Introduzione

NOTE INTRODUTTIVE

1. Premessa. Anche quest’anno la Rassegna della giurisprudenza civile della Corte di cassazione, redatta dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo, non ha un taglio monotematico, ma ha ad oggetto l’intera produzione giurisprudenziale della Corte essendosi ritenuto più opportuno un monitoraggio tendenzialmente completo piuttosto che l’esame di un singolo profilo per quanto importante. La ripartizione tematica della materia, quale risulta dall’indice sistematico generale, ha la funzione di disegnare la mappa complessiva della ricognizione operata: le questioni trattate dalla Corte sono state oggetto della Rassegna nella misura in cui lo sviluppo argomentativo delle sue pronunce ha espresso principî di diritto e questi si sono tradotti in massime di giurisprudenza.

La Rassegna si compone di due Volumi, come già quella per il 2012, dedicati rispettivamente ai profili sostanziali e a quelli processuali.

L’architettura in capitoli e sommari è rimasta la stessa. Si è ritenuto di aggiungere, ai riferimenti numerici delle pronunce del 2013 in Rassegna, il nome dell’estensore della sentenza (o del relatore, in caso di ordinanza) per offrire un riferimento anche soggettivo del provvedimento.

 

2. Principî di diritto e massime di giurisprudenza. I “principî di diritto” e le massime di giurisprudenza, in quanto esterni al sistema delle fonti del diritto, non sono vincolanti come si desume in modo inequivocabile dal precetto costituzionale dell’art. 101, secondo comma, Cost. che vuole i giudici essere soggetti soltanto alla legge. Il principio dello stare decisis tipico degli ordinamenti di common law, nella misura in cui predica l’efficacia vincolante del precedente sulla base di una differenziazione gerarchica delle pronunce dei giudici, trova una preclusione nel suddetto parametro costituzionale. Il principio di diritto ha invece una valenza persuasiva, in ragione dell’impianto argomentativo contenuto nella motivazione che lo esprime.

Principî di diritto sono quelli enunciati dalla Corte nei suoi provvedimenti e che quindi si nutrono del contesto motivazionale del provvedimento tanto che non di rado essi non sono enunciati in chiusura della motivazione, ma si rinvengono nei passaggi argomentativi. Massime di giurisprudenza sono quelle elaborate dall’Ufficio del Massimario come registrazione di tali principî in una forma enunciativa autosufficiente, tendenzialmente a modo di sillogismo.

La contiguità concettuale di principî di diritto e massime di giurisprudenza si rinviene in modo marcato quando la Corte conferma il proprio orientamento ribadendo in realtà una massima di giurisprudenza. Vi è quindi una sorta di circuito di reciproco riferimento: la Corte enuncia principî di diritto da cui l’Ufficio del Massimario estrae massime di giurisprudenza che la Corte poi utilizza per riaffermarle come principî di diritto.

 

3. Il principio di eguaglianza. A fronte della non vincolatività dei principî di diritto si pone – in bilanciamento se non proprio in contrapposizione - un’altra esigenza che pure ha rilievo costituzionale: quella della certezza del diritto quale proiezione del principio di eguaglianza.

I principî di diritto, pur formalmente esterni al sistema ordinamentale non appartenendo alle fonti del diritto, tuttavia sono in concreto idonei a completare la fattispecie normativa, a disegnarne meglio i contorni, e talvolta – come nel caso delle c.d. clausole generali – a riempirla di contenuto.

La “legge” davanti alla quale i cittadini sono eguali si atteggia quindi come un insieme di norme e di principî di diritto: le une e gli altri sono idonei a fornire al giudice la regola di giudizio per decidere il caso portato alla sua cognizione.

Un’accentuata mutevolezza o relativizzazione dei principî di diritto, seppur rispettosa del principio di cui all’art. 101, secondo comma, Cost., indurrebbe in sofferenza il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), con il quale mal si concilia l’evenienza che due fattispecie analoghe siano decise in termini diversi.

Pur in un sistema in cui non opera il canone dello stare decisis, non di meno la circostanza che un principio di diritto risulti nel tempo fissato in una massima di diritto vivente è di indubbia rilevanza.

Un indirizzo costante e ripetuto negli anni comporta la formazione di una situazione qualificata come di “diritto vivente”, che esprime la norma di legge contestualizzata dai principî di diritto che ad essa afferiscono; situazione questa che crea affidamento nella stabilità del quadro normativo e nella certezza dei rapporti giuridici.

Sul piano generale dei principî regolatori dell’ordinamento, la tendenziale fedeltà ai precedenti giurisprudenziali che per la loro costante riaffermazione formano il “diritto vivente” rappresenta una proiezione del principio di eguaglianza e di certezza dei rapporti giuridici. Al contrario la mutevolezza ed imprevedibilità della giurisprudenza creano situazioni di diseguaglianza e ingenerano incertezza nei rapporti giuridici.

Nel nostro ordinamento, caratterizzato dalla complessità dell’insieme delle norme che lo compongono, l’attività interpretativa della giurisprudenza svolge una funzione di completamento delle norme stesse che, pur nella dialettica delle possibili diverse soluzioni interpretative, confluisce alla fine a realizzare ciò che l’art. 65 ord. giud. (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) definisce come “uniforme interpretazione della legge” e “unità del diritto oggettivo nazionale”. Tale è il diritto vivente; categoria questa che è da tempo ben nota sul piano del giudizio di costituzionalità: la Corte costituzionale, cui si deve la teorizzazione della dottrina del diritto vivente, tende a dichiarare inammissibili o manifestamente inammissibili le questioni sollevate dal giudice rimettente su un presupposto interpretativo contrastante con il diritto vivente. In sostanza come è priva di oggetto la questione di costituzionalità posta su un principio di diritto piuttosto che su una norma di legge, parimenti è priva di oggetto la questione posta su una norma di legge interpretata in modo difforme dal diritto vivente.

Alla produzione di quest’ultimo è deputata specificamente la Corte di cassazione che, da un lato, nel curare l’«esatta osservanza» della legge e nello svolgere quindi il sindacato di legittimità, opera sulla fattispecie concreta, ad iniziativa delle parti, e decide la causa (jus litigatoris); dall’altro lato, proprio mentre cura l’osservanza della legge nei singoli casi concreti, può, ciò facendo, produrre principî di diritto per la fattispecie astratta al fine di assicurare «l’uniforme interpretazione della legge» e «l’unità del diritto nazionale», così assolvendo alla funzione di nomofilachia (jus costitutionis).

Funzione questa che da tempo è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale che ha più volte affermato che è alla Corte di cassazione che “compete il magistero della nomofilachia”. Un rafforzamento di questa funzione nomofilattica rappresenta sul piano dei principî costituzionali da una parte una più piena realizzazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e d’altra parte indirettamente favorisce anche la ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) perché è proprio la certezza del diritto e l’affidamento sulla tendenziale stabilità dei principî di diritto a rappresentare un forte argine deflativo del contenzioso.

In sintesi il principio che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) è necessariamente bilanciato dal principio di eguaglianza, che vuole tutti uguali davanti alla legge (art. 3, primo comma, Cost.), coniugato con il principio dell’«unità del diritto oggettivo nazionale» (art. 65 ord. giud.).

Ciò ha dato ingresso, in epoca recente, a misure processuali che favoriscono l’“uniforme interpretazione della legge”, una sorta di principio debole dello stare decisis.

La normativa processuale più recente del giudizio civile di cassazione (d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e legge 18 giugno 2009, n. 69) ha segnatamente messo in campo strumenti diretti appunto a rafforzare l’“uniforme interpretazione della legge”.

Il ruolo della Corte di cassazione nella sua funzione nomofilattica ha avuto nuovo impulso a seguito di questa riforma, che ha introdotto significative novità nel processo civile ed in particolare ha posto nel codice di rito due norme specificamente dirette nel senso di perseguire l’obiettivo della tendenziale unificazione della giurisprudenza (l’art. 374 cod. proc. civ. da un lato e l’art. 420 bis cod. proc. civ. dall’altro) ed altre norme (l’art. 363, l’art. 384, l’art. 360 bis cod. proc. civ.) parimenti orientate.

Le prime due disposizioni (art. 374 e art. 420 bis cod. proc. civ.) afferiscono direttamente all’attività interpretativa del giudice, rispettivamente della sezione semplice della Corte di cassazione rispetto a quella delle sezioni unite e dei giudici di merito rispetto a quella della Corte di cassazione. Non si tratta di un vincolo interpretativo, ma c’è un vincolo processuale che tocca l’attività interpretativa.

Altre due disposizioni (art. 384 e art. 363 cod. proc. civ.) riguardano – in chiave incentivante – la produzione di principî di diritto ad opera della Corte di cassazione.

Un’ulteriore disposizione (art. 360 bis cod. proc. civ.) assegna un particolare rilievo – in termini di ammissibilità del ricorso (il c.d. “filtro”) – ai principî di diritto affermati dalla Corte di cassazione.

 

4. Dati statistici: a) le decisioni civili pronunciate nel 2013. Nel 2013 le pronunce civili della Corte sono state 28.820 che hanno definito 30.167 ricorsi a fronte di 29.094 ricorsi depositati nell’anno con una modesta, ma non trascurabile, riduzione dell'arretrato (1,1 %) in termini di bilancio complessivo tra quanto “introitato” e quanto “esitato”. La prima considerazione che può farsi è che la Corte, pur con le scoperture di organico solo in parte eliminate con l’arrivo dei nuovi consiglieri nel corso dell’ultimo trimestre dell’anno, è stata in condizione di far fronte, in termini numerici, alla trattazione di tanti ricorsi (anzi un po’ più di) quanti ne sono arrivati nell’anno. Ciò significa che stanno dando i loro frutti le misure di intervento sul giudizio civile di cassazione, adottate nel 2006 (d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) e nel 2009 (legge 18 giugno 2009, n. 69), cui si aggiungono, da ultimo, quelle del 2012 (d.l. 22 giugno 2012 n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134). E significa in particolare che l’obiettivo virtuoso di un giudizio di cassazione che si concluda nell’anno è a portata di mano. Il vero problema della Cassazione civile – in termini aziendalistici, se ci si passa questa terminologia inappropriata per la giurisdizione – è che, nonostante un “risultato dell’esercizio corrente” positivo, questo è lungi dall’avere ripianato il dato complesso dell'arretrato formatosi nel corso di esercizi precedenti. Il problema è infatti l’arretrato, accumulatosi negli anni, di quasi 100.000 ricorsi pendenti, che è stato sì intaccato nel 2013, ma in misura ancora insufficiente se ci si colloca in una ragionevole prospettiva di rientro a medio termine e non in tempi generazionali. L’impegno dei magistrati della Corte è stato totale e la soglia di quanto concretamente esigibile appare già varcata. Forse occorrono interventi straordinari e qui viene in rilievo, in qualche misura, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo. Il Governo, nel contesto di disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia adottate con decreto legge, ha previsto (art. 74 d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 9 agosto 2013, n. 98) un incremento di organico dei magistrati destinati all’Ufficio del Massimario e del Ruolo – da trentasette a sessantasette – con compiti di assistenti di studio, i quali, “in sede di prima applicazione … fino allo scadere del quinto anno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, potranno essere destinati, con provvedimento del Primo Presidente della Corte di cassazione, alle sezioni civili” proprio “al fine di garantire la più celere definizione dei procedimenti pendenti”.

L’approccio al problema appare condivisibile: quello di incidere sul fardello che la Cassazione civile si porta sulle spalle da anni – l’insostenibile “pesantezza” dell’arretrato – piuttosto che quello di limitare il sindacato di legittimità per ridurre il flusso in entrata, in ipotesi con una revisione dell’art. 111, settimo comma, Cost. Non è vero che una Corte suprema – perché unica a livello nazionale e collocata al vertice dell’ordine giudiziario – sia diminuita nel suo ruolo perché decide circa 30.000 ricorsi l’anno. La Cassazione civile francese, la madre del modello di Corte di cassazione, ne ha decisi 21.260 nel 2012 – a fronte di 25.012 ricorsi decisi dalla nostra Corte di cassazione nello stesso anno – ed il suo livello di contenzioso civile è comparabile con il nostro. In più il nostro ordinamento ha la garanzia costituzionale del sindacato di legittimità (art. 111, settimo comma, Cost.) che è derivato direttamente dal principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.). La legge è uguale per tutti, si legge nelle aule di giustizia: la decisione di circa 30.000 ricorsi civili l’anno è la misura quantitativa dell’esercizio del sindacato di legittimità da parte della Corte di cassazione e i dati dello scorso anno mostrano che la Corte è in grado di adempiere questa “missione”.

 

5. (segue) b) Le massime civili nel 2013. A fronte di 28.820 provvedimenti ci sono a tutt’oggi 3.734 massime elaborate dall’Ufficio del Massimario e del ruolo (circa il 13% fino ad ora). Di un gran numero di esse (circa 1.800) si dà conto in questa Rassegna.

Per leggere questo dato però occorre una precisazione. Da alcuni anni la massimazione dei provvedimenti civili – come già per tradizione risalente la massimazione dei provvedimenti penali – segue la pubblicazione dei provvedimenti stessi; in passato invece la precedeva e quindi ne condizionava i tempi: la sentenza civile non era pubblicata fin quando l’Ufficio del Massimario non avesse svolto il suo ruolo, massimando, o no, il provvedimento. I tempi dello spoglio e della massimazione dei provvedimenti, che prima, per quanto contenuti, ritardavano la pubblicazione degli stessi, non hanno più questa incidenza indiretta. Ciò però comporta - per quanto riguarda questa Rassegna riferita all'anno 2013 - un inevitabile decalage in termini diacronici tra provvedimenti pubblicati nell’anno e massime relative ai provvedimenti pubblicati in quell’anno. Tenendo conto di ciò può dirsi che la percentuale di massimazione dei provvedimenti dello scorso anno si attesta all’incirca allo stesso livello dell’anno precedente (poco più del 15% nell’anno).

Il dato percentuale ha certo la sua significatività, ma va letto in modo avvertito con la consapevolezza del ruolo dell’Ufficio del Massimario. In passato la percentuale di massimazione era più elevata, ma le decisioni erano assai meno. Il fatto che la domanda di controllo di legittimità delle decisioni di merito sia sensibilmente cresciuta negli anni non implica affatto che in proporzione potessero (o dovessero) essere immessi in circolo molti più principî di diritto e, in correlazione con essi, molte più massime di giurisprudenza. Anzi un sistema stabile, che assicuri la fedeltà ai precedenti come insieme di principî di diritto e massime di giurisprudenza, non è condizionato dal dato quantitativo del flusso del contenzioso in entrata. Lo jus costitutionis risponde ad una logica diversa dello jus litigatoris. Quest’ultimo si concretizza – lo si è già detto – nella decisione di oltre 30.000 ricorsi civili l’anno; il primo prende corpo in oltre 3000 massime di giurisprudenza l’anno il cui numero è condizionato dalla novità delle questioni, dalla complessità dell’ordinamento giuridico che si arricchisce di nuove norme, dal mutamento di sensibilità nell’interpretazione di norme che nuove non sono, in una parola da quella che si definisce “elaborazione giurisprudenziale”, ossia concezione dinamica della funzione di nomofilachia della Corte.

Ed allora ciò che è maggiormente significativo è il dato assoluto piuttosto che quello percentuale. In termini assoluti il numero di massime di giurisprudenza elaborate dall’Ufficio del Massimario è piuttosto stabile negli anni, anche se ha subito una flessione rispetto ad anni più risalenti; ma ciò si spiega con l’introduzione dell’archivio SNCIV in Italgiureweb. In passato la “vita” di una sentenza (o ordinanza) civile della Corte era condizionata alla sua massimazione. In disparte i provvedimenti pubblicati in riviste giuridiche – ma piuttosto rari erano quelli (civili) non massimati ma non di meno pubblicati in riviste giuridiche – sulle sentenze ed ordinanze non massimate calava un velo che le rendeva di fatto non utili nella ricerca di documentazione giuridica. Ciò induceva in passato l’Ufficio del Massimario ad una maggiore larghezza nella massimazione anche di pronunce che in realtà non presentavano significativi elementi di novità, ma che si riteneva opportuno conservare tra quelle comunque ricercabili nella banca dati delle massime civili della Corte. Quando si è attivata un’ulteriore banca dati – quella dei provvedimenti della Corte in testo integrale – la situazione è mutata. Ogni provvedimento, massimato o non, è comunque ricercabile nelle banche dati della Corte, quella delle massime di giurisprudenza e quella dei provvedimenti in testo integrale. Ciò ha consentito di adottare criteri più restrittivi di massimazione quando il provvedimento si limita a fare applicazione di principî di diritto già oggetto di massime di giurisprudenza.

Non di meno l’Ufficio del Massimario registra il percorso di continuità della giurisprudenza in cui si evidenzia la c.d. fedeltà ai precedenti. I principî di diritto massimati sono soprattutto quelli che, in tutto o in parte, hanno elementi di novità, in disparte i principî di diritto affermati dalla Corte in epoca risalente che comunque sono riformulati in nuove massime. Ma l’Ufficio del Massimario da alcuni anni adotta, nel settore civile, anche il modulo della massimazione in termini di mera conformità. La proclamata fedeltà ai precedenti viene registrata proprio dalle massime di mera conformità che segnano il percorso di continuità della giurisprudenza e che sono utilizzabili nella ricerca fatta con la rete dei precedenti.

 

6. Le Sezioni Unite ed i contrasti di giurisprudenza. Nella Rassegna un rilievo particolare ha la giurisprudenza delle Sezioni Unite, il cui ruolo è stato accentuato dalla riforma dell’art. 374 cod. proc. civ.

Il terzo comma dell’art. 374 – che costituisce una delle maggiori novità della citata novella del 2006 – prevede che se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

In tal modo si crea una sorta di vincolo negativo, una forma debole della regola dello stare decisis, regola che, nella sua portata assoluta, non è rinvenibile nel nostro ordinamento, in cui il precedente giurisprudenziale ha una valenza meramente persuasiva.

C’è nel terzo comma dell’art. 374 un meccanismo processuale, che, per come è costruito, finisce comunque per implicare per la sezione semplice un vincolo negativo a non adottare una interpretazione contrastante con quella già espressa dalle sezioni unite e non già di un vincolo positivo ad adottare proprio quell’interpretazione fatta propria dalle sezioni unite.

La sezione semplice, ove non condivida il principio affermato dalle sezioni unite, non è affatto tenuta ad interpretare la legge secondo il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, che non condivide; né anzi potrebbe motivare una pronuncia applicativa di tale principio di diritto (non già con l’adesione, bensì) con la mera allegazione della dovuta ottemperanza al vincolo interpretativo, in quanto questo, come tale, in realtà non sussiste. Ma la sezione semplice, se giunge ad un convincimento diverso ed opposto rispetto a quello contenuto nel principio di diritto delle sezioni unite, non può fare altro che rimettere la causa a queste ultime sollecitandole ad una rivisitazione della questione e ad una possibile inversione di giurisprudenza, così invocando, con ordinanza motivata, il revirement del principio di diritto non condiviso. In ciò consiste il vincolo negativo: non già obbligo di adottare l’interpretazione accolta dalle sezioni unite, bensì divieto di adottare una pronuncia con quest’ultima contrastante e contestuale obbligo di investire le sezioni unite, con un’ordinanza interlocutoria che ha il contenuto di una dissenting opinion in funzione di anticipatory overruling, affinché siano queste a rimuovere il precedente che tale vincolo crea.

Una segnalazione particolare meritano quindi le pronunce delle Sezioni Unite che hanno composto contrasti di giurisprudenza o dato continuità ad orientamenti che vedevano un contrasto di giurisprudenza.

Il settore che, nel corso del 2013, maggiormente ha registrato la composizione di contrasti di giurisprudenza è quello del processo.

La complessità delle procedure e le tecnicalità del processo convergono non di rado verso snodi problematici che si prestano a diverse letture interpretative. Ma la certezza del diritto e la fedeltà ai precedenti presentano un’urgenza maggiore nella materia processuale. Nella lite giudiziaria le parti fanno affidamento sulla stabilità delle regole del processo e quindi i contrasti di giurisprudenza devono subito emergere per essere rapidamente composti. Non è un caso che la dottrina del c.d. prospective overruling (cfr. Sez. Un., n. 15144 del 2011, Rv. 617905) è sorta proprio in materia processuale per dare tutela alle parti che hanno fatto affidamento su una regola predicata da una giurisprudenza poi successivamente smentita da altra giurisprudenza.

La Rassegna dedica al processo (e alle questioni di giurisdizione) un intero Volume, il secondo. Può qui farsi menzione di alcune decisioni delle Sezioni Unite, ex multis, pronunciate nel solco di un contrasto di giurisprudenza.

Innanzi tutto può ricordarsi Sez. Un., n. 17931 (Rv. 627268) - infra al Cap. XXV, § 6.2., pag. 551 - che ha chiarito che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; sicché, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. È stato così disatteso l’orientamento, comunque minoritario, che predicava un principio di grande rigore formale secondo cui il ricorrente doveva anche correttamente inquadrare la sua censura in uno dei cinque motivi elencati nell’art. 360 cod. proc. civ.

Sul giudizio di appello si registrano importanti pronunce. Sez. Un., n. 3033 (Rv. 625141) - infra al Cap. XXVIII, § 1., pag. 631 - ha affermato che il giudizio d’appello ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata (revisio prioris instantiae); sicché in particolare l’appellante assume sempre la veste di attore rispetto al giudizio d’appello, e su di lui ricade l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame. Pertanto, ove l’appellante si dolga dell’erronea valutazione, da parte del primo giudice, di documenti prodotti dalla controparte e da questi non depositati in appello, ha l’onere di estrarne copia ai sensi dell’art. 76 disp. att. cod. proc. civ. e di produrli in sede di gravame; l’orientamento contrario, disatteso dalle Sez. Un., era espresso da Sez. 2, n. 78 del 2007 (Rv. 595643); Sez. Lav., n. 8528 del 2006 (589201).

Parimenti rilevante è Sez. Un., n. 9407 (Rv. 625811) - infra al Cap. XXVI, § 1., pag. 633 - la quale ha affermato che l’art. 342 cod. proc. civ. – che, nel testo quale sostituito dall’art. 50 legge 26 novembre 1990, n. 353, e prima dell’ulteriore modifica di cui all’art. 54, comma 1, lett. a, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, prevede che l’appello si propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione, «nonché le indicazioni prescritte nell’art. 163 cod. proc. civ.» – non richiede, altresì, che, in ragione del richiamo di tale ultima disposizione, l’atto di appello contenga anche lo specifico avvertimento, prescritto dal n. 7 del terzo comma dell’art. 163 cod. proc. civ., che la costituzione oltre i termini di legge implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 cod. proc. civ., atteso che queste ultime si riferiscono solo al regime delle decadenze nel giudizio di primo grado e non è possibile, in mancanza di un’espressa previsione di legge, estendere la prescrizione di tale avvertimento alle decadenze che in appello comporta la mancata tempestiva costituzione della parte appellata. L’orientamento contrario, disatteso dalle Sez. Un., era espresso da Sez. 3, n. 22024 del 2009 (610313) e Sez. 3, n. 970 del 2007 (598899), che ritenevano necessario anche in appello l’avvertimento suddetto.

Superando alcune incertezze giurisprudenziali che radicavano un effettivo contrasto di giurisprudenza, Sez. Un., n. 22848 (Rv. 627462) - infra al Cap. XXV, § 9.1., pag. 574 - ha affermato che il procedimento di appello avverso la sentenza resa ex art. 308, secondo comma, cod. proc. civ., reiettiva del reclamo contro la declaratoria di estinzione del processo pronunciata dal giudice istruttore, è retto dal rito camerale fin dal momento della proposizione della impugnazione, che va, quindi, introdotta con ricorso da depositarsi in cancelleria entro i termini perentori prescritti dagli artt. 325 e 327 cod. proc. civ.; ove l’appello sia stato promosso con citazione anziché con ricorso, esso è suscettibile di sanatoria, in via di conversione ex art. 156 cod. proc. civ., a condizione che, nel termine previsto dalla legge, l’atto sia stato non solo notificato alla controparte, ma anche depositato nella cancelleria del giudice.

Quanto poi al giudizio civile in generale Sez. Un., n. 8353 (Rv. 625739) - infra al Cap. XXVI, § 4., pag. 595 - ha affermato che il trasferimento dell’azione civile nel processo penale, regolato dall’art. 75 cod. proc. pen., determina una vicenda estintiva del processo civile riconducibile al fenomeno della litispendenza, e non a quello disciplinato dall’art. 306 cod. proc. civ., in quanto previsto al fine di evitare contrasti di giudicati; ne consegue che detta estinzione (rilevabile anche d’ufficio) può essere dichiarata solo se, nel momento in cui il giudice civile provvede in tal senso, persista la situazione di litispendenza e non vi sia stata pronuncia sull’azione civile in sede penale. L’orientamento contrario, disatteso dalle Sez. Un., era espresso da Sez. L, n. 1985 del 2008 (Rv. 601490) e Sez. 3, n. 13946 del 2005 (Rv. 582570), che invece ravvisavano nella fattispecie l’estinzione del giudizio e non già la litispendenza.

Sul regime delle eccezioni in senso stretto ed in senso lato Sez. Un., n. 10531 (Rv. 626194) - infra al Cap. XXV, § 6.2., pag. 553 - ha chiarito che il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto. È stato così disatteso l’orientamento secondo cui anche per le eccezioni in senso lato occorre la specifica e tempestiva allegazione della parte: cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 17896 del 2012 (Rv. 624364).

Anche in materia di arbitrato è stato composto un contrasto di giurisprudenza. Sez. Un., n. 24153 (Rv. 627786) - infra al Cap. XXXVI, § 4., pag. 767 - ha affermato che l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione. Invece in precedenza Sez. 3, n. 20351 del 2005 (Rv. 584555) aveva ritenuto che l’accertare se una controversia dovesse essere decisa dal giudice ordinario o da un collegio arbitrale non integrasse in nessun caso gli estremi di una questione di competenza, bensì una tipica questione di merito in ordine alla validità ed all’interpretazione della clausola compromissoria.

 

7. Il dialogo tra Corte costituzionale e Corte di cassazione.

Nella Rassegna si prendono in considerazione varie ordinanze con cui questa Corte ha sollevato questioni di legittimità costituzionale (v. ad es. infra al Cap. V, § 1; al Cap. XXIII, § 3; al Cap. XXV, § 8.2.; al Cap. XXXV, §§ 2.1. e 3). Ma una in particolare va qui ricordata notando che, nel licenziare per la stampa la Rassegna, è stata oggi depositata la importante sentenza n. 1 della Corte costituzionale, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale di norme in materia di elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, introdotte dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270, e pronunciata a seguito di ordinanza di rimessione di questa Corte, Sez. 1, n. 12060; ordinanza di cui si dà conto infra nella Rassegna al Cap. I, § 2, pag. 2, e al Cap. XXVIII, § 4, pag. 639 e che la stessa sentenza cit., nell'accertare i denunciati vizi di illegittimità costituzionale, riconosce essere sorretta da «motivazione ampia, articolata ed approfondita».

È questo probabilmente, per le rilevanti ricadute in termini ordinamentali non disgiunte dalla affermazione del fondamentale principio della continuità dello Stato, l'esempio più alto (e virtuoso) del dialogo tra le due Corti.

 

8. Ringraziamenti. Queste note introduttive non possono non concludersi con doverosi ringraziamenti.

La Rassegna è opera dei magistrati dell’Ufficio del Massimario. È stata egregiamente coordinata dalla Cons. Loredana Nazzicone. Ne sono autori i colleghi Francesco Buffa, Eduardo Campese, Enrico Carbone, Luciano Ciafardini, Lorenzo Delli Priscoli, Giuseppe Dongiacomo, Annamaria Fasano, Francesco Federici, Massimo Ferro, Giuseppe Fuochi Tinarelli, Stefano Giaime Guizzi, Loredana Nazzicone, Giacomo Maria Nonno, Francesca Picardi, Marco Rossetti, Antonio Scarpa, Cristiano Valle e Luca Varrone.

Hanno collaborato alla rifinitura dell’editing la d.ssa Elena Spagnolo e la sig. Lisetta D’Onofrio, addette alla Cancelleria dell’Ufficio del Massimario.

A tutti va il più vivo ringraziamento per il loro contributo che ha reso possibile la realizzazione di un’opera collettanea quale la Rassegna della giurisprudenza civile della Corte di cassazione.

Giuseppe Maria Berruti - Giovanni Amoroso

 

Roma, 13 gennaio 2014

PARTE PRIMA IL DIRITTO DELLE PERSONE, DELLA FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI

  • diritti e libertà
  • persona fisica
  • diritti sociali
  • diritti politici
  • diritti civici
  • diritti umani

CAPITOLO I

PERSONE E ASSOCIAZIONI

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 L'art. 2 Cost. e il diritto allo studio; il dialogo con la Corte costituzionale. - 2 Il diritto al voto come espressione della dignità dell'uomo. - 3 L'ordine pubblico come rispetto dei diritti inviolabili. - 4 Disabili e principio di solidarietà. - 5 Amministrazione di sostegno a tutela dei diritti fondamentali. - 6 Il diritto alla riservatezza, all'oblio e a un corretto trattamento dei dati personali. - 7 Il diritto alla reputazione come diritto inviolabile suscettibile di bilanciamento con altri valori. - 8 Enti collettivi e riconoscimento dei diritti fondamentali della persona fisica.

1. L'art. 2 Cost. e il diritto allo studio; il dialogo con la Corte costituzionale.

I diritti inviolabili dell'uomo continuano anche nel 2013 ad essere il punto di riferimento fondamentale della giurisprudenza della Cassazione, che da un lato ne riconosce la tutela sempre più di frequente e in ambiti sempre più svariati, e dall'altro ne sottolinea il carattere precettivo e non meramente programmatico.

Infatti, secondo Sez. 3, n. 21166 (Rv. 627957), est. Lanzillo, i principî costituzionali - ricavabili dagli artt. 2, 3 e 34, primo comma, della Carta fondamentale - in tema di diritto alla parità di trattamento nella fruizione del servizio scolastico ed all'istruzione gratuita hanno carattere precettivo e non meramente programmatico, sebbene valgano a definire solo in negativo la discrezionalità spettante al legislatore nella determinazione delle prestazione da erogare, in tale ambito, ai soggetti disabili, comportando l'illegittimità costituzionale di una normativa che preveda un'offerta scolastica gratuita di contenuto irrisorio, abbia ad oggetto prestazioni e trattamenti ingiustificatamente differenziati per diverse categorie di soggetti, non assicuri la completa gratuità di insegnamenti essenziali, tenuto conto della situazione personale del disabile, o esiga un contributo economico per attività anche non essenziali da chi si trovi in condizioni economiche disagiate. Per contro, tali principî non implicano anche che si debba necessariamente assicurare la completa gratuità di tutte le ipotizzabili prestazioni che possano essere connesse all'esercizio del diritto allo studio, pur se collaterali, accessorie, di supporto, facoltative o di complemento, quand'anche rese necessarie da peculiari situazioni personali.

Non può poi non sottolinearsi il continuo dialogo - peraltro presente e vivo anche in altri campi del diritto, ma certamente quanto mai fruttuoso in tema di diritti fondamentali - con la Corte costituzionale: si vedano, in tal senso, da un lato la sentenza del giudice delle leggi n. 116 del 2013, la quale ritiene di adeguarsi alla motivazione del rimettente, in quanto in linea con i principî espressi dalle sezioni unite della Corte di cassazione; dall'altro, la sentenza della Sez. 1, n. 24556, Rv. 628308, est. Piccininni, secondo cui, nel procedimento previsto dall'art. 250 cod. civ., per conseguire una pronuncia in luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio infrasedicenne da parte del genitore, che lo abbia già riconosciuto, pur essendo obbligatoria l'audizione del minore, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 2011, non è configurabile alcun vizio ove l'espletamento dell'incombente sia reso oggettivamente impossibile dalla tenera età del minore e, quindi, sia omesso perché superfluo.

2. Il diritto al voto come espressione della dignità dell'uomo.

Ha affermato Sez. 1, ord. n. 12060 (Rv. 626268), rel. Lamorgese, che l'espressione del voto - attraverso cui si manifestano la sovranità popolare e la stessa dignità dell'uomo - rappresenta l'oggetto di un diritto inviolabile e "permanente", il cui esercizio da parte dei cittadini può avvenire in qualunque momento e deve esplicarsi secondo modalità conformi alla Costituzione, sicché uno stato di incertezza al riguardo ne determina un pregiudizio concreto, come tale idoneo a giustificare la sussistenza, in capo ad essi, dell'interesse ad agire per ottenerne la rimozione in carenza di ulteriori rimedi, direttamente utilizzabili con analoga efficacia, per la tutela giurisdizionale di quel fondamentale diritto.

Partendo da questa considerazione, è stata considerata rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, 67 e 117, primo comma, Cost., anche alla stregua dell'art. 3 Protocollo 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la questione di legittimità costituzionale delle norme delle vigenti leggi elettorali per l'elezione alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica concernenti l'attribuzione del premio di maggioranza e l'esclusione del voto di preferenza, perché manifestamente irragionevoli, lesive dei principî di uguaglianza del voto e di rappresentanza democratica, nonché del diritto alla scelta del corpo legislativo, garantito anche dall'art. 3 del menzionato Protocollo.

3. L'ordine pubblico come rispetto dei diritti inviolabili.

In tema di riconoscimento di sentenze straniere, ha affermato Sez. 1, n. 11021 (Rv. 626620), est. Di Virgilio, che il concetto di ordine pubblico processuale è riferibile ai principî inviolabili posti a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, non anche alle modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie, e ciò in ragione delle statuizioni della Corte di Giustizia, le cui pronunce (non solo il dispositivo ma anche i motivi "portanti" della decisione) costituiscono l'interpretazione autentica del diritto dell'Unione europea e sono vincolanti per il giudice a quo. Ne consegue che anche il diritto di difesa - tenuto conto degli orientamenti della Corte di Giustizia (sentenza 2 aprile 1999, causa C-394/2007) - non costituisce una prerogativa assoluta ma può soggiacere, entro certi limiti, a restrizioni. (Nella specie la S.C. ha confermato la validità della delibazione della Corte di appello di una decisione dell'High Court inglese che, pur se resa senza contraddittorio, era stata però preceduta da un procedimento nel corso del quale il ricorrente aveva avuto la possibilità di partecipare attivamente alle fasi antecedenti l'emissione del provvedimento e di vedere esaminate le proprie ragioni).

Il rispetto dei diritti inviolabili è dunque alla base del concetto di ordine pubblico ed evidenzia come l'ordinamento giuridico italiano sia all'avanguardia nella tutela di tali diritti, anche rispetto ad ordinamenti evoluti come gli Stati Uniti e l'Austria.

Ha infatti deciso Sez. lav., n. 1302 (Rv. 624882), est. Amoroso, che, in tema di rapporto di lavoro sorto, eseguito e risolto all'estero, la nozione di "ordine pubblico", la quale costituisce un limite all'applicazione della legge straniera, è desumibile innanzi tutto dal sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla tutela del lavoro prevista dalla Costituzione (artt. 1, 4 e 35 Cost.) e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell'Unione europea dall'art. 6 TUE, fonti che includono le tutele del lavoratore contro il licenziamento ingiustificato. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto la contrarietà all'ordine pubblico italiano di una normativa, quale quella in vigore negli Stati Uniti d'America, che consente indistintamente il licenziamento ad nutum e non prevede garanzie minime, né procedimentali né sostanziali, per il lavoratore destinatario di un licenziamento individuale o collettivo).

Ha altresì statuito Sez. 3, n. 19405 (Rv. 628070), est. Vincenti, che agli effetti del diritto internazionale privato, l'ordine pubblico che - anche ai sensi dell'abrogato art. 31 delle preleggi, applicabile ratione temporis - impedisce l'ingresso nell'ordinamento italiano della norma straniera che vi contrasti si identifica con l'"ordine pubblico internazionale", da intendersi come complesso dei principî fondamentali caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo. In tale accezione, esso è ostativo all'applicazione nell'ordinamento italiano dell'art. 1327 ABGB (codice civile austriaco), che limita il risarcimento in favore dei congiunti di persone decedute a seguito di fatto illecito al solo danno patrimoniale ed esclude la risarcibilità del danno cosiddetto parentale, venendo in rilievo l'intangibilità delle relazioni familiari, ossia un valore di rango fondamentale, riconosciuto anche dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dall'art. 7 della Carta di Nizza, per il quale il risarcimento rappresenta la forma minima ed imprescindibile di tutela.

4. Disabili e principio di solidarietà.

Ha statuito Sez. 2, n. 18334 (Rv. 624046), est. San Giorgio, che la verifica, ai sensi dell'art. 1120, ultimo comma, cod. civ., se l'installazione di un ascensore nell'atrio di uno stabile condominiale rechi pregiudizio, oltre che alla stabilità o la sicurezza del fabbricato, al decoro architettonico dell'edificio, nonché all'uso o godimento delle parti comuni ad opera dei singoli condomini, implica una valutazione anche in ordine alla ricorrenza, o meno, di un deprezzamento dell'intero immobile, essendo lecito il mutamento estetico che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e appariscente entità. Nel compiere tale verifica, inoltre, è necessario tenere conto del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto, peraltro, di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Corte cost., sentenza n. 167 del 1999).

5. Amministrazione di sostegno a tutela dei diritti fondamentali.

Secondo Sez. 1, n. 6861 (Rv. 625625), est. San Giorgio, il procedimento per la nomina dell'amministratore di sostegno, il quale si distingue, per natura, struttura e funzione, dalle procedure di interdizione e di inabilitazione, non richiede il ministero del difensore nelle ipotesi, da ritenere corrispondenti al modello legale tipico, in cui l'emanando provvedimento debba limitarsi ad individuare specificamente i singoli atti, o categorie di atti, in relazione ai quali si richiede l'intervento dell'amministratore; necessita, per contro, detta difesa tecnica ogni qualvolta il decreto che il giudice ritenga di emettere, sia o no corrispondente alla richiesta dell'interessato, incida sui diritti fondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principî costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio.

6. Il diritto alla riservatezza, all'oblio e a un corretto trattamento dei dati personali.

Diritto alla riservatezza, all'oblio e alla tutela dei dati fondamentali sono tutti diritti fondamentali strettamente collegati tra di loro e riconducibili all'art. 2 della Costituzione. Infatti, secondo Sez. 3, n. 16111 (Rv. 626952), est. Cirillo, in tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali non siano pubblicamente rievocate (nella specie, il cd. diritto all'oblio era invocato in relazione ad un'antica militanza in bande terroristiche) trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di un arsenale di armi nella zona di residenza dell'ex terrorista) trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l'attualità, diversamente risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un'illecita lesione del diritto alla riservatezza.

Ha, del resto, affermato la Corte costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, che il fondamento costituzionale del diritto della madre all'anonimato al momento del parto riposa sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili, evitando turbative nei confronti della madre in relazione all'esercizio di un suo "diritto all'oblio" e, nello stesso tempo, salvaguardando erga omnes la riservatezza circa l'identità della madre, evidentemente considerata come esposta a rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonimato.

Il valore dei diritti fondamentali è stato riconosciuto esplicitamente come avente una forza tale da imporsi anche su altri valori pure costituzionalmente riconosciuti. Così, per Sez. 1, n. 18981 (Rv. 627533), est. Didone, in tema di trattamento dei dati personali, la legge tutela anche i dati già pubblici o pubblicati, poiché colui che compie operazioni di trattamento di tali informazioni dal loro accostamento, comparazione, esame, analisi, congiunzione, rapporto od incrocio, può ricavare ulteriori informazioni e, quindi, un "valore aggiunto informativo", non estraibile dai dati isolatamente considerati, potenzialmente lesivo della dignità dell'interessato, ai sensi degli artt. 3, primo comma, prima parte, e 2 Cost., da considerare preminente rispetto all'iniziativa economica privata che, secondo l'art. 41 Cost., non può svolgersi in modo da recare danno alla dignità umana. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di rigetto dell'opposizione proposta avverso un provvedimento del Garante che aveva disposto, a carico di una società incaricata di elaborare dossier a fini commerciali, il divieto di continuare ad associare a determinati soggetti la notizia concernente il fallimento di una s.r.l., del cui consiglio di amministrazione gli interessati avevano fatto parte in epoca antecedente la dichiarazione di insolvenza, trattandosi di dato eccedente rispetto alle finalità dell'informazione, in assenza di ipotesi di responsabilità personale degli interessati).

L'importante decisione Sez. 1, n. 21014 (Rv. 628322), est. Acierno, ha stabilito che il trattamento di dati genetici di carattere non sanitario, finalizzato ad estrarre informazioni relativa al DNA per orientare la scelta verso un'azione di disconoscimento di paternità, con l'accertamento preventivo della consanguineità mediante un test predittivo, non è legittimo sulla base della sola Autorizzazione generale del Garante n. 2 del 2002, ma richiede il previo consenso dell'interessato, fornendo altresì utili precisazioni sulle nozioni di dati sanitari e dati genetici.

È stato poi, in tema di privacy, ribadito il principio secondo cui la lesione di un diritto fondamentale dà luogo ad un c.d. "danno conseguenza", che come tale va provato. Ha infatti stabilito Sez. 61, n. 22100 (Rv. 627948), est. Ragonesi, che in tema di risarcimento del danno non patrimoniale per violazione dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. codice della privacy), è ammissibile la prova per testimoni di tale danno, in quanto esso non può ritenersi in re ipsa, ma va allegato e provato, sia pure attraverso il ricorso a presunzioni semplici, e, quindi, a maggior ragione, tramite testimonianze, che attestino uno stato di sofferenza fisica o psichica. (Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che non aveva ammesso la testimonianza circa la sofferenza psicologica di un soggetto, dovuta alla comunicazione di dati afferenti la sua appartenenza sindacale).

Per una particolare applicazione in tema di condominio, cfr. al cap. VII, § 6.

7. Il diritto alla reputazione come diritto inviolabile suscettibile di bilanciamento con altri valori.

Il diritto alla reputazione, entrando spesso in conflitto con altri diritti (primo fra tutti quello alla libera manifestazione del pensiero garantito dall'art. 21 della Costituzione), pur considerato come diritto inviolabile, è tuttavia ritenuto un valore suscettibile di essere bilanciato con altri valori di pari rango costituzionale.

Secondo Sez. 6-1, n. 21865 (Rv. 627750), est. Bernabai, il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di lesione al diritto alla reputazione quale conseguenza di un ingiusto protesto, non è in re ipsa, ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento (in tema, cfr. cap. XIII, § 2).

Ha altresì affermato Sez. 3, n. 15443 (Rv. 626967), est. Carleo, che in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell'autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di critica, stabilire se lo scritto rispetti il requisito della continenza verbale è valutazione che non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.), bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto, che costituisce, assieme alla continenza, requisito per l'esimente dell'esercizio del diritto di critica. (Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, rilevando che il contenuto della lettera inviata da una ex dipendente di una società cooperativa, pubblicata su una testata giornalistica, ed il generale contesto di conflittualità sindacale in cui la missiva inviata si inseriva, offrivano indiscutibili profili di interesse pubblico all'informazione, tali da far prevalere il diritto di informare del giornalista sulla posizione soggettiva della cooperativa).

Secondo Sez. 3, n. 23144 (in corso di massimazione), est. Massera, l'art. 68 Cost., allo scopo di preservare la funzione parlamentare da indebite interferenze e da illeciti condizionamenti, deroga eccezionalmente alla parità di trattamento davanti alla giurisdizione, introducendo una causa soggettiva di esclusione della punibilità, che mette al riparo il parlamentare da tutte le azioni civili (oltre che penali), sia dirette che in via di regresso; conseguentemente, dalla strumentalità dell'immunità allo svolgimento della funzione e dalla sua non incidenza sulla illiceità del fatto, deriva che l'immunità non può essere estesa oltre le persone di coloro che tale funzione esercitano. Pertanto, la lesione dell'onore e della reputazione altrui commessa col mezzo della televisione costituisce sempre un fatto illecito ed antigiuridico, in quanto lesivo dei diritti fondamentali dell'individuo riconosciuti dall'art. 2 Cost. e dall'art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, anche quando venga commessa da persona che non possa essere chiamata a risponderne, come nel caso del parlamentare che invochi la guarentigia di cui all'art. 68 Cost. Ne consegue che, ricorrendo tale ipotesi, incorre in responsabilità civile il gestore di una rete televisiva che abbia concorso nel produrre il danno ingiusto da diffamazione, responsabilità da ritenersi aggravata dalla natura espansiva del mezzo di diffusione peraltro senza esercitare alcun controllo utile, anche successivo alla diffusione della trasmissione.

Ha infine affermato Sez. 1, n. 23194 (in corso di massimazione), est. Acierno, che in tema di risarcimento del danno da protesto illegittimo di assegno bancario, la semplice illegittimità del protesto, pur costituendo un indizio in ordine all'esistenza di un danno alla reputazione, non è, di per sé, sufficiente per il risarcimento del danno di natura equitativa, essendo necessarie la gravità della lesione e la non futilità del danno, da provarsi anche mediante presunzioni semplici, oltre alla mancanza di un'efficace rettifica, fermo restando l'onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del pregiudizio, come la lesione di un diritto della persona, sotto il profilo dell'onere e della reputazione, o la lesione della vita di relazione o della salute. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno non ritenendo l'esistenza di un danno in re ipsa, in mancanza di elementi probatori in ordine all'effettivo pregiudizio subìto a seguito dell'illegittimità del protesto).

8. Enti collettivi e riconoscimento dei diritti fondamentali della persona fisica.

È ormai consolidato l'orientamento secondo cui dalla lettura dell'art. 2 della Costituzione, il quale dispone che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali...», può ricavarsi il riconoscimento costituzionale dei diritti della personalità dei gruppi intermedi tra l'essere umano e lo Stato - a prescindere dal fatto che essi siano o meno dotati di personalità giuridica - in quanto a questi enti fa capo un complesso di individui destinatari della tutela di tali diritti. Con Sez. 3, n. 12929 del 2007 (Rv. 597309) si affermò infatti, per la prima volta, il principio secondo cui il danno non patrimoniale subìto dalla persona giuridica deve presumersi esistente fino a prova contraria, sulla base di una massima di esperienza per cui la lesione dell'immagine della persona giuridica o dell'ente si riverbera sul loro agire, perché percepita dalle persone fisiche che agiscono come loro organi. In particolare, secondo la citata sentenza, sarebbe contraddittorio riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale per lesione di un diritto fondamentale al soggetto persona fisica quando agisce direttamente come tale e non riconoscerla alla "formazione sociale", la quale è pur sempre espressione di "uomini nati da ventre di donna".

Questo orientamento è stato confermato da Sez. L, n. 22396 (Rv. 627860), est. Venuti, secondo cui anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale qualora il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell'ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana costituzionalmente protetti, qual è il diritto all'immagine, determinando una diminuzione della considerazione dell'ente o della persona giuridica da parte dei consociati in genere, ovvero di settori o categorie di essi, con le quali il soggetto leso di norma interagisca. (Nella specie, relativa all'invio di una mail con espressioni offensive da parte di un lavoratore alla società da cui dipendeva, la S.C. ha rigettato la domanda poiché la comunicazione non era stata esternata al di fuori dell'ambito aziendale).

Analogamente, è stato deciso da Sez. 1, n. 18082 (Rv. 627446), est. Ragonesi, che è configurabile la lesione alla reputazione di un ente collettivo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale, derivante dalla diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere, o di settori o categorie di essi con le quali l'ente interagisca, allorquando l'atto lesivo che determina la proiezione negativa sulla reputazione dell'ente sia immediatamente percepibile dalla collettività o da terzi. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, per non aver compiuto alcun accertamento circa gli effetti sull'immagine di una società conseguenti all'atto di concorrenza sleale, consistito nello storno di dipendenti e nella distruzione della rete di distribuzione dei prodotti della società autrice dell'illecito, dal momento che non necessariamente la collettività è tenuta ad attribuire a tali circostanze valenza negativa, ben potendo esse rientrare nei sempre possibili mutamenti della struttura aziendale).

Al riconoscimento agli enti collettivi dei diritti fondamentali corrisponde naturalmente l'assunzione in capo ad essi di doveri propri delle persone fisiche: ha così statuito Sez. 1, n. 18079 (Rv. 627406), est. Acierno, che l'interrogatorio formale, mirando a provocare la confessione giudiziale, va reso esclusivamente dal titolare del potere di disposizione del bene o del diritto controverso ed è ammissibile anche qualora questi, come nell'ipotesi del legale rappresentante di un ente collettivo, possa non essere a conoscenza diretta delle circostanze a contenuto confessorio. Invero, da un lato, l'assunzione dell'interrogatorio formale permette di acquisire sia la prova piena che un principio di prova, idoneo ad aprire la possibilità della prova testimoniale ai sensi dell'art. 2724, n. 1, cod. civ.; dall'altro, reputarne l'inammissibilità determinerebbe un regime derogatorio di favore per tutti i soggetti diversi dalla persona fisica, del tutto irragionevole anche sotto il profilo della compatibilità ai parametri degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

  • spese processuali
  • diritti della difesa
  • danno
  • giustizia riparatrice

CAPITOLO II

L'EQUA RIPARAZIONE

(di Annamaria Fasano )

Sommario

1 Il diritto all'equa riparazione. - 2 L'equa riparazione ed il diritto di difesa. - 3 Il rischio di duplicazione del ristoro. - 4 La prova del danno. - 5 Profili processuali. - 5.1 La condizione di proponibilità della domanda. - 5.2 Lo ius superveniens. - 5.3 Il dies a quo del giudizio presupposto. - 6 L'equa riparazione ed il giudizio amministrativo. - 7 Le spese processuali. - 8 Le ordinanze di rimessione alle Sezioni unite.

1. Il diritto all'equa riparazione.

Con la legge 24 marzo 2001, n. 89, recante la disciplina dell'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo (c.d. Legge Pinto), il legislatore ha voluto creare uno strumento procedimentale specificamente rivolto alla tutela del diritto al risarcimento dei danni subiti a causa dell'eccessiva durata dei processi giurisdizionali, oltre quei tempi ritenuti ragionevoli dalla Convenzione dei diritti dell'Uomo ed oggi anche dal comma secondo dell'art. 111 Cost. La legge "Pinto" ha subìto aggiornamenti con le modifiche introdotte dal d.l. 8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella legge 6 giugno 2013, n. 64, e dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012, n. 134.

2. L'equa riparazione ed il diritto di difesa.

In linea con gli orientamenti espressi dalla dottrina, che ritengono necessario il ristoro economico del pregiudizio subìto per l'irragionevole durata del processo anche quando il tempo abbia inciso sulla possibilità di azionarlo, la Corte, con sentenza, sez. 6-1, n. 14729 (Rv. 626769), est. Bisogni, ha ricordato che: «L'equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, non può essere esclusa per il semplice fatto che il ritardo della definizione del processo penale abbia prodotto l'estinzione per prescrizione del reato addebitato al ricorrente», Il principio ha un precedente conforme del 2011, l'ordinanza n. 24376 (Rv. 620650), che aggiunge come sia necessario precisare, ai fini della valutazione dell'irragionevole durata, se l'effetto estintivo della prescrizione stessa sia intervenuto o meno a seguito dell'utilizzo, da parte dell'imputato, di tecniche dilatorie o di strategie sconfinanti nell'abuso del diritto di difesa. Infatti, i tempi del processo possono dilatarsi a causa del comportamento delle parti, che chiedono il rinvio della trattazione della causa.

A tale proposito va segnato che la Corte, per la prima volta, con sentenza, Sez. 6-1, n. 15420 (Rv. 627015), est. Bisogni, modificando un orientamento più datato, ha ritenuto che, ai fini della valutazione dell'eccessiva durata del processo, non possono essere imputati alle parti i ritardi dovuti a rinvii delle udienze derivanti dall'astensione degli avvocati, trattandosi dell'esplicazione di un diritto costituzionalmente tutelato dei difensori, che non integra un comportamento riconducibile alle parti stesse. Secondo questo indirizzo del giudice di legittimità, l'astensione dalle udienze non è di per sé idonea a ledere il diritto al rispetto del termine di ragionevole durata, comportando solo un rinvio della causa, la cui irrealizzabilità nei tempi brevi previsti dal codice di rito consegue all'inadeguatezza del sistema giudiziario a fronteggiare la domanda di giustizia in tempi congrui.

In passato, disattendendo l'assunto, la Corte, con sentenza Sez. 1, n. 29000 del 2005 (Rv. 588064) aveva sostenuto che il ritardo corrispondente all'arco temporale del rinvio disposto a seguito dell'astensione degli avvocati dalla udienza non era attribuibile a violazioni di sistema, e non poteva, pertanto, essere ascritto a disfunzioni della organizzazione giudiziaria (conf. Sez. 1, n. 15143 del 2005, Rv. 583129).

La Sez. 2, n. 17153 (Rv. 627061), est. Giusti ha escluso il diritto all'equa riparazione per irragionevole durata del procedimento esecutivo in capo al debitore esecutato che, essendo comproprietario dell'immobile pignorato, non abbia alcun interesse al rapido svolgimento della procedura e, anzi, si sia avvantaggiato del suo protrarsi, avendo mantenuto, medio tempore, il compossesso giuridico del bene.

Va segnalato che l'art. 2, comma 2, a seguito delle novità introdotte dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, attualmente recita che «nell'accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l'oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi ed a contribuire alla sua definizione». Inoltre, l'art. 2 quinquies, introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, prevede che è escluso ogni indennizzo in favore della parte soccombente condannata a norma dell'art. 96 cod. proc. civ., come in ogni altro caso di abuso di poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del processo.

3. Il rischio di duplicazione del ristoro.

Con riferimento alla liquidazione del danno, la sentenza Sez. 6-1, n. 15260 (Rv. 626922), est. Bisogni, pone in evidenza la necessità di evitare il rischio di una duplicazione dei ristoro economico per il pregiudizio subìto in relazione ad un processo nel quale sono stati riuniti sin dal primo grado due separati giudizi. Si deve aver riguardo, infatti, all'aspettativa di definizione in tempi ragionevoli delle vertenze giudiziarie nella loro unitarietà e non delle singole domande che in esse siano proposte. L'ipotesi di riunione dei procedimenti va tenuta distinta dalle situazioni in cui ci si trova di fronte ad autonome e separate aspettative soggettive di definizione delle procedure. La Corte, con la sentenza Sez. 6-1, n. 15254 (Rv. 626793), est. Bisogni, ha sostenuto che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, poiché i fallimenti di una società in nome collettivo e del socio illimitatamente responsabile sono autonomi e pongono separate aspettative soggettive di definizione delle relative procedure concorsuali in tempi ragionevoli, il relativo danno va integralmente ristorato per ciascuna procedura.

4. La prova del danno.

In tema di equa riparazione, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell'obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostante particolari che ne evidenziano l'assenza nel caso concreto.

Al contrario, quando la parte lamenta un danno patrimoniale deve fornire una prova rigorosa. Infatti, la giurisprudenza di legittimità ritiene che il danno patrimoniale indennizzabile come conseguenza della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, è soltanto quello che costituisce "conseguenza immediata e diretta" del fatto causativo, in quanto sia collegabile al superamento del termine ragionevole e trovi appunto causa nel non ragionevole ritardo della definizione del processo presupposto.

Con la sentenza Sez. 6-2, n. 14775 (Rv. 626823), est. Carrato, si precisa che «In tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno patrimoniale, diversamente da quello non patrimoniale, deve essere oggetto di prova piena e rigorosa, occorrendo che ne siano specificati tutti gli estremi, fra l'altro variabili da caso a caso, ovvero che ne sia possibile l'individuazione sulla base del contesto complessivo dell'atto». Il principio rende attuale un indirizzo della Corte espresso nel 2007, con sentenza Sez. 1, n. 5213 (Rv. 599906), secondo cui la liquidazione del danno patrimoniale, a differenza di quella del danno non patrimoniale, è soggetta alle regole ordinarie in materia di onere probatorio, di cui all'art. 2697 cod. civ., con la conseguenza che grava sulla parte che agisce per il suo riconoscimento l'onere di dimostrare rigorosamente il danno lamentato.

5. Profili processuali.

Quanto ai profili processuali, il giudice di legittimità è intervenuto in molteplici, fondamentali occasioni.

5.1. La condizione di proponibilità della domanda.

Tra le questioni processuali esaminate dalla Corte, merita di essere menzionata quella relativa ai presupposti per la sussistenza della condizione di proponibilità della domanda. La Sez. 6-1, n. 841 (Rv. 625073), est. Di Palma, ai fini della condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione, prevista dall'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, si è pronunciata nel senso che, sussiste la pendenza del procedimento, nel cui ambito la violazione del termine di durata ragionevole si assume verificata, allorché sia stata emessa la relativa sentenza di primo grado e non sia ancora decorso il termine lungo per la proposizione dell'impugnazione. Spetta, comunque, all'amministrazione convenuta comprovare la tardività della domanda in relazione all'acquisito carattere di definitività del provvedimento conclusivo del giudizio nel quale si è verificata la violazione del termine ragionevole di durata, a seguito dello spirare, in conseguenza della notificazione, del termine di cui all'art. 325 cod. proc. civ.

Il principio è stato confermato dalla sentenza, Sez. 6-2, n. 22423 (Rv. 627766), est. Petitti, per cui è onere dell'amministrazione convenuta eccepire e provare la tardività della domanda, rispetto all'acquisito carattere di definitività del provvedimento conclusivo del giudizio nel quale si assume essersi verificata la violazione del termine di ragionevole durata.

5.2. Lo ius superveniens.

Di significativo rilievo, con riferimento alle conseguenze dello ius superveniens nel giudizio di equa riparazione, appare la sentenza Sez. 6-1, n. 15266 (Rv. 626923), est. Campanile, con cui la Corte ribadisce un principio espresso alcuni anni prima con la sentenza n. 24508 del 2006 (Rv. 593073), ed in particolare che il pregiudizio influente per l'attribuzione di equa riparazione è quello interamente e direttamente provocato dall'eccessivo protrarsi dell'attesa della risposta sulla domanda di giustizia e della definizione delle posizioni soggettive fatte valere in giudizio, «sicché non può includere i riflessi negativi dello ius superveniens, il quale regoli il rapporto sostanziale in termini meno favorevoli rispetto alla previgente disciplina, dato che tali riflessi dipendono dalla scelta del legislatore di introdurre innovazioni con immediata operatività nei procedimenti in corso, qualunque sia la ragione della loro persistente pendenza,e, alla luce dei canoni generali in tema di rapporto di causalità (art. 40 e 41 cod. pen.), trovano occasione, non causa o concausa, in tale pendenza».

5.3. Il dies a quo del giudizio presupposto.

Con sentenza Sez. 6-2, n. 21856 (Rv. 627824), est. Petitti, si è affermato il principio secondo il quale, ai fini della verifica circa l'osservanza della durata ragionevole, il dies a quo del giudizio presupposto è da rinvenire nel momento di deposito del ricorso, non già nel momento in cui viene svolta la prima udienza di trattazione. La Corte aveva già precisato l'assunto con sentenza Sez. 1, n. 5212 del 2007 (Rv. 599897), ove per la durata ragionevole si dava rilevanza proprio al momento in cui il giudizio aveva avuto inizio con la iscrizione a ruolo della causa, e non già a quello della prima udienza.

L'indirizzo è stato ribadito anche dalla Sez. 6-2, n. 15974 (Rv. 626995), est. Petitti, pur se con riferimento alla questione relativa alla possibilità per la parte di poter scegliere di esperire il rimedio predisposto dalla legge n. 89 del 2001 limitatamente ad una singola fase processuale, che si sia protratta oltre lo standard di durata ritenuta ragionevole. In linea generale, pur essendo possibile individuare degli standards di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest'ultimo sia stato articolato in vari gradi e e fasi, agli effetti dell'apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, occorre avere riguardo all'intero svolgimento del processo medesimo, dall'introduzione fino al momento della proposizione della domanda, dovendosi addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell'unico processo da considerare nella sua complessiva articolazione. Il principio espresso nella sentenza ora citata è stato così massimato da questo Ufficio: «In tema di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, pur essendo astrattamente possibile individuare gli standard di durata ragionevole per ogni fase e grado del processo, vale, comunque, il principio della unitarietà del procedimento. Ne consegue che, ai fini della determinazione dell'indennizzo spettante a chi abbia sofferto l'irragionevole durata del processo, il termine decorre dalla introduzione del giudizio presupposto fino alla proposizione della domanda di equa riparazione, non potendo la parte scegliere di esperire il rimedio predisposto dalla legge n. 89 del 2001 limitatamente ad una singola fase processuale che si sia protratta oltre lo standard di durata ritenuto ragionevole».

Aderisce a questo indirizzo anche Sez. 6-1, n. 14786 (Rv. 626839), est. Bisogni, secondo cui «In tema di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n.89, pur essendo possibile individuare degli "standard" di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest'ultimo sia stato articolato in vari gradi e fasi, agli effetti dell'apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art.6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, occorre avere riguardo all'intero svolgimento del processo medesimo, dall'introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell'unico processo da considerare nella sua complessiva articolazione. Ne consegue che non rientra nella disponibilità della parte riferire della sua domanda ad uno solo dei gradi del giudizio, optando per quello nell'ambito del quale si sia prodotta una protrazione oltre il limite della ragionevolezza».

Merita di essere segnalata anche la decisione della Sez. 6-1, n. 14725 (Rv. 626838), est. San Giorgio, che con riferimento al termine per la proposizione della domanda ha stabilito: «In tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui fa decorrere il termine semestrale per la domanda di equa riparazione dalla data di lettura del dispositivo della sentenza penale di cassazione, anziché dalla data di deposito della sentenza completa della sua motivazione, non essendo ravvisabile alcuna violazione dell'art. 117, primo comma , Cost., in correlazione all'art. 35, par. 1, della CEDU. L'art. 4 della legge n. 89 del 2001, nello stabilire che la domanda di equa riparazione deve essere proposta, a pensa di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta definitiva, fa, infatti, specifico riferimento alla decisione che conclude il procedimento e , cioè, a quella finale che, sulla base delle norme nazionali di riferimento, si identifica, nel caso della pronuncia che definisca un processo penale all'esito della trattazione in pubblica udienza innanzi alla S.C. , in quella pubblicata in udienza subito dopo la deliberazione, mediante lettura del dispositivo fatta dal presidente o da un consigliere da lui delegato ed è immutabile in quanto non ulteriormente impugnabile con i mezzi ordinari».

Con riferimento al giudizio di cassazione in materia civile, la sentenza Sez. 6-1, n. 4382 (Rv. 625449), est. Di Palma, la Corte si è espressa nel senso che il dies a quo, di cui all'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, coincide con la data di pubblicazione della sentenza, che reca in calce la data della deliberazione in camera di consiglio, non essendo prevista la lettura del dispositivo in udienza.

6. L'equa riparazione ed il giudizio amministrativo.

In relazione al giudizio di equa riparazione per irragionevole durata del procedimento amministrativo, Sez. 6-2, n. 3740 (Rv. 625253), est. Giusti, ha chiarito che, con riferimento ai giudizi pendenti alla data dal 16 settembre 2010, la presentazione dell'istanza di prelievo condiziona la proponibilità della domanda di indennizzo anche per il periodo anteriore alla presentazione medesima. La tempestiva proposizione dell'istanza di prelievo secondo alcuni potrebbe essere ritenuta espressione di interesse a ricorrere, mentre la Corte, con sentenza, Sez. L, n. 8124 (Rv. 625905), est. Amoroso, ha puntualizzato che «In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, va escluso che l'interesse alla decisione abbia carattere decrescente, quale base per una decrescente misura del risarcimento del danno, ove il ricorrente abbia presentato l'istanza di fissazione dell'udienza finalizzata ad evitare la perenzione del giudizio, solo contestualmente al ricorso per equa riparazione».

7. Le spese processuali.

Le novità introdotte dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, prevedono che in tema di equa riparazione è escluso ogni indennizzo in favore della parte soccombente condannata a norma dell'art. 96 cod. proc. civ., e nel caso di cui all'art. 91, primo comma, secondo periodo, del cod. proc. civ.

Con particolare riferimento alle spese processuali, «la mancata opposizione dell'Amministrazione alla domanda di equa riparazione rivolta nei suoi confronti non giustifica, di per sé, la compensazione delle corrispondenti spese processuali, allorché l'istante sia stato costretto ad adire il giudice per ottenere il riconoscimento del diritto» (Sez. 6-1, n. 23632, Rv. 628063, est. San Giorgio).

La stessa Sez. 6-1, con la sentenza n. 22763 (Rv. 628051), est. San Giorgio, ha precisato che «la mancata strutturazione del giudizio di equa riparazione in modo tale da consentire una fase conciliativa non può, di per sé, giustificare la compensazione, sia pure parziale, delle relative spese processuali, trattandosi di ragione che, fondata su di un auspicio de jure, non è certamente qualificabile come grave, né eccezionale».

8. Le ordinanze di rimessione alle Sezioni unite.

Con quattro distinte ordinanze (n. 1490, 1491, 1492 del 21 gennaio 2013, tutte rel. Scrima, e n. 5760 del 7 marzo 2013, rel. Petitti), la sezione Seconda di questa Corte, rilevando in materia orientamenti non omogenei della giurisprudenza di legittimità, ha rimesso le cause al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite, sottoponendo la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, «se, nel procedimento per il riconoscimento dell'equo indennizzo di cui alla L. n. 89 del 2001, nel caso in cui il ricorrente non abbia provveduto alla notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, il giudice possa concedere un nuovo termine per la notifica del ricorso, differendo in tal modo la data dell'udienza, ovvero se la mancata notifica del ricorso nel termine originario determini l'improcedibilità della domanda (o la definizione in rito del processo con altra formula) e, in tale ultimo caso, se tale conclusione sia conforme all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo».

In relazione al problema in disamina, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità nei procedimenti per equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo può dirsi omogeneo, nel senso della concedibilità alla parte di un nuovo termine per la notifica del ricorso non effettuata in precedenza. Tale principio è seguito in via prevalente anche con riferimento ai procedimenti camerali.

L'esame della giurisprudenza della Corte propende per la quasi esclusività, con riferimento al procedimento di equa riparazione dell'eccessiva durata del processo ed ai procedimenti camerali, dell'indirizzo che ammette la rinnovabilità della notifica omessa o per ragioni di carattere generale o, in alcune pronunce, in correlazione con l'assenza di un obbligo della cancelleria di comunicazione al ricorrente del decreto di fissazione dell'udienza. Un diverso indirizzo è emerso negli anni, non senza contrasti, nella materia del lavoro, con riferimento all'appello da un lato, ed all'opposizione a decreto ingiuntivo, dall'altro. Questo orientamento imposta la soluzione sulla praticabilità dell'art. 291 cod. proc. civ., della sanatoria con effetto ex tunc, rimane, quindi, limitato alle sole nullità della notificazione previste dall'art. 160 cod. proc. civ., imputabili all'ufficio, mentre tutto quanto attiene alla nullità radicale, all'inesistenza giuridica, all'omissione della notificazione ed alla violazione dei termini minimi a comparire resta disciplinato dall'art. 164 cod. proc. civ.; quest'ultima, quindi, è la regola ordinaria e fondamentale nel conflitto fra pretesa ad ottenere una decisione di merito e diritto alla conservazione di una situazione giuridica divenuta immodificabile. La questione è all'esame delle Sezioni unite.

Con l'ordinanza interlocutoria n. 21062 del 2012 la Sesta sezione civile della Suprema Corte lo scorso anno aveva posto in rilievo il contrasto giurisprudenziale emerso sulla questione relativa alla legittimazione dei singoli condomini ad agire in giudizio per far valere il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole del processo presupposto intentato dal condominio, in persona dell'amministratore, del quale i condomini stessi non erano stati parti.

Si registrava, infatti, un orientamento secondo il quale, partendo dal presupposto che il condominio è privo di personalità giuridica, in quanto unicamente ente di gestione delle cose comuni e che l'amministratore può agire in virtù della sola delibera assembleare anche non totalitaria a tutela della gestione delle stesse, mentre per quanto concerne i diritti che i condomini vantano unicamente uti singuli è necessario lo specifico mandato da parte di tutti i condomini, il diritto all'equo indennizzo per irragionevole durata del processo non spetta all'ente condominiale, ma ai singoli condomini. Il principio di diritto di esclusività della titolarità del diritto all'equa riparazione in capo ai condomini uti singuli era contrastato da altro indirizzo, che invece ammetteva la legittimazione del condominio ad agire in base alla legge n. 89 del 2001.

Con sentenza n. 25454 (Rv. 628056), est. D'Ascola, le Sezioni unite hanno enunciato il principio per cui le azioni a tutela della proprietà e del godimento della cosa comune possono essere promosse anche soltanto da uno dei comproprietari, senza che si renda necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini, quando l'attore non chieda che sia accertata con efficacia di giudicato la posizione degli altri comproprietari e il convenuto in revindica opponga un diniego volto soltanto a resistere alla domanda, senza svolgere domanda riconvenzionale e, quindi, senza mettere in discussione, con finalità di ampliare il tema del decidere e di ottenere una pronuncia avente efficacia di giudicato, la comproprietà degli altri soggetti.

Con ordinanza interlocutoria n. 10013, la Sez. 6-1, rel. Campanile, richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale spetta al minorenne (ovvero all'incapace) che abbia partecipato al giudizio mediante la necessaria rappresentanza genitoriale fino al momento della maggiore età, quando lo stesso acquisisce poi la facoltà di costituirsi autonomamente. Essa evidenzia il contrasto tra le sezioni della S.C. circa la riconoscibilità di un indennizzo, ai sensi della legge n. 89 del 2001, in favore della parte che lamenti la durata non ragionevole di un giudizio civile nel quale, essendovi stata ritualmente citata, sia rimasta contumace. Per tale ragione gli atti sono stati rimessi al Primo Presidente perché valutasse l'opportunità di assegnare il procedimento alle Sezioni unite, al fine della composizione dell'evidenziato contrasto sulla questione. Il denunciato contrasto si è creato in conseguenza della sentenza Sez. 2, n. 4474 (Rv. 625252), est. Carrato, secondo cui «il diritto all'indennizzo da durata irragionevole del processo, in relazione all'impianto complessivo della legge n. 89 del 2001 e la ratio da ritenersi sottesa alla stessa, presuppone che la parte abbia concretamente partecipato al giudizio presupposto, ovvero che non sia rimasta contumace per tutta la sua durata, poiché, qualora abbia assunto consapevolmente tale posizione, non può ritenersi che essa abbia acquisito la qualità di parte danneggiata in conseguenza della possibile durata irragionevole del processo».

Nel segnalare il contrasto, la citata ordinanza ha evidenziato, tuttavia, come il contumace, il quale innegabilmente riveste la qualità formale di parte del giudizio, ai sensi degli artt. 171, ultimo comma, 290 e 291 cod. proc. civ., risenta negativamente, anche sotto il profilo psicologico, rilevante ai fini della configurabilità del danno non patrimoniale, delle conseguenze della durata non ragionevole del procedimento. Da ciò la necessità di non discriminare, ai fini dell'applicazione della legge n. 89 del 2001, parte convenuta costituitasi nel giudizio presupposto e quella rimasta contumace. La questione è stata risolta da Sez. un., n. 585 del 2014, est. Bucciante, secondo cui la contumacia della parte non preclude in sé il riconoscimento del diritto all'equa riparazione.

L'ordinanza Sez. 6-1, n. 13863, rel. Di Palma, ha segnalato il contrasto di decisioni sulla questione se l'art. 2 della legge n. 89 del 2001 – stabilendo, con il richiamo dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, che ogni persona ha diritto a che la causa sia esaminata equamente, pubblicamente e ragionevolmente da un tribunale indipendente ed imparziale – faccia esclusivo riferimento all'esercizio della funzione giurisdizionale ed escluda perciò la possibilità di tenere conto anche del preventivo svolgimento di un procedimento amministrativo, oppure consenta di considerare la durata di tale procedimento amministrativo, a seconda del fatto che per esso sia normativamente previsto o no un termine di durata. Un indirizzo, infatti, nega la rilevanza, ai fini della violazione del termine di ragionevole durata del processo, del preventivo esperimento di una fase amministrativa, mentre un altro sostiene la computabilità ai medesimi fini della fase amministrativa necessaria precedente il giudizio, allorché l'esaurimento di tale fase sia condizione necessaria perché il giudizio possa aver luogo, e non sia all'uopo previsto alcun termine di durata (oggetto, perciò, di una preventiva valutazione di adeguatezza da parte del legislatore). La questione è attualmente all'esame delle Sezioni unite.

Con sette ordinanze di rimessione (ordinanze dalla n. 16820 alla n. 16826 del 2012), la Sesta sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni unite con riferimento alla seguente questione: «Alla luce, da un lato, della richiamata sentenza delle Sezioni unite n. 27365 del 2009 e, dall'altro, della richiamata giurisprudenza della Corte Edu e della Corte costituzionale, la questione, se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento dell'indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte di appello ai sensi dell'art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole dello stesso processo presupposto, merita, ad avviso del Collegio, di essere (nuovamente) sottoposta al vaglio delle Sezioni unite, quale questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell'art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., che, d'altro canto, la pronuncia delle Sezioni unite si rende vieppiù necessaria anche alla luce delle modifiche alla legge 24 maggio 2001, n. 89, introdotte dall'art. 55 del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134 (si veda, in particolare, l'art. 55, comma 1, lettera a)».

Come messo in evidenza dalle ordinanze di rimessione, la questione va esaminata tenendo conto del quadro normativo di riferimento, anche a seguito delle novità introdotte dall'art. 55 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134 (si veda in particolare, l'art. 55, comma 1, lettera a). È all'esame della Corte, quindi, la considerabilità unitaria delle due fasi di cognizione e di esecuzione, in ragione della premessa sostenuta dalla Corte di Strasburgo, secondo cui l'esecuzione è parte integrante di quel processo cui deve essere garantita l'equità, la pubblicità e la celerità, pertanto, dovrebbe essere consequenziale ritenere l'unità delle fasi di cognizione ed esecuzione ai fini della verifica della ragionevole durata del "processo" complessivamente inteso. Il rilevato contrasto è ancora sottoposto all'esame delle Sezioni unite.

  • immigrazione
  • ammissione di stranieri
  • diritto degli stranieri

CAPITOLO III

I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI

(di Francesco Buffa )

Sommario

1 I diritti civili dello straniero. - 2 L'ingresso dello straniero extracomunitario nel territorio nazionale. - 2.1 - 2.2 - 3 La protezione dello straniero. - 3.1 - 3.2 - 3.3 - 3.4 - 3.5 - 3.6 - 3.7

1. I diritti civili dello straniero.

Particolarmente significativa è la sentenza Sez. 2, n. 7210 (Rv. 625546), est. Giusti, secondo la quale anche per le relazioni negoziali sottratte ratione temporis all'applicazione del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (il cui art. 2, comma 2, prevede che «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano»), lo straniero, se titolare del permesso di soggiorno, è capace, in deroga al principio di reciprocità di cui all'art. 16 delle preleggi, di rendersi acquirente di un immobile da adibire ad abitazione o a sede della propria attività lavorativa, atteso che l'accesso alla proprietà di tale bene è favorita nei riguardi di "tutti" dall'art. 42, secondo comma, Cost., costituendo la stabilità e la sicurezza economica, che la proprietà personale del bene suddetto è in grado di assicurare, uno strumento di integrazione di ciascuno nella comunità nazionale. Ne consegue che il contratto preliminare diretto a tale acquisto non è nullo, a prescindere dalla verifica del trattamento di fatto riservato al cittadino italiano nell'ordinamento di appartenenza dello straniero contraente.

Osserva la decisione che il principio di reciprocità non riguarda qualsiasi diritto rivendicato dallo straniero. Sono esclusi dal suo ambito applicativo, in primo luogo, i diritti che la Costituzione repubblicana e le Carte internazionali attribuiscono ad ogni individuo per la sua stessa qualità di persona umana. I diritti inviolabili e le libertà fondamentali, infatti, hanno il predicato dell'indivisibilità, e spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umani (Corte cost., sentenza n. 105 del 2001): pertanto, proprio nella prospettiva dell'universalità della persona umana, chiunque, senza distinzione tra cittadino e straniero, e senza distinzione tra straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato e straniero privo di un titolo o di un permesso di soggiorno, ne è titolare.

Su questa base, e considerata la valenza di principio contenuta nell'art. 2, comma l, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina sull'immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero, approvato con il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (ai cui sensi «Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti»), la giurisprudenza di questa Corte - dando continuità e suggello ad orientamenti emersi presso i giudici di merito già prima della citata riforma legislativa del 1998 - ha chiarito che l'art. 16 delle preleggi sulla condizione di reciprocità è applicabile solo in relazione ai diritti non fondamentali della persona, dal momento che i diritti fondamentali, come quelli alla vita, all'incolumità ed alla salute, siccome riconosciuti dalla Costituzione, non possono essere limitati da tale articolo, con la conseguenza che la relativa tutela deve essere assicurata, senza alcuna disparità di trattamento, a tutte le persone, indipendentemente dalla cittadinanza (italiana, comunitaria ed extracomunitaria) (Sez. 3, n. 10504 del 2009, Rv. 608009).

In questa prospettiva, si è ulteriormente precisato che la citata disposizione, nella parte in cui subordina alla condizione di reciprocità l'esercizio dei diritti civili da parte dello straniero, pur essendo tuttora vigente, deve essere interpretata in modo costituzionalmente orientato, alla stregua dell'art. 2 Cost., che assicura tutela integrale ai diritti inviolabili, sicché allo straniero, sia o meno residente in Italia, è sempre consentito (a prescindere da qualsiasi condizione di reciprocità) domandare al giudice italiano il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale derivante dalla lesione, avvenuta in Italia, di diritti inviolabili della persona (quali il diritto alla salute e ai rapporti parentali o familiari), sia nei confronti del responsabile del danno, sia nei confronti degli altri soggetti che per la legge italiana siano tenuti a risponderne, ivi compreso l'assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli o il fondo di garanzia per le vittime della strada (Sez. 3, n. 450 del 2011, Rv. 616136).

Del resto, già nel 1988, le Sezioni unite di questa Corte avevano affermato (con la sentenza n. 2265, Rv. 458072) che, con riguardo alla prestazione lavorativa effettuata in Italia, il diritto del lavoratore straniero a norma dell'art. 36 Cost. alla retribuzione proporzionata al lavoro svolto ed adeguata ai bisogni personali e della sua famiglia, nonché il diritto al riposo e alle ferie, non trova deroga con riguardo al disposto dell'art. 16 delle preleggi.

Sulla condizione di reciprocità è intervenuta anche Sez. 3, n. 8212 (Rv. 625665), est. Barreca, secondo la quale l'art. 16 disp. prel. cod. civ., nella parte in cui subordina alla condizione di reciprocità l'esercizio dei diritti civili da parte dello straniero, pur essendo tuttora vigente deve essere interpretato in modo costituzionalmente orientato, alla stregua del principio enunciato dall'art. 2 Cost., che assicura tutela integrale ai diritti inviolabili della persona. Ne consegue che allo straniero è sempre consentito, a prescindere da qualsiasi condizione di reciprocità, domandare al giudice italiano il risarcimento del danno, patrimoniale e non, derivato dalla lesione di diritti inviolabili della persona (quali il diritto alla salute e ai rapporti parentali o familiari), ogniqualvolta il risarcimento dei danni - a prescindere dalla verificazione in Italia del loro fatto generatore - sia destinato ad essere disciplinato dalla legge nazionale italiana, in ragione dell'operatività dei criteri di collegamento che la rendono applicabile.

Con riguardo al diritto al nome, secondo Sez. 1, n. 17462 (Rv. 627442), est. San Giorgio, il cittadino extracomunitario che ha acquistato la cittadinanza italiana per naturalizzazione, senza perdere la cittadinanza straniera di origine, ha il diritto di portare anche in Italia il proprio doppio cognome. (Nella specie, trattasi di cittadino peruviano che aveva acquistato la cittadinanza italiana dopo aver risieduto oltre dieci anni in Italia, conservando la cittadinanza peruviana).

2. L'ingresso dello straniero extracomunitario nel territorio nazionale.

Diversi provvedimenti hanno riguardato tale questione.

2.1.

