configurata la diversa fattispecie di cui all'art. 517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci)[83].

Si è anche chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.), «nessun rilievo spiega la cosiddetta contraffazione grossolana, considerato che il bene tutelato in via principale e diretta dalla fattispecie incriminatrice, non è la libera determinazione dell'acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione. Si tratta, pertanto, di un reato di pericolo per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno e nemmeno ricorre l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno, similmente a quanto richiesto per l'ipotesi del reato di cui all'art. 474 c.p., considerato che ferma la diversità della condotta caratterizzanti le due fattispecie, la res oggetto della condotta è la medesima, di guisa che ricorrendo la eadem ratio si applica analogo principio»[84].

In materia di diritti d'autore sulla proprietà intellettuale, si è affermato, ai fini dell'integrazione del reato previsto dall'art. 171-bis L. n. 633 del 1941, che «sono tutelati dal diritto d'autore, quale risultato di creazione intellettuale, i programmi per elaboratore elettronico, intesi come un complesso di informazioni o istruzioni idonee a far eseguire al sistema informatico determinate operazioni, che siano completamente nuovi o forniscano un apporto innovativo nel settore, esprimendo soluzioni migliori o diverse da quelle preesistenti», e che «la duplicazione abusiva di programmi per elaboratore comprende non soltanto la produzione non autorizzata di copie perfette del programma interessato, ma anche la realizzazione di programmi ricavati dallo sviluppo o da modifiche del prodotto originale, quando di quest'ultimo sia replicata una parte funzionalmente autonoma e costituente, comunque, il nucleo centrale dell'opera protetta»[85].

Si è, inoltre, ritenuto che «il reato previsto dall'art. 171-ter, comma 1, lett. a), L. n. 633 del 1941, nel richiamare espressamente l'abusiva duplicazione di "e;ogni altro supporto"e;, ha inteso ricomprendere nella fattispecie incriminatrice qualsiasi supporto audiovisivo e, quindi, anche i compact-disc (CD)»[86].

5. Produzione, commercio e consumo.

La giurisprudenza delle sezioni ha affermato che «integra il reato previsto dall'art. 5, comma 1, lett. d), della L. n. 283 del 1962, l'utilizzo di acqua non potabile nella preparazione di prodotti destinati al consumo umano»; si è anche precisato che la norma in questione, richiedendo la nocività del prodotto, è qualificabile come reato di pericolo per la salute pubblica, il quale dev'essere concreto ed attuale[87].

Si è ritenuto che «integra il reato previsto dall'art. 1, comma 5, D.Lgs. n. 212 del 2001, la messa a coltura di prodotti sementieri (nella specie, sementi di mais) geneticamente modificati senza la prescritta autorizzazione, che è rivolta a perseguire la finalità che le colture transgeniche vengano fatte circolare senza pregiudizio per la salute di uomini ed animali o per le attività agricole preesistenti»[88].

In argomento, si è anche precisato che «l'autorizzazione della Commissione europea per l'immissione in commercio di prodotti sementieri geneticamente modificati (nella specie, sementi di mais) non comprende anche la messa in coltura degli stessi, per la quale è invece necessaria ulteriore autorizzazione della competente autorità nazionale, pena l'integrazione del reato di cui all'art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 212 del 2001»; la previsione in oggetto è compatibile con la normativa europea di settore, avendo questa demandato agli Stati membri di assicurare la coesistenza tra colture transgeniche e colture tradizionali, al fine di impedire che le prime pregiudichino o danneggino le seconde[89].

6. Finanze e tributi.

La giurisprudenza delle Sezioni ha precisato che il reato di frode fiscale (art. 2, D.Lgs. n. 74 del 2000) «è configurabile ogniqualvolta il contribuente, per effettuare una dichiarazione fraudolenta, si avvale di fatture o altri documenti che attestino operazioni non realmente effettuate, non rilevando la circostanza che la falsità sia ideologica o materiale» e che «nella nozione di "e;altri documenti"e; rientrano tutti quelli aventi, a fini fiscali, valore probatorio analogo alle fatture, quali, a titolo esemplificativo, le ricevute fiscali ed i documenti da cui risultino spese deducibili dall'imposta, come le ricevute per spese mediche e per interessi sui mutui o le schede carburanti»[90].

Si è ritenuto che integra il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, D.Lgs. n. 74 del 2000) «qualsiasi comportamento del contribuente, maliziosamente teso all'evasione delle imposte ed accompagnato da una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie»[91]: nel caso di specie l'imputato, dopo aver costituito una società in accomandita semplice unitamente ad un correo, aveva conferito a quest'ultima un ramo di azienda della ditta di cui era titolare del valore di 2000 euro, avente però ad oggetto lavori relativi ad un contratto di appalto di oltre 9 milioni di euro, di cui più di 6 milioni spettanti alla ditta individuale, omettendo di indicare nella dichiarazione fiscale quest'ultima somma nonché il reddito di oltre 3 milioni di euro, pari alla differenza tra costi e ricavi, e provvedendo a sciogliere la società dopo soli otto mesi dalla sua costituzione).