Con riferimento allo straniero in possesso di un permesso di soggiorno rilasciato da altro paese dell'Unione Europea, si è intanto chiarito (Sez. 6-1, ord. n. 23636, Rv. 628064, rel. De Chiara) che il combinato disposto degli artt. 5, primo comma, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e 21 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Shengen del 14 giugno 1985, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 30 settembre 1993, n. 388, consente allo straniero, che sia in possesso di un permesso di soggiorno rilasciato dalla competente autorità di un altro paese dell'Unione Europea, di circolare nel territorio italiano per un periodo non superiore a tre mesi - sempreché siano soddisfatte le condizioni d'ingresso di cui all'art. 15, par. 1, lett, a), c) ed e) della medesima Convenzione e non figuri nell'elenco nazionale delle persone segnalate - trascorso il quale deve recarsi immediatamente nel territorio di quel paese, altrimenti rivelandosene legittimo, ex art. 13, secondo comma, lett. b), del suddetto decreto legislativo e 6 della Direttiva n. 115/2008/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, qualora non sia ripreso da un altro Stato membro in virtù di accordi o intese bilaterali vigenti alla data di entrata in vigore di quest'ultima, il suo "rimpatrio", ossia l'espulsione, e non l'intimazione a raggiungere il paese europeo nel quale ha titolo per soggiornare.

2.2.

La giurisprudenza di legittimità ha prestato particolare attenzione al tema del ricongiungimento familiare, in relazione al quale si registrano diverse pronunce.

Le sezioni unite con la sentenza n. 21108 (Rv. 627475), est. Salmè, pronunciando ai sensi dell'art. 363 cod. proc. civ., hanno affermato che non può essere rifiutato il nulla osta all'ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell'interesse del minore cittadino extracomunitario, affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero, nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza con il cittadino italiano, ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito.

Già con le sentenze n. 21395 del 2005 (Rv. 586068) e soprattutto con la sentenza n. 7472 del 2008, Rv. 602591 (seguita da Cass. n. 18174 e 19734 del 2008, Rv. 604462 e n. 1908 del 2010, Rv. 611621) si era rilevato che la kafalah è istituto di diritto musulmano che - stante il divieto coranico dell'adozione (recepito in tutti gli ordinamenti di diritto musulmano con l'eccezione della Tunisia, della Somalia e dell'Indonesia) e in ossequio al precetto che fa obbligo a ogni buon musulmano di aiutare i bisognosi e in particolare gli orfani - consente a una coppia di coniugi, o anche a una persona singola, di custodire e assistere minori orfani o comunque abbandonati con l'impegno di mantenerli, educarli ed istruirli, come se fossero figli propri fino alla maggiore età, senza però che l'affidato entri a far parte giuridicamente della famiglia che lo accoglie e senza che all'affidatario siano conferiti poteri di rappresentanza o di tutela che rimangono attribuiti alle pubbliche autorità competenti. Ogni singolo Paese di area islamica ha disciplinato la kafalah in maniera più o meno dettagliata e diversificata, ma nella maggior parte delle legislazioni è prevista una dichiarazione di abbandono e l'accertamento dell'idoneità dell'aspirante affidatario e un provvedimento emesso all'esito di procedura giudiziaria (c.d. kafalah pubblicistica), anche se rimane anche la possibilità, nella pratica poco utilizzata, che l'affidamento in kafalah sia effetto di un accordo tra affidanti e affidatari, siglato davanti a un giudice o a un notaio, soggetto ad omologazione da parte di un'autorità giurisdizionale.

La richiamata pronuncia di quest'anno ricorda che, allo stato delle legislazioni nazionali dei paesi islamici la kafalah costituisce quindi una misura di protezione dei minori orfani o abbandonati e come tale è riconosciuta anche negli strumenti internazionali, ed in particolare nell'art. 20, della convenzione di New York sui diritti del fanciullo, sottoscritta il 20 novembre 1989 e resa esecutiva con las legge 27 maggio 1991, n. 1761, e nella convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996, sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione del minore, sottoscritta ma non ancora ratificata e resa esecutiva dall'Italia.

La Corte mantiene il filone interpretativo inaugurato dal menzionato gruppo di decisioni del 2008 (nn. 7472, 18174, 19734) seguite dalla sentenza n. 1908 del 2010, ove la Corte aveva affermato la possibilità di concedere il visto d'ingresso in Italia a minori di cittadinanza marocchina per ricongiungimento familiare con cittadini marocchini residenti regolarmente in Italia ai quali siano stati affidati con kafalah c.d. pubblicistica. In linea con tali decisioni, la sentenza su richiamata del 2013 offre una condivisibile interpretazione costituzionalmente orientata del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 29, così come risulta dalle successive modificazioni legislative, e realizza, nel conflitto tra l'esigenza di protezione dei minori e quella della tutela delle frontiere, un equo bilanciamento rispettoso della gerarchia di tali valori affermata in Costituzione, dando tendenzialmente la prevalenza alla protezione del minore straniero (Corte cost., n. 295 e n. 198 del 2003, che attribuiscono rilievo al "superiore interesse del minore", in materia di disciplina dell'immigrazione).

La sentenza, in particolare, tiene conto del fatto che, mentre ai pericoli di elusione della disciplina dell'immigrazione può comunque porsi rimedio attraverso i controlli interni previsti nel procedimento per la concessione del permesso di soggiorno per motivi familiari, la pregiudiziale esclusione del ricongiungimento familiare per i minori affidati in kafalah penalizzerebbe, con violazione del principio di eguaglianza, i minori provenienti dai paesi islamici per i quali tale istituto costituisce l'unica forma di protezione. E poiché, fuori dai casi di kafalah esclusivamente negoziale (in relazione alla quale l'assenza di controlli pubblici sull'idoneità dell'affidatario e sulle esigenze dell'affidamento fa rimanere margini di dubbio) tra la kafalah e l'affidamento di minori disciplinato dal diritto nazionale prevalgono sulle differenze i punti in comune, essendo entrambi strumenti di protezione dei minori, di durata temporanea (la kafalah, pur essendo revocabile, dura tendenzialmente fino al compimento della maggiore età), che non incidono sul loro stato civile è possibile estendere anche ai minori islamici affidati con provvedimenti di kafalah la disciplina del ricongiungimento familiare di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, art. 29, comma 2.

Interessanti, in ordine alla posizione del figlio dello straniero, le considerazioni di Sez. 6-1, ord. n. 15234 (Rv. 627113), rel. De Chiara, secondo cui, poiché lo stato di figlio, a norma dell'art. 33 della legge 31 maggio 1995, n. 218 di riforma del diritto internazionale privato, è determinato dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita, alla quale è demandato di regolare presupposti ed effetti del relativo accertamento, in tema di disciplina dell'immigrazione non può essere rigettata la richiesta dei genitori del visto di ingresso per il ricongiungimento familiare con il loro figlio, per il solo fatto che l'ordinamento del Paese di origine (nella specie, il Ghana) non preveda un termine per denunciare la nascita, situazione che non viola, inoltre, il limite dell'ordine pubblico ex art. 16 della legge citata, dato che anche l'ordinamento italiano prevede la dichiarazione di nascita tardiva.

Con riferimento, invece, al ricongiungimento del coniuge, Sez. 6-1, ord., n. 4984 (Rv. 625691), rel. Acierno, ha precisato che il divieto stabilito dall'art. 29, comma 1 ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 con riguardo alle richieste proposte a favore del coniuge di un cittadino straniero, già regolarmente soggiornante con altro coniuge in Italia, opera oggettivamente, a prescindere dalle qualità soggettive del richiedente, mirando ad evitare l'insorgenza nel nostro ordinamento di una condizione di poligamia, contraria all'ordine pubblico anche costituzionale. (Nella specie, la richiesta era stata avanzata dal figlio a favore della propria madre, il cui coniuge, già soggiornante in Italia, aveva precedentemente proposto analoga istanza a favore di un'altra moglie; in applicazione dell'anzidetto principio la S.C. ha accolto il ricorso, escludendo la necessità di provare che il figlio avesse agito per conto del padre).

In linea generale, poi, e con riferimento alla efficacia nel tempo delle disposizioni che incidono sul diritto al ricongiungimento, Sez. 6-1, ord. n. 22307 (Rv. 627926), rel. Macioce, ha ritenuto che il procedimento di riconoscimento del diritto al ricongiungimento del familiare dello straniero, regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, ha natura complessa a formazione progressiva: ne consegue l'immediata applicabilità dello jus superveniens intervenuto nel corso della procedura, dopo il nulla osta dello Sportello Unico, ma prima della decisione dell'Autorità consolare sul visto d'ingresso, dovendo l'accertamento dei requisiti del diritto essere valutato alla stregua dei parametri normativi vigenti all'esito dell'iter procedimentale. (In applicazione di tale principio, la S.C., riformando la decisione del giudice di merito, ha respinto l'opposizione avverso il diniego del visto, fondato sull'ultima formulazione dell'art. 29, primo comma, lett. c), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che condiziona il diritto al ricongiungimento alla inesistenza di altri figli nel paese oppure, ma per i soli genitori ultrasessantacinquenni, alla inidoneità al loro sostentamento da parte di altri figli per documentate gravi ragioni di salute).

Con riguardo al familiare extracomunitario di cittadino italiano o comunitario, Sez. 1, n. 12071 (Rv. 626265), est. Acierno, ha ricordato che la verifica della pericolosità sociale costituisce una condizione ostativa del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari richiesto dal familiare straniero di cittadino italiano o dell'Unione Europea; l'assenza di tale ostacolo deve, pertanto, essere valutata dall'autorità competente per il rilascio del titolo, ovvero per il mantenimento di quello preesistente, ma non per procedere automaticamente all'allontanamento in violazione dei criteri di attribuzione di tale specifica funzione previsti dalla norma.

Interessanti precisazioni in ordine all'impugnazione della sentenza declinatoria della giurisdizione vengono poi dalle Sezioni unite con la sentenza n. 26580 (in corso di massimazione), est. Macioce, secondo la quale la detta pronuncia è appellabile (e non direttamente ricorribile in cassazione), ai sensi degli artt. 702 ter e 702 quater cod. proc. civ., in esito al rito sommario di cognizione, previsto in sede di modifica dell'art. 30, comma 6, del T.U. immigrazione, operata dal d.lgs. n. 150 del 2001.

3. La protezione dello straniero.

Anche questa materia ha interessato la giurisprudenza di legittimità dell'anno in diverse occasioni.

3.1.

In linea generale, si è rilevato che l'esame sulla sussistenza delle condizioni soggettive ed oggettive per ottenere una misura tipica od atipica di protezione internazionale deve essere fondato sull'accertamento della situazione attuale ed aggiornata, riferito al momento della decisione, consentendo l'art. 4 del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 che la domanda di protezione internazionale possa essere motivata anche da avvenimenti verificatesi dopo la partenza del richiedente, quando sia accertato che le attività addotte costituiscano l'espressione e la continuazione di convinzioni ed orientamenti già manifestati nel paese d'origine. Ne consegue che l'esame di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007 deve essere condotto alla luce della situazione attuale e che le informazioni da richiedersi al Ministero degli Esteri ex art. 8, comma 2, del d.lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, devono essere aggiornate (Sez. 6-1, ord. n. 13172, Rv. 626715, rel. Acierno).

3.2.

È stato affermato in tema (Sez. 6-1, ord. n. 21667, Rv. 627979, rel. Acierno), che l'espulsione coatta dello straniero costituisce violazione dell'art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura, ogni qualvolta egli, a causa del pericolo di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti che lo minaccino, non possa restare nello stesso e debba, pertanto, indirizzarsi verso altro Paese che lo possa ospitare. Ne consegue che sono irrilevanti sia la gravità del reato al quale lo straniero sia stato condannato (nella specie, associazione con finalità terroristica ex art. 270 bis cod. pen.), sia la circostanza che egli non voglia rivelare il luogo della sua dimora in pendenza del procedimento, non potendo il riconoscimento della protezione internazionale fondarsi sul rispetto di un presunto vincolo fiduciario con lo Stato, né esistendo alcun obbligo di collaborazione o reciprocità a carico del richiedente asilo.

La sentenza ha ricordato che Corte EDU ha più volte avuto modo di sottolineare che l'espulsione coatta dello straniero da parte di uno stato membro verso lo stato di appartenenza costituisce violazione dell'art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura, ove sia verosimile che il soggetto espulso sia sottoposto in quel paese a trattamenti contrari all'art. 3 CEDU; si è ribadito, tra l'altro, che è ininfluente il tipo di reato di cui è ritenuto responsabile il soggetto da espellere, poiché dal carattere assoluto del principio affermato dall'art. 3, deriva l'impossibilità di operare un bilanciamento tra il rischio di maltrattamenti e il motivo invocato per l'espulsione (vengono richiamate in sentenza, ex multis, Corte EDU causa Saadi c. Italia, sent. 28 febbraio 2008, ric. n. 37021 del 2006; causa Abdelhedi c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 2638 del 2007; causa Ben Salah c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 38128 del 2006; causa Bouyahia c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 46792 del 2006; causa Darraji c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 11549 del 2005; causa Hamraoui c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 16201 del 2007; causa O.c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 37257 del 2006; causa Soltana c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 44006 del 2006; causa Sellem c. Italia, sent. 5 maggio 2009, ric. n. 12584 del 2008; causa Ben Khemais c. Italia, sent. 24 febbraio 2009, ric. n. 246 del 2007; causa Marinai c. Italia, sent. 27 marzo 2010, ric. n. 9961 del 2010; causa Adel Ben Slimen c. Italia, sent. 19 giugno 2012, ric. n. 38435 del 2010).

In tale contesto giurisprudenziale internazionale, si è inserita nel dialogo multilevel tra le Corti la sentenza del giudice di legittimità italiano sopra richiamata, che ha ribadito che la concessione della misura in discorso non può essere ancorata all'ulteriore presupposto della reperibilità dell'immigrato, elemento che esula dai requisiti richiesti dalla legge per il riconoscimento della protezione internazionale: ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o del diritto di asilo o del permesso per motivi umanitari, infatti, il giudice è esclusivamente tenuto a valutare l'esistenza della circostanza che il cittadino di un determinato Paese, a causa delle persecuzioni o dei pericoli che lo minacciano, non possa restare nello stesso e debba indirizzarsi verso altro Paese che lo possa ospitare (v., in precedenza, Sez. 6-1, n. 10375 del 2012, Rv. 623096).

Nessuna rilevanza può avere il fatto che il cittadino straniero non voglia rivelare il luogo in cui dimora, in pendenza del procedimento, né tantomeno il riconoscimento della protezione internazionale può fondarsi sul rispetto di un presunto vincolo fiduciario tra Stato e cittadino straniero, facendosi discendere dalla sua inosservanza il diniego della protezione internazionale richiesta, non sussistendo alcun obbligo di collaborazione o reciprocità a carico del richiedente asilo. Peraltro, deve essere precisato che i procedimenti riguardanti il riconoscimento delle misure di protezione internazionale appartengono alla giurisdizione civile e si collocano all'interno dei modelli processuali propri dei giudizi civili.

3.3.

Diverse ordinanze della Sez. 6-1 hanno dettato precise indicazioni in ordine alla valutazione dell'esigenza di protezione, con riferimento alla presentazione della domanda, alla reiterazione della stessa ed alla revoca della misura:

- ord., n. 8282 (Rv. 625812), rel. Acierno, ha sottolineato che la valutazione di affidabilità del dichiarante alla luce dell'art. 3, comma 5, del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, è vincolata ai criteri indicati dalla lettera a) e d) e deve essere compiuta in modo unitario (lettera e), tenendo conto dei riscontri oggettivi e del rispetto delle condizioni soggettive di credibilità contenute nella norma, non potendo lo scrutinio finale essere fondato sull'esclusiva rilevanza di un elemento isolato, specie se si tratta di una mera discordanza cronologica sulla indicazione temporale di un fatto e non sul suo mancato accadimento;

- ord., n. 5089 (Rv. 625232), rel. De Chiara, ha affermato il principio secondo il quale, i "nuovi elementi", alla cui allegazione l'art. 29, lett. b), del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 subordina l'ammissibilità della reiterazione della domanda di riconoscimento della tutela, possono consistere, oltre che in nuovi fatti di persecuzione o comunque costitutivi del diritto alla protezione stessa, successivi al rigetto della prima domanda da parte della competente commissione, anche in nuove prove dei fatti costitutivi del diritto, purché il richiedente non abbia potuto, senza sua colpa, produrle in precedenza innanzi alla commissione in sede amministrativa, né davanti al giudice introducendo il procedimento giurisdizionale di cui all'art. 35 del d.lgs. citato;

- ord., n. 15758 (Rv. 627176), rel. Acierno, ha precisato che il parametro normativo indicato dall'art. 16, primo comma, lett. b) del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, secondo cui la revoca della protezione sussidiaria dello straniero può essere disposta nell'ipotesi in cui sia stato commesso un reato "grave", non specifica in modo tassativo le ipotesi di "gravità" della condotta, limitandosi a fornire un indice da cui desumere i minimi ed i massimi edittali della pena. Ne consegue che nel procedimento di revoca dello status di protezione sussidiaria è necessario che l'indice di gravità sia commisurato all'esame del caso concreto in ragione dei fatti criminosi commessi dallo straniero e dalla loro pericolosità.

L'ordinanza n. 15758 (Rv. 627177), rel. Acierno, ha, in tema di revoca, ricordato che, ai sensi dell'art. 10, quarto comma, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, l'obbligo di traduzione degli atti relativi ad una domanda di protezione internazionale è esteso, in virtù di una interpretazione costituzionalmente orientata, anche al procedimento di revoca (e conseguentemente all'opposizione ad essa) e sorge con l'avviso di procedimento ex art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto adempimento obbligato ex art. 18 del citato decreto legislativo.

3.4.

Con riferimento ai respingimenti, Sez. Un., n. 15115 (Rv. 626850), est. Macioce, ha affermato che spetta al giudice ordinario, in mancanza di norma derogatrice al criterio generale, la cognizione dell'impugnazione dei respingimenti, incidendo il relativo provvedimento su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo, in quanto rivolto, senza margini di ponderazione di interessi in gioco da parte dell'Amministrazione, all'accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge ed a quello negativo della insussistenza dei presupposti per l'applicazione delle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale.

3.5.

In tema di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, Sez. 6-1, ord. n. 5080, se ha affermato (Rv. 625365), rel. Acierno che la necessità di dare comunicazione all'interessato dell'inizio del procedimento amministrativo, ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge 7 agosto 1990, n. 241, non si estende alla procedura di espulsione dello straniero, ha pure ritenuto (Rv. 625366) che non può ricavarsi, dal complessivo sistema normativo che regola la circolazione e la permanenza degli stranieri nel nostro territorio, un diritto inderogabile a non essere allontanati in pendenza di qualsiasi accertamento valutativo dell'esistenza di un titolo idoneo al soggiorno. Infatti, non attribuiscono tale diritto i procedimenti giurisdizionali, pendenti davanti al giudice ordinario o amministrativo, relativi al riesame di un diniego o revoca di una richiesta di permesso di soggiorno - salvo, sia pure entro certi limiti, le domande di protezione internazionali - nonché le istanze - quali quelle ex art. 31, comma 3, legge n. 286 del 1998 a causa della pendenza, sopravvenuta al provvedimento espulsivo, di un giudizio volto ad accertare l'esistenza delle condizioni per una misura temporanea di coesione familiare - necessariamente derivanti da una presenza irregolare, specie se successive al provvedimento espulsivo; possono invece giustificare la caducazione del provvedimento espulsivo le preesistenti richieste di permesso di soggiorno o di suo rinnovo, pendenti in via amministrativa al momento dell'adozione dell'espulsione.

In materia è intervenuta anche la Sezione Lavoro di questa Corte, che con la sentenza n. 23704 del 2013 (in corso di massimazione), est. Bandini, ha affermato che, in tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero disposto, quale misura di sicurezza, dal giudice penale non è - salvo che non ne sia stata disposta l'applicazione provvisoria - immediatamente operativo, presupponendo il successivo intervento del magistrato di sorveglianza e, in caso di impugnazione delle determinazioni di quest'ultimo, del tribunale di sorveglianza. Ne consegue che l'ordine di espulsione disposto con sentenza non produce, di per sé, la condizione soggettiva di straniero espulso, né comporta il rifiuto del rinnovo o la revoca del permesso di soggiorno. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C., con riguardo a vicenda soggetta alla previsione di cui all'art. 22 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 268, nel testo antecedente al d.lgs. 30 luglio 2002, n. 189, ha corretto la decisione di merito che, senza considerare che era già intervenuto un autonomo diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, aveva ritenuto l'ordine di espulsione contenuto nella sentenza penale la ragione dell'insorgere del divieto di occupazione del lavoratore e, dunque, di cessazione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione).

In tema, va altresì ricordata Sez. 6-1, ord. n. 11466 (Rv. 626614), rel. Acierno, secondo la quale la cognizione di merito del giudice di pace ha ad oggetto l'accertamento, in concreto, delle condizioni necessariamente predeterminate dalla legge - nella specie l'accertamento della pericolosità sociale dell'espellendo - sulla base delle quali è stata disposta la misura, non determinando il carattere vincolato e non discrezionale dell'esercizio della potestà amministrativa alcuna limitazione a tale cognizione. Ne consegue che lo straniero può essere espulso - in relazione alla previsione di cui all'art. 13, comma 2, lett. c), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 - soltanto se appartiene a taluna delle categorie indicate nell'art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall'art. 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, ovvero nell'art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646.

3.6.

Due pronunce dell'anno si sono poi soffermate sull'emersione di lavoro irregolare dell'extracomunitario e sul suo impatto in ordine all'espulsione dello stesso.

Sez. 6-1, ord. n. 5254 (Rv. 625363), rel. Acierno, secondo la quale, in presenza della prospettazione, da parte dell'espulso ricorrente avverso il decreto del prefetto, della pendenza della procedura di emersione di lavoro irregolare, al giudice spetta solo accertare la data e la certezza dell'inoltro della dichiarazione prevista dal d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito in legge 3 agosto 2009, n. 102, e non anche di compiere una prognosi sull'esito della domanda di sanatoria; infatti in pendenza della procedura di emersione manca temporaneamente all'autorità amministrativa il potere di adottare il decreto di espulsione.

Sez. 6-1, ord. n. 12276 (Rv. 626651), rel. Macioce, secondo cui è invalida l'espulsione adottata nei confronti dell'extracomunitario nel caso in cui l'archiviazione della procedura di emersione del lavoro irregolare di cui al d.l. 1 luglio 2009, n. 178, convertito con modificazioni nella legge 3 agosto 2009, n. 102, non gli sia stata comunicata, non essendo equipollente alla conclusione negativa della procedura di legalizzazione, questa, infatti, non può realizzarsi per facta concludentia, ma necessariamente tramite un atto scritto formalmente comunicato al richiedente.

3.7.

In ordine ai limiti all'espellibilità dello straniero, assolutamente meritevole di segnalazione è l'ordinanza Sez. 6-1, n. 22305 (Rv. 627927), rel. Macioce, che ha ricordato che la causa di esclusione della espulsione prevista dall'art. 19, secondo comma, lett. d), del d.lgs. n. 286 del 1998, nella formulazione risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 376 del 2000, consistente nella sussistenza di un rapporto di coniugio e di convivenza dell'espellendo con una donna in stato di gravidanza, opera a condizione che tale rapporto trovi riconoscimento nell'ordinamento giuridico dello Stato di appartenenza dello straniero, ponendosi invero una diversa interpretazione, irragionevolmente estensiva della previsione, in contrasto con l'interesse nazionale al controllo dell'immigrazione. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato il decreto con il quale era stata accolta la impugnazione del decreto di espulsione di un extracomunitario coniugato con rito "rom", e convivente, con una donna in stato di gravidanza, non potendosi attribuire rilevanza giuridica in questo o quell'ordinamento statuale al matrimonio "rom", neppure come unione di fatto regolata).

Quanto al giudizio sull'espulsione, Sez. 6-1, ord. n. 12273 (Rv. 626680), rel. De Chiara, ha ricordato in linea generale che il giudizio avente ad oggetto un atto di diniego di revoca dell'espulsione, così come quello di espulsione, ha per oggetto il rapporto e non l'atto in sé, venendo in considerazione la pretesa espulsiva dello Stato piuttosto che la regolarità formale del provvedimento che la realizza. Ne consegue che i vizi formali (nella specie, difetto di delega del funzionario che ha sottoscritto l'atto, difetto di attestazione di conformità della copia consegnata in sede di notifica, difetto della necessaria traduzione) sono rilevanti se riferiti al decreto di espulsione incidendo in senso negativo sul diritto sostanziale dell'interessato, mentre sono irrilevanti se ineriscono l'atto di diniego di revoca dell'espulsione, in quanto il mero annullamento giudiziale non modificherebbe in nulla la situazione giuridica sostanziale dell'interessato.

Con riferimento ai vizi formali del provvedimento sull'espulsione, Sez. 6-1, ord. n. 15232 (Rv. 626880), rel. De Chiara, ha affermato che l'errore nell'indicazione delle generalità del destinatario del provvedimento di espulsione, ove non sia contestata l'identità del destinatario stesso, bensì solo la corretta trascrizione del suo nome, non comporta la nullità del provvedimento, ma la semplice rettificabilità dell'errore materiale; Sez. 6-1, ord., n. 22104 (Rv. 627950), rel. Macioce, ha poi rilevato che è valido il decreto di espulsione ex art. 13, secondo comma, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che abbia omesso il nomen iuris della specifica ipotesi di espulsione, purché essa possa ricavarsi dalla descrizione del fatto contenuta nel decreto (nella specie, il decreto rilevava la presenza irregolare sul territorio dello straniero in quanto privo di valido documento identificativo); Sez. 6-1, ord. n. 6800 (Rv. 625624), rel. Acierno, ha ritenuto che, stante il principio secondo cui la nullità degli atti processuali non può pronunciarsi in mancanza di espressa previsione normativa, l'inosservanza del termine di venti giorni stabilito dall'art. 13, comma 8, del d.lgs. n. 286 del 1998 per il deposito del provvedimento con cui il tribunale decide l'opposizione avverso il decreto prefettizio di espulsione dello straniero, non dà luogo a nullità del provvedimento medesimo, configurandosi al riguardo un dovere di comportamento imposto al giudice, la cui violazione può assumere rilevanza solo sul piano disciplinare.

In ordine alle modalità di espulsione, per Sez. 6-1, ord. n. 6801 (Rv. 625626), rel. Acierno, il cittadino straniero espulso con provvedimento negativo del tribunale seguito alla domanda di protezione internazionale, deve essere rimpatriato con modalità che - in mancanza di specifico riscontro normativo, atteso che l'art. 32, comma 4, del d.lgs. 25 luglio 1998, regola esclusivamente l'ipotesi del rigetto da parte della Commissione territoriale e il successivo art. 34 si limita a precisare che l'eventuale impugnazione della pronuncia di primo grado non ha effetto sospensivo ope legis - devono essere mutuate dalla diretta applicazione della direttiva n. 115/2008/CE, incentrata sulla previsione in linea generale del sistema del rimpatrio fondato sull'intimazione con termine per lasciare il territorio italiano e solo in via eccezionale, ove ne ricorrano le condizioni (il pericolo di fuga), l'accompagnamento coattivo.

Interessante è in tema anche Sez. 6-1, ord. n. 11451 (Rv. 626259), rel. Acierno, che ha precisato come il trattenimento dello straniero, che non possa essere allontanato coattivamente contestualmente all'espulsione, costituisca una misura di privazione della libertà personale, legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata, l'autorità amministrativa è, pertanto, priva di qualsiasi potere discrezionale in virtù del rango costituzionale e della natura inviolabile del diritto inciso, la cui conformazione e concreta limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge prevista dall'art. 13 della Costituzione, così come anche il controllo giurisdizionale deve estrinsecarsi nei medesimi limiti, non potendosi estendere, in mancanza di una espressa previsione di legge, nell'autorizzazione di proroghe non rigidamente ancorate a limiti temporali legislativamente imposti; ne consegue che il limite normativo per ciascuna frazione temporale non può essere oltrepassato neanche quando ciò rientri nel limite finale complessivo, risolvendosi l'eventuale violazione nella nullità integrale del provvedimento adottato.

Ricorrendo le condizioni di legge per il trattenimento, invece, il decreto di proroga per un mese del trattenimento presso il locale centro di identificazione ed espulsione di cittadino straniero può essere pronunciato all'esito dell'udienza con l'assistenza, in funzione di interprete, di un altro ospite del centro, poiché a tale provvedimento di natura giurisdizionale non si applica la previsione della necessaria traduzione nella lingua conosciuta dallo straniero, ai sensi dell'art. 13, comma sette, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, riferita al provvedimento di espulsione amministrativa (Sez. 6-1, ord. n. 727, Rv. 625420, rel. De Chiara).

Da ultimo, in tema, va ricordato che il decreto del G.O.T. che dispone la proroga per un mese del trattenimento di uno straniero presso il locale centro di identificazione ed espulsione non violando l'art. 43-bis del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (introdotto dall'art. 10 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51) che disciplina le attività delegabili ai giudici onorari, non è affetto da nullità, per la ragione (indicata da Sez. 6-1, ord., n. 727, Rv. 625421, rel. De Chiara), che le circolari con le quali il Consiglio Superiore della Magistratura disciplina gli incarichi che possono essere affidati ai giudici onorari del tribunale, in quanto fonti normative di secondo grado, non possono introdurre ipotesi di nullità processuali non previste dalla legge.

  • matrimonio
  • separazione legale
  • divorzio
  • diritto di famiglia
  • figlio naturale

CAPITOLO IV

LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI

(di Annamaria Fasano )

Sommario

1 La crisi del matrimonio e l'addebito. - 1.1 L'assegno di mantenimento. - 1.2 Gli effetti della riconciliazione. - 2 Gli accordi in vista del divorzio. - 3 I figli nati fuori dal matrimonio. - 4 La casa familiare. - 4.1 Casa di abitazione comune e convivenza more uxorio. - 5 L'affidamento della prole. - 6 Il mantenimento della prole. - 7 Il mantenimento dei figli maggiorenni. - 8 Questioni processuali. - 9 Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio: effetti. - 10 Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e inabilitazione.

1. La crisi del matrimonio e l'addebito.

Un rapporto matrimoniale registra percorsi imprevedibili che rimangono latenti lungo l'intero arco del matrimonio, per poi manifestarsi al momento della crisi ed esplodere con richieste di addebito della separazione. Infatti, aspetto peculiare della separazione giudiziale è quello dato dalla possibilità per uno dei coniugi di richiedere al tribunale adìto l'addebito della separazione all'altro coniuge, affinché venga dichiarato l'unico responsabile del fallimento del rapporto coniugale.

Con riferimento alla dichiarazione di addebito, la Corte, con la sentenza Sez. 1, n. 10719 (Rv. 626445), est. Acierno, ha tenuto a precisare che «il volontario abbandono del domicilio coniugale è causa di per sé sufficiente di addebito della separazione, in quanto porta all'impossibilità della convivenza, salvo che si provi, e l'onere incombe su chi ha posto in essere l'abbandono, che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata ed in conseguenza di tale fatto; tale prova è più rigorosa nell'ipotesi in cui l'allontamento riguardi pure i figli, dovendosi specificamente ed adeguatamente dimostrare, anche riguardo ad essi, la situazione d'intollerabilità».

1.1. L'assegno di mantenimento.

Il legislatore ha previsto varie forme di contribuzione economica destinate a valere tra i coniugi per il tempo della crisi familiare.

Le cause giustificatrici di tale contribuzione sono lo stato di bisogno per l'obbligo alimentare, rispetto all'inadeguatezza dei redditi del coniuge richiedente l'assegno di mantenimento e di divorzio. Orbene, la Corte, con sentenza Sez. 1, n. 18539 (Rv. 627463), est. Mercolino, ha stabilito che, nel giudizio di divorzio, il riconoscimento dell'assegno non è precluso né dall'autosufficienza economica del richiedente, occorrendo soltanto che quest'ultimo non disponga di mezzi adeguati alla conservazione del precedente standard di vita, né dall'addebito della separazione, che può incidere soltanto sulla misura dell'assegno, per effetto della valutazione demandata al giudice di merito in ordine alle cause del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi.

In linea con questo indirizzo è la sentenza Sez. 1, n. 23442 (Rv. 628121), est. Bisogni, la quale ha chiarito che: «In tema di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella disciplina dettata dall'art. 5 della legge 1° dicembre 1978, n. 898, come modificato dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l'assegno di divorzio deve essere rapportato al tenore di vita goduto durante il matrimonio, che è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, e non già allo stile di vita concretamente condotto in base a scelte di rigore caratterizzate da self- restrainment». La Corte si era pronunciata in questi termini già nel 2005, con sentenza Sez. 1, n. 10210 (Rv. 580816), sostenendo, infatti, che il tenore di vita durante il matrimonio, cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l'assegno di divorzio, era quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall'ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali, e non già quello tollerato o subìto od anche concordato con l'adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui.

In sostanza, «l'accertamento del diritto all'assegno divorzile va effettuato verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base delle aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall'ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità matrimoniali, laddove anche l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi» (Sez. 1, n. 11686, Rv. 626264, est. Campanile).

La breve durata del matrimonio potrebbe porsi quale causa ostativa della concessione dell'assegno di divorzio. Dalla casistica della materia emerge come l'elemento della durata del rapporto coniugale acquisti spessore con riferiemento all'instaurarsi di una effettiva comunione materiale e spirituale tra i coniugi, quale contenuto essenziale dell'unione, sicché, in difetto, deve essere negato al coniuge richiedente l'assegno divorzile. La Corte, con sentenza Sez. 1, n. 15486 (Rv. 627020), est. Bisogni, ha precisato che «in tema di determinazione dell'assegno di mantenimento, nei casi di assoluta brevità della convivenza che non consentono di ricorrere al riscontro di altri comportamenti abituali dei coniugi, l'elemento costituito dalla consistenza patrimoniale, dall'ammontare dei redditi dei coniugi e della loro presumibile imputazione di spesa, assume un rilievo centrale nella determinare il tenore di vita della coppia».

Aderisce a questa impostazione Sez. 1, n. 7295 (Rv. 625722), est. Ragonesi, secondo cui in materia di divorzio, la durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell'assegno previsto dall'art. 5 della legge n. 898 del 1970, ma non anche, salvo casi eccezionali in cui non si sia verificata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi, sul riconoscimento dell'assegno stesso, assolvendo quest'ultimo ad una finalità di tutela del coniuge economicamente più debole.

Non hanno rilievo, con riferimento alla determinazione dell'assegno di mantenimento, le successive scelte di vita del coniuge, effettuate anche in ragione di motivazioni religiose o di preferenza di un particolare stile di vita. A tale proposito, la decisione Sez. 1, n. 18538 (Rv. 628042), est. San Giorgio, chiarisce che in tema di separazione personale tra coniugi, le opzioni culturali e spirituali del richiedente l'assegno di mantenimento, quali le considerazioni relative allo stile di vita, non possono costituire legittima ragione di discriminazione del contributo attraverso la negazione del suo diritto a conseguirlo, pur in assenza dei prescritti requisiti. Con riferimento al caso di specie, la Corte di merito aveva negato alla ricorrente l'assegno di mantenimento richiesto, in quanto la stessa era costretta ad un tenore di vita inferiore a quello goduto in costanza di matrimonio, per aver intrapreso una relazione con un altro uomo, adottando un nuovo genere di esistenza che era frutto di una libera e consapevole scelta della stessa per proprie nuove opzioni culturali e spirituali.

1.2. Gli effetti della riconciliazione.

Lo stato di separazione tra coniugi non ha carattere irreversibile poiché essi, in qualsiasi momento, possono optare per la riconciliazione. Per quanto riguarda la riconciliazione in pendenza del giudizio di separazione si discute se essa comporti, oltre che effetti processuali, cioè l'abbandono della domanda giudiziale proposta, anche effetti sostanziali consistenti nell'estinzione del diritto di chiedere nuovamente la separazione sulla base dei medesimi fatti e ragioni fatte valere nel giudizio dichiarato estinto. La sentenza Sez. 3, n. 19541 (Rv. 627594), est. Carleo, ha stabilito che «la riconciliazione successiva al provvedimento di omologazione della separazione consensuale, ai sensi dell'art. 157 cod. civ., determina la cessazione degli effetti della precedente separazione, con caducazione del provvedimento di omologazione, a far data dal ripristino della convivenza spirituale e materiale, propria della vita coniugale. Ne consegue che, in caso di successiva separazione, occorre una nuova regolamentazione dei rapporti economico-patrimoniale dei coniugi stessi, che tenga conto delle eventuali sopravvenienze e, quindi, anche delle disponibilità da loro acquisite per effetto della precedente separazione».

2. Gli accordi in vista del divorzio.

I nubendi possono accordarsi per definire i contenuti economici dei loro rapporti patrimoniali in caso di fallimento del matrimonio. Secondo un indirizzo sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, è valido l'impegno negoziale assunto dai nubendi in caso di fallimento del matrimonio, potendo gli stessi stipulare contratti atipici sottoposti a condizione sospensiva lecita, espressione di autonomia negoziale diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell'art. 1322 cod. civ. Il fallimento del matrimonio non sarebbe una causa genetica dell'accordo, ma mero evento condizionale.

A tale proposito, si segnala la sentenza Sez. 3, n. 19304 (Rv. 627597), est. Cirillo, secondo cui è valido il mutuo tra coniugi nel quale l'obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell'evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell'art. 1354, primo comma, cod. civ.

3. I figli nati fuori dal matrimonio.

In tema di filiazione naturale, il legislatore è recentemente intervenuto con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 (disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali), con cui è stato affermato il principio di uguaglianza giuridica di tutti i figli, a prescindere dalla loro nascita dentro e fuori dal rapporto matrimoniale. Tra le principali modifiche, apportate al codice civile dall'art. 1 della legge delega, si segnalano le seguenti: modifica della disciplina della parentela (art. 74 cod. civ.), così da specificare che il vincolo sussiste tra le persone che discendono da un medesimo stipite, indipendentemente dal carattere legittimo o naturale della filiazione; la riformulazione dell'art. 251 cod. civ., con ampliamento della possibilità di riconoscimento dei figli incestuosi; la riformulazione dell'art. 276 cod. civ., in materia di legittimazione passiva della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, con la previsione che, morto il genitore e venuti meno anche i suoi eredi, parimenti legittimati passivi, il figlio naturale può proporre l'azione nei confronti di un curatore nominato dal giudice; la nuova formulazione dell'art. 315 cod. civ., con affermazione del principio secondo cui «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico»; l'introduzione del nuovo art. 315 bis cod. civ., che introduce il concetto dei doveri dei figli nei confronti dei genitori, affiancandolo a quello dei doveri dei genitori nei confronti dei figli; l'introduzione dell'art. 448-bis, che sottrae i figli dall'adempimento dell'obbligo di prestare gli alimenti nei confronti del genitore decaduto dalla potestà e permette loro di escluderlo, salvo eccezioni, dalla successione; l'abrogazione delle disposizioni sulla legittimazione dei figli naturali; la sottrazione al tribunale dei minorenni della competenza rispetto ad una serie di provvedimenti in tema di affidamento e mantenimento dei figli, che vengono assegnati al tribunale ordinario; la conferma della competenza del tribunale per i minorenni per i provvedimenti in caso di condotta del genitore pregiudizievole ai figli (art. 333 cod. civ.), purché non sia in corso tra le parti un giudizio di separazione o divorzio o relativo all'esercizio della potestà genitoriale ex art. 316 cod. civ. L'art. 2 della legge n. 219, invece, delega il Governo a modificare le disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità, al fin di eliminare ogni residua discriminazione tra figli legittimi, naturali e adottivi.

La posizione di figlio è giuridicamente tutelata dall'ordinamento, ed essa può essere intesa in due significati.

In un primo senso, lo stato di figlio indica la "titolarità sostanziale del rapporto di filiazione che nasce dal fatto stesso della procreazione": ad essa sono collegati diritti ed obblighi verso il genitore a tutela di una essenziale esigenza di solidarietà della persona. In un secondo significato, lo stato di figlio indica la titolarità formale del rapporto di filiazione, e cioè la titolarità del rapporto giuridicamente accertato: pertanto, il figlio ha diritto, nei confronti della autorità pubblica, a tale accertamento, attuato normalmente mediante l'atto di nascita; ma, in mancanza o in contrasto con il medesimo, ha diritto che il suo status familiare sia formalmente riconosciuto attraverso un provvedimento giudiziale.

Con riferimento a quest'ultimo aspetto, va segnalata la sentenza Sez. 1, n. 17095 (Rv. 627194), est. Giancola, con cui la Corte ha precisato che l'azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità postula, a norma dell'art. 263 cod. civ., la dimostrazione della assoluta impossibilità che il soggetto che abbia inizialmente compiuto il riconoscimento sia, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio.

Mentre in relazione alle conseguenze che scaturiscono dal rapporto di filiazione si è concordi sul fatto che l'obbligo dei genitori di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati. Infatti, la Sez. 1, con sentenza n. 21882 (Rv. 628138), est. Bisogni, ha stabilito che, nell'ipotesi di nascita per fecondazione naturale, la paternità è attribuita come conseguenza giuridica del concepimento, sicché è esclusivamente decisivo l'elemento biologico e, non occorrendo anche una cosciente volontà di procreare, nessuna rilevanza può attribuirsi al "disvolere" del presunto padre; una diversa interpretazione si pone in contrasto con l'art. 30 Cost., fondato sul principio della responsabilità che necessariamente accompagna ogni comportamento potenzialmente procreativo.

A tale proposito, con sentenza Sez. 1, n. 20137 (Rv. 627634), est. Giancola, si sono chiariti i contenuti delle domande di contribuzione economica proposte dai figli "naturali", in quanto la domanda di mantenimento proposta dal figlio nato fuori dal matrimonio nei confronti del proprio genitore naturale è autonoma e diversa, per causa petendi e petitum, rispetto alla domanda di risarcimento danni subiti dallo stesso figlio quale conseguenza della condotta omissiva del genitore rispetto agli obblighi nascenti dal rapporto di filiazione, la prima trovando specifico fondamento normativo nell'art. 30 Cost. e negli artt. 147, 148, 155, 155-sexies cod. civ., implicanti per il genitore naturale tutti i doveri propri della procreazione legittima (compreso quello del mantenimento fino al momento del conseguimento dell'indipendenza economica da parte del figlio), e la seconda, invece, attenendo al diverso aspetto della responsabilità genitoriale, aventa natura squisitamente compensatoria e riparatoria.

Infine, con riferimento al diritto privato internazionale, ed alle conseguenze sulla filiazione di un matrimonio celebrato all'estero, va segnalato l'indirizzo che sostiene la validità nel nostro ordinamento, quanto alla forma, del matrimonio celebrato fuori dal nostro paese, se è considerato tale dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento. L'ordinanza Sez. 6-1, n. 17620 (Rv. 627443), rel. Cristiano, ha confermato l'assunto, ritenendo che, ai sensi dell'art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218, tale principio non è condizionato dall'osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. Ne deriva che in tal caso il figlio va considerato, a tutti gli effetti, nato in costanza di matrimonio, onde competente a decidere della regolamentazione dei rapporti personali ed economici fra questi e i genitori è il tribunale ordinario.

Con riferimento alla competenza in materia di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, la sentenza Sez. 1, n. 21882 (Rv. 628139), est. Bisogni, ha confermato la competenza del tribunale per i minorenni, adìto per il riconoscimento della paternità naturale del minore, anche per ogni domanda consequenziale di natura economica, tra cui, oltre quella avente ad oggetto il rimborso delle spese di mantenimento già sostenute dall'altro genitore per il minore, anche quelle aventi ad oggetto la corresponsione del periodico mantenimento in favore dello stesso.

4. La casa familiare.

La casa familiare è intesa come «quel complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l'esistenza domestica della comunità familiare, strumentale alla conservazione della comunità domestica e giustificato esclusivamente nell'interesse morale e materiale della prole». Essa rappresenta l'habitat naturale del nucleo familiare, il luogo in cui si esprimo i sentimenti, gli interessi, le consuetudini di vita.

Il previgente art. 155 cod. civ. ed il vigente art. 155 quater cod. civ. (introdotto dalle legge 8 febbraio 2006, n. 54), facendo riferimento all'«interesse dei figli», subordinano il provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, conviventi con i genitori: tale ratio protettiva, che tutela l'interesse dei figli a permanere nell'ambiente domestico in cui sono cresciuti, non è configurabile in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso cui non sussiste alcuna esigenza di speciale protezione. È quanto sostiene la sentenza Sez. 1, n. 21334 (Rv. 628086), est. De Chiara, aderendo all'indirizzo consolidato, che considera l'assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, che non vanti alcun diritto di godimento (reale o personale) sull'immobile, una misura eccezionale, dettata nell'esclusivo interesse della prole.

Anche la sentenza Sez. 1, n. 18449 (Rv. 627494), est. Dogliotti, condivide l'indirizzo, con riferimento alla necessità di escludere che l'assegnazione possa essere un mezzo di tutela del coniuge debole: «In tema di separazione, l'assegnazione della casa coniugale non può costituire una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole, ma postula l'affidamento dei figli minori o la convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti, mentre ogni questione relativa al diritto di proprietà di uno dei coniugi o al diritto di abitazione sull'immobile esula dalla competenza funzionale del giudice della separazione e va proposta con il giudizio di cognizione ordinaria».

Ne consegue che il presupposto fondamentale dell'assegnazione della casa familiare, in sede di separazione o divorzio, è costituito dall' "attualità" della qualità della casa familiare dell'immobile al momento dell'adozione del provvedimento.

L'esigenza di stabilità e di non temporaneità del godimento della casa impone che da tale concetto venga esclusa ogni altra abitazione utilizzata per scopi di villeggiatura, anche se con periodica ripetizione. Infatti, la sentenza Sez. 1, n. 11218 (Rv. 626262), est. San Giorgio, impone che «colui che agisce per la revoca dell'assegnazione della casa familiare ha l'onere di provare in modo inequivoco il venire meno dell'esigenza abitativa con carattere di stabilità, cioè di irreversibilità (nella specie, la madre affidataria utilizzava l'abitazione familiare solo nel periodo estivo), prova che deve essere particolarmente rigorosa in presenza di prole affidata o convivente con l'assegnatario; inoltre il giudice deve comunque verificare che il provvedimento richiesto non contrasti con i preminenti interessi della prole».

Un problema che ancora rappresenta un terreno di scontro della dottrina e della giurisprudenza è quello della regolamentazione del rapporto tra il titolo di godimento dell'immobile già concesso in comodato da un terzo per la destinazione a casa familiare, ed il diritto di proprietà del concedente nella fase della crisi coniugale.

Con sentenza Sez. 1, n. 16769 del 2012 (Rv. 624104) la Corte aveva stabilito che il provvedimento, pronunciato nel giudizio di separazione o divorzio, di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minori o maggiorenni non autosufficienti della casa coniugale, non modifica né la natura, né il contenuto del titolo di godimento dell'immobile già concesso in comodato da un terzo per la destinazione a casa familiare; pertanto, la specificità della destinazione impressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall'incertezza, che caratterizzano il cosiddetto comodato precario, e che legittimano la cessazione ad nutum del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l'eventuale crisi coniugale, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed improvviso bisogno.

La questione è ora all'esame delle Sezioni unite della Corte, in quanto la Terza sezione civile, con ordinanza n. 15113 del 17 giugno 2013, rel. Scarano, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, reputando necessaria una rimeditazione dell'orientamento interpretativo già assunto dalle SS.UU. nella sentenza n. 13603 del 2004 (Rv. 575656). Nella sentenza si è detto che quando un terzo (nella specie il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento, pronunciato in sede di separazione o di divorzio, di assegnazione in favore del coniuge (nella specie la nuora del comodante), affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenne non autosufficiente senza loro colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento dell'immobile, atteso che l'ordinamento non stabilisce una "funzionalizzazione assoluta" del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a "concentrare" il godimento del bene in favore della persona dell'assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale. Secondo la Corte la conseguenza è che, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell'art. 1809, secondo comma, cod. civ.

L'ordinanza rileva come la ricostruzione offerta dalle Sezioni unite nel 2004, pur costituendo l'interpretazione cui si è generalmente conformata la giurisprudenza, è stata variamente disattesa in alcune pronunce, sino a negare tout court che la destinazione dell'immobile a casa familiare escluda la natura di comodato precario. Si fa riferimento a quella giurisprudenza che, sia pur in fattispecie di comodato di immobile per uso diverso da quello abitativo, reputa che il termine finale del contratto si colleghi all'uso solo a condizione che questo abbia per sua natura una durata predeterminata nel tempo.

Nell'ordinanza interlocutoria, si condividono le perplessità sollevate da quella dottrina, che adombra come la pronuncia del 2004 sembri operare una distinzione tra beni immobili a seconda che vengano o meno funzionalmente destinati a casa familiare, a ciò ingiustificatamente ancorando il termine implicito di durata del comodato. Ricordando che il percorso argomentativo della sentenza si fonda sull'assunto che con la concessione della casa in comodato per concorde volontà delle parti si imprime un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari, e che l'assegnazione dell'immobile in sede di separazione o divorzio non muta la natura né il contenuto del titolo, ma "concentra" invece il godimento in capo al solo coniuge assegnatario, parimenti al giudice rimettente risulta inspiegato: a) quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; b) quale sia il momento di relativa cessazione; c) quale sia il regime di relativa opponibilità. Si pone in discussione la rilevanza del vincolo di destinazione funzionale dell'immobile a casa familiare e di come tale vincolo possa incidere su altri diritti.

4.1. Casa di abitazione comune e convivenza more uxorio.

Le unioni libere rappresentano oggi una realtà molto diffusa. Molte decisioni di legittimità e di merito qualificano la "convivenza more uxorio" come una relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare, che si esplica in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza materiale e morale. In questo quadro assume rilievo anche la tutela della casa di abitazione comune con l'altro convivente. Molto interessante, nell'ambito del dibattito finalizzato alla tutela di questa aggregazione sociale, la sentenza della Sez. 2 (Rv. 626080), est. Giusti, con cui la Corte afferma che la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio.

5. L'affidamento della prole.

La Corte, con sentenza Sez. 1, n. 18131 (Rv. 627495), est. Dogliotti, afferma e chiarisce una prassi indiscussa nelle cause di separazione: «la regola dell'affido condiviso dei figli ad entrambi i genitori, prevista dall'art. 155 cod. civ. con riferimento alla separazione personale dei coniugi, non esclude che il minore sia collocato presso uno dei genitori (nella specie, la madre) e che sia stabilito uno specifico regime di visita con l'altro genitore».

È stato, altresì, importante chiarire che il comportamento del genitore che viola i doveri matrimoniali può non avere conseguenze in ordine alla scelta dell'affidamento del minore; infatti, la sentenza Sez. 1, n. 17089 (Rv. 627981), est. Mercolino, ha ribadito che la condotta antidoverosa del coniuge, cui va riferito l'addebito della separazione, non contrasta in alcun modo con la collocazione del minore presso lo stesso, tenuto conto che la violazione dei doveri del matrimonio (nella specie, per condotte aggressive, irrispettose ed infedeli della moglie verso il marito) può non tradursi anche in un pregiudizio per l'interesse del minore, non nuocendo al suo corretto sviluppo psico-fisico, né compromettendo il suo rapporto con il genitore.

Si segnala, infine, la sentenza Sez. 1, n. 11218 (Rv. 626263), est. San Giorgio, secondo cui, in ragione della necessità di tutela del superiore interesse del minore, avente copertura costituzionale, «In tema di procedimento per la modifica delle condizioni di separazione, non è affetta da inammissibilità per tardività la domanda di affidamento condiviso formulata per la prima volta all'udienza di fronte al tribunale, trattandosi di procedimenti in cui vengono in rilievo finalità di natura pubblicistica relative alla tutela e cura dei minori, non governati, quindi, dal principio della domanda».

6. Il mantenimento della prole.

La lettura delle norme che disciplinano la materia inducono a ritenere che il legislatore abbia voluto disegnare uno schema di relazioni familiari improntato a doveri morali prima ancora che giuridici, assegnando agli obblighi imposti ai genitori (quali il dovere di istruire, mantenere ed educare la prole) l'attitudine a dare sostanza alla posizione giuridica di genitore e di figlio.

Il fatto procreativo rappresenta la premessa necessaria entro la quale inquadrare il dovere di mantenimento nei confronti dei figli.

La dottrina ha interpretato il dovere di mantenimento come espressione del più generale dovere di cura che tiene conto di tutte le esigenze, anche future, necessarie allo sviluppo psicologico e fisico della prole. Per tale ragione, anche la Corte, con la sentenza Sez. 1, n. 17089 (Rv. 627982) est. Mercolino, ha puntualizzato che il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, stabilito dall'art. 147 cod. civ., obbliga i coniugi a far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all'assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione - fino a quando la loro età lo richieda - di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione.

In linea con l'intepretazione della dottrina prevalente, la Corte precisa che tale principio trova conferma nel nuovo testo dell'art. 155 cod. civ., come sostituito dall'art. 1 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, il quale, nell'imporre a ciascuno dei coniugi l'obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, individua, quali elmenti da tenere in conto nella determinazione dell'assegno, oltre alle esigenze del figlio, il tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di convivenza e le risorse economiche dei genitori, nonché i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti.

Come è noto, il mantenimento della prole grava su ciascun coniuge, sicché la sentenza Sez. 1, n. 18538 (Rv. 628040), est. San Giorgio, ha tenuto a stabilire la differenza esistente tra assegno di mantenimento spettante ai figli minori ed assegno di mantenimento spettante al coniuge separato o divorziato, in ragione del fatto che «non si fonda su di una rigida comparazione della situazione patrimoniale di ciascun coniuge. Pertanto, le maggiori potenzialità economiche del genitore affidatario concorrono a garantire al minore un migliore soddisfacimento delle sue esigenze di vita, ma non comportano una proporzionale diminuzione del contributo posto a carico dell'altro genitore».

Mentre il legislatore ha voluto espressamente porre riparo alle situazioni di squilibrio reddituale dei coniugi, nulla ha stabilito, invece, rispetto al problema delle spese cd. straordinarie.

Invero, gran parte del contenzioso tra coniugi attiene proprio al riparto di spese che eccedono la normalità. A tal fine la Corte, con una decisione molto incisiva, l'ordinanza Sez. 6-1, n. 21273 (Rv. 627932), rel. Acierno, ha statuito che: «a seguito della separazione personale tra coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo per quanto possibile a quello goduto in precedenza, continuando a trovare applicazione l'art. 147 cod. civ. che, imponendo il dovere di mantenere, istruire e educare i figli, obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, all'assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l'età dei figli stessi lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione. Ne consegue che non esiste duplicazione del contributo nel caso sia stabilito un assegno di mantenimento omnicomprensivo con chiaro riferimento a tutti i bisogni ordinari e, contemporaneamente, si predisponga la misura della partecipazione del genitore alle spese straordinarie, in quanto non tutte le esigenze sportive, educative e di svago rientrano nelle spese straordinarie».

Sulle modalità di adempimento degli obblighi relativi al mantenimento della prole, appare interessante la sentenza Sez. 1, n. 20139 (Rv. 627908), est. Piccininni, secondo cui il giudice può legittimamente imporre a carico di un genitore, quale modalità di adempimento dell'obbligo di contribuire al mantenimento dei figli, il pagamento delle rate di mutuo contratto per l'acquisto della casa familiare, trattandosi di voce di spesa sufficientemente determinata e strumentale alla soddisfazione delle esigenze in vista delle quali detto obbligo è disposto.

Il novellato art. 155 cod. civ. stabilisce che ciascun genitore deve provvedere al mantenimento dei figli «salvo accordi liberamente sottoscritti dalle parti», in misura proporzionale al proprio reddito. Orbene, con sentenza della Sez. 2, n. 21736 (Rv. 627773), est. Falaschi, la Corte ha stabilito che la convenzione intervenuta tra i coniugi in sede di separazione consensuale, con la quale essi pattuiscono un trasferimento patrimoniale ai figli, a titolo gratuito e in funzione di adempimento dell'obbligo genitoriale di mantenimento, non è nulla, qualora garantisca il risultato solutorio, non essendo in contrasto con norme imperative, né con diritti indisponibili. Già in passato la giurisprudenza di legittimità si era espressa in questi termini, ammettendo la possibilità di adempiere all'obbligo di mantenimento dei figli minori (o maggiorenni non autosufficienti) mediante un accordo che, in sede di separazione personale o di divorzio, attribuisse direttamente, o impegni il promittente ad attribuire, la proprietà di beni mobili o immobili ai figli, senza che tale accordo integrasse gli estremi della liberalità donativa, ma assolvendo esso di converso ad una funzione solutorio-compensativa dell'obbligo di mantenimento. Si fa riferimento alla sentenza Sez. 2, n. 3747 del 2006 (Rv. 594127), che ha anche chiarito come tale negozio comporti l'immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire, di talché, in questa seconda ipotesi, il correlativo obbligo, suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., è senz'altro trasmissibile agli eredi del promittente, trovando titolo non già nella prestazione del mantenimento, ma nell'accordo che l'ha estinta. La Corte ha anche ricordato, con sentenza Sez. 1, n. 18538 (Rv. 628041), est. San Giorgio, che in tema di mantenimento dei figli minori, l'assegno perequativo disposto dal giudice nella sentenza di separazione decorre dalla data della decisione e non dalla data della proposizione della domanda, trattandosi di una pronuncia determinativa che non può operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 cod. proc. civ.

7. Il mantenimento dei figli maggiorenni.

L'obbligo di mantenimento previsto dall'art. 147 cod. civ. non cessa automaticamente al compimento del diciottesimo anno, ma si protrae fino a che il figlio non abbia raggiunto una propria indipendenza economica, con un'appropriata collocazione nel contesto sociale. Infatti, la sentenza Sez. 1, n. 18974 (Rv. 627401), est. Giancola, ribadisce, con riferimento alla necessità per figlio maggiorenne di conseguire peculiari qualità professionali, che «l'obbligo del genitore (separato o divorziato) di concorrere al mantenimento del figlio maggiorenne non convivente cessa con il raggiungimento, da parte di quest'ultimo, di uno status di autosufficienza economica consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita, in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato, quale deve intendersi il compenso corrisposto al medico specializzando, in dipendenza di un contratto di formazione specialistica pluriennale ex art. 37, d.lgs. 17 agosto 1999, n. 368, non riconducibile ad un semplice borsa di studio».

L'allontanamento dal nucleo familiare determina, secondo un indirizzo della dottrina, l'estinzione del diritto al mantenimento, qualora il figlio abbia provveduto alla costituzione di una propria famiglia.

In linea con l'assunto la sentenza Sez. 1, n. 18075 (Rv. 627382), est. San Giorgio, secondo cui «La legittimazione del genitore a richiedere iure proprio all'ex coniuge separato o divorziato la revisione del contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne, non ancora autosufficiente economicamente, va esclusa in difetto del requisito della coabitazione con il figlio, la quale sussiste solo in presenza di un collegamento stabile di questi con l'abitazione del genitore, compatibile con l'assenza anche per periodi non brevi, purché, tuttavia, si ravvisi la prevalenza temporale dell'effettiva presenza, in relazione all'unità di tempo considerata. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso avverso la decisione della corte di merito, che aveva ritenuto cessato il requisito della coabitazione per effetto del trasferimento del figlio maggiorenne, per ragioni di studio, in altra località, ove aveva preso in locazione un appartamento)».

8. Questioni processuali.

Finalmente le Sezioni unite, con sentenza n. 10064 (Rv. 626161) est. Ceccherini, hanno chiarito che: «In materia di revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e della cessazione degli effetti civili del matrimonio, a norma dell'art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, il decreto pronunciato dal tribunale è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola più generale, desumibile dall' art. 4 della stessa legge, che è incompatibile con l'art. 741 cod. proc. civ. in tema di procedimenti camerali, il quale subordina l'efficacia esecutiva al decorso del termine per la proposizione del reclamo».

La sentenza Sez. 3, n. 4376 del 2012 (Rv. 621722) aveva ritenuto la immediata esecutività dei provvedimenti ex art. 710 cod. proc. civ., in disaccordo con un altro indirizzo che la escludeva.

Infatti, con sentenza Sez. 1, n. 9373 del 2011 (Rv. 617868), si era affermato che tale provvedimento non sia immediatamente esecutivo, ma solo ove in tal senso siaa stato disposto dal giudice, ai sensi delll'art. 741 cod. proc. civ.

Le Sezioni unite, con la decisione sopra richiamata, hanno risolto il contrasto nel senso della immediata ed automatica esecutività.

Con sentenza Sez. 1, n. 21336 (Rv. 6281429), est. De Chiara, la Corte si esprime sulla natura dei provvedimenti pronunciati in sede di reclamo, stabilendo che il decreto pronunciato in sede di reclamo avverso un provvedimento provvisorio reso ai sensi dell'art. 710, terzo comma, cod. proc. civ., ha la stessa natura del provvedimento reclamato e non è, quindi, suscettibile di acquistare autorità di giudicato, essendo destinato a perdere efficacia a seguito dell'emissione del provvedimento definitivo.

I provvedimenti emanati, ai sensi dell'art. 710 cod. proc. civ., hanno funzione e struttura cautelare, in quanto, come si rileva anche dal riferimento alla non immediata definitività del procedimento contenuto nella norma, sono provvedimenti destinati a neutralizzare il pericolo della tardività, e quindi per loro natura provvisori, cioè inidonei a dettare in modo definitivo la disciplina della situazione sostanziale e strumentale al procedimento in camera di consiglio i cui effetti si intende assicurare.

Il principio è stato richiamato anche nella sentenza Sez. 3, n. 19309 (Rv. 627595), est. Uccella, con cui si ribadice che: «in tema di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti adottati in sede presidenziale, a norma dell'art. 708 cod. proc. civ., hanno carattere interinale, sicché la sentenza può integrare, con effetto ex tunc decorrente dalla domanda, l'importo dell'assegno di mantenimento stabilito in quella sede provvisoria».

Con riferimento all'esame di altre questioni processuali, va segnalata la sentenza Sez. 1, n. 18538 (Rv. 628041), est. San Giorgio, secondo cui, in tema di mantenimento dei figli minori, l'assegno perequativo disposto dal giudice nella sentenza di separazione decorre dalla data della decisione e non dalla data della proposizione della domanda, trattandosi di una pronuncia determinativa che non può operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 cod. proc. civ.

Infine, la Corte, con la sentenza Sez. 1, n. 19344 (Rv. 627702), est. Giancola, ha chiarito che il potere decisorio del giudice dell'opposizione a precetto, in sede di attuazione coattiva di statuizioni di contenuto non economico involgenti la prole minorenne, contenute nella sentenza definitiva di divorzio, è limitato all'accertamento negativo della sussistenza del diritto del precettante di procedere all'esecuzione forzata in riferimento al momento in cui essa è iniziata, senza poteri di incisione o modifica sull'azionato titolo e senza che possano essere valutate circostanze di fatto sopravvenute a detto momento, che, peraltro, se impedienti il risultato prescritto dal titolo esecutivo giudiziale, quand'anche nel superiore interesse del minore, andranno verificate non in sede di opposizione al precetto ma dal giudice dell'esecuzione, cui è devoluto anche il compito di stabilire le modalità attuative del titolo in questione.

Come è noto, la morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale o di divorzio, anche nella fase di legittimità, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici. In ragione di ciò, la sentenza Sez. 1, n. 18130 (Rv. 627596), est. Dogliotti, ha ricordato che il figlio maggiorenne non autosufficiente non può coltivare una domanda di assegno nei confronti dell'obbligato ormai deceduto o, trattandosi di un rapporto personale, procedere nei confronti di eventuali altri eredi.

9. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio: effetti.

La sentenza Sez. 1, n. 21331 (Rv. 627931), est. Bisogni, si è espressa nel senso che: «La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio non produce alcun effetto di caducazione delle statuizioni contenute nella precedente sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio relative all'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile, ove su tali statuizioni si sia formato il giudicato, ai sensi dell'art. 324 cod. civ., non costituendo in se stessa un "giustificato motivo" sopraggiunto, legittimante, ai sensi dell'art. 9, comma primo, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, la revisione del provvedimento economico contenuto nella sentenza di divorzio».

Anche la sentenza Sez. 1, n. 17094 (Rv. 627143), est. Giancola, ritiene che: «Il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione dei coniugi della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalla parti, fa venire meno il vincolo coniugale e, quindi, fa cessare la materia del contendere in ordine alla domanda di separazione personale e alle correlate statuizioni circa l'addebito e l'assegno di mantenimento, adottate nel processo e non ancora divenute intangibili, le quali presuppongono l'esistenza e la validità del matrimonio e del conseguente vincolo».

Come è dato rilevare, la decisione si inserisce nell'ambito di un indirizzo consolidato, secondo cui il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell'efficacia nello Stato della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, intervenuta in pendenza del giudizio d'appello per la cessazione degli effetti civili del matrimonio medesimo, determinando il venir meno del vincolo coniugale, travolge la sentenza civile di divorzio emessa in primo grado e le statuizioni economiche in essa contenute, in quanto tali statuizioni presuppongono la validità del matrimonio e del vincolo conseguente, purché non siano divenute intangibili.

Va infine segnalato che, con le ordinanze interlocutorie del 14 gennaio 2013, n. 712, rel. Cultrera, e del 22 febbraio 2013 n. 4647, rel. De Chiara, la Prima Sezione Civile ha rilevato, relativamente alla questione della delibabilità della sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità del matrimonio, nel caso in cui alla celebrazione sia seguita una lunga convivenza, un contrasto tra un primo filone interpretativo, affermato con la sentenza n. 1343 del 2011, ed il successivo recente arresto n. 8926 del 2012, che consapevolmente se ne è distaccato, esprimendo antitetica opzione esegetica.

Afferma la sentenza Sez. 1, n. 1343 del 2011 (Rv. 616119) che «è ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dai coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio, in quanto essa è espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito, con cui è incompatibile, quindi, l'esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge. (Nel caso di specie, la Corte, decidendo nel merito ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civ., ha rigettato la domanda di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione del bonum prolis, essendosi la convivenza protratta per quasi un ventennio)».

Questo indirizzo, che assume a dato dirimente la durata del matrimonio intesa quale convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla sua celebrazione, richiamando espressamente l'arresto delle Sez. Un. n. 19809 del 18 luglio 2008 (Rv. 604843), rileva che l'ordine pubblico interno matrimoniale manifesta il favor per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali, e, per l'effetto, nella cornice sistematica regolata secondo i dettami dell'art. 29 della Costituzione e della riforma del diritto di famiglia, attribuisce rilievo preminente al matrimonio-rapporto fondato sull'unione coniugale, a sua volta fondante il rapporto familiare.

Le ragioni che, attenendo alla coscienza dei nubendi, rilevano per la legge canonica, non necessariamente concretano cause invalidanti del matrimonio per l'ordinamento civile e, pur se ravvisabili, resterebbero sanate dal protrarsi del rapporto che ne è seguito.

L'antitetica opzione interpretativa sostenuta dalla sentenza n. 8926 del 2012 (Rv. 622851), ha invece valutato che la convivenza dei coniugi (nella specie protrattasi per oltre trent'anni), successiva alla celebrazione del matrimonio, non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l'istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell'ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico.

Il collegio, quindi, ha ritienuto che la composizione del rilevato contrasto debba essere rimessa alle Sezioni unite della Cassazione, cui chiede, altresì, definirsi le ulteriori questioni originate dalle riferite opzioni interpretative, secondo il seguente ordine logico: «1.- se la protrazione ultrannuale della convivenza rappresenti condizione integrante violazione dell'ordine pubblico interno e per l'effetto sia ostativa alla dichiarazione d'efficacia della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastito, ed in presenza di quali vizi del matrimonio-atto operi, in tesi, tale preclusione. In questa cornice, in particolare, se il limite dell'ordine pubblico si riferisca alla convivenza da intendersi quale coabitazione materiale, cui fanno riferimento gli artt. 120 e 122 c.c., in caso di vizi del consenso, ovvero sia "significativa di un'instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, per l'appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 c.c.), tale da dimostrare l'instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto" (Cass. n. 1780/2012), dovendo in tal senso intendersi la locuzione "abbiano convissuto come coniugi" di cui al comma 2 dell'art. 123 c.c. in caso di simulazione. E, in logica consecuzione: 2.- se, in caso affermativo, il contrasto tra l'indicata condizione e l'ordine pubblico interno sia verificabile d'ufficio dalla Corte d'appello, versandosi in un caso d'impedimento assoluto alla riconoscibilità della sentenza ecclesiastica (in tal senso Cass. citata n. 1780 del 2012), dal momento che l'ordine pubblico esprime valori di natura indeclinabile ed è per l'effetto indisponibile, ovvero sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione; 3.- se, ammessa la rilevabilità d'ufficio, rientri nei poteri della Corte d'appello, la cui indagine è astretta entro il limite del compendio istruttorio formatosi nel giudizio ecclesiastico, disporre l'acquisizione di ulteriori elementi di verifica; 4.- se l'incompatibilità in discorso, laddove si ritenga rilevabile d'ufficio, sia riscontrabile anche dalla Corte di Cassazione se emerge dagli atti (secondo quanto è avvenuto in sede di pronuncia n. 1343/2011) e sia dunque scrutinabile senza necessità d'ulteriore istruttoria» (così le menzionate ordinanze Sez. 1, n. 712 e n. 4647).

10. Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e inabilitazione.

L'amministrazione di sostegno, a differenza dell'interdizione, non presuppone necessariamente l'accertamento di una condizione di infermità di mente, ma contempla anche l'ipotesi che sia riscontrata una menomazione fisica o psichica della persona sottoposta all'esame, che determini, pur se in ipotesi temporaneamente o parzialmente, una incapacità nella cura dei propri interessi. Per tale ragione la Corte, con sentenza Sez. 1, n. 18171 (Rv. 627498), est. Acierno, ha dichiarato che non è viziata la decisione del giudice di merito che, nel prudente apprezzamento delle circostanze, abbia dichiarato l'interdizione di un soggetto, in luogo che applicare la disciplina dell'amministrazione di sostegno, «avendo escluso la possibilità di operare una distinzione tra le attività da limitare ed affidare ad un terzo e quelle realizzabili dal soggetto, in ragione della peculiare situazione anagrafica e fisiopsichica del medesimo (nella specie, ultranovantacinquenne), valutata in correlazione con la complessità delle decisioni anche quotidiane imposte dall'ampiezza, consistenza e natura composita del suo patrimonio (caratterizzato anche da rilevanti partecipazioni azionarie)».

Con riferimento alla necessità del ministero del difensore, proprio in ragione della diversità tra il procedimento di amministrazione di sostegno e di interdizione ed inabilitazione, la sentenza Sez. 1, n. 6861 (Rv. 625625), est. San Giorgio, ha individuato le ipotesi in cui è necessaria la presenza del difensore: «il procedimento per la nomina dell'amministratore di sostegno, il quale si distingue, per natura, struttura e funzione, dalle procedure di interdizione e inabilitazione, non richiede il ministero del difensore nelle ipotesi, da ritenere corrispondenti al modello legale tipico, in cui l'emanando provvedimento debba limitarsi ad individuare specificamente i singoli atti, o categorie di atti, in relazione ai quali si richiede l'intervento dell'amministratore: necessita, per contro, detta difesa tecnica ogni qualvolta il decreto che il giudice ritenga di emettere, sia o non corrispondente alla richiesta dell'interessato, incida sui diritti fondamenta mentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenza analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio».

Invece, in deroga al principio della perpetuatio iurisdictionis - in forza del quale la competenza territoriale del giudice adìto rimane ferma, nonostante lo spostamento in corso di causa della residenza anagrafica o del domicilio del beneficiario - l'ordinanza Sez. 6-1, n. 9389 (Rv. 626074), est. Campanile, ha stabilito che in tema di amministrazione di sostegno, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora abituale del beneficiario e non alla sua residenza, in considerazione della necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare, anche successivamente alla nomina dell'amministratore: «né opera in tal caso, il principio della perpetuatio iurisdictionis, trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze».

  • eredità
  • diritto successorio
  • donazione

CAPITOLO V

SUCCESSIONI E DONAZIONE

(di Francesca Picardi )

Sommario

1 La delazione: accettazione, rinuncia e prescrizione. - 2 Accettazione con beneficio di inventario. - 3 Diritto di uso e abitazione del coniuge superstite. - 4 Testamento e legato: oneri e condizioni. - 5 Comunione e divisione ereditaria. - 6 Debiti e crediti ereditari. - 7 Donazione di bene altrui e liberalità indiretta.

1. La delazione: accettazione, rinuncia e prescrizione.

Nel nostro ordinamento, come noto, la mera delazione, che segue all'apertura della successione, non è sufficiente al conseguimento della qualità di erede, che presuppone l'accettazione, espressa o tacita, da parte del chiamato all'eredità.

Prima di tale momento, tuttavia, il chiamato all'eredità, ove non si provveda alla nomina di un curatore dell'eredità ai sensi dell'art. 528 cod. civ., ha i poteri conservativi elencati dall'art. 460 cod. civ. e, come precisato dalla Sez. 2, n. 7464 (Rv. 625639), est. Proto - conformemente all'orientamento già espresso dalla Sez. 2, n. 1673 del 1971 (Rv. 352120) - può essere il destinatario dell'atto di riassunzione del processo, interrotto per decesso di una delle parti, notificato collettivamente ed impersonalmente, entro l'anno dal decesso, nell'ultimo domicilio del defunto. Il riferimento testuale agli eredi, contenuto nell'art. 303 cod. proc. civ., non esclude, difatti, la legittimazione del chiamato all'eredità ad essere convenuto nei giudizi concernenti i beni ereditari: legittimazione derivante sia dalla norma di carattere generale sui poteri del chiamato all'eredità prima dell'accettazione, di cui all'art 460 cod. civ., sia, ove si tratti di eredità devoluta a minori, dall'art 486 cod. civ., secondo il quale il chiamato può stare in giudizio come convenuto per rappresentare l'eredità durante i termini per fare l'inventario e per deliberare.

Non può, tuttavia, attribuirsi all'omessa costituzione, da parte del chiamato, il significato di accettazione tacita dell'eredità di cui all'art. 476 cod. civ., da riconoscersi, al contrario:

- all'esperimento di quelle azioni giudiziarie tese alla rivendica o alla difesa della proprietà o ai danni per la mancata disponibilità di beni ereditari, che, non rientrando negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall'art. 460 cod. civ., il chiamato non avrebbe diritto di proporre, come già chiarito dalla Sez. 2, n. 13738 (Rv. 581423) del 2005;

- all'intervento in giudizio operato da un chiamato all'eredità nella qualità di erede legittimo del de cuius (come affermato dalla Sez. 2, n. 8529, Rv. 625633, est. Mazzacane, in cui si è sottolineato che non assume alcuna rilevanza la circostanza della successiva cancellazione della causa dal ruolo per inattività delle parti, posto che l'accettazione dell'eredità, a tutela della stabilità degli effetti connessi alla successione mortis causa, si configura come atto puro ed irrevocabile, e quindi insuscettibile di essere caducato da eventi successivi).

All'interno degli incerti confini dell'accettazione tacita, da cui in passato sono stati esclusi la denuncia di successione ed il pagamento della relativa imposta, che è adempimento di natura prevalentemente fiscale, diretto ad evitare l'applicazione di sanzioni (v. Sez. 3, n. 4756 del 1999, Rv. 526295), o la mera immissione nel possesso dei beni ereditari, che può dipendere da un mero intento conservativo del chiamato o dalla tolleranza degli altri chiamati (così Sez. 2, n. 20868 del 2005, Rv. 584793), è stata, inoltre, collocata dalla Sez. 2, n. 263 (Rv. 624595), est. Bursese, l'istanza di voltura di una concessione edilizia già richiesta dal de cuius, che, non rientrando nell'ambito degli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari, travalica il semplice mantenimento dello stato di fatto esistente al momento dell'apertura della successione, e dimostra, pertanto, l'avvenuta assunzione della qualità di erede.

Una volta intervenuta, l'accettazione esplica i suoi effetti dal momento dell'apertura della successione, come espressamente dispone l'art. 459 cod. civ.

Tale regola ha costituito la ratio decidendi dell'orientamento espresso dalla Sez. trib., n. 2322 (Rv. 625196), est. Olivieri, secondo cui «In tema di INVIM, qualora l'immobile, successivamente trasferito a terzi, sia stato acquistato a titolo di successione ereditaria aperta in data anteriore al decennio precedente l'entrata in vigore (1.1.1973) del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643, istitutivo di tale tributo, è correttamente liquidata l'imposta con riferimento al valore venale del bene definitivamente accertato non alla data convenzionale del 1° gennaio 1963 bensì, applicandosi la legge 5 marzo 1963, n. 246, in sede d'imposta di successione, come previsto dall'art. 6, comma 2, del citato decreto, essendosi prodotto l'effetto traslativo della proprietà, e quindi il presupposto d' imposta, in capo al futuro alienante, al momento dell'apertura della successione, secondo quanto dispongono gli artt. 459 e 470 cod. civ.».

Allo stesso modo la rinunzia all'eredità, sebbene sia sempre revocabile con gli unici limiti della prescrizione del diritto di accettare e dell'eventuale accettazione di altri chiamati, ha carattere retroattivo, in quanto, ai sensi dell'art. 521, secondo comma, cod. civ., chi rinunzia all'eredità è considerato come non vi fosse mai stato chiamato.

Ai sensi dell'art. 519 cod. civ., che rientra tra le previsioni legali di forma ad substantiam, di cui all'art. 1350, n. 13, cod. civ., la rinunzia richiede, a pena di nullità, la forma solenne ovvero la dichiarazione resa davanti al notaio o al cancelliere, che non può essere sostituita dalla scrittura privata autenticata, secondo Sez. 2, n. 4274 (Rv. 625266), est. Proto, in linea con il rigore già manifestato in passato, con l'esclusione della configurabilità di una revoca tacita della rinunzia (v. Sez. 2, n. 21014 del 2011, Rv. 619859).

Resta rigido, in ossequio alla particolare esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, che impone di cristallizzare in modo definitivo, dopo un certo lasso di tempo, la regolamentazione dei diritti ereditari tra le diverse categorie di successibili, l'orientamento della Suprema Corte relativamente alla prescrizione del diritto di accettare la delazione: così, ad esempio, la Sez. 2, n. 8776 (Rv. 626098), est. Nuzzo, ha confermato l'inconfigurabilità di fatti impeditivi del decorso della prescrizione diversi da quelle espressamente previsti dall'art. 480 cod. civ., escludendo l'applicabilità della causa di sospensione di cui all'art. 2941, n. 8, cod. civ., mentre la Sez. 2, n. 264 (Rv. 624597), est. Mazzacane, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 480, secondo comma, cod. civ., interpretato nel senso che il termine decennale di prescrizione del diritto di accettare l'eredità decorre unitariamente dal giorno dell'apertura della successione, pure nel caso di successiva scoperta di un testamento del quale non si aveva notizia, sottolineando la ragionevolezza della scelta, proprio in considerazione della necessità di contemperare i contrapposti interessi in ossequio all'esigenza di certezza, ed in considerazione della natura sostanziale e non processuale del termine di prescrizione.

2. Accettazione con beneficio di inventario.

Particolarmente significativa, in tema di accettazione con beneficio d'inventario, è la pronuncia delle Sez. Un., ord. n. 10531 (Rv. 626195), rel. D'Ascola, che superando il pregresso e diverso orientamento, espresso dalla Sez. 3, n. 14766 del 2007 (Rv. 597847), ha ricondotto la qualità di erede beneficiato nella categoria delle eccezioni in senso lato, non avendone il legislatore espressamente escluso la rilevabilità d'ufficio e non corrispondendo tale condizione all'esercizio di un diritto potestativo. Si è, pertanto, riconosciuta alla parte la possibilità di invocare anche nel giudizio di appello il beneficio già documentato, pur in assenza di una specifica allegazione, così come si è riconosciuto al giudice il potere di rilevare di ufficio il beneficio a favore degli altri chiamati, anche se contumaci, in virtù dell'effetto espansivo di cui all'art. 510 cod. civ.; effetto espansivo di cui, però, non possono avvantaggiarsi, come ribadito dalla Sez. trib., n. 11150 (Rv. 626777), est. Bruschetta, coloro che hanno accettato l'eredità puramente e semplicemente né coloro che sono decaduti dal beneficio, non potendo la redazione dell'inventario attribuire ai coeredi una posizione che essi non sono più in grado di conseguire.

Il mutato indirizzo costituisce uno sviluppo delle Sez. Un. del 1998, n. 1099 (Rv. 515986), che ha desunto dallo scopo del processo, che è quello di tutelare diritti esistenti e non di crearne di nuovi, la regola generale della rilevabilità di ufficio dell'eccezione, per cui la rilevanza giuridica di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo va subordinata alla specifica manifestazione di volontà della parte solo ed esclusivamente nel caso di una specifica previsione di legge o della sua corrispondenza alla titolarità di un'azione costitutiva. Nel caso in esame, ad ogni modo, le Sezioni unite non hanno dovuto esaminare la problematica, ancora molto discussa, della possibilità di ammettere in appello nuove prove strumentali ad un'eventuale eccezione in senso lato, mentre hanno espressamente ammesso la possibilità del rilievo di ufficio dell'eccezione in senso lato indipendentemente dalla specifica allegazione di parte.

Resta, tuttavia, escluso, come confermato dalla Sez. 3, n. 9158 (Rv. 625821), est. De Stefano, che l'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, con la conseguente limitazione della responsabilità dell'erede per i debiti del de cuius entro il valore dei beni a lui pervenuti, possa essere dedotta per la prima volta in sede esecutiva: tale preclusione non presenta, tuttavia, alcun collegamento con la natura dell'eccezione, derivando piuttosto dall'estensione del giudicato e, comunque, dall'improponibilità in sede esecutiva delle questioni attinenti al merito.

Sez. 2, n. 16635 (Rv. 627105), est. Scalisi, ha nuovamente riaffermato che: «il legittimario totalmente pretermesso, il quale proponga domanda di simulazione relativa di una compravendita, preordinata all'eventuale successivo esercizio dell'azione di riduzione, poiché agisce in qualità di terzo, non è tenuto alla preventiva accettazione dell'eredità con beneficio di inventario, di cui all'art. 564, primo comma, cod. civ., acquisendo la qualità di erede, necessaria a tal fine, solo in conseguenza del positivo esercizio della medesima azione di riduzione».

In materia processuale, Sez. 2, ord. n. 15038, Rv. 626920, rel. Matera, ha ribadito che in caso di rilascio dei beni da parte dell'erede beneficiato, ai sensi dell'art. 507 cod. civ., nei giudizi, in cui si controverta della proprietà dei beni ereditari, è necessaria la partecipazione non soltanto del curatore, nominato ex art. 508 cod. civ. per la liquidazione, ma anche dell'erede beneficiato, in quanto, non verificandosi il trasferimento della proprietà dei beni ai creditori o al curatore nominato ex art. 508 cod. civ. per la liquidazione, si verte in un'ipotesi di litisconsorzio necessario.

3. Diritto di uso e abitazione del coniuge superstite.

Relativamente ai diritti ex art. 540 cod. civ. del coniuge superstite, previsti nell'ambito della successione necessaria, occorre segnalare Sez. Un., n. 4847 (Rv. 625171), est. Mazzacane.

La pronuncia ha proclamato, in linea con il risalente orientamento della Corte Costituzionale (ord. n. 527 del 1988) e in rottura col precedente della Sez. 2 del 2000, n. 4329 (Rv. 535397), la compatibilità dell'istituto in esame con la successione legittima, superando i dubbi ingenerati dal tenore letterale degli artt. 581 e 582 cod. civ., in cui, differentemente da quanto avviene nell'art. 584 cod. civ. per la successione legittima del coniuge putativo, non vi è alcun riferimento all'art. 540 cod. civ. Del resto, tale interpretazione è l'unica in grado di evitare una illegittima disparità di trattamento rispetto al coniuge putativo e di assecondare l'obiettivo del legislatore, che è quello di evitare il danno psicologico connesso al repentino mutamento delle abitudini di vita insite nella dimora familiare; danno a cui il coniuge è esposto a prescindere dal carattere della successione.

La stessa sentenza ha, inoltre, risolto il dubbio circa la necessità di includere, nella quota già attribuita al coniuge superstite in sede di successione legittima, il valore del diritto di abitazione e di uso o, al contrario, di aggiungere, alla quota attribuita al coniuge superstite in sede di successione legittima, il valore del diritto di abitazione e di uso, optando per quest'ultima tesi. Nella motivazione si legge che risulta incongruente il riferimento all'istituto della disponibile ed ai conseguenti criteri di calcolo ed imputazione, che vi sono collegati, in sede di successione ab intestato, «in cui non si pone in radice un problema di incidenza dei diritti degli altri legittimari per effetto dell'attribuzione dei diritti di cui all'art. 540 cod. civ.».

Da un punto di vista pratico, ciò comporta che il valore capitale dei diritti de quibus deve essere detratto dall'asse prima di procedere alla sua divisione tra tutti i coeredi, secondo un meccanismo assimilabile al prelegato, istituto richiamato, in relazione all'art. 540 cod. civ., anche dalla successiva Sez. 2, n. 18354 (Rv. 627361), est. Mazzacane.

Quest'ultima decisione fa derivare, dall'assimilabilità al prelegato del diritto di abitazione, l'automaticità dell'attribuzione, nell'ambito della controversia avente ad oggetto lo scioglimento della comunione ereditaria, senza necessità di espressa richiesta da parte del coniuge superstite.

Non si pone in contrasto con tale posizione la più recente Sez. 2, n. 9651 (Rv. 625815), est. Giusti, che si riferisce alla diversa fattispecie di azione di riduzione avverso diposizioni testamentarie asseritamente lesive della riserva dei legittimari: in questo diverso contesto della successione necessaria e non legittima, in cui i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, riservati al coniuge ai sensi dell'art. 540, secondo comma, cod. civ., si sommano alla quota di riserva spettante allo stesso in proprietà, e gravano in primo luogo sulla porzione disponibile, determinata, a norma dell'art. 556 cod. civ., il valore del relictum (e del donatum, se vi sia stato) deve essere calcolato includendovi il valore capitale della casa familiare in piena proprietà, salva, in caso di incapienza della disponibile, la proporzionale riduzione, ai sensi dell'art. 553 cod. civ., della quota di riserva del medesimo coniuge, nonché, ove pure questa risulti insufficiente, delle quote riservate ai figli o agli altri legittimari.

4. Testamento e legato: oneri e condizioni.

In materia di successione testamentaria, continua ad essere centrale il requisito formale dell'autografia, interpretato in modo rigoroso. Ad esempio, Sez. 6-2, ord. n. 24882 (non ancora massimata), rel. Carrato, ha ribadito la nullità, per violazione degli art. 602 e 606 cod. civ., del testamento redatto con la presenza e l'intervento della mano guidante di un terzo, ritenendo che la guida e l'aiuto della mano del testatore da parte di un terzo ne escludano l'autografia.

Va segnalato, in proposito, che la Sez. 2, ord. n. 28586, rel. Giusti (non ancora massimata), ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai fini della soluzione del contrasto di pronunce sulla questione dell'individuazione dello strumento processuale (querela di falso o disconoscimento della scrittura privata) utilizzabile per contestare l'autenticità del testamento olografo. Sul punto, difatti, si registrano due diversi orientamenti, in quanto, secondo alcune pronunce, il testamento olografo non perde la sua natura di scrittura privata, la cui efficacia dipende dal riconoscimento, espresso o tacito, del soggetto contro cui è prodotto, su cui incombe, pertanto, il solo onere del disconoscimento, mentre, in altri precedenti, si è ritenuto che la contestazione dell'autenticità del testamento si risolve in una eccezione di falso da proporsi necessariamente con le forme ed i modi di cui agli artt. 221 ss. cod. proc. civ.

Dal punto di vista della interpretazione della scheda testamentaria, la giurisprudenza di legittimità, applicando, con gli opportuni adattamenti, il criterio ermeneutico dell'art. 1362, secondo comma, cod. civ., ritiene doveroso ricercare la effettiva volontà del testatore anche tramite il ricorso ad elementi estrinseci all'atto di ultima volontà, in considerazione, peraltro, della necessità di individuare, tra più interpretazioni possibili, quella favorevole alla conservazione del testamento in ossequio al favor testamenti. In tale contesto si inserisce la pronuncia della Sez. 2, n. 8899 (Rv. 625728), est. Petitti, secondo cui l'indicazione del beneficiario fatta dal testatore in modo impreciso o incompleto (nel caso di specie, individuazione effettuata con riferimento al solo nome e cognome, senza data di nascita, nonostante la presenza di altra persona avente i medesimi nome e cognome) non ricade nell'ambito applicativo dell'art. 628 cod. civ. e non determina, pertanto, la nullità della disposizione qualora sia possibile determinare in modo certo la persona dell'erede o del legatario dal contesto del testamento o altrimenti, in base ad univoci dati obiettivi, quali il rapporto diretto con il de cuius e la gestione diretta dei suoi beni nell'ultimo periodo di vita.

Un altro criterio ermeneutico di cui è stata fatta applicazione, con gli opportuni adattamenti, in materia testamentaria, è quello di conservazione di cui all'art. 1367 cod. civ., al quale Sez. 2, n. 23278 (Rv. 628013), est. Mazzacane, ha ritenuto contraria la decisione del giudice di merito, che, dopo aver definito illeggibile una disposizione testamentaria in realtà suscettibile di interpretazioni alternative, opti immotivatamente per l'interpretazione invalidante, senza ricostruire l'effettiva volontà del de cuius e scegliere per una delle due possibili interpretazioni.

La volontà del testatore è stata eretta, comunque, a criterio orientativo nella distinzione tra legato di genere e legato di specie, particolarmente rilevante, dal punto di vista concreto, in considerazione della natura obbligatoria del primo, che può includere, ai sensi dell'art. 553 cod. civ., anche cose che non sono nel patrimonio del testatore all'epoca del testamento e della morte.

Così Sez. 2, n. 14358 (Rv. 626461), est. Bianchini, ha qualificato legato non di genere ma di specie la disposizione testamentaria con cui il testatore abbia lasciato ad un legatario le somme ricavabili dalla vendita dei beni mobili presenti nella propria abitazione alla data dell'apertura della successione, nonché le somme risultanti a credito su un conto corrente bancario al momento della sua morte, stante l'evidente intenzione del de cuius di considerare il denaro, quanto al primo oggetto, come espressione della monetizzazione del suo patrimonio mobiliare, e di attribuire, col secondo lascito, non già un qualche ammontare di numerario, quanto il diritto di esigere.

La tendenziale esigenza di assecondare la volontà del de cuius incontra naturalmente il limite della tutela dei legittimari, per cui Sez. 2, n. 11737 (Rv. 626733), est. Proto, ha escluso che la dichiarazione del testatore di avere già soddisfatto il legittimario con antecedenti donazioni potesse sottrarre a quest'ultimo la quota di riserva: tale dichiarazione non può, difatti, essere assimilata ad una confessione stragiudiziale opponibile al legittimario, essendo egli, nell'azione di riduzione, terzo rispetto al testatore (in questo stesso senso, confermando l'orientamento, ormai consolidato sulla inapplicabilità al legittimario, nell'azione di simulazione del contratto di compravendita, strumentale alla riduzione, dei limiti probatori che avrebbe incontrato il de cuius come parte del contratto, si esprime anche Sez. 3, n. 8215, Rv. 625756, est. Carleo).

Sempre in merito alla posizione del legittimario, recependo le indicazioni della dottrina la Sez. 2, n. 16252 (Rv. 626991), est. Matera, ha qualificato il legato in sostituzione di legittima, previsto dall'art. 551 cod. civ., come disposizione a titolo particolare sottoposta a condizione risolutiva, precisando che l'eventuale rinuncia determina il venire meno della sostituzione e consente al legittimario di reclamare, eventualmente in natura, ai sensi dell'art. 718 cod. civ., la quota di riserva spettantegli per legge.

Al contrario, l'adesione al legato sostitutivo della legittima si traduce nella rinuncia alla facoltà di agire in riduzione, insuscettibile, secondo Sez. 3, n. 4005 (Rv. 625296), est. Carluccio, di essere impugnata tramite revocatoria ordinaria, in quanto tale atto non determina, di per sé, alcuna modificazione del patrimonio del debitore, per cui la sua dichiarazione di inefficacia non comporterebbe il conseguimento dello scopo a cui è preordinata l'azione pauliana. L'incremento del patrimonio del debitore presuppone, difatti, la rinuncia al legato e, successivamente, il positivo esperimento dell'azione di riduzione. Resta aperto, quindi, il problema della tutela dei creditori di fronte ad un legato in sostituzione di legittima, che potrebbe essere di valore notevolmente inferiore rispetto alla quota riservata al debitore legittimario. Nell'ipotesi del chiamato che rinunzi all'eredità, i creditori potranno più semplicemente avvalersi del rimedio di cui all'art. 524 cod. civ. e, quindi, farsi autorizzare ad accettare l'eredità in nome e luogo del rinunziante al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti. Più complessa la situazione nell'ipotesi in cui il chiamato resti inerte, anche a fronte dell'eventuale assegnazione di un termine ex art. 481 cod. civ., in quanto si dubita della possibilità di assimilare l'inerzia alla rinunzia, ai fini dell'applicabilità dell'art. 524 cod. civ., soluzione ragionevolmente proposta da una parte della dottrina, e contemporaneamente si tende ad escludere l'ammissibilità della surrogatoria, che è azione strumentale all'esercizio di diritti già entrati nel patrimonio del debitore e non di quelli che presuppongono una scelta a lui riservata, quale quella di accettare l'eredità (non deve trarre in inganno Sez. 2, n. 628 del 1962, Rv. 250972, che ammette l'esercizio in surrogatoria della petitio heredidatis, assumendo la già avvenuta accettazione dell'eredità da parte del debitore). In questo già difficile contesto, ancora più problematica è la posizione dei creditori del legittimario che abbia ricevuto un irrisorio legato in sostituzione di legittima, ai quali non può in alcun modo estendersi il rimedio ex art. 524 cod. civ., ma risulta anche arduo riconoscere, in via surrogatoria, la possibilità di rinunciare al legato, con conseguente possibilità di esperire, sempre in via surrogatoria, l'azione di riduzione: difatti, tale atto, come l'accettazione dell'eredità, non costituisce esercizio di un diritto, ma di una facoltà e presuppone una scelta personale del debitore.

Né può aiutare nella soluzione del problema esposto Sez. 2, n. 11737 (Rv. 626734), est. Proto, che ha riconosciuto il potere del curatore fallimentare di esercitare l'azione di riduzione, non via surrogatoria, ma in virtù della legittimazione a stare in giudizio per i rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento attribuitagli dall'art. 43 legge fall., oltre che per effetto dello spossessamento fallimentare che priva il fallito della disponibilità di suoi beni, tra i quali sono da ricomprendere i diritti patrimoniali spettanti al fallito quale legittimario.

Per quanto concerne la forma della rinunzia al legato di immobili, necessariamente scritta ai sensi dell'art. 1350 cod. civ., va segnalata Sez. 2, n. 10605 (Rv. 625983), est. Bursese, che, stante la natura meramente abdicativa dell'atto, ha affermato la sufficienza dell'atto di citazione, che, provenendo dalla parte, la quale, con il rilascio della procura a margine o in calce, ne ha fatto proprio il contenuto, soddisfa il requisito della sottoscrizione, rispondendo al requisito formale, senza che assuma rilievo la trascrizione di esso, volta soltanto a rendere lo stesso opponibile ai terzi.

Per completezza, relativamente alla posizione del beneficiario di un legato, occorre segnalare Sez. 2, n. 24751 (Rv. 628172628173), est. Falaschi, che sottolinea come la richiesta, da parte del legatario, della consegna del bene all'erede non integri un diritto a sé stante, ma una facoltà, che è priva di una sua autonomia e insuscettibile, pertanto, di prescrizione, in quanto ricompresa nel diritto oggetto del legato, di cui solo può verificarsi la eventuale prescrizione.

Passando all'esame di eventuali clausole accessorie inserite nelle disposizioni testamentarie, deve citarsi Sez. 2, n. 23278 (Rv. 628013), est. Mazzacane, che ha qualificato la clausola si sine liberis decesserit non quale duplice e successiva istituzione, come nel fedecommesso, bensì come istituzione subordinata a condizione risolutiva, verificatasi la quale il primo istituito viene considerato come se non fosse stato mai chiamato. Si è precisato che la clausola è valida solo quando abbia tutti i caratteri di una vera e propria condizione, risolutiva rispetto al primo istituito e sospensiva nei confronti del secondo, mentre è nulla quando venga impiegata per mascherare una sostituzione fedecommissaria, vietata dalla legge, occorrendo, al riguardo, un accertamento caso per caso, sulla base della volontà del testatore e delle particolari circostanze e modalità della disposizione.

È importante, infine, sottolineare, stante le conseguenza sul piano della disciplina, le indicazioni della Suprema Corte relativamente alla qualificazione della clausola accessoria di assistenza in termini di condizione sospensiva o di onere a seconda che il soggetto beneficiario sia il de cuius o un terzo.

È stato rilevato dalla Sez. 2, n. 18219 (rv. 627367), est. Mazzacane, che l'assistenza al de cuius non può configurare un onere, in quanto il suo avveramento, pur essendo incerto al momento della disposizione testamentaria, si è già verificato al momento della delazione, mentre il modus deve tradursi in un comportamento che presuppone l'avvenuta delazione e si configura, in caso di inadempimento, come eventuale condizione risolutiva dell'istituzione. Dal punto di vista del regime, deve ricordarsi che, in caso di mancata verificazione dell'evento dedotto in condizione sospensiva, la disposizione testamentaria non acquista efficacia, mentre, in caso di inadempimento dell'onere, ai sensi dell'art. 648, secondo comma, cod. civ., l'autorità giudiziaria può pronunziare la risoluzione della disposizione testamentaria solo se è stata prevista dal testatore o se l'onere ha costituito il solo motivo determinante della prestazione.

Sez. 2, n. 11906 (Rv. 626278), est. Proto, ha, inoltre, precisato che qualora l'adempimento dell'onere apposto ad una disposizione testamentaria, consistente nell'obbligo per l'erede di prestare assistenza e cura ad un terzo vita natural durante, sia reso impossibile dal rifiuto di quest'ultimo di usufruire di tali prestazioni, non è configurabile la nullità della disposizione ai sensi dell'art. 647, terzo comma, cod. civ., che attiene esclusivamente alle ipotesi di impossibilità originaria di adempimento dell'onere, dovendo, invece, di fronte all'impossibilità sopravvenuta, ricorrersi ai principî generali relativi alla risoluzione o all'estinzione dell'obbligazione, con conseguente eventuale liberazione dell'onerato a seguito di costituzione in mora del beneficiario.

5. Comunione e divisione ereditaria.

In materia di comunione ereditaria Sez. 2, n. 3465 (Rv. 625427), est. Carrato, confermando un risalente orientamento giurisprudenziale, ha precisato che il retratto successorio, il cui esercizio è subordinato alla permanenza dello stato di comunione ereditaria, non si sottrae, anche qualora persista la comunione ereditaria, all'ordinario termine di prescrizione decennale, decorrente dalla data della vendita della quota ereditaria compiuta in violazione del diritto di prelazione dei coeredi.

Sez. 2, n. 9801 (Rv. 625816), est. Bianchini, ha, invece, negato l'opponibilità ai coeredi - e, pertanto, la rilevanza ai fini del retratto successorio - del contratto di vendita della quota di una società di capitali, facente parte della comunione ereditaria, concluso da alcuni coeredi sull'assunto dell'attuale piena titolarità dei diritti di partecipazione sociale, la quale può, invece, esser loro riconosciuta soltanto all'esito del giudizio di divisione, ed ha escluso, altresì, la possibilità di ricostruire il contratto alla stregua di vendita di quota indivisa dei soli diritti sociali, ai sensi dell'art. 1103 cod. civ., in considerazione dell'efficacia meramente obbligatoria di tale atto, condizionata all'attribuzione del bene, in sede di divisione, ai coeredi alienanti.

Coerentemente con l'orientamento ormai consolidato (da ultimo, Sez. 2, n. 7221 del 2009, Rv. 607651), secondo cui il coerede che, dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, se estende il suo possesso animo proprio e a titolo di comproprietà, in termini di esclusività, godendo del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, la sentenza Sez. 2, n. 9633 (Rv. 625819), est. D'Ascola, ha precisato che la divisione negoziale dell'asse con gli altri comunisti, comportando un riconoscimento inequivocabile e formale della comproprietà, è incompatibile con la pretesa di essere divenuto proprietario esclusivo del compendio assegnato.

Sempre a conferma di un indirizzo pacifico, Sez. 6-2, ord. n. 16206 (Rv. 626933), est. Carrato, ha escluso che il coerede che sul bene comune da lui posseduto abbia eseguito delle migliorie possa pretendere, in sede di divisione, l'applicazione dell'art. 1150 cod. civ., secondo cui è dovuta un'indennità pari all'aumento di valore della cosa in conseguenza dei miglioramenti, in quanto, quale mandatario o utile gestore degli altri eredi partecipanti alla comunione ereditaria, gli spetta il rimborso delle spese sostenute per la cosa comune, che è debito di valuta e, quindi, non soggetto a rivalutazione monetaria.

Passando all'esame dello scioglimento della comunione, dal punto di vista negoziale, occorre segnalare Sez. 2, n. 22977 (Rv. 628043), est. Petitti, in cui si è affermato che è consentito ai comproprietari, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, di pattuire lo scioglimento nei confronti di uno solo dei coeredi, ferma restando la situazione di comproprietà tra gli altri eredi del medesimo dante causa. Si è ritenuto che tale contratto, con cui i coeredi perseguono uno scopo comune, senza prestazioni corrispettive, non determinando direttamente lo scioglimento della comunione, non configura una vera e propria divisione, per la cui validità soltanto è necessaria la sottoscrizione di tutti i coeredi, ma un contratto plurilaterale, immediatamente vincolante ed efficace fra gli originari contraenti e destinato ad acquistare efficacia nei confronti degli assenti in virtù della loro successiva adesione, sempre possibile, salva diversa pattuizione, sino a quando non intervenga un contrario comune accordo o un provvedimento di divisione giudiziale.

Dal punto di vista giudiziale, Sez. 2, n. 15026 (Rv. 626987), est. Proto, e Sez. 2, n. 12830 (Rv. 626475), est. Piccialli, hanno negato l'applicazione dell'istituto della collazione rispettivamente nell'ipotesi in cui l'asse ereditario sia stato esaurito con donazioni o con legati, o con le une e con gli altri insieme, e nella ipotesi in cui il testatore abbia effettuato, ai sensi dell'art. 734 cod. civ., la spartizione dei suoi beni, distribuendoli mediante l'assegnazione di singole e concrete quote, in quanto, in entrambi i casi, non sussiste la comunione ereditaria, che, secondo il condivisibile e risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, integra il presupposto della collazione, prevista dagli artt. 724 e 737 cod. civ., in funzione della divisione.

Nell'ambito del giudizio di divisione ereditaria, risulta confermato da Sez. 2, n. 9367 (Rv. 625724), est. Mazzacane, il diritto delle parti di mutare, anche in sede di appello, le proprie conclusioni e richiedere per la prima volta l'attribuzione, per intero o congiunta, del compendio immobiliare, stante la limitata compatibilità del giudizio di scioglimento di comunioni con le scansioni e le preclusioni che disciplinano il processo in generale, in considerazione della necessità dei singoli condividenti di adattare le loro strategie difensive alle richieste e ai comportamenti assunti dalle altre parti con riferimento al progetto di divisione. La richiesta di attribuzione dell'intero compendio integra, difatti, una mera modalità di attuazione della divisione, di cui è stata esclusa l'ammissibilità da Sez. 2, n. 14521 del 2012 (Rv. 623613) solo se formulata con la comparsa conclusionale del giudizio di secondo grado, e, quindi, al di fuori di ogni possibilità di discussione nel contraddittorio tra le parti.

Al contrario, la difesa fondata sulla necessità che uno dei condividenti proceda alla collazione di un bene donato, implicando una formazione delle quote in modo diverso da quello originariamente individuato, integra un'eccezione in senso stretto, soggetta al regime delle preclusioni, come chiarito da Sez. 2, n. 29372 del 2011 (Rv. 620778).

Parimenti è stato ribadito:

- da Sez. 6- 2, ord. n. 12779 (Rv. 626472), rel. Manna, che in caso di immobile non comodamente divisibile, l'addebito dell'eccedenza, ai sensi dell'art. 720 cod. civ., a carico del condividente assegnatario dell'intero bene ed a favore di quello non assegnatario o assegnatario di un bene di valore inferiore alla propria quota di partecipazione alla divisione, prescinde dalla domanda delle parti, in quanto attiene alle concrete modalità di attuazione del progetto divisionale devolute alla competenza del giudice, perseguendo la sentenza di scioglimento della comunione il mero effetto di perequare il valore delle rispettive quote;

- da Sez. 2, n. 3461 (Rv. 625154), est. Matera, che il criterio dell'estrazione a sorte previsto, nel caso di uguaglianza di quote, dall'art. 729 cod. civ. a garanzia della trasparenza delle operazioni divisionali contro ogni possibile favoritismo, non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale, essendo derogabile in base a valutazione discrezionale, che è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo del difetto di motivazione e che può attenere non soltanto a ragioni oggettive, legate alla condizione funzionale ed economica dei beni, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità (quale, ad esempio, l'interesse di uno dei condividenti a vedersi attribuire il lotto, comprendente l'appartamento occupato da molti anni con la propria famiglia, del quale nessun altro dei condividenti aveva richiesto l'attribuzione; le dimostrate esigenze di assistenza, in ragione delle sue condizioni di salute, di una delle sorelle condividenti, in assenza di analoga richiesta da parte dell'altro condividente; i cospicui miglioramenti fatti dal condividente occupante, destinati a soddisfare specifiche esigenze dello stesso, e, quindi, inutili e privi di valore economico in caso di attribuzione ad altri);

- da Sez. 2, n. 1739 (Rv. 624976), est. Carrato, secondo cui non è ravvisabile un rapporto di pregiudizialità tra due processi di divisione, pendenti (in tutto o in parte) tra gli stessi eredi o condomini, ma riguardanti masse oggettivamente diverse, in quanto appartenenti a comunioni fondate su distinte situazioni giuridiche.

Per completezza va segnalato che Sez. 2, n. 20143 (Rv. 627604), est. Giusti, ha escluso che la mancata costituzione nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria, promosso da altro coerede, esprima di per sé la volontà della parte convenuta contumace di rinunciare a far valere, in separato giudizio, il suo diritto alla reintegrazione della quota di eredità riservatale per legge, rinuncia di cui si ammette la configurabilità, anche in forma tacita, ma che esige un comportamento inequivoco e concludente.

6. Debiti e crediti ereditari.

Per quanto concerne i debiti ereditari, Sez. 2, n. 8900 (Rv. 625729), est. Manna, ha precisato che la ripartizione tra i coeredi in proporzione delle loro quote, ai sensi dell'art. 752 cod. civ., opera per i debiti e pesi presenti nel patrimonio del de cuius al momento della morte e per quelli costituenti immediata conseguenza della successione ereditaria (come, ad esempio, il debito accessorio per interessi), ma non anche per i debiti occasionalmente sorti, dopo la morte del de cuius, a causa della condotta degli eredi di inadempimento alle obbligazioni derivanti da atti o fatti riconducibili alla sfera patrimoniale del defunto, quale, ad esempio, l'obbligo risarcitorio per il mancato rilascio di un immobile concesso in comodato al de cuius e richiesto in restituzione dal comodante per la prima volta agli eredi. Ad ogni modo l'art. 752 cod. civ. si occupa esclusivamente della disciplina dei rapporti interni tra i coeredi, mentre i rapporti esterni con i creditori sono regolati dal successivo art. 754 cod. civ., non derogabile dal testatore, che stabilisce che gli eredi sono tenuti verso i creditori al pagamento dei debiti ereditari personalmente in proporzione della loro quota ereditaria e ipotecariamente per l'intero. Resta, tuttavia, da verificare la permanente validità dell'orientamento (v., da ultimo, Sez. L, n. 25764 del 2008, Rv. 605423), secondo cui la responsabilità degli eredi per i debiti del de cuius limitatamente al valore della quota nella quale sono stati chiamati a succedere, ai sensi dell'art. 754 cod. civ., si traduce in una eccezione propria, per cui il convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l'onere di manifestare al creditore la sua condizione di coobligato passivo entro il limite della propria quota - ove si tratti di debito di lavoro, nella memoria difensiva di cui all'art. 416 cod. proc. civ. con indicazione dei coeredi non raggiunti dall'azione giudiziaria intrapresa dal creditore - potendo, in caso contrario, il creditore chiedere, legittimamente, il pagamento per l'intero. Dovrebbe, difatti, valutarsi la compatibilità di tale principio con il nuovo orientamento delle Sez. Un., n. 10531 (Rv. 626195), est. D'Ascola, che hanno ricondotto la limitazione della responsabilità derivante dalla qualità di erede beneficiato nell'ambito dell'istituto dell'eccezione in senso lato in applicazione della regola generale, secondo cui in assenza di una specifica previsione legislativa, la rilevanza giuridica di fatti modificativi, impeditivi, estintivi, che non costituiscano i presupposti di corrispondenti azioni costitutive, è automatica e prescinde dalla manifestazione di volontà della parte, visto che obiettivo del processo non è quello di creare nuovi diritti, ma di tutelare quelli già esistenti.

Per quanto concerne i crediti ereditari, in linea con Sez. Un., n. 24657 del 2007 (Rv. 600532), secondo cui la regola della ripartizione automatica tra i coeredi in ragione delle rispettive quote è prevista dall'art. 752 cod. civ. solo per i debiti ereditari e non anche per i crediti che, quindi, entrano a far parte della comunione ereditaria, come si desume dagli artt. 727, 757 e 760 cod. civ., Sez. 3, n. 9158 (Rv. 625822), est. De Stefano, estende, alla fase esecutiva, la legittimazione attiva del coerede per l'intero credito ereditario, specificando, però, che occorre che il titolo esecutivo riconosca il credito come ereditario, senza prevedere, in modo espresso, la titolarità pro - quota di ciascuno dei coeredi. Da tali premesse deriva che, nella fase della cognizione, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l'intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l'intervento di questi ultimi in presenza dell'interesse all'accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito. Parimenti nella fase esecutiva, il coerede potrà agire per la soddisfazione integrale del credito ereditario, ove il titolo esecutivo non ponga limitazioni, salva la possibilità del debitore di eccepire, tramite rituale opposizioni, eventuali pagamenti eseguiti nei confronti degli altri coeredi.

Va, infine, ricordato che, come osservato da Sez. trib., n. 6908 (Rv. 626055), est. Virgilio, in materia di imposta di successione, ai sensi dell'art. 12, comma 1, lettera d) del d.lgs. 31 ottobre 1990 n. 346, i crediti del de cuius contestati giudizialmente alla data di apertura della successione vanno esclusi dall'attivo ereditario fino a quando la loro sussistenza non sia riconosciuta con provvedimento giurisdizionale o con transazione; tuttavia, una volta intervenuto, in un modo o nell'altro, l'accertamento, il credito concorre a formare l'attivo ereditario con effetto dalla data di apertura della successione.

7. Donazione di bene altrui e liberalità indiretta.

In tema di donazioni, la Sez. 6-2, ord. n. 12782 (Rv. 624423), rel. Manna, ha pienamente confermato l'orientamento della Sez. 2, n. 10356 del 2009 (Rv. 608011), secondo cui la donazione di cosa altrui è nulla in virtù dell'art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri riguarda tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante, ma è, comunque, idonea ai fini dell'usucapione decennale, visto che il titolo richiesto dall'art. 1159 cod. civ. deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale.

Sono stati, inoltre, esaminati due casi di donazione indiretta:

1) la cointestazione di buoni postali fruttiferi operata da un genitore, con spirito di liberalità, per ripartire fra i figli anticipatamente le proprie sostanze;

2) la rinuncia dell'usufrutto.

Relativamente alla prima fattispecie, assimilabile all'atto di cointestazione di una somma di danaro - depositata presso un istituto di credito ed appartenente ad un solo soggetto - a più soggetti, con firma e disponibilità disgiunte, già qualificata come donazione indiretta da Sez. 2, n. 26983 del 2008 (Rv. 605302), la Sez. 2, n. 10991 (Rv. 625981), est. Migliucci, ha osservato che, attraverso il negozio direttamente concluso con il terzo depositario, la parte depositante consegue l'effetto ulteriore di attuare un'attribuzione patrimoniale in favore di colui che ne diventa beneficiario per la corrispondente quota, essendo questi, quale contitolare del titolo nominativo a firma disgiunta, legittimato a fare valere i relativi diritti.

Per quanto concerne, invece, la rinuncia all'usufrutto, Sez. 2, n. 482 (Rv. 624495), est. Migliucci, non si pone in contraddizione con il precedente della Sez. 2, n. 13117 del 1997 (Rv. 511260) secondo cui tale atto abidicativo, se ispirato da animus donandi, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario dei beni gravati dal diritto reale parziario rinunciato, perché, comportando un'estinzione anticipata di tale diritto, si risolve nel conseguimento da parte di detto dominus dei vantaggi patrimoniali inerenti all'acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe sottratto se l'usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza. La sentenza del corrente anno si limita, difatti, ad escludere la qualifica di donazione diretta e la conseguente necessità dei requisiti di forma ex art. 782 cod. civ., senza soffermarsi affatto sul problema della liberalità indiretta.

Ha ricevuto ulteriore conferma, infine, l'orientamento ormai consolidato secondo cui per la validità delle donazioni indirette, cioè di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall'art. 782 cod. civ., non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l'art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall'art. 769 cod. civ., non richiama l'art. 782 cod. civ., che prescrive l'atto pubblico per la donazione (così Sez. 1, n. 14197, Rv. 626631, est. De Chiara).

PARTE SECONDA I BENI

  • proprietà pubblica
  • proprietà privata
  • servitù
  • usufrutto

CAPITOLO VI

I DIRITTI REALI E IL POSSESSO

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Proprietà pubblica. - 2 Atti di emulazione. - 3 Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati. - 4 Azioni a tutela della proprietà. - 5 Usufrutto. - 6 Servitù. - 7 Tutela ed effetti del possesso.

1. Proprietà pubblica.

Sez. Un., n. 20571 (Rv. 627429), est. Amatucci, ha ribadito la piena soggezione della "P.A. proprietaria" ai comuni limiti di espansione dei diritti dominicali, anche con riferimento alla tutelabilità in sede giurisdizionale delle posizioni lese dall'esercizio di quelli. Sicché, in relazione a domanda volta ad ottenere l'accertamento dell'illiceità delle immissioni acustiche provenienti dagli spazi esterni, adibiti a fini ludici, di pertinenza di un edificio scolastico, la S.C. ha affermato che l'inosservanza da parte della Pubblica Amministrazione, nella gestione dei beni che ad essa appartengono, delle regole tecniche, ovvero dei comuni canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario sia quando tenda a conseguire la condanna ad un facere, sia quando abbia per oggetto la richiesta del risarcimento del danno patrimoniale, comunque trattandosi di attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere.

Del pari, Sez. Un., ord. n. 20596 (Rv. 627427), rel. Salvago, ha attribuito alla cognizione del giudice ordinario la controversia inerente ad un'ordinanza amministrativa di rilascio di un immobile, asseritamente appartenente al demanio, ed opposta dal privato occupante il bene, al fine di sentirne negare la demanialità ed accertare il proprio diritto di proprietà; trattasi, invero, di causa che si esaurisce nell'indagine sulla titolarità della proprietà e che, quindi, è rivolta alla tutela di posizioni di diritto soggettivo.

E al giudice ordinario spetta di decidere pure la domanda diretta la rimozione delle opere poste in essere dall'amministrazione comunale in un parco giochi gestito da un privato, nell'ambito della destinazione urbanistica dell'area a verde pubblico [Sez. Un., n. 4848 (Rv. 625169), est. Mazzacane].

2. Atti di emulazione.

In tema dei più generali limiti funzionali della proprietà, Sez. 3, n. 9714 (Rv. 625989), est. Scrima, ha escluso la qualificazione come atto emulativo, vietato dall'art. 833 cod. civ., della pretesa del proprietario di un immobile volta ad ottenere il rilascio del bene in conseguenza della finita locazione, pur in presenza della trascrizione della sentenza di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto preliminare di compravendita stipulato tra locatore e conduttore con riguardo al medesimo immobile, facendo il locatore con ciò valere in giudizio diritti che gli competono per contratto e che assume violati.

Sempre estranea alla soglia di abuso delle proprietà, perseguito dall'art. 833 cod. civ., si è reputata la creazione di un terrapieno in un terreno agricolo, pur determinante, di fatto, una compressione della facoltà di godimento del proprietario confinante, in quanto, è stato ricordato, non sussiste nel nostro ordinamento una generale proibizione per il proprietario di un fondo di sopraelevare lo stesso, in modo da non pregiudicare il panorama visibile da altro fondo, salva l'eventuale costituzione della servitus altius non tollendi [Sez. 2, n. 6823 (Rv. 625384), est. Scalisi].

3. Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati.

È proseguita nel 2013 l'elaborazione giurisprudenziale del complesso profilo relativo alla rilevanza nell'ambito del diritto civile (ovvero in ambito esterno al rapporto pubblicistico con la P.A.) della difformità urbanistica degli immobili oggetto di pretese di attribuzione reale a privati.

Sez. 2, n. 20849 (Rv. 627619), est. Proto, ha spiegato che l'originaria abusività di un immobile per difformità dalla concessione, successivamente sanata, non osta al risarcimento del danno allo stesso cagionato da un'illecita costruzione su terreno confinante, giacché l'immobile condonato, non essendo più incommerciabile, è in grado di risentire della correlata diminuzione di valore commerciale.

Sez. 2, n. 3979 (Rv. 625272), est. Nuzzo, ha sostenuto l'ammissibilità dell'acquisto per usucapione, in favore di una costruzione abusiva, di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici, argomentando, come da tradizione, che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell'ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem.

Una peculiare vicenda processuale, sempre tangente la questione della rilevanza civilistica del titolo edilizio abilitativo, è stata affrontata da Sez. 2, n. 19650 (Rv. 627545), est. Petitti: in un giudizio di cassazione relativo alla violazione delle distanze nelle costruzioni, si è attribuita efficacia alla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma di legge in base alla quale era stata rilasciata la concessione edilizia ed eseguita l'opera contestata, pur non essendo stato impugnato quel provvedimento innanzi al giudice amministrativo, proprio perché la stessa concessione deve intendersi sempre rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi.

Sez. 2, n. 1251 (Rv. 624963), est. Petitti, ha invece chiarito come la disciplina delle distanze legali tra edifici, dettata dall'art. 41 quinquies, primo comma, lettera c), della legge 17 agosto 1942, n. 1150, trova applicazione altresì in caso di edificazione a scopo residenziale realizzata in zona del territorio comunale con una vocazione non residenziale, non potendosi consentire che un intervento edilizio illecito, in quanto effettuato in una zona nella quale l'edificazione a civile abitazione sia del tutto esclusa, rimanga assoggettato ad una disciplina meno rigorosa di quella operante per le costruzioni eseguite in zone del territorio espressamente destinate dallo strumento urbanistico ad edilizia residenziale.

Sez. 2, n. 22310 (Rv. 627921), est. Parziale, afferma che deve qualificarsi come condizione risolutiva propria, piuttosto che come clausola risolutiva espressa, la pattuizione, inserita in un preliminare di vendita immobiliare, che preveda la risoluzione "ipso iure" qualora il bene, che ne costituisce l'oggetto, non venga condonato sotto il profilo urbanistico entro una determinata data, per fatto non dipendente dalla volontà delle parti.

Sez. 2, n. 25021 (Rv. 628237), est. Giusti, ha specificato come l'inclusione dell'immobile oggetto di preliminare di vendita in un piano di recupero ex legge 5 agosto 1978, n. 457, ne determina la soggezione ad un vincolo che diminuisce il libero di godimento del bene, ma avente efficacia limitata alla durata di dieci anni.

Attiene pur sempre alla commerciabilità degli immobili che si pongano in contrasto con la normativa urbanistica Sez. 3, n. 11964 (Rv. 626211), est. Barreca, che ha riconosciuto il diritto di prelazione e di riscatto, di cui agli artt. 38 e 39 della legge 27 luglio 1978, n. 392, in favore del conduttore di immobile adibito ad attività commerciale comportante contatti diretti con il pubblico degli utenti e consumatori, pur laddove l'immobile locato aveva destinazione abitativa secondo il titolo autorizzativo originario ed il mutamento d'uso non era stato assentito, escludendosi che tale difformità del bene incidesse sulla liceità dell'oggetto o della causa del contratto di locazione.

4. Azioni a tutela della proprietà.

Meritano segnalazione le pronunce del 2013 della S.C. relative ai rapporti tra azioni a tutela della proprietà e conseguenti poteri giudiziali di qualificazione della pretesa e obblighi di pronuncia (in attesa della soluzione offerta dalle Sezioni unite alla questione devoluta con l'ordinanza interlocutoria n. 16553 del 2013, rel. Migliucci, della domanda con cui l'attore invochi il rilascio del bene detenuto senza titolo dal convenuto, senza tuttavia chiedere l'accertamento della sua titolarità).

Si ricorda Sez. 2, n. 705 (Rv. 624971), est. Giusti, la quale, oltre a qualificare come azione di rivendicazione la domanda con cui l'attore chiedeva di dichiarare abusiva l'occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, con conseguente condanna dello stesso al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni, senza ricollegare la propria aspettativa restitutoria al venir meno di un negozio giuridico, limpidamente negava che la pretesa avanzata potesse intendersi come risarcimento in forma specifica della situazione possessoria esistente in capo al medesimo attore prima del verificarsi dell'occupazione, in quanto il rimedio ripristinatorio ex art. 2058 cod. civ. non può prestarsi a surrogare un'azione di spoglio ormai improponibile, eludendo i limiti in cui il possesso è tutelato dal nostro ordinamento.

Sez. 2, n. 12163 (Rv. 626277), est. Scalisi, ha sostenuto che, una volta proposte contestualmente domanda di regolamento di confini e domanda di rilascio della porzione di terreno indebitamente occupata dal convenuto, rigettata la prima, nessuna pronuncia deve il giudice sulla restituzione dell'area in contestazione, in quanto, dato per corretto il confine preesistente, la cognizione dello stesso non può riguardare l'esatta estensione dei terreni appartenenti ai contendenti, ciò involgendo un accertamento tipico della diversa azione di rivendicazione. Mentre per Sez. 2, n. 25244 (in corso di massimazione), est. Manna, ha considerato come l'azione reale di regolamento dei confini possa supporre implicitamente proposta anche l'azione personale, accessoria e consequenziale, di apposizione dei termini, soltanto allorché manchino i segni esteriori di un confine certo e determinato.

Sez. 2, n. 13212 (Rv. 626280), est. Migliucci, ha ulteriormente chiarito come, quando la proprietà costituisce un requisito di legittimazione della domanda e non l'oggetto della controversia, la stessa può essere provata anche mediante presunzioni.

5. Usufrutto.

In tema di usfrutto, si segnalano essenzialmente Sez. 2, n. 482 (Rv. 624495), est. Migliucci, secondo cui la rinuncia all'usufrutto, in quanto negozio unilaterale meramente abdicativo, ha come causa la dismissione del diritto, costituendone effetto ex lege il consolidamento con la nuda proprietà, sicché tale rinuncia non può essere considerata come una donazione; così anche Sez. 2, n. 24752, (Rv. 628244), est. San Giorgio, che ha riaffermato che le diposizioni di cui agli artt. 1004 e ss. cod. civ., concernenti la ripartizione delle spese nei rapporti tra nudo proprietario ed usufruttuario, non sono opponibili al terzo creditore.

6. Servitù.

Continua a rilevarsi nella giurisprudenza della S.C. in tema di servitù del 2013 una crescente attenzione al profilo dei rapporti tra tutela dei diritti reali e tutela delle esigenze vitali di godimento dei fondi; ma le pronunce dell'ultimo anno hanno colto pure importanti profili processuali di tale settore del contenzioso.

È emblematica, in quanto adatta regole proprie dei rapporti personali di cooperazione ai rigidi schemi meramente attributivi tipici dei rapporti reali, Sez. 2, n. 944 (Rv. 624868), est. Petitti, per la quale, in virtù dei doveri di correttezza e lealtà nella relazione tra il proprietario del fondo dominante e quello del fondo servente, l'interclusione derivata dall'iniziativa edilizia del proprietario del fondo dominante in tanto può trovare tutela in quanto la stessa sia chiesta al giudice prima dell'intervento edilizio, in modo che questi possa valutare, senza i limiti derivanti dall'ormai avvenuta realizzazione dell'intervento stesso, quale sia la soluzione più idonea a contemperare le contrapposte esigenze dei proprietari.

Sez. 2, n. 5765 (Rv. 625518), est. Bursese, precisa che la rispondenza alle esigenze dell'agricoltura o dell'industria, necessaria per la costituzione coattiva della servitù di passaggio in favore di un fondo non intercluso, è requisito che trascende gli interessi individuali e giustifica l'imposizione solo per interesse generale della produzione, da valutare però con riguardo allo stato attuale dei fondi e alla loro concreta possibilità di un più ampio sfruttamento o di una migliore utilizzazione, sicché il sacrificio del fondo servente non può mai giustificarsi qualora il fondo dominante sia incolto e da lungo tempo inutilizzato a fini produttivi.

Nell'ambito delle regole del processo, Sez. Un., n. 9685 (Rv. 625962), est. Bucciante, ha invece definito che l'azione di costituzione coattiva di servitù di passaggio va contestualmente proposta nei confronti dei proprietari di tutti i fondi interposti nell'accesso alla pubblica via, potendosi attuare la funzione propria del diritto riconosciuto al proprietario del fondo intercluso dall'art. 1051 cod. civ. solo con la costituzione del passaggio nella sua interezza. A ciò consegue che, in mancanza di tale completezza dei soggetti evocati, non occorre integrare il contraddittorio, ma la domanda va respinta, in quanto diretta a far valere un diritto inesistente. Sez. 6-2, ord. n. 12386 (Rv. 626231), rel. Carrato, in ipotesi di controversia per la costituzione di una servitù di passaggio coattivo, quando il proprietario del fondo intercluso abbia convenuto in giudizio i proprietari di alcuni soltanto dei fondi circostanti, consentendo lo stato dei luoghi più soluzioni per l'uscita sulla via pubblica, ha poi negato ogni interesse del proprietario di altro fondo vicino ad intervenire volontariamente in giudizio per adesione alle ragioni dell'attore. Sez. 6-2, ord. n. 2170 (Rv. 624982), rel. Manna, ha negato, infine, l'integrazione del contraddittorio nei confronti di quei soggetti terzi nella cui sfera giuridica incida, in via esecutiva, la pronuncia di modifica o di demolizione della res di proprietà del convenuto con azione negatoria.

D'altro canto, come ha ricordato Sez. 2, n. 12819 (Rv. 626473), est. Manna, l'interclusione legittimante la costituzione della servitù coattiva di passaggio, ricorre quando il fondo è "circondato da fondi altrui", sicché non può trovare applicazione l'art. 1051 cod. civ. qualora tra il fondo che si assume intercluso e la via pubblica s'interpongano altri fondi appartenenti al medesimo titolare, dotati di accesso proprio alla via pubblica senza eccessivo dispendio o disagio.

Sez. 2, n. 4336 (Rv. 625110), est. Migliucci, ha escluso che, nel caso in cui il proprietario del fondo servente abbia l'obiettiva esigenza di fare lavori, riparazioni o miglioramenti, il trasferimento della servitù in luogo diverso, ai sensi dell'art. 1068, secondo comma, cod. civ., imponga di accertare la maggiore gravosità dell'esercizio della servitù stessa determinata da fatti sopravvenuti rispetto al momento di costituzione del vincolo.

7. Tutela ed effetti del possesso.

Ai fini della legittimazione alla tutela possessoria, si deve menzionare certamente Sez. 2, n. 7214 (Rv. 626080), est. Giusti, secondo cui lo spoglio violento o clandestino compiuto dal convivente proprietario more uxorio in danno del partner consente il ricorso all'azione di reintegrazione, in quanto la convivenza dà vita ad un autentico consorzio familiare e determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità. È così evidente l'evoluzione rispetto alle tesi più risalenti, che ravvisavano nel potere dei componenti della famiglia di fatto una mera detenzione subordinata per ragioni di ospitalità, non suscettibile di tutela possessoria nei confronti di colui in nome e per conto del quale quelli detenessero.

Quanto poi alla configurabilità del possesso ad usucapionem, gli elementi costitutivi dell'attività materiale, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà e svolta uti dominus, sono stati negati in ipotesi di mera coltivazione del fondo [Sez. 2, n. 18215 (Rv. 627301), est. Scalisi], come di uso di una striscia di terreno ricoperta di ghiaia per finalità di parcheggio e spazio di manovra [Sez. 2, n. 10894 (Rv. 625982), est. Nuzzo]. Peraltro, Sez. 2, n. 5769 (Rv. 625685), est. Nuzzo, ha affermato che il parcheggio di autovetture costituisce comunque manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, sebbene non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, del quale difetta la realitas dell'utilità nella relazione tra fondi. Il possesso idoneo ad usucapire è stato, per contro, ravvisato allorché lo stesso risultava acquisito a seguito in forza di un contratto nullo di trasferimento della proprietà [Sez. 2, n. 14115, (Rv. 626606), est. Carrato]. L'atto nullo di acquisto (come, nella specie, relativo ad un'area di parcheggio vincolata al diritto d'uso riservato ex lege ai proprietari delle unità immobiliari comprese in fabbricati di nuova costruzione) non consente però, ovviamente, di fondare l'usucapione decennale, ai sensi dell'art. 1159 cod. civ. [Sez. 2, n. 12996 (Rv. 626452), est. Petitti]. Del pari, l'usucapione decennale non può beneficiare chi abbia acquistato un immobile dall'effettivo proprietario, ma in forza di titolo la cui nota di trascrizione rechi inesattezze, tali da indurre incertezza sulla persona del dante causa, così da escludere la validità dell'adempimento pubblicitario [Sez. 2, n. 14440, (Rv. 626583), est. Carrato]. Non rileva, infine, per Sez. 2, n. 25245 (in corso di massimazione), est. Proto, quale rinuncia ad un'usucapione ormai maturata, una dichiarazione ricognitiva dell'altrui proprietà rivolta ad un terzo, prescindendo la pretesa acquisitiva del possessore dall'esistenza di una corrispondente posizione di diritto soggettivo.

Sempre quanto agli effetti del possesso, Sez. 6-2, ord. n. 23035 (Rv. 628004), rel. Piccialli, ha negato l'applicabilità dell'art. 1148 cod. civ., la quale limita temporalmente l'obbligo restitutorio dei frutti per il possessore in buona fede con decorrenza dal giorno della domanda giudiziale, con riguardo alla condizione del promissario acquirente di un fondo agricolo, immesso anticipatamente nella disponibilità della cosa, in quanto detentore della stessa, tenuto, perciò, a restituire non solo il bene indebitamente goduto, ma anche le utilità ab initio ricavate da esso.

  • condominio
  • comproprietà

CAPITOLO VII

COMUNIONE E CONDOMINIO

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Premessa. - 2 Regole di uso e di amministrazione della cosa comune. - 3 Rimborsi di spese e obbligazioni dei partecipanti alla comunione. - 4 Comunione di strada privata ex collatione agrorum privatorum. - 5 Le situazioni giuridiche di comunione e di condominio. - 6 Ripartizione delle spese condominiali ed obbligo di contribuzione. - 7 Innovazioni. - 8 Sopraelevazioni. - 9 Attribuzioni e legittimazione dell'amministratore. - 10 L'assemblea. - 11 Impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea. - 12 Supercondominio. - 13 Regolamento di condominio. - 14 Condomini di immobili danneggiati da eventi sismici e condomini di gestione.

1. Premessa.

La materia della comunione e del condominio negli edifici, oggetto come sempre, di numerose pronunce della S.C. anche nel 2013, rivela all'attualità particolare interesse alla luce dell'entrata in vigore, proprio nel mese di giugno di questo stesso anno, della legge 11 dicembre 2012, n. 220, la quale, com'è noto, ha introdotto Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici, intervenendo, in particolare, sugli artt. 1117, 1118, 1119, 1120, 1122, 1124, 1129, 1130, 1131, 1134, 1136, 1137, 1138 e 2659 cod. civ., nonché sugli artt. 63, 64, 66, 67, 68, 69 e 70 disp. att. cod. civ., sull'art. 2, primo comma, legge 9 gennaio 1989, n. 13, sull'art. 26, secondo comma, legge 9 gennaio 1991, n. 10, sull'art. 2-bis, tredicesimo comma, del d.l. 23 gennaio 2001, n. 5 (convertito in legge 20 marzo 2001, n. 66) e sull'art. 23, primo comma, cod. proc. civ.; risultano, inoltre, inseriti gli artt. 1117-bis, 1117-ter, 1117-quater, 1122-bis, 1122-ter, 1130-bis cod. civ., gli artt. 71-bis, 71-ter, 71-quater e 165-bis disp. att. cod. civ., e un art. 30 della medesima legge n. 220 del 2012, il quale rimane a sé stante.

Fermo il regime transitorio, dettato dall'art. 32 della legge n. 220 del 2012, potrà essere utile confrontare gli approdi giurisprudenziali degli ultimi mesi con le prospettive interpretative determinate dalla vigenza della disciplina novellata.

2. Regole di uso e di amministrazione della cosa comune.

Sez. 2, n. 944 (Rv. 624867), est. Petitti, ricorda come l'esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall'art. 1102 cod. civ., deve esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà e non può, quindi, essere esteso per il vantaggio di altre e diverse proprietà del medesimo comunista, perché in tal caso si verrebbe ad imporre una servitù sul bene comune, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i condomini.

Del pari, Sez. 2, n. 15024 (Rv. 626961), est. Falaschi, nega che i muri perimetrali di un edificio in condominio possano essere usati, senza il consenso di tutti i comproprietari, per l'utilità di altro immobile di proprietà esclusiva di uno dei condomini, costituente un'unità distinta rispetto all'edificio comune, in quanto ciò costituirebbe una servitù a carico di detto edificio.

Sez. 3, n. 11553 (Rv. 626712), est. Frasca, ha affermato che, nell'ambito del paritario concorso all'amministrazione della cosa in comunione, qualora il singolo partecipante compia un atto di ordinaria amministrazione, anche consistente in un negozio giuridico o in un'azione giudiziale aventi tali finalità, come l'agire per finita locazione contro i conduttori della cosa comune, opera la presunzione del consenso degli altri, ai sensi dell'art. 1105, primo comma, cod. civ., presunzione superabile dimostrando l'esistenza del dissenso degli altri comunisti per una quota maggioritaria o eguale della comunione, non occorrendo che tale dissenso risulti espresso in una deliberazione a norma dell'art. 1105, secondo comma, cod. civ.

Sez. 2, n. 15024 (Rv. 626960), est. Falaschi, ha ricordato che, ai sensi dell'art. 1108, terzo comma, cod. civ., applicabile al condominio in virtù dell'art. 1139 cod. civ., per la costituzione di diritti reali sulle parti comuni è necessario il consenso di tutti i condòmini, consenso che non può essere sostituito da una deliberazione assembleare a maggioranza. Può essere importante qui rimarcare come, in seguito all'approvazione della legge n. 220 del 2012, nell'art. 1120, secondo comma, n. 2, cod. civ., per l'esecuzione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, sia adesso prevista la facoltà di costituire a titolo oneroso in favore di terzi un diritto reale o personale di godimento sul lastrico solare (o altra superficie comune). Viene quindi da chiedersi cosa possa cambiare con tale disposizione rispetto al citato art. 1108, terzo comma, cod. civ., secondo il quale, come visto, non spetta all'assemblea, né tanto meno ai singoli condomini (semmai nei limiti della loro quota, ex art. 1103 cod. civ.) la potestà di cedere ad un soggetto estraneo al condominio l'uso di una cosa comune, sicché la costituzione del diritto reale o di una locazione ultranovennale impongono il consenso di tutti i partecipanti.

Sez. 2, n. 27233 (in corso di massimazione), est. Carrato, riconosce la derogabilità dei criteri d'uso delle parti comuni di cui all'art. 1102 cod. civ. ad opera delle regole di gestione collettiva, ma senza mai poter contemplare un divieto di utilizzazione generalizzata delle stesse.

3. Rimborsi di spese e obbligazioni dei partecipanti alla comunione.

Sez. 2, n. 20652 (Rv. 627614), est. Migliucci, ha potuto ribadire che l'art. 1110 cod. civ. esclude ogni rilievo dell'urgenza dei lavori, e stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell'amministratore, abbia sostenuto esborsi necessari per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione soltanto di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l'amministratore. In caso di inattività di questi ultimi, il comproprietario può, dunque, procedere all'anticipazione e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpellati.

Secondo quanto evidenziato da Sez. 2, n. 253 (Rv. 624593), est. Bucciante, restano esclusi dall'eccezionale pretesa di rimborso ex art. 1110 cod. civ. gli oneri non necessari per il mantenimento della cosa nella sua integrità, quanto occorrenti unicamente per la migliore fruizione del bene, come le spese per l'illuminazione dell'immobile, ovvero per l'adempimento di obblighi fiscali.

Sez. 2, n. 20841 (Rv. 627630), est. Proto, ha chiarito il funzionamento del meccanismo di incremento della quota spettante al comproprietario che abbia pagato il debito in solido contratto per la cosa comune, senza riceverne il rimborso, ai sensi dell'art. 1115, terzo comma, cod. civ. Tale criterio di ricalcolo comporta che la quota del solvens cresce in misura corrispondente al rimborso dovutogli, ed opera al momento della divisione, a condizione che non siano ancora estinte le obbligazioni in solido dei comproprietari nei confronti di terzi, contratte per la cosa comune, scadute o scadenti entro l'anno dalla domanda di divisione. La disposizione sull'incremento di valore si correla, infatti, al secondo comma dello stesso art. 1115, per cui il prezzo di vendita, e comunque il valore della cosa da assegnare, viene diminuito dell'importo necessario all'estinzione delle obbligazioni e il valore recuperato per effetto dell'estinzione dell'obbligazione viene successivamente riaccreditato al condividente che ha pagato, sotto forma, appunto, di incremento del valore della quota.

Il coerede, poi, che sul bene comune da lui posseduto abbia eseguito delle migliorie, può pretendere, in sede di divisione, non già l'applicazione dell'art. 1150 cod. civ., ma, quale mandatario o utile gestore degli altri eredi partecipanti alla comunione ereditaria, il rimborso delle spese sostenute per la cosa comune, esclusa la rivalutazione monetaria: è quanto specifica Sez. 6-2, ord. n. 16206 (Rv. 626933), rel. Carrato.

4. Comunione di strada privata ex collatione agrorum privatorum.

Per dirsi costituita una comunione di via privata ex collatione agrorum privatorum, non occorre soggiacere al regime probatorio della rivendicazione: al pari di ogni altra communio incidens, tale comunione può dimostrarsi con prove testimoniali e presuntive, concernenti l'uso prolungato e pacifico di essa e la sua rispondenza allo stato dei luoghi, nonché l'effettiva destinazione alle esigenze comuni di passaggio, purché l'asserito partecipante abbia contribuito al conferimento del sedime [così Sez. 2, n. 16864 (Rv. 627089), est. Mazzacane].

Proprio perché il sedime di una siffatta strada vicinale, formata con apporti di terreno dei proprietari frontisti, si trova in comproprietà dei medesimi titolari degli immobili latitanti, non è ammissibile un'azione di regolamento di confini tra gli stessi, né il giudice può fare applicazione dell'art. 950 cod. civ. al fine di individuare, all'interno della strada vicinale oggetto di comunione, l'originaria linea di confine: Sez. 2, n. 3130 (Rv. 625050), est. Proto.

5. Le situazioni giuridiche di comunione e di condominio.

Anche a seguito della Riforma introdotta con la legge n. 220 del 2012, rimane confermata l'opzione codicistica di non dare una definizione normativa del condominio degli edifici. È rilevante, tuttavia, quanto deciso da Sez. 2, n. 10053 (Rv. 625818), est. Giusti, secondo cui la qualificazione di un contesto immobiliare in termini di comunione e non di condominio può essere oggetto di giudicato.

Sez. 2, n. 22641 (Rv. 627892), est. Bursese, estende le disposizioni in materia di condominio al consorzio costituito tra proprietari di immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale, assumendo, a tal fine, rilievo decisivo la volontà manifestata dagli stessi consorziati con la regolamentazione statutaria. Se ne fa discendere, peraltro, che solo l'adesione al consorzio può far sorgere l'obbligazione di versare la quota stabilita dagli organi statutariamente competenti, legittimando la pretesa di pagamento dell'ente.

6. Ripartizione delle spese condominiali ed obbligo di contribuzione.

Sez. 2, n. 10081 (Rv. 625820), est. San Giorgio, riafferma che, ove sussista una deliberazione di ripartizione dei contributi approvata dall'assemblea, il singolo condomino non può sottrarsi al pagamento delle spese a lui spettanti deducendo la mera mancanza formale delle tabelle millesimali, dovendo comunque opporsi al medesimo riparto mediante contestazione dei criteri seguiti. La soluzione offerta ribadisce così la più recente ricostruzione giurisprudenziale, ad avviso della quale la deliberazione che approva le tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini, che sono previsti nella legge, ma solo come parametro di misurazione degli stessi, determinato in base ad una valutazione tecnica. Il novellato art. 69 disp. att. cod. civ. dispone ora che i valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nella tabella millesimale possono essere, di regola, rettificati o modificati all'unanimità. I medesimi valori possono, invece, essere rettificati o modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, con la maggioranza prevista dall'art. 1136, secondo comma, cod. civ., se siano conseguenza di un errore o quando le mutate condizioni di una parte dell'edificio, conseguenti ad interventi di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, abbiano alterato per più di un quinto il valore proporzionale anche di una singola proprietà individuale. Ciò dovrebbe mantenere integra altresì la conclusione secondo cui le tabelle millesimali non devono essere in origine approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo a tale scopo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, secondo comma, cod. civ., laddove rivela natura contrattuale la tabella da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare quella "diversa convenzione", di cui all'art. 1123, primo comma, cod. civ. In sostanza, se una siffatta tabella meramente ricognitiva dei criteri di ripartizione legali sia stata approvata, e se essa non risulti viziata da errori originari o da sopravvenute sproporzioni (casi nei quali può rimediarvi la maggioranza nella soglia indicata), la modifica o la revisione di quella necessita dell'unanimità, perché così si altererebbe ciò che è matematicamente corretto, adottandosi una "convenzione" sulle spese.

Sez. 2, n. 21950 (in corso di massimazione), est. Bursese, proprio in relazione alle tabelle millesimali, riafferma che l'errore determinante la revisione delle stesse, ai sensi dell'art. 69, disp. att. cod. civ., è dato dall'obiettiva divergenza tra valori effettivi delle singole unità immobiliari e valori indicati in tabella, onerando la parte interessata di dare prova, sia pure implicita, di tale difformità, e chiamando il giudice alle necessarie verifiche, per riscontrare e correggere gli errori nel calcolo proporzionale; viene, inoltre, desunta dalla natura, di regola, non contrattuale dell'atto di approvazione delle tabelle millesimali, la legittimazione a domandarne la revisione pure del condomino che vi abbia concorso.

Sez. 2, n. 21650 (Rv. 627880), est. Giusti, spiega come la deliberazione assembleare di approvazione del bilancio preventivo di un esercizio annuale, avendo carattere generale e rivestendo una specifica finalità amministrativo-contabile, non possa essere implicitamente desunta da una successiva deliberazione assembleare, che differisca l'approvazione del bilancio consuntivo dello stesso esercizio.

Sez. 2, n. 64 (Rv. 624553), est. Petitti, ha evidenziato come le parti dell'edificio - muri e tetti (art. 1117, n. 1 cod. civ.) - ovvero le opere ed i manufatti - fognature, canali di scarico e simili (art. 1117 n. 3, cod. civ.) - deputati a preservare l'edificio condominiale da agenti atmosferici e dalle infiltrazioni d'acqua, piovana o sotterranea, rientrano, per la loro funzione, fra le cose comuni, le cui spese di conservazione sono assoggettate alla ripartizione in misura proporzionale al valore delle singole proprietà esclusive, ai sensi della prima parte dell'art. 1123 cod. civ., non rientrando, per contro, fra quelle parti suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa, ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri, di cui all'art. 1123, secondo e terzo comma, cod. civ.

Sez. 2, n. 21742 (Rv. 627851), est. D'Ascola, spiega che, qualora sia stata adottata una delibera assembleare di sostituzione dell'impianto di riscaldamento centralizzato, ai sensi della legge 9 gennaio 1991, n. 10, i perduranti utilizzatori del vecchio impianto, comunque mantenuto in esercizio, non hanno titolo al rimborso dei costi sostenuti da parte dei condomini che abbiano ottemperato a quanto deciso dall'assemblea.

Se una delibera assembleare addebita le spese di riscaldamento a condomini cui non sia attribuito l'impianto comune, la stessa è da qualificarsi nulla, e quindi non soggetta al termine di decadenza di cui all'art. 1137 cod. civ., inerendo il vizio all'estensione dei diritti individuali dei partecipanti pregiudicati e non alla mera determinazione quantitativa del riparto delle spese [Sez. 2, n. 22634 (Rv. 627882), est. Nuzzo).

Sez. 2, n. 27233 (in corso di massimazione), est. Carrato, ripete che, in difetto di diversa convenzione negoziale adottata all'unanimità, la ripartizione delle spese generali deve necessariamente avvenire secondo i criteri di proporzionalità fissati nell'art. 1123, primo comma, cod. civ., non essendo, pertanto, consentito all'assemblea, mediante deliberazione a maggioranza, di suddividere con criterio "capitano" gli oneri necessari per la prestazione di servizi nell'interesse comune.

Ad avviso di Sez. 2, n. 10196 (Rv. 626168), est. Giusti, una deliberazione assembleare a maggioranza non può validamente sancire a carico dei partecipanti al condominio l'applicazione di interessi moratori per l'ipotesi di ritardato pagamento delle quote, potendo una tale previsione essere inserita soltanto in un regolamento contrattuale, approvato all'unanimità.

Per Sez. 2, n. 10053 (Rv. 625817), est. Giusti, inoltre, sebbene, in ipotesi di danni alle parti comuni ascrivibili ad uno o ad alcuni dei condomini, sussiste l'obbligo del responsabile di assumere l'onere del relativo ripristino, spetta all'assemblea, fino a quando il singolo partecipante non abbia riconosciuto la propria responsabilità o essa non sia stata accertata in sede giudiziale, il potere di ripartire tra tutti i condomini le spese di ricostruzione o riparazione dei beni danneggiati, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, fermo restando il diritto di costoro di agire, individualmente o mediante l'amministratore, per ottenere dal responsabile il rimborso di quanto anticipato.

Sez. 2, n. 2049 (Rv. 625051), est. D'Ascola, si rivela, invece, preziosa nel delineare l'indipendenza dell'obbligazione del singolo partecipante verso il condominio dalle vicende del debito del condominio verso i suoi creditori, con ciò tracciando le basi di una distinta imputazione del rapporto gestorio al condominio in quanto tale, e superando anche il postulato dell'immediata riferibilità a ciascuno dei condomini delle obbligazioni contratte dall'amministratore nei confronti dei terzi. La sentenza sostiene che è la deliberazione di approvazione delle spese, adottata dall'assemblea, a far sorgere l'obbligo dei condomini di pagare al condominio i contributi dovuti, sicché il singolo partecipante non può ritardare il pagamento delle rate di contribuzione in attesa degli sviluppi delle relazioni contrattuali del condominio col suo creditore, né può dedurre che il pagamento di quanto preteso dall'amministratore sia stato effettuato direttamente al terzo, dovendo pur sempre adempiere all'obbligazione verso quest'ultimo, salva l'insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso in caso di avanzi di cassa o di risoluzione dei contratti precedentemente stipulati.

La materia dei rapporti tra condominio, condomini e terzi creditori è ora regolata nei primi due commi del riformato art. 63, disp. att. cod. civ., ove si dispone che l'amministratore «è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi», ammettendosi, inoltre, i creditori ad agire nei confronti degli «obbligati in regola con i pagamenti» dopo la preventiva infruttuosa escussione dei morosi. Al fine di specificare tale condizione soggettiva di "condomino moroso" o di "obbligato in regola con i pagamenti", sarà altrettanto utile l'insegnamento di Sez. 2, n. 5038 (Rv. 625346), est. Proto, per la quale, il condomino, eseguendo un pagamento per spese condominiali, può imputarlo ai debiti per singoli esercizi e può escludere che le somme pagate vengano imputate a crediti contestati.

Il nuovo primo comma del medesimo art. 63, disp. att. cod. civ. aggiunge che l'amministratore «è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi»; mentre l'art. 1130, n. 10, cod. civ., sempre voluto dalla Riforma, obbliga l'amministratore a «fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso». Al riguardo, Sez. 3, n. 1593 (Rv. 624998), est. Scarano, ha asserito che sono certamente riconducibili alla nozione di "dato personale", oggetto di tutela ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, i dati dei singoli partecipanti ad un condominio, raccolti ed utilizzati per le finalità di cui agli artt. 1117 ss cod. civ.; giustificandosi, peraltro, in base a ragioni di buon andamento e di trasparenza, una comunicazione degli stessi a tutti i condomini, non solo su iniziativa dell'amministratore in sede di rendiconto annuale, di assemblea, o nell'ambito delle informazioni periodiche trasmesse nell'assolvimento degli obblighi scaturenti dal mandato ricevuto, ma anche su richiesta di ciascun condomino, in quanto investito di un potere di vigilanza e di controllo sull'attività di gestione delle cose comuni, che lo facoltizza a richiedere in ogni tempo all'amministratore informazioni sulla situazione contabile del condominio, comprese quelle che riguardano eventuali posizioni debitorie degli altri partecipanti.

Sez. 2, n. 10235 (Rv. 626331), est. Carrato, specifica che, in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, qualora l'approvazione della delibera di esecuzione dei lavori di straordinaria manutenzione sopravvenga soltanto successivamente alla stipula dell'atto di alienazione, l'obbligo del pagamento delle relative quote condominiali incombe sull'acquirente, non avendo alcun rilievo l'esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria adottata anteriormente a tale stipula. In proposito, peraltro, l'ultimo comma del novellato art. 63 disp. att. cod.civ., contempla, proprio per il caso di alienazione della porzione esclusiva, l'obbligo solidale di cedente e cessionario al pagamento dei contributi fino al momento in cui il trasferimento venga reso noto all'amministratore grazie alla trasmissione di copia autentica del titolo, inserendo così una diposizione normativa in grado di ristabilire le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza nell'ambito delle relazioni condominiali e delle correlate legittimazioni.

7. Innovazioni.

Per Sez. 2, n. 4340 (Rv. 625186), est. Carrato, non ha ad oggetto un'innovazione, e non richiede, pertanto, l'approvazione con un numero di voti che rappresenti i due terzi del valore dell'edificio, la deliberazione dell'assemblea con cui sia disposta l'apposizione di cancelli all'ingresso dell'area condominiale, al fine di disciplinare il transito pedonale e veicolare ed impedire l'ingresso indiscriminato di estranei, attenendo essa all'uso ed alla regolamentazione della cosa comune, senza alterarne la funzione o la destinazione, né sopprimere o limitare la facoltà di godimento dei condomini.

Per Sez. 2, n. 945 (Rv. 624969), est. Petitti, neppure costituisce un'innovazione, ai sensi dell'art. 1120 cod. civ., la deliberazione con la quale l'assemblea autorizzi chi lo richieda all'uso del vano contenente la canna pattumiera allo scopo di alloggiarvi il contatore e la caldaia di produzione dell'acqua calda.

Secondo Sez. 6- 2, ord. n. 18147 (Rv. 627307), est. Piccialli, ai fini della legittimità della deliberazione adottata dall'assemblea dei condomini ai sensi dell'art. 2 della legge 9 gennaio 1989, n. 13, volta all'installazione di un ascensore, l'impossibilità di osservare, in ragione delle particolari caratteristiche dell'edificio, tutte le prescrizioni della normativa speciale diretta al superamento delle barriere architettoniche non comporta la totale inapplicabilità delle disposizioni di favore, finalizzate ad agevolare l'accesso agli immobili dei soggetti versanti in condizioni di minorazione fisica, qualora l'intervento produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione.

Sez. 2, n. 22276 (Rv. 627900), est. D'Ascola, ha enumerato le condizioni di validità della delibera condominiale di trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato in impianti individuali, adottata ai sensi dell'art. 26, secondo comma, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, in conformità agli obiettivi di risparmio energetico perseguiti da tale legge: non occorre, invero, una verifica preventiva di assoluta convenienza dell'innovazione, quanto ai consumi di ogni singolo impianto, né che il servizio impianto centralizzato da sostituire sia alimentato da fonte diversa dal gas, né rilevano le impossibilità emerse in sede attuativa in uno degli appartamenti, ovvero l'adozione di un sistema di contabilizzazione del calore, o l'utilizzo di energia solare.

Si consideri come, per effetto della legge n. 220 del 2012, con gli artt. 1120, secondo e terzo comma, 1122-bis e 1122-ter cod. civ., siano ora favorite, in particolare quanto all'individuazione dei quorum deliberativi occorrenti ed alle modalità esecutive coinvolgenti sia beni condominiali sia porzioni esclusive, le installazioni su parti comuni di opere ed impianti (centralizzati e non centralizzati) relativi a sicurezza e salubrità, eliminazione delle barriere architettoniche (qui, peraltro, innalzandosi la maggioranza necessaria rispetto a quella prima prevista dall'art. 2, primo comma, l. 9 gennaio 1989, n. 13), contenimento del consumo energetico e produzione di energia da fonti rinnovabili, ricezione radiotelevisiva e di flussi informativi, videosorveglianza. Mentre l'art. 1117-ter cod. civ., sempre ora allestito, contempla una consistente maggioranza, pari ai quattro quinti dei condomini ed ai quattro quinti del valore dell'edificio, che consente all'assemblea di "modificare la destinazione delle parti comuni".

8. Sopraelevazioni.

Sez. 2, n. 5039 (Rv. 625277), est. Carrato, ha negato che costituisca "nuova fabbrica" in sopraelevazione, agli effetti dell'art. 1127 cod. civ., la cosiddetta "altana", struttura tipica dei palazzi veneziani consistente in una piattaforma o loggetta, di regola in legno, realizzata sulla sommità del fabbricato.

Per Sez. 2, n. 10082 (Rv. 625956), est. San Giorgio, l'art. 1127, secondo comma, cod. civ., il quale fa divieto al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio condominiale di realizzare sopraelevazioni precluse dalle condizioni statiche del fabbricato, impedisce altresì di costruire sopraelevazioni che non osservino le specifiche disposizioni dettate dalle leggi antisismiche, fondandosi la necessità di adeguamento alla relativa normativa tecnica su una presunzione di pericolosità, senza che possa aver rilievo, ai fini della valutazione della legittimità delle opere sotto il profilo del pregiudizio statico, il conseguimento della concessione in sanatoria relativa ai corpi di fabbrica elevati sul terrazzo dell'edificio.

Chiarisce Sez. 2, n. 10048 (Rv. 625813), est. Bursese, che la nozione di aspetto architettonico, di cui all'art. 1127, cod. civ., la quale opera come limite alla facoltà di sopraelevare, non coincide con quella, più restrittiva, di decoro architettonico, di cui all'art. 1120 cod. civ., che invece limita le innovazioni, sebbene l'una nozione non possa prescindere dall'altra, dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista.

9. Attribuzioni e legittimazione dell'amministratore.

Sez. 2, n. 21826 (Rv. 627825), est. Falaschi, ha escluso che rientri nei poteri deliberativi dell'assemblea, come nei poteri di rappresentanza dell'amministratore, la proposizione di una domanda diretta non alla difesa della proprietà comune, ma alla sua estensione mediante declaratoria di appartenenza al condominio, per intervenuta usucapione, di un'area adiacente al fabbricato, implicando una siffatta azione non solo l'accrescimento del diritto di comproprietà, ma anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati. Per promuovere tale domanda, l'amministratore dovrà dunque munirsi di un mandato speciale rilasciato da ciascun condomino.

Neppure rientra tra le controversie nelle quali l'amministratore può agire o essere convenuto in giudizio senza espressa autorizzazione dell'assemblea quella relativa a querela di falso [Sez. 2, ord. n. 12599, (Rv. 626228), est. D'Ascola].

Soltanto l'amministratore (e non anche il condominio in sé) è, invece, interessato e legittimato a contraddire nel giudizio promosso da un condomino per la revoca del primo [Sez. 2, n. 23955 (Rv. 628020), est. Manna]. Il provvedimento di revoca giudiziale, conseguente ad un procedimento tuttora improntato a rapidità, informalità ed ufficiosità, può essere adottato «sentito l'amministratore in contraddittorio con il ricorrente» (ha così esteso anche al condomino istante il diritto alla comparizione personale già previsto per l'amministratore, in maniera da consentire al collegio di ascoltare le dichiarazioni di entrambi in contraddittorio sugli addebiti mossi. Peraltro, l'obbligo di sentire le parti non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto del condomino ricorrente e dell'amministratore di richiedere l'interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del tribunale di valutarne la specifica rilevanza.

Sez. Un., n. 25454 (Rv. 628056), est. D'Ascola, peraltro, ridelineando i confini della iniziative processuali spettanti ai singoli condomini rispetto alle attribuzioni conservative riservate dalla legge all'amministratore, in relazione alla legittimazione alla tutela dei beni condominiali ed al contradittorio imposto delle liti in cui si faccia questione della condominialità di determinate res, ha accordato a ciascuno dei comproprietari la titolarità delle azioni di difesa della proprietà e del godimento della cosa comune, negando la necessità della partecipazione al giudizio di tutti gli altri condomini, almeno allorché l'attore non chieda che sia accertata con efficacia di giudicato la posizione degli altri comproprietari e il convenuto intenda unicamente resistere alla domanda di rivendica, senza, perciò, mettere in discussione la comproprietà degli altri soggetti.

Di seguito, Sez. 2, n. 28141, in corso di massimazione, est. Migliucci, ha precisato, nella piena consapevolezza del dictum di Sez. Un., n. 25454 (che si è inteso limitato alla fattispecie di controversia fra due condomini, e quindi non riferibile al caso in cui sia proposta da un condomino o da un terzo una domanda di accertamento della proprietà esclusiva di un bene condominiale, ovvero alla più ampia questione della legittimazione passiva dell'amministratore) come l'amministratore del condominio sia appunto legittimato passivamente in via generale, agli effetti del secondo comma dell'art. 1131 cod. civ., nelle liti aventi a oggetto le azioni reali relative alle parti comuni, senza che debba ritenersi necessaria la partecipazione al processo di tutti i condomini, e ciò in presenza di domanda con cui in via riconvenzionale i convenuti avevano chiesto l'accertamento della proprietà esclusiva di un sottotetto. Si è spiegato come detta legittimazione abbia portata generale, in quanto estesa a ogni interesse condominiale, essendo la ratio della citata norma diretta a evitare il gravoso onere a carico del terzo o del condomino, che intenda agire nei confronti del condominio, di evocare in giudizio tutti i condomini, facendosi ovviamente salva, per le cause aventi a oggetto materie che eccedono le attribuzioni dell'amministratore, ai sensi del terzo comma del medesimo art. 1131 cod. civ., l'esigenza di subordinare il potere di rappresentanza in giudizio dell'amministratore all'autorizzazione a resistere (o alla ratifica) da parte dell'assemblea.