Si è anche ritenuto che «l'obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all'estero, la cui omissione integra il reato previsto dall'art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, sussiste se detta società abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell'espletamento dei servizi. (Fattispecie relativa a sequestro probatorio di documenti di natura tributaria facenti capo a società svolgente attività di assistenza a piattaforme petrolifere nell'Oceano Atlantico ed avente residenza fiscale localizzata in territorio portoghese, in cui la Corte ha ravvisato la sussistenza del fenomeno di esterovestizione della residenza fiscale)»[92].

Merita, infine, di essere segnalato un intervento del Supremo Collegio[93], a parere del quale «integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 cod. pen.) - nella specie, della professione di commercialista - il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato».

La decisione ha, inoltre, affermato che «le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale - quali disciplinate, rispettivamente, dai dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953 - anche se svolte da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali, in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione»; deve, peraltro, pervenirsi ad opposta conclusione, in riferimento alla professione di esperto contabile, se le condotte in questione siano poste in essere, con le caratteristiche suddette, nel vigore del nuovo D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139.

7. Giochi e scommesse clandestine.

La Terza Sezione ha chiarito che «la norma prevista dall'art. 4, comma 4-bis, della legge n. 401 del 1989, contrasta i principi comunitari della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi all'interno dell'Unione europea ex artt. 43 e 49 del Trattato CE, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Giustizia Europea[94], soltanto nel caso, giustificativo della sua non applicazione, in cui il soggetto svolga senza autorizzazione di pubblica sicurezza attività organizzata di intermediazione per l'accettazione e la raccolta di scommesse sportive in favore di un allibratore straniero che non abbia potuto ottenere in Italia le concessioni o le autorizzazioni richieste dalla normativa nazionale a causa del rifiuto dello Stato italiano di concederle e tale rifiuto abbia violato il diritto comunitario»[95].

La decisione ha, preliminarmente, ricordato, in via generale, che «la non applicazione di una norma nazionale da parte del giudice è possibile soltanto allorché si sia in presenza di un diretto contrasto tra una puntuale norma interna con un altrettanto puntuale precetto comunitario, che dovrebbe essere applicato al posto della norma interna incompatibile con esso. Situazione questa che può verificarsi, ad esempio, quando un principio generale posto dal Trattato CE sia stato specificato e concretizzato da una decisione della Corte di Giustizia, assumendo così la norma comunitaria carattere immediatamente precettivo, e dandosi pertanto luogo non ad un rapporto di conformità - non conformità ma di applicabilità - non applicabilità, in quanto l'applicazione di una norma esclude l'applicabilità dell'altra. Quando invece si sia in presenza di una situazione di non conformità della norma interna con principi generali dell'ordinamento comunitario, il giudice nazionale ha il dovere di operare una interpretazione conforme, ma se questa non è possibile il giudice non potrebbe far altro che eventualmente sollevare una questione pregiudiziale di interpretazione dinanzi alla Corte di giustizia o una questione di legittimità costituzionale per la indiretta violazione dell'art. 117 Cost., comma 1. Non si tratterebbe, infatti, di "e;non applicare"e; la norma italiana per applicare al suo posto la puntuale norma comunitaria incompatibile, bensì in sostanza di, per cosi dire, "e;disapplicare"e; o "e;eliminare"e; la norma interna per la non conformità con un principio generale dell'ordinamento comunitario, compito questo che però spetta esclusivamente alla Corte costituzionale, la cui sfera di attribuzioni verrebbe in pratica ad essere aggirata se si ammettesse una sorta di controllo "e;diffuso"e; di "e;compatibilità comunitaria"e;.

Ai fini della verifica della sussistenza o meno di questa situazione di puntuale incompatibilità tra l'art. 4 L. n. 401 del 1989 e gli artt. 43 e 49 del Trattato CE, sono stati riepilogati gli orientamenti della Corte di giustizia europea, ed in particolare della sentenza Placanica, a parere della quale gli artt. 43 e 49 CE devono essere interpretati «nel senso che ostano ad una normativa nazionale che escluda e per di più continui ad escludere dal settore dei giochi d'azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati», e «nel senso che ostano ad una normativa nazionale che imponga una sanzione penale a soggetti imputati per aver esercitato un'attività organizzata di raccolta di scommesse in assenza della concessione o dell'autorizzazione di polizia richieste dalla normativa nazionale, allorché questi soggetti non abbiano potuto ottenere le dette concessioni o autorizzazioni a causa del rifiuto di tale Stato membro, in violazione del diritto comunitario, di concederle loro».