10. L'assemblea.

Sez. 2, n. 13011 (Rv. 626457), est. Bertuzzi, ha negato la sussistenza ex se di un conflitto di interessi in ipotesi di coincidenza, in capo ad uno dei partecipanti al voto in assemblea di condominio relativo ad edificio destinato all'esercizio di attività imprenditoriale, delle posizioni di condomino di maggioranza, amministratore del condominio e gestore dell'impresa ivi esercitata. La questione assume nuove sembianze alla luce dei "nuovi" commi primo e quinto, in particolare, dell'art. 67 disp. att. cod. civ., ispirati dallo scopo di regolare l'esercizio del diritto dei condomini di farsi rappresentare nelle assemblee, in maniera da garantire l'effettività del dibattito e la concreta collegialità delle riunioni, prescrivendo, anzitutto, la forma scritta della delega, facendo poi divieto al delegato di rappresentare più di un quinto del condomini e del valore dell'edificio ove i condomini siano più di venti, impedendo, infine, il conferimento di deleghe all'amministratore. La non delegabilità dell'amministratore per la partecipazione alle assemblee suppone, all'evidenza, che l'amministratore, per quanto "mandatario" dei condomini, si riveli ormai sempre, con riferimento, cioè, a qualsiasi deliberazione, portatore di ragioni proprie, in potenziale conflitto con l'interesse istituzionale del condominio.

Per Sez. 2, n. 2218 (Rv. 625133), est. Carrato, i rapporti tra il rappresentante intervenuto in assemblea ed il condomino rappresentato devono ritenersi disciplinati, in difetto di norme particolari, dalle regole generali sul mandato, con la conseguenza che solo il condomino delegante e quello che si ritenga falsamente rappresentato sono legittimati a far valere gli eventuali vizi della delega o la carenza del potere di rappresentanza, e non anche gli altri condomini estranei a tale rapporto. Il riformato art. 67 (in particolare, commi primo e quinto) disp. att. cod. civ. ha peraltro appena subìto cambiamenti complessivamente ispirati dallo scopo di regolare l'esercizio del diritto dei condomini di farsi rappresentare nelle assemblee, prescrivendo, anzitutto, la forma scritta della delega, facendo poi divieto al delegato di rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore dell'edificio ove i condomini siano più di venti, impedendo, infine, il conferimento di deleghe all'amministratore.

Sez. 6-2, ord. n. 14930 (Rv. 626785), rel. Carrato, riconosce il potere di convocazione dell'assemblea anche all'amministratore la cui nomina assembleare non sia stata immediatamente seguita dall'accettazione.

Sez. 6-2, n. 22047 (in corso di massimazione), est. Petitti, ha evidenziato come la recettizietà dell'avviso di convocazione assembleare, strumentale al diritto di intervento dei condomini, imponga la ricezione dello stesso nel termine di almeno cinque giorni antecedenti alla data fissata per la riunione dell'assemblea in prima convocazione, a nulla rilevando la data di svolgimento dell'adunanza in seconda convocazione, come del resto confermato dal nuovo testo dell'art. 66, comma terzo, disp. att., cod. civ., introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220.

Dal recapito, poi, della lettera raccomandata contenente il verbale dell'assemblea condominiale all'indirizzo del condomino assente all'adunanza discende la presunzione iuris tantum di conoscenza della deliberazione ivi adottata, nonché la correlata decorrenza del termine per l'impugnazione ex art. 1137 cod. civ. [Sez. 2, n. 22240 (Rv. 627897), est. Giusti].

Afferma Sez. 2, n. 16774 (Rv. 627106), est. Bursese, che, qualora un'unità immobiliare facente parte di un condominio sia oggetto di diritto di usufrutto, all'assemblea chiamata a deliberare l'approvazione del preventivo di spesa per il rifacimento della facciata condominiale deve essere convocato il nudo proprietario, trattandosi di opere di manutenzione straordinaria. A seguito della legge n. 220 del 2012, l'art. 67, commi sesto e settimo, disp. att. cod. civ., lascia fermo il diritto di voto dell'usufruttuario negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni, e riserva in tutte le altre deliberazioni il diritto di voto ai proprietari, salvi i casi in cui l'usufruttario intenda avvalersi del diritto di eseguire a proprie spese le riparazioni, ai sensi dell'art. 1006 cod. civ., ovvero si tratti di miglioramenti o addizioni, ferma restando la necessità di avvisare entrambi dell'assemblea. Il comma ottavo dello stesso art. 67 disp. att. cod. civ. impone, infine, il pagamento solidale dei contributi dovuti da nudo proprietario ed usufruttuario dell'appartamento.

11. Impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea.

Sez. 6-2, ord. n. 11214 (Rv. 626417), est. Bianchini, ha stabilito che l'interesse all'impugnazione per vizi formali di una deliberazione dell'assemblea condominiale, ai sensi dell'art. 1137 cod. civ., pur non essendo condizionato al riscontro della concreta incidenza sulla singola situazione del condomino, postula comunque che la delibera in questione sia idonea a determinare un mutamento della posizione dei condomini nei confronti dell'ente di gestione, suscettibile di eventuale pregiudizio. In argomento, il vigente art. 66, terzo comma, disp. att. cod. civ., precisa ora che, in caso di avviso omesso, tardivo o incompleto degli aventi diritto, la deliberazione adottata è annullabile, ma su istanza soltanto dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati; col che la Riforma sembra aver tratto le dovute conseguenze sotto il profilo processuale dalla sistemazione della fattispecie dell'omessa convocazione nell'ambito dei rimedi sostanziali operata da Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4806.

Sotto il profilo processuale, Sez. 2, n. 18117 (Rv. 627305), est. Scalisi, ha sostenuto che, qualora il giudizio di primo grado, relativo ad impugnazione della deliberazione assembleare, sia stato introdotto con ricorso, anziché con citazione, può essere introdotto con ricorso anche il giudizio di appello, e, in questo caso, il rispetto del termine di gravame è assicurato già dal deposito del ricorso in cancelleria, a prescindere dalla sua successiva notificazione. Il riformulato art. 1137, secondo comma, cod. civ., tuttavia, ha eliminato dal testo normativo il riferimento letterale al "ricorso", quale forma dell'atto di impugnazione, il che rende ormai inequivocabile che esso vada proposto con citazione, con conseguente presumibile superamento, per il contenzioso soggetto alla Riforma, della soluzione dell'equipollenza propugnata da Sez. Un. 14 aprile 2011, n. 8491 (soluzione, del resto, rimasta isolata nell'ambito del più ampio dibattito circa la piena fungibilità, tuttora osteggiata dalla giurisprudenza, degli atti litis ingredientes).

Sez. 2, n. 8525 (Rv. 625762), est. Bursese, pone in luce il principio dell'esecutività della deliberazione dell'assemblea, pur in pendenza di impugnazione, rimanendo riservato al giudice il potere di sospendere l'esecuzione del provvedimento; nondimeno, il credito del condominio nei confronti del singolo condomino, risultante da delibera assembleare impugnata, non è opponibile in compensazione ad estinzione delle reciproche obbligazioni, in quanto portato da un titolo la cui esecutività consente la sola temporanea esigibilità, laddove la compensazione postula il definitivo accertamento dei debiti da estinguere e non opera per le situazioni provvisorie.

Sez. 2, n. 21742 (Rv. 627851), est. D'Ascola, ha osservato che la sospensione giudiziale di una deliberazione assembleare impugnata non impedisce all'assemblea di adottare sul medesimo punto una nuova deliberazione scevra dai vizi della prima, delibera esecutiva ex lege ove il condomino interessato non si attivi per conseguirne a sua volta la sospensione. Il quarto comma del nuovo art. 1137 cod. civ. ammette ora la proponibilità di un'istanza per ottenere la sospensione della deliberazione pure prima dell'inizio della causa di merito, sebbene tale istanza ante causam non abbia effetti impeditivi della decadenza per la proposizione dell'impugnazione.

12. Supercondominio.

Sez. 2, n. 19558 (Rv. 627536), est. Falaschi, osserva come, in ipotesi di supercondominio, la legittimazione degli amministratori di ciascun condominio per gli atti conservativi, riconosciuta dagli artt. 1130 e 1131 cod. civ., si riflette, sul piano processuale, nella facoltà di richiedere le necessarie misure cautelari soltanto per i beni comuni all'edificio rispettivamente amministrato, non anche per quelli facenti parte del supercondominio, che, quale accorpamento di due o più singoli condominii per la gestione di beni comuni, deve essere gestito attraverso le decisioni dei propri organi, e, cioè, l'assemblea composta dai proprietari degli appartamenti che concorrono a formarlo e l'amministratore del supercondominio.

Aggiunge Sez. 2, n. 4340 (Rv. 625185), est. Carrato, sempre in tema di supercondominio, che ciascun condomino, proprietario di alcuna delle unità immobiliari ubicate nei diversi edifici che lo compongono, è legittimato ad agire per la tutela delle parti comuni degli stessi ed a partecipare alla relativa assemblea, con la conseguenza che le disposizioni dell'art. 1136 cod. civ., in tema di formazione e calcolo delle maggioranze, si applicano considerando gli elementi reale e personale del medesimo supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le porzioni comprese nel complesso e da tutti i rispettivi titolari.

In conseguenza della Riforma appena entrata in vigore, vi è stata l'introduzione dell'art. 1117-bis cod. civ. il quale estende, nei limiti della compatibilità, la disciplina di cui al Capo II, Titolo VII, del Libro III a tutte le situazioni in cui più edifici o più condomini abbiano parti comuni, situazioni che certamente comprendono la fattispecie del cd. supercondominio. Di grande importanza si rivela, peraltro, il terzo comma dell'art. 67 disp. att. cod. civ., il quale, appunto nelle situazioni di supercondominio, o di condominio complesso, descritte dall'art. 1117-bis cod. civ., ma solo allorché i partecipanti siano complessivamente più di sessanta, obbliga ciascuno dei più condominii coordinati a designare, con la maggioranza di cui all'art. 1136, quinto comma, cod. civ., un proprio rappresentante all'assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni ai diversi edifici e per la nomina dell'amministratore. Se l'assemblea non vi provveda, ciascun partecipante può chiedere che l'autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio. Del pari, qualora alcuni dei condominii interessati non abbiano nominato il proprio rappresentante, alla nomina provvede il tribunale su ricorso anche di uno solo dei rappresentanti già nominati. Il quarto comma dell'art. 67 disp. att. cod. civ. aggiunge che ogni limite o condizione al potere di rappresentanza si considera non apposto, dovendo il rappresentante rispondere secondo le regole del mandato e comunicare tempestivamente all'amministratore di ciascun condominio (il quale ne riferisce nella rispettiva assemblea) l'ordine del giorno e le decisioni assunte dalla riunione dei rappresentanti dei condominii. Alla regolare costituzione del collegio del supercondominio ed all'approvazione delle rispettive decisioni concorrono ora, pertanto, tutti i condomini a mezzo dei rispettivi delegati obbligatori, e con i rispettivi valori millesimali.

13. Regolamento di condominio.

Sez. 2, n. 14898 (Rv. 626818 e Rv. 626819), est. Petitti, ha affermato che il regolamento di un supercondominio, predisposto dall'originario unico proprietario del complesso di edifici, accettato dagli acquirenti nei singoli atti di acquisto e trascritto nei registri immobiliari, in virtù del suo carattere convenzionale, vincola tutti i successivi acquirenti senza limiti di tempo, non solo relativamente alle clausole che disciplinano l'uso ed il godimento dei servizi e delle parti comuni, ma anche per quelle che restringono i poteri e le facoltà sulle loro proprietà esclusive, venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca, senza, perciò, infrangere il principio del numero chiuso delle obbligazioni reali.

Sez. 2, n. 1748 (Rv. 624984), est. Vincenti, ha ritenuto legittima la norma di un regolamento di condominio - avente natura contrattuale - diretta a dare del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'art. 1120 cod. civ., estendendo il divieto di innovazioni sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica, all'aspetto generale dell'edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva.

Viceversa, Sez. 2, n. 13011 (Rv. 626458), est. Bertuzzi, ha ravvisato la nullità della clausola del regolamento che riservi ad un determinato soggetto, per un tempo indeterminato, la carica di amministratore del condominio, sottraendo all'assemblea il relativo potere di nomina e di revoca, visto che l'art. 1138, quarto comma, cod. civ. dichiara espressamente non derogabile dal regolamento, tra le altre, la disposizione dell'art. 1129 cod. civ., la quale attribuisce all'assemblea la nomina dell'amministratore e stabilisce la durata dell'incarico. Tale inderogabilità regolamentare delle disposizioni del codice concernenti la nomina dell'amministratore dovrà d'ora in avanti confrontarsi con le più severe discipline del medesimo art. 1129 cod. civ., nonché dell'art. 71-bis disp. att., cod. civ., introdotte dalla legge n. 220 del 2012.

14. Condomini di immobili danneggiati da eventi sismici e condomini di gestione.

Sez. 2, n. 14899 (Rv. 626821), est. D'Ascola, ha deciso che l'amministratore del condominio costituito convenzionalmente, ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 marzo 1990, n. 76, per gli immobili distrutti o da demolire o da riparare in conseguenza degli eventi sismici di cui al medesimo decreto, è legittimato passivamente in relazione alle controversie concernenti l'esecuzione dei lavori di ricostruzione o riparazione oggetto delle delibere adottate dal condominio stesso, essendo ciò conforme alle ragioni acceleratrici della normativa sulla ricostruzione, che postulano un amministratore munito dei poteri di rappresentanza di cui all'art. 1131 cod. civ.

Per Sez. 1, n. 17260 (Rv. 627341), est. Salvago, il contributo di ristrutturazione previsto dagli artt. 9 e 10 della legge 14 maggio 1981, n. 219, genera, in ogni caso, una serie di obbligazioni individuali tra il comune ed i singoli proprietari di ciascuna unità immobiliare, di tal che va escluso il litisconsorzio necessario nel giudizio instaurato da alcuni condomini comproprietari di unità immobiliari in ordine alla spettanza ed entità del contributo che li riguarda.

Sez. 2, n. 13855 (Rv. 626459), est. Matera, ha affrontato il tema della costituzione del cd. condominio di gestione in relazione ad alloggi realizzati o recuperati da soggetti privati, in edifici destinati ad edilizia residenziale pubblica e costruiti con capitale pubblico. In tal senso, si consideri come il comma sedicesimo dell'art. 1129 cod. civ. novellato estende l'applicabilità di tale disposizione anche «agli edifici di alloggi di edilizia popolare ed economica, realizzati o recuperati da enti pubblici a totale partecipazione pubblica o con il concorso dello Stato, delle regioni, delle province o dei comuni, nonché a quelli realizzati da enti pubblici non economici o società private senza scopo di lucro con finalità sociali proprie dell'edilizia residenziale pubblica»; estensione che sembra riferibile non soltanto alle norme relative alla nomina e alla revoca dell'amministratore, quanto pure di quelle sugli obblighi dell'amministratore connesse ad articoli successivi.

  • espropriazione

CAPITOLO VIII

L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

(di Stefano Giaime Guizzi )

Sommario

1 Questioni di giurisdizione. - 2 Occupazione d'urgenza. - 3 Decreto di esproprio. - 4 Indennità di espropriazione: a) criteri di determinazione. - 5 (Segue) b) profili processuali. - 6 Le espropriazioni "indirette". - 7 (Segue) in particolare, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno. - 8 Espropriazione e interventi di edilizia pubblica. - 9 Espropriazione di fondi agricoli. - 10 Espropriazione e interventi conformativi del diritto di proprietà. - 11 Espropriazioni "larvate". - 12 Retrocessione del bene espropriato.

1. Questioni di giurisdizione.

La presente disamina delle pronunce della Suprema Corte in materia di espropriazione ha inizio con l'illustrazione di quelle da essa adottate nell'esercizio della funzione di regolazione della giurisdizione.

Al riguardo, va pertanto segnalata, in primo luogo, quella decisione - Sez. Un., ord. n. 7938 (Rv. 625635), rel. Rordorf - che ha ascritto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, anche di natura risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime preordinate all'espropriazione, attuate in presenza di un concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione, nonché l'irreversibile trasformazione della stessa, siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva.

Del pari, è stata riconosciuta la giurisdizione del medesimo giudice amministrativo - Sez. Un., n. 8349 (Rv. 625846), est. Salvago - pure in relazione a controversie aventi ad oggetto accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, quale che sia la natura del diritto - reale o personale - fatto valere nei confronti dell'amministrazione espropriante, nonché la natura - restitutoria o risarcitoria - della pretesa avanzata nei confronti di quest'ultima. Nella specie, si trattava, in particolare, di un giudizio relativo ad azione risarcitoria promossa da coltivatori diretti per il danno subìto a causa dell'occupazione appropriativa di un fondo rustico.

In merito ad una domanda risarcitoria, avanzata in relazione ad un'occupazione di fatto realizzata dall'ANAS al di fuori di un procedimento di espropriazione, è stato confermato il principio secondo cui spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto comportamenti posti in essere in carenza di potere, ovvero in via di mero fatto, dalla pubblica amministrazione; cfr. Sez. Un., ord. n. 27994 (non ancora massimata), rel. Salvago.

2. Occupazione d'urgenza.

Con riferimento a tale istituto, è stato, in primo luogo, ribadito - Sez. 1, n. 7197 (Rv. 625888), est. Di Amato - che in caso di occupazione d'urgenza senza titolo, la redazione del verbale di immissione in possesso a favore della P.A. espropriante (nella specie, il Sindaco di Napoli quale Commissario del Governo) esonera l'espropriato dall'onere di provare l'avvenuto spossessamento - da cui discende il danno risarcibile costituito dalla mancata disponibilità dell'immobile e dalla conseguente perdita di reddito - restando salva la possibilità per l'espropriante di fornire la prova contraria del perdurante mantenimento del possesso da parte dei proprietari.

Per contro, nell'opposta ipotesi di occupazione legittima, la Suprema Corte (anche qui in continuità con i propri precedenti in materia) ha confermato, da un lato, che è preclusa al giudice - Sez. 1, n. 14422 (Rv. 626601), est. Macioce - l'adozione di un provvedimento di condanna dell'amministrazione al pagamento della relativa indennità direttamente in favore dell'espropriato, essendone consentito il solo ordine di deposito presso la Cassa depositi e prestiti, nonché, dall'altro, che nella determinazione di tale indennità - Sez. 1, n. 11022 (Rv. 626306), est. Ceccherini - le possibilità edificatorie del suolo, in ragione delle sue utilizzazioni compatibili con la destinazione della zona omogenea di appartenenza, devono essere accertate con riguardo al momento in cui si verifica l'occupazione in forza del provvedimento ablatorio, e non a quello dell'imposizione del vincolo espropriativo.

Infine, la Suprema Corte ha anche chiarito che l'atto definitivo cosiddetto di "concordamento bonario" - con il quale l'espropriato accetta l'offerta del concessionario della sola indennità di espropriazione e rinuncia a proporre opposizione alla stima e ad ogni altra azione giudiziaria «che abbia attinenza all'occupazione» oltre che all'espropriazione dell'immobile - non si estende all'indennità di occupazione, in assenza di un atto normativo che imponga tale estensione, non potendo tale rinuncia avere effetti in relazione a situazioni future non ancora determinate o determinabili, come quelle derivate dalla prolungata detenzione delle aree non espropriate per le quali già si sia pagato il corrispettivo dell'ablazione anche se il decreto ablatorio non sia stato emesso: Sez. 1, n. 3512 (Rv. 625674), est. Forte.

3. Decreto di esproprio.

Sul presupposto che il decreto di esproprio segna la conclusione del procedimento ablatorio e determina il trasferimento della proprietà dell'immobile alla P.A., così incidendo in misura corrispondente sui poteri dominicali del titolare del bene, facendo sorgere il diritto dell'espropriato al pagamento dell'indennità, che compete esclusivamente al soggetto che ne sia proprietario alla data del provvedimento con cui la proprietà gli viene sottratta - così Sez. 1, n. 17264, (Rv. 627917), est. Salvago - la Suprema Corte - nel sottolineare che l'entità definitiva dell'indennizzo deve essere determinata con riguardo alla data di adozione del decreto di esproprio e tenendo conto delle caratteristiche, in quel momento, del bene espropriato; Sez. 1, n. 17604 (Rv. 627317), est. Salvago - ha anche precisato che il decesso dell'usufruttuario, avvenuto nelle more del giudizio per la determinazione dell'indennità di espropriazione, comporta la trasmissione del diritto di credito, sorto in suo favore, agli eredi, la cui identità non coincide necessariamente con i nudi proprietari, non potendo più verificarsi il consolidamento della proprietà; cfr. Sez. 1, n. 8239 (Rv. 626087), est. Mercolino.

4. Indennità di espropriazione: a) criteri di determinazione.

Molto ampia, come di consueto, si è rivelata - anche nell'anno 2013 - la giurisprudenza di legittimità relativa all'indennità di espropriazione e, segnatamente, ai suoi criteri di determinazione.

Sul punto, deve innanzitutto segnalarsi che la Suprema Corte, nel dare continuità al principio espresso da Sez. Un., n. 5265 del 2008 (Rv. 603721), nonché ribadito da Sez. 1, n. 28431 del 2008 (Rv. 605724) e n. 8445 del 2012 (Rv. 622579) ha nuovamente affermato - Sez. 6, ord. n. 6798, Rv. (626086), rel. Bernabai - che nella determinazione dell'indennità di espropriazione, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 348 del 2007) dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 agosto 1992 n. 359, i criteri previsti dall'art. 2, comma 89, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, in quanto introdotti come modifica dal d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 37, commi 1 e 2 (Testo unico sull'espropriazione), si applicano soltanto alle procedure espropriative soggette al predetto Testo Unico, cioè quelle in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta dopo la sua entrata in vigore (30 giugno 2003), secondo le previsioni dell'art. 57, come modificato dal d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 302. Per contro, resta fermo che per le procedure soggette al regime pregresso rivive l'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e va, quindi, fatto riferimento al valore di mercato, atteso che la norma intertemporale di cui all'art. 2, comma 90, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, prevede la retroattività della nuova disciplina di determinazione dell'indennità espropriativa solo per i procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi.

Analogo principio è stato enunciato, sempre in relazione all'intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale del predetto art. 5 bis, dalla Suprema Corte relativamente all'indennità dovuta per l'espropriazione di fabbricati finalizzata al recupero del centro storico di Palermo, da Sez. 1, n. 11695, (Rv. 626896), est. Lamorgese. La citata sentenza ha affermato, infatti, che il rinvio alla norma suddetta, operato senza ulteriori specificazioni dall'art. 124, comma 4, della legge della Regione siciliana del 1° settembre 1993, n. 25 (nel testo anteriore alla sostituzione disposta dalla legge regionale 5 novembre 2004, n. 15), non può essere esteso oltre la portata della norma statale richiamata, che non si applica all'esproprio di fabbricati. Ne consegue, pertanto, che la suddetta indennità - esclusa, in coerenza con una interpretazione costituzionalmente orientata, la retroattività delle modifiche introdotte con la legge regionale n. 15 del 2004, non previste per altre analoghe disposizioni, e attesa la declaratoria di illegittimità del richiamato art. 5 bis nella parte in cui recava un criterio di calcolo inadeguato - va determinata, anche in questo caso, sulla base del criterio del valore venale stabilito dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359.

Peraltro, resta confermato - Sez. 6 ord. n. 11455, Rv. (626799), rel. Bernabai, la quale riprende il principio già enunciato, da ultimo, da Sez. 1, n. 404 del 2010 (Rv. 611528) - che nel sistema introdotto dal già più volte richiamato art. 5-bis (e caratterizzato dalla rigida dicotomia tra aree edificabili ed aree agricole o comunque non edificabili), il riconoscimento della edificabilità è legato alla classificazione urbanistica, dovendosi tenere conto dei vincoli conformativi, che, in quanto non correlati ma connaturati alla proprietà in sé, contribuiscono a fondare il carattere del suolo ai fini valutativi, configurandosi tale carattere qualora i vincoli de quibus siano inquadrati nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso. In applicazione di tale principio, pertanto, è stato ritenuto che, ove sul fondo espropriato insistano vincoli di destinazione tali da escludere la edificabilità legale, quale la classificazione della zona a verde pubblico, l'indennità deve essere commisurata al valore agricolo, non essendo la condizione di inedificabilità contraddetta dalla possibilità di realizzazione di parcheggi.

Resta, peraltro, inteso che - Sez. 1, n. 24496 (Rv. 628201), est. Di Amato - nel caso in cui un territorio sia scorporato da un comune ed aggregato ad un altro, la natura agricola o edificabile del suolo non può essere stabilita alla stregua degli strumenti urbanistici del Comune dal quale è stato scorporato, ma deve avere riguardo a quelli del Comune di aggregazione; infatti, poiché l'azione di determinazione dell'indennità di esproprio ha la sua condizione indefettibile nel decreto di esproprio, occorre fare riferimento, ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio, agli strumenti urbanistici propri del Comune di cui fa parte il territorio espropriato nel momento del decreto di esproprio (nel caso di specie, appunto, quello del Comune di aggregazione).

Il rilievo delle prescrizioni risultanti dagli strumenti urbanistici, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, emerge, poi, anche da altre decisioni del giudice di legittimità. Il riferimento è, in primo luogo, a quella pronuncia - Sez. 1, n. 16616 (Rv. 627051), est. Ceccherini - secondo cui l'esistenza di un rapporto pertinenziale non incide sulla qualificazione urbanistica dell'area costituente la pertinenza, che pertanto conserva quella derivante dall'inserimento in una zona del piano regolatore, né comporta necessariamente l'applicabilità dell'istituto dell'espropriazione parziale, il quale presuppone che la parte residua del fondo sia strettamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed obbiettivo, tale da conferire all'intero immobile una unità economica e funzionale suscettibile di restare oggettivamente pregiudicata dal distacco di una sua parte.

Nella medesima prospettiva deve darsi conto di quella decisione - Sez. 1, n. 24497 (Rv. 628174), est. Di Amato - in base alla quale, nella determinazione dell'indennità di espropriazione di un fondo edificabile in forza del piano regolatore ed incluso in un piano per l'edilizia economica e popolare, qualora l'area da valutare non sia collocata in comprensorio già totalmente urbanizzato, i volumi realizzabili vanno quantificati in base ad indici medi di edificabilità riferiti all'intera zona omogenea, in quanto occorre tener conto dell'incidenza degli spazi riservati, secondo lo strumento urbanistico, ad infrastrutture e servizi di interessi generale. Sulla scorta di tale premessa, è stato, dunque, affermato che nell'applicazione di tale criterio, da un lato, non assumono rilevanza gli elaborati progettuali, che sono meri atti interni, privi di valore normativo, e, dall'altro, non può essere presa in considerazione la cubatura non residenziale, non utilizzabile dai privati perché destinata ad opere di urbanizzazione.

Sempre in tema di determinazione dell'indennità di espropriazione, e segnatamente in relazione al suo quantum, deve segnalarsi, in primo luogo, quella decisione della Suprema Corte - Sez. 1, n. 16750 (Rv. 627265), est. Ceccherini - secondo cui, ai fini del computo del valore venale di un immobile, gli oneri di urbanizzazione sono stabiliti dalla normativa urbanistica, e la loro incidenza sul prezzo degli immobili in regime di libero mercato non necessita di dimostrazione, dovendo il giudice di merito tenerne conto anche di ufficio; tuttavia, se il valore venale è accertato con metodo sintetico- comparativo, esso deve ritenersi già depurato da tali oneri, in quanto il mercato li sconta preventivamente nella determinazione del valore delle aree edificabili e, pertanto, una loro ulteriore sottrazione si risolverebbe in una non consentita duplicazione. Resta, peraltro, inteso - Sez. 1, n. 12548 (Rv. 626801), est. Salvago - che l'indennità di esproprio deve essere determinata con riferimento esclusivo alla superficie indicata nel decreto di esproprio, con la conseguenza che, ove l'espropriante si sia impossessato di una superficie più ampia, in relazione all'occupazione di tale maggiore superficie (che, non preceduta da un provvedimento di esproprio, deve ritenersi arbitraria) il proprietario potrà richiedere il risarcimento del danno, ma non un'indennità di esproprio di importo più elevato.

Con duplice decisione - Sez. 1, n. 16623 (Rv. 627102), est. Forte, nonché n. 7195 (Rv. 625860), est. Forte - si è anche ritenuto, sempre in tema di determinazione dell'indennità di esproprio, che il pregiudizio subìto dal proprietario delle aree espropriate riguardi l'intera diminuzione patrimoniale patita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo ed è comprensivo anche del danno subìto dai terreni rimasti non espropriati per la perdita della volumetria da edificare in ragione delle più ridotte superfici rimaste.

Infine, per concludere sul punto, è stato pure affermato - Sez. 1, n. 3512 (Rv. 625675), est. Forte - che la naturale redditività del danaro ricevuto a titolo di indennità di espropriazione e gli interessi compensativi, da esso eventualmente ricavati, non possono ritenersi destinati a reintegrare i danni, né considerarsi corrispettivo dell'occupazione temporanea delle aree espropriate o utilizzate per i lavori per il solo fatto che eccezionalmente il dovuto per l'espropriazione è stato pagato prima del provvedimento ablatorio.

5. (Segue) b) profili processuali.

In relazione alla determinazione dell'indennità di espropriazione, la Suprema Corte ha affrontato anche diverse questioni di natura processuale, riconducibili, peraltro, ad alcune tematiche di fondo concernenti il giudizio di opposizione alla stima: legittimazione ad esser parte dello stesso, termini per la sua proposizione, individuazione del suo oggetto e, di riflesso, delimitazione dei poteri delle parti e del giudice.

Con riferimento al primo di tali profili è stato, innanzitutto, affermato - Sez. 1, n. 24495 (Rv. 628202), est. Di Amato - che l'art. 19 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, dà la facoltà di opporsi alla stima, oltre che ai proprietari dei beni espropriati, anche agli «altri interessati», cioè ai titolari di diritti o pretese reali sul bene, in concorso ovvero in conflitto con la posizione dei proprietari; tuttavia, mentre i primi vanno identificati nei soggetti iscritti nei registri immobiliari o negli atti catastali, i secondi sono individuabili tramite i registri della conservatoria immobiliare. Su tali basi, pertanto, si è ritenuto legittimato all'opposizione alla stima anche il creditore ipotecario, in quanto ricompreso tra «gli altri interessati», in virtù di un diritto reale di garanzia che gli attribuisce la possibilità di soddisfare le proprie ragioni sulla indennità di espropriazione.

Più ampia si è rivelata la casistica giurisprudenziale in tema di legittimazione passiva, in merito alla quale è stato ribadito il principio - già enunciato da Sez. 1, n. 6029 del 1991 (Rv. 472404), nonché, più di recente, da Sez. 1, n. 12541 del 2012 (Rv. 623448) - secondo cui parte del rapporto espropriativo ed obbligato al pagamento dell'indennità verso il proprietario espropriato, e come tale legittimato passivo nel giudizio di opposizione alla stima che sia stato da quest'ultimo proposto, è il soggetto espropriante, vale a dire quello a cui favore è pronunciato il decreto di espropriazione, e ciò anche nell'ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell'opera pubblica, nella quale deve ugualmente aversi riguardo, a detti fini, esclusivamente al soggetto che nel provvedimento ablatorio risulta beneficiario dell'espropriazione, salvo che dal decreto stesso non emerga che ad altro ente, in virtù di legge o di atti amministrativi e mediante figure sostitutive di rilevanza esterna, sia stato conferito il potere ed il compito di procedere all'acquisizione delle aree occorrenti e di promuovere e curare direttamente, agendo in nome proprio, le necessarie procedure espropriative ed addossati i relativi oneri (Sez. 1, n. 1242, Rv. 625350, est. Salvago).

Coerente, dunque, con tale principio è l'affermazione della Suprema Corte - Sez. 1, n. 12544 (Rv. 626765), est. Forte - secondo cui, qualora il decreto di esproprio sia stato emesso a favore di un consorzio per l'Area di sviluppo industriale, relativamente a terreni destinati all'insediamento di una società ad esso aderente, quest'ultima non è legittimata passivamente nel giudizio di opposizione alla stima promosso dall'espropriato, atteso che l'art. 19, secondo comma, della legge n. 865 del 1971, nel determinare i soggetti muniti del potere di opposizione alla stima, fa riferimento agli espropriati ed all'espropriante, con implicita esclusione di soggetti diversi; lo stesso, peraltro, è a dirsi per quella pronuncia - Sez. 1, 24355 (Rv. 628205), est. Campanile - con cui, in materia di espropriazione disposta per la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, si è ritenuto obbligato al pagamento dell'indennità il solo Comune, quale beneficiario delle aree espropriate, anche quando, ai sensi dell'art. 60 della legge n. 865 del 1971, venga delegato altro soggetto per l'acquisizione delle aree, esaurendosi in tal caso la delega in un mero incarico a compiere in nome e per conto del Comune gli atti necessari per l'adozione del provvedimento ablatorio o per la stipulazione dell'atto di cessione, con conseguente legittimazione passiva del solo Comune nei giudizi di determinazione dell'indennità.

In relazione al termine di decadenza per l'opposizione alla stima previsto dall'art. 51 della legge n. 2359 del 1865 è stato affermato - Sez. 1, n. 16614 (Rv. 627081), est. Ceccherini - che la nullità della notificazione del decreto di espropriazione od asservimento (notificazione che ha carattere sostanziale nell'ambito del procedimento ablativo nonostante l'assoggettamento alle regole di notificazione proprie delle citazioni) impedisce il decorso del termine, senza che possa assumere rilievo la circostanza che l'atto sia comunque venuto a conoscenza dell'interessato, non potendo trovare applicazione, data la natura non processuale della detta notificazione, il principio della sanatoria della nullità per il raggiungimento dello scopo.

In ordine, invece, alla decorrenza del termine in esame, la medesima sentenza - Sez. 1, n. 16614 (Rv. 627082), est. Ceccherini - ha specificato che il dies a quo costituito dall'inserzione, nel foglio annunzi legali della provincia (F.A.L.), della relazione della Commissione provinciale, viene in rilievo solo se tale inserzione rappresenti l'atto finale del procedimento, mentre in caso di inosservanza del modello procedimentale - e, in particolare, nell'ipotesi in cui la pubblicazione sul F.A.L. abbia preceduto la notificazione ai proprietari dell'ammontare dell'indennità definitiva e del decreto di esproprio - il termine breve decorre dalla notifica dell'ultima di tali formalità, trovando applicazione, in mancanza, la prescrizione ordinaria decennale; infatti - atteso lo scopo di assicurare l'unicità del giudizio di opposizione e la decorrenza unitaria del termine per tutti gli interessati - resta escluso che, dopo la pubblicazione sul F.A.L., il decreto possa essere utilmente notificato ad alcuni soltanto dei comproprietari facendo decorrere il termine anche per gli altri.

Circa, invece, l'oggetto del giudizio di opposizione alla stima, si è affermato - Sez. 1, n. 19323 (Rv. 627631), est. Giancola - che esso, al pari di quello volto alla determinazione giudiziale del giusto indennizzo, devoluto alla competenza in unico grado della Corte di appello, è circoscritto alle questioni relative all'ammontare di dette indennità nei rapporti tra espropriante ed espropriati, dovendo la Corte non pronunciare condanna dell'espropriante al relativo pagamento, ma limitarsi ad ordinare il deposito presso la Cassa depositi e prestiti della differenza tra il superiore importo liquidato in sede giudiziaria e quello fissato in sede amministrativa. Ne consegue che l'espropriante non può opporre in compensazione proprie autonome ragioni di credito vantate nei confronti delle controparti ed inerenti a rapporti diversi, il cui accertamento esula dall'oggetto dei giudizi in questione e che sono insuscettibili di contrapporsi all'obbligo di deposito degli indennizzi imposto dalla legge.

Quanto, infine, ai poteri delle parti e del giudice nel giudizio di opposizione alla stima, la Suprema Corte ha, rispettivamente, ribadito - cfr. Sez. 6, ord. n. 14763 (Rv. 626835), rel. Salmè, la quale ha dato continuità ad un principio già affermato da Sez. 1, n. 5570 del 2003 (Rv. 562009) - che la richiesta di interessi sull'indennità di esproprio (interessi decorrenti dalla data della istanza, trattandosi di un debito di valuta), è proponibile anche in corso di causa, in quanto la relativa domanda costituisce una mera emendatio e non una mutatio libelli, ma soprattutto - Sez. 1, n. 18435 (Rv. 627486), est. Lamorgese - che nei giudizi per la determinazione dell'indennità di esproprio, il giudice ha il potere- dovere di individuare il criterio legale applicabile alla procedura ablatoria sulla base delle caratteristiche del fondo espropriato, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, né alla quantificazione della somma contenuta nell'atto di citazione, dovendo questa essere liquidata in riferimento a detti criteri, con conseguente accoglimento o rigetto della domanda a seconda che venga accertata come dovuta un'indennità maggiore o minore di quella censurata.

Con specifico riferimento, poi, alla posizione del giudice del rinvio, la Suprema Corte - Sez. 1, n. 7288 (Rv. 625861), est. Salvago - ha confermato il principio secondo cui il ricorso, da parte del medesimo giudice, al criterio sintetico-comparativo per la determinazione dell'indennità di esproprio ha come conseguenza che esso dovrà tenere conto delle condizioni apprezzate dal mercato immobiliare che, in base alla destinazione urbanistica della zona in cui l'immobile è compreso, possano incidere sulla sua edificabilità di fatto ed indurre alla determinazione del suo effettivo valore venale; per contro, ove il giudice del rinvio abbia prescelto il metodo analitico-ricostruttivo, diretto ad accertare il valore di trasformazione del suolo edificabile, dovrà considerare anzitutto la densità volumetrica esprimibile in base agli indici di fabbricabilità della zona omogenea in cui è incluso, al netto degli spazi assegnabili a standards, nonché delle spese di urbanizzazione relative alle opere che, poste in essere dall'amministrazione, assicurano l'immediata utilizzazione edificatoria dell'area.

6. Le espropriazioni "indirette".

Si è contraddistinta per alcuni importanti novità, rispetto al passato, la giurisprudenza di legittimità relativa a quelle fattispecie che - secondo la terminologia propria della Corte Europea dei diritti dell'uomo (cfr., ex multis, sentenza 8 dicembre 2005, Guiso-Gallisay c. Italia) - risultano definibili come espropriazioni "indirette". Prima, però, di soffermare l'attenzione su tali pronunce - che mettono in dubbio la distinzione, fin qui tradizionalmente osservata, tra occupazione appropriativa ed usurpativa - appare utile segnalare quelle decisioni che, sempre in tale ambito, si pongono invece in perfetta linea di continuità con gli indirizzi osservati, in materia, dalla Suprema Corte.

In tale prospettiva, pertanto, deve in primo luogo segnalarsi quella pronuncia - Sez. 1, n. 21333 (Rv. 627743), est. Giancola - che ha ribadito il consolidato principio secondo cui la responsabilità del danno da occupazione appropriativa è sempre addebitabile al titolare del potere espropriativo, e cioè al soggetto tenuto al rispetto delle norme sull'espropriazione, sicché, ove l'opera pubblica sia stata realizzata da un diverso soggetto, quest'ultimo, in tanto può essere ritenuto autore dell'illecito e quindi responsabile del danno, in quanto al medesimo siano state trasferite le potestà relative al procedimento ablatorio.

Del pari, non nuova, nella giurisprudenza della Corte, è l'affermazione secondo cui, con riferimento alla determinazione del risarcimento del danno derivante da occupazione acquisitiva dei suoli non edificabili, per i quali già in passato non era utilizzabile il criterio introdotto dal comma 7-bis dell'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella l. n. 359 del 1992 (comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), l'unico criterio utilizzabile, così come per i suoli edificabili, risulta quello - Sez. 1, n. 18434 (Rv. 627629), est. Lamorgese - della piena reintegrazione patrimoniale commisurata al prezzo di mercato, sulla base delle caratteristiche intrinseche ed estrinseche del suolo, senza che il proprietario abbia l'onere di dimostrare che il fondo è suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo rispecchiante possibilità di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificatoria (perché altrimenti si introdurrebbe un inammissibile fattore di correzione del criterio del valore di mercato, con l'effetto indiretto di ripristinare l'applicazione di astratti e imprecisati valori agricoli), purché il fondo abbia - Sez. 6, ord. n. 7174 (Rv. 625887), rel. Macioce - un'effettiva e documentata valutazione di mercato che rispecchia queste possibilità di utilizzazioni intermedie tra l'agricola e l'edificatoria (quali parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti), utilizzazioni comunque assentite dalla normativa vigente anche con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative.

Resta, inoltre, inteso che, come già affermato in passato, l'indennità di espropriazione e risarcimento del danno derivante da occupazione illegittima, nonostante l'adozione di un criterio legale analogo di liquidazione, conservano la loro ontologica differenza, in quanto ricollegabili la prima ad un'attività legittima dell'Amministrazione, fondata sugli artt. 42 Cost. e 832 cod. civ., e la seconda ad una condotta illecita dell'occupante, sanzionata dall'art. 2043 cod. civ. Ne consegue che l'obbligazione indennitaria ha natura di debito di valuta, mentre l'obbligazione risarcitoria derivante dall'occupazione illegittima - che, dal lato passivo, risultando collegata ai danni provocati dal compimento di tale illegittima attività, fa pertanto capo ai soggetti che hanno proceduto alla materiale apprensione del bene, quali ne siano le qualifiche (concedente, concessionario, assegnatario ecc. (Sez. 1, n. 8692, Rv. 626122, est. Salvago) - è configurabile come debito di valore, da liquidarsi con riferimento al valore che l'immobile aveva all'epoca della perdita della proprietà, espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della decisione definitiva: così Sez. 1, n. 22923 (Rv. 628186), est. Mercolino.

Presenta, invece, carattere inedito quella decisione - Sez. 1, n. 14422 (Rv. 626600), est. Macioce - che, in relazione all'avvenuta realizzazione senza titolo, da parte di un ente pubblico ed in un fondo privato, di una condotta di scolo interrata, ha escluso la possibilità della costituzione di una servitù secondo lo schema della cosiddetta "occupazione acquisitiva", non essendo la stessa configurabile rispetto ai diritti reali in re aliena, ritenendo integrato, viceversa, un illecito a carattere permanente. Su tali basi, pertanto, è stato affermato che danni lamentati dal proprietario del fondo in conseguenza di tale illecito, da calcolarsi per l'intera sua durata, devono quantificarsi non facendo applicazione dei criteri di cui agli artt. 40 e 46 della legge n. 2359 del 1865 (utilizzabili esclusivamente in ipotesi di servitù costituita per provvedimento), bensì in relazione ai frutti perduti, alla diminuzione di valore subita anno per anno dal fondo nella sua interezza, nonché agli oneri ed alle perdite comunque verificabili nel futuro, secondo serie probabilità connesse alla natura del bene ed ad altri elementi oggettivi; un siffatto ristoro, peraltro, sarà pieno ed integrale per la fascia impegnata dalla tubazione e per la stretta fascia laterale di rispetto, mentre, quanto alla più vasta e residua area attigua a quella "asservita", riguarderà solo il danno in termini di parziale compromissione di fatto delle facoltà di suo godimento.

Ma, come si accennava in premessa, di particolare importanza, per il suo carattere innovativo, è l'affermazione secondo cui - Sez. 2, n. 705 (Rv. 624972), est. Giusti - la realizzazione di un'opera pubblica su un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgenza, non seguita dal perfezionamento della procedura espropriativa, costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, ed è, come tale, inidonea, da sé sola, a determinare il trasferimento della proprietà in favore della P.A., in tal senso deponendo la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha affermato la contrarietà alla Convenzione dell'istituto della cosiddetta "espropriazione indiretta" e negato la possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del procedimento ablatorio. Una conclusione, questa, cui induce - secondo la citata sentenza - anche l'art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, aggiunto dall'art. 34, comma 1, del d.l. 6 giugno 2011, n. 98, convertito in l. 15 luglio 2011, n. 111, norma che, anche con riguardo ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, disciplina le modalità attraverso le quali, a fronte di un'utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile - con l'esercizio di un potere basato su una valutazione degli interessi in conflitto - pervenire ad un'acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di indennizzo, nella misura superiore del dieci per cento rispetto al valore venale del bene.

Si richiama, peraltro, sia a quell'indirizzo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che ha disapprovato l'istituto della cd. "accessione invertita", sia alla previsione di cui all'art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (che ha introdotto un procedimento espropriativo semplificato), anche Sez. 1, n. 1804 (Rv. 625023), est. Lamorgese, la quale ribadisce che, in tutti i casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia mancante o carente dei termini o sia annullata o il decreto di esproprio non sia emesso o sia annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell'Amministrazione si configurano come un illecito di diritto comune, ovvero come comportamento "mero", insuscettibile di determinare il trasferimento della proprietà in suo favore. Pronunce, entrambe, che nel recepire - come detto - le indicazioni della Corte di Strasburgo si pongono, tuttavia, in contrasto con quanto in precedenza affermato dal giudice di legittimità: cfr. Sez. 2, n. 869 del 2007 (Rv. 594590), e Sez. 1, n. 6195 del 2008 (Rv. 602249).

Completano, infine, il quadro annuale della giurisprudenza di legittimità in materia due decisioni. La Suprema Corte, infatti, in tema di azioni di occupazione usurpativa, ha per un verso affermato - Sez. 6, ord. n. 6802, (Rv. 625671), rel. Macioce - che la carenza del potere espropriativo non annulla la connotazione dei suoli ablati data dallo strumento urbanistico generale, né consente alcun ricorso integrativo o sostitutivo alla edificabilità di fatto, autorizzando invece, ai fini della valutazione di merito del valore venale dell'area ablata, la mediazione dei valori edificatori di un'area attigua con l'indice fondiario dell'area edificabile. Per altro verso, la Corte di Cassazione ha ritenuto - Sez. 1, n. 22923 (Rv. 628187), est. Mercolino - che il deposito di somma a titolo di indennità di espropriazione ed occupazione, ai sensi degli artt. 48 e 49 della legge n. 2359 del 1865 ha efficacia liberatoria, per l'espropriante debitore, soltanto nell'ambito di una procedura espropriativa perfezionatasi con l'emissione di un valido ed efficace decreto di esproprio o di occupazione temporanea e non anche ai fini del risarcimento del danno derivante dalla perdita di proprietà conseguente ad un'occupazione appropriativa o usurpativa: in tal caso, infatti, la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno deve essere corrisposta direttamente al danneggiato, con detrazione dall'importo dovuto delle sole somme eventualmente già incassate da quest'ultimo, potendo l'espropriante legittimamente chiedere la restituzione di quelle ancora giacenti presso la Cassa Depositi e Prestiti.

7. (Segue) in particolare, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno.

In linea con gli orientamenti tradizionali della Suprema Corte si sono rivelati, nell'anno 2013, gli arresti in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da occupazioni usurpativa ed acquisitiva.

Così, in relazione alla vicenda ablatoria relativa alla detenzione abusiva nel tempo, senza alcun titolo, di un fondo altrui, la Corte di cassazione - Sez. 1, n. 1787, (Rv. 625192), est. Salvago - ha confermato che, non essendo ravvisabile in capo alla P.A. alcuna funzione amministrativa, ricorre un illecito di natura permanente, che cessa soltanto con la restituzione dell'immobile al proprietario o con la rinuncia di costui a richiederla. Ne consegue, pertanto, che l'illiceità permanente, oltre a legittimare la richiesta di restituzione del bene, impedisce la decorrenza del termine prescrizionale, di cui all'art. 2947 cod. civ., dell'azione di risarcimento che il privato ritenga di proporre, abdicando alla proprietà. Ribadisce, in tema di cd. occupazione acquisitiva, un principio consolidato Sez. 1, n. 7583 (Rv. 625749), est. Macioce, ovvero che il termine di prescrizione del diritto del proprietario al risarcimento del danno costituito dalla irreversibile trasformazione del bene occupato e dalla correlativa perdita della proprietà inizia a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge 27 ottobre 1988, n. 458, per le occupazioni iniziate in epoca anteriore, in quanto solo in tale momento il legislatore ha portato ad "emersione" l'istituto, dotandolo di una propria veste giuridica e disciplinandone i profili risarcitori con parametri effettivi e congrui. Del pari, resta confermato - Sez. 3, n. 923 (Rv. 625044), est. Giacalone - che nell'ipotesi in cui, verificatasi l'occupazione acquisitiva in assenza di emissione del decreto ablatorio, l'espropriante proceda tuttavia alla determinazione dell'indennità di esproprio, ovvero all'offerta o al deposito di essa, gli atti ora menzionati, rivestendo natura tipica (e non meramente interna) e costituendo in ogni caso il riconoscimento del diritto dell'ex proprietario ad un ristoro patrimoniale, costituiscono atti interruttivi della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla perdita del diritto dominicale.

È, invece, un'affermazione nuova quella secondo cui, allorché l'illiceità della vicenda espropriativa sia incontestata, come nel caso di occupazione acquisitiva, l'interesse a dimostrare l'applicabilità di un regime di prescrizione più favorevole è insito nella eccezione di prescrizione, la quale grava non sul privato che subisce l'occupazione di un bene di sua proprietà, ma - per il principio di vicinanza della prova - sull'Amministrazione, che è nella condizione di dimostrare più agevolmente l'esistenza e l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità su cui si fonda l'eccezione; Sez. 1, n. 5025 (Rv. 625527), est. Lamorgese.

8. Espropriazione e interventi di edilizia pubblica.

In tale ambito, la giurisprudenza di legittimità ha, innanzitutto, confermato che nelle espropriazioni preordinate all'attuazione dei piani di edilizia economica popolare il termine di validità del provvedimento di approvazione del piano (che ha efficacia di provvedimento dichiarativo della p.u.) costituisce il "termine unico" entro il quale ogni attività di utilizzazione dell'area deve essere compiuta, comprendente i quattro termini previsti dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, nell'ambito del quale possono essere legittimamente assoggettati ad espropriazione tutti i fondi in esso inclusi. Tali termini, tuttavia, sono distinti da quelli previsti inderogabilmente per l'occupazione "temporanea e d'urgenza", con la conseguenza, da un lato, che i provvedimenti legislativi di proroga dell'efficacia dei piani di zona sono irrilevanti e, d'altro canto, che l'illegittimo protrarsi dell'occupazione, senza l'emissione del decreto di esproprio, dà luogo alla responsabilità risarcitoria della P.A., indipendentemente dall'eventuale perdurante vigenza del piano; Sez. 1, n. 5844 (Rv. 625585), est. Di Amato.

Peraltro, è stato anche confermato - Sez. 1, n. 9495, (Rv. 626299), est. Forte - che ove l'occupazione sia effettuata, ai sensi della l. 22 ottobre 1971, n. 865, nell'ambito di attuazione di opere destinate all'edilizia residenziale pubblica, la mancata specificazione, nel provvedimento autorizzativo, dei termini di durata non comporta l'illegittimità delle procedure espropriative, dovendosi presumere che essa resti fissata nella misura massima di cinque anni, in applicazione delle disposizioni speciali applicate. Sempre in merito all'edilizia residenziale pubblica, resta fermo anche il principio - già enunciato in passato dalla giurisprudenza di legittimità - secondo cui, anche in tale ambito, è configurabile, per effetto dell'art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (poi abrogato dall'art. 58, del d.P.R. n. 327 del 2001), il fenomeno della cosiddetta occupazione appropriativa, sia pure in presenza di opere non realizzate da soggetti pubblici direttamente o nel quadro del regime concessorio di cui all'art. 35 della legge n. 865 del 1971, potendosi, tuttavia, giustificare il sacrificio del diritto del proprietario soltanto laddove l'attività di costruzione e manipolazione del bene sia contrassegnata dal vincolo di scopo conseguente alla dichiarazione di pubblica utilità, quale unico atto che esprime la valutazione della sua rispondenza a fini pubblici; Sez. 1, n. 20131 (Rv. 627599), est. Mercolino.

Infine, con specifico riferimento all'espropriazione per pubblica utilità diretta a favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare (art. 10 della legge 18 aprile 1962, n. 167; artt. 12, 19 e 35 della legge n. 865 del 1971), la Suprema Corte - Sez. 2, n. 2066 (Rv. 624943), est. Giusti - ha riconosciuto, con affermazione nuova, che il proprietario di un'area esproprianda può convenire con l'ente espropriante la cessione volontaria del fondo destinato alla costruzione di case economiche e popolari, e può rendersi anche concessionario, con preferenza, dell'area stessa, sempre che abbia i requisiti previsti dalle vigenti disposizioni per l'assegnazione di alloggi di edilizia economica e popolare, ma non può ottenere - come corrispettivo della mancata opposizione al procedimento espropriativo - un impegno della cooperativa edilizia o del consorzio (che abbia ricevuto in concessione dal Comune il diritto di superficie) al trasferimento della proprietà superficiaria di un appartamento. Tale pattuizione è stata, infatti, ritenuta nulla per violazione di norme imperative perché in contrasto con la finalità di ordine pubblico, alla base della normativa citata, mirante ad evitare che le agevolazioni concesse possano trasformarsi in un inammissibile strumento di speculazione a vantaggio di soggetti privi dei requisiti per ottenere l'assegnazione di alloggi costruiti su aree comprese nel piano di edilizia economica e popolare.

9. Espropriazione di fondi agricoli.

Fermo quanto già evidenziato al § 3, deve qui darsi conto delle altre pronunce che hanno interessato la presente fattispecie.

Al riguardo, deve in primo luogo sottolinearsi che la Suprema Corte - in linea con quanto da essa già affermato nell'immediatezza della declaratoria di incostituzionalità del comma 4 dell'art. 5 bis del d.l. n. 333 del 1992 ad opera della sentenza n. 181 del 2011 della Corte costituzionale: cfr. Sez. 1, n. 21386 del 2011 (Rv. 619853) - ha ribadito che, qualora l'espropriato contesti, anche sotto il profilo della natura non agricola, ma parzialmente edificatoria, del terreno, la quantificazione dell'indennità operata dalla corte di appello con il criterio del V.A.M. previsto dagli artt. 16 della legge n. 865 del 1971 e, appunto, dalla norma sopra richiamata e ritenuta costituzionalmente illegittima, la stima dell'indennità deve essere effettuata utilizzandosi il criterio generale del valore venale pieno, tratto dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, applicandosi la menzionata pronuncia di illegittimità ai rapporti non ancora definitivamente esauriti (come, nella specie, per l'avvenuta impugnazione del credito indennitario per la descritta ragione), irrilevante essendo la circostanza che il giudice a quo, allo scopo di evitare una reformatio in pejus della somma già offerta dall'espropriante, abbia comunque riconosciuto una indennità che, seppure di importo superiore a quella conseguente all'applicazione del V.A.M., non trovi giustificazione nel predetto valore venale di mercato del terreno ablato (Sez. Un, n. 17868, Rv. 627217, est. Botta).

Due importanti puntualizzazioni sono state compiute, poi, con riferimento alla legittimazione a percepire l'indennità aggiuntiva prevista dall'art. 17 della legge n. 865 del 1971 in favore dei coltivatori diretti del fondo espropriato. Difatti, si è, per un verso, precisato che essa spetta - Sez. 1, n. 18968, (Rv. 627607), est. Ceccherini - anche alle cooperative equiparate ai coltivatori diretti, ai sensi dell'art. 7 della legge 3 maggio 1982, n. 203, ovvero alle cooperative costituite dai lavoratori agricoli ed ai gruppi di coltivatori diretti, riuniti in forme associate, che si propongano ed attuino la coltivazione diretta dei fondi, sempre che il contratto, seppur stipulato prima dell'entrata in vigore della stessa legge n. 203 del 1982, risulti ancora in corso alla data del decreto di espropriazione. Per altro verso, invece, si è negato che - Sez. 1, n. 13840, (Rv. 626796), est. Salvago - la medesima indennità (prevista, come detto, allorché l'espropriazione attenga a terreno coltivato direttamente dal proprietario coltivatore diretto, ovvero dal fittavolo, mezzadro, colono o compartecipante, tutti costretti ad abbandonare il terreno in ragione dell'adozione del provvedimento ablatorio) spetti anche al proprietario non coltivatore, e ciò in ragione del fatto che l'art. 5 bis del d.l. n. 333 del 1992, prendendo in considerazione il valore evidenziato dalle possibilità di sfruttamento del terreno a scopi edificatori, assorbe la perdita economica connessa all'impossibilità di protrarre l'utilizzazione agricola in atto.

10. Espropriazione e interventi conformativi del diritto di proprietà.

Sul tema viene, innanzitutto, in rilievo quella sentenza - Sez. 1, n. 11236 (Rv. 627164), est. Di Amato - con cui la Suprema Corte ha affermato che la destinazione a strada pubblica, impressa ad un area dal P.R.G., non è di per sé espressione di un potere di pianificazione esercitato in via astratta e generale, in quanto il carattere conformativo della relativa previsione ricorre solo nel caso in cui il piano regolatore abbia previsto la strada nell'ambito di una destinazione delle zone del territorio con limitazioni di ordine generale ricadenti su una pluralità indistinta di beni, dovendosi, per contro, ritenere sussistente un vincolo preordinato all'espropriazione ove ricorra una localizzazione lenticolare della strada, incidente su specifici beni e con un rilievo all'interno e a servizio delle singole zone.

Da segnalare è, poi, anche quella decisione - Sez. 6, ord. n. 20457 (Rv. 627878), rel. Cristiano - che ribadisce il principio secondo cui la destinazione ad usi collettivi di determinate aree assume aspetti conformativi ove sia concepita, nel quadro della ripartizione generale del territorio, in base a criteri predeterminati ed astratti, ma non quando sia limitata e funzionale all'interno di una zona urbanistica omogenea a diversa destinazione generale, e venga, dunque, ad incidere, nell'ambito di tale zona, su beni determinati, sui quali si localizza la realizzazione dell'opera pubblica, assumendo in tal caso portata e contenuti direttamente ablatori ininfluenti sulla liquidazione dell'indennità. Su tale presupposto, pertanto, si è ritenuto che, ove sia accertata l'inclusione del terreno espropriato in zona omogenea edificabile prevista dal vigente strumento urbanistico, tale accertamento è da ritenersi sufficiente per attribuire al fondo il requisito della edificabilità legale, a meno che non sia dimostrato che il bene ricada in una sottozona avente natura pubblicistica.

11. Espropriazioni "larvate".

Al riguardo, deve in primo luogo segnalarsi quella pronuncia con cui la Suprema Corte - Sez. 1, n. 9679, (Rv. 626560), est. Lamorgese - ha riconosciuto al decreto di autorizzazione provvisoria previsto per la costruzione di elettrodotti dall'art. 113 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, richiamato dall'art. 9, comma 10, del d.P.R. 18 marzo 1965, n. 342, efficacia non solo di indifferibilità ed urgenza, ma anche di dichiarazione di pubblica utilità. Su tale presupposto, pertanto, la citata decisione ha dichiarato l'illegittimità del decreto di autorizzazione provvisoria previsto per la costruzione di elettrodotti privo dei termini di cui all'art. 13 della n. 2359 del 1865, di inizio e compimento dell'espropriazione e dei lavori (integrando essa una regola indefettibile per ogni procedura di espropriazione), ritenendo che il suddetto vizio, di carattere radicale, si trasmetta anche al provvedimento di autorizzazione definitiva e al successivo decreto di asservimento.

In merito, invece, all'indennizzo di cui agli artt. 46 della legge n. 2359 del 1865 e 44 del d.lgs. n. 327 del 2001, la Corte di Cassazione, con un'unica sentenza - sez. 1, n. 16619 (Rv. 627097 e 627098), est. Lamorgese - ha, per un verso, affermato che esso spetta se l'opera pubblica eseguita abbia realizzato una compressione del diritto di proprietà conseguente alla riduzione della capacità abitativa, ciò che può verificarsi sia per effetto di immissioni intollerabili di rumori, vibrazioni, gas di scarico e simili, sia in tutti i casi in cui il bene subisca un'oggettiva e apprezzabile riduzione della luminosità, panoramicità e godibilità, purché idonea a tradursi in una oggettiva riduzione del suo valore economico; per altro verso, invece, essa ha precisato che, quando l'opera pubblica sia stata affidata in concessione, la domanda di risarcimento del danno, da essa derivante, va proposta nei confronti del concedente, senza che rilevi l'obbligo di manleva assunto dal concessionario con espressa disposizione contrattuale, non essendo esso opponibile al terzo pregiudicato dall'attività legittima dell'Amministrazione, rimanendo questa responsabile nel caso in cui l'attività di localizzazione dell'opera pubblica e di predisposizione del relativo progetto abbia comportato per il privato un pregiudizio indennizzabile ai sensi delle richiamate disposizioni.

12. Retrocessione del bene espropriato.

In merito, infine, al diritto alla retrocessione del bene espropriato, è stato ribadito - Sez. 6, ord. n. 15859 (Rv. 626975), rel. Bernabai - il principio secondo cui esso sorge nel momento in cui la realizzazione dell'opera, prevista nella dichiarazione di pubblica utilità, diviene giuridicamente impossibile, dovendosi ritenere che tale condizione si verifichi per effetto della scadenza del termine di cui all'art. 13 della legge n. 2359 del 1865 (applicabile ratione temporis alla fattispecie decisa), ovvero a causa di un mutamento nelle scelte di politica urbanistica che si sostanzino nella formale manifestazione della volontà della P.A. di non utilizzare il bene per gli scopi cui l'espropriazione era finalizzata. Su tali basi, pertanto, è stato ritenuto che, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale del diritto alla retrocessione, sia sufficiente la scadenza del termine per l'esecuzione dei lavori.

PARTE TERZA LE OBBLIGAZIONI E I CONTRATTI

  • obbligazione
  • diritti di obbligazioni

CAPITOLO IX

LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE

(di Enrico Carbone )

Sommario

1 Adempimento in generale. - 1.1 Adempimento dell'obbligazione generica. - 1.2 Adempimento del terzo. - 1.3 Pagamento al creditore apparente. - 1.4 Imputazione. - 1.5 Quietanza. - 2 Mora e offerta di prestazione. - 3 Inadempimento in generale. - 3.1 Compensatio lucri cum damno. - 3.2 Liquidazione equitativa del danno. - 3.3 Concorso del fatto colposo del creditore. - 4 Compensazione tra debiti. - 5 Cessione dei crediti. - 6 Obbligazioni pecuniarie. - 7 Obbligazioni solidali. - 8 Obbligazioni indivisibili.

1. Adempimento in generale.

Oltre ad affermare, o ribadire, alcuni principî riguardo all'adempimento dell'obbligazione generica (art. 1178 cod. civ.), all'adempimento del terzo (art. 1180 cod. civ.) e al pagamento a creditore apparente (art. 1189 cod. civ.), la Suprema Corte ha avuto occasione di tornare più volte sui temi dell'imputazione di pagamento (artt. 1193-1195 cod. civ.) e della quietanza (art. 1199 cod. civ.).

1.1. Adempimento dell'obbligazione generica.

La regola sul debito di genere, contenuta nell'art. 1178 cod. civ. («quando l'obbligazione ha per oggetto la prestazione di cose determinate soltanto nel genere, il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media»), ha confermato la sua idoneità in funzione della conservazione del negozio, quale limite al rigore della nullità per indeterminatezza dell'oggetto (artt. 1346 e 1418 cod. civ.).

In particolare, Sez. 1, n. 17200 (Rv. 627225), est. Bernabai, ha statuito che non è affetto da nullità, per indeterminabilità dell'oggetto, il contratto con il quale si prevede il trasferimento di un certo numero di rami d'azienda, non espressamente individuati tra i tanti di cui sia titolare l'obbligato, con le relative concessioni per la gestione di stazioni di servizio per la distribuzione di carburanti, venendo in rilievo un'obbligazione avente ad oggetto cose determinate solo nel genere, espressamente disciplinata dall'art. 1178 cod. civ., che impone al debitore di prestare cose di qualità non inferiore alla media.

1.2. Adempimento del terzo.

Di notevole valenza sistematica è l'applicazione del principio di correttezza all'istituto dell'adempimento di terzo, in quanto l'osservanza della buona fede oggettiva, che l'art. 1175 cod. civ. parrebbe imporre a debitore e creditore esclusivamente nella loro relazione interna, viene proiettata all'esterno del rapporto obbligatorio, in favore del terzo interessato alla solutio.

Invero, per Sez. 2, n. 2207 (Rv. 625184), est. Carrato, ai sensi dell'art. 1180, secondo comma, cod. civ., il rifiuto del creditore all'adempimento da parte del terzo, in presenza di opposizione del debitore (la quale deve essere, a sua volta, dettata da situazioni giuridiche legittimamente tutelabili e ispirarsi all'osservanza del principio generale di cui all'art. 1175 cod. civ.), non deve essere contrario a buona fede e correttezza; ne deriva che il giudice è abilitato a sindacare detta contrarietà ogni qualvolta il terzo alleghi e deduca in giudizio l'esercizio abusivo del rifiuto da parte del creditore (anche in relazione alla legittimità delle ragioni dedotte dal debitore a fondamento della manifestata opposizione), che abbia così impedito allo stesso terzo - legittimato ed interessato a soddisfare il credito per i rapporti intercorrenti con il debitore, di cui il creditore sia stato reso edotto - di pagare in sostituzione del debitore, estinguendo l'obbligazione in funzione della legittima tutela di propri eventuali diritti.

1.3. Pagamento al creditore apparente.

Ha trovato conferma che l'apparentia iuris rilevante per l'effetto liberatorio ex art. 1189 cod. civ. non è la mera difformità generatrice di un affidamento incolpevole (c.d. apparenza pura), bensì quella caratterizzata dalla negligenza del soggetto contro cui essa è invocata (c.d. apparenza colposa).

Infatti, Sez. 3, n. 14028 (Rv. 626741), est. Armano, ha ribadito che il pagamento fatto al rappresentante apparente, al pari di quello fatto al creditore apparente, libera il debitore di buona fede, ai sensi dell'art. 1189 cod. civ., purché il debitore, che invoca il principio dell'apparenza giuridica, fornisca la prova non solo di avere confidato senza sua colpa nella situazione apparente, ma anche che il suo erroneo convincimento è stato determinato da un comportamento colposo del creditore, il quale abbia fatto sorgere nel solvens una ragionevole presunzione circa l'effettività dei poteri rappresentativi dell'accipiens.

1.4. Imputazione.

Quanto ai presupposti e alle finalità dell'imputazione di pagamento tra crediti omogenei, Sez. 2, n. 22639 (Rv. 627885), est. Mazzacane, è tornata ad evidenziare che la disposizione dell'art. 1193 cod. civ. si riferisce all'ipotesi della sussistenza di una pluralità di rapporti obbligatori tra le medesime parti e ha lo scopo di eliminare l'incertezza circa la sorte degli stessi, evitando che a ciascun atto di pagamento non segua l'effetto solutorio di una ben determinata obbligazione, sicché tale disposizione non è applicabile, e la questione dell'imputazione di pagamento neppure si pone, quando tra le parti sussista un unico debito.

La disciplina dell'imputazione di pagamento tra debiti plurimi della medesima specie è stata applicata da Sez. 2, n. 5038 (Rv. 625346), est. Proto, ai rapporti obbligatori in ambito condominiale, essendosi affermato che il condomino, quando esegue un pagamento per spese condominiali, può imputarlo ai debiti per singoli esercizi e può escludere che le somme pagate vengano imputate a crediti contestati.

Per il resto, ha trovato conferma l'esegesi degli artt. 1193- 1195 cod. civ., riguardo al carattere primario dell'imputazione ex parte debitoris, al carattere secondario dell'imputazione ex parte creditoris e al carattere sussidiario dei criteri legali di imputazione, oltre che a proposito dell'onere debitorio di immediata contestazione della quietanza con imputazione.

Da un lato, infatti, Sez. 6-2, ord., n. 2672 (Rv. 624873), rel. Giusti, ha ribadito che, quando il debitore non si avvalga della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare, la scelta, come desumibile dall'art. 1195 cod. civ., spetta al creditore, il quale, nello stesso documento di quietanza, può dichiarare di imputare il pagamento ad uno o più debiti determinati, subentrando i criteri legali di cui all'art. 1193 cod. civ., che hanno carattere suppletivo, solo quando né il debitore né il creditore abbiano effettuato l'imputazione.

D'altro canto, Sez. 3, n. 917 (Rv. 625053), est. Armano, è tornata a precisare che la dichiarazione di imputazione del creditore deve essere accettata dal debitore e che, qualora essa sia inserita nello stesso documento contenente la quietanza, la ricezione del documento da parte del debitore si riferisce solo alla quietanza in esso contenuta e soddisfa il suo interesse a conservare la prova documentale dell'avvenuto pagamento, ma non presuppone un accordo sull'imputazione, giacché la ricezione del documento assume valore di prova dell'accettazione dell'imputazione operata dal creditore solo se il debitore non la contesti immediatamente, la mancata tempestiva contestazione assumendo il valore dell'acquiescenza.

1.5. Quietanza.

L'istituto della quietanza di pagamento è segnato, tuttora, da vecchie incertezze dogmatiche, che rendono poco chiaro il regime di impugnazione dell'atto non veridico, specie quando esso, piegato a fini simulatori, parrebbe entrare in una dimensione negoziale, abbandonando l'alveo naturale delle dichiarazioni di scienza con funzione probatoria.

Per un'interessante applicazione dei principî sui conflitti di prova, Sez. 2, n. 23971 (Rv. 628019), est. Bursese: la quietanza, come dichiarazione di scienza del creditore assimilabile alla confessione stragiudiziale del ricevuto pagamento, può essere superata dall'opposta confessione giudiziale del debitore, che ammetta, nell'interrogatorio formale, di non aver corrisposto la somma quietanzata, giacché l'art. 2726 cod. civ. limita, quanto al fatto del pagamento, la prova per testimoni e per presunzioni, non anche la prova per confessione.

Per la massima consolidata sulla c.d. quietanza a saldo, o quietanza liberatoria, Sez. 3, n. 13189 (Rv. 626737), est. D'Amico: la quietanza rilasciata dal creditore ha natura di atto unilaterale recettizio contenente il riconoscimento dell'avvenuto pagamento, sicché, di regola, non è legittimo desumere, dal suo rilascio, l'esistenza di una volontà transattiva o di rinuncia ad altre pretese da parte del creditore, salvo che ciò non emerga da specifici elementi di fatto e dal complessivo contenuto del documento, secondo l'accertamento compiuto dal giudice di merito, che, ove sorretto da adeguata e corretta motivazione, si sottrae al sindacato di legittimità.

2. Mora e offerta di prestazione.

Quanto alla mora debendi e agli effetti dell'offerta di prestazione, Sez. 2, n. 25775 (in corso di massimazione), est. Carrato, ha ribadito che, mentre ogni offerta di adempimento vale ad escludere la mora del debitore, quest'ultimo, ove voglia conseguire l'effetto più ampio della liberazione dall'obbligazione, è tenuto a far seguire, all'offerta reale pecuniaria, il deposito ex artt. 1208 e segg. cod. civ. e gli adempimenti ex artt. 1212 cod. civ., 74 disp. att. cod. civ.

Si segnala, in proposito, una chiara indicazione antiformalistica, laddove Sez. 3, n. 1016 (Rv. 624914), est. Amendola, ha statuito che il pubblico ufficiale incaricato di eseguire l'offerta reale pecuniaria, ai sensi dell'art. 1209 cod. civ., non ha l'obbligo di munirsi di una procura scritta dell'offerente.

Circa l'offerta della prestazione corrispettiva, cui l'art. 2932 cod. civ. subordina l'accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto di trasferimento di cosa determinata, Sez. 2, n. 2217 (Rv. 625193), est. Carrato, ha riaffermato che tale offerta non deve essere fatta necessariamente nelle forme dell'offerta reale o per intimazione, di cui agli artt. 1208 e 1209 cod. civ., purché consista in un'offerta qualificata da serietà e buona fede.

3. Inadempimento in generale.

Sul tema delle conseguenze risarcitorie dell'inadempimento, la Suprema Corte ha tenuto fermi alcuni principî attinenti alla compensatio lucri cum damno, alla liquidazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. e al concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 cod. civ.

3.1. Compensatio lucri cum damno.

In ordine alla compensatio lucri cum damno, istituto pretorio fondato sul principio di causalità ex art. 1223 cod. civ., Sez. 3, n. 12248 (Rv. 626397), est. De Stefano, ha ribadito che esso trova applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno, non potendo il lucro compensarsi con il danno se trae la sua fonte da titolo diverso.

3.2. Liquidazione equitativa del danno.

Per i presupposti e le condizioni di esercizio dell'equità sussidiaria di cui all'art. 1226 cod. civ. - comune alla materia aquiliana, tramite il richiamo dell'art. 2056 cod. civ. -, hanno trovato conferma l'esclusiva attinenza del criterio al quantum debeatur, ovvero la sua estraneità all'an, ed il deciso rifiuto della c.d. equità cerebrina.

Invero, Sez. 3, n. 11968 (Rv. 626250), est. Vincenti, ha confermato che, per la liquidazione equitativa del lucro cessante, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 cod. civ., si richiede la prova, anche presuntiva, della sua certa esistenza, in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale, attenendo il giudizio equitativo solo all'entità del pregiudizio, in considerazione dell'impossibilità o della grande difficoltà di dimostrarne la misura.

Per altro verso, Sez. 3, n. 8213 (Rv. 625787), est. Carleo, ha ribadito che, qualora proceda alla liquidazione del danno in via equitativa, il giudice di merito, affinché la sua decisione non presenti i connotati dell'arbitrarietà, deve indicare i criteri seguiti per determinare l'entità del risarcimento, essendo il suo potere discrezionale sottratto a qualsiasi sindacato di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell'ammontare dei danni liquidati.

3.3. Concorso del fatto colposo del creditore.

Ha ribadito Sez. 3, n. 9137 (Rv. 626052), est. D'Amico, che grava sul debitore, responsabile del danno, l'onere di provare la violazione del dovere di correttezza imposto dall'art. 1227, secondo comma, cod. civ. e, cioè, l'onere di provare che il creditore avrebbe potuto evitare le conseguenze dannose, usando l'ordinaria diligenza.

Tale impostazione qualifica il concorso di colpa del creditore danneggiato come fatto impeditivo della pretesa risarcitoria e ne fa oggetto, quindi, di un'eccezione in senso stretto.

Essa va raffrontata con l'indicazione delle Sezioni unite, che definisce la valutazione della colpa del creditore, dal punto di vista logico- giuridico, come un elemento interno alla quantificazione del danno risarcibile.

Invero, per Sez. Un., n. 13902 (Rv. 626470), est. Goldoni, nella controversia sul risarcimento del danno, l'allegazione del concorso di colpa del danneggiato non configura un'eccezione nuova, inammissibile in appello, bensì una mera difesa, volta a dedurre l'eccessività del risarcimento chiesto ab origine.

Il fatto colposo del creditore è stato annoverato anche tra i parametri di importanza dell'inadempimento, agli effetti della risoluzione contrattuale, avendo Sez. 6-3, ord., n. 20182 (Rv. 627684), est. Lanzillo, statuito che, nel valutare la gravità dell'inadempimento ex art. 1455 cod. civ., il giudice deve tenere conto, ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., delle circostanze che avrebbero ridotto le conseguenze dell'inadempimento medesimo e che la parte non inadempiente conosceva o avrebbe potuto conoscere con l'ordinaria diligenza.

4. Compensazione tra debiti.

In ordine alla reciprocità delle obbligazioni, quale presupposto dell'estinzione per compensazione, Sez. 6-1, ord., n. 20874 (Rv. 627768), rel. Cristiano, dopo aver rammentato che, affinché operi la compensazione, ai sensi dell'art. 1241 cod. civ., occorre, per l'appunto, reciprocità di posizione creditoria e debitoria fra le medesime parti, ne ha desunto l'illegittimità della compensazione operata da una banca tra un proprio credito verso un terzo e il debito che, nei confronti di quel terzo, abbia un Comune, del quale la banca gestisca il servizio di tesoreria.

Il principio che subordina la compensazione alla natura definitiva dei crediti della cui reciproca estinzione trattasi ha ricevuto un'importante applicazione in materia condominiale.

Infatti, Sez. 2, n. 8525 (Rv. 625762), est. Bursese, ha evidenziato che, pur essendo la delibera dell'assemblea di condominio esecutiva in pendenza di impugnazione, salva sospensione giudiziale a norma dell'art. 1137 cod. civ., il credito del condominio nei confronti del singolo condomino, risultante da delibera assembleare impugnata, non è opponibile in compensazione ad estinzione delle reciproche obbligazioni, in quanto portato da un titolo la cui esecutività consente la sola temporanea esigibilità, laddove la compensazione postula il definitivo accertamento dei debiti da estinguere e non opera per le situazioni provvisorie.

Numerose pronunce si sono occupate della liquidità del credito, estremo che - com'è noto - distingue la compensazione legale (avente effetto ex tunc, accertato dal giudice) dalla compensazione giudiziale (avente effetto ex nunc, costituito dal giudice), per quest'ultima ponendosi delicate questioni di coordinamento laddove il credito opposto in compensazione innanzi ad un giudice sia oggetto di accertamento presso un giudice diverso.

In particolare, Sez. 6-1, ord., n. 23716 (Rv. 627997), rel. De Chiara, ha affermato che un credito contestato in un separato giudizio non è suscettibile di compensazione legale, attesa la sua illiquidità, né di compensazione giudiziale, poiché potrà essere liquidato soltanto in quel giudizio, richiedendosi, invece, per la compensazione volontaria, un patto con cui venga disposta la compensazione di crediti già esistenti o siano fissate le condizioni, derogatorie a quelle di legge, necessarie e sufficienti per il prodursi del futuro effetto compensativo.

Sulla medesima linea, Sez. 6-1, ord., n. 9608 (Rv. 626309), rel. Campanile, ha ribadito che la compensazione giudiziale, di cui all'art. 1243, secondo comma, cod. civ., presuppone l'accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la compensazione medesima è invocata e non può, dunque, fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall'esito di un separato giudizio in corso, in tale ipotesi restando esclusa, pertanto, la possibilità di disporre la sospensione ai sensi dello stesso art. 1243 cod. civ., come anche la possibilità della sospensione contemplata, in via generale, dagli artt. 295 e 337, secondo comma, cod. proc. civ., attesa la prevalenza della disciplina speciale di cui al codice civile.

Diversamente orientata appare Sez. 3, n. 23573 (in corso di massimazione), est. Frasca, per la quale il fatto che l'accertamento di un credito sia oggetto di altro giudizio non osta alla possibilità che il suo titolare lo eccepisca in compensazione nel giudizio contro di lui proposto: qualora il giudizio sul controcredito penda davanti allo stesso ufficio giudiziario, il coordinamento fra i due giudizi avviene tramite il meccanismo della riunione, all'esito della quale il giudice procede nei modi indicati dal secondo comma dell'art. 1243 cod. civ.; qualora la riunione non sia possibile o il giudizio sul credito eccepito in compensazione penda davanti ad altro giudice (e non sia possibile una rimessione ex art. 40 cod. proc. civ., a seguito della quale il coordinamento avviene nei modi su indicati) o, ancora, quel giudizio penda in grado di impugnazione, il coordinamento avviene con la pronuncia di una condanna sul credito principale, con riserva della decisione sul credito eccepito in compensazione e la rimessione sul ruolo della decisione sulla sussistenza delle condizioni della compensazione, seguita da sospensione del giudizio ex art. 295 cod. proc. civ. o ex art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., fino alla definizione del giudizio di accertamento del controcredito.

5. Cessione dei crediti.

Si segnala un'ulteriore espansione dell'oggetto della cessione di credito, quale negozio a causa variabile.

Invero, atteso il principio di libera cedibilità dei crediti, sancito dall'art. 1260 cod. civ., ed estendendo una massima già consolidata per il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, Sez. 3, n. 22601 (Rv. 628099), est. Scarano, ha stabilito che il credito relativo al risarcimento del danno non patrimoniale, come risulta trasmissibile iure hereditatis, così può formare oggetto di cessione per atto inter vivos, non presentando carattere strettamente personale.

6. Obbligazioni pecuniarie.

Aderendo al principio tradizionale genus numquam perit, Sez. 2, n. 25777 (in corso di massimazione), est. Matera, ha riaffermato che, nelle obbligazioni pecuniarie, l'impossibilità della prestazione deve consistere, ai fini dell'esonero da responsabilità del debitore, non in una mera difficoltà, ma in un impedimento obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso, e non può consistere, quindi, nella semplice impotenza economica dipendente dall'inadempimento di un terzo nell'ambito di un diverso rapporto.

Quanto ai mezzi di pagamento, Sez. 3, n. 14531 (Rv. 626703), est. Barreca, in una fattispecie relativa all'assegno bancario, ha fatto applicazione del canone di buona fede, statuendo che il pagamento effettuato con un mezzo diverso dalla moneta di corso legale, ma comunque idoneo ad assicurare la somma, può essere rifiutato solo per un giustificato motivo, essendo il rifiuto, altrimenti, illecito ex fide bona.

Ancora in tema di mezzi di pagamento, Sez. 2, n. 24560 (in corso di massimazione), est. Migliucci, ha escluso che, salva diversa pattuizione, abbiano idoneità solutoria il rilascio e la girata della cambiale, attesa l'indiscussa natura del titolo cambiario, strumento per la circolazione del credito e non mezzo di pagamento.

La Suprema Corte ha avuto modo di confermare la nozione di debito pecuniario, agli effetti dell'applicazione del principio nominalistico di cui all'art. 1277 cod. civ.

Invero, Sez. 1, n. 13649 (Rv. 626717), est. Ceccherini, ha ribadito che l'obbligo di pagare una somma di danaro da determinarsi in base ad un criterio preventivamente stabilito integra un debito pecuniario, tale essendo non solo il debito in cui la prestazione originaria consista in una somma di danaro, già quantificata, ma anche il debito in cui l'oggetto sia una somma determinabile in base a criteri precostituiti sin dal momento della nascita dell'obbligazione, sicché gli utili dovuti in forza del contratto di associazione in partecipazione sono materia di un debito di valuta, soggetto al principio nominalistico e, quindi, insuscettibile di rivalutazione monetaria.

Vanno evidenziate alcune presunzioni giurisprudenziali che soccorrono il creditore di danaro nella prova del maggior danno da svalutazione monetaria, agli effetti dell'art. 1224, secondo comma, cod. civ.

Così, per Sez. 2, n. 22429 (Rv. 627817), est. Nuzzo, in caso di ritardato adempimento di un debito di valuta, la ricorrenza di un maggior danno ex art. 1224, secondo comma, cod. civ. si presume, qualora, durante la mora, il tasso di inflazione sia stato superiore al saggio degli interessi legali.

D'altro canto, superando l'indirizzo minoritario, che grava il creditore, avente qualità di imprenditore commerciale, dell'onere di provare il ricorso al credito bancario o la redditività degli investimenti aziendali, Sez. 1, n. 22096 (Rv. 627769), est. Di Amato, ha statuito che, ai fini del risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria, tale creditore qualificato non ha l'onere di provare la sussistenza di un danno concreto etiologicamente ricollegabile all'indisponibilità del danaro, presumendosi, in base all'id quod plerumque accidit, che egli, in caso di tempestivo adempimento, avrebbe utilizzato la somma per il finanziamento dell'attività d'impresa e, quindi, in un impiego ordinariamente antinflattivo.

Ha trovato conferma la tendenziale universalità del divieto di anatocismo.

In fattispecie relativa all'appalto di opere pubbliche, Sez. 1, n. 18438 (Rv. 627512), est. Lamorgese A.P., ha ribadito che a tutte le obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura è applicabile, in mancanza di usi contrari, la regola dell'anatocismo dettata dall'art. 1283 cod. civ., dovendosi escludere che il debito per interessi, anche quando sia stato adempiuto il debito principale, si configuri come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale derivi il diritto agli ulteriori interessi dalla mora nonché al risarcimento del maggior danno ex art. 1224, secondo comma, cod. civ.

La restrizione dei margini di operatività dell'anatocismo si evidenzia anche in ordine ai requisiti di eccezionale spettanza degli interessi composti, avendo Sez. 1, n. 21340 (Rv. 627739), est. Di Amato, confermato che l'attribuzione degli interessi sugli interessi scaduti, giusta previsione dell'art. 1283 cod. civ., postula una specifica domanda del creditore, autonoma e distinta rispetto a quella per gli interessi principali, sicché, avanzata in primo grado solo tale ultima domanda, la richiesta degli interessi anatocistici non può essere formulata per la prima volta in appello, atteso il divieto dei nova.

Ancora, Sez. 1, n. 21340 (Rv. 627738), est. Di Amato, ha precisato che, nei debiti pecuniari delle amministrazioni pubbliche, la costituzione in mora è un elemento costitutivo della pretesa relativa ad interessi e maggior danno, sicché grava sul creditore l'onere di provare che l'intimazione scritta di pagamento è stata ricevuta dall'ente debitore, anche se quest'ultimo nulla eccepisca in merito.

7. Obbligazioni solidali.

Atteso il carattere naturale della solidarietà passiva, per Sez. 1, n. 23386 (in corso di massimazione), est. Scaldaferri, il giudice di merito, ove accerti che più soggetti sono obbligati tutti per la medesima prestazione, anche se per titoli diversi, esattamente li condanna in solido, a norma dell'art. 1292 cod. civ., pur se la solidarietà non sia stata invocata dall'attore.

Circa la transazione stipulata in regime di solidarietà, Sez. 1, n. 17198 (Rv. 627237), est. De Chiara, ha stabilito che il diritto potestativo di aderire alla transazione fatta da altri, alla stregua dell'art. 1304 cod. civ., deve considerarsi tacitamente rinunciato laddove l'interessato abbia optato per l'instaurazione o la prosecuzione della lite, invece che per la sua chiusura transattiva, essendo le condotte litigiose antitetiche rispetto all'intenzione di transigere e non potendosi condizionare il destino del processo alla volontà di una parte, che risulterebbe investita del potere unilaterale di farlo cessare o di vanificarne gli effetti secundum eventum litis, in violazione del principio di parità dei contendenti.

Quanto agli effetti della sentenza, per Sez. 3, n. 13458 (Rv. 626813), est. Ambrosio, nel giudizio promosso contro più debitori in solido, la sentenza a costoro favorevole, passata in giudicato riguardo a taluno di essi per difetto di impugnazione, non può essere opposta dagli altri per impedire l'esame del gravame proposto contro di loro, né può essere rilevata dal giudice ai fini della declaratoria di preclusione del gravame medesimo, non trovando applicazione il disposto dell'art. 1306 cod. civ., che riguarda la diversa ipotesi in cui la sentenza sia stata resa in un giudizio al quale i condebitori non abbiano partecipato.

Ancora sul disposto dell'art. 1306 cod. civ., Sez. 3, n. 16117 (Rv. 626988), est. Lanzillo, ha chiarito che esso si applica nei soli rapporti tra creditore e coobbligato solidale, non anche nei rapporti di regresso tra i condebitori, sicché il debitore il quale, pagato il debito, agisca in regresso contro altro obbligato non può invocare nei suoi confronti il giudicato che lo abbia condannato al pagamento, né il coobbligato convenuto può a lui opporre altro e contrastante giudicato, col quale sia stata rigettata la pretesa creditoria nei suoi confronti.

Invero, come precisato dalla medesima Sez. 3, n. 16117 (Rv. 626989), est. Lanzillo, quando le pretese dell'unico creditore, prese in esame in due separati giudizi contro due diversi condebitori solidali, siano state nell'un caso accolte e nell'altro rigettate, nel successivo giudizio di regresso i giudicati si annullano a vicenda e nessuno dei due coobbligati potrà giovarsene, ciò che non comporta, tuttavia, il necessario rigetto della domanda di regresso del condebitore solvens, ma implica soltanto che questi avrà l'onere di dedurre e provare con i mezzi ordinari, nel giudizio di regresso, l'effettiva inevitabilità del pagamento.

8. Obbligazioni indivisibili.

Va rammentato un impiego dello schema dell'obbligazione indivisibile, esattamente, della c.d. obbligazione soggettivamente indivisibile, che, ai sensi dell'art. 1316 cod. civ., è quella il cui oggetto è indivisibile «per il modo in cui è stato considerato dalle parti contraenti» (anziché, indivisibile «per sua natura», come nella c.d. obbligazione oggettivamente indivisibile).

L'impiego è in funzione conservativa, avendo Sez. 2, n. 15545 (Rv. 627001), est. Carrato, affermato che la stipulazione di due contratti preliminari di vendita cumulativa, aventi ad oggetto beni immobili considerati come un unicum, con la pattuizione di un solo prezzo, può essere ricondotta ad una unitaria manifestazione negoziale facente capo ad un contratto preliminare complesso, avente ad oggetto una prestazione unica ed inscindibile, disciplinata dall'art. 1316 cod. civ., sicché l'impossibilità di distinguere la parte di prezzo riferibile all'una o all'altra promessa di vendita non determina la nullità dei preliminari medesimi.

  • contratto
  • risoluzione di contratto
  • responsabilità contrattuale

CAPITOLO X

IL CONTRATTO IN GENERALE

(di Enrico Carbone )

Sommario

1 Contratto atipico. - 2 Opzione. - 3 Responsabilità precontrattuale. - 4 Condizioni generali e clausole vessatorie. - 5 Oggetto, causa e collegamento. - 6 Libertà di forma. - 7 Preliminare ed esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre. - 8 Condizione e finzione di avveramento. - 9 Interpretazione e clausole di stile. - 10 Recesso unilaterale. - 11 Prelazione convenzionale. - 12 Penale e caparra. - 13 Rappresentanza e falsus procurator. - 14 Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi. - 15 Simulazione ed interposizione di persona. - 16 Nullità ed inserzione automatica. - 17 Annullabilità e convalida. - 18 Risoluzione per inadempimento. - 19 Clausola risolutiva e termine essenziale. - 20 Mezzi di autotutela.

1. Contratto atipico.

In tema di autonomia contrattuale, si segnala una figura pattizia, molto diffusa nella prassi, che la Suprema Corte ha ricondotto nel paradigma dei contratti innominati, ai sensi dell'art. 1322, secondo comma, cod. civ. («le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico»).

Invero, Sez. 2, n. 13613 (Rv. 626503), est. Proto, ha avuto modo di ribadire che il c.d. patto di manleva, con il quale si trasferiscono le conseguenze risarcitorie dell'inadempimento in capo ad un soggetto che garantisce il creditore, con obbligo del garante di tenerne indenne il manlevato, è un contratto atipico, fonte di un autonomo rapporto giuridico sostanziale, non disciplinato dall'ordinamento.

2. Opzione.

Circa l'opzione e la proposta irrevocabile, è stata affermata l'irrilevanza dell'importanza del ritardo nell'esercizio della facoltà di accettazione, giacché l'oblato è titolare di un diritto potestativo soggetto a termine e non di un obbligo del cui inadempimento possa discutersi in termini di gravità.

Dunque, Sez. 2, n. 15411 (Rv. 626986), est. Scalisi, ha chiarito che il mancato esercizio, entro la scadenza del termine all'uopo fissato, della facoltà di accettare l'altrui proposta irrevocabile, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1331 cod. civ., facendo venir meno la soggezione dell'offerente al diritto potestativo del contraente cui è stata concessa l'opzione, libera definitivamente il primo, con la conseguenza che la manifestazione della volontà del secondo di aderire all'offerta, se sopravviene tardivamente, equivale ad una nuova proposta, che non vincola l'originario offerente se non in caso di accettazione da parte del medesimo, sicché è ininfluente che il ritardo nell'accettazione della proposta sia solo "lieve", considerato che, nella fattispecie, non viene in rilievo una questione di inadempimento, ma un'ipotesi di decorrenza di un termine.

3. Responsabilità precontrattuale.

Di grande importanza sistematica è l'apertura alla c.d. teoria dei vizi incompleti, quale si rinviene, seppure in termini problematici, nella scansione argomentativa di Sez. 3, n. 21255 (in corso di massimazione), est. Travaglino, che, invero, ha ammesso l'azione risarcitoria ex lege Aquilia per violazione della regola di buona fede nelle trattative, malgrado la presenza di un contratto valido, in tal modo, superando il classico diniego della responsabilità precontrattuale quale riflesso della validità negoziale.

In tema di culpa in contrahendo, si segnala una decisione concernente la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, inquadrata, secondo tradizione, nel paradigma aquiliano del neminem laedere, piuttosto che, secondo più recenti orientamenti, nello schema contrattuale della responsabilità da contatto sociale.

Ci si riferisce a Sez. 2, n. 477 (Rv. 624592), est. Petitti, la quale ha ribadito che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principî della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall'art. 2043 cod. civ., sicché, se non è ipotizzabile una responsabilità precontrattuale per violazione del dovere di correttezza di cui all'art. 1337 cod. civ. rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, essa è ammissibile con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative dell'ente è sindacabile sotto il profilo della violazione del dovere del neminem laedere, ove lo stesso sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all'affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto, spettando, comunque, al giudice di merito accertare se il comportamento dell'amministrazione pubblica abbia ingenerato nei terzi, anche per mera colpa, un ragionevole affidamento in ordine alla conclusione del contratto.

4. Condizioni generali e clausole vessatorie.

In ordine alle condizioni generali di contratto - inter pares, fuori, cioè, dall'ambito dei rapporti di consumo -, la Suprema Corte è tornata ad evidenziare che la standardizzazione contrattuale postula, oltre alla predisposizione unilaterale del regolamento, la sua vocazione seriale, com'è tipico, per l'appunto, del negozio per adesione.

Così, Sez. 6-3, ord., n. 17073 (Rv. 627679), rel. Frasca, ha ribadito che la mera predisposizione unilaterale del regolamento contrattuale è insufficiente a giustificare l'applicazione della tutela apprestata negli artt. 1341 e 1342 cod. civ., occorrendo, in aggiunta, che tale regolamento risulti predisposto per essere adottato in una serie indefinita di rapporti, sicché l'adesione del contraente non predisponente avvenga senza alcuna possibilità di incidere sul contenuto del negozio, potendo egli soltanto decidere se stipulare meno.

La Corte ha avuto occasione di riaffermare, altresì, la tassatività del novero delle clausole vessatorie, soggette alla prescrizione formale di cui all'art. 1341, secondo comma, cod. civ., tornando ad escluderne ogni applicazione analogica, esorbitante dai limiti della semplice interpretazione estensiva.

In particolare, Sez. 3, n. 14038 (Rv. 626728), est. Ambrosio, ha ribadito che l'esclusione della facoltà di recesso da un contratto non integra clausola vessatoria, ai sensi dell'art. 1341, secondo comma, cod. civ., e, pertanto, non necessita, per la sua efficacia, della specifica approvazione per iscritto, posto che l'elencazione contenuta nella norma non è soggetta ad interpretazione analogica, ma solo estensiva, e che, nell'elencazione stessa, non solo non è prevista l'ipotesi della rinuncia al recesso, ma neppure è contemplato alcun caso che possa esserle assimilato.

Soluzione di taglio casistico è stata adottata, invece, da Sez. 3, n. 7273 (Rv. 625899), est. Vivaldi, a tenore della quale spetta al giudice stabilire, caso per caso, con valutazione di merito, se abbia natura vessatoria, ai sensi dell'art. 1341 cod. civ., la clausola claims made ("a richiesta fatta"), inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, per cui l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula, se per essi gli sia pervenuta una richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato durante il tempo per il quale è stata stipulata l'assicurazione.

Dal canto suo, Sez. 1, n. 16620 (Rv. 627205), est. Di Virgilio, ha riaffermato che la clausola contrattuale la quale sottoponga il sorgere del diritto al compenso del professionista, incaricato della progettazione di un'opera, alla condizione dell'intervenuto finanziamento dell'opera progettata non limita la responsabilità del committente del progetto, giacché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto solo redatto, a guisa che una clausola siffatta, non incidendo sulle conseguenze dell'inadempimento del predisponente, non può ritenersi vessatoria e non è, pertanto, bisognevole di specifica approvazione per iscritto.

È opportuno segnalare che Sez. 6-3, ord., n. 17080 (Rv. 627678), rel. Ambrosio, ha ricondotto alla fattispecie dell'art. 1342 cod. civ. («contratto concluso mediante moduli o formulari») il contratto di trasporto stipulato mediante acquisto on line di biglietto aereo.

5. Oggetto, causa e collegamento.

Sul tema dell'oggetto contrattuale, e dell'influenza che esso può spiegare in ordine alla qualificazione causale, Sez. 2, n. 9640 (Rv. 626041), est. Nuzzo, ha riaffermato che solo l'indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, può determinare la nullità della vendita per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali, mentre la pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, pone solo un problema concernente l'adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni ed afferisce, quindi, all'interpretazione della volontà dei contraenti e all'eventuale configurabilità di una diversa causa del contratto.

Palesemente ispirata alla teoria della causa in concreto, Sez. 3, n. 8100 (Rv. 625648), est. Amendola, definisce la causa del contratto quale sintesi dei contrapposti interessi reali che le parti intendono realizzare con la specifica negoziazione, indipendentemente dall'astratto modello da loro utilizzato, cosicché, nell'ipotesi di affitto agrario decennale, con pagamento anticipato dell'intero canone, e di contestuale preliminare di vendita del medesimo fondo, con immediata immissione dell'affittuario promissario acquirente nella detenzione del predio, stante il collegamento teleologico tra il rapporto di affittanza e la promessa di vendita, in quanto il primo configura il mezzo escogitato dalle parti per superare il limite legale di provvisoria inalienabilità delle terre di riforma agraria, vendute con riservato dominio dagli enti di sviluppo, la valorizzazione della causa concreta impone di ritenere che, scaduto il pattuito termine decennale, il contratto di affitto non operi più come strumento di composizione dei reciproci interessi, per aver esaurito ogni sua pratica utilità, senza che nessuna previsione legislativa possa automaticamente prorogarlo, con la conseguenza che il protrarsi della detenzione del bene ad opera del promissario acquirente deve intendersi come esecuzione del preliminare e non può integrare, quindi, un inadempimento.

Il binomio tra causa in concreto e collegamento negoziale si ritrova in Sez. 2, n. 13861 (Rv. 626784), est. Bianchini, a tenore della quale il collegamento presuppone, nella prospettiva unificatrice della causa in concreto, che tutti i negozi coordinati siano voluti per i loro effetti tipici, sicché esso non può realizzarsi fra negozi simulati e dissimulati, essendo la simulazione, di per sé, deputata al perseguimento di scopi estranei a quelli del negozio formalmente posto in essere.

Ancora riguardo al collegamento contrattuale, Sez. 3, n. 7255 (Rv. 625719), est. Segreto, ha sottolineato che esso non dà luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi, sicché, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, gli stessi restano soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre la loro interdipendenza produce una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo, giacché essi simul stabunt, simul cadent.

6. Libertà di forma.

Quanto alla forma contrattuale, si segnalano alcune applicazioni del principio di libertà.

In particolare, Sez. 3, n. 18757 (Rv. 627433), est. Scrima, ha ribadito che, qualora un contratto non richieda la forma scritta ad substantiam, la clausola negoziale che imponga alle parti l'adozione della forma scritta per la modificazione del contratto non preclude - salvo patto contrario - la risoluzione per mutuo consenso tacito, riprendendo vigore, al riguardo, il principio della libertà delle forme.

Per ossequio al medesimo principio, Sez. 3, n. 20051 (Rv. 627719), est. Scarano, ha affermato che il mandato per l'acquisto di immobili non necessita della forma scritta, essa occorrendo solo per gli atti, come la procura, costituenti presupposto dell'effetto reale; affermazione conforme all'indirizzo prevalente, che distingue tra il mandato, atto interno tra mandante e mandatario, senza vincolo di forma, e la procura, atto a proiezione esterna, vincolato alla forma del negozio finale, potendosi ritenere superato, quindi, l'orientamento che estendeva al mandato il formalismo della procura in materia immobiliare.

7. Preliminare ed esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre.

In tema di forma del contratto preliminare, Sez. 2, n. 25424 (in corso di massimazione), est. Falaschi, ha ribadito che, dovendo l'atto scritto, richiesto dalla legge ad substantiam e non ad probationem, essere rappresentato non da un qualsiasi documento, da cui risulti in precedenza concluso, ma da uno scritto che contenga la manifestazione della volontà di concludere il contratto e che sia posto in essere al fine specifico di manifestare tale volontà, non soddisfa l'esigenza del combinato disposto degli artt. 1350 e 1351 cod. civ., secondo cui il preliminare di vendita immobiliare deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità, una semplice dichiarazione scritta con la quale si dia ricevuta di una somma corrisposta in esecuzione di un negozio di cui si presuppone la futura stipula.

Vanno segnalati due arresti sull'oggetto del preliminare, che manifestano un diverso rigore, a seconda della fonte - negoziale o giudiziale - del rapporto definitivo.

Per Sez. 2, n. 2473 (Rv. 624872), est. D'Ascola, ai fini della validità del contratto preliminare, non è indispensabile la completa e dettagliata indicazione di tutti gli elementi del futuro contratto, risultando sufficiente l'accordo delle parti su quelli essenziali, sicché, nel preliminare di compravendita immobiliare, per il quale è richiesto ex lege l'atto scritto come per il definitivo, è sufficiente che dal documento risulti, anche attraverso il riferimento ad elementi esterni, ma idonei a consentirne l'identificazione in modo inequivoco, che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene determinato o, comunque, determinabile, la cui indicazione, pertanto, attraverso gli ordinari elementi identificativi richiesti per il definitivo, può anche essere incompleta o mancare del tutto, purché l'intervenuta convergenza delle volontà sia logicamente ricostruibile, anche aliunde o per relationem.

Tuttavia, per Sez. 2, n. 952 (Rv. 624973), est. Scrima, l'oggetto di un contratto preliminare di vendita immobiliare può essere determinato attraverso atti e fatti storici esterni al negozio, anche successivi alla sua conclusione, nella sola ipotesi in cui l'identificazione del bene da trasferire avvenga in sede di conclusione del definitivo su base negoziale e non quando, invece, afferisca ad una pronuncia giudiziale ex art. 2932 cod. civ., nel qual caso occorre che l'esatta individuazione dell'immobile, con l'indicazione dei confini e dei dati catastali, risulti dal preliminare, dovendo la sentenza corrispondere esattamente al contenuto del contratto, senza poter attingere da altra documentazione i dati necessari alla specificazione del bene oggetto del trasferimento.

Su un piano generale, Sez. 2, n. 25593 (in corso di massimazione), est. Scalisi, ha osservato che il preliminare, oltre al contenuto tipico vertente sull'obbligo di stipulare il definitivo, può avere un contenuto atipico, relativo a patti che, pur collegati all'accordo principale, mantengono una loro autonomia, anche in punto di validità (nella specie, si trattava della risoluzione consensuale del pregresso comodato inter partes sul bene promesso in vendita).

Circa il rimedio specifico per l'inadempimento del preliminare, Sez. 2, n. 19984 (Rv. 627571), est. Manna, ha statuito che, proposte, cumulativamente e contestualmente, la domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere una vendita e l'actio quanti minoris per vizi della res, l'offerta del prezzo ex art. 2932, secondo comma, cod. civ. non è necessaria, ove il pagamento, quale che risulti il prezzo ancora dovuto all'esito dell'accertamento dei vizi, non sia esigibile prima della conclusione del definitivo.

In ordine al risarcimento per equivalente, Sez. 2, n. 21438 (Rv. 627980), est. Bursese, ha ribadito che, qualora il promittente venditore, in presenza dell'inadempimento del promissario acquirente, abbia domandato la risoluzione del preliminare, e non l'esecuzione in forma specifica, il pregiudizio da lui subìto per le spese ed imposte correlate al bene rimasto nella sua disponibilità non è, ai sensi dell'art. 1223 cod. civ., conseguenza immediata e diretta dell'altrui inadempimento, questo atteggiandosi non a causa del danno, bensì a sua mera occasione.

Ancora sulle conseguenze dell'inadempimento del preliminare, Sez. 2, n. 23956 (Rv. 628016), est. Falaschi, ha ammesso il promissario acquirente ai rimedi ex art. 1482 cod. civ., giacché l'esistenza di un vincolo reale sul bene oggetto del futuro trasferimento, che non sia stata dichiarata dal promittente venditore e non fosse conosciuta dal promissario compratore, legittima quest'ultimo all'attivazione dei rimedi a tutela della propria posizione, quali l'istanza di risoluzione del contratto ovvero - laddove egli voglia, comunque, darvi esecuzione - la sospensione del pagamento del prezzo.

8. Condizione e finzione di avveramento.

Riguardo agli accidentalia negotii e, in particolare, alla distinzione fra condizione e termine, Sez. 2, n. 22904 (in corso di massimazione), est. Matera, ha statuito che, ove i contraenti si riferiscano ad un dato cronologico allo scopo di indicare il periodo di tempo entro il quale deve essere eseguita una prestazione, solo incidentalmente dichiarando la finalità pratica sottesa alla concessione del termine, assume preminente rilievo il dato temporale e la relativa clausola va intesa nel senso che le parti vollero determinare il tempo dell'adempimento e non condizionare l'efficacia del contratto all'avveramento di un evento futuro.

La Corte ha avuto modo di ribadire l'estraneità della condizione rispetto alla struttura dell'atto - che è il proprium dell'accidentalità -, riferendosi alla fattispecie del contratto aleatorio.

Invero, Sez. 2, n. 5050 (Rv. 625286), est. Migliucci, ha evidenziato che il contratto è aleatorio quando, già al momento della conclusione, l'alea sia, per legge o per volontà delle parti, elemento essenziale del sinallagma, sicché l'aleatorietà non può derivare dall'apposizione di una condizione sospensiva, che incide sull'efficacia, e non sulla struttura, del contratto, né dal versamento di una caparra, rientrando gli effetti di tale dazione nell'alea normale di un contratto sottoposto a condizione sospensiva.

Va segnalata, altresì, Sez. 2, n. 15025 (Rv. 627006), est. Proto, che ha fondato la distinzione tra condizione e presupposizione sul carattere dell'evento, oggettivamente incerto nella condizione, soggettivamente certo nella presupposizione: ai fini della presupposizione, infatti, occorre che l'evento sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti, così differenziandosi la presupposizione dalla condizione, rilevando la certezza soggettiva dell'evento presupposto e non richiedendosi, quindi, né la certezza oggettiva dell'evento medesimo, né l'imprevedibilità della sopravvenuta circostanza impeditiva.

Ancora sul carattere oggettivo dell'evento condizionale, questa volta sotto il profilo dell'estraneità agli estremi soggettivi dell'inadempimento, si rammenta Sez. 2, n. 22310 (Rv. 627921), est. Parziale, per cui la clausola di un preliminare di vendita immobiliare, che preveda la risoluzione ipso iure ove il bene promesso non venga condonato entro una certa data per fatto indipendente dalla volontà delle parti, deve interpretarsi come fonte di una condizione risolutiva propria, anziché come clausola risolutiva espressa, determinando l'effetto risolutivo quale conseguenza dell'avverarsi di un evento estraneo alla volontà dei contraenti, anziché quale sanzione per l'inadempimento del promittente venditore.

Di notevole interesse nella prospettiva dei c.d. accordi di sistemazione della crisi coniugale, Sez. 3, n. 19304 (Rv. 627597), est. Cirillo, per la quale è valido il mutuo tra coniugi in cui l'obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell'evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita, agli effetti dell'art. 1354, primo comma, cod. civ.

Vari arresti hanno confermato importanti principî riguardo alla finzione di avveramento, regolata dall'art. 1359 cod. civ. («la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa»).

In primo luogo, Sez. L, n. 8172 (Rv. 626405), est. Manna A., ha ribadito che l'art. 1359 cod. civ. si applica alla condizione casuale (il cui avveramento dipende dal caso o dalla volontà di terzi) e alla condizione mista (il cui avveramento dipende in parte dal caso o dalla volontà di terzi, in parte dalla volontà di uno dei contraenti), non anche alla condizione meramente potestativa.

Inoltre, Sez. 1, n. 16620 (Rv. 627206), est. Di Virgilio, ha riaffermato che l'art. 1359 cod. civ. non è applicabile nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una determinata prestazione abbia anch'essa interesse all'avveramento, la condizione potendo ritenersi apposta nell'interesse di una sola delle parti quando vi sia un'espressa clausola in tal senso o quando un insieme di elementi - nella situazione riscontrabile al momento della conclusione del contratto - induca a ritenere trattarsi di condizione al cui avveramento l'altra parte non abbia alcun interesse, giacché, in mancanza di ciò, la condizione deve ritenersi apposta nell'interesse di entrambi i contraenti.

Infine, delimitando il principio culpa vel dolus pro impleta condicione, Sez. L, n. 8843 (Rv. 625915), est. Garri, ha ribadito che, per l'operatività della finzione di avveramento, è necessaria la sussistenza di una condotta dolosa o colposa della parte avente interesse contrario all'avveramento, non essendo sufficiente un mero comportamento inattivo, salvo che questo non integri violazione di un obbligo di agire imposto dal contratto o dalla legge.

9. Interpretazione e clausole di stile.

Riguardo all'interpretazione del contratto, si perpetua la valorizzazione di ogni elemento rivelatore della comune intenzione delle parti, in disparte la valutazione circa la sua efficacia tipica a fini ulteriori.

In particolare, Sez. 1, n. 20131 (Rv. 627598), est. Mercolino, ha ribadito che, per individuare l'oggetto di un contratto di trasferimento immobiliare, costituisce fondamentale strumento interpretativo l'utilizzazione dei dati risultanti dal tipo di frazionamento cui le parti abbiano fatto specifico riferimento, senza che assuma rilievo la circostanza che, alla data della stipulazione, il medesimo frazionamento non risultasse ancora approvato, venendo esso in considerazione non già nella sua efficacia tipica di atto della procedura di variazione catastale, che si perfeziona soltanto a seguito dell'approvazione, ma quale documento integrativo del negozio, formato sull'accordo dei contraenti.

A lume del principio di conservazione, emergente dall'art. 1367 cod. civ., è stata confermata la presunzione di significatività della clausola contrattuale, da cui discende la residualità della c.d. clausola di stile, per tale intendendosi la clausola inefficace a ragione dell'insanabile vaghezza o della reale estraneità all'attenzione delle parti.

Dunque, Sez. 1, n. 13839 (Rv. 626766), est. Salvago, ha riaffermato che il giudice di merito, anche a fronte di una clausola estremamente generica e indeterminata, deve presumere che essa sia stata oggetto della volontà negoziale e deve interpretarla in relazione al contesto (art. 1363 cod. civ.), per consentire alla stessa di avere qualche effetto (art. 1367 cod. civ.), e, solo se la vaghezza e la genericità siano tali da rendere impossibile attribuire ad essa un qualsivoglia rilievo nell'ambito dell'indagine volta ad accertare la sussistenza ed il contenuto dei requisiti del contratto (art. 1325 cod. civ.), ovvero siano tali da far ritenere che la pattuizione in esame non sia mai concretamente entrata nella sfera dell'effettiva consapevolezza e volontà dei contraenti, può negare ad essa efficacia, qualificandola come "clausola di stile".

Sul tema specifico dei contratti iure privatorum della pubblica amministrazione, Sez. 3, n. 17946 (Rv. 627864), est. Chiarini, ha ribadito che la volontà negoziale deve essere tratta unicamente dalle pattuizioni contrattuali, interpretate secondo i canoni di ermeneutica stabiliti dagli artt. 1362 e segg. cod. civ., mentre le deliberazioni dei competenti organi dell'ente pubblico hanno rilevanza interna, ai soli fini del procedimento formativo della volontà di uno dei contraenti.

10. Recesso unilaterale.

Vanno rammentate alcune decisioni in tema di natura, modalità di esercizio ed effetti del recesso unilaterale.

Per quanto concerne la natura dell'istituto, Sez. 2, n. 7762 (Rv. 625827), est. Scalisi, ha confermato la distinzione tra il recesso del non inadempiente correlato alla dazione della caparra confirmatoria, ai sensi dell'art. 1385 cod. civ., ed il recesso pattizio, ai sensi dell'art. 1373 cod. civ., nel senso che il recesso previsto dall'art. 1385, secondo comma, cod. civ. è di natura legale, e non convenzionale, trovando la sua giustificazione nell'inadempienza dell'altra parte, mentre l'art. 1373, primo comma, cod. civ., secondo il quale il recesso non può essere esercitato quando il contratto «abbia avuto un principio di esecuzione», riguarda esclusivamente il recesso convenzionale.

Per quanto concerne le modalità di esercizio del recesso, Sez. L, n. 10568 (Rv. 626199), est. Napoletano, ha ribadito che, nel contratto di agenzia, è da escludere un abuso del diritto di recesso allorché il recesso immotivato dal contratto sia stato comunicato secondo buona fede e correttezza, atteso che l'abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell'altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali i poteri e le facoltà sono attribuiti.

Per quanto concerne, infine, gli effetti del recesso, Sez. 1, n. 227 (Rv. 624762), est. Berruti, ha statuito che l'obbligo del preavviso ha la funzione di tutelare il contraente receduto, al quale viene concesso, attraverso la dilazione degli effetti della volontà espressa dal recedente, il tempo sufficiente a regolare i suoi interessi, fermo restando che la violazione dell'obbligo di preavviso non comporta un danno in re ipsa, da risarcire, cioè, a prescindere da qualunque effettivo pregiudizio.

11. Prelazione convenzionale.

Riguardo al patto di prelazione, si segnala una decisione la quale, pur escludendo che la prelazione senza limiti di tempo resti attinta da invalidità ex art. 1379 cod. civ., consente alla parte di ottenere una restrizione temporale ope iudicis.

Invero, per Sez. 2, n. 15709 (Rv. 627024), est. Bursese, il patto di prelazione per il caso di vendita, stipulato senza limiti di tempo, non ricade nel divieto di rapporti obbligatori che tolgano senza limitazioni cronologiche al proprietario la facoltà di disporre dei suoi beni, in quanto tale patto non comporta l'annullamento dell'indicata facoltà, restando sempre il proprietario perfettamente libero di disporre o meno dei suoi beni e alle condizioni che preferisce, bensì introduce soltanto un limite relativo alla scelta della persona del compratore, la quale, nella normalità dei casi, a parità di condizioni per tutto il resto, è indifferente per il venditore, fermo che, ai sensi dell'art. 1183 cod. civ., è ammissibile un intervento del giudice, il quale, su istanza di una delle parti, stabilisca un termine finale congruo per l'esercizio del diritto di prelazione.

Quanto alla denuntiatio, Sez. 2, n. 15709 (Rv. 627025), est. Bursese, ha ribadito che essa, nella prelazione immobiliare, deve avere forma scritta, a pena di nullità, e, quindi, non può essere provata con testimoni.

12. Penale e caparra.

In ordine alla riduzione equitativa della penale, Sez. L, n. 8768 (Rv. 625826), est. Mammone, ha individuato una fattispecie aggiuntiva rispetto alle ipotesi contemplate dall'art. 1384 cod. civ. (esecuzione parziale dell'obbligazione principale e manifesta eccessività dell'ammontare della penale): giustifica l'esercizio del potere equitativo di riduzione della penale, ai sensi dell'art. 1384 cod. civ., la sussistenza di elementi di incertezza nei rapporti commerciali delle parti (nella specie, rapporti di agenzia reciproca), qualora gli aspetti di ambiguità siano tali da incidere sull'equilibrio della regolazione negoziale.

Sulle condizioni di esercizio del potere riduttivo, Sez. 3, n. 22747 (in corso di massimazione), est. Uccella, è tornata ad affermare che è pur sempre necessario l'assolvimento degli oneri di allegazione e prova incombenti sulla parte interessata ad evidenziare le circostanze rilevanti per la valutazione di eccessività della penale, questa dovendo risultare ex actis, senza possibilità di ricerca officiosa da parte del giudice.

In tema di arrha confirmatoria, Sez. 2, n. 10056 (Rv. 626132), est. Bursese, ha ammesso una versione consensuale del patto di caparra, ma ha escluso che essa possa determinare gli effetti della versione reale (ritenzione ed esazione del doppio), nel senso che le parti, nell'ambito della loro autonomia contrattuale, possono differire la dazione della caparra ad un momento successivo alla conclusione del negozio principale, ma, in tal caso, non si producono gli effetti che l'art. 1385, secondo comma, cod. civ. ricollega alla consegna, in adesione alla natura reale del patto rafforzativo del vincolo.

Per Sez. 2, n. 24563 (in corso di massimazione), est. Bianchini, la funzione di rafforzamento del vincolo, propria della caparra confirmatoria, può essere adempiuta anche dalla promessa di pagamento - anteriore alla scadenza dell'obbligazione - contenuta nel pagherò cambiario.

13. Rappresentanza e falsus procurator.

È stata confermata la presunzione relativa di mandato, fondata sul conferimento e l'esercizio della procura.

Invero, Sez. 3, n. 18660 (Rv. 627540), est. Carleo, ha ribadito che il conferimento di una procura ed il concreto esercizio di essa da parte del soggetto che ne è investito costituiscono, in mancanza di deduzioni in ordine alla riconducibilità della stessa a rapporti gestori attinenti alla rappresentanza di enti giuridici o imprese o ad altre situazioni o rapporti pure in astratto compatibili col suo rilascio, elementi sufficienti per affermare che la procura è stata conferita in virtù di un rapporto di mandato, con il conseguente obbligo del rappresentante, ai sensi dell'art. 1713 cod. civ., di rendere il conto dell'attività compiuta e di rimettere al rappresentato quanto ricevuto nell'espletamento dell'incarico.

Per il contratto del rappresentante con se stesso, Sez. 3, n. 19229 (Rv. 627752), est. Carluccio, muovendo dalla premessa che l'art. 1395 cod. civ. sancisca una presunzione iuris tantum di conflitto d'interessi, ha gravato il rappresentante dell'onere di vincerla, provando la sussistenza delle condizioni - autorizzazione del rappresentato o predeterminazione negoziale - assunte dal legislatore come idonee ad assicurare la tutela del rappresentato, per via del ruolo attivo che egli abbia svolto nella fase prodromica del contratto.

Circa la rappresentanza senza potere, Sez. 2, n. 24133 (Rv. 628199), est. Giusti, ha ribadito che il contratto stipulato dal falsus procurator non è nullo, né annullabile, ma solo inefficace nei confronti dello pseudo- rappresentato e fino alla di lui ratifica, tale provvisoria inefficacia non essendo, quindi, rilevabile d'ufficio ed occorrendo, invece, l'eccezione dello pseudo- rappresentato.

Peraltro, si è circoscritta l'area della ratifica ex art. 1399 cod. civ., giacché, ad avviso di Sez. 3, n. 19308 (Rv. 627583), est. Uccella, la domanda di risoluzione di un contratto preliminare proposta dall'erede del promittente venditore non implica ratifica del contratto stipulato dal falsus procurator, quando si accerti che la domanda stessa è stata proposta al solo fine di sciogliersi dagli effetti del contratto per fatto e colpa del promissario acquirente.

14. Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi.

Riguardo al contratto per persona da nominare, si evidenzia l'affermazione di necessaria conformità tra l'assetto negoziale originario e quello cui viene riferita l'electio amici.

Invero, per Sez. 2, n. 7217 (Rv. 625531), est. Migliucci, atteso che, ai sensi degli artt. 1401 e segg. cod. civ., il terzo nominato subentra nel contratto e, prendendo il posto della parte originaria, ne acquista i diritti e assume gli obblighi con effetto retroattivo, dovendo, quindi, considerarsi, fin dall'origine, parte di quel contratto, la dichiarazione di nomina non può recare alcuna modifica o variazione del suo contenuto, essendo, altrimenti, improduttiva di effetti.

Quanto al contratto a favore di terzi, va segnalata la fattispecie del patto parasociale in forza del quale taluni soci si impegnano ad eseguire prestazioni a beneficio della società.

Ad avviso di Sez. 1, n. 17200 (Rv. 627224), est. Bernabai, tale patto integra il contratto a favore di terzo, disciplinato dall'art. 1411 cod. civ., il cui adempimento può essere chiesto sia dalla società, terza beneficiaria, che con l'eventuale atto di citazione palesa la volontà di profittare del contratto, sia dai soci stipulanti, pur nell'ipotesi in cui abbiano ceduto a terzi le loro partecipazioni, in quanto la validità del patto parasociale non è legata alla permanenza della qualità di socio degli stipulanti.

Ancora, Sez. 1, n. 17200 (Rv. 627226), est. Bernabai, ha chiarito che, nel contratto a favore di terzi, pur in presenza di rinuncia alla prestazione operata dal terzo beneficiario, l'art. 1411, terzo comma, cod. civ. riconosce, sempre che non risulti diversamente dalla volontà delle parti, la persistenza dell'obbligazione in favore dello stipulante, il quale, ove abbia un interesse diretto all'adempimento in favore del terzo (nella specie, in quanto titolare di una quota di partecipazione nella società beneficiaria), e non sussista un formale divieto di quest'ultimo (nel qual caso opererebbe il principio nemo invitus locupletari potest), può legittimamente pretendere l'adempimento della prestazione in favore del terzo.

15. Simulazione ed interposizione di persona.

È stata riaffermata l'autonomia della controdichiarazione rispetto all'accordo simulatorio, avendo Sez. 2, n. 2203 (Rv. 625195), est. Falaschi, ribadito che la controdichiarazione è atto di riconoscimento o accertamento scritto, avente carattere negoziale, il quale non si inserisce come elemento essenziale nel procedimento simulatorio, potendo, quindi, non solo non essere coevo all'atto simulato, ma anche provenire dalla sola parte contro il cui interesse è redatto e che voglia manifestare il riconoscimento della simulazione.

Alcune decisioni hanno affrontato il classico tema della qualificazione di terzietà dell'attore in simulazione, agli effetti del regime di prova.

Così, Sez. 2, n. 1737 (Rv. 624879), est. Proto, ha statuito che il coniuge in regime di comunione legale, estraneo all'accordo simulatorio, è terzo, legittimato a far valere la simulazione con libertà di prova, ai sensi degli artt. 1415, secondo comma, e 1417 cod. civ., rispetto all'acquisto di un bene non personale, effettuato dall'altro coniuge durante il matrimonio con apparente intestazione a persona diversa, giacché tale simulazione impoverisce il patrimonio della comunione legale, ad esso sottraendo il diritto previsto dall'art. 177, primo comma, lett. a), cod. civ.

Dal canto suo, Sez. 3, n. 8215 (Rv. 625756), est. Carleo, ha ribadito che l'erede legittimario il quale chieda la dichiarazione di simulazione di una vendita fatta dal de cuius assume la qualità di terzo rispetto ai contraenti - con accesso alla prova testimoniale e presuntiva, senza limiti o restrizioni -, ove agisca a tutela del diritto all'intangibilità della riserva e proponga in concreto, sulla premessa che l'atto simulato leda la sua quota di legittima, una domanda di riduzione, nullità o inefficacia dell'atto medesimo.

Circa l'interposizione fittizia di persona, quale fattispecie di simulazione relativa, Sez. Un., n. 11523 (Rv. 626187), est. Petitti, a composizione di contrasto, ha stabilito che, nel giudizio avente ad oggetto la simulazione relativa di una compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente, l'alienante non riveste la qualità di litisconsorte necessario, se nei suoi confronti il contratto sia stato integralmente eseguito, mediante adempimento degli obblighi tipici di trasferimento del bene e di pagamento del prezzo, e non venga dedotto ed allegato l'interesse dello stesso ad essere parte del processo ovvero la consapevolezza e volontà del venditore di aderire all'accordo simulatorio, essendo irrilevante, di regola, per chi vende, la modifica soggettiva della parte compratrice e, perciò, essendo integralmente efficace l'accertamento giudiziale compiuto nei soli confronti dell'interposto e dell'interponente.

Ad avviso di Sez. 1, n. 8682 (Rv. 626053), est. Cristiano, la differenza dell'interposizione fittizia di persona rispetto all'interposizione reale non sta nella partecipazione del terzo contraente all'accordo che porta alla sostituzione dell'interposto all'interponente (giacché anche nell'interposizione reale il terzo può partecipare all'accordo), bensì nel concreto atteggiarsi della volontà degli interessati, sicché ricorre un'ipotesi di interposizione reale nel caso in cui non vi sia accordo simulatorio o perché interponente ed interposto vogliono davvero far ricadere nella sfera giuridica dell'interposto gli effetti del contratto stipulato col terzo o perché è il terzo a rifiutare la proposta dell'interponente e a ottenere di contrattare in via diretta con l'interposto.

Per quanto attiene ai rapporti tra simulazione e prescrizione, sotto il profilo dell'azione di nullità, Sez. 6-2, ord., n. 19678 (Rv. 627567), rel. Giusti, ha evidenziato che, mentre non assume rilievo la natura - assoluta o relativa - dell'azione di simulazione, che, essendo comunque diretta ad accertare la nullità del negozio apparente, è sempre imprescrittibile ai sensi dell'art. 1422 cod. civ., il decorso del tempo può eventualmente colpire i diritti che presuppongono l'esistenza del negozio dissimulato, facendo così venire meno l'interesse all'accertamento della simulazione del negozio apparente.

16. Nullità ed inserzione automatica.

Sui profili generali della nullità contrattuale, va segnalata una nitida applicazione del principio quod nullum est nullum producit effectum.

Invero, Sez. 2, n. 21398 (Rv. 627967), est. Giusti, ha rimarcato che, quando un contratto è nullo per illiceità della causa, e, pertanto, improduttivo di qualsiasi effetto, non può configurarsi un inadempimento imputabile in relazione alla mancata esecuzione degli obblighi da esso - in astratto - nascenti.

La capacità espansiva della nullità, su base teleologica, ha indotto Sez. 2, n. 23591 (Rv. 628025), est. Parziale, ad affermare che il preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è nullo per la comminatoria di cui all'art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, la quale, sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia meramente obbligatoria, giacché questo ha pur sempre ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per contrarietà a norma imperativa.

Trattasi di affermazione difforme rispetto all'orientamento meno rigoroso, coltivato da Sez. 2, n. 2204 (Rv. 625151), est. Falaschi, per cui la nullità prevista dall'art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, deve ritenersi limitata ai trasferimenti aventi effetto reale, e non si estende ai contratti ad efficacia meramente obbligatoria, come il preliminare di vendita.

Sulla nullità parziale e l'inserzione automatica di clausole, va rammentata Sez. 1, n. 602 (Rv. 626533), est. Dogliotti, per la quale la disciplina di cui alla legge 7 marzo 1996, n. 108, si applica ai contratti contenenti tassi usurari, anche se stipulati prima della sua entrata in vigore, ove i rapporti non siano esauriti, sicché, in applicazione dell'art. 1 della legge medesima e degli artt. 1339, 1419, secondo comma, cod. civ., opera la sostituzione automatica dei tassi convenzionali con i tassi-soglia fissati in relazione ai diversi periodi.

17. Annullabilità e convalida.

Riguardo all'annullabilità del contratto, è stata ribadita l'irrilevanza dell'errore sulla convenienza del negozio, ricondotto nel campo, giuridicamente insignificante, dei motivi individuali e dell'alea normale.

Ha confermato, invero, Sez. 2, n. 20148 (Rv. 627680), est. Nuzzo, che l'errore sulla valutazione economica della cosa, oggetto del contratto, non è un errore idoneo a giustificare la pronuncia di annullamento, in quanto non incide sull'identità o qualità della cosa, ma attiene ai motivi in base ai quali la parte si determina a concludere l'accordo e al rischio che il contraente assume, nell'ambito dell'autonomia contrattuale, per effetto delle proprie personali valutazioni sull'utilità dell'affare.

Per altro verso, si è limitato il margine di rilevanza dell'errore ostativo, in omaggio al principio di conservazione degli effetti negoziali.

Infatti, ad avviso di Sez. 3, n. 6116 (Rv. 625483), est. De Stefano, il principio di conservazione esige la verifica giudiziale - applicativa dei criteri generali di ermeneutica contrattuale - sull'estensione della reale volontà delle parti, cui deve riconoscersi prevalenza, senza che sia possibile addivenire all'annullamento del contratto per errore ostativo, anche in presenza di errori di formulazione, redazione o trascrizione nel documento contrattuale, ove si identifichi un accordo effettivo su tutti gli elementi del contratto, in primo luogo, sull'oggetto, mentre, ove il contenuto apparente di singole clausole risulti diverso da quello realmente voluto, deve ritenersi mancante il requisito dell'in idem placitum consensus, indispensabile per la configurabilità dell'accordo.

Il principio di conservazione è stato evocato anche in ordine alla convalida del negozio annullabile, ove esso spieghi efficacia complessa.

Invero, Sez. 1, n. 15393 (Rv. 626962), est. Mercolino, ha statuito che, ove dal contratto viziato derivino effetti complessi, in parte favorevoli e in parte svantaggiosi per ciascuna delle parti, l'iniziativa assunta da una di esse per la realizzazione del programma negoziale negli aspetti a sé favorevoli comporta la convalida dell'intero negozio, se, in relazione alla rilevanza che detti profili assumono nell'assetto complessivo di interessi concordato dalle parti, la condotta della parte interessata all'annullamento risulti idonea ad evidenziare la sua volontà di considerare il negozio vincolante anche negli aspetti residui, trovando applicazione il principio per cui il vizio che colpisce una porzione del contratto travolge l'intero negozio solo quando risulti che, senza di essa, le parti non lo avrebbero concluso.

18. Risoluzione per inadempimento.

Quanto alla risoluzione per inadempimento del contratto con prestazioni corrispettive, è stata ribadita la necessità di una valutazione globale ed unitaria delle eventuali inadempienze reciproche.

Così, per Sez. 1, n. 336 (Rv. 625330), est. Salvago, ai fini della pronuncia di risoluzione, il giudice non può isolare le singole condotte di una delle parti, per stabilire se costituiscano motivo di inadempienza, a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma deve procedere alla valutazione sinergica del comportamento di questi ultimi, attraverso un'indagine globale ed unitaria dell'intero loro agire, anche con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell'inadempimento, perché l'unitarietà del rapporto obbligatorio, cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute, non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta di ciascun contraente, ma esige un apprezzamento complessivo, sicché, nel delibare la fondatezza della domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento, il giudice deve tener conto, anche in difetto di una formale eccezione ai sensi dell'art. 1460 cod. civ., delle difese con cui la parte contro la quale la domanda viene proposta opponga, a sua volta, l'inadempienza dell'altra.

Nella medesima logica, Sez. 2, n. 14648 (Rv. 626586), est. Manna F., ha stabilito che non è consentito al giudice, in caso di inadempienze reciproche, pronunciare la risoluzione, ai sensi dell'art. 1453 cod. civ., o ritenere la legittimità del rifiuto di adempiere, a norma dell'art. 1460 cod. civ., in favore di entrambe le parti, in quanto la valutazione della colpa dell'inadempimento ha carattere unitario, dovendo lo stesso addebitarsi esclusivamente a quel contraente che, col proprio comportamento prevalente, abbia alterato il nesso di interdipendenza che lega le obbligazioni assunte mediante il contratto e, perciò, abbia dato causa al giustificato inadempimento dell'altra parte.

Alcune pronunce si sono intrattenute sul requisito dell'importanza dell'inadempimento, disciplinato dall'art. 1455 cod. civ. («il contratto non si può risolvere se l'inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra»).

Innanzitutto, Sez. 2, n. 14649 (Rv. 626587), est. Manna F., ha precisato che la gravità dell'inadempimento, ai sensi dell'art. 1455 cod. civ., è una condizione dell'azione di risoluzione e, in quanto tale, deve esistere al momento della decisione, non necessariamente al momento della proposizione della domanda.

Tra i parametri di importanza dell'inadempimento, esattamente, tra i parametri negativi, Sez. 6-3, ord., n. 20182 (Rv. 627684), rel. Lanzillo, ha annoverato il fatto colposo del creditore, statuendo che, nel valutare la gravità dell'inadempimento ex art. 1455 cod. civ., il giudice deve tenere conto, ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., delle circostanze che avrebbero ridotto le conseguenze dell'inadempimento medesimo e che la parte non inadempiente conosceva o avrebbe potuto conoscere con l'ordinaria diligenza.

Altro parametro negativo riguarda l'acquiescenza creditoria, atteso che - come affermato da Sez. 3, n. 23148 (in corso di massimazione), est. Carleo - il giudice deve considerare, anche d'ufficio, l'eventuale tolleranza del creditore, essa misurando la persistenza dell'interesse all'adempimento e incidendo sulla posizione soggettiva del debitore, nel senso di escluderne o attenuarne la colpa.

Quanto alla domanda di risoluzione per inadempimento, vanno segnalati due arresti, uno concernente il divieto di ius variandi, ai sensi dell'art. 1453, secondo comma, secondo periodo, cod. civ. («non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione»), l'altro concernente la domanda implicita di risoluzione.

Circa il primo aspetto, Sez. 3, n. 20899 (in corso di massimazione), est. Vivaldi, ha precisato che l'esercizio dello ius variandi è consentito qualora la domanda di adempimento sia proposta nello stesso giudizio, ma in subordine alla domanda di risoluzione, valendo, in tal caso, sia ragioni legate all'attualità dell'interesse alla pronuncia sull'adempimento, una volta respinta la domanda di risoluzione, sia motivi di ordine costituzionale attinenti alla ragionevole durata del giudizio.

Circa il secondo aspetto, Sez. 2, n. 21113 (Rv. 627838), est. Mazzacane, ha ribadito la configurabilità della domanda implicita di risoluzione, atteso che la volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ben potendo essere implicitamente contenuta in un'altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga una domanda di risoluzione.

Si rammentano, infine, due decisioni sugli effetti della risoluzione e sulla risoluzione parziale, laddove hanno trovato conferma i pregressi indirizzi della giurisprudenza di legittimità.

Da un lato, Sez. 3, n. 2075 (Rv. 624949), est. Vincenti, ha ribadito che la risoluzione del contratto, pur comportando, per l'effetto retroattivo sancito dall'art. 1458 cod. civ., l'obbligo del contraente di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice ad emettere il provvedimento restitutorio in assenza di domanda dell'altro contraente, atteso che rientra nell'autonomia della parte disporre degli effetti della risoluzione, chiedendo, o meno, la restituzione della prestazione rimasta senza causa.

D'altro canto, Sez. 2, n. 16556 (Rv. 626965), est. Scalisi, ha ribadito che la risoluzione parziale, esplicitamente prevista dall'art. 1458 cod. civ. per i «contratti ad esecuzione continuata o periodica», è configurabile anche per il contratto ad esecuzione istantanea, quando il relativo oggetto non sia rappresentato da un'unica cosa inscindibile, ma da più cose aventi propria individualità, quando, cioè, ciascuna di queste, separata dal tutto, mantenga un'autonomia economico-funzionale, che la renda definibile come bene a sé.

19. Clausola risolutiva e termine essenziale.

In ordine alla clausola risolutiva espressa, regolata dall'art. 1456 cod. civ., si è fatta applicazione del principio secondo il quale l'azione di risoluzione, esercitata ai sensi di questa disposizione, tende ad una pronuncia di mero accertamento della risoluzione di diritto, avvenuta a seguito dell'inadempimento di una parte e della dichiarazione dell'altra di volersi avvalere della clausola risolutiva, in ciò tale azione differendo dall'ordinaria azione di risoluzione per inadempimento, a norma dell'art. 1453 cod. civ., che ha, invece, natura costitutiva.

Da tale principio, Sez. 1, n. 9488 (Rv. 626131), est. Bernabai, ha desunto che, in caso di fallimento del locatario, l'effetto risolutivo del contratto (nella specie, locazione finanziaria) deve ritenersi già verificato ove la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa sia stata comunicata anteriormente alla data della sentenza di fallimento.

Anche in tema di clausola risolutiva espressa, come per l'ordinaria risoluzione da inadempimento, si sono affrontate questioni correlate alla tolleranza creditoria e allo ius variandi.

Invero, Sez. 2, n. 24564 (in corso di massimazione), est. Giusti, ha ribadito che la tolleranza del creditore non elimina la clausola risolutiva espressa, né integra tacita rinuncia ad avvalersene, ove egli, contestualmente o successivamente all'atto di tolleranza, manifesti l'intenzione di avvalersi della clausola stessa in ipotesi di ulteriore protrazione dell'inadempimento.

Ancora, Sez. 2, n. 24564 (in corso di massimazione), est. Giusti, ha osservato che il creditore, dopo aver chiesto in giudizio l'adempimento, può avvalersi della clausola risolutiva espressa, non essendovi alcuna ragione per negare lo ius variandi ammesso, in via generale, dall'art. 1453, secondo comma, primo periodo, cod. civ. («la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento»).

Quanto all'istituto del termine essenziale, regolato dall'art. 1457 cod. civ., Sez. 2, n. 16880 (Rv. 627084), est. Bertuzzi, ha confermato che, essendo il termine essenziale di adempimento fissato nell'interesse del contraente, non è precluso a questi rinunciare ad avvalersene, pure tacitamente e anche dopo la scadenza del termine, così rinunciando, altresì, alla dichiarazione di risoluzione contrattuale.

20. Mezzi di autotutela.

Numerose decisioni hanno riguardato l'eccezione d'inadempimento ex art. 1460 cod. civ. e la sospensione della prestazione ex art. 1461 cod. civ., mezzi di autotutela del contraente ispirati al principio inadimplenti non est adimplendum.

In ordine all'exceptio inadimpleti contractus, è stato diffusamente indagato il limite della buona fede, posto dal secondo comma dell'art. 1460 cod. civ.

A questo limite può ricondursi l'enunciazione di Sez. 3, n. 904 (Rv. 625111), est. Carleo: il notaio che non abbia percepito il compenso per l'attività svolta o il rimborso delle spese sostenute può legittimamente rifiutare il rilascio delle copie autentiche dell'atto da lui rogato, ma non può rifiutarsi di portare a compimento l'incarico ricevuto o di compiere le attività necessarie per assicurarne gli effetti, sussistendo, quindi, la responsabilità professionale del notaio che, avendo rogato una cessione di credito e non avendo ricevuto l'onorario, ometta di notificare la cessione al debitore ceduto, rendendo, in tal modo, irripetibile il pagamento da costui effettuato, in buona fede, al cedente.

Per Sez. 3, n. 3654 (Rv. 625298), est. Amendola, il disposto dell'art. 1460, secondo comma, cod. civ. si applica anche alla sospensione dell'assicurazione, di cui all'art. 1901 cod. civ., la quale costituisce una particolare applicazione dell'istituto generale dell'eccezione d'inadempimento.

Inoltre, Sez. L, n. 10553 (Rv. 626537), est. Garri, ha confermato che il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore è conforme a buona fede, ai sensi dell'art. 1460, secondo comma, cod. civ., perché giustificato dall'omessa predisposizione delle misure idonee a tutelare la sua integrità fisica, solo quando il lavoratore stesso abbia preliminarmente informato il datore circa le misure necessarie o gli abbia preliminarmente denunciato l'inidoneità di quelle adottate in concreto.

Con impostazione analoga, Sez. 2, n. 25427 (in corso di massimazione), est. Carrato, ha ribadito, in tema di preliminare di vendita immobiliare, che l'eccezione d'inadempimento basata sulla mancanza del certificato di abitabilità o sulla presenza di difformità edilizie sanabili non può essere sollevata dal promissario acquirente il quale fosse a conoscenza di tale situazione, essendo consentito al venditore, peraltro, approntare e consegnare i documenti relativi all'uso dell'immobile sino alla stipula del definitivo.

Ove formulata nel rispetto del limite ex fide bona, l'eccezione d'inadempimento è capace di pregiudicare l'esercizio dell'altrui diritto potestativo di risoluzione.

Così, per Sez. 2, n. 21115 (Rv. 627837), est. Bianchini, anche quando la parte interessata abbia manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa, il giudice deve valutare l'eccezione d'inadempimento proposta dall'altra parte, attesa la pregiudizialità logica della stessa rispetto all'avverarsi degli effetti risolutivi che normalmente discendono in modo automatico, ai sensi dell'art. 1456 cod. civ., dall'accertamento di un inadempimento colpevole.

Riguardo all'eccezione dilatoria, per Sez. 2, n. 2217 (Rv. 625194), est. Carrato, il disposto dell'art. 1461 cod. civ. - che, basandosi sul principio inadimplenti non est adimplendum, legittima il contraente a sospendere l'esecuzione della prestazione se, per le peggiorate condizioni economiche dell'altro, ha il timore di non ottenere la controprestazione - è applicabile anche al preliminare e consente di rifiutare la stipula del definitivo, pur se la controprestazione non sia ancora esigibile, mentre la persistenza del rischio di non ottenere la controprestazione, dopo la scadenza del termine di adempimento, legittima a chiedere la risoluzione del preliminare.

  • contratto assicurativo
  • mandato
  • contratto di appalto previa trattativa privata
  • appalto pubblico
  • contratto di trasporto
  • contratto di locazione
  • vendita

CAPITOLO XI

I SINGOLI CONTRATTI

(di Francesco Federici, Giacomo Maria Nonno )

Sommario

1 Premessa. - 2 L'appalto privato. - 2.1 - 2.2 - 2.3 - 2.4 - 3 L'appalto di opere pubbliche. - 3.1 - 3.2 - 3.3 - 3.4 - 4 L'assicurazione. - 4.1 Assicurazione contro i danni. - 4.2 Assicurazione della responsabilità civile. - 4.3 Assicurazione obbligatoria della r.c.a. - 4.3.a - 4.3.b - 4.3.c - 4.3.d - 4.3.e - 4.4 Assicurazione sulla vita. - 5 Il comodato. - 6 Prelazione e riscatto nei contratti agrari. - 7 I contratti bancari (rinvio). - 8 I contratti finanziari (rinvio). - 9 Fideiussione e garanzie atipiche. - 10 Il giuoco e la scommessa. - 11 La locazione. - 11.1 Locazione ad uso abitativo. - 11.2 Locazione ad uso non abitativo. - 11.3 Disciplina della locazione in generale. - 12 Il mandato. - 13 La mediazione. - 14 Il mutuo. - 15 La rendita. - 16 La transazione. - 17 Il trasporto. - 17.1 - 17.2 - 18 La vendita. - 18.1 - 18.2 - 18.3 - 18.4

1. Premessa.

Come nel 2012, anche nel 2013 la produzione giurisprudenziale in materia di contratti tipici è stata particolarmente copiosa ed anche quest'anno l'appalto (sia privato che di opere pubbliche), l'assicurazione, la locazione e la vendita sono stati i contratti sui quali si è registrato il maggior numero di pronunce.

Nel loro complesso sono principalmente ribaditi principî già noti, ma si registra l'emersione di qualche principio di carattere innovativo; in alcuni casi si è verificato, altresì, l'insorgere di qualche contrasto.

Di tale giurisprudenza si darà conto nei §§ che seguono, esaminando i più importanti contratti tipici in ordine alfabetico.

Va infine segnalato che per un ordine sistematico si è preferito trattare dei contratti bancari e di quelli finanziari nella parte dedicata al diritto del mercato.

2. L'appalto privato.

Anche quest'anno è utile distinguere il contratto d'appalto privato da quello pubblico. La giurisprudenza di legittimità è più volte intervenuta sull'oggetto e sulla estensione della garanzia per vizi dell'appaltatore, sulla risoluzione del contratto ed i suoi effetti, sugli obblighi del committente e dell'appaltatore e sulle conseguenze dell'inadempimento. Non si riscontrano novità o mutamenti di indirizzo negli argomenti trattati, e tuttavia le pronunce sono rilevanti poiché puntualizzano alcune questioni (ad esempio in materia di operatività della garanzia ex art. 1669 cod. civ.) o comunque confermano indirizzi enunciati in precedenti risalenti agli anni '90 (soprattutto in materia di risoluzione del contratto), così contribuendo a chiarire l'ambito applicativo o a stabilizzare i risultati ermeneutici in materia.

2.1.

In ordine all'oggetto della garanzia per difformità e vizi nell'appalto vanno rammentate la Sez. 2, n. 20644 (Rv. 627615), est. Matera L., e la Sez. 2, n. 84 (Rv. 624395), est. Giusti, che hanno chiarito come l'ambito applicativo dell'art. 1669 cod. civ. non è limitato ai soli gravi difetti della costruzione afferenti il bene principale, come il corpo di fabbrica nei suoi elementi strutturali o i singoli appartamenti, ma ogni deficienza e alterazione, anche di una parte condominiale, che intacchi in modo significativo sia la funzionalità che la normale utilizzazione dell'opera, senza che abbia rilevanza l'esiguità della spesa per l'eliminazione del vizio. Così la prima delle pronunce menzionate ha compreso nell'operatività della garanzia i viali di accesso pedonali al condominio, e la seconda l'infiltrazione d'acqua e umidità nelle murature del vano scala, causata dalla non corretta tecnica di montaggio dei pannelli di copertura.

Sulla ripartizione dell'onere della prova circa l'esistenza dei vizi si segnala Sez. 2, n. 19146 (Rv. 627397), est. Giusti, che individua il discrimine nella accettazione espressa o tacita dell'opera. Secondo la pronuncia prima della accettazione il committente deve meramente allegare l'esistenza dei vizi, mentre l'appaltatore sarà gravato della prova sulla conformità dell'opera al contratto e alle regole dell'arte; se invece l'opera sia stata già accettata, il committente, che di essa ne ha ormai la disponibilità fisica e giuridica, dovrà dimostrare l'esistenza dei vizi e le conseguenze dannose lamentate.

La responsabilità extracontrattuale prevista dall'art. 1669 cod. civ. è presunta iuris tantum sicché per Sez. 3, n. 1026 (Rv. 625066), est. De Stefano, se l'opera manifesta gravi difetti strutturali l'appaltatore può liberarsi della addebitabile responsabilità provandone il rapporto causale con il caso fortuito o con la condotta di terzi.

Sotto il profilo soggettivo, nel solco di un orientamento già segnato dalla giurisprudenza di legittimità, è comunque utile riportare la Sez. 2, n. 17874 (627344), est. Piccialli, che, partendo dalla natura extracontrattuale della responsabilità per la fattispecie di cui all'art. 1669 cod. civ., riconosce il concorso con l'appaltatore di tutti i soggetti che, avendo prestato a vario titolo la loro opera nella realizzazione della costruzione viziata, abbiano contribuito per colpa professionale alla determinazione dell'evento dannoso (progettista, direttore dei lavori). Inoltre Sez. 2, n. 9370 (Rv. 625779), est. Mazzacane, ha affermato che l'azione di responsabilità per rovina o difetti di immobili può essere esercitata anche dall'acquirente nei confronti del venditore, che risulti fornito della competenza tecnica per dare direttamente o tramite il proprio direttore dei lavori indicazioni specifiche all'appaltatore esecutore dell'opera; nell'ipotesi graverà sul medesimo venditore l'onere di provare di non avere avuto alcun potere di direttiva o di controllo sull'impresa appaltatrice, così da superare la presunzione di addebitabilità dell'evento dannoso ad una propria condotta colposa, anche solo omissiva.

Sempre in ordine ai vizi della cosa, e agli effetti dell'art. 1667 cod. civ., perché possa dirsi che vi sia rinuncia dell'appaltatore ad eccepire la decadenza del committente dalla garanzia, Sez. 2, n. 2733 (Rv. 624876), est. Matera L., ha affermato che il riconoscimento dei vizi non richiede una confessione giudiziale o stragiudiziale, né formule sacramentali, potendo manifestarsi anche per fatti concludenti, come la condotta tenuta dall'appaltatore nel corso del giudizio di primo grado, che sia incompatibile con la volontà di avvalersi della decadenza.

Sez. 2, n. 13613 (Rv. 626504), est. Proto C.A., ha poi chiarito che l'impegno alla eliminazione dei vizi dell'opera, alla stregua di principî generali non dipendenti dalla natura dello specifico contratto, costituisce fonte di una autonoma obbligazione di facere, la quale si affianca all'originaria obbligazione di garanzia, senza peraltro estinguerla salvo a costituire uno specifico accordo novativo; come tale resta svincolata dai termini di prescrizione e decadenza stabiliti per la garanzia regolata dall'art. 1667 cod. civ., applicandosi invece il termine di prescrizione decennale fissato per l'inadempimento contrattuale.

2.2.

Quanto ai presupposti per la risoluzione del contratto di appalto prevista dal comma secondo dell'art. 1668 cod. civ., Sez. 2, n. 15093 (Rv. 627007), est. Manna, afferma che non è necessario che l'appaltatore sia stato previamente posto in condizione di eliminare i difetti, né che l'eventuale tentativo sia stato esperito senza esito, per conseguenza non trovando rilevanza che l'opera sia stata smantellata dal committente senza consentire all'appaltatore di emendarne i vizi o le difformità. Nella medesima pronuncia la Corte aggiunge che per la dimostrazione dei vizi redibitori non occorre una prova legale consistente in un esame tecnico dell'opera ancora in essere, ben potendone essere accertata l'inidoneità alla destinazione sua propria attraverso la prova storica.

In ordine agli effetti della risoluzione Sez. 2, n. 15705 (Rv. 626982), est. Proto C.A., enuncia che l'appalto, anche nei casi di esecuzione protratta nel tempo, e fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche, non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica, non sottraendosi di conseguenza alla regola generale dettata dall'art. 1458 cod. civ. della piena retroattività di tutti gli effetti della risoluzione anche con riguardo alle prestazioni già eseguite; per queste, a seguito della risoluzione del contratto, il prezzo può essere liquidato a titolo di equivalente pecuniario della dovuta restitutio in integrum.

2.3.

Sugli obblighi delle parti, e sulle conseguenze del loro inadempimento, vanno innanzitutto segnalate due pronunce relative alla condotta richiesta al committente. Nella prima, Sez. 1, n. 3830 (Rv. 625144), est. Salvago, afferma che tra le obbligazioni del committente, ancorché non espresse ma naturale conseguenza del contratto, vi è quella di assicurare all'appaltatore sin dall'inizio del rapporto, e per l'intera durata di esso, la possibilità giuridica e concreta di eseguire il lavoro affidatogli. L'inadempimento di tale obbligo, cui corrisponde il diritto dell'appaltatore alla relativa osservanza, può assumere in astratto rilevanza ai fini della domanda di risoluzione del contratto ex art. 1453 cod. civ.

Nella seconda sentenza, Sez. 2, n. 8906 (Rv. 625732), est. Carrato, esplicita che nell'appalto trovano applicazione i principî generali in materia di contratti a prestazioni corrispettive, e tra essi dunque anche quello noto secondo il brocardo inadimplenti non est adimplendum di cui all'art. 1460 cod. civ. Ne consegue che se ingiustificatamente il committente non paga il residuo corrispettivo l'appaltatore può rifiutarsi di consegnargli la restante parte dell'opera, senza che il medesimo committente possa utilmente addurre la mancata accettazione di essa per escludere il suo inadempimento.

Quanto all'appaltatore è utile segnalare Sez. 2, n. 19131 (Rv. 627821), est. Falaschi, che, in tema di fornitura e messa in funzione di un sistema computerizzato di software applicativo (nella specie per la realizzazione e la gestione di una banca dati), afferma che il contratto, a prescindere dalla qualificazione come vendita o appalto, prevede un'obbligazione di risultato, per cui, qualora il medesimo risultato negoziale sia mancato, l'utente può chiedere la risoluzione del contratto.

Ancorché da collocarsi nell'alveo dei doveri generali di conoscenza della legge, interessante è anche Sez. 1, n. 21475 (Rv. 627562), est. Di Palma, la quale, esaminando una ipotesi di manufatto realizzato su demanio marittimo, afferma che il contratto di appalto per la costruzione di un'opera che comporti l'abusiva occupazione di spazio demaniale è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 cod. civ., avendo un oggetto illecito per violazione di norme imperative del codice della navigazione, sicché non producendo ab origine gli effetti suoi propri, né essendo suscettibile di convalida ai sensi dell'art. 1423 cod. civ., l'appaltatore non può pretendere il pagamento del corrispettivo pattuito, né dell'indennizzo ex art. 1671 cod. civ., irrilevante rivelandosi l'ignoranza di tale occupazione abusiva. Infatti nei reati contravvenzionali la buona fede dell'agente idonea ad escludere l'elemento soggettivo va ricercata in un fattore positivo esterno, che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole, e non può essere determinata dalla mera non conoscenza della legge.

2.4.

Per concludere sul contratto di appalto privato va menzionata la Sez. 2, n. 15711 (Rv. 626874), est. Carrato, in tema di distinzione tra presa di consegna dell'opera e accettazione senza riserve quando questa sia tacita. La pronuncia enuncia che l'art. 1665 cod. civ., pur non definendo la nozione di accettazione tacita dell'opera, indica i fatti e i comportamenti dai quali deve presumersi la sussistenza della accettazione da parte del committente e in particolare al quarto comma prevede come presupposto dell'accettazione (tacita) la consegna dell'opera al committente (alla quale è parificabile l'immissione nel possesso) e come fatto concludente la "ricezione senza riserve" da parte di quest'ultimo anche se "non si sia proceduto alla verifica". Chiarisce tuttavia la pronuncia che occorre distinguere tra atto di "consegna" e atto di "accettazione" dell'opera, il primo costituendo un atto puramente materiale che si compie mediante la messa a disposizione del bene a favore del committente, l'accettazione esigendo che il committente esprima anche per facta concludentia il gradimento dell'opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale la quale comporta effetti ben determinati, quali l'esonero dell'appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell'opera ed il conseguente suo diritto al pagamento del prezzo.

3. L'appalto di opere pubbliche.

Pur nella giurisdizione residuale del G.O. in materia di contratto d'appalto di opere pubbliche la Corte è intervenuta con pronunce meno frequenti rispetto all'anno precedente ma parimenti importanti, particolarmente con riguardo alle fattispecie risarcitorie, del collaudo, dei rapporti con le imprese temporaneamente associate, nonché sulle conseguenze dell'esecuzione di opere diverse da quelle appaltate.

3.1.

Vanno menzionate due pronunce riguardanti l'appalto di opere pubbliche stipulato con imprese in associazione temporanea. Con la prima la Sez. 1, n. 23894 (Rv. 627998), est. Salvago, ha stabilito che, dichiarato il fallimento della società capogruppo, ex lege costituita mandataria delle imprese associate secondo la previsione dell'art. 23, ottavo comma del d.lgs. 19 dicembre 1991, n. 406, il mandato deve ritenersi sciolto in forza dell'art. 78 legge fall. (ratione temporis vigente), applicato anche d'ufficio e non derogato dal decreto legislativo menzionato. Ne discende che, ove l'accettazione dell'opera abbia preceduto la declaratoria di fallimento, la curatela fallimentare è legittimata a riscuotere dalla amministrazione appaltatrice il corrispettivo per l'esecuzione dell'appalto limitatamente alla quota corrispondente a quella parte dei lavori appaltati, la cui realizzazione era di sua spettanza sulla base dell'accordo di associazione temporanea. Nella seconda pronuncia Sez. 3, n. 3635 (Rv. 625425), est. Scarano, ha affermato che la transazione stipulata tra l'impresa capogruppo di una associazione temporanea di imprese e l'amministrazione committente vincola tutte le imprese partecipanti all'ATI, di cui la capogruppo ha la rappresentanza. Precisa tuttavia che la transazione non può essere rescissa ex art. 1447 cod. civ., anche se si sostenga che la P.A. nel concludere il negozio abbia tratto vantaggio dallo stato prefallimentare della capogruppo; ciò sia perché lo stato di pericolo della stipulante, utile per condurre alla rescissione del contratto, deve riguardare tutte le imprese partecipanti all'ATI e non solo una di esse ancorché capogruppo, sia perché il fallimento di quest'ultima non comporta lo scioglimento dell'intero contratto di appalto, che prosegue invece ove le altre imprese associate nominino una nuova capogruppo, con il gradimento del committente, rendendo così inconcepibile lo stato di pericolo per le imprese transigenti.

Passando poi allo speciale diritto di rescissione del contratto per l'ipotesi di inadempimento dell'appaltatore, già previsto dall'art. 340 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F, va menzionata la pronuncia della Sez. 1, n. 17607 (Rv. 627316), est. Lamorgese, che afferma come nel giudizio promosso dalla stazione appaltante nei confronti dell'appaltatore, dopo la rescissione, per il risarcimento dei danni conseguenti agli inadempimenti di quest'ultimo, non sia deducibile un concorso di colpa dell'amministrazione per non avere questa tempestivamente bandito una nuova gara per il riappalto dei lavori, in considerazione dell'insindacabilità del suo potere discrezionale di indire o meno una nuova gara, o di stabilirne tempi e modalità. Invece Sez. 1, n. 18958 (Rv. 627612), est. Giancola, valutando l'entità e la voce di danno risarcibile, afferma che dopo la rescissione il danno può consistere anche nella maggior spesa determinata dalla sola incidenza sfavorevole del fenomeno inflattivo intervenuto nel tempo, poiché l'incremento del corrispettivo del secondo contratto, conseguente all'adeguamento ai prezzi di mercato, è destinato ad incidere negativamente sulle finanze pubbliche, mentre il corretto adempimento del primo contratto, nei tempi predeterminati, avrebbe scongiurato gli effetti depauperativi dell'inflazione.

3.2.

Quanto all'esecuzione dell'opera ed alle ipotesi di varianti, Sez. 1, n. 18438 (Rv. 627511), est. Lamorgese, chiarisce che in applicazione dell'art. 14 del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 (ratione temporis vigente per l'ipotesi oggetto del giudizio) se l'amministrazione richiede lavori diversi da quelli in contratto, in variante dell'opera appaltata e per un importo di oltre un quinto a quello stabilito, la richiesta non si correla ad un potere dell'amministrazione cui corrisponda un obbligo dell'appaltatore. Ne consegue che l'accordo intervenuto ugualmente tra le parti per l'esecuzione della variante deve parificarsi a quello che abbia ad oggetto lavori extracontrattuali in senso stretto e qualificarsi come nuovo ed autonomo contratto modificativo del precedente.

Sez. 1, n.. 343 (Rv. 624811), est. Di Amato, tratta invece la diversa questione delle ipotesi in cui sono ammesse varianti in corso d'opera secondo la previsione dell'art. 25 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, che elenca fattispecie tassative. Ebbene, fuori dalle fattispecie ivi elencate si esula dalla disciplina delle varianti, con l'effetto che, al pari della ipotesi in cui non vi sia stato un regolare espletamento della procedura di approvazione di un'opera diversa da quella prevista in contratto, non si può porre a carico della stazione appaltante il prezzo di mercato delle opere realizzate, né il pagamento di un indennizzo per indebito arricchimento, per la necessità di protezione del pubblico interesse. Pertanto nel caso del direttore dei lavori di un'opera pubblica che abbia disposto l'esecuzione di opere extracontratto, agendo al di fuori dei suoi poteri, dunque inquadrabile nell'istituto del falsus procurator della pubblica amministrazione, l'appaltatore potrà farsi indennizzare ex art. 1398 cod. civ. dal direttore dei lavori del pregiudizio subìto (nel caso di specie all'impresa appaltatrice di opere di consolidamento di un tratto autostradale il direttore dei lavori aveva ordinato di spostare l'intervento dalla sede autostradale, come previsto e concordato nel progetto, alla scarpata sottostante).

Sotto il diverso profilo della consegna non tempestiva dei lavori Sez. 1, n. 2983 (Rv. 625150), est. Di Amato, chiarisce che nelle ipotesi in cui trovi applicazione ratione temporis il d.P.R. n. 1063 del 1962 non si fa distinzione tra la mancata consegna, o il ritardo della consegna di tutti i lavori, o la consegna parziale non prevista nel capitolato speciale in quanto tutte le ipotesi sono regolamentate dall'art. 10, comma ottavo, del d.P.R. citato, che prevede solo due opzioni dell'appaltatore: la prima è la richiesta di recesso dal contratto con il diritto al rimborso dei maggiori oneri ove l'istanza venga rigettata, la seconda è la prosecuzione del rapporto con la sola esclusione della sua responsabilità per l'eventuale conseguente ritardo nel completamento dell'opera.

3.3.

La Corte, confermando un precedente orientamento, si è occupata del rapporto tra il collaudo e la proponibilità dell'arbitrato o dell'azione ordinaria. In particolare Sez. 1, n. 3068 (Rv. 625105), est. Di Amato, ha puntualizzato che la preventiva effettuazione del collaudo, secondo la previsione dell'art. 44 d.P.R. n. 1063 del 1962, condiziona la proposizione dell'arbitrato e dell'azione giudiziaria, ma ciò non si traduce in una improponibilità della domanda, costituendo un presupposto processuale da qualificarsi più propriamente in termini di "eccezione processuale", non integrante una condizione necessaria per l'instaurazione del rapporto processuale. Tale natura esclude la rilevabilità d'ufficio della carenza del collaudo, ove la parte interessata non abbia sollevato la relativa eccezione chiedendo di non procedersi, e parimenti la deducibilità di tale carenza come causa di nullità del lodo, ove la improponibilità della domanda non sia stata eccepita in sede arbitrale.