Se ne è desunto che «la specifica norma comunitaria individuata dalla Corte di giustizia con la citata sentenza risulta incompatibile con la norma incriminatrice nazionale - con conseguente obbligo del giudice di "e;non applicazione"e; - soltanto allorché il soggetto svolga senza autorizzazione di pubblica sicurezza attività organizzata di intermediazione per l'accettazione e la raccolta di scommesse sportive in favore di un allibratore straniero che non abbia potuto ottenere in Italia le concessioni o le autorizzazioni richieste dalla normativa nazionale a causa del rifiuto dello Stato italiano di concederle loro, in violazione del diritto comunitario. Al di fuori di questo specifico caso non sembra ravvisabile - almeno in relazione alla fattispecie di cui al presente giudizio - un contrasto, o anche solo una situazione di non conformità, tra le norme interne di cui all'art. 88, cit. t.u.l.p.s. ed all'art. 4, comma 4 bis, cit. L., ed i principi generali tema di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 del Trattato CE, tale da far ritenere le prime puntualmente incompatibili con le norme comunitarie o da far dubitare della loro legittimità costituzionale».

Queste conclusioni sono state confermate anche dalla sentenza della Corte di giustizia 16 febbraio 2012, cause riunite C-72/10 e C-77/10, Costa e Cifone, la quale, dopo aver ribadito che dalla citata sentenza Placanica risulta che lo Stato italiano «non può applicare sanzioni penali per l'esercizio di un'attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o autorizzazione di polizia a persone legate a un operatore che era stato escluso dalle gare pertinenti in violazione del diritto dell'Unione» , ha affermato che «l'art. 43 CE e l'art. 49 CE, nonché i principi di parità di trattamento e di effettività, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro, il quale abbia escluso, in violazione del diritto dell'Unione, una categoria di operatori dall'attribuzione di concessioni per l'esercizio di un'attività economica e che cerchi di rimediare a tale violazione mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, protegga le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti prevedendo in particolare determinate distanze minime tra gli esercizi dei nuovi concessionari e quelli di tali operatori esistenti» e che «l'art. 43 CE e l'art. 49 CE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che vengano applicate sanzioni per l'esercizio di un'attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone legate ad un operatore che era stato escluso da una gara in violazione del diritto dell'Unione, anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest'ultima gara e la conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano effettivamente rimediato all'illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara».

Anche da quest'ultima sentenza della Corte di giustizia emerge che «la violazione dei principi del Trattato e l'incompatibilità delle norme incriminatrici si raffigura soltanto nei casi concreti di società operanti in ambito comunitario, munite di concessione o autorizzazione nel paese di origine ed arbitrariamente escluse in Italia dalla gara per la assegnazione delle concessioni ovvero poste in una situazione tale di svantaggio da ritenersi che sia stato loro impedito di partecipare alla gara in condizioni di parità con gli altri concorrenti».

Alla luce di queste considerazioni, si è affermato, in sintesi, che, «qualora non si tratti di una società che si trovi in questa particolare situazione, la normativa nazionale che sottopone a concessione ed autorizzazione di polizia la raccolta di scommesse non è in contrasto con le norme del Trattato, essendo finalizzata alla tutela di interessi di ordine pubblico (limitazione e controllo del giuoco d'azzardo; impedimento alle infiltrazioni della criminalità organizzata e ad operazioni di riciclaggio), con l'ulteriore conseguenza che i centri di trasmissione dati che operano per società che non si trovano nella detta situazione senza essere muniti delle necessarie concessioni ed autorizzazioni di polizia non sono esenti dalle sanzioni penali».

Il principio che «non integra il reato di cui all'art. 4 L. n. 401 del 1989 la raccolta di scommesse in assenza di licenza di pubblica sicurezza da parte di soggetto che operi in Italia per conto di operatore straniero (nella specie la Stanley International Betting Ltd) cui la licenza sia stata negata per illegittima esclusione dai bandi di gara e/o mancata partecipazione a causa della non conformità, nell'interpretazione della Corte di Giustizia CE, del regime concessorio interno agli artt. 43 e 49 del Trattato CE» è stato ribadito anche da altra decisione[96].

Ed in linea con la ratio delle predette conclusioni, si è anche ritenuto che, al contrario, integra il reato previsto dall'art. 4 L. n. 401 del 1989 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 «la raccolta di scommesse su eventi sportivi da parte di un soggetto che compia attività di intermediazione per conto di un allibratore straniero (nella specie la "e;Betrpo"e;) senza il preventivo rilascio della prescritta licenza di pubblica sicurezza o la dimostrazione che l'operatore estero non abbia ottenuto le necessarie concessioni o autorizzazioni a causa di illegittima esclusione dalle gare»[97].