Sempre in tema di collaudo la Cassazione si è specificamente occupata dei compensi dei professionisti componenti della Commissione di collaudo, quando essi abbiano diversa provenienza. Sul punto Sez. 1, n. 15682 (Rv. 627144), est. Salvago, ha statuito che, ai fini della liquidazione dei compensi per la realizzazione di un collaudo di impianto industriale, i cui componenti abbiano diversa professionalità (nella specie due ingegneri ed un dottore agronomo), debba ritenersi che l'incarico ha carattere unitario e non scindibile, dovendosi escludere che esso sia strutturato quale somma di valutazioni personali e specializzate di ciascun collaudatore, trovandosi di contro dinanzi ad un accertamento tecnico complessivo in base agli strumenti tecnici disponibili. Nel caso specifico pertanto la pronuncia ha affermato che, in ragione della natura prevalentemente ingegneristica delle competenze richieste, in assenza di diversa soluzione imposta da norme di legge o concordata contrattualmente, debba essere applicata a tutti i componenti del collegio la tariffa professionale degli ingegneri attesa l'omogeneità della funzione esercitata e l'unitarietà delle prestazioni dei componenti.

3.4.

Altri temi sono stati apprezzati dalla Corte nel 2013, in particolare con riguardo ai presupposti della revisione dei prezzi, al "prezzo chiuso", ai danni cagionati dalla esecuzione dell'opera, alla disciplina concordata sugli interessi.

Quanto al primo tema Sez. 1, n. 16152 (Rv. 626899), est. Piccininni, ha affermato che l'applicazione dell'istituto della revisione dei prezzi presuppone l'effettiva esecuzione dei lavori per i quali sia sollecitata l'integrazione del corrispettivo, senza che l'incremento dei costi venutosi a determinare sia addebitabile a colpa da parte della amministrazione appaltante. Se invece il ritardo che ha causato il detto incremento sia riferibile all'Amministrazione, il risarcimento del danno da lucro cessante può essere legittimamente liquidato riconoscendo - al pari del parametro valido nel caso di recesso - una percentuale di utile pari al dieci per cento del residuo corrispettivo.

In ordine alla disciplina del corrispettivo a "prezzo chiuso" è intervenuta Sez. 1, n. 17464 (Rv. 627348), est. Ceccherini, esaminando una ipotesi nella quale era in discussione la nullità o meno delle modalità applicate ad un contratto d'appalto stipulato nel 1998. In particolare la Corte ha evidenziato il diverso sistema di computo tra la disciplina introdotta dall'art. 33, quarto comma, della legge 28 febbraio 1986 n. 41 (poi abrogato dall'art. 15 della legge 23 dicembre 1992 n. 498) e quello introdotto dall'art. 26, quarto comma, della legge 11 febbraio 1994, n. 109. Secondo la disciplina poi abrogata si procedeva ad aumentare il prezzo del lavoro, al netto del ribasso d'asta, del cinque per cento per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori; secondo la successiva legge del 1994 l'aumento, partendo dal prezzo dei lavori al netto del ribasso d'asta, era rapportato ad una percentuale da applicarsi, qualora la differenza tra il tasso d'inflazione reale e quello programmato nell'anno precedente fosse stata superiore al 2 per cento, all'importo dei lavori ancora da eseguire per ogni anno intero previsto per la loro ultimazione. Tratteggiata la differenza del sistema di calcolo e rilevata l'incompatibilità delle due discipline, la pronuncia ha ritenuto nulla, per violazione di norma imperativa, la clausola contrattuale che nel 1998 stabiliva il "prezzo chiuso" in conformità della legge del 1986 già abrogata, non potendosi configurare neppure una sanatoria postuma alla stregua dell'art. 133 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163.

In tema di delega all'appaltatore al compimento di occupazioni ed espropriazioni, Sez. 1, n. 22091 (Rv. 627970), est. Salvago, ha affermato che gli artt. 360 e 361 della legge n. 2248 del 1865, all. F (applicabili ratione temporis) impongono all'amministrazione, a tutela dei creditori per eventuali danni derivanti dalla esecuzione dell'opera - e non anche per danni derivanti da fatto colposo proprio dell'appaltatore - di sospendere il pagamento dell'ultima rata di saldo del corrispettivo e lo svincolo della eventuale cauzione fino al momento in cui l'appaltatore provi di aver tacitato ogni domanda di costoro, senza tuttavia che ciò comporti alcuna modificazione del rapporto tra appaltante ed appaltatore. Statuisce inoltre che non esiste alcun obbligo in capo alla stazione appaltante di costituire un fondo di garanzia da tenere a disposizione di eventuali futuri creditori.

Infine, confermando un orientamento già esplicitato dalla Corte, Sez. 1, n. 3064 (Rv. 625106), est. Salvago, ha affermato che, nel rispetto dell'art. 4 della legge 10 dicembre 1981 n. 741, che prevede la nullità dei patti contrari o in deroga alla disciplina degli interessi per ritardo nei pagamenti spettanti all'appaltatore di opere pubbliche, sono affette da nullità non solo le pattuizioni che pongono a carico dell'appaltatore l'osservanza di particolari modalità o di termini dilatori per far valere la propria pretesa creditoria, ma anche quelle che comportano la rinuncia preventiva ad ogni ristoro per i ritardi dei pagamenti dovuti, ancorchè la clausola sia inserita in un contratto d'appalto stipulato in data anteriore all'entrata in vigore della legge.

4. L'assicurazione.

Come di consueto, anche nel 2013 la produzione giurisprudenziale della S.C. in materia di assicurazione è stata assai copiosa, anche se la maggior parte delle decisioni hanno riguardato l'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica (r.c.a.).

4.1. Assicurazione contro i danni.

In tema di assicurazione contro i danni, va segnalato il principio enunciato da Sez. 3, n. 17565 (Rv. 627643), est. Lanzillo, in una fattispecie nuova attinente alla materia della interpretazione del contratto di assicurazione, avente ad oggetto la copertura del rischio di insolvenza dei clienti dell'assicurato. Secondo la S.C. deve ritenersi come integrativa, e non derogatoria, rispetto alla clausola che attribuisce rilievo all'insolvenza determinante l'avvio di una procedura concorsuale, la clausola speciale aggiunta, avente la funzione di estendere la copertura assicurativa ai casi di "insolvenza di fatto", ovvero quelli in cui - pur non essendo sopravvenuta una tale procedura - l'insolvenza si possa ritenere certa e consolidata, a causa del tempo trascorso (fissato contrattualmente in 180 giorni) dalla prima manifestazione della mora. Tale interpretazione deve ritenersi ampliativa della tutela dell'assicurato, mentre l'interpretazione opposta, per la quale le due ipotesi - insolvenza di diritto ed insolvenza di fatto - debbano essere concepite in termini di alternatività, determina possibili situazioni di abuso e di mala fede. Se, infatti, fosse necessaria e sufficiente l'insolvenza presunta, quale presupposto del diritto all'indennizzo, da un lato verrebbero a perdere rilievo ed efficacia le fattispecie di insolvenza di diritto, potendo in ogni caso l'assicurato far valere l'insolvenza di fatto, lasciando decorrere i 180 giorni dalla comunicazione dell'inadempimento del cliente; dall'altro lato e soprattutto, risulterebbe rimessa alla mera discrezione dell'assicurato la stessa scelta circa la fattispecie di insolvenza da far valere, se del caso in considerazione delle sue convenienze, ivi inclusa la neutralizzazione degli effetti dell'eventuale mancato pagamento del premio.

Sez. 3, n. 11124 del 2013 (Rv. 626555), est. Carleo, si è, invece, soffermata sull'onere formale riguardante la stipulazione del contratto di assicurazione per conto altrui, evidenziando la facoltà delle parti di subordinare l'efficacia della polizza alla sottoscrizione, oltre che del contraente, anche del beneficiario. Tale onere convenzionale di forma, tuttavia, può essere revocato per volontà anche implicita delle parti stesse, come avviene nel caso in cui il beneficiario non sottoscrittore della polizza chieda - ed ottenga - un aumento della somma assicurata. Un principio analogo era stato già enunciato da Sez. 3, n. 12344 del 2003 (Rv. 566160).

Sez. 3, n. 3654 (Rv. 625298), est. Amendola, ha, poi, ritenuto che la sospensione dell'assicurazione di cui all'art. 1901 cod. civ. costituisce una particolare applicazione dell'istituto dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 cod. civ., cosicché detto istituto non può trovare applicazione quando sia contrario a buona fede. Nel caso di specie, in presenza di un contratto di assicurazione contenente la cd. "clausola di regolazione del premio", è stata ritenuta contraria a buona fede la sospensione della garanzia da parte dell'assicuratore, dopo che lo stesso, disattesa la prassi - seguita negli anni precedenti - di inviare all'assicurato un modulo da completare con i dati necessari ai fini della regolazione del premio, a fronte del successivo invio degli stessi, aveva comunque accettato senza riserve il pagamento tardivo del premio.

Ancora, in tema di coassicurazione contro i danni contenente la cosiddetta "clausola di delega", la richiesta di pagamento effettuata dall'assicurato - anche nell'interesse di altri coassicurati, in virtù di un mandato senza rappresentanza dagli stessi rilasciato - nei confronti della compagnia "delegataria" è stata ritenuta idonea ad interrompere la prescrizione del diritto al pagamento dell'indennità a beneficio di tutti i coassicurati e nei confronti di ciascun coassicuratore, allorché detta compagnia abbia assunto contrattualmente, accanto a compiti di gestione della polizza, anche quelli di ricezione di tutte le comunicazioni ad essa inerenti (Sez. 3, n. 13661, Rv. 626708, est. Scrima).

Va ricordata, altresì, una pronuncia in tema di limiti di danno risarcibile. Sez. 3, n. 4043 (Rv. 625454), est. Segreto, ha evidenziato che allorquando la polizza preveda distinti massimali, rispettivamente per i danni subiti dai prestatori di lavoro dipendenti dall'assicurato e per ciascun terzo danneggiato che abbia subìto lesioni personali, deve ritenersi operante il primo in relazione all'indennizzo spettante ai prossimi congiunti di un operaio deceduto in seguito ad un infortunio sul lavoro, i quali non abbiano riportato malattie del corpo o della mente, risultando detti massimali parametrati non sul danno-conseguenza risarcibile, ma sull'evento lesivo, che può attingere pure un soggetto distinto o ulteriore rispetto a quello vittima del pregiudizio risarcibile.

In materia di assicurazione contro il rischio del ritiro del libretto di navigazione per inidoneità alla navigazione, Sez. L, n. 7151 (Rv. 625701), est. Marotta, ha statuito che, poiché causa del ritiro del libretto non è qualsiasi malattia, ma solo quella di gravità tale da impedire la navigazione, la preesistenza di uno stato patologico, rispetto alla stipula del contratto di assicurazione, non può, di per sé, portare alla negazione della copertura assicurativa, conseguendo tale negazione solo alla preesistenza di una malattia che abbia raggiunto (già prima dell'imbarco) una gravità tale da escludere ogni capacità residua di lavoro del marittimo.

Sempre in tema di trasporto marittimo, Sez. 3, n. 6293 (Rv. 625509), est. Amendola, ha ritenuto affetta da nullità per difetto di interesse ex art. 1904 cod. civ., l'assicurazione contro i rischi del trasporto, stipulata dall'acquirente di merce spedita via mare a rischio e pericolo del venditore, essendo stato subordinato l'effetto traslativo alla ricezione del pagamento del prezzo, a nulla rilevando che, dopo l'arrivo a destinazione e l'accertamento dell'avaria di parte del carico, l'acquirente ne abbia egualmente pagato il prezzo.

Va, infine, segnalato il principio enunciato da Sez. 3, n. 3655 (Rv. 625424), est. Amendola, per la quale la cd. surrogazione reale dell'indennità alla cosa assicurata, prevista dall'art. 2742 cod. civ., produce l'effetto di imporre un vincolo di destinazione a favore del creditore dell'assicurato titolare di un diritto di prelazione sulla cosa distrutta, ma non legittima il creditore medesimo ad agire direttamente nei confronti dell'assicuratore per il pagamento dell'indennizzo.

4.2. Assicurazione della responsabilità civile.

Seppure affronta questioni di natura eminentemente processuale, non può non essere ricordata in questa sede l'importante Sez. Un., n. 9686 (Rv. 626430 e 626431), est. Spirito, che si è pronunciata in ragione di un contrasto esistente nella Terza Sezione civile della Suprema Corte. Due i principî ricavabili dalla sentenza citata:

1) quando il convenuto nel giudizio di risarcimento del danno si sia avvalso della facoltà di chiamare in causa il proprio assicuratore della responsabilità civile, ai sensi dell'art. 1917, co. 4, cod. civ., i fatti che provocano l'interruzione o l'estinzione della domanda di garanzia non si estendono alla domanda di risarcimento, e viceversa;

2) quando vengano riunite e cumulativamente istruite la domanda di risarcimento del danno e quella di garanzia, proposta dal convenuto nei confronti del proprio assicuratore della responsabilità civile, in presenza d'un evento interruttivo che tocchi una sola delle due cause connesse il giudice ha la facoltà e non l'obbligo di separarle, ma, ove non si avvalga di tale facoltà, l'eventuale ordinanza che dichiari interrotto il processo produce gli effetti di cui agli artt. 300 e ss. cod. proc. civ. solo con riferimento alla causa in cui si è verificato l'evento interruttivo, mentre l'altra causa non separata resta in una "fase di stallo" o "di rinvio", destinata necessariamente a cessare per effetto della riassunzione della causa interrotta o dell'estinzione di essa.

Il primo dei principî citati si pone esattamente nel solco tracciato da Sez. Un., n. 15142 del 2007 (Rv. 598541); il secondo, invece, ne costituisce la naturale esplicazione, chiarendo cosa accade al processo con riferimento alle cause non interessate dall'evento interruttivo.

In tema di interpretazione del contratto di assicurazione, va ricordata Sez. 3, n. 4799 (Rv. 625316), est. Barreca, la quale ribadisce (riprendendo un orientamento già formatosi con Sez. 3, n. 4118 del 1995, Rv. 491716, e Sez. 3, n. 5273 del 2008, Rv. 601755) che l'assicurazione della responsabilità civile, mentre non può concernere fatti meramente accidentali, dovuti, cioè, a caso fortuito o forza maggiore, dai quali non sorge responsabilità, per la sua stessa natura importa necessariamente l'estensione ai fatti colposi, restando escluso, in mancanza di espresse clausole limitative del rischio, che la garanzia assicurativa non copra alcune forme di colpa. Pertanto la clausola della polizza stipulata da un condominio, la quale preveda la copertura dei danni «involontariamente cagionati a terzi in conseguenza di un fatto accidentale», senza contenere alcuna limitazione con riguardo a determinati gradi di colpa, fa ritenere operante la garanzia anche in ipotesi di comportamento gravemente colposo dell'assicurato (nella specie, per il difetto di manutenzione di una tubazione idrica condominiale), con la sola eccezione delle condotte dolose.

Di particolare interesse per la sua novità è, infine, Sez. 3, n. 7273 (Rv. 625899 e 625900), est. Vivaldi, la quale si occupa della clausola cd. "a richiesta fatta" (o "claims made"), la quale prevede che l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato delle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula del contratto, se per essi gli sia pervenuta una richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato durante il tempo per il quale è stata stipulata l'assicurazione. Ebbene, tale clausola, se inserita in un contratto di assicurazione, non solo è valida ed efficace, ma deve ritenersi, altresì, compatibile con le clausole che pongono a carico dell'assicurato l'obbligo di rendere dichiarazioni complete e veritiere sulle circostanze relative alla rappresentazione del rischio al momento della sottoscrizione della polizza.

4.3. Assicurazione obbligatoria della r.c.a.

Le decisioni in materia di assicurazione obbligatoria della r.c.a., come al solito molto numerose, hanno riguardato una gran parte degli aspetti della disciplina: l'ambito di applicazione, la valutazione e liquidazione del danno, la responsabilità dell'impresa designata per conto del Fondo di garanzia vittime della strada, la cd. legge antitrust, nonché alcuni peculiari aspetti processuali.

4.3.a.

Con riferimento all'ambito di applicazione della responsabilità dell'assicuratore, Sez. 3, n. 3296 (Rv. 625343), est. Scrima, ha ritenuto che la stessa è legittimamente predicabile a condizione che venga affermata la responsabilità dell'assicurato, e cioè del proprietario del veicolo; con la conseguenza che, ove il veicolo stesso circoli contro la volontà del proprietario per effetto di furto, non solo deve essere rigettata ogni domanda risarcitoria contro il predetto proprietario (in applicazione della regula iuris di cui all'art. 2054, co. 3, ultima parte, cod. civ.), ma non può nemmeno trovare accoglimento quella eventualmente proposta nei confronti del suo assicuratore da parte del terzo trasportato a bordo del veicolo rubato, atteso che la deroga al suddetto principio di esclusione di responsabilità è limitata (ex art. 1, co. 3, della l. 24 dicembre 1969, n. 990, applicabile ratione temporis) alle sole ipotesi di danneggiato non trasportato e di danneggiato trasportato contro la propria volontà.

Con l'enunciazione di tale interessante principio la S.C. conferma un orientamento già espresso alcuni anni fa da Sez. 3, n. 6893 del 2005 (Rv. 580789), e che non aveva ancora avuto seguito.

Sez. 3, n. 5398 (Rv. 625713), est. Cirillo, afferma, poi, che ai fini dell'applicabilità delle norme sull'assicurazione obbligatoria della r.c.a., la sosta può essere equiparata alla circolazione solo se il sinistro sia eziologicamente ricollegabile ad essa e non ad una causa autonoma - ivi compreso il fortuito - di per sé sufficiente a determinarlo.

Interessante è, inoltre, il principio evincibile da Sez. 3, n. 8090 (Rv. 625872), est. Scrima, laddove si ammette l'azione diretta del danneggiato da un sinistro stradale nei confronti dell'assicuratore anche per i sinistri cagionati da veicoli posti in circolazione su area privata, ma aperta ad un numero indeterminato di persone ed alla quale sia data la possibilità, giuridicamente lecita, di accesso da parte di soggetti diversi dai titolari dei diritti su di essa. Tale area è, infatti, da equiparare alla strada di uso pubblico, non venendo meno l'indeterminatezza dei soggetti che vi possono accedere anche se tali soggetti appartengano tutti ad una o più categorie specifiche e quando l'accesso avvenga solo per particolari finalità e in particolari condizioni.

Una segnalazione merita anche Sez. 6-3, ord. n. 373 (Rv. 624611), rel. Giacalone, per la quale la clausola di polizza che subordina la garanzia alla circostanza che il conducente fosse munito di valida patente di guida non opera nei confronti del danneggiato, ma solo nei confronti dell'assicurato.

Infine, di particolare rilievo è Sez. 3, n. 6291 (Rv. 625522), est. Ambrosio, la quale - ponendosi in aperto contrasto con il precedente orientamento rappresentato da Sez. 3, n. 6862 del 2000 (Rv. 536892), e Sez. 3, n. 2505 del 2005 (Rv. 582960) - ha affermato che il conducente di un veicolo che sia responsabile di un sinistro stradale, ma non anche proprietario del mezzo, in quanto estraneo al rapporto di assicurazione ex art. 1917 cod. civ., non è legittimato a far valere diritti che siano riconducibili alla mala gestio cd. "propria" dell'assicuratore, ovvero per non avere eseguito in buona fede, nei confronti del proprio assicurato, l'obbligazione di corrispondere l'indennità in modo da evitare che l'obbligazione risarcitoria aumentasse ingiustificatamente in suo pregiudizio.

4.3.b.

Passando alle questioni attinenti alla valutazione e liquidazione del danno, vanno in primo luogo segnalate due sentenze in materia di limiti di massimale e loro superamento.

Per Sez. 3, n. 3560 (Rv. 625300), est. Carleo, l'art. 9 l. n. 990 del 1969 - applicabile ratione temporis - deve essere letto congiuntamente al successivo art. 27, con la conseguenza che, in caso di pluralità di danneggiati da un sinistro stradale e di insufficienza del massimale, i limiti fissati dal d.P.R. 4 agosto 1984 (pari a lire cento milioni per ogni persona danneggiata e a lire trenta milioni per danni a cose o animali) devono essere rapportati ad ogni singolo soggetto danneggiato, proprietario delle cose o degli animali o leso nella persona che sia, in quanto la lettera del citato art. 27 fa riferimento genericamente ai diritti delle persone danneggiate, senza prevedere distinzioni fra esse a seconda del bene che sia stato leso, in rapporto al cd. "massimale catastrofale". Deve, pertanto, escludersi - in difetto di un'esplicita previsione di legge contraria - che nell'ipotesi di una pluralità di persone danneggiate il limite di lire trenta milioni (fissato dal citato d.P.R. 4 agosto 1984 per i danni alle cose o animali) costituisca una sorta di "sub-massimale catastrofale" riguardo a tutti i danni alle cose ed animali verificatisi in conseguenza del sinistro.

Sez. 3, n. 14537 (Rv. 626747), est. Carleo, ribadisce, invece, un principio non nuovo, essendo stato già enunciato da Sez. 3, n. 11336 del 1993 (Rv. 484359), e Sez. 3, n. 7993 del 2002 (Rv. 554825). Secondo la S.C. l'obbligazione risarcitoria dell'assicuratore è contenuta nei limiti delle somme per le quali è stata stipulata l'assicurazione, e la solidarietà fra assicurato ed assicuratore ha natura atipica, atteso che il debito aquiliano del primo discende ex delicto ed è illimitato, mentre quello del secondo di natura indennitaria deriva ex lege e trova limite nella capienza del massimale, senza che nessuna influenza possa attribuirsi, per derogare a quest'ultimo limite, al fatto che in sede penale, con sentenza passata in giudicato, l'assicuratore sia stato condannato quale responsabile civile, in solido con l'imputato assicurato, al risarcimento del danno in via generica nei confronti del danneggiato, giacché la solidarietà, disposta in via generale ed astratta dall'art. 538 c.p.p., non preclude ed, anzi, impone, l'accertamento, nei singoli casi concreti, del titolo in forza del quale ciascuno dei coobbligati è tenuto alla prestazione e se l'unicità di quest'ultima soffre o meno limitazioni per effetto di particolari disposizioni convenzionali o legali.

Con riferimento al danno da cd. fermo tecnico subìto dal proprietario dell'autovettura danneggiata a causa dell'impossibilità di utilizzarla durante il tempo necessario alla sua riparazione, Sez. 6-3, ord. n. 22687, in corso di massimazione, est. Giacalone, afferma - conformemente a Sez. 3, n. 23916 del 2006 (Rv. 593159), ma contrariamente a quanto sostenuto da Sez. 3, n. 12820 del 1999 (Rv. 531285) - che è possibile la liquidazione equitativa del danno anche in assenza di prova specifica in ordine al medesimo, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato dell'uso del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall'uso effettivo a cui esso era destinato. L'autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio di assicurazione) comunque sopportata dal proprietario ed è, altresì, soggetto ad un naturale deprezzamento.

Tuttavia, per Sez. 3, n. 9626 (Rv. 626034), est. D'Amico, nessun risarcimento è dovuto quando la durata della riparazione sia stata particolarmente breve, tale da rendere irrilevante l'entità della spesa per tassa di circolazione, per premio di assicurazione e per deprezzamento di valore del veicolo ai quali si fa abitualmente riferimento per giustificare la liquidazione equitativa di tale tipo di danno.

4.3.c.

Alcune decisioni hanno riguardato fattispecie nelle quali dei danni causati dal sinistro era stata chiamata a rispondere l'impresa designata per conto del Fondo di garanzia vittime della strada.

Tra di queste si segnala, prima di tutto, Sez. 3, n. 15303 (Rv. 626871), est. Lanzillo, la quale fissa nel termine ordinario decennale la prescrizione per l'azione prevista dall'art. 29 della l. n. 990 del 1969 (nella formulazione applicabile ratione temporis) spettante all'impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, al posto del termine biennale applicabile all'azione risarcitoria spettante al danneggiato della circolazione stradale: ciò in quanto il diritto dell'impresa non è condizionato e non deriva dal diritto del danneggiato al risarcimento dei danni, ma trova il suo fondamento nella specifica previsione di legge. La decisione è importante, perché evidenzia l'esistenza di un contrasto sul punto in seno alla S.C., di cui, peraltro, proprio tale sentenza potrebbe essere indice di superamento: se è vero, infatti, che in senso contrario - e, dunque, per il termine di prescrizione biennale - si erano espresse sia Sez. Un., n. 12014 del 1991 (Rv. 474576), che Sez. 3, n. 15357 del 2006 (Rv. 591571), più di recente per la prescrizione decennale si è pronunciata Sez. 3, n. 10827 del 2007 (Rv. 596729).

Sez. 3, n. 11552 (Rv. 626545), est. Giacalone, ha affermato che per l'ipotesi disciplinata dagli artt. 19 e 21 della legge n. 990 del 1969, i decreti con i quali sono stati modificati i limiti dei massimali di legge indicati nella allegata tabella "A" , richiamata dall'art. 21 della legge medesima, hanno natura di atti normativi, sebbene non di rango primario, e, quindi, si presumano noti al giudice e non hanno bisogno di essere provati dalla parte interessata, così confermando l'assorbimento del contrasto originariamente esistente in seno alla Sezione Terza della S.C. (di cui sono espressione, in senso conforme, Sez. 3, n. 3807 del 2004, Rv. 570537, Sez. 3, n. 10479 del 2004, Rv. 573297, e Sez. 3, n. 4016 del 2006, Rv. 587534; ed, in senso difforme, Sez. 3, n. 6933 del 1999, Rv. 528287, e Sez. 3, n. 10765 del 1999, Rv. 530327).

Sempre con riferimento al danno risarcibile, Sez. 3, n. 3637 (Rv. 625426), est. Armano - conformandosi ad un vecchio precedente (Sez. 3, n. 1742 del 1992, Rv. 475694) - afferma che i limiti di risarcibilità dei danni alla persona causati da veicolo o natante non identificato, previsti dall'art. 21, comma secondo, della legge n. 990 del 1969 (oggi trasfuso nell'art. 283 del d.lgs. n. 7 settembre 2005, n. 209), attraverso il rinvio alle previsioni del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, operano solo per i danni patrimoniali, ma non per i danni morali, i quali, pur rientrando tra quelli che il Fondo di garanzia per le vittime della strada è obbligato a risarcire, sono, quindi, risarcibili secondo la disciplina ordinaria.

4.3.d.

Sotto il profilo della violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato di cui alla l. 10 ottobre 1990, n. 287 (cd. legge antitrust), è interessante evidenziare da ultimo Sez. 1, n. 12551 (Rv. 626623), est. Lamorgese, la quale sostiene che l'assicurato che proponga azione risarcitoria, ai sensi dell'art. 33, comma 2, della menzionata legge nei confronti dell'impresa di assicurazione che sia stata sottoposta a sanzione dall'Autorità garante per aver partecipato ad un'intesa anticoncorrenziale, ha l'onere di allegare la polizza assicurativa contratta e l'accertamento, in sede amministrativa, dell'intesa anticoncorrenziale, potendosi su queste circostanze fondare la presunzione dell'indebito aumento del premio per effetto del comportamento collusivo e della misura di tale aumento. Né in questo modo può considerarsi violato il brocardo praesumptum de praesumpto non admittitur, perché nel danno subìto dalla generalità degli assicurati per effetto dell'illecito antitrust, accertato sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, è infatti ricompreso, come suo essenziale componente, il danno subìto dai singoli assicurati, dovendosi ritenere che lo stesso, pur concettualmente distinguibile sul piano logico, non lo sia sul piano fattuale e, dunque, non richieda, per essere dimostrato, un'ulteriore presunzione.

4.3.e.

Alcune decisioni si segnalano per la loro attenzione anche ad aspetti squisitamente processuali. In particolare, Sez. 3, n. 8115 (Rv. 625666), est. Ambrosio - in conformità con Sez. 3, n. 5996 del 1986 (Rv. 448345), ma in difformità dalla più recente Sez. 3, n. 9700 del 2004 (Rv. 572998) - afferma che l'art. 22 della l. n. 990 del 1969 (applicabile ratione temporis ed abrogato dall'art. 354 del d.lgs. n. 209 del 2005), per per il quale l'azione per il risarcimento dei danni causati dalla circolazione dei veicoli a motore può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni da quello in cui il danneggiato abbia chiesto il risarcimento del danno all'assicuratore del danneggiante, non trova applicazione nell'ipotesi in cui uno dei danneggianti, convenuto in giudizio per l'integrale risarcimento, proceda alla chiamata in garanzia impropria contro altro danneggiante per sentirlo dichiarare corresponsabile dei danni lamentati dall'attore, ai fini della ripartizione interna dell'obbligazione solidale, stabilita dall'art. 2055 cod. civ.

Sotto il profilo probatorio vengono, invece, in rilievo due sentenze. La prima, Sez. 3, n. 8214 (Rv. 625670), est. Carleo, evidenzia che nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell'assicuratore, la dichiarazione, avente valore confessorio, contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro (cd. C.I.D.) non è opponibile all'assicuratore se proviene dal responsabile del danno che sia unicamente conducente (e, dunque, litisconsorte facoltativo) e non anche proprietario (e, dunque, litisconsorte necessario) del veicolo assicurato.

La seconda attiene più strettamente alla ripartizione dell'onere probatorio nel caso di danno alla persona conseguente ad un incidente stradale. Sez. 3, n. 6548 (Rv. 625745), est. Amendola, osserva che nel contratto di assicurazione l'avverarsi del rischio come descritto nella polizza è il fatto costitutivo del diritto dell'assicurato all'indennizzo, mentre la sussistenza di una circostanza di fatto idonea a sussumere il rischio tra quelli esclusi dalla polizza è fatto impeditivo di quel diritto. Ne consegue che, ove un'assicurazione contro gli infortuni mortali preveda che il diritto all'indennizzo spetti nel caso di infortunio causato da sinistro stradale, mentre resti esclusa se la morte sia conseguenza di condizioni fisiche anormali della vittima, i beneficiari avranno l'onere di provare il nesso di causa tra sinistro e morte, mentre l'assicuratore avrà l'onere di provare la preesistenza di condizioni fisiche anormali.

Ancora, Sez. 3, n. 11121 (Rv. 626366), est. Segreto, dando seguito ad un orientamento ormai risalente nel tempo (Sez. 3, n. 866 del 1989, Rv. 461880, e Sez. 3, n. 11315 del 1998, Rv. 520560), ha evidenziato che all'assicuratore, il quale pur non avendo partecipato al relativo giudizio abbia, per gli effetti di cui all'art. 1917, comma secondo, cod. civ., pagato direttamente al danneggiato la somma che l'assicurato è stato condannato a corrispondere a titolo di risarcimento con sentenza di primo grado immediatamente esecutiva, spetta, qualora detta sentenza sia riformata in appello con il rigetto della domanda risarcitoria, l'azione di ripetizione di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ., attesa la inesistenza di una legittima causa solvendi, senza che importi che il pagamento sia avvenuto spontaneamente.

Sez. 3, n. 4241 (Rv. 626548), est. Vincenti, si è soffermata, poi, sugli effetti del giudicato formatosi all'esito dell'azione proposta contro l'assicurato danneggiante nel giudizio separatamente proposto in epoca successiva nei confronti del suo assicuratore ai sensi dell'art. 18 della l. n. 990 del 1969 (applicabile ratione temporis). Ebbene, la S.C. ha ritenuto che il principio per cui il giudicato maturato all'esito del primo giudizio, del quale l'assicuratore non era parte, può spiegare nei suoi confronti efficacia riflessa (rendendo non più controverso quel rapporto giuridico rispetto al quale l'assicuratore medesimo si trovi in una situazione di giuridica dipendenza), presuppone la condanna del danneggiante assicurato al risarcimento del danno, e non semplicemente l'affermazione della responsabilità del predetto quanto al fatto illecito, giacché solo in questo caso è dato ravvisare, tra le obbligazioni risarcitorie dei due soggetti, quel collegamento di pregiudizialità- dipendenza in senso giuridico che legittima l'efficacia riflessa del giudicato.

Infine, Sez. 3, n. 3638 (Rv. 625294), est. Armano, si occupa del regime delle spese processuali. Conformemente all'orientamento già espresso da Sez. 3, n. 24733 del 2007 (Rv. 600456), si è statuito che la norma di cui all'art. 1917, comma terzo, cod. civ., non riguarda il regime e la misura delle spese giudiziali relative alla controversia tra assicuratore ed assicurato circa la fondatezza dell'azione di garanzia, che vanno liquidate nell'intero secondo il principio della soccombenza, ma soltanto le spese direttamente sostenute dall'assicurato per resistere alla pretesa del terzo, ovvero quelle che l'assicuratore assume direttamente da sé quale gestore della lite.

4.4. Assicurazione sulla vita.

Nell'anno 2013 non vi sono sentenze di rilievo da segnalare, avendo le poche sentenze emesse in materia ribadito principî già consolidati.

5. Il comodato.

Non particolarmente copiosa è la giurisprudenza in materia di comodato, anche se offre sicuramente spunti di interesse.

Innanzitutto, occorre ricordare la sentenza Sez. 3, n. 18660 (Rv. 627541), est. Carleo, la quale fonda la distinzione con il contratto di locazione sul carattere fondamentalmente gratuito del comodato; con la conseguenza che, a fronte della domanda volta all'accertamento di un rapporto locativo oppure volta all'accertamento di un'occupazione senza titolo, chi assume in giudizio l'esistenza di un contratto di comodato ha l'onere di dimostrare il possesso di un titolo che non solo assicuri il legittimo godimento del bene, ma anche il carattere essenzialmente gratuito.

Pur non costituendo una novità, appare interessante evidenziare che va consolidandosi, con la sentenza Sez. 3, n. 20371 (Rv. 627718), est. Massera, quell'indirizzo - di cui costituiscono precedenti la sentenza Sez. 3, n. 8840 del 2007 (Rv. 597621), e la sentenza Sez. 3, n. 13204 del 2010 (Rv. 613292) - secondo il quale chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in comodato ed è, dunque, legittimato a richiederne la restituzione, allorché il rapporto venga a cessare; con la conseguenza che il comodante che agisce per la restituzione della cosa nei confronti del comodatario non deve provare il diritto di proprietà, avendo soltanto l'onere di dimostrarne la consegna e il rifiuto di restituzione, mentre spetta al convenuto dimostrare di possedere un diverso titolo di godimento.

Importante è anche l'ordinanza Sez. 6-3, n. 20183 (Rv. 627626), rel. Lanzillo, con la quale la Corte si sofferma sul concetto di «urgente ed impreveduto bisogno» ai fini del recesso del comodante in caso di comodato con fissazione di termine di durata di cui all'art. 1809 cod. civ. Viene evidenziato che con tale espressione la legge fa riferimento alla necessità del comodante - su cui gravano i relativi oneri probatori - di appagare impellenti esigenze personali, e non a quella di procurarsi un utile, tramite una diversa opportunità di impiego del bene. Trattasi di valutazione da condurre con rigore, soprattutto quando il comodatario di bene immobile abbia assunto a suo carico considerevoli oneri, per spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, in vista della lunga durata del godimento concessogli.

La S.C. si è poi soffermata su alcuni profili più squisitamente processuali.

Con riferimento alla ripartizione di competenza tra giudice ordinario e sezioni specializzate agrarie, con l'ordinanza Sez. 6-3, n. 14782 (Rv. 627110), rel. Lanzillo, è stato affermato per la prima volta il principio per cui la controversia avente ad oggetto la risoluzione del contratto di comodato di un immobile appartiene alla competenza del giudice ordinario anche quando il comodante sia soggettivamente titolare di un rapporto di affitto agrario e che l'immobile in comodato sia incluso in un complesso di beni con destinazione agricola.

Con riferimento poi alla tutela concessa al comodante, deve segnalarsi la sentenza Sez. 2, n. 2726 (Rv. 624877), est. Matera, la quale afferma che per ottenere il rilascio del bene concesso in comodato, il comodante può avvalersi, a sua scelta, sia dell'azione di rivendica (in quanto anche proprietario), sia dell'azione contrattuale, ma, non essendo facoltà del giudice mutare ex officio il titolo della pretesa, la controversia va decisa con esclusivo riferimento al titolo dedotto dall'interessato; cosicché, se l'attore ha optato per l'azione contrattuale, egli non ha l'onere di provare la proprietà del bene, ma l'esistenza del contratto di comodato, anche se il convenuto abbia sollevato un'eccezione di usucapione in proprio favore, non essendo tale pretesa idonea a trasformare in reale l'azione personale esercitata.

Per parte sua, come afferma la sentenza Sez. 3, n. 15877 (Rv. 626916), est. Carleo, il comodatario, in quanto detentore della cosa, non può acquistare il possesso ad usucapionem senza prima avere mutato, mediante una interversio possessionis, la sua detenzione in possesso; in quest'ottica, l'intenzione manifestata da parte di chi esercita un potere di fatto sul bene di stipulare un contratto scritto di comodato con il proprietario del bene medesimo è del tutto incompatibile con il possesso utile ai fini dell'usucapione, in quanto contiene, ad un tempo, l'esplicito riconoscimento del diritto altrui e l'esclusione dell'intenzione di possedere per conto e in nome proprio.

6. Prelazione e riscatto nei contratti agrari.

La giurisprudenza in materia è stata nell'anno 2013 particolarmente copiosa. Com'è noto, il diritto di prelazione e riscatto è previsto dall'art. 8 della l. 26 maggio 1965, n. 590 - in caso di trasferimento a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi di fondi concessi in affitto a coltivatori diretti, a mezzadria, a colonia parziaria, o a compartecipazione, esclusa quella Stagionale - in favore dell'affittuario, del mezzadro, del colono o del compartecipante; l'art. 7 della l. 14 agosto 1971, n. 817 ha esteso, poi, tale diritto anche in favore del mezzadro o del colono il cui contratto sia stato stipulato dopo l'entrata in vigore della l. 15 settembre 1964, n. 756, nonché del coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita, purché sugli stessi non siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti.

Prendendo le mosse dalle condizioni per l'esercizio del diritto di prelazione, Sez. 3, n. 2092 (Rv. 625000), est. Amendola, ha chiarito che ai fini dell'insorgenza del diritto di prelazione in capo al coltivatore diretto, proprietario di terreni confinanti con quello in vendita, è necessario che la coltivazione duri almeno da due anni, mentre non è indispensabile un periodo minimo di titolarità del diritto dominicale, che può essere stato acquisito in qualunque momento antecedente, purché la coltivazione sia stata effettuata in forza di uno dei titoli giuridici indicati nell'art. 8 della l. n. 590 del 1965; né tale coltivazione deve essere legittimata dalla proprietà del fondo confinante o da un contratto agrario, essendo sufficiente il titolo legittimo.

Sez. 3, n. 6122 (Rv. 625485), est. De Stefano, ha poi precisato che il dato della coltivazione del fondo deve sussistere non solo in termini di attualità, ma anche di prospettiva futura, per porsi tanto quale elemento costitutivo del diritto di prelazione agraria esercitabile dall'affittuario coltivatore diretto e dal mezzadro, quanto come elemento ostativo al diritto di prelazione spettante, invece, al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con il fondo offerto in vendita. Ne consegue che il diritto di prelazione spettante a tale secondo soggetto non è impedito dall'insediamento di un affittuario sul fondo, allorché esso sia privo del carattere di stabilità, ovvero non sia preordinato alla prosecuzione, da parte del suddetto affittuario, dell'attività di coltivazione esistente al momento della stipula dell'atto di acquisto; evenienza - quest'ultima - cui deve essere ricondotta anche una preordinata combinazione negoziale comportante, poco tempo dopo la stipulazione, il subentro nella detenzione del bene da parte di terzi non aventi alcun diritto, con evidente finalità elusiva (e quindi in frode alla citata disposizione di legge) della prelazione del confinante.

La prelazione agraria è esclusa in tutti i casi di permuta rientranti nella definizione datane dall'art. 1552 cod. civ., così come evidenziato da Sez. 3, n. 11954 (Rv. 626210), est. Uccella, che si pone nella scia di un orientamento risalente a Sez. 3, n. 10573 del 1990 (Rv. 469597), e a Sez. 3, n. 5337 del 1994 (Rv. 486846).

Per Sez. 3, n. 6572 (Rv. 625389), est. Ambrosio - la quale si pone nel solco di Sez. n. 3727 del 2012 (Rv. 621655) ma va di contrario avviso all'orientamento assunto dalla meno recente Sez. 3, n. 11757 del 2002 (Rv. 556686) -non è consentita l'applicazione della disciplina della prelazione agraria con riferimento a quelle parti del fondo rustico che abbiano destinazione edilizia, industriale o turistica. Invero, il carattere delle norme oggetto di applicazione impedisce un'interpretazione estensiva delle stesse, altrimenti si tradirebbe la finalità dell'istituto, che è quella di favorire la formazione e lo sviluppo della proprietà contadina: finalità irrealizzabile rispetto alle porzioni aventi le suddette destinazioni; né ha rilievo la prevalenza, per valore o per superficie, della zona agricola rispetto alla restante area. È stato poi del tutto escluso il diritto di riscatto anche in ragione della semplice destinazione "urbano-edilizia" di un fondo, ancorché in concreto ancora non sfruttabile in assenza di piano attuativo (Sez. 3, n. 11762, Rv. 626415, est. Ambrosio).

Ancora in tema di diritto di prelazione solo su una porzione del fondo, Sez. 3, n. 19862 (Rv. 627621), est. Cirillo, riprendendo un principio già espresso da Sez. 3, n. 1103 del 2004 (Rv. 569585), ha evidenziato che è irrituale e priva di effetti la denuntiatio indicante il prezzo complessivo del fondo, qualora il destinatario abbia diritto di prelazione solo su una porzione del fondo stesso, atteso che l'omessa specificazione del prezzo dei singoli lotti impedisce al prelazionario di esercitare il proprio diritto.

Di particolare interesse è Sez. 3, n. 6116 (Rv. 625484), est. De Stefano, la quale indaga sulle conseguenze dell'erronea identificazione dell'oggetto del contratto nel preliminare comunicato al prelazionante e sulle conseguenze nei rapporti tra promittente alienante e promissario acquirente, nonché nei rapporti con il titolare del diritto di prelazione. Si afferma, infatti, che l'erronea identificazione dell'oggetto del contratto, nel preliminare comunicato all'avente diritto alla prelazione, quando l'errore sia comune al promittente venditore e al promissario acquirente (che concordemente hanno inteso l'oggetto del contratto in parte diverso - e, segnatamente, minore - rispetto a quello descritto nell'atto), determina, sul piano dei rapporti interni tra i contraenti, non un errore ostativo che rende annullabile il contratto, bensì una mancanza di consenso sulla promessa vendita di una parte del bene, con la conseguenza che i contraenti non possono ritenersi vincolati al trasferimento anche di quella porzione che avevano, invece, univocamente e congiuntamente inteso escludere. Nondimeno, sul piano dei rapporti con l'avente diritto alla prelazione, poiché il medesimo contratto oggetto di denuntiatio integra nei suoi confronti una proposta contrattuale complessa, si applica la disciplina dell'errore ostativo unilaterale, con l'ulteriore conseguenza che accertata dal giudice di merito la riconoscibilità dell'errore da cui tale proposta era affetta, risulta annullabile il contratto conclusosi ipso iure, in virtù del positivo riscontro da parte dell'avente diritto alla prelazione alla comunicazione del preliminare, tra costui ed il promittente venditore.

Sempre in materia di preliminare di vendita di fondo agricolo, Sez. 3, n. 6120 (Rv. 625487), est. De Stefano, afferma che qualora tale contratto sia sottoposto alla condizione risolutiva dell'esercizio del diritto di prelazione da parte dell'affittuario coltivatore diretto, esso si scioglie quando il prelazionario paga il corrispettivo richiesto nel termine legale di tre mesi, previsto dall'art. 8 della l. n. 590 del 1965. L'abbreviazione di questo termine, eventualmente pattuita nel contratto preliminare, è inopponibile al terzo prelazionario, al quale non può essere imposto dalla volontà di terzi un termine minore di quello legale; mentre, se convenuta autonomamente tra proprietario del fondo e prelazionario, è inopponibile al promissario acquirente, il quale sarebbe altrimenti esposto, per volontà di terzi, al rischio di un più probabile avveramento della condizione risolutiva apposta al preliminare.

Sotto il profilo della legittimazione, nel caso di una pluralità di coltivatori diretti tutti confinanti con il fondo rustico posto in vendita, il diritto di prelazione e il riscatto spetta a ciascuno di loro, come chiarito da Sez. 3, n. 3292 (Rv. 625014), est. Vincenti. Ove, peraltro, si verifichi una situazione di conflittualità, per effetto dell'esercizio della prelazione o del riscatto da parte di due o più dei predetti confinanti, il giudice deve risolvere la stessa prescindendo dalla priorità temporale dell'iniziativa dell'uno o dell'altro. Ne consegue che, a tale fine, alcun rilievo dirimente spiega l'intervenuto giudicato sull'esercizio del riscatto del fondo operato da uno degli aventi diritto, persistendo in capo al singolo retraente l'interesse all'esito positivo della propria azione, in quanto di per sé idoneo ad innescare detta situazione di conflittualità, da decidere in separato giudizio.

In caso di trasferimento della quota di un fondo rustico indiviso facente parte di comunione ereditaria, Sez. 3, n. 25052 (in corso di massimazione), est. Segreto, ha poi ritenuto - adeguandosi ad un pregresso orientamento della S.C. di cui sono espressione Sez. 3, n. 3424 del 1997 (Rv. 503827), e Sez. 3, 1870 del 2006 (Rv. 588991) - che il diritto di prelazione coerede di cui all'at. 732 cod. civ. prevale su quello del coltivatore diretto, mezzadro, colono o compartecipante ex art 8 della l. n. 590 del 1965 ove anche il coerede sia coltivatore diretto.

La violazione, da parte del proprietario del fondo, del diritto di prelazione previsto dagli artt. 8 l. n. 590 del 1965 e dall'art. 7 l. n. 817 del 1971 comporta il diritto del prelazionario ad esercitare il diritto di riscatto previsto dalla legge con esclusione di qualsiasi altro rimedio. Pertanto, come stabilito da Sez. 3, n. 9238 (Rv. 626004), est. Cirillo, poiché la violazione del diritto di prelazione agraria, conseguente alla stipulazione di un contratto preliminare - non oggetto di denuntiatio - tra il proprietario del terreno ed un terzo, non consente all'affittuario di avvalersi né del rimedio risarcitorio, né di quello dell'esecuzione in forma specifica del diritto violato, bensì (una volta intervenuto il contratto definitivo tra quelle stesse parti) esclusivamente di esercitare il diritto di riscatto, deve ravvisarsi carenza di interesse all'azione di mero accertamento esercitata dal prelazionario per far acclarare l'autenticità della sottoscrizione del contratto preliminare, negozio che, di per sé, non implica una lesione attuale del diritto altrui, ma che potrebbe eventualmente produrla soltanto all'esito di una fattispecie complessa, ancora in via di completamento.

L'azione di risarcimento del danno, ricondotta alla comune azione di responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ., è data unicamente nel caso in cui il prelazionario sia destinatario di una proposta di alienazione del fondo ad un prezzo artatamente superiore a quello pattuito tra le parti; in tale ipotesi, infatti, il danno è costituito dal maggior prezzo che il prelazionario dovrà corrispondere all'acquirente al fine di esercitare il diritto di riscatto; riscatto che avverrà inevitabilmente al prezzo simulato e non già a quello realmente corrisposto dall'acquirente al venditore (Sez. 3, n. 14046, Rv. 626743 e 626744, est. Amendola). Ed infatti - come affermato da Sez. 3, n. 1016 (Rv. 624913), est. Amendola, riprendendo un consolidato insegnamento risalente a Sez. 3, n. 8090 del 2006 (Rv. 588861) - il retraente è tenuto a versare esattamente il medesimo prezzo indicato nel contratto di vendita stipulato in violazione del diritto di prelazione, peraltro senza interessi e senza rivalutazione monetaria, a nulla rilevando né che la sentenza di accoglimento della domanda di riscatto sia intervenuta a distanza di tempo dalla vendita, né che il retraente sia rimasto nella detenzione del fondo senza pagare alcun corrispettivo.

Il diritto di riscatto è stato riconosciuto da Sez. 3, n. 8938 (Rv. 625823), est. Giacalone, e da Sez. 3, n. 14049 (Rv. 626697), est. Amendola, anche in caso di vendita del fondo effettuata dal proprietario in pendenza del termine per il pagamento del prezzo da parte del coltivatore che abbia esercitato il diritto di prelazione, in base ad un orientamento ormai consolidato. Invero, pur non costituendo una delle ipotesi previste dall'art. 8 della l. n. 590 del 1965 per l'operatività del diritto al riscatto, la S.C. ha ritenuto di poterla equiparare ad esse e considerarla presupposto idoneo all'esercizio del riscatto da parte del coltivatore pretermesso nei confronti del terzo acquirente. Essa costituisce, infatti, una violazione del diritto ancor più grave che nei casi espressamente previsti dal legislatore, in quanto incide sul diritto già concretamente esercitato, per cui la situazione del coltivatore, così compromessa, esige una tutela non diversa da quella accordata negli altri casi.

Il diritto di riscatto può essere esercitato anche su una porzione del fondo oggetto di vendita, allorquando la stessa è dotata di autonomia produttiva e funzionale. Nel caso in cui, però, il prezzo di vendita sia indicato con riferimento all'immobile nel suo complesso, senza alcun riferimento ai singoli lotti, la già citata Sez. 3, n. 19862 (Rv. 627622), est. Cirillo, afferma che la valutazione della parte riscattata possa essere effettuata, eventualmente a mezzo c.t.u., anche in misura non corrispondente a quella di una quota proporzionale del prezzo pagato per l'intero bene.

Vanno, infine, segnalati alcuni precedenti in materia di esercizio del diritto di riscatto aventi risvolti anche sotto il profilo processuale. Ponendosi in contrasto con l'insegnamento di Sez. 3, n. 6879 del 2008 (Rv. 602223), la Sez. 3, n. 2653 (Rv. 625058), est. Lanzillo, ha affermato che il conduttore di un fondo rustico deve esercitare, nel termine di decadenza, il riscatto del predetto fondo anche nei confronti del coniuge dell'acquirente, in regime di comunione legale dei beni, litisconsorte necessario, in quanto comproprietario. La tempestiva integrazione del contraddittorio nei confronti del comproprietario non chiamato in giudizio vale ad impedire ogni decadenza ed a rendere il retratto opponibile anche nei suoi confronti. Si noti che analogo principio è stato affermato da Sez. Un., n. 9523 del 2010 (Rv. 612667) in materia di prelazione del conduttore di immobili adibiti ad uso commerciale.

Infine, sia Sez. 3, n. 7253 (Rv. 625884), est. Amendola, che Sez. 3, n. 7265 (Rv. 625582), est. Ambrosio, hanno statuito che, ai fini dell'utile esercizio del diritto di riscatto agrario, è onere del retraente fornire la prova delle relative condizioni oggettive e soggettive, ivi compresa la qualità di coltivatore diretto, indipendentemente dal dato formale dell'iscrizione in elenchi o di altre certificazioni amministrative, nonché del fatto negativo della mancata vendita di fondi rustici nel biennio precedente (prova, quest'ultima, che può essere data mediante l'allegazione di fatti positivi contrari, anche per mezzo di testimoni o di presunzioni).

7. I contratti bancari (rinvio).

In materia si registrano interessanti decisioni, che, come avvertito, saranno esaminate nel cap. XXI, § 1.

8. I contratti finanziari (rinvio).

Parimenti, si rinvia al riguardo al cap. XXI, § 2.

9. Fideiussione e garanzie atipiche.

Non molto numerosi sono stati gli interventi della S.C. in materia di fideiussione e garanzie atipiche.

Va prima di tutto ricordata Sez. 1, n. 11979 (Rv. 626321), est. Dogliotti, la quale, in conformità all'orientamento già espresso da Sez. 1, n. 394 del 2006 (Rv. 585547) e con riferimento alla disciplina anteriore alla l. 17 febbraio 1992, n. 154, il cui art. 10 ha modificato l'art. 1956 cod. civ., ha affermato il principio per cui, in caso di fideiussione per obbligazione futura ed in presenza di clausola di dispensa della banca creditrice dall'onere di conseguire una specifica autorizzazione del fideiussore per nuove concessioni di credito in caso di mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore garantito, la garanzia fideiussoria è nulla ogni qual volta il comportamento della banca beneficiaria della fideiussione non sia improntato, nei confronti del fideiussore, al rispetto dei principî di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (nel caso di specie, dopo cinque anni dal recesso del fideiussore e dopo che il passivo accumulato prima di questa data era stato saldato, la banca ha continuato e addirittura intensificato la concessione del credito, pretendendo di chiamare il garante a rispondere del saldo passivo del conto al momento della sua chiusura).

Innovativo è, invece, il principio enunciato da Sez. 1, n. 18086 (Rv. 627330), est. Ceccherini, la quale ha affermato che la responsabilità del creditore nei confronti del fideiussore, per i danni che a questi sarebbero stati cagionati dall'inadempienza delle clausole del contratto costituente il titolo dell'obbligazione garantita, è configurabile esclusivamente sotto il profilo extracontrattuale, nascendo da un rapporto al quale il fideiussore è per definizione estraneo, mentre l'inadempienza medesima può essere fatta valere, oltre che dal debitore, in via di eccezione anche dal fideiussore, nell'esecuzione del contratto di fideiussione, solo al fine di resistere all'azione proposta dal creditore per l'escussione della garanzia.

Nel solco di Sez. 1, n. 7603 del 1997 (Rv. 506777), la S.C. ha, poi, ritenuto che la sospensione del corso degli interessi sancita, agli effetti del concorso, dall'art. 55 legge fall. non si estende al fideiussore del fallito, senza che possano rilevare, in senso contrario, i principî in ordine ai limiti ed all'oggetto della fideiussione di cui agli artt. 1941 e 1942 cod. civ. (così Sez. 1, n. 18951, Rv. 627854, est. Acierno).

Sotto il profilo processuale, Sez. 1, n. 25841 (in corso di massimazione), est. Acierno, ha evidenziato come la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi di un conto corrente bancario, oltre che rilevabile d'ufficio dal giudice, può essere legittimamente eccepita dal fideiussore ai sensi dell'art. 1945 cod. civ., essendo idonea ad alterare l'ammontare complessivo del debito garantito.

Importante ai fini della individuazione dei tratti distintivi di fideiussione e contratto autonomo di garanzia è quanto emerge da Sez. 3, n. 15108 (Rv. 626970), est. Ambrosio. A tal fine, l'esclusione della legittimazione del debitore principale a chiedere che il garante opponga al garantito le eccezioni scaturenti dal rapporto principale e la rinuncia ad opporre eccezioni da parte del garante che, dopo il pagamento, abbia agito in regresso, costituiscono indici di una deroga alla normale accessorietà della garanzia fideiussoria, nella quale invece il garante ha l'onere di preavvisare il debitore principale della richiesta di pagamento del creditore, ai sensi dell'art. 1952, comma secondo, cod. civ., all'evidente scopo di porre il debitore in condizione di opporsi al pagamento, qualora esistano eccezioni da far valere nei confronti del creditore.

Sempre in tema di garanzie atipiche, Sez. Un., n. 13900 (Rv. 626468), est. Vivaldi, ha ritenuto la giurisdizione del giudice italiano del luogo dove ha sede la società, che agisca per l'escussione di una garanzia a prima richiesta, prestata in suo favore da una banca austriaca. Invero, si discute dell'obbligazione derivante da un contratto autonomo di garanzia, in cui, assente il requisito dell'accessorietà, la prestazione del garante, qualitativamente diversa da quella del debitore principale, ha una funzione riparatoria del pregiudizio subìto dal creditore a causa dell'inadempimento di quest'ultimo, attuandosi attraverso il pagamento di una somma di danaro sostitutiva della sua mancata o inesatta prestazione. Pertanto, alla stregua dell'art. 57 della l. 31 maggio 1995, n. 218, nonché degli artt. 4 e 5 della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, resa esecutiva in Italia con la l. 18 dicembre 1984, n. 975, il collegamento più stretto della descritta obbligazione è con l'Italia, ivi avendo sede la società beneficiaria della garanzia, con conseguente sua regolamentazione, ai fini dell'individuazione del luogo della sua esecuzione, ai sensi dell'art. 1182, co. 3, cod. civ., che lo indica nel domicilio del creditore. Tale orientamento è, del resto, conforme a quello già espresso da Sez. Un., n. 19603 del 2008 (Rv. 604269), e da Sez. Un., n. 23593 del 2010 (Rv. 614813).

10. Il giuoco e la scommessa.

Anche nel 2013 la Corte è intervenuta, sia pur con poche pronunce, sulla materia. Ha ribadito quanto già espresso nel 2012 (sentenza n. 16511 del 2012, Rv 623450) sulla estraneità ai principî di ordine pubblico della previsione codicistica della non azionabilità dei debiti di giuoco, con l'effetto della riconoscibilità in Italia, ex artt. 64 e 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, della sentenza straniera contenente la condanna al pagamento del debito di giuoco legalmente autorizzato in quello Stato [Sez. 1, n. 1163 (Rv. 624671) est. Campanile].

Rilevante soprattutto è la sentenza della Sez. 3, n. 13434 (Rv. 626378), est. Carluccio, in tema di criteri di riparto della prova nei concorsi pronostici per l'ipotesi di mancata trasmissione della matrice di giocata. In particolare la Corte ha affermato che la clausola limitativa ai soli casi di dolo e colpa grave della responsabilità dell'ente gestore e dei ricevitori autorizzati per la mancata trasmissione della matrice, così come previsto dall'art. 11 del d.m. 29 ottobre 1957, contenente il Regolamento del concorso pronostici "Enalotto", non altera i normali criteri di riparto dell'onere della prova, secondo gli artt. 1218 e 2697 cod. civ. Per conseguenza il debitore-ricevitore avrà l'onere di provare che l'inadempimento o inesatto adempimento sia dipeso da causa estranea al suo potere di controllo ovvero che la sua attività o inattività concreti colpa lieve, mentre il creditore-scommettitore dovrà dare la prova dell'inesecuzione della prestazione nonché del danno di cui chieda il risarcimento.

11. La locazione.

La giurisprudenza in materia di locazione è stata particolarmente copiosa nel 2013, come da tradizione. Al fine di una esposizione ragionata della stessa, sembra opportuno distinguere tra la disciplina della locazione ad uso abitativo, quella della locazione ad uso non abitativo e la disciplina generale del contratto di locazione per come emerge dal codice civile e dalle leggi speciali.

11.1. Locazione ad uso abitativo.

Un breve cenno va fatto, innanzitutto, a quelle sentenze che si sono occupate di leggi non più vigenti, ma che enunciano principî innovativi o, comunque, ribadiscono principî già affermati ma non consolidati.

In particolare, Sez. 3, n. 18661 (Rv. 625229), est. D'Amico, ha evidenziato che il giudice, adìto con la speciale azione di ripetizione di indebito ex art. 79 della l. 27 luglio 1978, n. 392 (cd. legge sull'equo canone), non può limitarsi, su istanza del solo ricorrente e in assenza di adesione del convenuto, ad una semplice condanna generica sull'an debeatur separato da quello sulla verificazione e quantificazione delle somme che si assumono corrisposte in eccedenza rispetto al canone giudizialmente determinato, ma deve accogliere o rigettare la domanda a seconda della della prova in merito alla fondatezza o meno della stessa in tutti i suoi fatti costitutivi. Invero, la domanda di condanna generica non può essere ritenuta un minus rispetto alla domanda di condanna specifica originariamente proposta.

Sempre in tema di equo canone, la S.C. ha ribadito, poi, un importante principio - già espresso da Sez. 3, n. 21113 del 2005 (Rv. 584443), e, successivamente, da Sez. 3, n. 8143 del 2009 (Rv. 607774) - per cui il termine decadenziale di sei mesi, entro il quale il conduttore ha l'onere di domandare la restituzione delle somme pagate in eccedenza rispetto al canone previsto dalla l. n. 392 del 1978, decorre dalla materiale riconsegna dell'immobile oggetto del contratto (la quale coincide con la data in cui il bene viene posto nell'effettiva disponibilità del locatore) e non dalla cessazione del rapporto giuridico tra le parti (Sez. 3, n. 12994, Rv. 626738, est. De Stefano).

Venendo, invece, alla nuova legge sulle locazioni abitative (l. 9 dicembre 1998, n. 431), vanno prima di tutto evidenziate quelle sentenze che consolidano orientamenti precedenti assunti dalla Corte in materia di rinnovazione di contratti stipulati sotto la vigenza di discipline previgenti. In questo senso, Sez. 3, n. 14866 (Rv. 626685), est. Carleo - riprendendo e precisando il principio già espresso da Sez. 3, n. 7985 del 2010 (Rv. 612446) - chiarisce che l'ultimo comma dell'art. 2 l. n. 431 del 1998, va interpretato nel senso che, se il contratto si rinnova tacitamente nella vigenza di questa legge, per mancanza di una disdetta che il locatore avrebbe potuto fare, ma che non ha fatto, il rapporto resta assoggettato alla nuova disciplina; laddove, invece, la disdetta sia comunque intervenuta tempestivamente, pur se non sostenuta da alcuna particolare esigenza del locatore, come consentito dall'art. 3 della l. n. 392 del 1978, il contratto resta soggetto alla disciplina previgente ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 14 l. n. 431 del 1998.

Pertanto solo se il locatore, dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina, si trova nella possibilità di comunicare la disdetta e non lo fa, il rapporto resta assoggettato alla nuova disciplina integralmente e quindi anche con riferimento alla doppia durata quadriennale: pure in tale ipotesi, infatti, il locatore conserva in pieno la facoltà di scegliere se dare o meno la disdetta in relazione alla legislazione vigente al momento della scelta, con tutti i presupposti e tutte le conseguenze giuridiche dettate da tale legislazione.

Con riferimento, invece, ai contratti di locazione stipulati ai sensi dell'art. 11, comma 2, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. nella l. 8 agosto 1992, n. 359 (cd. contratti con patti in deroga all'equo canone), il medesimo art. 2, comma 6, l. 431 del 1998 deve essere interpretato nel senso che la rinnovazione tacita - la quale, determina la ricaduta del contratto nel regime di cui all'art. 2, comma 1, della predetta legge n. 431 del 1998 - si identifica nella scadenza del secondo periodo di durata del contratto, in relazione al quale il locatore poteva inviare disdetta immotivata ai sensi dell'art. 3 della l. n. 392 del 1978, e non nella scadenza del primo periodo di durata convenzionale, in relazione al quale il locatore poteva provocare la cessazione solo con diniego motivato: cosi Sez. 3, n. 11138 (Rv. 626542), est. Ambrosio, che consolida l'orientamento risalente a Sez. 3, n. 8943 del 2008 (Rv. 602506).

Importanti principî sono stati affermati dalla S.C. in materia di disdetta alla prima scadenza del contratto di locazione ai sensi dell'art. 3 l. n. 431 del 1998. Sez. 3, n. 936 (Rv. 624966), est. Segreto, ha, infatti, applicato in materia di locazioni ad uso abitativo un principio già consolidato in materia di disdetta alla prima scadenza in materia di contratti di locazione ad uso non abitativo ex art. 29 l. n. 392 del 1978 (cfr., ad es., Sez. 3, n. 15547 del 2002, Rv. 558263): quello per il quale nella comunicazione del diniego di rinnovo deve essere specificato, a pena di nullità, il motivo tra quelli tassativamente indicati dalla norma, sul quale la disdetta è fondata, in modo da consentire, in caso di controversia, la verifica ex ante della serietà e della realizzabilità dell'intenzione dedotta in giudizio e, comunque, il controllo, dopo l'avvenuto rilascio, circa l'effettiva destinazione dell'immobile all'uso indicato nell'ipotesi in cui il conduttore estromesso reclami l'applicazione delle sanzioni ivi previste a carico del locatore.

La medesima sentenza (Sez. 3, n. 936, Rv. 624967, est. Segreto) ha altresì precisato che: a) i motivi per i quali è possibile dare disdetta del contratto di locazione alla prima scadenza quadriennale sono tassativamente indicati dall'art. 3 della l. n. 431 del 1998; b) non v'è bisogno di alcuna previsione contrattuale perché il locatore possa esercitare il diritto di disdettare il rapporto alla prima scadenza, cosicché la mancata previsione di tale facoltà non può rilevare come rinuncia implicita.

Ancora in tema di diniego di rinnovo alla prima scadenza, Sez. 3, n. 12250 (Rv. 626409), est. De Stefano, ha chiarito la portata del riferimento dell'art. 3, comma 2, l. n. 431 del 1998 al «possesso (...) della concessione o dell'autorizzazione edilizia», evidenziando che tale locuzione deve intendersi riferita a quegli specifici atti, tra cui la dichiarazione di inizio di attività o la segnalazione certificata di inizio di attività o il permesso a costruire, eventualmente richiesti dalla normativa vigente per la tipologia di intervento da realizzare.

Infine, nel caso di vendita di tutte le proprietà del locatore nell'edificio in cui si trova l'immobile locato (nella specie, si trattava di dismissione del patrimonio immobiliare da parte di amministrazioni pubbliche, della CONSAP e di società derivanti da processi di privatizzazione), Sez. 1, n. 14847 (Rv. 626831), est. Di Amato, ha escluso il diritto di prelazione del conduttore, non ricorrendo un'ipotesi di vendita frazionata di cui all'art. 3, co. 109, della l. 23 dicembre 1992, n. 662 (nella formulazione originaria, applicabile ratione temporis ed anteriore alle modifiche dettate dall'art. 2 della l. 23 dicembre 1999, n. 488), così andando di contrario avviso rispetto a Sez. 2, n. 30 del 2002 (Rv. 551371), e Sez. 3, n. 13750 del 2002 (Rv. 557477).

11.2. Locazione ad uso non abitativo.

Di grande importanza è la pronuncia Sez. Un., n. 11830 (Rv. 626185), est. Vivaldi, la quale è intervenuta a comporre il contrasto esistente in seno alla Terza Sezione civile della Corte sulla operatività, quale effetto ex lege, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, della rinnovazione tacita di cui agli artt. 28 e 29 della legge n. 392 del 1978, e sulla necessità, o meno, che detta rinnovazione necessiti dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione ex art. 560, comma 2, cod. proc. civ. Invero, la giurisprudenza della Corte di cassazione si era espressa in senso favorevole alla necessità dell'autorizzazione, con orientamento costante da Sez. 3, n. del 1970 (Rv. 348934 e 348935), a Sez. 3, n. 1639 del 1999 (Rv. 523626) fino a Sez. 3, n. 10498 del 2009 (Rv. 608094), che aveva affermato l'opposto principio secondo cui, in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa, costituisce un effetto automatico scaturente direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale. A quest'ultima impostazione consegue appunto che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, la rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dall'art. 560, co. 2, cod. proc. civ.

Le Sezioni unite hanno aderito a quest'ultimo orientamento, specificando che la soluzione - applicabile anche al sistema di rinnovazione in difetto di disdetta motivata alla prima scadenza delle locazioni ad uso abitativo di cui agli artt. 2 e 3 l. n. 431 del 1998 - si giustifica in ragione della peculiarità della fattispecie di rinnovo contrattuale regolata dagli artt. 28 e 29 l. n. 392 del 1978, che non presuppone, in alcun modo, un successivo contratto. Esso deriva, non da un implicito accordo tra i contraenti, ma dal semplice fatto negativo sopravvenuto della mancanza della disdetta. Ed il contenuto contrattuale, che disciplina il nuovo periodo di rapporto, non presenta alcun specifico elemento di novità, operanti le clausole del contratto originario, quelle relative alla misura del canone e quelle relative alla durata della locazione, in ogni caso, integrate nel minimo dall'art. 28, l. n. 392 del 1978. Diversamente, nelle ipotesi di successive scadenze contrattuali, rispetto alle quali l'esercizio della disdetta, da parte del locatore, è svincolato da qualsiasi presupposto o condizione.

La circostanza che si è presenza di un effetto automatico ex lege esclude l'applicabilità dell'art. 560 cod. proc. civ. perché la norma in questione, vietando al debitore ed al terzo custode di dare in locazione l'immobile pignorato se non sono autorizzati dal giudice delegato, fa esplicitamente riferimento ad un atto negoziale di volontà che, nella specie, non ricorre. Né risulta applicabile l'art. 560, comma secondo, cod. proc. civ., atteso che l'autorizzazione del giudice alla rinnovazione della locazione si giustifica in ragione della necessità di adottare le misure più vantaggiose relative alla gestione temporanea del bene all'interno della procedura esecutiva. Ma una tale autorizzazione è superflua quando la rinnovazione tacita della locazione ad uso diverso da quello di abitazione alla prima scadenza, di cui agli artt. 28 e 29, l. n. 392 del 1978, derivi direttamente dalla legge, la quale rende irrilevante la disdetta del locatore, se non giustificata dal ricorrere delle cause specificamente indicate dall'art. 29, quali motivi legittimi di diniego della rinnovazione.

Con riferimento, invece, al meccanismo di aggiornamento del canone di locazione di cui all'art. 32 l. n. 392 del 1978, va menzionata Sez. 3, n. 2961 (Rv. 625373 e 625374), est. De Stefano, la quale dapprima - nel solco di un orientamento già affacciatosi nella giurisprudenza della S.C.: Sez. 3, n. 8410 del 2006 (Rv. 591347) - afferma che ogni pattuizione avente ad oggetto non già l'aggiornamento del corrispettivo, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, comma prima, della l. n. 392 del 1978, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti; quindi dichiara la nullità di quelle clausole contrattuali che, in violazione dell'art. 32 citato, consentano aumenti o revisioni del canone in danno del conduttore (clausole contenute nella originaria regolamentazione contrattuale relativa a beni originariamente appartenenti al demanio ferroviario e resi oggetto di locazione privatistica ai sensi dell'art. 15 della l. 17 maggio 1985, n. 210).

Va poi focalizzata l'attenzione sui rapporti tra locazione e cessione o affitto di azienda, con particolare riferimento all'art. 36 l. n. 392 del 1978, a mente del quale il conduttore può sublocare l'immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore, purché venga insieme ceduta o locata l'azienda. Il cessionario (o l'affittuario) dell'azienda subentra nel contratto di locazione relativo agli immobili aziendali per effetto della comunicazione data al locatore dell'avvenuta cessione e, come chiarito da Sez. 1, n. 5845 (Rv. 625715), est. Ceccherini, ciò avviene anche in caso di inadempienza del cedente locatario, purché questa non abbia dato luogo alla risoluzione del contratto.

In caso di affitto di azienda, la qualificazione come sublocazione, ovvero come cessione dell'originaria locazione, del contratto intervenuto tra le parti relativamente all'immobile in cui è esercitata l'azienda non rileva con riguardo all'esclusione della necessità del consenso del locatore - prevista, per entrambi i casi, dall'art. 36 della l. n. 392 del 1978, rispettivamente in deroga agli artt. 1594 e 1406 cod. civ. - ma la distinzione resta, invece, rilevante nei rapporti con il locatore, dal momento che, per le azioni esercitate da o contro il medesimo, la legittimazione ad causam appartiene al conduttore originario nella sublocazione ed al cessionario in ipotesi di cessione del contratto di locazione (Sez. 3, n. 11967, Rv. 626345, est. Barreca).

La già citata Sez. 3, n. 2961 (Rv. 625372), est. De Stefano, ha stabilito, poi, il principio per cui la cessione da parte del locatore del contratto di locazione aziendale, inserita in una complessiva cessione di azienda (o di ramo di azienda), non comporta la scissione del contratto di locazione o di affitto in due sub- rapporti distinti, ciascuno dei quali con un titolare dello status di locatore, bensì il pieno subingresso del cessionario nelle stesse posizioni giuridiche, attive e passive, facenti capo al cedente, purché collegate all'esercizio dell'impresa.

Tuttavia, qualora le parti, nello stipulare un contratto di affitto di azienda, abbiano espressamente disciplinato le sorti del contratto di locazione dell'immobile nel quale è esercitata l'azienda, trova applicazione la disciplina della locazione, che espressamente regola la fattispecie, non operando, invece, il principio di successione automatica del cessionario nei contratti stipulati dal cedente, di cui all'art. 2558 cod. civ. (Sez. 3, n. 11967, Rv. 626344, est. Barreca).

Infine, non ha precedenti il principio stabilito da Sez. 3, n. 4986 (Rv. 625314), est. Chiarini, per il quale in ipotesi di cessione del contratto di locazione, ai sensi dell'art. 36 l. n. 392 del 1978, quale effetto di apposito negozio, separato o contestuale alla cessione azienda, o quale automatica conseguenza del principio di cui all'art. 2558 cod. civ., si verifica la sostituzione di un terzo nel rapporto giuridico preesistente fra cedente e ceduto; pertanto, in virtù dell'art. 1415 cod. civ., non è opponibile al cessionario la simulazione relativa al canone del contratto di locazione intercorso tra il locatore e l'originario conduttore, in mancanza di prova dell'adesione del terzo all'accordo dissimulato, ovvero della sua malafede.

Importanti ed innovativi principî sono stati enunciati anche in materia di indennità per perdita dell'avviamento commerciale ex art. 34 l. n. 392 del 1978, considerata reddito del conduttore soggetto a ritenuta d'acconto da Sez. 3, n. 17943 (Rv. 627870), est. Chiarini, nonché in materia di prelazione e retratto ex art. 38 e 39 della medesima legge.

Viene in rilievo, in particolare, Sez. 3, n. 15876 (Rv. 626912 e 626913), est. Carleo, la quale, in realtà, riprendendo e chiarendo principî già precedentemente espressi in giurisprudenza, regola i rapporti tra l'obbligazione sussistente in capo al locatore e l'obbligazione di rilascio dell'immobile che sorge in capo al conduttore alla scadenza del rapporto. Sostiene la S.C. che dal momento della cessazione del rapporto contrattuale sino a quello del pagamento dell'indennità di avviamento si viene ad instaurare tra le parti un rapporto ex lege, che risulta collegato geneticamente a quello precedente, ma nel quale le rispettive obbligazioni non si pongono in relazione di sinallagmaticità. Ne consegue che il conduttore, rimasto nella detenzione dell'immobile, per sottrarsi all'obbligo di pagamento del canone non può limitarsi ad eccepire la cessazione dell'esercizio dell'attività commerciale (e, dunque, la circostanza che l'immobile è rimasto inutilizzato), né invocare l'applicazione dell'art. 1460 cod. civ., bensì ha l'onere di costituire in mora il locatore offrendo contestualmente, anche in modo informale, la restituzione del bene.

Per quanto riguarda, invece, la prelazione e il riscatto di cui agli artt. 38 e 39 l. n. 392 del 1978, importante è il principio evincibile da Sez. 3, n. 11964 (Rv. 626211), est. Barreca, per il quale i menzionati diritti spettano al conduttore anche anche nel caso in cui l'immobile locato avesse destinazione abitativa secondo il titolo autorizzativo originario ed il mutamento d'uso non sia stato assentito ai sensi della vigente normativa edilizia ed urbanistica, in quanto tale difformità del bene non determina l'illiceità dell'oggetto o della causa del contratto di locazione, salvo che questo non si ponga in diretto contrasto con vincoli di destinazione, rilevanti anche sul piano dei rapporti tra privati, contenuti nella legislazione speciale ovvero negli strumenti urbanistici generali o di attuazione.

Si è poi stabilito che, in caso di riscatto dell'immobile oggetto di vendita cumulativa, il valore dell'unità immobiliare deve essere determinato in una quota proporzionale del corrispettivo globale pattuito, in misura corrispondente al rapporto proporzionale tra il valore catastale rivalutato ed il prezzo effettivamente pagato nell'intero complesso (Sez. 3, n. 15110, Rv. 626897, est. Segreto).

11.3. Disciplina della locazione in generale.

Va prima di tutto segnalata Sez. 6-3, ord. n. 19486 (Rv. 627716), rel. Segreto, la quale, ribadendo l'insegnamento di Sez. 3, n. 5190 del 1993 (Rv. 482226), ha affermato che la presunzione di sublocazione prevista dall'art. 21 della l. 23 maggio 1950, n. 253 - secondo cui, eccetto che per le persone che si sono trasferite nell'immobile insieme al conduttore, «si presume l'esistenza della sublocazione quando l'immobile risulta occupato da persone che non sono al servizio del conduttore o che non sono a questo legate da vincoli di parentela o di affinità entro il quarto grado, salvo che si tratti di ospiti con carattere transitorio» - non può ritenersi abrogata in seguito all'entrata in vigore della l. n. 392 del 1978, ed è quindi applicabile anche con riferimento alla disciplina della sublocazione dettata dall'art. 2 di tale ultima legge.

Sez. 3, n. 3548 (Rv. 625278), est. Frasca, chiarisce poi che l'art. 6, comma primo, l. n. 392 del 1978 («in caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi») trova applicazione anche qualora l'evento della morte riguardi un soggetto che sia in precedenza subentrato, ai sensi della stessa norma, nella posizione di conduttore al conduttore originario, dovendosi escludere che la norma possa operare solo con riguardo alla successione nella posizione di quest'ultimo.

Interessante è poi il rapporto tra il principio generale dell'accessione e il contratto di locazione tracciato da Sez. 6-2, ord. n. 2501 (Rv. 624896), rel. Proto: pur divenendo gli incrementi del bene locato di proprietà del locatore, sia pure con le specifiche modalità dettate dall'art. 1593 cod. civ., è tuttavia in facoltà delle parti di prevedere apposita clausola derogatrice volta ad escludere che il bene immobilizzato nel suolo sia ritenuto dal proprietario di quest'ultimo; in presenza di tale accordo, pertanto, il contratto di locazione, per tutta la sua durata, costituisce titolo idoneo a impedire l'accessione, configurandosi il diritto del conduttore sul bene costruito come diritto non reale, che si estingue con il venir meno del contratto stesso e con il riespandersi del principio dell'accessione.

Del tutto innovativo è poi il principio stabilito da Sez. 3, n. 6580 (Rv. 625388), est. Carluccio, laddove, da un lato, individua i vizi della cosa locata di cui all'art. 1578 cod. civ. esclusivamente nei vizi originari, con esclusione di quelli sopravvenuti, per i quali non può valutarsi né la conoscenza da parte del conduttore, né la colpevole ignoranza da parte del locatore al momento della consegna; e, dall'altro, esclude che la domanda di risarcimento del danno di cui all'art. 1578, comma secondo, cod. civ. sia proponibile autonomamente rispetto a quella di risoluzione del contratto o di riduzione del corrispettivo.

Con riferimento alle obbligazioni del conduttore, viene prima di tutto in rilievo l'obbligo di adottare tutte le misure prescritte dalla legge al fine di garantire la sicurezza dell'attività svolta nell'immobile (la cui violazione determina grave inadempimento contrattuale), al fine di evitare di esporre il locatore al maggior rischio di essere chiamato a rispondere di eventuali danni patiti da terzi e causati dalla omessa adozione delle suddette misure (Sez. 3, n. 14850, Rv. 627018, est. Petti).

Viene, quindi, in rilievo l'obbligo di restituire la cosa locata nel medesimo stato in cui la stessa era stata ricevuta, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della stessa in conformità del contratto: il che significa che se, da un lato, il locatore non può pretendere la condanna del conduttore al risarcimento del danno corrispondente alla spesa per ripristinare le migliori condizioni di manutenzione dell'immobile, come affermato da Sez. 3, n. 15875 (Rv. 626973), est. Carleo; dall'altro, può legittimamente rifiutare di ricevere la restituzione del bene allorquando il conduttore abbia arrecato danni gravi o compiuto sul bene innovazioni non consentite, tali da rendere necessario per il ripristino un esborso di notevole entità. In tal caso, il conduttore, in mora nella restituzione del bene fino a quando non avrà versato le somme necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, sarà anche tenuto al pagamento del canone di locazione: così Sez. 3, n. 12977 (Rv. 626376), est. Amatucci.

Interessante è, infine, il principio enunciato da Sez. 3, n. 9722 (Rv. 626380), est. Vincenti: il locatore, una volta scaduto il contratto, o in previsione della scadenza dello stesso, può stipularne uno nuovo con un diverso conduttore, anche se l'immobile non gli sia stato ancora restituito; tuttavia qualora sia prevedibile, con l'uso dell'ordinaria diligenza, che il primo conduttore si renderà moroso nel rilascio del bene locato, e ciononostante il locatore lo conceda in locazione a terzi, pattuendo volontariamente clausole onerose per l'ipotesi di proprio inadempimento, senza tempestiva e completa informazione dell'originario conduttore, egli non può pretendere dal medesimo il risarcimento di questo maggior danno, ostandovi il disposto dell'art. 1227, comma secondo, cod. civ., in considerazione della propria condotta contraria a buona fede e correttezza. Nel caso di specie, il locatore aveva concesso l'immobile in locazione ad un terzo soltanto due giorni prima della scadenza dell'obbligo di rilascio da parte del precedente inquilino, quando era evidente che quel termine non sarebbe stato rispettato, e pattuendo col terzo una onerosissima penale per ogni giorno di ritardo nella concessione del godimento del bene. La S.C., confermando la sentenza di merito, ha ritenuto il primo conduttore responsabile per il danno da perdita del canone a causa del ritardato rilascio, ma non della penale pattuita dal locatore col terzo.

12. Il mandato.

Con riferimento alla configurabilità del contratto, Sez. 3, n. 18660 (Rv. 627540), est. Carleo, ribadisce un orientamento già espresso da Sez. 2, n. 12248 del 2006 (Rv. 589654) ritenendo che il conferimento di una procura ed il concreto esercizio di essa da parte del soggetto che ne è investito costituiscono - in mancanza di deduzioni in ordine alla riconducibilità della stessa a rapporti gestori attinenti alla rappresentanza di enti giuridici o imprese od altre situazioni o rapporti pure in astratto compatibili con il suo rilascio - elementi sufficienti per affermare che la procura è stata conferita in virtù di un rapporto di mandato, con il conseguente obbligo del rappresentante, ai sensi dell'art. 1713 cod. civ., di rendere il conto dell'attività compiuta e di rimettere al rappresentato quanto ricevuto nell'espletamento dell'incarico.

Di particolare interesse è il principio stabilito da Sez. 3, n. 3635 (Rv. 625425), est. Scarano, in materia di associazione temporanea tra imprese (ATI), rapporti tra impresa mandataria e mandanti e fallimento della mandataria. Osserva la S.C. che la transazione intervenuta tra la impresa mandataria, capogruppo di una ATI, e l'amministrazione committente vincola tutte le imprese partecipanti all'ATI; con la conseguenza che non può essere rescissa in ragione del vantaggio conseguito dall'amministrazione che ha contratto con un'impresa (la capogruppo) che si trovava in stato prefallimentare: ciò sia perché lo stato di pericolo dello stipulante, per condurre alla rescissione del contratto, deve riguardare tutte le imprese partecipanti all'ATI e non una soltanto di esse; sia perché, in ogni caso, il fallimento della società capogruppo non comporta lo scioglimento dell'intero contratto di appalto, il quale può proseguire, se le altre imprese partecipanti all'ATI provvedano a nominare una nuova capogruppo che abbia il gradimento del committente (il che rende inconcepibile uno "stato di pericolo" per le imprese transigenti).

13. La mediazione.

Con riferimento al contratto di mediazione, è importante il principio stabilito da Sez. 3, n. 11539 (Rv. 626787), est. D'Amico, per la quale ai fini del riconoscimento del diritto al compenso per l'attività prestata, l'onere della prova dell'iscrizione nell'albo dei mediatori, così come previsto nella l. 3 febbraio 1989, n. 39, può essere assolto mediante la prova per testimoni o anche per presunzioni; e a tal fine, può essere sufficiente anche il modulo di proposta di acquisto predisposto dal mediatore, dal quale risulti la suddetta iscrizione.

Altrettanto importante è il decisum di Sez. 1, n. 25296 (in corso di massimazione), est. De Chiara, per il quale il contratto preliminare di vendita immobiliare stipulato dall'amministratore eccedendo i propri poteri rappresentativi, in quanto estraneo all'oggetto sociale, non vincola la società e, dunque, quest'ultima, non avendo beneficiato dell'attività di mediazione prestata dal mediatore, non può essere tenuta al pagamento della provvigione.

14. Il mutuo.

In materia di mutuo fondiario Sez. 3, n. 3656 (Rv. 625220), est. Barreca, è intervenuta per l'ipotesi di inadempimento del mutuatario nel contratto disciplinato ratione temporis dal d.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7. Ha statuito in particolare che spetta al giudice di merito accertare se con il precetto notificato al mutuatario inadempiente la banca abbia manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista dall'art. 15 del citato d.P.R., dichiarando espressamente di voler risolvere il contratto di mutuo, o comunque intimando l'immediato pagamento di ogni residua somma ad essa spettante, da cui se ne ricava la medesima volontà per fatti concludenti. Ha pertanto chiarito che, ove il precetto intimi il solo pagamento della parte di credito scaduto alla data della sua notifica senza che la banca manifesti la volontà di valersi della clausola risolutiva, il vincolo nascente dal contratto di mutuo persiste e il debitore potrà continuare a beneficiare della rateizzazione operata dall'originario piano di ammortamento, dovendo corrispondere tuttavia quanto già scaduto, maggiorato degli interessi dovuti ai sensi dell'art. 14 del d.P.R. citato dal giorno della scadenza della rata o delle rate non corrisposte.

Sebbene poi finalizzata alla verifica dei presupposti per la risoluzione di un contratto per eccessiva onerosità, Sez. 3, n. 22808 (in corso di massimazione), est. De Stefano, ha ribadito che deve escludersi la eccessiva onerosità sopravvenuta nel caso del mutuo riferito a valuta non nazionale benché dalle peculiari caratteristiche come nel caso dell'ECU. In tal caso l'alea di un contratto, che a norma dell'art. 1467 cod. civ. non legittima la risoluzione per eccessiva onerosità, comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni originate dalle regolari e normali fluttuazioni di mercato. In tali ipotesi infatti le parti, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, hanno assunto un rischio futuro, estraneo al tipo di contratto prescelto, così rendendo il contratto di mutuo aleatorio in senso giuridico e non solo economico, quanto al profilo della convenienza del medesimo.

15. La rendita.

Quanto alla rendita la Corte, con Sez. 2, n. 7479 (Rv. 625857), est. Mazzacane, è intervenuta per l'ipotesi di accertamento della simulazione di un contratto atipico di mantenimento, denominato vitalizio assistenziale, nella prospettiva che con esso si dissimuli una donazione. La pronuncia ha affermato che l'elemento essenziale della aleatorietà va valutato in relazione al momento della conclusione del contratto, essendo lo stesso caratterizzato dall'incertezza obiettiva iniziale in ordine alla durata della vita del vitaliziato e dalla correlativa eguale incertezza del rapporto tra il valore complessivo delle prestazioni dovute dal vitaliziante legate alle esigenze assistenziali del vitaliziato, ed il valore del cespite patrimoniale ceduto in corrispettivo del vitalizio, potendosi peraltro ritenere presuntivamente provato lo spirito di liberalità tipico della dissimulata donazione, proprio tramite la verifica della originaria sproporzione tra le prestazioni.

16. La transazione.

Con riferimento al contratto di transazione va ricordata unicamente Sez. 3, n. 13189 (Rv. 626737), est. D'Amico, la quale, ponendosi nel solco di Sez. 3, n. 15245 del 2002 (Rv. 558080), ha affermato il principio per cui l'esistenza di una volontà transattiva (o di rinuncia ad altre pretese da parte del creditore) non può essere normalmente desunta dal rilascio della quietanza da parte del creditore, la quale ha natura di atto unilaterale recettizio contenente il riconoscimento, dell'avvenuto pagamento; ciò a meno che, ovviamente, una tale volontà non emerga da specifici elementi di fatto e dal complessivo contenuto del documento, secondo l'accertamento compiuto dal giudice di merito che, ove sorretto da adeguata e corretta motivazione, si sottrae al sindacato di legittimità.

17. Il trasporto.

Anche in materia di trasporto la Corte è intervenuta con interessanti pronunce, soprattutto sulla responsabilità del vettore, la limitazione del risarcimento e la distribuzione dell'onere della prova.

17.1.

Con riguardo al primo aspetto, nel solco di una giurisprudenza oramai costante, Sez. 3, n. 15107 (Rv. 626910), est. Ambrosio, ha affermato che per la perdita delle cose trasportate l'art. 1693 cod. civ. pone a carico del vettore una presunzione di responsabilità ex recepto, che può essere vinta soltanto dalla prova specifica della derivazione del danno da un evento specificatamente identificato e del tutto estraneo al vettore medesimo, ricollegabile ad ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore. Su tale premessa, esaminando una fattispecie di furto della merce durante il trasporto, la Corte ha dunque ribadito che le modalità dell'evento devono collocarsi nell'alveo della assoluta inevitabilità, cioè relazionate a circostanze tali che la sottrazione avvenga con modalità imprevedibili, oppure (evidentemente con riguardo ad ipotesi di rapina) con violenza o minaccia. Così nel caso specifico è stata riconosciuta la responsabilità del vettore che aveva lasciato incustodito l'autorimorchio, con tutta la merce ed i documenti di trasporto, nel piazzale del porto di Livorno, dove in due mesi la medesima ditta aveva subìto altrettanti furti.

Sempre in tema di responsabilità e risarcibilità del danno da perdita della merce Sez. 3, n. 20896 (Rv. 627704), est. Armano, trattando di una ipotesi sottoposta alla disciplina dell'art. 1 della legge 22 agosto 1985, n. 450 ratione temporis vigente, ha statuito che per i trasporti su strada la responsabilità del vettore per il risarcimento dei danni derivanti da perdita o avaria delle cose trasportate è contenuta entro i limiti prestabiliti di valore, salvo il caso di danni cagionati con dolo o con colpa grave. In questo caso tuttavia sul mittente, che invochi un risarcimento in misura più elevata e pari all'intero valore della merce, graverà l'onere di provare il danno, poiché l'art. 1693 cod. civ. disciplina solo l'accertamento della responsabilità, posta presuntivamente a carico del vettore, non anche la quantificazione dei danni.

Con riguardo al trasporto aereo internazionale, poi, Sez. 3, n. 19406 (Rv. 627865), est. Vincenti, afferma che la limitazione del debito ad una somma determinata è fondata sulla disciplina generale che assiste la responsabilità presunta del vettore per il danno alle merci. Tale disciplina può essere superata - con conseguente elisione del limite quantitativo - nell'ipotesi di condotta dello stesso vettore, o di un suo preposto, dolosa ovvero sorretta da "colpa con previsione". La qualità soggettiva della responsabilità va tuttavia provata dal danneggiato, trattandosi di casi in cui, ai sensi dell'art. 25 della Convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, nel testo del Protocollo di modifica dell'Aja del 28 settembre 1955 (recepiti dall'ordinamento italiano rispettivamente con la legge 19 maggio 1932 n. 841 e con la legge 3 dicembre 1962 n. 1832), sono escluse le limitazioni di responsabilità per i danni alle cose, previste in generale dall'art. 22 della Convenzione medesima.

Ancora in materia di limitazione della responsabilità del vettore la Corte è intervenuta per l'ipotesi del calcolo del danno nel caso di perdita o avaria delle cose avvenuto in epoca anteriore alla novella dell'art. 1696 cod. civ. In particolare la Sez. 3, n. 18657 (Rv. 627430), est. Vivaldi, ha affermato che in forza del principio sancito dall'art. 11 delle preleggi e in ragione della necessità che le relative deroghe - come affermato dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - trovino razionale ed adeguata giustificazione in motivi imperativi di interesse generale, i limiti di responsabilità del vettore previsti dall'art. 1696 cod. civ., come novellato dall'art. 10 del d.lgs. 21 novembre 2005, n. 286 (che ha per oggetto la liberalizzazione regolata dell'esercizio dell'attività di autotrasporto di cose per conto di terzi ed il contestuale raccordo con la disciplina delle condizioni e dei prezzi dei servizi di autotrasporto di merci per conto di terzi) non trovano applicazione a fattispecie contrattuali perfezionate nei loro elementi e consumate nella loro esecuzione anteriormente all'entrata in vigore di detto ius superveniens.

17.2.

Di rilievo è anche quanto statuito da Sez. 3, n. 19225 (Rv. 627791), est. Carluccio, in tema di rapporti negoziali tra mittente, vettore e terzo destinatario. Sul punto infatti la pronuncia ha puntualizzato che il contratto di trasporto, quando il destinatario è persona diversa dal mittente, si configura come contratto tra mittente e vettore a favore del terzo destinatario. I diritti di quest'ultimo, ed i suoi conseguenti obblighi verso il vettore, nascono con la consegna delle cose a destinazione o con la richiesta di consegna, che integra la "dichiarazione di volerne profittare", ai sensi dell'art. 1411 cod. civ., e segna il momento in cui il destinatario fa propri gli effetti del contratto, da tale momento potendosi il vettore rivolgere solo a lui per il soddisfacimento del credito di rimborso e corrispettivo.

18. La vendita.

Le pronunce sul contratto di vendita sono numerose, toccando tutte le principali questioni giuridiche del tipo negoziale in esame.

18.1.

Copiose sono innanzitutto le sentenze in materia di garanzia per vizi, tra le quali non si segnalano novità in ordine all'interpretazione della disciplina, ma utili puntualizzazioni e chiarimenti. La Sez. 2, n. 23970 (Rv. 628023), est. Bursese, afferma che in tema di garanzia per vizi della cosa il riconoscimento dei difetti da parte del venditore, che esonera il compratore dall'onere della tempestiva denuncia in forza della previsione dell'art. 1495, comma secondo, cod. civ., può avvenire anche tacitamente, per facta concludentia, come nel caso in cui lo stesso venditore provveda alla sostituzione della cosa (nel caso di specie il fornitore di materiale edile aveva "sua sponte" provveduto alla sostituzione dell'intera fornitura). Sempre sulla rilevanza della condotta tenuta dal venditore in ordine all'emergenza del vizio della cosa, Sez. 2, n. 18050 (Rv. 627297), est. Migliucci, confermando un precedente del 2004 (Sez. 2, n. 4968), chiarisce che il riconoscimento da parte del venditore concerne la materiale esistenza del vizio, non essendo invece necessario, sempre ai fini dell'esclusione della necessità della denuncia da parte del compratore, una ammissione di responsabilità del venditore medesimo. D'altronde sotto il profilo soggettivo, anche qui nel solco di una giurisprudenza datata ma mai mutata, Sez. 2, n. 1258 (Rv. 624675), est. Scrima, statuisce che la conoscenza del vizio, che esclude la garanzia ai sensi dell'art. 1491 cod. civ., si ha quando il compratore abbia acquisito la certezza obiettiva dello stesso nella sua manifestazione esteriore, ancorché non ne abbia individuato la causa.

Chiara è poi l'affermazione, in Sez. 2, n. 12458 (Rv. 626514), est. Migliucci, che l'obbligazione del venditore di consegna della cosa con la qualità pattuita rientra tra quelle di risultato, con la conseguenza che, accertata la mancanza della qualità concordata, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. è suo onere fornire la prova diretta ad escludere il proprio colpevole inadempimento. A proposito della distribuzione dell'onere della prova, poi, merita menzione Sez. 2, n. 20110 (Rv. 627467), est. Migliucci, secondo cui è sufficiente che il compratore alleghi l'inesatto adempimento, ovvero denunci la presenza di vizi che rendano la cosa inidonea all'uso al quale è destinata, o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, mentre è a carico del venditore, tenuto ad una obbligazione di risultato ed in forza del principio della riferibilità o vicinanza della prova, l'onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni, di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto, o la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione del bene. La sentenza aggiunge che se questa prova venga fornita, spetterà a sua volta al compratore dimostrare l'esistenza di un vizio o di un difetto intrinseco della cosa, ascrivibile al venditore.

Parimenti Sez. 2, n. 18125 (Rv. 627302), est. Carrato, afferma che l'onere della prova dei difetti della cosa venduta, delle conseguenze dannose, e del nesso causale fra gli uni e le altre fa carico al compratore, mentre la prova liberatoria della mancanza di colpa, incombente sul venditore, rileva solo quando la controparte abbia dimostrato la denunciata inadempienza.

Quanto al concetto di «gravità» del vizio della cosa, che legittima l'acquirente all'esercizio della azione di risoluzione del contratto, da ultimo Sez. 2, n. 21949 (Rv. 628314), est. Carrato, ha affermato che gli artt. 1490 e 1492 cod. civ. in tema di azione redibitoria, al pari dell'art. 1497 cod. civ., vanno interpretati con riferimento al principio generale sancito dall'art. 1455 cod. civ., con la conseguenza che l'esercizio dell'azione è legittimato soltanto da vizi concretanti un inadempimento di non scarsa importanza, i quali non sono distinti in base a ragioni strutturali, ma solo in funzione della loro capacità di rendere la cosa inidonea all'uso cui era destinata o di diminuirne in modo apprezzabile il valore, secondo un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito. Il principio appare in contrasto con quanto affermato dalla medesima Sez. 2 con le sentenze n. 22415 del 2004 (Rv. 578466), e n. 3398 del 1996 (Rv. 496945), mentre riprende l'interpretazione resa da Sez. 2 con la sentenza n. 914 del 1986 (Rv. 444439). Nelle prime due pronunce si afferma che in tema di garanzia per vizi della cosa venduta, e per il caso in cui l'azione di riduzione del prezzo sia accordata al compratore in via concorrente con quella di risoluzione, come previsto dall'art. 1492, primo comma, cod. civ., è inammissibile la domanda di riduzione esperita in subordine alla proposizione a titolo principale della azione di risoluzione, collegandosi entrambe ai medesimi presupposti, cioè la sussistenza di vizi con le caratteristiche fissate dall'art. 1490 cod. civ., il quale contiene una disciplina completa della materia, non integrabile con le regole dell'art. 1455 cod. civ. sull'importanza dell'inadempimento, restando dunque escluso un rapporto di subordinazione fra le succitate domande. Nella sentenza più datata, risalente al 1986, al contrario l'esercizio dell'azione redibitoria è interpretato con riferimento al principio generale sancito dall'art. 1455 cod. civ. in materia di risoluzione del contratto, sicchè alla azione si è legittimati soltanto da vizi concretanti un inadempimento di non scarsa importanza. Sul punto è dato peraltro rilevare ulteriori arresti, che cercano di ricostruire il rapporto tra gli artt. 1492 e 1455 cod. civ. in ordine ai presupposti per l'esercizio dell'azione di risoluzione in esse contenute, come Sez. 2, n. 22416 del 2004 (Rv. 578330), che reputa manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata sull'assunto che la prima norma (art. 1492) prevederebbe possibilità di risoluzione del contratto troppo ampie, e in casi del tutto eccentrici rispetto a quelli previsti dalla seconda (basata sull'inadempimento di non scarsa importanza), sia perché l'apparente maggiore ampiezza del ricorso alla azione risolutiva sarebbe compensata dai ristretti termini di decadenza, con l'effetto di impedire comunque un lungo utilizzo del bene prima che il compratore lo restituisca al venditore, sia soprattutto perché nell'ipotesi di vizi della cosa il legislatore avrebbe già operato una valutazione diretta dell'importanza dell'inadempimento in relazione ai presupposti dell'inidoneità della cosa all'uso cui è destinata o dell'apprezzabile diminuzione del suo valore. Da tali conclusioni deve dunque dedursi una distinzione del concetto di gravità dell'inadempimento tra le due fattispecie normative. Ulteriore ricostruzione sembra offrire poi Sez. 2, n. 10922 del 2005 (Rv. 581189), che, sia pur argomentando su altra questione, sostiene la differenza tra la fattispecie contemplata dall'art. 1497 cod. civ. relativa alla mancanza di qualità della cosa venduta, che per gravità dell'inadempimento riconduce alla fattispecie dell'art. 1453 cod. civ. ed espressamente alla non scarsa importanza dell'inadempimento medesimo, e quella prevista dagli artt. 1490 e 1492 cod. civ. in tema di vizi della cosa, ontologicamente distinti e dunque (implicitamente) autonomi rispetto al requisito della non scarsa importanza, richiesto dall'art. 1455 cod. civ. Trattasi dunque di questione interpretativa sulla quale non si registra, negli anni, un orientamento univoco.

Sempre in tema di garanzia per i vizi della cosa rilevante è, per la sua specificità, Sez. 2, n. 18202 (Rv. 627306), est. Correnti, secondo cui la trasformazione o l'alienazione della cosa acquistata di per sé non preclude al compratore l'azione di risoluzione contrattuale prevista dall'art. 1492, terzo comma, cod. civ., se quella condotta non evidenzia univocamente che il compratore, consapevole dei vizi, abbia inteso accettare la cosa rinunciando alla maggiore tutela risarcitoria rispetto alla riduzione del prezzo. In tal caso sarà ugualmente ammissibile la domanda di risoluzione contrattuale e, attesa l'impossibilità della restituzione in natura del bene affetto da vizi ma trasformato o alienato, gli effetti restitutori devono essere ordinati per equivalente, nei limiti in cui, tenendo conto dei vizi medesimi, la cosa abbia fornito utilità al compratore.

Deve infine segnalarsi in tema la pronuncia emessa da Sez. 2, n. 267 (Rv. 624590), est. Proto, secondo cui il compratore il quale, lamentando vizi della merce acquistata, la restituisca al venditore e non ne accetti poi la riconsegna, può comunque agire, ove sia esclusa la sussistenza dei vizi e perciò la risoluzione del contratto, per la ripetizione dell'indebito ex art. 2037 cod. civ., rinvenendosi il presupposto della traditio nel ricevimento da parte del venditore di cose ormai di proprietà dell'acquirente. Di contro sulla parte venditrice, che riceve in restituzione la merce e non si liberi dell'obbligo di consegna mediante il deposito nelle forme dell'art. 1210 cod. civ., o attraverso la procedura di vendita di cui all'art. 1211 cod. civ., grava un obbligo di ripetizione o di custodia, ancorchè si sia adoperata per il ritrasferimento alla parte acquirente e questa l'abbia rifiutato.

18.2.

Di rilievo, ancorchè non vi siano mutamenti nell'interpretazione della disciplina, sono anche le pronunce della Corte in tema di vendita di aliud pro alio e differenza dalla carenza di qualità della cosa venduta, questione che alimenta il contenzioso per le sue incertezze pratiche e le non marginali diverse conseguenze giuridiche, soprattutto con riferimento ai termini di prescrizione delle azioni a tutela del compratore. Sez. 2, n. 20996 (Rv. 627827), est. Correnti, ribadisce il principio secondo cui l'ipotesi di aliud pro alio si verifica quando la cosa consegnata sia completamente diversa da quella pattuita, appartenendo ad un genere diverso e rivelandosi del tutto inidonea ad assolvere la destinazione economico-sociale della res dedotta come oggetto del contratto. La pronuncia si segnala perché, nella concreta ipotesi esaminata, in ordine alle caratteristiche del bene compravenduto privilegia precipuamente la finalità economica perseguita dalla parte acquirente prima ancora della funzione tipica della cosa stessa. Infatti la fattispecie riguardava l'acquisto di una autovettura alimentata a GPL e, accertata la circostanza della mancata omologazione dell'impianto, la Corte ha ravvisato la vendita di aliud pro alio sull'assunto che l'acquirente, nel concordare l'acquisto di una autovettura con quel particolare tipo di alimentazione, aveva l'evidente scopo di risparmiare sui costi del carburante, sicché la sua inidoneità faceva venir meno la specifica utilità insita nell'acquisto, essendo invece irrilevante che il mezzo potesse essere utilizzato a benzina.

Sempre sulla distinzione tra vendita di aliud pro alio e carenza delle qualità promesse Sez. 2, n. 13612 (Rv. 626284), est. Proto, ha affermato che in caso di compravendita di un'area fabbricabile in funzione di un determinato progetto edilizio, rivelatosi inattuabile per la minore potenzialità edificatoria del fondo rispetto a quella sulla quale il compratore aveva fatto affidamento, la responsabilità del venditore, derivante dalla situazione di fatto prospettata, non corrisponde ad una ipotesi di vendita di cosa diversa da quella pattuita, essendo il bene immutato sia nella sua materialità che nella sua idoneità ad essere edificato, mentre la circostanza che sul suolo acquistato possa essere costruito un edificio di superficie minore rispetto a quella stimata incide unicamente sulle qualità promesse.

Esaminando poi una ipotesi di cessione di azienda, Sez. 1, n. 5845 (Rv. 625716), est. Ceccherini, ha statuito che l'avviamento non è un bene compreso nell'azienda, dovendosi pertanto escludere un vizio della cosa venduta disciplinato dall'art. 1490 cod. civ., ma una qualità immateriale dell'azienda stessa che può essere promessa nel contratto di vendita e il cui difetto dà luogo alla fattispecie di inadempimento di cui all'art. 1497 cod. civ. in tema di carenze delle qualità promesse, con la conseguenza che la sua mancanza o il suo valore inferiore a quello pattuito non possono essere poste a fondamento dell'azione di riduzione del prezzo di cui all'art. 1492 cod. civ., ma solo di risoluzione ex art. 1453 cod. civ.

18.3.

Alcune pronunce si sono poi occupate di particolari contratti di vendita e della tutela apprestata per l'acquirente nella ipotesi di inadempimenti parziali del venditore. Sotto quest'ultimo profilo va menzionata Sez. 2, n. 23157 (in corso di massimazione), est. Manna, la quale statuisce che nella vendita di immobili destinati ad abitazione il venditore-costruttore ha non solo l'obbligo di trasferire un fabbricato conforme all'atto amministrativo di assenso della costruzione, e dunque idoneo ad ottenere l'agibilità prevista, ma anche di consegnare all'acquirente il relativo certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio. L'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di danno emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio o a ritenere l'immobile con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe.

Con riferimento alla actio quanti minoris invece Sez. 2, n. 2060 (Rv. 624942), est. Giusti, ha sancito che in ipotesi di trasferimento della proprietà su una porzione di bene inferiore a quanto previsto nell'accordo negoziale, l'obbligazione del venditore di restituire parte del prezzo, conseguente all'accoglimento della azione prevista dall'art. 1480 cod. civ., ha natura di debito di valuta, trattandosi non di una obbligazione risarcitoria ma di un rimborso a favore dell'acquirente, derivante dal venir meno, per effetto dell'accertamento della parziale alienità della cosa, dell'obbligazione del pagamento del prezzo. L'eventuale riconoscimento della rivalutazione della somma, oltre che degli interessi, non prova la natura di debito di valore, ma va ricondotto nell'esigenza di soddisfare il compratore per il suo distinto diritto al risarcimento del danno, previsto dall'art. 1480 cod. civ., quale conseguenza dell'inadempimento del venditore all'obbligazione di trasferire per intero la proprietà.

Sotto il secondo profilo si segnala la Sez. 2, n. 16182 (Rv. 627003), est. Carrato, la quale afferma che nelle vendite da piazza a piazza, stipulate tra commercianti ed avente ad oggetto merce per sua natura destinata al commercio, la semplice consegna di questa dal preteso venditore al vettore, in difetto di qualsiasi idonea prova dell'esistenza di una preventiva proposta del preteso acquirente non comporta conclusione del contratto ai sensi dell'art. 1327, primo comma, cod. civ., mancando la configurazione dell'elemento essenziale di una valida richiesta del proponente affinché l'esecuzione possa tener luogo dell'accettazione espressa, e ciò ai fini della conclusione del contratto secondo quanto richiede la norma generale di cui all'art. 1325, n. 1, cod. civ. Si segnala anche Sez. 2, n. 15792 (Rv. 627002), est. Scalisi, che in tema di vendite su campione enuncia che per identificare tale contratto ai sensi dell'art. 1522 cod. civ. è necessaria la volontà delle parti espressa nel senso di assumere il campione come esclusivo paragone per la qualità della merce; in caso contrario la vendita deve intendersi ai sensi del secondo comma "su tipo di campione", dovendosi ritenere che le parti, come di regola e prevalentemente avviene, abbiano assunto il campione per indicare in modo approssimativo la qualità della merce venduta.

18.4.

Devono menzionarsi anche alcune pronunce in tema di preliminare di vendita, che per un verso segnalano l'immutazione degli orientamenti interpretativi della Corte, puntualizzandone tuttavia i risultati, per altro verso manifestano, al pari dell'anno precedente, la prosecuzione dell'opera di anticipazione al preliminare dei rimedi e più in generale della disciplina propria del contratto definitivo.

Sotto tale ultimo profilo si segnala Sez. 2, n. 23591 (Rv. 628025), est. Parziale, secondo cui il contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è nullo per la comminatoria di cui all'art. 40 comma secondo della legge 28 febbraio 1985 n. 47, che, sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, che pur ha efficacia meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per contrarietà a norma imperativa. Ancora sul tema poi, per un preliminare di vendita a corpo, Sez. 2, n. 20393 (Rv. 627616), est. Manna, ha affermato che, poiché il contratto preliminare è regolato anche dalle norme integrative della disciplina del contratto, tra le quali quella dell'art. 1538 cod. civ., è legittimo il rifiuto alla stipulazione del definitivo di vendita da parte del promissario acquirente, che pretenda la riduzione del prezzo, opponendo con fondamento - o comunque senza colpa - che la misura reale del bene è inferiore ad un ventesimo rispetto a quella indicata nel contratto (nel caso di specie demandandosi al giudice di merito la valutazione del fondamento della questione sollevata sulla misura dell'immobile).

Il contratto preliminare di vendita è stato esaminato sotto molteplici profili dalla Corte. Di rilievo è l'attenzione rivolta da Sez. 2, n. 952 (Rv. 624973), est. Scrima, sull'oggetto del preliminare di vendita di immobili, che può essere determinato attraverso atti e fatti storici esterni al negozio, anche successivi alla sua conclusione, nella sola ipotesi in cui l'identificazione del bene da trasferire avvenga in sede di conclusione consensuale del contratto definitivo, non invece quando si renda necessaria la pronuncia giudiziale ex art. 2932 cod. civ. In questa seconda ipotesi infatti occorre che l'individuazione dell'immobile, con l'indicazione dei confini e dei dati catastali, risulti dal preliminare, dovendo la sentenza corrispondere esattamente al contenuto del contratto, senza poter attingere da altra documentazione i dati necessari al trasferimento del bene (nel caso di specie il terreno oggetto del preliminare, del quale era indicata la sua sola superficie, genericamente descritta come parte di un mappale, ma non la sagoma e l'esatta collocazione dell'area, è stato ritenuto carente dei parametri di determinabilità, per cui la Corte ha confermato la sentenza di merito di rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica).

Quanto agli effetti del preliminare in riferimento al suo contenuto, Sez. 2, n. 15546 (Rv. 626898), est. Parziale, statuisce, nella ipotesi di preliminare di vendita eseguito ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., che la sentenza è destinata ad attuare gli impegni assunti dalle parti anche con riguardo all'ammontare del prezzo. Questo dunque deve essere quello fissato nel medesimo contratto a efficacia obbligatoria e, avendo natura di debito di valuta, resta esclusa la possibilità di una rivalutazione automatica in ragione del ritardo rispetto alla data prevista per la stipulazione del definitivo, salva diversa pattuizione in forza della quale i contraenti, nell'esercizio della autonomia negoziale, avessero espressamente previsto maggiorazioni o correttivi per compensare la svalutazione causata da ritardo.

Sez. 2, n. 23035 (Rv. 628004), est. Piccialli, ribadisce che il promissario acquirente di un fondo agricolo, che ne abbia conseguito la disponibilità a titolo di anticipata esecuzione di un contratto preliminare poi dichiarato nullo, dovendo qualificarsi come detentore e non possessore della cosa, è tenuto a restituire non solo il bene indebitamente goduto, ma anche le utilità ab initio ricavate dal fondo, non applicandosi la disposizione di cui all'art. 1148 cod. civ., la quale limita temporalmente l'obbligo restitutorio dei frutti con decorrenza dalla domanda giudiziale per il possessore in buona fede non anche per il mero detentore.

Sempre per le ipotesi di preliminari con i quali è stato anticipato il trasferimento materiale del bene ma a cui non è seguita la stipula del definitivo, Sez. 2, n. 16629 (Rv. 626935), est. Scalisi, afferma che la sopravvenuta inefficacia di un contratto preliminare di compravendita, a seguito della prescrizione del diritto da esso derivante alla stipulazione del contratto definitivo, comporta per il promissario acquirente, che abbia ottenuto dal promittente venditore la detenzione anticipata della cosa, l'obbligo di restituzione della cosa stessa e degli eventuali frutti a norma dell'art. 2033 cod. civ. Secondo la stessa pronuncia non sorge invece una obbligazione risarcitoria in favore del proprietario dell'immobile per il mancato godimento del bene nel periodo successivo al compimento della prescrizione.

Per concludere sul preliminare si menziona Sez. 2, n. 5033 (Rv. 625172), est. Parziale, che per l'ipotesi del contratto che contenga la clausola con la quale le parti escludano la risoluzione per colpa del promittente venditore pure in caso di insanabilità urbanistica dell'immobile, afferma che essa non vale di per sé a rendere aleatorio il contratto, il cui scopo comune resta volto al trasferimento della proprietà, rispetto al quale l'abusività della costruzione per mancato rilascio della concessione edilizia preclude la stipula del definitivo. Tale fattispecie trova collocazione nella impossibilità sopravvenuta dell'obbligazione, stante il divieto normativo della commerciabilità del bene, che legittima il promissario acquirente, pur in presenza della predetta clausola, a richiedere la restituzione della caparra versata in occasione della promessa di vendita, la cui ritenzione da parte del promissario acquirente è ormai divenuta senza titolo.

  • obbligazione

CAPITOLO XII

LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE

(di Giacomo Maria Nonno )

Sommario

1 La ripetizione di indebito. - 2 L'ingiustificato arricchimento.

1. La ripetizione di indebito.

Nel 2013 la produzione giurisprudenziale in materia di obbligazioni nascenti dalla legge (pagamento di indebito, gestione di affari, ingiustificato arricchimento), non è stata molto copiosa.

In materia di indebito oggettivo, si registrano cinque sentenze che meritano una segnalazione, per ragioni diverse.

Innanzitutto, Sez. 3, n. 13207 (Rv. 626695), est. Giacalone, si sofferma sulla natura giuridica dell'azione prevista dagli artt. 2033 ss. cod. civ., evidenziando che la stessa ha per suo fondamento l'inesistenza dell'obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto, o perché venuto meno successivamente, a seguito di annullamento, rescissione, o inefficacia connessa ad una condizione risolutiva avveratasi; ed ha escluso l'operatività dell'istituto allorquando l'obbligazione trova la sua fonte nel contratto.

Interessante è poi la pronuncia della Sez. 6-1, ord. n. 7347 (Rv. 625741), rel. Acierno, in materia di conto corrente bancario. Si è affermato, infatti, l'interesse della banca ad agire con l'azione ex art. 2033 cod. civ. nei confronti del correntista che aveva indebitamente percepito alcune somme di proprietà del medesimo ente creditizio, indipendentemente dall'azione risarcitoria intrapresa, per la medesima perdita patrimoniale, nei confronti del dipendente, il cui comportamento illecito sia stato fonte di pregiudizio economico.

La legittimazione ad agire con l'azione di ripetizione di indebito ex art. 2037 cod. civ. è stata riconosciuta anche in capo al compratore allorquando sia stata esclusa la risoluzione del contratto per vizi della cosa acquistata, sebbene egli, avendo in precedenza lamentato tali vizi, la abbia restituita al venditore e non ne abbia accettato successivamente la riconsegna. Invero, il presupposto della traditio è stato rinvenuto, in tale ipotesi, nel ricevimento da parte del venditore di cose oramai di proprietà dell'acquirente (Sez. 2, n. 267, Rv. 624590, est. Proto).

Vi sono poi due importanti sentenze che segnano l'una il verosimile superamento di un contrasto interpretativo in seno alla S.C., l'altra il sorgere di un orientamento difforme rispetto ad altro orientamento tenuto in passato.

La prima sentenza riguarda un'ipotesi di improseguibilità di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, con decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo, a seguito di dichiarazione di fallimento ovvero di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa del debitore ingiunto. Sez. 1, n. 3401 (Rv. 625148), est. Di Amato, ha ritenuto - in conformità a Sez. 1, n. 6098 del 2006 (Rv. 588343), ma in difformità rispetto al più risalente orientamento espresso da Sez. 1, n. 7359 del 2001 (Rv. 547247), e Sez. 1, n. 13444 del 2003 (Rv. 566831) - che il pagamento ricevuto dal creditore in forza della provvisoria esecuzione del decreto fosse indebito e, in tal caso, la domanda di ripetizione dovesse ritenersi implicitamente contenuta nella richiesta degli organi della procedura di declaratoria di improseguibilità dell'azione di pagamento, posto che una siffatta istanza, se accolta, determina determina di per sé l'esigenza di ripristino della situazione patrimoniale antecedente, indipendentemente dall'accertata esistenza di un indebito oggettivo.

La seconda sentenza - Sez. L, n. 11922 (Rv. 626487), est. Curzio - si pone in difformità rispetto a Sez. L, n. 5167 del 1998 (Rv. 515763), est. D'Angelo, ed è pronunciata in materia di indebito previdenziale: la speciale disciplina dettata dall'art. 1, co. 260, l. n. 23 dicembre 1996, n. 662 riguarda tutti i soggetti che abbiano indebitamente percepito prestazioni pensionistiche, sempre che sussistano le condizioni di reddito specificate nella norma, senza possibilità di distinzione in ragione della causa che ha dato luogo all'indebito, dovendosi escludere l'applicabilità dell'ordinaria disciplina dell'indebito civile ex art. 2033 cod. civ., anche qualora sia stata accertata l'insussistenza del rapporto di lavoro subordinato cui si riferiva la posizione assicurativa.

2. L'ingiustificato arricchimento.

Mentre non si segnalano particolari sentenze di rilievo in materia di gestione d'affari, quattro sono, infine, le sentenze che meritano una segnalazione tra quelle emesse in materia di ingiustificato arricchimento.

Sez. 1, n. 20226 (Rv. 627805), est. Lamorgese, si è soffermata sui presupposti dell'azione generale di arricchimento senza causa, evidenziando che l'arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di un altro soggetto devono essere provocati da un unico fatto costitutivo e devono essere entrambi mancanti di causa giustificatrice. Inoltre, l'arricchimento può anche consistere in un risparmio di spesa, purché ingiustificato, nel senso che la spesa risparmiata dall'arricchito debba essere stata sostenuta da altri senza ragione giuridica. Così non ricorrevano gli estremi di operatività dell'istituto nel caso di un pagamanto effettuato da una banca, svolgente il servizio di tesoreria per conto di un comune, in favore di terzi creditori del comune medesimo in quanto il risparmio di spesa così ottenuto dall'ente locale trovava giustificazione in una sentenza della Corte dei conti, che aveva condannato l'istituto tesoriere a reintegrare il fondo-cassa comunale, depauperato per effetto di delibere annullate o prive di esecutorietà.

Confermando un precedente orientamento assunto da Sez. 1, n. 10884 del 2007 (Rv. 597523), la Sez. 1, n. 16820 (Rv. 627133), est. Giancola, ha evidenziato che, ai fini dell'utile versum dell'azione di arricchimento senza causa proposta nei confronti della P.A., non rileva l'utilità che l'ente confidava di realizzare, bensì quella che ha in effetti conseguito e che, quando la prestazione eseguita in suo favore sia di carattere professionale, quale la redazione del progetto di un'opera pubblica, può consistere anche nell'avere evitato un esborso o una diversa diminuzione patrimoniale cui, invece, sarebbe stato necessario far fronte o ve fosse mancata la possibilità di disporre del risultato della prestazione medesima.

Sempre in tema di azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., Sez. 1, n. 9486 (Rv. 626153), est. Salvago, ha ritenuto che il riconoscimento dell'utilità dell'opera e la configurabilità stessa di un arricchimento restano affidati a una valutazione discrezionale della sola P.A. beneficiaria, unica legittimata - mediante i suoi organi amministrativi o tramite quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà - ad esprimere il relativo giudizio, che presuppone il ponderato apprezzamento circa la rispondenza, diretta o indiretta, dell'opera al pubblico interesse, senza che possa operare in via sostitutiva la valutazione di amministrazioni terze, pur se interessate alla prestazione, né di un qualsiasi altro soggetto dell'amministrazione beneficiaria. Tale riconoscimento può essere esplicito o implicito, occorrendo, in quest'ultimo caso, che l'utilizzazione dell'opera sia consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente, in quanto la differenza tra le due forme di riconoscimento sta solo nel fatto che la prima è contenuta in una dichiarazione espressa, mentre la seconda si ricava da un comportamento di fatto, tale da far concludere che il suo autore abbia inteso conseguire uno specifico risultato.

Per quanto riguarda i criteri di liquidazione dell'indennizzo, Sez. 3, n. 1889 (Rv. 624953), est. D'Amico - in conformità all'indirizzo già assunto dalla menzionata Sez. 1, n. 10884 del 2007 (Rv. 597524) - ha statuito che lo stesso, in quanto credito di valore, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia ed il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo. La somma così liquidata produce interessi compensativi, i quali sono diretti a coprire l'ulteriore pregiudizio subìto dal creditore per il mancato e diverso godimento dei beni e dei servizi impiegati nell'opera, o per le erogazioni o gli esborsi che ha dovuto effettuare, e decorrono dalla data della perdita del godimento del bene o degli effettuati esborsi, coincidente con quella dell'arricchimento.

  • responsabilità
  • danno

CAPITOLO XIII

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

(di Marco Rossetti )

Sommario

1 Premessa. - 2 La nozione di "danno ingiusto". - 2.1 - 2.2 - 2.3 - 2.4 - 3 La colpa. - 3.1 - 3.2 - 4 Il nesso di causa. - 4.1 - 5 Il danno non patrimoniale. - 5.1 In generale. - 5.2 Il danno alla salute. - 5.3 Il danno da morte. - 5.4 Il danno all'onore ed alla reputazione. - 6 Il danno patrimoniale. - 6.1 - 6.2 - 7 La liquidazione del danno. - 7.1 La liquidazione equitativa. - 7.2 La liquidazione del danno biologico. - 7.3 Il concorso di colpa della vittima. - 7.4 Compensatio lucri cum damno. - 7.5 Il pagamento di acconti ed il danno da mora. - 7.6 Il risarcimento in forma specifica. - 8 Le responsabilità presunte. - 8.1 Genitori e maestri (art. 2048 cod. civ.). - 8.2 Padroni e committenti (art. 2049 cod. civ.). - 8.3 Attività pericolose (art. 2050 cod. civ.). - 8.4 Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.). - 8.5 Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 cod. civ.). - 8.6 Circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.). - 8.7 Danno da prodotto. - 9 I confini tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. - 9.1 - 9.2

1. Premessa.

Anche nel 2013 la produzione della Corte in tema di responsabilità extracontrattuale è stata molto copiosa. I temi più frequentemente sottoposti all'esame dei giudici di legittimità sono stati, come di consueto, quelli legati alla colpa professionale (per la quale si veda il Cap. XIV), alla circolazione stradale; alla responsabilità della p.a. per i danni da insidie stradali e cose in custodia in genere; alla liquidazione del danno.

Molto nutrito è stato anche il "pacchetto" di decisioni concernenti questioni processuali tipicamente scaturenti dalla proposizione d'una domanda di risarcimento del danno aquiliano: in particolare, quelli legati alla pregiudizialità tra giudizio civile e penale; ai limiti in cui è ammissibile variare in corso di causa il fondamento della domanda di risarcimento od il suo quantum; al litisconsorzio nelle fasi di gravame.

In linea generale, è possibile affermare che nel 2013 la Corte di cassazione, al di là della risonanza mediatica di alcune sue decisioni, legata alle particolarità della fattispecie concreta, in punto di diritto non ha fatto che confermare i propri tradizionali orientamenti in tema di colpa, nesso di causa e danno. Ciò sia nel bene che, per così dire, nel male: nel senso che dove vi erano orientamenti pacifici, questi si sono perpetuati; ma dove vi erano contrasti (in particolare, in tema di accertamento e liquidazione del danno non patrimoniale) questi non sono stati ricomposti.

2. La nozione di "danno ingiusto".

2.1.

È noto che, abbandonate le suggestioni degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, e la tesi che pretendeva di distinguere il c.d. "danno evento" (consistente nella lesione del diritto in sé e per sé considerata) dal c.d. "danno-conseguenza" (consistente negli effetti concretamente pregiudizievoli della lesione del diritto), ormai dal 2003 la Corte di cassazione ha adottato una nozione di "danno ingiusto" più rigorosa nei fondamenti e più pragmatica nelle conseguenze: "danno ingiusto", si afferma, è infatti qualsiasi lesione di interessi giuridicamente "presi in considerazione dall'ordinamento", dai quali tuttavia siano derivate conseguenze pregiudizievoli, patrimoniali o meno che siano.

Questa opinione fu adottata per la prima volta da Sez. 3, n. 8827 del 2003, ed in seguito definitivamente consacrata da plurimi interventi delle Sezioni unite (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008).

Secondo questo orientamento, pertanto, "danno" non è mera "lesione di diritto", ma "lesione di diritto dalla quale siano derivate conseguenze pregiudizievoli oggettivamente apprezzabili". Con la conseguenza che si definitivamente negata la pensabilità stessa di danni in rebus ipsis nel nostro ordinamento.

2.2.

Nel 2013 la Corte di cassazione ha ribadito questi principî. Innanzitutto, si è ribadito che presupposto del danno è la lesione d'un diritto o d'un interesse che siano giuridicamente rilevanti.

Per "interesse giuridicamente rilevante", ovviamente, deve ritenersi qualsiasi interesse che sia tutelato dall'ordinamento anche in mancanza di una disposizione espressa.

Molto significativa, è stata la decisione pronunciata da Sez. 1, n. 15481 (Rv. 627112), est. San Giorgio, che pur non essendo chiamata a pronunciarsi direttamente sulla nozione di "danno ingiusto", ha però indirettamente fornito al riguardo una indicazione assai rilevante.

In quel caso, una persona che aveva convissuto more uxorio aveva introdotto una domanda di risarcimento del danno nei confronti dell'ex partner, ascrivendogli di averle fatto mancare i mezzi di sostentamento. La parte attrice aveva chiesto ed ottenuto l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che il giudice di merito aveva tuttavia revocato rilevando l'«insussistenza sia normativa che giurisprudenziale dell'ipotesi di violazione degli obblighi familiari in ipotesi di persone unite dal solo vincolo more uxorio». Tale decisione è stata però cassata dalla S.C., la quale ha osservato che il giudice di merito non avrebbe potuto limitarsi a rilevare l'assenza di una norma che imponga obblighi di assistenza a carico del convivente more uxorio, ma avrebbe dovuto verificare in concreto se le aspettative del convivente di fatto potessero o meno essere sussunte tra i diritti fondamentali della persona, a prescindere dal tipo di unione (matrimoniale o di fatto) al cui interno il lamentato danno si sarebbe verificata.

Così decidendo, la S.C. parrebbe avere implicitamente ammesso la possibilità d'un risarcimento del danno per la violazione di interessi fondamentali della persona scaturenti da relazioni di fatto.

Non è, invece, un danno la lesione d'un interesse patrimoniale di mero fatto: ad esempio, l'interesse a che un terzo mi fornisca informazioni per me rilevanti, ma in assenza di un obbligo (anche solo di buona fede) in tal senso (così Sez. 3, n. 3286, Rv. 625209, est. Vivaldi), la quale ha escluso che il traente di un assegno bancario potesse pretendere il risarcimento del danno per non essere stato avvisato dalla banca trattaria dell'inesistenza di provvista.

2.3.

È stata, poi, più volte ribadita, con riferimento a numerose e diversificate fattispecie concrete, l'inconcepibilità d'un danno in re ipsa, cioè risarcibile per il solo fatto che sia dimostrata la lesione del diritto (Sez. 3, n. 4043, Rv. 625453, est. Segreto). Si è ritenuto, in particolare, che non possa ritenersi in re ipsa, e che debba essere debitamente allegato e provato nelle sue materiali e concrete manifestazioni:

(a) il danno non patrimoniale da illecito trattamento o divulgazione dei dati personali (Sez. 6-1, ord., n. 22100, Rv. 627948, rel. Ragonesi);

(b) il danno non patrimoniale da illegittima levata del protesto (Sez. 6-1, ord. n. 21865, Rv. 627750, rel. Bernabai);

(c) il danno commerciale da abuso di posizione dominante perpetrato da una impresa concorrente (Sez. 1, n. 20695, Rv. 627910, est. Bernabai);

(d) il danno patrimoniale da imitazione servile dei propri prodotti da parte di impresa concorrente (Sez. 1, n. 1000, Rv. 625135, est. Berruti).

2.4.

Perduranti contrasti, purtroppo, si registrano invece in tema di danno patrimoniale da violazione di diritti reali.

In questa materia un primo orientamento, coerentemente con la nozione di "danno ingiusto" sopra riassunta, ritiene che la violazione del diritto reale (come nel caso tipico di occupazione abusiva di immobile) non può ritenersi in re ipsa e coincidente con l'evento, sicché il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subìto un'effettiva lesione del proprio patrimonio (ad es., per non aver potuto locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli: così Sez. 3, n. 15111, Rv. 626875, est. Segreto).

Un secondo orientamento invece è di avviso esattamente contrario, e ritiene che nel caso di occupazione senza titolo di un immobile altrui, il danno subìto dal proprietario sia in re ipsa, e discenda dalla perdita della disponibilità del bene e dall'impossibilità di conseguire l'utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente fruttifera (Sez. 3, n. 9137, Rv. 626051, est. D'Amico; sostanzialmente nello stesso senso si sono pronunciate altresì Sez. 2, n. 17635, Rv. 627242, est. Mazzacane, e Sez. 2, n. 7752, Rv. 625902, est. Proto, con riferimento al danno da violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni).

3. La colpa.

3.1.

È sempre raro che la Corte di cassazione sia chiamata a statuire sulla nozione astratta di "colpa civile", in quanto di norma in sede di legittimità si discute di una specifica colpa, legata ad una fattispecie concreta ben determinata. Di grande interesse, perciò appare la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 2637 (Rv. 625413), est. Lanzillo, la quale ha, per così dire, sancito il principio nullum crimen sine praevia lege anche in materia di responsabilità civile. Ha affermato, infatti, la sentenza appena citata che il risarcimento del danno da fatto illecito può derivare solo da comportamenti ritenuti illeciti e sanzionabili nel momento in cui si pone in essere la condotta, in quanto nessuno può essere assoggettato a conseguenze giuridicamente sfavorevoli per comportamenti che la legge non considerava illeciti al tempo in cui furono tenuti.

Merita altresì di essere segnalata - pur avendo ribadito principî già in passato varie volte affermati - la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 12401 (Rv. 626478), est. Ambrosio, la quale ha ricordato come e quanto differisca concettualmente e giuridicamente l'accertamento della colpa, da quello del nesso di causa.

L'accertamento del nesso di causa esige che sia dimostrata una mera relazione di fatto tra causa ed effetto (ad esempio, se il gesto compiuto dal chirurgo abbia ucciso il paziente).

L'accertamento della colpa, invece, esige che sia accertata l'esistenza d'una regola giuridica o di comune prudenza che doveva essere osservata, e dalla cui violazione sia derivato il danno (ad es., se le regole della buona pratica clinica vietassero o meno al chirurgo di compiere il gesto risultato letale).

Sul piano concreto, ciò vuol dire che l'accertamento dell'esistenza d'una regola che si assume violata è pregiudiziale a qualsiasi affermazione di responsabilità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale.

3.2.

La condotta colposa causativa del danno, ovviamente, può essere ascrivibile anche all'operato di più persone: in tal caso tutte costoro risponderanno solidalmente del danno causato sia quando abbiano cooperato, anche colposamente, nel provocarlo, sia quando ciascuna di esse abbia tenuto una condotta indipendente dalle altre, ma che comunque ha costituito una concausa dell'evento: è un principio tradizionale, e ribadito anche nel 2013 da Sez. 1, n. 15687 (Rv. 626984), est. Lamorgese, la quale ha ritenuto solidalmente responsabili del danno da contraffazione ed incasso di un titolo di credito sia l'autore materiale della contraffazione, sia la banca che aveva indebitamente negoziato il titolo, sebbene munito di clausola di intrasferibilità.

4. Il nesso di causa.

4.1.

Dopo il 2008, in virtù di un noto intervento delle Sezioni unite (Sez. Un., n. 576 del 2008, Rv. 600899), si è consumata di fatto una divaricazione tra l'accertamento del nesso di causalità tra illecito e danno in sede civile, e l'analogo accertamento tra condotta e reato in sede penale. In sede civile, è ormai pacifico che:

(-) la causalità commissiva vada accertata col criterio c.d. della causalità umana;

(-) la causalità omissiva vada accertata col criterio del "più probabile che non".

Tali principî sono stati sostanzialmente confermati anche nel 2013, ma con qualche importante novità, rappresentata da un ulteriore allargamento della nozione di causalità omissiva, già oggetto negli anni passati di progressivi ampliamenti. Tale novità ha riguardato il riparto dell'onere della prova del nesso di causa.

Sino ad ora era stato infatti pacifico il principio secondo cui in tema di responsabilità extracontrattuale il danneggiato non fosse mai esonerato dall'onere di provare il nesso di causa. In deroga a questo tradizionale principio, ha invece ritenuto Sez. 3, n. 1871 (Rv. 624910), est. D'Alessandro, che il soggetto obbligato ad impedire un evento è gravato, ove quell'evento si verifichi, dall'onere di provare che esso non è dipeso da una propria colposa omissione.

In applicazione di questo principio, si è affermata la sussistenza d'un valido nesso causale tra la condotta omissiva delle amministrazioni pubbliche preposte a garantire la sicurezza dei voli, ed il disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980.

5. Il danno non patrimoniale.

Affermazioni interessanti si rinvengono sia sulla categoria generale, sia su alcune specifiche manifestazioni di esso.

5.1. In generale.

Sul danno non patrimoniale come categoria generale la giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare nel 2013 conferme e novità.

Si è ribadito che, al di fuori dei casi previsti dalla legge, il risarcimento del danno non patrimoniale è consentito solo al cospetto della lesione grave d'un diritto inviolabile della persona (Sez. 6-3, n. 5096, Rv. 625358, est. Vivaldi, la quale ha ritenuto non risarcibile il danno non patrimoniale asseritamente subìto dall'utente in conseguenza dell'interruzione della somministrazione di energia elettrica).

Si è, altresì, ribadito che il credito risarcitorio scaturente da un fatto illecito causativo di un danno non patrimoniale può essere liberamente ceduto, non presentando carattere strettamente personale (Sez. 3, n. 22601, Rv. 628099, est. Scarano).

Si sono, infine, ribaditi due importanti principî in tema di diritto internazionale privato, e cioè che:

(a) quando al fatto illecito si applichi la legge straniera, questa deve ritenersi contraria all'ordine pubblico se limiti il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla morte di una persona (Sez. 3, n. 19405, Rv. 628070, est. Vincenti, la quale ha ritenuto inapplicabile nell'ordinamento italiano, per contrarietà all'ordine pubblico, dell'art. 1327 del codice civile austriaco, nella parte in cui limita il risarcimento in favore dei congiunti di persone decedute a seguito di fatto illecito al solo danno patrimoniale ed esclude la risarcibilità del danno non patrimoniale);

(b) lo straniero che domandi in Italia il risarcimento del danno non patrimoniale scaturito dalla lesione di diritti fondamentali della persona non è soggetto alla condizione di reciprocità di cui all'art. 16 disp. prel. cod. civ. (Sez. 3, n. 8212, Rv. 625665, est. Barreca).

5.2. Il danno alla salute.

È la materia nella quale si registra il maggior numero di contrasti, non sopiti nemmeno dall'intervento delle Sezioni unite, e già emersi negli anni passati.

Tali contrasti hanno continuato a riguardare le nozioni di "danno morale" e, in qualche caso, di "danno esistenziale", la loro idoneità a costituire autonome categorie giuridiche, e la loro liquidabilità accanto ed in aggiunta alla liquidazione del danno biologico.

Secondo un primo orientamento il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente (Sez. 3, n. 22585, Rv. 628153, est. Travaglino; Sez. 6-3, ord., n. 16041, Rv. 626845, rel. Giacalone).

Per un secondo orientamento, invece, il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno esistenziale, ecc.), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo restando ovviamente l'obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso [Sez. 3, n. 21716 (Rv. 628100), est. Lanzillo; Sez. 3, n. 11950 (Rv. 626348), est. Carleo; Sez. 6-3, ord. n. 11514 (Rv. 626652), rel. Giacalone; Sez. 3, n. 3290 (Rv. 625015), est. Cirillo].

È pur vero che, ad esaminare le motivazioni delle sentenze apparentemente in contrasto, questo sembrerebbe essere più apparente che reale: ed infatti da un lato le sentenze che ritengono "ontologicamente diversi" il danno biologico e quello morale ammettono che comunque la distinta liquidazione non possa mai condurre a duplicazioni risarcitorie; dall'altro le sentenze le quali affermano la natura unitaria del danno non patrimoniale ammettono che nella liquidazione di esso si debba tenere conto di tutte le conseguenze pregiudizievoli causate dall'illecito, e quindi anche - ad esempio - della contrazione della vita di relazione o dello sconvolgimento delle abitudini quotidiane.

Infine, con riferimento al problema del risarcimento del danno non patrimoniale patito dai prossimi congiunti di persona infortunata ma sopravvissuta, con una importante decisione la S.C. ha stabilito che nella liquidazione di esso si debba tenere conto anche del «pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione» (Sez. 3, n. 7128, Rv. 625496, est. Barreca). Nella stessa decisione si è altresì affermato che anche la rottura del fidanzamento o della convivenza prematrimoniale, a causa del fatto illecito del terzo, costituisce un danno risarcibile, se la relazione prematrimoniale o di fidanzamento «era destinata successivamente ad evolvere (e di fatto si sia evoluta) in matrimonio».

La sentenza si segnala all'attenzione del giurista in quanto costituisce un revirement rispetto al diverso principio affermato (ma con riferimento al danno da morte) da Sez. 3, n. 4253 del 2012 (Rv. 621634) secondo la quale la morte di un congiunto non prossimo (nella specie, l'avo) dà ai superstiti il diritto di pretendere il risarcimento del danno non patrimoniale solo nel caso di coabitazione col defunto al momento della morte.

5.3. Il danno da morte.

In materia di danno non patrimoniale da uccisione di un prossimo congiunto si sono replicati nel 2013 contrasti analoghi (anch'essi già insorti negli anni precedenti) a quelli già visti in tema di danno alla salute. In particolare, la giurisprudenza di legittimità appare divisa tra quanti adottano una nozione unitaria ed omnicomprensiva di "danno non patrimoniale da morte", e quanti all'opposto ritengono che l'uccisione di una persona possa causare ai suoi congiunti molti danni non patrimoniali "ontologicamente diversi": quello morale, quello esistenziale, quello da rottura del vincolo parentale.

Ha aderito al primo orientamento Sez. 3, n. 4043 (Rv. 625455), est. Segreto, secondo cui le distinzioni tradizionali in tema di danno non patrimoniale «possono continuare ad essere utilizzate al solo fine di indicare in modo sintetico quali tipi di pregiudizio il giudice abbia preso in esame al fine della liquidazione, e mai al fine di risarcire due volte il medesimo pregiudizio, sol perché chiamato con nomi diversi». Da ciò si è tratta la conclusione che la liquidazione del danno da uccisione di un prossimo congiunto è correttamente compiuta dal giudice di merito quando risulti che questi abbia tenuto conto delle circostanze rilevanti del caso concreto, a prescindere dai nomi che abbia usato per indicare i pregiudizi risarciti.

Aderisce, invece, al secondo orientamento Sez. 3, n. 19402 (Rv. 627584), est. Cirillo, secondo cui il danno biologico, il danno morale ed il danno alla vita di relazione rispondono a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo, che può causare, nella vittima e nei suoi familiari, un danno medicalmente accertato, un dolore interiore e un'alterazione della vita quotidiana, sicché il giudice di merito deve valutare tutti gli aspetti della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni, ma anche "vuoti" risarcitori, e, in particolare, per il danno da lesione del rapporto parentale, deve accertare, con onere della prova a carico dei familiari della persona deceduta, se, a seguito del fatto lesivo, si sia determinato nei superstiti uno sconvolgimento delle normali abitudini tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse.

Nello stesso ordine di idee, Sez. 3, n. 9231 (Rv. 626002), est. Chiarini, ha addirittura riesumato la nozione di "danno esistenziale" (che si riteneva ormai definitivamente rifiutata dalle Sezioni unite con la sentenza n. 26972 del 2008), affermando che in caso di uccisione di un congiunto il superstite ha diritto al risarcimento sia del danno morale (da identificare nella sofferenza interiore soggettiva patita sul piano strettamente emotivo, non solo nell'immediatezza dell'illecito, ma anche in modo duraturo, pur senza protrarsi per tutta la vita); sia di quello "dinamico-relazionale" (consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana).

Nel 2013 si è altresì confermato il tradizionale orientamento in tema di danno causato da lesioni personali seguite da morte della vittima. In tale evenienza, occorre distinguere tra:

(a) il danno alla salute (biologico) patito dalla vittima nelle more tra le lesioni e la morte, che si trasmette agli eredi ove sia stato "apprezzabile", e quindi ove la sopravvivenza si sia protratta per un tempo apprezzabile;

(b) il danno c.d. "catastrofale", e cioè la sofferenza morale patita dalla vittima costretta a percepire in modo lucido e cosciente la propria prossima fine (Sez. 3, n. 7126, Rv. 625498, est. Barreca).

Infine, sul piano della titolarità del credito risarcitorio, Sez. 3, n. 1025 (Rv. 625065), est. Giacalone, ha ammesso che il risarcimento del danno non patrimoniale da morte possa essere accordato anche al coniuge separato legalmente, purché si accerti che la morte del congiunto abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona cara; ed a tal fine è necessario dimostrare che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso.

5.4. Il danno all'onore ed alla reputazione.

Copiosissima è stata, anche nel 2013, la produzione giurisprudenziale in tema di danno all'onore, alla reputazione, all'immagine, ed in genere ai cc.dd. diritti identitari. Il relativo contenzioso ha assunto dimensioni addirittura elefantiache con riferimenti ai danni commessi col mezzo della stampa o della televisione.

Tuttavia, nonostante del crescente contenzioso, la giurisprudenza di legittimità non ha subìto nel 2013 "scossoni" per quanto riguarda i principî fondanti di questo tipo di responsabilità.

Si è ribadita, in particolare, la tradizionale teoria che potremmo definire "dei limiti e controlimiti", così riassumibile:

(a) il diritto all'onore ed alla reputazione è recessivo rispetto al diritto di libera manifestazione del pensiero;

(b) ergo, la lesione dell'altrui onore o dell'altrui reputazione non sono fonte di responsabilità, se causate nell'esercizio dei diritti di cronaca, di critica, di satira, di espressione artistica;

(c) tuttavia l'esercizio dei suddetti diritti resta a sua volta soggetto ai limiti dell'interesse pubblico, della verità oggettiva (il solo diritto di cronaca) e della continenza verbale, superati i quali non è più lecita l'offesa (per un resumé di tali principî si veda Sez. 3, n. 9458, Rv. 626057, est. Amatucci).

Vediamo ora in che modo questi princìpi sono stati ribaditi nel 2013.

Con riferimento al diritto di cronaca, si è ribadito che il rispetto del requisito della continenza verbale (e quindi la liceità dello scritto) va valutato esaminando il testo giornalistico nel suo complesso, ivi compreso il titolo, e non già esaminandolo atomisticamente (Sez. 3, n. 18769, Rv. 627845, est. Ambrosio, la quale ha ritenuto offensivo il titolo di cronaca «spuntano altri indizi per i tre alla sbarra», evocativo del rinvio a giudizio degli indagati, in realtà solo citati all'udienza di opposizione all'archiviazione).

Quanto, poi, al requisito dell'interesse pubblico alla notizia, esso deve essere valutato caso per caso, e non in astratto: si è perciò ritenuto che anche la pubblicazione di una lettera privata non violi tale requisito, quando in essa siano contenute affermazioni rilevanti per il contesto economico sociale nel quale vive e lavora l'autore della missiva (così Sez. 3, n. 15443, Rv. 626967, est. Carleo, la quale ha ritenuto lecita la pubblicazione d'una lettera molto critica inviata da un lavoratore all'ex datore di lavoro, e ciò in considerazione del generale contesto di conflittualità sindacale in cui la missiva inviata si inseriva).

Sempre con riferimento al diritto di cronaca, molto importante è la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 15112 (Rv. 626951), est. De Stefano, la quale è ritornata sul tormentato tema della responsabilità per l'intervista diffamatoria: e l'ha fatto estendendo anche all'intervistatore tale responsabilità, quando questi abbia formulato le domande all'intervistato in modo suggestivo, ricorrendo ad artifici dialettici o retorici, anteponendo alle domande premesse o commenti tali da provocare risposte lesive dell'altrui reputazione. Anche in tal caso, comunque, l'intervistato resta sempre responsabile di quel che dichiara, e risponde sinanche della ripubblicazione dell'intervista ad opera di terzi, a meno che non dimostri di averne vanamente tentato la diffusione (Sez. 3, n. 15112, Rv. 626950, est. De Stefano).

L'intervistatore, poi, è stato ritenuto responsabile - senza che possa invocare il diritto di cronaca - quando, rivolgendosi all'intervistato con frasi offensive ed impedendogli di rispondere, abbia mirato in tal modo a provocarne soltanto la reazione scomposta, per farne oggetto di uno spettacolo televisivo (Sez. 3, n. 14533, Rv. 626702, est. Cirillo).

Anche con riferimento al diritto di critica, si è recisamente escluso che questo possa scriminare la vera e propria aggressione verbale od all'attribuzione di condotte infamanti: in applicazione di questo principio, si è escluso che il diritto di critica potesse essere invocato dal giornalista politico il quale aveva accusato un pubblico ministero di avere esercitato l'azione penale al solo fine di suscitare nell'imputato una dura critica nei confronti del proprio operato, per poi convenirlo in giudizio e domandargli il risarcimento del danno da diffamazione [Sez. 3, n. 15112 (Rv. 626949), est. De Stefano; per un principio analogo si veda anche Sez. 3, n. 7274 (Rv. 625623), est. De Stefano].

Con riferimento al diritto di satira, se ne è ribadita la liceità e la prevalenza sull'altrui diritto all'onore ed alla reputazione, ma a condizione che esso non trasmodi «in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato». In applicazione di questo principio, si sono ritenuti travalicati i limiti del diritto di satira in un caso in cui uno show-man aveva indicato un soggetto come imputato per aver ricevuto indebitamente denaro o altre utilità da smaltimento di rifiuti tossici, mentre costui - sebbene effettivamente coinvolto in un procedimento penale, a carico di altri - non aveva mai assunto tale qualità (Sez. 6-3, ord., n. 21235, Rv. 627963, rel. Giacalone).

Sul piano della liquidazione, si è affermato l'importante principio secondo cui la pubblicazione di una rettifica è circostanza di per sé idonea a ridurre l'ammontare del danno non patrimoniale causato da un articolo diffamatorio, a nulla rilevando che la rettifica sia avvenuta volontariamente piuttosto che in adempimento di un obbligo (Sez. 6-3, ord., n. 16040, Rv. 627000, rel. Giacalone).

6. Il danno patrimoniale.

6.1.

Anche la materia dell'accertamento del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno ha fatto registrare nel 2013 risorgenti o perduranti contrasti.

Il primo di tali contrasti ha riguardato la nozione stessa di danno alla capacità di lavoro e di guadagno.

Ha ritenuto, infatti, Sez. 3, n. 908 (Rv. 624917), est. Carleo, che nel caso di lesione della salute la vittima possa patire sia un danno patrimoniale da lesione delle specifica capacità di lavoro e di guadagno; sia un danno patrimoniale da lesione della "capacità lavorativa generica", consistente nella idoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio, ma confacente alle proprie attitudini. Tale danno, si soggiunge, «non è affatto necessariamente ricompreso nel danno biologico», e la sua sussistenza dev'essere accertata caso per caso dal giudice di merito, il quale non può escluderlo per il solo fatto che le lesioni patite dalla vittima non abbiano inciso sulla sua capacità lavorativa specifica.

Così statuendo, menzionata decisione si è posta in contrasto con un orientamento che, sia pure faticosamente, era divenuto consolidato ormai da vari anni.

Secondo questo orientamento, la c.d. "generica capacità di lavoro", intesa quale potenziale attitudine alla prestazione di attività lavorativa, non è che un "modo di essere" della persona. La vittima di lesioni personali pertanto, se al momento del fatto non lavorava né era in procinto di farlo, non potrà pretendere che il ristoro del danno alla salute, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutte le incidenze negative della lesione sul "modo di essere" della vittima. Era divenuta, al riguardo, tralatizia la massima secondo cui «la riduzione della capacità lavorativa generica, intesa come potenziale attitudine alla prestazione di attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge al momento attività produttiva di reddito né sia in procinto presumibilmente di svolgerla, in quanto costituente lesione di un generico modo di essere del soggetto che non comporta al alcun rilievo sul piano della produzione di reddito e quindi si sostanzia in una menomazione della salute intesa in senso lato, è risarcibile perciò in quanto tale e, cioè, come danno biologico» (Sez. 3, n. 3260 del 1993, Rv. 481472).

Da questa affermazione di principio si facevano derivare due conseguenze:

(a) la pretesa riduzione alla capacità lavorativa generica non può essere autonomamente liquidata in aggiunta al danno biologico, altrimenti si duplicherebbe il risarcimento (Sez. 3, n. 2932 del 1995, Rv. 491139-491140);

(b) anche quando la vittima lamenti, quale conseguenza del danno alla persona, la perduta possibilità di svolgere lavori non qualificati, non specializzati, vari e saltuari, o dell'operaio non specializzato, tale pregiudizio ha natura patrimoniale, non costituisce una perdita di "capacità di lavoro generica", e va liquidato considerando quale sia stata in concreto la riduzione della capacità di lavoro e di guadagno specifica del soggetto leso (Sez. 3, n. 18945 del 2003, Rv. 569304-569305-569306).

La sentenza n. 908 del 2013, dunque, ha riesumato una categoria concettuale ("l'incapacità lavorativa generica") che non solo la giurisprudenza, ma la stessa medicina legale aveva da tempo abbandonato, osservando che essa altro non fosse che una delle tante fictiones iuris escogitate quando non si ammetteva la risarcibilità d'un danno alla persona che non avesse conseguenze patrimoniali.

6.2.

Oltre che in sulla nozione stessa di "danno alla capacità lavorativa", nel 2013 si sono perpetuate purtroppo varie diversità di vedute già emerse in passato, in tema di accertamento del danno in esame.

Ha infatti ritenuto Sez. 3, n. 2644 (Rv. 625083), est. Scrima, che una volta provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, «se essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità, è possibile presumere che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura», anche se non necessariamente in modo proporzionale rispetto all'invalidità biologica.

In antitesi a tale decisione, tuttavia, Sez. 3, n. 3290 (Rv. 625016), est. Cirillo, ha ritenuto che l'accertamento di postumi incidenti con una certa entità sulla capacità lavorativa specifica non comporta automaticamente l'obbligo del danneggiante di risarcire il pregiudizio patrimoniale conseguente alla riduzione della capacità di guadagno derivante dalla diminuzione della predetta capacità e, quindi, di produzione di reddito, occorrendo, invece, ai fini della risarcibilità di un siffatto danno patrimoniale, la concreta dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio economico.

Nello stesso ordine di idee, Sez. 6-3, ord. n. 16213 (Rv. 626846), rel. Giacalone, ha ritenuto che la circostanza che la vittima di un infortunio abbia, a guarigione avvenuta, mutato lavoro o mansioni non è di per sé sufficiente a ritenere provata la sussistenza d'un valido nesso causale tra la conseguente riduzione del reddito ed il danno alla persona, essendo onere del danneggiato allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l'invalidità permanente abbia inciso, riducendola, sulla capacità di guadagno, potendo solo in tal caso la riduzione di reddito effettivamente percepito essere risarcita come lucro cessante. Questa seconda decisione, al contrario, della prima, si conforma all'orientamento sinora prevalente, secondo cui l'incidenza d'una lesione della salute sui redditi da lavoro non può mai ritenersi automatica, salvo i casi eccezionali di invalidità devastanti e gravissime (ex aliis, Sez. 3, n. 19357 del 2007, Rv. 599389-599390-599391; n. 17397 del 2007, Rv. 598611; n. 13953 del 2007, Rv. 597577-597579), ma è sempre onere del danneggiato il quale alleghi una riduzione della propria capacità di lavoro in conseguenza di un danno alla persona, dimostrare non solo l'esistenza d'una contrazione del reddito, ma altresì l'esistenza di un valido nesso causale tra tale contrazione e la menomazione fisica sofferta (Sez. 3, n. 8892 del 2000, Rv. 538200).

7. La liquidazione del danno.

Riguardo l'importante profilo, anche ai fini pratici di interesse assai esteso, quest'anno la Corte ha operato diverse precisazioni.

7.1. La liquidazione equitativa.

Non è stato purtroppo raro in passato, né nell'anno in corso, che pervenissero all'esame della Corte di cassazione decisioni di merito che, chiamate a liquidare danni impossibili a determinarsi nel loro esatto ammontare, abbiano fatto ricorso alla liquidazione equitativa (ex art. 1226 cod. civ.) senza alcuna specifica motivazione: né sull'effettiva esistenza d'un danno, né sui criteri seguiti per liquidarlo ancorché equitativamente.

Decisioni di questo tipo sono state sistematicamente cassate dalla S.C., la quale in materia ha ribadito due tradizionali principî.

Il primo è che la liquidazione equitativa dl danno presuppone pur sempre che un danno si sia verificato: dunque essa non è invocabile quando manchi addirittura la prova di un qualsivoglia pregiudizio (Sez. 3, n. 11968, Rv. 626250, est. Vincenti; Sez. 3, n. 25912, in corso di massimazione, est. Rossetti).

Il secondo è che il giudice di merito, quando liquida il danno in via equitativa, deve comunque indicare i criteri seguiti per determinare l'entità del risarcimento, non potendosi limitare a formule di stile come "ritenuto equo", "si stima equo" e simili. La liquidazione equitativa, pertanto, può ritenersi incensurabile in sede di legittimità solo allorché dia conto dei presupposti di fatto considerati e dell'iter logico seguito [Sez. 3, n. 8213 (Rv. 625787), est. Carleo; Sez. 3, n. 3582 (Rv. 625005), est. D'Alessandro].

Per la rilevanza pratica del principio, può essere utile ricordare che in tema di liquidazione dei danni, anche in via equitativa, ha ritenuto Sez. 3, n. 11765 (Rv. 626786), est. Armano, che il preventivo della spesa occorrente per l'eliminazione del danno non costituisce prova di quest'ultima.

7.2. La liquidazione del danno biologico.

Come noto, sin dal 2011 la Corte di cassazione ha indicato nelle tabelle predisposte del Tribunale di Milano il criterio preferibile per la liquidazione del danno biologico, là dove non vi siano criteri legali obbligatori. Tuttavia sin dalla sentenza "capostipite" di questo orientamento (Sez. 3, n. 12408 del 2011, Rv. 618048), la Corte ha anche precisato che l'applicazione di questo criterio non deve essere automatica e rigida, ma flessibile e "personalizzata", in modo che il risultato della liquidazione tenga comunque conto di tutte le peculiarità del caso concreto. Tale principio è stato ribadito anche nel 2013: si è stabilito, in particolare, che il giudice il quale applichi il c.d. "criterio milanese" per la liquidazione del danno alla persona ha comunque l'onere di indicare se e come abbia considerato tutte le circostanze del caso concreto per assicurare un risarcimento integrale del pregiudizio subìto da ciascun danneggiato (Sez. 3, n. 9231, Rv. 626003, est. Chiarini).

7.3. Il concorso di colpa della vittima.

Nessuna novità nell'interpretazione dell'art. 1227 cod. civ., ed in particolare sul riparto dell'onere della prova del concorso colposo del creditoredanneggiato nella causazione dell'evento di danno: ha ribadito infatti Sez. 3, n. 9137 (Rv. 626052), est. D'Amico, che la suddetta norma addossa al grava sul debitore responsabile del danno l'onere di provare la violazione, da parte del danneggiato, del dovere di correttezza impostogli dal citato art. 1227 e l'evitabilità delle conseguenze dannose prodottesi, trattandosi di una circostanza impeditiva della pretesa risarcitoria, configurabile come eccezione in senso stretto.

7.4. Compensatio lucri cum damno.

L'istituto della compensatio lucri cum damno, non essendo espressamente previsto dal codice civile, da tempo dà luogo ad incertezze e contrasti nella giurisprudenza anche di legittimità (oltre che in dottrina).

Tali contrasti, purtroppo, si sono registrati anche nel corso dell'anno 2013. Intendiamoci: nessuna decisione della Corte ha mai negato l'esistenza o la validità del principio della compensatio lucri cum damno. Tuttavia assai diversi sono gli orientamenti nel ravvisarne i presupposti di operatività, sicché situazioni analoghe finiscono per essere assoggettate a regulae iuris ben diverse.

Secondo un primo orientamento, infatti, il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno; quando, invece, lucro e danno hanno fonti e cause diverse, anche se occasionati ambedue dal fatto illecito, l'istituto della compensatio non opera. In applicazione di questo principio Sez. 3, n. 12248 (Rv. 626397), est. De Stefano, ha negato che potesse compensarsi il danno da ritardato rilascio di immobile condotto in locazione, con il vantaggio derivante dalla stipulazione di una sublocazione stipulata dal conduttore moroso a contratto principale già scaduto. Nello stesso ordine di idee (sebbene non faccia espressamente riferimento al principio della compensatio), Sez. 2, n. 259 (Rv. 624511), est. Vincenti, ha negato che il danno ad una porzione di un appartamento potesse compensarsi col maggior pregio che lo stesso avrebbe acquistato dopo i lavori di restauro, che tecnicamente non potevano essere limitati alla sola porzione ammalorata.

Quest'ultima decisione, in particolare, si è posta in tal modo in contrasto col tradizionale orientamento secondo cui, non potendo il risarcimento del danno mai produrre un arricchimento del danneggiato rispetto alla situazione patrimoniale preesistente al fatto illecito, il risarcimento deve essere opportunamente ridotto se, per effetto della riparazione del bene danneggiato, questo acquisti maggior pregio (così Sez. 3, n. 8992 del 2012, Rv. 622775).

Più in generale, e con riferimento specifico al principio della compensatio lucri cum damno, l'opinione secondo cui tale principio opera solo quando sia il danno che il lucro trovino fonte immediata e diretta nel fatto illecito non è stata condivisa da un secondo orientamento (anch'esso, peraltro, non nuovo), il quale ha per contro ritenuto di potere compensare il diritto al risarcimento del danno (invocato nei confronti del Ministero della salute) da emotrasfusione con l'indennizzo spettante all'ammalato ai sensi della legge n. 210 del 1992, ancorché questo non abbia natura risarcitoria: e ciò al fine di evitare che la vittima venga a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Sez. 3, n. 6573, Rv. 625543, De Stefano).

È doveroso tuttavia segnalare che soltanto in questo caso la compensatio lucri cum damno è stata ammessa solo se l'indennizzo ex lege n. 210 del 1992 risulta già corrisposto al momento della liquidazione del danno aquiliano, oppure sia determinato o determinabile in base agli atti di causa (Sez. 6-3, n. 14932, Rv. 626869, est. De Stefano).

7.5. Il pagamento di acconti ed il danno da mora.

Accade sovente che il debitore di una obbligazione risarcitoria, prima della liquidazione definitiva, versi una somma di denaro al danneggiato, da questi trattenuta a titolo di acconto. Di tali pagamenti ovviamente si deve tenere conto al momento della liquidazione, e non solo per determinare il capitale residuo, ma anche per calcolare correttamente il danno da mora (c.d. interessi compensativi). Il corretto calcolo per il corretto defalco degli acconti sia dal capitale che dagli interessi è stato ribadito nel 2013 da Sez. 3, n. 8104 (Rv. 625662), est. D'Amico: tale calcolo non consiste nell'imputare l'acconto prima agli interessi e poi al capitale, secondo la regola di cui all'art. 1194 cod. civ. (inapplicabile in materia di obbligazioni di valore, qual è quella di risarcimento del danno), ma esige che:

(a) si devaluti l'acconto alla data dell'evento dannoso;

(b) si devaluti il risarcimento alla data dell'evento dannoso;

(c) si sottragga l'uno dall'altro;

(d) si calcoli sulla differenza il danno da ritardato adempimento.

7.6. Il risarcimento in forma specifica.

Importanti precisazioni sono state fornite dalla Corte nel 2013 sull'istituto del risarcimento in forma specifica, ed in particolare:

(a) può essere sempre disposto anche d'ufficio [Sez. 2, n. 259 (Rv. 624509), est. Vincenti; Sez. 3, n. 15875 (Rv. 626971), est. Carleo];

(b) l'"eccessiva onerosità" per l'obbligato che, ai sensi dell'art. 2058 cod. civ. impedisce il risarcimento in forma specifica, sussiste quando il sacrificio economico necessario superi in misura eccessiva il valore da corrispondere in base al risarcimento per equivalente (Sez. 3, n. 15875, Rv. 626972, est. Carleo).

8. Le responsabilità presunte.

8.1. Genitori e maestri (art. 2048 cod. civ.).

Nessuna novità di rilievo si segnala in tema di responsabilità di genitori e maestri per il fatto illecito commesso dal minore in potestate o dall'allievo, durante il tempo nel quale è loro affidato. Per quanto concerne, invece, il danno subìto dall'allievo durante il tempo di permanenza nella scuola, Sez. 3, n. 13457 (Rv. 626650), est. Carluccio, ha ribadito che:

(a) a tale forma di responsabilità si applicano le regole della responsabilità contrattuale, anche nel caso di scuola pubblica;

(b) la scuola risponde, per deficit di sorveglianza, dei danni patiti dall'allievo e causata dal fatto colposo di terzi presenti nell'edificio scolastico, come nel caso di personale esterno addetto a lavori di manutenzione dell'immobile.

8.2. Padroni e committenti (art. 2049 cod. civ.).

Nessuna novità di rilievo, in punto di diritto, si è registrata in tema di responsabilità dei padroni e committenti ex art. 2049 cod. civ.: si è ribadito, in particolare, che tale responsabilità, quando venga invocata nei confronti del datore di lavoro, esige l'esistenza d'un rapporto di "occasionalità necessaria" tra il danno e le mansioni affidate al lavoratore che l'ha causato, sicché quella responsabilità non è invocabile quando il lavoratore abbia causato il danno esorbitando del tutto dalle proprie mansioni (Sez. L, n. 7403, Rv. 626083, est. Mancino, la quale ha escluso la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2049 cod. civ. nel caso di aggressione fisica di una lavoratrice da parte di un collega sovraordinato).

La responsabilità del datore di lavoro è stata invece affermata quando il fatto illecito commesso da un dipendente nei confronti di altri dipendenti a lui gerarchicamente sottoposti, in luogo che essere subitaneo e prevedibile, sia consistito in una condotta protrattasi nel tempo, la quale poteva pertanto essere accertata ed impedita dal datore (nella specie, si trattava di un caso di c.d. mobbing: così Sez. L, n. 18093, Rv. 627408, est. Stile).

8.3. Attività pericolose (art. 2050 cod. civ.).

Nel 2013 la Corte ha ribadito il proprio tradizionale orientamento secondo cui costituiscono attività pericolose, ai sensi dell'art. 2050 cod. civ., non solo le attività che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che comportino la rilevante probabilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, sia nel caso di danno che sia conseguenza di un'azione, sia nell'ipotesi di danno derivato da omissione di cautele che in concreto sarebbe stato necessario adottare in relazione alla natura dell'attività esercitata alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza. In base a tale criterio è stato escluso che potesse considerarsi "pericolosa" ex art. 2050 cod. civ. l'attività di scavo propedeutica all'impianto di un vigneto, consistente nella realizzazione di solchi di circa 60 centimetri e nella costruzione di un muro di recinzione con fondazioni profonde solo un metro (Sez. 3, n. 919, Rv. 625279, est. Ambrosio).

8.4. Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.).

I presupposti e l'accertamento concreto della responsabilità del custode di cui all'art. 2051 cod. civ. avevano dato luogo già negli anni passati a diverse disparità di vedute in seno alla giurisprudenza di legittimità: in particolare per quanto riguarda l'invocabilità dell'art. 2051 cod. civ. nel caso di danni causati da cose inerti; di danni causati da cose di estesissime dimensioni; od ancora per quanto riguarda il contenuto della prova liberatoria gravante sul custode. Tali contrasti, pur essendosi molto attenuati negli ultimi anni, non sono del tutto scomparsi, come dimostra giustappunto la giurisprudenza di legittimità formatasi nel 2013.

Primo presupposto della responsabilità di cui all'art. 2051 cod. civ. è, come noto, che il danno sia arrecato "dalla cosa".

Tuttavia nell'interpretare la lettera della legge una parte della giurisprudenza ritiene che tale requisito sussista anche nel caso di danni causati da cose inerti, come nell'ipotesi di cadute o scivolate su scale, pavimenti, gradini, strutture architettoniche in genere [cfr. Sez. 3, n. 7125 (Rv. 625497), est. Barreca, che ha applicato l'art. 2051 cod. civ. nel caso di una caduta sulle scale di un pubblico ufficio; oppure Sez. 6-3, ord., n. 19998 (Rv. 627863), rel. De Stefano, che ha applicato l'art. 2051 cod. civ. nel caso di urto di un giocatore di calcetto contro un palo di sostegno della struttura perimetrica del campo]. Può farsi rientrare in questo orientamento, probabilmente, anche Sez. 3, n. 12401 (Rv. 626479), est. Ambrosio, la quale ha escluso la responsabilità, per i danni patiti da un minore accompagnato dai genitori, del proprietario di un ristorante che aveva messo a disposizione dei clienti un piccolo parco giochi per i bambini, privo di vizi costruttivi.

Altra parte della giurisprudenza, invece, distingue tra cose "seagenti" e cose inerti.

Per i danni causati dalle prime (ad es. scoppio di motori o caldaie, esalazioni venefiche da sostanze tossiche, crollo od incendio di un edificio), la presunzione di cui all'art. 2051 cod. civ. è sempre invocabile nei confronti del custode.

Se invece la cosa è di per sé insuscettibile di arrecare danno, ma può diventare dannosa «se l'agire umano si unisca al modo di essere della cosa» (sic), la presunzione di colpa potrà essere invocata nei confronti del custode solo se il danneggiato provi che lo stato dei luoghi presenti peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione: costituisca, cioè, una insidia oggettivamente esistente e soggettivamente non prevedibile [Sez. 3, n. 6306 (Rv. 625465), est. Lanzillo; Sez. 3, n. 2660 (Rv. 625158), est. Lanzillo].

Secondo presupposto della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. è la qualità di "custode" della persona contro cui sia invocata la presunzione di legge. Nel 2013 la S.C. ha ribadito che tale qualità compete non solo al proprietario, ma a chiunque eserciti un potere di fatto sulla cosa. Non è pertanto "custode", ai fini dell'art. 2051 cod. civ., colui il quale, pur utilizzando la cosa, per contratto, o per la natura del rapporto, o per la situazione di fatto concretamente determinatasi, non ha un effettivo "potere di ingerenza" sulla cosa stessa (Sez. 2, n. 15096, Rv. 626957, est. D'Ascola).

Da ciò si è fatto discendere il corollario che l'obbligo risarcitorio gravante sul custode, anche quando questi sia altresì il proprietario della cosa dannosa, non è un'obbligazione propter rem, e non si trasferisce dal venditore al compratore insieme alla proprietà dell'immobile da cui il danno stesso proviene (Sez. 2, n. 18855, Rv. 627830, est. D'Ascola).

Per quanto attiene, infine, al contenuto della prova liberatoria gravante sul custode, Sez. 3, n. 7125 (Rv. 625497), est. Barreca, ha ribadito che quando trovi applicazione l'art. 2051 cod. civ., il danneggiato deve provare il nesso causale tra la cosa e il danno subìto, ma non anche che questo sia l'effetto dell'assenza di presidi antinfortunistici.

Molto cospicua, come di consueto, è stata anche nel 2013 la produzione giurisprudenziale in tema di danni da insidia stradale, la quale per la specificità delle fattispecie e per la specificità di talune regole di origine giurisprudenziale coniate solo per essa, potrebbe a buon diritto definirsi un "sottosistema" della responsabilità per danni da cose in custodia.

Su questo tema la S.C. ha, in primo luogo, ribadito che l'art. 2051 cod. civ. è invocabile anche nei confronti della pubblica amministrazione, ed anche per i danni causati da beni demaniali. Nel caso tuttavia, di beni di grandi dimensioni (strade, ponti, dighe, boschi, ecc.), la presunzione di colpa di cui all'art. 2051 cod. civ. opera nei confronti della p.a. solo per i danni derivati da vizi c.d. strutturali della cosa, come il difetto di manutenzione o costruzione.

La p.a. pertanto si libera da responsabilità se dimostra che il danno è stato causato non da un vizio strutturale, ma da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero da una situazione (ad es., una macchia d'olio presente sulla pavimentazione stradale) che ha prodotto il danno prima che fosse ragionevolmente esigibile l'intervento riparatore dell'ente custode [Sez. 3, n. 6101 (Rv. 625552), Carleo; Sez. 3, n. 8935 (Rv. 626013), est. D'Alessandro].

La responsabilità della p.a. per i danni causati da insidia stradale può, altresì, essere esclusa dalla stessa colpa della vittima: questa ricorre allorché il danneggiato, con l'uso dell'ordinaria diligenza, avrebbe potuto avvedersi dell'esistenza del pericolo ed evitarlo agevolmente (Sez. 3, n. 11946, Rv. 626788, est. D'Amico). Tuttavia, quando si tratta di stabilire se ricorra o meno tale concorso colposo della vittima, non è sufficiente alla p.a. dimostrare la conformità dei luoghi alle leggi ed alla tecnica costruttiva qualora, nonostante una tale conformità, l'opera presenti insidie o pericoli per l'utilizzatore. In applicazione di tali principî, Sez. 3, n. 15302 (Rv. 626872), est. Lanzillo, ha annullato con rinvio la decisione di merito che aveva escluso la responsabilità dell'ente gestore di un'autostrada per un sinistro occorso ad un pedone che, nell'attraversare in orario notturno le due carreggiate dell'autostrada, era precipitato nel vuoto, non essendosi accorto che si trattava di viadotto.

Infine, merita di essere ricordato come Sez. 3, n. 15882 (Rv. 626858), est. Cirillo, abbia ribadito il tradizionale principio in tema di responsabilità dell'ente proprietario della strada nel caso di danni causati dal cantiere su essa aperto per lavori di manutenzione. In tale ipotesi, se l'area del cantiere è interclusa, custode ex art. 2051 cod. civ. deve ritenersi il solo appaltatore; se invece l'area di cantiere non è del tutto chiusa alla circolazione, il committente resta custode (o meglio, co-custode) insieme all'appaltatore, e risponde anch'egli ex art. 2051 cod. civ.

8.5. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 cod. civ.).

Ribadendo un orientamento consolidato, ha ritenuto Sez. 3, n. 7260 (Rv. 625601), est. Segreto, che la responsabilità ex art. 2052 cod. civ. per danno da animali si fonda su una relazione di proprietà o di uso tra uomo e animale, e che essa è esclusa dal "fortuito", inteso non come condotta che esclude la colpa, ma come una circostanza che esclude il nesso causale tra animale e danno.

La medesima decisione (Sez. 3, n. 7260, Rv. 625602), est. Segreto, ha altresì escluso che possano farsi rientrare tra gli animali selvatici - sottratti all'applicazione dell'art. 2052 cod. civ. - le api utilizzate da un apicoltore, il quale pertanto risponde ai sensi di tale disposizione e non dell'art. 2043 cod. civ. dei danni dalle stesse cagionati.

8.6. Circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.).

Sempre assai nutrito è il contenzioso legato alla sinistrosità stradale, il quale nel 2013 ha fatto registrare puntuali conferme e significative aperture: le prime hanno riguardato la presunzione di colpa di cui al primo comma dell'art. 2054 cod. civ., le seconde la presunzione di corresponsabilità di cui al secondo comma di tale norma.

In tema di investimento pedonale, in particolare, si è ribadito che l'accertata condotta colposa del pedone non basta, da sé, a ritenere superata la presunzione di colpa posta dall'art. 2054, comma primo, cod. civ., a carico del conducente: in applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 5399 (Rv. 625422), est. Cirillo, ha escluso che potesse ritenersi responsabile esclusivo del sinistro persino nel caso in cui il pedone abbia attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali, abbia omesso di dare la precedenza ai veicoli che sopraggiungevano, ed abbia iniziato l'attraversamento distrattamente (per un principio sostanzialmente analogo si veda anche Sez. 3, n. 3542, Rv. 625216, est. Chiarini).

Qualche novità, invece, si registra in tema di presunzione di corresponsabilità prevista, in caso di scontro tra veicoli, dal secondo comma dell'art. 2054 cod. civ., si è confermato il tradizionale principio secondo cui l'accertamento della colpa concreta di uno dei conducenti coinvolti (nella specie, consistita nella violazione dell'obbligo di tenere la destra), non comporta automaticamente la liberazione dell'altro conducente dalla presunzione di cui all'art. 2054, secondo comma, cod. civ., dovendo il giudice valutare in ogni caso se quest'ultimo abbia a sua volta rispettato le norme di comportamento dettate dal codice della strada e quelle di normale prudenza (Sez. 3, n. 3543, Rv. 625217, est. Chiarini).

Il rigore di questo tradizionale principio è stato leggermente smussato nel 2013, in virtù di alcune decisioni le quali in estrema sintesi hanno affermato il principio che quando la colpa in concreto accertata a carico di uno dei conducenti sia macroscopica, tanto basta per ritenere superata la presunzione di colpa posta dall'art. 2054, comma secondo, a carico anche dell'altro.

È il caso di Sez. 3, n. 18497 (Rv. 627479), est. D'Amico, la quale ha affermato che quando sia accertato che uno dei conducenti abbia attraversato un incrocio col semaforo "rosso", resta superata la presunzione di colpa concorrente a carico dell'altro, «non essendo tenuto il conducente dell'altro veicolo, che impegna il semaforo con il verde, ad osservare l'obbligo di una particolare circospezione».

È, altresì, il caso di Sez. 6-3, ord., n. 15504 (Rv. 627008), rel. Giacalone, la quale ha affermato che possa essere ritenuto responsabile esclusivo del sinistro (con superamento della presunzione di corresponsabilità ex art. 2054, comma secondo, cod. civ.) sinanche il conducente favorito dalla precedenza, quando risulti che questo abbia tenuto una condotta eccezionalmente imprudente (nella specie, il conducente favorito teneva una velocità doppia di quella ammessa in un centro abitato, aveva effettuato un sorpasso non consentito di altre vetture che marciavano regolarmente incolonnate, e si era spostato per far ciò completamente contromano, così da non poter essere avvistato dall'automobilista impegnato nell'attraversamento dell'incrocio in prossimità dello "stop").

La presunzione di pari colpa trova applicazione anche nel caso di c.d. tamponamento a "catena" tra veicoli in movimento: in tal caso la presunzione di colpa grava in eguale misura su entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato). Nel caso, invece, di scontri successivi fra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate, tamponando da tergo l'ultimo dei veicoli della colonna stessa (Sez. 3, n. 4021, Rv. 625234, est. Vivaldi).

8.7. Danno da prodotto.

Importanti decisioni si sono registrate nel 2013 in tema di responsabilità per danno da prodotti difettosi: decisioni che, tuttavia, hanno aperto qualche contrasto.

In genere, è pacifico che la natura della responsabilità del produttore (prevista un tempo dal d.P.R. n. 224 del 1988, oggi abrogato e trasfuso nel d.lgs. n. 206 del 2005), non abbia natura oggettiva, nel senso che non prescindere dall'accertamento del nesso di causa tra prodotto e danno. Secondo Sez. 3, n. 13458 (Rv. 626816), est. Ambrosio, infatti, «la responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva», poiché prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto. Sostanzialmente nello stesso senso, anche Sez. 6-3, ord., n. 12665 (Rv. 626638), rel. Giacalone, ha affermato che chi invoca la responsabilità del produttore non può limitarsi a provare il nesso di causa tra l'uso del prodotto ed il danno, ma deve provare in modo specifico il nesso di causa tra il difetto del prodotto ed il danno.

Si registra invece un contrasto in merito all'ambito applicativo delle norme sulla responsabilità del produttore.

Secondo Sez. 3, n. 19414 (Rv. 628069), est. Vincenti, infatti, la speciale tutela prevista a favore della vittima d'un danno da prodotto difettoso è prevista solo per i danni causati da cose destinate all'uso o consumo privato e come tali utilizzate dal danneggiato: ne resta perciò escluso il danno alle cose destinate ad un uso professionale e utilizzate in tal senso.

Di diverso avviso è stata invece Sez. 3, n. 13458 (Rv. 626814), est. Ambrosio, la quale ha ritenuto che la disciplina della responsabilità "da prodotto" può essere invocata da tutti i soggetti che si sono trovati esposti, anche in maniera occasionale, al rischio derivante dal prodotto difettoso, riferendosi la tutela accordata all'"utilizzatore" in senso lato, e non esclusivamente al consumatore o all'utilizzatore non professionale.

9. I confini tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

9.1.

È noto come i confini tra responsabilità negoziale ed aquiliana si siano andati negli ultimi anni sempre più mescolando nella giurisprudenza di legittimità. Intere aree un tempo indiscutibilmente di colpa aquiliana sono state infatti traslocate nell'area della responsabilità contrattuale (si pensi alla c.d. "responsabilità da contatto", ascritta a medici ospedalieri e scuole pubbliche); e per converso in materie tradizionalmente riservate alla responsabilità contrattuale si è ammessa l'esperibilità di domande extracontrattuali.

Questa tendenza è continuata, e si è anzi rafforzata, anche nel 2013.

La decisione più significativa, al riguardo, è senz'altro quella pronunciata da Sez. 3, n. 21255 (in corso di massimazione), est. Travaglino. In questo caso la Corte era chiamata a stabilire se fosse corretta la sentenza di merito la quale aveva ammesso che la parte la quale aveva stipulato una transazione sulla base di una sentenza a sé sfavorevole, ma frutto di corruzione del giudice, potesse promuovere contro l'altra parte - che quel giudice aveva corrotto - non già l'azione di annullamento della transazione per errore o per dolo, ma l'azione generale di risarcimento ex art. 2043 cod. civ.

A tale quesito la S.C. ha dato risposta positiva, osservando che in tutti i casi (e quindi anche al di fuori della singola fattispecie sottoposta al suo esame) di violazione di regole di buona fede nella fase delle trattative precontrattuali è consentito alla parte non in mala fede domandare il risarcimento del danno, e ciò a prescindere dal ricorso ai tradizionali rimedi contrattuali (annullamento, annullabilità, risoluzione). Oltre che per tale statuizione, la sentenza si segnala altresì per una serie di obiter dicta ("Motivi della decisione", pp. 83 e ss.) nei quali si mette in dubbio addirittura l'utilità stessa e la perdurante validità della distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

9.2.

Meritano altresì di essere segnalate, sul tema, due decisioni che hanno risolto altrettanti casi dubbi in teme di qualificazione dell'azione come contrattuale od aquiliana.

La prima, in tema di fideiussione, ha stabilito che la responsabilità del creditore nei confronti del fideiussore, per i danni che a questi sarebbero stati cagionati dall'inadempienza delle clausole del contratto costituente il titolo dell'obbligazione garantita, è configurabile esclusivamente sotto il profilo extracontrattuale, nascendo da un rapporto al quale il fideiussore è per definizione estraneo, mentre l'inadempienza medesima può essere fatta valere, oltre che dal debitore, in via di eccezione anche dal fideiussore, nell'esecuzione del contratto di fideiussione, solo al fine di resistere all'azione proposta dal creditore per l'escussione della garanzia (Sez. 1, n. 18086, Rv. 627330, est. Ceccherini).

La seconda, in tema di prelazione agraria, ha stabilito che l'azione risarcitoria esperibile dall'avente diritto alla prelazione agraria ex art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, il quale sia destinatario di una proposta di alienazione del fondo ad un prezzo artatamente superiore a quello realmente pattuito tra le parti, va ricondotta alla comune azione di responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 cod. civ., e non all'actio dolis causam incidens ex art. 1440 cod. civ., costituendo un'azione di tutela esterna del diritto di prelazione, il cui esercizio viene così reso più oneroso (Sez. 3, n. 14046, Rv. 626744, est. Amendola).

  • notaio
  • responsabilità
  • avvocato

CAPITOLO XIV

LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

(di Marco Rossetti )

Sommario

1 Premessa. - 2 Medici. - 2.1 - 2.2 - 2.2.a - 2.2.b - 2.3 - 3 Avvocati. - 3.1 - 3.2 - 3.3 - 3.4 - 4 Notai.

1. Premessa.

Anche nel 2013 il maggior numero di decisioni pronunciate dalla Corte in materia di responsabilità professionale ha riguardato domande proposte nei confronti di medici o strutture ospedaliere; al secondo posto per numero di decisioni si collocano le controversie in tema di responsabilità dell'avvocato, ed al terzo quelle in tema di responsabilità del notaio.

Si è confermato in tal modo un andamento ormai risalente, che vede - nell'ordine - medici, avvocati e notai le tre categorie professionali maggiormente convenute in giudizio per questioni di colpa professionale.

Oltre che dal punto di vista quantitativo, anche da quello contenutistico.

La giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità professionale non ha fatto registrare nel 2013 significativi mutamenti rispetto agli orientamenti precedenti, salvo - come si vedrà - che in tema di risarcimento del danno cd. da nascita indesiderata.

2. Medici.

2.1.

Le più significative sentenze in tema di colpa medica pronunciate nel 2013 possono essere divise in due gruppi: quelle riguardanti la natura colposa della condotta, e quelle riguardanti il riparto dell'onere della prova.

2.2.

Le decisioni chiamate a stabilire quando la condotta del medico possa ritenersi "colposa" possono a loro volta dividersi in due gruppi: quelle riguardanti la colpa professionale in senso stretto (ovvero l'imperito, imprudente, negligente compimento dell'atto medico), e quelle riguardanti la colpa per violazione dell'obbligo di informare il paziente.

2.2.a.

Tra le decisioni concernenti la colpa professionale in senso stretto merita di essere segnalata innanzitutto Sez. 3, n. 1874 (Rv. 624908), est. Uccella, la prima chiamata ad occuparsi dell'espianto del rene a scopo di donazione prevista dalla l. 26 giugno 1967, n. 458, in un complesso caso in cui nei gradi di merito il donante aveva allegato di essere stato indotto alla donazione dietro promessa di un compenso in denaro. In sede di legittimità, tuttavia, il problema che veniva in rilievo era se l'ospedale ove venne eseguito il trapianto potesse essere chiamato a rispondere dei danni patiti dal donante anche nel caso di corretta esecuzione dell'intervento: ed a tal quesito la Corte ha dato risposta affermativa, nei casi in cui l'ospedale - in violazione dell'art. 5 della l. n. 458 del 1967 citata - ometta di stipulare un'assicurazione contro gli infortuni e la malattia a beneficio del donatore. La norma che prevede la stipula di tale polizza, secondo la S.C., è infatti di immediata applicazione, sebbene non ne sia stato mai emanato il regolamento attuativo. Pertanto l'ospedale, quando proceda all'espianto del rene senza avere stipulato la suddetta polizza, risponde dei danni patiti dal paziente per la perdita del relativi benefici assicurativi.

In tema di colpa professionale e nesso di causa tra questa ed il danno, merita di essere segnalata altresì Sez. 3, n. 4029 (Rv. 625276), est. Petti, la quale ha stabilito che delle conseguenze dannose di un intervento chirurgico eseguito in modo imperito possono essere chiamati a rispondere non solo i sanitari che l'hanno eseguito, ma anche il medico curante del paziente, se questi ometta di informare i colleghi chirurghi del particolare tipo di cure cui era stato sottoposto il paziente, e dei peculiari effetti che tali cure avevano prodotto (nella specie, era accaduto che una cura contro l'infertilità eseguita dal medico di fiducia aveva provocato un ingrossamento delle ovaie della paziente, ed aveva indotto altri sanitari a rimuoverle chirurgicamente, con un intervento reputato dal giudice di merito non necessario; tuttavia, mentre il giudice di merito aveva reputato il ginecologo non responsabile dell'errore commesso dai chirurghi, la S.C. ha cassato tale decisione, ritenendo al contrario sussistere un nesso di causa tra la condotta del ginecologo ed il danno finale, in virtù dei principî di cui alla massima).

2.2.b.

Numerose, ma confermative di orientamenti ormai consolidati, sono state le decisioni in tema di "consenso informato".

Tra queste, tre hanno un valore paradigmatico degli orientamenti della Corte, in tema rispettivamente di:

(a) contenuto dell'obbligo di informazione;

(b) riparto della prova dell'assolvimento di tale onere;

(c) conseguenze dell'omessa informazione.

Quanto al primo aspetto, ha ribadito Sez. 3, n. 18334 (Rv. 627470), est. Carleo, che il medico-chirurgo deve fornire al paziente «tutte le informazioni scientificamente possibili sull'intervento chirurgico che intende eseguire», e soprattutto sul bilancio rischi/vantaggi dell'intervento stesso, tanto più in presenza di fattori di pericolo che sconsiglino l'intervento.

Quanto all'onere della prova, Sez. 3, n. 19220 (Rv. 627861), est. Scrima, ha ribadito che grava sul medico l'onere di provare di avere fornito al paziente un'informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze, senza che l'adempimento di tale obbligo possa venir meno per il solo fatto che il paziente sia persona altamente scolarizzata. Nella stessa decisione, tuttavia, la Corte ha soggiunto che il livello culturale del paziente può incidere sulle modalità dell'informazione, la quale deve essere sempre adeguata al suddetto livello culturale, con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.

Quanto, infine, alle conseguenze della violazione dell'obbligo di informazione, Sez. 3, n. 11950 (Rv. 626347), est. Carleo - confermando il revirement inaugurato da Sez. 3, n. 2847 (Rv. 611427), est. Amatucci - ha ribadito che la violazione di tale obbligo non costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può causare:

(a) un danno alla salute, solo se sia ragionevole ritenere che il paziente (su cui grava il relativo onere probatorio), se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti;

(b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione in se stesso, se il paziente, a causa del deficit informativo, abbia subìto un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.

2.3.

Sul piano del riparto dell'onere della prova, Sez. 3, n. 4792 (Rv. 625765), est. Carluccio, ha ribadito il tradizionale principio secondo cui nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da attività medico-chirurgica, l'attore deve provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) ed allegare l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, rimanendo a carico del medico convenuto dimostrare che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato causa del danno. Ne consegue che se, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno, tale incertezza ricade sul paziente e non sul medico.

Nel 2013, tuttavia, in tema di riparto dell'onere della prova della colpa medica (e del nesso causale tra questa ed il danno) vanno segnalate due importanti decisioni, pronunciate in altrettante fattispecie particolari.

La prima, già ricordata poc'anzi in tema di accertamento della colpa (Sez. 3, n. 1874, Rv. 624909, est. Uccella) ha riguardato sotto altro profilo il delicato tema del trapianto di rene a scopo di donazione. Tale trapianto, ai sensi della legge 26 giugno 1967, n. 458, deve essere preceduto da un provvedimento giudiziale il quale accerti la sussistenza di una effettiva e libera volontà del donante. In presenza di tale provvedimento, ha statuito la sentenza appena ricordata, deve presumersi iuris tantum che la volontà del donante si sia correttamente formata e sia stata accertata dal giudice che ha autorizzato l'espianto, con la conseguenza che spetta a chi nega tale circostanza provare il contrario.

La seconda sentenza "innovativa" in tema di riparto dell'onere della prova ha riguardato il tema del danno c.d. da nascita indesiderata: e cioè il danno lamentato dalla gestante la quale, a causa della mancata rilevazione di patologie del feto da parte del medico durante la gestazione, abbia perso la possibilità di interrompere la gravidanza.

In passato, dinanzi a domande risarcitorie, di questo tipo, la S.C. aveva affermato in teoria che era onere della madre provare il nesso di causa tra l'omessa informazione da parte del medico e la nascita indesiderata: dimostrare, cioè, che se avesse saputo delle malformazioni avrebbe abortito.

Tuttavia l'onere della prova a carico della gestante era stato notevolmente assottigliato in via di fatto dalla giurisprudenza, attraverso un generoso ricorso alle presunzioni semplici. Così, partendo dal fatto noto della sola gravità delle malformazioni del feto, si riteneva possibile risalire ex art. 2727 cod. civ al fatto ignorato che, se la madre ne fosse stata informata, avrebbe corso il rischio ("serio" o "grave", a seconda che la malformazione fosse emersa prima o dopo il 90° giorno dall'inizio della gestazione) di una malattia psichica ed avrebbe perciò potuto abortire ai sensi dell'art. 6 della legge n. 194 del 1978, e ciò in quanto - si afferma - ben pochi genitori sono disposti a dare alla luce un figlio che corra il rischio di essere gravemente ritardato o costretto a vivere una vita di dolore ed infelicità (Sez. 3, n. 6735 del 2002, Rv. 554295-554299); allo stesso modo, si era pure sostenuto che dal fatto noto che la gestante avesse scelto di sottoporsi ad un esame diagnostico prenatale finalizzato a conoscere eventuali malformazioni del feto, il giudice potesse risalite al fatto ignorato che quella gestante, nel caso di positività della diagnosi di malformazioni, non avrebbe condotto a termine la gestazione.

La sentenza Sez. 3, n. 7269 (Rv. 625750), est. Amendola, ha ritenuto non condivisibile questo pregresso orientamento, affermando al contrario che nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, e soggiungendo - è il punto più importante - che tale prova non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità.

3. Avvocati.

3.1.

In tema di responsabilità dell'avvocato meritano di essere segnalate tre decisioni pronunciate nel 2013, rispettivamente in tema di contenuto dell'obbligo di diligenza, di prova dell'inadempimento e di conseguenze di quest'ultimo.

Queste tre sentenze, pur ribadendo principî in passato affermati dalla S.C., li hanno precisati e portati ad ulteriori conseguenze.

3.2.

La prima decisione di rilievo (Sez. 3, n. 18612, Rv. 627537, est. Vincenti) ha riguardo la possibilità di ritenere in colpa l'avvocato il quale ometta di interrompere la prescrizione del diritto vantato dal cliente che si sia a lui rivolto.

Tale decisione ha ribadito che deve ritenersi certamente in colpa l'avvocato che ciò non faccia (e questo principio era già stato plurime volte affermato in precedenza), ma ha soggiunto (e questo è il novum della decisione) che in caso di omessa interruzione della prescrizione del credito vantato dal cliente la colpa dell'avvocato non è esclusa né dall'incertezza circa il termine di prescrizione applicabile, né dall'esistenza d'un contrasto di giurisprudenza al riguardo: nell'uno come nell'altro caso, infatti, l'onere di diligenza imposto all'avvocato dall'art. 1176, comma 2, cod. civ., gli impone di adottare una "regola di precauzione", e cioè interrompere comunque la prescrizione ritenendo applicabile il termine più breve, in modo che quand'anche la giurisprudenza dovesse orientarsi definitivamente in tal senso, il diritto del cliente sia salvaguardato.

3.3.

La seconda decisione di rilievo (Sez. 3, n. 11548, Rv. 626553, est. Giacalone) ha riguardo il problema del nesso di causa tra l'omesso compimento di una attività processuale dell'avvocato (nella specie, la formulazione di una domanda e la sua reiterazione in sede di appello), e la soccombenza del cliente. A tal riguardo la sentenza appena ricordata ha stabilito che il nesso di causa tra la condotta dell'avvocato ed il danno può ritenersi sussistente solo se sulla scorta di criteri probabilistici, si accerti che senza quell'omissione il risultato sarebbe stato conseguito. In applicazione di questo principio si è perciò escluso che in difetto di prova, anche presuntiva, dell'esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile, va da rigettata la domanda del cliente di risarcimento del "danno da perdita di chance" di successo nella lite giudiziaria.

La decisione sembra tuttavia un contrasto nel criterio di valutazione del nesso di causa in tema di colpa professionale dell'avvocato, rispetto ai criteri adottati per la valutazione del nesso di causa in tema di colpa professionale del medico.

Con riferimento a quest'ultimo, infatti, la S.C. aveva ripetutamente affermato che il nesso di causa tra l'omissione del professionista ed il danno vada accertata in base alla regola del "più probabile che non" [per tutte, Sez. 3, n. 12686 (Rv. 618137), est. Barreca; Sez. 3, n. 3847 (Rv. 616273) est. Amatucci], e che la perdita della chance in sé costituisce un danno emergente autonomamente esistente, a prescindere da quali fossero le concrete possibilità di realizzare il risultato sperato (per tutte, si veda la sentenza "capostipite" Sez. 3, n. 4400, Rv. 570781, est. Segreto). La sentenza del 2013 sopra ricordata, invece, in tema di responsabilità dell'avvocato ha ritenuto che la prova del nesso di causa tra omissione e danno esiga la dimostrazione non già d'una "ragionevole probabilità" di successo per il cliente ove l'avvocato avesse tenuto la condotta omessa, ma d'una "certezza od elevata probabilità" in tal senso.

3.4.

Infine, sul piano delle conseguenze della colpa professionale, va segnalata la decisione di Sez. 3, n. 4781 (Rv. 625387), est. Frasca, la quale - ponendo fine a vari contrasti sorti tra i giudici di merito - ha stabilito che l'errore professionale addebitabile all'avvocato, consistente nella mancata impugnazione di una sentenza dichiarativa dell'estinzione del processo per irritualità della riassunzione dello stesso, nonché nell'omessa informazione del cliente circa le conseguenze di essa, con definitiva perdita del diritto, rende del tutto inutile l'attività difensiva precedentemente svolta dal professionista, con la conseguenza che in tal caso non è dovuto alcun compenso al professionista.

4. Notai.

Non si registrano nell'anno 2013 novità di rilievo nella giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità del notaio.

Una menzione meritano tuttavia due decisioni: la prima (Sez. 3, n. 3657, Rv. 625299, est. D'Alessandro) ha escluso che il notaio possa essere chiamato a rispondere dei danni già verificatisi prima che abbia svolto la sua opera professionale, e del tutto indipendenti da questa: si è escluso, pertanto, che l'acquirente di un immobile ipotecato possa pretendere dal notaio il risarcimento del danno rappresentato dalle somme spese per la cancellazione dell'ipoteca, se il prezzo d'acquisto era già stato integralmente pagato prima della stipula del rogito.

La seconda decisione (Sez. 3, n. 11141, Rv. 626200, est. Carluccio) ha escluso che possa ascriversi al notaio, chiamato a rogare un atto di compravendita di un immobile gravato da ipoteca a garanzia della restituzione di un credito fondiario, la notificazione al creditore ipotecario dell'avvenuto subingresso dell'acquirente - in qualità di mutuatario ed in forza di un contratto di accollo - nel contratto di mutuo fondiario.

PARTE QUARTA TUTELA DEI DIRITTI

  • ipoteca

CAPITOLO XV

LE GARANZIE REALI

(di Luca Varrone )

Sommario

1 Le Sezioni unite in tema di rapporti tra ipoteca e confisca penale. - 2 Ipoteca e pegno.

1. Le Sezioni unite in tema di rapporti tra ipoteca e confisca penale.

In materia di garanzie reali deve essere segnalata per prima Sez. Un., n. 10532 (Rv. 626570), est. Vivaldi, in tema di rapporti tra ipoteca e confisca penale. Il contrasto interpretativo riguardava il complesso rapporto esistente tra l'istituto della confisca e la tutela dei terzi creditori ipotecari e nasceva da una diversa interpretazione della disciplina in materia da parte delle sezioni penali rispetto a quelle civili. In particolare, vi era incertezza sull'estinzione dell'ipoteca a seguito di confisca del bene ipotecato, sulla competenza a risolvere il conflitto tra creditore ipotecario e Stato e sull'onere della prova della buona fede del terzo creditore ipotecario (precedenti da segnalare Sez. 1, n. 5988 del 1977, Rv. 505702; Sez. 1, n. 12535 del 1999, Rv. 531048; Sez. 3, n. 1693 del 2006, Rv. 587403).

Secondo l'interpretazione delle sezioni penali, spettava al terzo – titolare di un diritto reale di garanzia sul bene oggetto del provvedimento di confisca, quale misura di prevenzione patrimoniale, ex art. 2 ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 – l'onere di dimostrare di avere positivamente adempiuto con diligenza agli obblighi di informazione e di accertamento e, quindi, di avere maturato un affidamento incolpevole, sulla base di una situazione di oggettiva apparenza, relativamente alla effettiva posizione del soggetto nei cui confronti si acquisisce il diritto. Secondo questo indirizzo, ai fini dell'opponibilità del diritto di garanzia reale non è sufficiente che l'ipoteca sia stata costituita, mediante iscrizione nei pubblici registri immobiliari, anteriormente alla trascrizione del sequestro ex art. 2 ter l. n. 575 del 1965 (ed a maggiore ragione del provvedimento di confisca), ma è, altresì, richiesta l'inderogabile condizione che il creditore ipotecario si sia trovato in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole, dovendo individuarsi in quest'ultimo requisito la base giustificativa della tutela del terzo di fronte al provvedimento autoritativo di confisca, adottato dal giudice della prevenzione a norma della legislazione antimafia.

In sede civile la questione era risolta diversamente. La giurisprudenza civile della Corte di legittimità, infatti, si era attestata sul principio secondo il quale il provvedimento di confisca, pronunciato ai sensi dell'art. 2 ter della legge n. 575 del 1965, nei confronti di un indiziato di appartenenza a consorteria mafiosa, camorristica o similare, non potesse pregiudicare i diritti reali di garanzia costituiti sui beni oggetto del provvedimento ablativo, in epoca anteriore all'instaurazione del procedimento di prevenzione, in favore di terzi estranei ai fatti che abbiano dato luogo al procedimento medesimo. A tal fine non rileva la distinzione in punto di competenza del giudice adìto, tra giudice penale e giudice civile, essendo il diritto reale limitato de quo un diritto che si estingue per le sole cause indicate dall'art. 2878 cod. civ. (v. per tutte Sez. 3, n. 16227 del 2003, Rv. 567758; conforme a Sez. 3, n. 845 del 2007, Rv. 594197, con riferimento alla posizione dell'aggiudicatarioacquirente di un bene in sede di procedura esecutiva forzata immobiliare; ed, in ordine alla natura derivativa dell'acquisto da parte dello Stato per effetto della confisca, v. da ultimo, Sez. 3, n. 20664 del 2010, Rv. 614289).

La normativa spesso lacunosa, e, comunque, di settore rendeva poi difficile risolvere la questione di natura processuale relativa all'individuazione del giudice competente, se quello penale, in sede di incidente di esecuzione, o quello civile, in sede di opposizione all'esecuzione.

Sul problema dell'onere probatorio, le sezioni civili della Corte di cassazione, invece, non erano mai state chiamate a pronunciarsi in modo diretto con riguardo ai criteri di ripartizione dell'onere tra Stato confiscante e creditore garantito da ipoteca sul bene confiscato.

La Corte, nel dirimere il confitto, riassume la natura e l'ordine delle questioni da risolvere, chiarendo che la prima è di ordine sostanziale e consiste nello stabilire se la confisca di un bene immobile disposta secondo le leggi "antimafia" estingua o meno le ipoteche iscritte su quell'immobile. Le altre due questioni, strettamente connesse alla prima, hanno, invece, natura processuale e riguardano le forme attraverso le quali deve trovare composizione il conflitto tra lo Stato confiscante ed il terzo titolare di un diritto reale di garanzia sui beni confiscati.

La soluzione al primo quesito è netta e si rinviene nell'ultimo intervento del legislatore in materia di confisca (art. 1, commi da 189 a 205 della legge 24 dicembre 2012, n. 228, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013). In particolare, la Corte prende atto che il legislatore ha risolto, nel senso della prevalenza della misura di prevenzione patrimoniale, il problema dei rapporti ipoteca-confisca, indipendentemente dal dato temporale, con conseguente estinzione di diritto degli «oneri e pesi iscritti o trascritti». Infatti, l'art. 1, comma 197, della l. n. 228 del 2012 che testualmente recita «gli oneri e pesi iscritti o trascritti (sui beni di cui al comma 194) anteriormente alla confisca sono estinti di diritto» fa riferimento anche all'ipoteca, al sequestro conservativo ed al pignoramento ricompresi tra i pesi e gli oneri dei quali è affermata l'estinzione.

Si precisa inoltre che lo Stato, a seguito dell'estinzione «di diritto dei pesi e degli oneri iscritti o trascritti prima della misura di prevenzione della confisca», acquista un bene non più a titolo derivativo. In sostanza la Corte ritiene che il legislatore, superando la condivisa opinione della giurisprudenza civile e penale sulla natura derivativa del titolo di acquisto del bene immobile da parte dello Stato a seguito della confisca, abbia ricompreso questa misura nel solco delle cause di estinzione dell'ipoteca disciplinate dall'art. 2878 cod. civ. Alla stregua di tale normativa, dunque, in ogni caso, la confisca prevarrà sull'ipoteca. La salvaguardia del preminente interesse pubblico giustifica il sacrificio inflitto al terzo di buona fede, titolare di un diritto reale di godimento o di garanzia, ammesso, ora, ad una tutela di tipo risarcitorio.

Il bilanciamento dei contrapposti interessi viene, quindi, differito ad un momento successivo, allorché il terzo creditore di buona fede chiederà – attraverso l'apposito procedimento – il riconoscimento del suo credito (si veda l'art. 1, comma 198, della legge n. 228 del 2012 per individuare la platea dei soggetti legittimati all'azione).

Quanto alla questione della competenza, le Sezioni unite ritengono che, nonostante il non corretto riferimento al «giudice dell'esecuzione» sia intuitivo e derivi dalla stessa interpretazione giurisprudenziale, il legislatore intendesse indicare, quale giudice competente, il Tribunale-misure di prevenzione. E ciò perché in materia di misure di prevenzione, il giudice dell'esecuzione è lo stesso tribunale che ha disposto la confisca; appunto, il Tribunalemisure di prevenzione. Questa conclusione è avallata anche dal comma 203 che fa riferimento «al Tribunale del luogo che ha disposto la confisca».

Quanto al procedimento di ammissione del credito – di natura tipicamente concorsuale – l'ammissione è subordinata, unitamente all'accertamento della sussistenza e dell'ammontare del credito, alla ricorrenza della condizione di cui all'art. 52, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, vale a dire che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità. Il diniego di ammissione del credito è, quindi, impugnabile ex art. 666 cod. proc. pen.

Competente a conoscere delle opposizioni – proposte dai creditori concorrenti – al piano di riparto (pagamento) predisposto dall'Agenzia sarà, invece, il giudice civile del luogo dove ha sede il Tribunale che ha disposto la confisca. E ciò per il richiamo che il comma 203 fa agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile «in quanto compatibili» Il tribunale provvede in composizione monocratica. Contro il decreto del tribunale non è ammesso reclamo.

La Corte, infine, sottolinea che la legge di stabilità che ha dato – almeno sulla carta – soluzione ai problemi che si sono dibattuti per anni in ordine ai rapporti fra confisca, quale misura di prevenzione patrimoniale, e garanzie di natura patrimoniale iscritte o trascritte sui beni oggetto della stessa, e tutela dei terzi, non ha colto l'occasione per regolamentare anche le conseguenze della confisca disciplinata dall'art. 12-sexies della legge 7 agosto 1992, n. 356, che, per la sua natura e per le sue caratteristiche, è destinata ad incidere anche sui terzi estranei al procedimento. In questa ottica, però, la l. n. 228 del 2012, si è limitata alla pur opportuna modifica dell'art. 12-sexies, comma 4-bis, della legge n. 356 del 1992, unificando la disciplina dell'amministrazione e della destinazione per tutti i beni sequestrati e confiscati.

2. Ipoteca e pegno.

In materia di ipoteca, la prima pronuncia meritevole di segnalazione è Sez. 1, n. 15685 (Rv. 627231), est. Di Amato, la quale ha stabilito che nel procedimento previsto dall'art. 39, comma 6-ter, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, il contenuto del frazionamento del mutuo è determinato dalla legge e non dal presidente del tribunale che, accertata la legittimazione del ricorrente e l'inadempimento della banca all'obbligo di frazionare il mutuo, si limita a designare il notaio che vi deve provvedere in sostituzione della banca. Ove, peraltro, il frazionamento sia richiesto dal terzo acquirente o dall'assegnatario, l'ipoteca, dopo il frazionamento, deve garantire soltanto la quota di mutuo che il richiedente si è accollato, e non una quota proporzionata al valore della singola unità rispetto al valore del complesso delle unità immobiliari gravate dall'ipoteca, con la conseguenza che al relativo procedimento non devono partecipare altri soggetti, oltre al mutuante ed al soggetto che ha chiesto il frazionamento (nella specie la S.C., nel dichiarare inammissibile il ricorso avverso il provvedimento del presidente del tribunale, in quanto non avente contenuto decisorio, ha enunciato il predetto principio ai sensi dell'art. 363, terzo comma, cod. proc. civ.).

Inoltre, in materia di cancellazione delle ipoteche deve segnalarsi Sez. 3, n. 15435 (Rv. 626876), est. Uccella, che conferma l'orientamento (Sez. 3, n. 10893 del 1999, Rv. 530411) secondo cui l'obbligazione del creditore a prestare il proprio consenso alla cancellazione, nelle forme prescritte dalla legge (artt. 2882, comma secondo, 2821 e 2835 cod. civ.), e di attivarsi, nei modi più adeguati alle circostanze, affinché il consenso così prestato pervenga al debitore, sorge soltanto a seguito dell'estinzione dell'intero debito, potendo egli eventualmente rinunciare a tale integrale adempimento, in base ad una scelta di opportunità, in tal modo derogando alla disciplina codicistica, che non ha in parte qua natura di norma imperativa. Ed infatti il creditore non è anche obbligato a chiedere, di sua iniziativa, detta cancellazione, mentre per converso grava su chiunque vi abbia interesse l'onere di chiederla e, pertanto, in primo luogo, sul proprietario dell'immobile soggetto al vincolo reale. Con la medesima sentenza si è anche affermato che l'obbligazione del creditore di prestare il proprio consenso, una volta che il debito sia estinto, riveste natura contrattuale; ne consegue che nel giudizio promosso dal debitore per il risarcimento del danno conseguente all'omessa cancellazione di un'ipoteca, spetta al debitore medesimo dare la prova di avere subìto un danno, posto che il creditore non è obbligato a chiedere, di sua iniziativa, detta cancellazione, e gravando, per converso, l'adempimento dell'obbligo al consenso su chiunque ne abbia interesse, e a maggior ragione sul proprietario dell'immobile.

In tema di procedure concorsuali, Sez. 1, n. 11025 (Rv. 626390), est. Di Amato, ha ritenuto che la prelazione del creditore ipotecario, ritualmente ammesso al passivo fallimentare, si estende anche ai frutti civili (nella specie, canoni di locazione) prodotti dall'immobile ipotecato dopo la dichiarazione di fallimento, mancando nella disciplina dell'esecuzione concorsuale una previsione contraria od incompatibile che osti all'estensione della disciplina dell'esecuzione individuale, né potendo attribuirsi un significato diverso a disposizioni, quali gli artt. 2808 cod. civ. e 54 legge fall., che adoperano le medesime espressioni letterali per disciplinare, seppure in sedi diverse, la medesima materia.

In tema di formazione dello stato passivo, Sez. 1, n. 8246 (Rv. 625575), est. Di Amato, ha stabilito che l'atto costitutivo di ipoteca giudiziale, ove revocabile alla stregua dell'art. 67, n. 4, legge fall., è inopponibile alla massa non solo relativamente all'effetto della prelazione ipotecaria, ma anche qualora sia invocato a fondamento del credito di rimborso per le spese della iscrizione, sicché, l'avvenuta revoca di quest'ultima in via di eccezione preclude tanto la collocazione del credito originariamente garantito in via di prelazione, quanto l'ammissione, pur solo in via chirografaria, dell'ulteriore credito per dette spese.

Ancora in tema di formazione dello stato passivo Sez. 1, n. 7287 (Rv. 625853), est. Di Virgilio, ha ritenuto l'indicazione del titolo della prelazione e della descrizione del bene sul quale essa si esercita, se questa ha carattere speciale, sancita dall'art. 93, terzo comma, n. 4, legge fall. (nel testo novellato a seguito del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e del correttivo d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), quale requisito eventuale dell'istanza di ammissione in privilegio, deve essere verificata dal giudice, tenuto conto del principio generale secondo cui l'oggetto della domanda si identifica sulla base delle complessive indicazioni contenute in quest'ultima e dei documenti alla stessa allegati (così statuendo, la S.C. ha confermato il decreto impugnato che aveva ammesso solo parzialmente in via ipotecaria il credito azionato, in assenza di adeguata precisazione circa l'individuazione dell'oggetto della prelazione, posto che la banca ricorrente si era limitata ad indicare genericamente di aver allegato alla domanda di ammissione al passivo "la documentazione attestativa" di due ipoteche volontarie e che "da dette produzioni era facilmente ricavabile la descrizione del bene"). Secondo Sez. 1, n. 1807 (Rv. 624878), est. Ragonesi, l'ipoteca, accessoria ad un mutuo, che integri in concreto una garanzia costituita per un debito chirografario preesistente qualora venga dichiarato il fallimento dell'obbligato, è revocabile ex art. 67 legge fall., ma la revoca di detta ipoteca non comporta necessariamente l'esclusione dall'ammissione al passivo di quanto erogato per il suddetto mutuo, essendo l'ammissione incompatibile con le sole fattispecie della simulazione e della novazione, e non anche con quella del negozio indiretto, poiché, in tal caso, la stessa revoca dell'intera operazione – e, quindi, anche del mutuo – comporterebbe pur sempre la necessità di ammettere al passivo la somma (realmente) erogata in virtù del mutuo revocato, e ciò in quanto all'inefficacia del contratto conseguirebbe pur sempre la necessità di restituzione, sia pur in moneta fallimentare.

Interessante, in materia di fondo patrimoniale, la pronuncia Sez. 3, n. 5385 (Rv. 625376), est. Frasca, con la quale si è deciso che l'art. 170 cod. civ., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell'esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all'iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui all'art. 77 del d.P.R. 3 marzo 1973, n. 602. Ne consegue che l'esattore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, qualora il debito facente capo a costoro sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero quando – nell'ipotesi contraria – il titolare del credito, per il quale l'esattore procede alla riscossione, non conosceva l'estraneità ai bisogni della famiglia; viceversa, l'esattore non può iscrivere l'ipoteca – sicché, ove proceda in tal senso, l'iscrizione è da ritenere illegittima – nel caso in cui il creditore conoscesse tale estraneità. Pertanto qualora il coniuge che ha costituito un fondo patrimoniale, conferendovi un suo bene, agisca contro un suo creditore chiedendo che – in ragione dell'appartenenza del bene al fondo – venga dichiarata, ai sensi dell'art. 170 cod. civ., l'illegittimità dell'iscrizione di ipoteca che costui abbia eseguito sul bene, ha l'onere di allegare e provare che il debito sia stato contratto per uno scopo estraneo ai bisogni della famiglia e che il creditore fosse a conoscenza di tale circostanza, anche nel caso di iscrizione ipotecaria ex art. 77 del d.P.R. del 29 marzo 1973, n. 602.

Infine, per Sez. 3, n. 775 (Rv. 624768), est. Vivaldi, il diritto di privilegio scaturente dall'ipoteca si estende agli interessi maturati dopo la scadenza dell'annualità in corso al momento del pignoramento, ma solo nella misura pari al saggio legale di cui all'art. 1284 cod. civ., e non al diverso saggio d'interesse eventualmente stabilito dalla legge che disciplina il singolo credito.

In materia di pegno, si deve segnalare in primo luogo l'interessante pronuncia sul divieto del patto commissorio di Sez. 2, n. 12462 (Rv. 626502), est. Matera, secondo cui un contratto preliminare di compravendita può incorrere nel divieto di cui all'art. 2744 cod. civ., ove risulti l'intento primario delle parti di costituire con il bene promesso in vendita una garanzia reale in funzione dell'adempimento delle obbligazioni contratte dal promittente venditore con altro negozio, in maniera da stabilire un collegamento strumentale fra i due negozi, mediante predisposizione di un meccanismo (quale la previsione di una condizione) diretto a far sì che l'effetto irrevocabile del trasferimento si realizzi solo a seguito dell'inadempimento del debitore, promittente alienante, rimanendo altrimenti il bene nella titolarità di quest'ultimo, atteso che in tal modo il preliminare viene impiegato non per finalità di scambio, ma in funzione di garanzia, per conseguire l'illecita coartazione del debitore rispetto alla volontà del creditore promissario acquirente, costituendo, allora, il mezzo per raggiungere il risultato vietato dalla legge. Infine merita di essere richiamata Sez. 1, n. 21608 (Rv. 627661), est. Scadaferri, la quale ha stabilito che, nell'ipotesi di deposito fiduciario in garanzia di assegno bancario in bianco nell'interesse di terzo, il diritto restitutorio del depositante non è esigibile nei confronti del depositario in presenza di un diniego motivato del terzo titolare del credito garantito.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA

  • licenziamento
  • contratto di lavoro
  • sindacato
  • sicurezza del lavoro
  • diritto del lavoro
  • flessibilità del lavoro

CAPITOLO XVI

IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO

(di Cristiano Valle )

Sommario

1 Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato. - 2 Lavoro flessibile e precario. - 3 Inquadramento, mansioni e trasferimenti. - 4 Ferie, sospensioni legittime del rapporto, congedi parentali. - 5 Sicurezza sul lavoro. - 6 Potere di controllo e disciplinare. - 7 Retribuzione e contratto collettivo. - 8 Organizzazione sindacale. - 9 Licenziamenti collettivi e trasferimento d'azienda. - 10 Dimissioni. Mutuo consenso. - 11 Licenziamento individuale. - 12 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. - 13 Parasubordinazione. Agenzia.

1. Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato.

In tema di contratto di formazione e lavoro – disciplinato dall'art. 3 del decreto legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella legge 19 dicembre 1984, n. 863 – Sez. L, n. 5402 (Rv. 625613), est. Napoletano, ha affermato che, in difetto della predeterminazione legislativa di specifici modelli di formazione, il giudice, per accertare che non vi sia stato inadempimento degli obblighi formativi, può e deve fare riferimento al progetto formativo approvato, indipendentemente dal fatto che il lavoratore abbia o meno tempestivamente dedotto la mancanza di formazione anche in relazione al progetto.

Con riferimento al contratto di apprendistato, Sez. L, n. 11265 (Rv. 626577), est. Fernandes, ha ribadito che esso è un rapporto di lavoro speciale, in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad impartire nella sua impresa all'apprendista l'insegnamento necessario perché questi possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato, occorrendo a tal fine lo svolgimento effettivo, e non meramente figurativo, sia delle prestazioni lavorative da parte del dipendente, sia della corrispondente attività di insegnamento da parte del datore di lavoro, la quale costituisce elemento essenziale e indefettibile del contratto di apprendistato, entrando a far parte della causa negoziale, e che l'accertamento dell'effettivo svolgimento di un'attività formativa compete al giudice di merito.

In materia di collocamento al lavoro dei disabili, Sez. L, n. 17785 (Rv. 627283), est. Ianniello, ha affermato che l'avviamento al lavoro dei disabili psichici deve avvenire, ai sensi dell'art. 9, comma quarto, della legge 12 marzo 1999, n. 68, su richiesta nominativa, nell'ambito delle convenzioni tra datore di lavoro ed ufficio del lavoro competente, disciplinate dall'art. 11 della medesima legge.

Con riferimento in generale all'avviamento obbligatorio e avuto riguardo alla l. n. 482 del 1968, applicabile ratione temporis, Sez. L, n. 5546 (Rv. 625950), est. Napoletano, ha affermato che la normativa recata dalla detta legge – a differenza della disciplina del collocamento ordinario – prescrive soltanto che la richiesta dell'imprenditore sia numerica (e solo eccezionalmente nominativa), senza prevedere ulteriori specificazioni in ordine alla professionalità del lavoratore che si intende assumere. Pertanto, ove l'imprenditore avesse fatto richiesta di avviamento (obbligatorio) di un lavoratore invalido (od assimilato) avente specifiche attitudini lavorative, l'Ufficio del lavoro poteva soltanto individuare in quale delle due fondamentali categorie professionali (impiegatizia od operaia) previste dall'art. 2095 cod. civ. tali attitudini fossero inquadrabili e provvedere in conformità di tale generico inquadramento, con la conseguenza che nell'ipotesi di divergenza tra la categoria indicata nella richiesta e quella di appartenenza del lavoratore avviato non veniva ad esistenza il diritto soggettivo di quest'ultimo ad essere assunto dall'impresa destinataria dell'ordine di assegnazione e diventava legittimo l'eventuale rifiuto dell'imprenditore di assumere il lavoratore avviato che non rientrasse nella generale categoria professionale risultante dalla richiesta.

Con riferimento ai lavori socialmente utili, Sez. L, n. 2605 (Rv. 625075), est. Arienzo, ha escluso che possa qualificarsi come rapporto di lavoro subordinato l'occupazione temporanea di lavoratori socialmente utili alle dipendenze di un ente comunale per l'attuazione di un apposito progetto, realizzandosi con essa, alla stregua dell'apposita normativa in concreto applicabile, un rapporto di lavoro speciale di matrice essenzialmente assistenziale, inserito nel quadro di un programma specifico che utilizza i contributi pubblici. Ne consegue che in capo all'ente comunale non è configurabile, con riguardo alla suddetta categoria di lavoratori, una responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. per l'inosservanza delle norme antinfortunistiche poste a tutela dei dipendenti, potendosi ammettere solo una responsabilità in via extracontrattuale per la mancata adozione delle norme antinfortunistiche, purché il lavoratore socialmente utile ne provi i requisiti soggettivi ed oggettivi.

In tema di dirigenti nel settore privato Sez. L, n. 18414 (Rv. 627531), est. Marotta, ha affermato che, ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un alter ego dell'imprenditore (preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è necessario – ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente – verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro (e, in particolare, dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso), nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale.

Avuto riguardo alla figura professionale del perito assicurativo Sez. L, n. 10420 (Rv. 626435), est. Balestrieri, ha ritenuto che costituisce prestazione d'opera intellettuale ed è soggetta alle norme che il codice civile prevede per il relativo contratto quella espletata da un perito assicurativo, atteso che l'esercizio di tale attività è subordinata – come richiesto dall'art. 2229 cod. civ. – all'iscrizione in apposito albo o elenco, ai sensi della legge 17 febbraio 1992, n. 166 con conseguente applicazione della facoltà di recesso ad nutum, prevista dall'art. 2237 cod. civ., in difetto di prova, da parte del prestatore di lavoro, circa la pattuizione, anche implicita, di una deroga convenzionale alla disciplina legale.

Con riferimento al contratto di lavoro a progetto Sez. L, n. 13394 (Rv. 626629), est. Curzio, ha affermato che l'art. 61 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale e determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, nel rigettare la domanda di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato, aveva ritenuto rispondente ai requisiti di legge il progetto consistente nel mettere a disposizione di una società, acquirente di una concessionaria automobilistica, l'esperienza specifica e le conoscenze maturate in qualità di ex titolare, mediante una collaborazione coordinata e continuativa e in assenza di qualsiasi soggezione ad un potere direttivo datoriale, al fine dell'inserimento della nuova impresa nel mercato).

Da ultimo, in tema di associazione in partecipazione – avuto riguardo alla disciplina della stessa vigente prima dell'entrata in vigore della legge 28 giugno 2012, n. 92 e quindi prescindendo dalla presunzione di cui all'art. 1, comma 30, della stessa legge – Sez. L, n. 1817 (Rv. 624885), est. Marotta, ha ribadito che la distinzione tra detto contratto, qualora il contributo dell'associato consista nell'apporto della sua prestazione lavorativa, ed il contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata gli utili d'impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione da parte dell'associato, dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell'associato nella gestione dell'impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall'art. 35 Cost., che tutela il lavoro "in tutte le sue forme ed applicazioni".

2. Lavoro flessibile e precario.

Le sentenze rese in materia hanno riguardato sovente la materia delle conseguenze economiche della stipula illegittima di contratti di lavoro a termine o comunque precari.

Con riferimento alla legge 18 aprile 1962, n. 230, sul contratto di lavoro a tempo determinato, Sez. L, n. 8851 (Rv. 625917), est. Amoroso, ha affermato che il lavoratore che, ottenuta una pronunzia di conversione in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di una pluralità di rapporti di lavoro a termine, contrastanti con le previsioni della detta legge n. 230 del 1962 (ratione temporis applicabile), non venga riammesso in servizio, ha diritto al ristoro del danno commisurato al pregiudizio economico derivante dal rifiuto di riassunzione del datore di lavoro, nei cui confronti trovano applicazione le regole sulla mora del creditore e in particolare quella concernente l'obbligo risarcitorio, fissata nell'art. 1206, secondo comma, cod. civ., con conseguente necessità di riconoscere al lavoratore il diritto alla retribuzione per l'attività lavorativa ingiustificatamente impeditagli, comprensivo del trattamento spettante ai dipendenti che svolgono analoghe mansioni. Né, al fine di limitare il suddetto risarcimento e di attribuire invece al lavoratore, anche per il periodo successivo alla pronunzia di conversione, un trattamento retributivo commisurato alle scansioni temporali cicliche originariamente concordate tra le prestazioni dei singoli servizi prima di tale pronunzia (e quindi in concreto la sola retribuzione per i periodi nei quali, conformemente alle modalità originarie, vi sarebbe stata effettiva prestazione) può farsi riferimento al carattere sinallagmatico del rapporto, utilmente invocabile solo in relazione al periodo anteriore alla conversione, o a legittime pattuizioni relative alla misura ed alla quantità della prestazione lavorativa, pattuizioni la cui esistenza non può peraltro venir dedotta dal solo succedersi nel tempo di una pluralità di contratti a termine in violazione della citata legge n. 230 del 1960, pena la sostanziale vanificazione dei precetti da questa stabiliti.

In materia di lavoro interinale Sez. L, n. 13404 (Rv. 626722), est. Curzio, ha affermato che l'indennità prevista dall'art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 trova applicazione in ogni caso in cui vi sia una contratto di lavoro a tempo determinato per il quale operi la conversione in contratto a tempo indeterminato, e dunque anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subìto dal lavoratore a causa dell'illegittimità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della lett. a) del primo comma dell'art. 3 della legge 24 giugno 1997, n. 196, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione, atteso che anche tale contratto è riconducibile alla categoria del contratto di lavoro a tempo determinato (come si desume anche dalla Direttiva 1999/70/CE, di recepimento dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, che, proprio per tale astratta riconducibilità, lo ha escluso espressamente dal suo campo di applicazione). La pronuncia era stata preceduta da Sez. L, n. 1148 (Rv. 624810), est. Barreca, dello stesso estensore e sulla stessa tipologia contrattuale.

L'onere di specificazione delle causali della stipulazione di contratti a termine per esigenze sostitutive, secondo Sez. L, n. 10068 (Rv. 626257), est. Blasutto, può essere soddisfatto, nelle situazione aziendali complesse, in cui la sostituzione non sia riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica che sia occasionalmente scoperta, con la verifica della corrispondenza quantitativa tra il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine per lo svolgimento di una data funzione aziendale e le scoperture che per quella stessa funzione si sono realizzate per il periodo dell'assunzione

In tema di diritto di precedenza nelle assunzioni in favore dei lavori a tempo determinato Sez. L, n. 11269 (Rv. 626238), est. Tria, ha statuito che esso non è previsto, in via generale, per tutte le assunzioni a termine bensì con riguardo ad ipotesi ben specificate ed, in particolare, solo in relazione alle assunzioni avvenute ai sensi della lettera a) dell'art. 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230 (ratione temporis applicabile), a quelle previste dal d.l. 3 dicembre 1977, n. 876 e dalla legge 26 novembre 1979, n. 598 (ratione temporis applicabile), cioè per le cd. assunzioni per punte stagionali.

Nello specifico settore delle aziende pubbliche di trasporto, Sez. L, n. 1458 (Rv. 627038), est. Bandini, ha affermato che la disciplina dell'esonero dal servizio degli agenti in prova si applica soltanto al personale di ruolo che gode del trattamento di stabilità, in difetto di esplicita previsione contraria, e non può pertanto riguardare il personale assunto con contratto di formazione e lavoro, il cui rapporto resta disciplinato dalle specifiche disposizioni della legge 19 dicembre 1984, n. 863 e in particolare, per quanto riguarda il periodo di prova, dall'art. 2096 cod. civ., richiamato dall'art. 5 di tale legge. La stessa sentenza (ma Rv. 627039), ha precisato che in caso di assunzione in prova, ai sensi dell'art. 2096 cod. civ., se il termine del periodo di prova è fissato in mesi, in assenza di una specifica previsione, si deve osservare il calendario comune, con la conseguenza che resta esclusa la possibilità di tener conto dei soli giorni di lavoro effettivamente prestato e non anche dei giorni di sospensione della prestazione lavorativa per ferie, festività, malattia, infortunio od altro.

Con riferimento alle conseguenze della dichiarazione di nullità dell'apposizione del termine, Sez. L, n. 11927 (Rv. 626242), est. Arienzo, ha affermato che la riammissione in servizio del dipendente in ottemperanza all'ordine giudiziale, a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 cod. civ., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti.

3. Inquadramento, mansioni e trasferimenti.

In tema di assunzioni degli appartenenti alle categorie di riservatari, Sez. L, n. 10338 (Rv. 626332), est. Garri, ha affermato che pur quando il lavoratore sia stato avviato al lavoro ai sensi della legge 2 aprile 1968, n. 482 (vigente ratione temporis), il suo diritto – quale portatore di handicap – a non essere trasferito presso altra sede lavorativa, se non con il proprio consenso, resta subordinato, secondo quanto previsto dal combinato disposto dagli artt. 3 e 33, comma sesto, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, alla gravità della disabilità, il cui accertamento è demandato ad apposita Commissione istituita presso la competente Azienda Sanitaria Locale, ai sensi dell'art. 4 della medesima legge n. 104 del 1992.

Con riferimento all'esercizio del potere datoriale di attribuzione di diverse mansioni (cd. ius variandi), Sez. L, n. 15010 (Rv. 626942), est. Marotta ha affermato che deve essere valutata, dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo che, sul piano formale, entrambe le tipologie di mansioni rientrino nella medesima area operativa. (Nella specie, il c.c.n.l. per i dipendenti postali del 26 novembre 1994, nell'introdurre le nuove classificazioni per il personale aveva accorpato in un'unica area operativa mansioni in precedenza diversificate, prevedendo la fungibilità tra i diversi settori operativi; la S.C., in applicazione del principio di cui alla massima, ha rilevato che, correttamente, la corte territoriale aveva ritenuto vi fosse stata una concreta dequalificazione attesa la destinazione del lavoratore allo svolgimento di semplici compiti di sportello con sottrazione delle funzioni di coordinamento e controllo di altro personale precedentemente spiegate, con impossibilità di utilizzare le pregresse capacità professionali, destinate alla progressiva scomparsa).

In tema di espletamento dell'attività del lavoratore subordinato presso altro datore di lavoro, Sez. L, n. 14314 (Rv. 627142), est. Garri, ha precisato che figura del "distacco" o "comando" del lavoratore comporta un cambio nell'esercizio del potere direttivo – perché il dipendente viene dislocato presso altro datore di lavoro, con contestuale assoggettamento al comando ed al controllo di quest'ultimo – ma non incide sulla titolarità del rapporto, in quanto il datore di lavoro distaccante continua ad essere titolare del rapporto di lavoro, con la conseguenza che il rapporto di lavoro resta disciplinato ai fini economici dalle regole applicabili al datore distaccante. Nella specie, precedente l'entrata in vigore dell'art. 30 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, interpretando le norme collettive che prevedevano il riconoscimento della P.E.D. (posizione economica differenziata) in favore dei dipendenti di Poste s.p.a. "in servizio" ad una certa data, aveva rilevato che la posizione di comando presso altro ente non escludeva il dipendente comandato dalla platea dei possibili beneficiari della prestazione.

Avuto riguardo ai poteri imprenditoriali di inquadramento del lavoratore Sez. L, n. 20839 (Rv. 628080), est. Balestrieri, ha confermato la statuizione di nullità delle clausole dei contratti collettivi di lavoro, che subordinano l'attribuzione della qualifica di dirigente al requisito del formale riconoscimento da parte del datore di lavoro (cd. "clausole di mero riconoscimento formale"), in quanto ancorate non alla necessaria natura obiettiva delle mansioni – art. 2094 cod. civ. –e dei compiti di fatto svolti, di cui la qualifica è definizione formale, bensì unicamente ad una unilaterale ed arbitraria scelta unilaterale datoriale.

Sez. L, n. 20611 (Rv. 627940), est. Arienzo, ha ritenuto, in tema di sede di lavoro, che la disciplina limitativa del trasferimento del lavoratore di cui all'art. 2103 cod. civ., che condiziona la legittimità del trasferimento alla ricorrenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, è applicabile soltanto con riferimento al medesimo rapporto di lavoro e non ad altro successivo rapporto, salvo che non ricorrono le condizioni previste dall'art. 2112 cod. civ. (fattispecie relativa a lavoratore dipendente di impresa assicuratrice posta in liquidazione coatta amministrativa, riassunto dal commissario liquidatore e quindi da un'impresa cessionaria del portafoglio della suddetta impresa).

4. Ferie, sospensioni legittime del rapporto, congedi parentali.

L'esatta determinazione del periodo dell'anno di fruizione delle ferie, secondo Sez. L. n. 18166 (Rv. 627296), est. Venuti, compete al datore di lavoro, nell'esercizio del generale potere organizzativo e direttivo dell'impresa, mentre al lavoratore è riconosciuta la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intenda fruire del riposo annuale.

Dando continuità all'orientamento già espresso nel 2012, Sez. L, n. 20813 (Rv. 627939), ha riaffermato che l'indennità sostitutiva delle ferie non fruite ha natura mista, avendo non solo carattere risarcitorio, in quanto volta a compensare il danno derivante dalla perdita di un bene determinato (il riposo, con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali), ma anche retributivo, in quanto è connessa al sinallagma contrattuale e costituisce il corrispettivo dell'attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito avrebbe dovuto essere non lavorato, in quanto destinato al godimento delle ferie annuali. Ne consegue l'inclusione dell'indennità nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto.

Nei normali obblighi di correttezza e diligenza nello svolgimento del rapporto, secondo Sez. L, n. 10552, (Rv. 626433), est. Garri, va ricompreso quello, gravante sul lavoratore, di assicurarsi che impedimenti nell'espletamento della prestazione, seppure legittimi, non arrechino alla controparte datoriale un pregiudizio ulteriore, per effetto di inesatte comunicazioni che generino un legittimo affidamento in ordine alla effettiva ripresa della prestazione lavorativa. (In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata dal lavoro per il tempo previsto dal contratto collettivo, nei confronti di un lavoratore che, pur temporaneamente impossibilitato per ragioni di salute all'espletamento della prestazione, non aveva rispettato il termine di ripresa del lavoro indicato nel certificato di malattia inviato al datore, ma quello indicato in altro certificato non inviato).

In fattispecie relativa alla cessazione del rapporto per eccessiva morbilità Sez. L, n. 14756 (Rv. 627138), est. Amoroso, ha interpretato l'art. 46 del CCNL 22 agosto 2003 Panificazioneindustria – che prevede la conservazione del posto in caso di malattia professionale per il periodo di corresponsione dell'indennità di inabilità temporanea assoluta da parte dell'INAIL – nel senso che le disposizioni in materia di comporto dettate per la malattia professionale debbano essere estese anche all'infortunio in itinere, atteso che non possono porsi a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subìto a causa dell'attività lavorativa espletata. La stessa pronuncia ha precisato che, a tal fine, la certificazione INAIL non costituisce prova legale del carattere lavorativo dell'infortunio, ma un dato valutativo idoneo, in mancanza di elementi probatori di segno opposto, ai fini del riconoscimento dell'infortunio in itinere e per l'applicabilità della speciale disciplina del comporto prevista dalla disposizione contrattuale.

Con orientamento reso in assenza di precedenti specifici, Sez. L, n. 10180 (Rv. 626489), est. Curzio, ha affermato che in tema di congedo cd. flessibile per maternità, nel caso in cui la lavoratrice abbia continuato a prestare servizio nell'ottavo mese di gravidanza, il datore di lavoro – oltre a subire le sanzioni previste dall'art. 18 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, ove non sia stata preventivamente presentata al datore la certificazione medica di assenza di rischio, prevista dall'art. 20 del medesimo decreto – deve corrispondere in ogni caso alla lavoratrice la relativa retribuzione e l'I.N.P.S. non è tenuto a corrispondere l'indennità di maternità per tale mese, fermo restando che la detta indennità è dovuta per il periodo di astensione di cinque mesi, e, dunque, fino al quarto mese successivo al parto, essendo escluso che dalla mancata presentazione da parte della lavoratrice delle certificazioni suddette possa derivare, quale sanzione, la riduzione del periodo di fruizione dell'indennità di maternità rispetto a quello, non disponibile, previsto dalla legge.

5. Sicurezza sul lavoro.

Nell'ambito del apporto di lavoro con ente pubblico territoriale e in tema di tutela della salute del lavoratore e relativo obbligo risarcitorio, Sez. L, n. 2038 (Rv. 624863), est. Arienzo, ha escluso che la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implichi necessariamente, o possa far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.

La tutela della sicurezza dei lavoratori, e in specie di quelli più giovani, non si estende anche a comportamenti negligenti: Sez. L, n. 8861 (Rv. 625921) est. Arienzo, ha escluso la responsabilità datoriale per l'infortunio occorso al lavoratore, allorquando l'infortunio si verifichi per un comportamento del dipendente che presenti i caratteri dell'abnormità e dell'assoluta inopinabilità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità datoriale per il carattere imprevedibile ed assolutamente anomalo della condotta del giovane lavoratore, il quale, dopo aver iniziato le ordinarie mansioni affidategli munito dei prescritti dispositivi di protezione individuale, se ne era privato non appena sfuggito alla sorveglianza del capo officina).

È stato escluso che l'obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro possa avere ad oggetto anche la tutela dall'attività criminosa di soggetti terzi rispetto al rapporto di lavoro: Sez. L, n. 12089 (Rv. 626667), est. Balestrieri, ha affermato che l'ambito di responsabilità datoriale di cui all'art. 2087 cod. civ. non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno, sull'assunto che comunque il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, perché, in tal modo, si perverrebbe all'abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva, ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell'evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova del mancato uso dei mezzi tecnici più evoluti del momento, atteso il superamento criminoso di quelli in concreto apprestati dal datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, nell'evidenziare che il danno era derivato da fatto penalmente illecito ed imprevedibile di terzi e che il lavoratore non aveva dedotto specifici profili di colpa del datore di lavoro, aveva respinto la domanda di una guardia giurata volta ad ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico patito per l'aggressione subita durante un servizio di vigilanza notturna, in un parco dove si stava svolgendo una manifestazione politica).

In settore assai sensibile, quale quello delle patologie tumorali causate dall'amianto, Sez. L, n. 18267 (Rv. 627285), est. Tria, ha ritenuto necessaria la dimostrazione, da parte del lavoratore che agisca sulla base dell'art. 2087 cod. civ., dell'effettiva ricorrenza delle condizioni di polverosità da asbesto dell'ambiente di lavoro, dovendosi escludere la rilevanza causale (o concausale) della suddetta esposizione rispetto alla malattia, in assenza di asbestosi o di affezione pleurica e in mancanza della prova del superamento del valore-limite di esposizione all'amianto (oggi fissato dall'art. 254, comma 1, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che ha sostituito il d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, applicabile ratione temporis), essendo scientificamente accertata la dose-dipendenza del carcinoma polmonare rispetto all'esposizione all'amianto; essa ha, quindi, ribadito che in caso di accertata esposizione al rischio ambientale può essere presa in considerazione l'eventuale efficienza causale di altri fattori cancerogeni, quali l'abitudine al fumo di sigarette, la quale tuttavia, di regola, non rileva, di per sé, al fine dell'interruzione del nesso causale.

In tema di risarcimento danni derivanti dalla violazione dell'art. 2087 cod. civ., Sez. L, n. 10414 (Rv. 626373), est. Manna, ha ritenuto applicabile il termine di prescrizione decennale – ordinario – e non quello relativo alle spettanze retributive (quinquennale, ai sensi dell'art. 2948, n. 4, cod. civ.)

6. Potere di controllo e disciplinare.

Sull'esercizio del potere disciplinare Sez. L, n. 6501 (Rv. 625865), est. Manna, ha escluso che a norma di legge sia vietato che l'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro possa essere sollecitato a seguito di scritti anonimi –poiché gli artt. 240 e 333 cod. proc. pen. riguardano esclusivamente la materia penale – restando escluso solo che questi possano essere lo strumento di prova dell'illecito, né un simile divieto può desumersi dal generale principio di correttezza e buona fede, che costituisce un metro di valutazione dell'adempimento degli obblighi contrattuali e non anche una loro autonoma fonte.

In tema di contestazione disciplinare Sez. L, n. 16831 (Rv. 627199), est. Maisano, ha affermato che la regola della specificità della contestazione dell'addebito che faccia riferimento a numerosi episodi, già oggetto di procedimenti giudiziari per sanzioni conservative ed altri fatti di gravi intemperanze verbali o di provocazione, integranti inosservanza dei doveri di diligente e leale collaborazione, non richiede necessariamente l'indicazione anche del giorno e dell'ora in cui gli stessi fatti sono stati commessi ove l'incolpato abbia potuto esercitare utilmente il diritto di difendersi. (Nella specie, la S.C. ha rilevato che, quanto alle condotte oggetto delle pregresse sanzioni disciplinari conservative, si trattava di fatti noti al lavoratore, mentre, con riguardo alle altre condotte, la contestazione era "temporalmente aperta" e pienamente legittima in quanto, come confermato dalla compiuta difesa svolta dal lavoratore, non aveva impedito all'incolpato di difendersi).

Secondo Sez. L, n. 15006 (Rv. 627080), est. Maisano, l'errata indicazione del giorno in cui sarebbe stato commesso il fatto addebitato assume un valore decisivo ai fini della correttezza della contestazione poiché pregiudica il diritto alla prova spettante all'incolpato. (Nella specie, relativa ad una condotta avvenuta nottetempo, l'identificazione esatta del giorno assumeva rilievo ai fini della prova di non essere stato nei luoghi dell'illecito).

Sez. L, n. 6337 (Rv. 626064), est. Balestrieri, ha ribadito che la procedimentalizzazione del potere disciplinare operata dall'art. 7 della l. 20 maggio 1970, n. 300 non comprende alcun obbligo in capo al datore di lavoro di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore incolpato la documentazione su cui si base la contestazione; in base agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. egli è però tenuto in base ai principî di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ad offrire in consultazione i documenti aziendali all'incolpato che ne faccia richiesta, laddove l'esame degli stessi sia necessario per predisporre un'adeguata difesa.

Nell'esercizio del potere disciplinare, secondo Sez. L, n. 5821 (Rv. 620663), est. Berrino, il datore di lavoro che abbia ipotizzato inizialmente la possibilità di irrogare la sanzione massima, che consente la sospensione cautelare, ben può addivenire successivamente, all'esito dell'istruttoria, al convincimento di adottare una sanzione prevista per le ipotesi meno gravi, senza che ciò comporti l'illegittimità della sospensione pregressa o della sanzione, dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto.

Sez. L, n. 2168 (Rv. 624889), est. Blasutto, ha ribadito l'orientamento secondo il quale il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.

7. Retribuzione e contratto collettivo.

In tema di retribuzione per il lavoro festivo Sez. L, n 21626 (Rv. 627649), est. Balestrieri, ha ribadito che lavoro prestato nella giornata di domenica, anche nell'ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, deve essere in ogni caso compensato con un quid pluris che, ove non previsto dalla contrattazione collettiva, può essere determinato dal giudice e può consistere anche in benefici non necessariamente economici, salva restando l'applicabilità della disciplina contrattuale collettiva più favorevole.

Con riferimento alla prescrizione dei crediti del lavoratore Sez. L n. 6967 (Rv. 625693), est. Berrino, ha affermato che la conversione della prescrizione breve in quella decennale per effetto della formazione del titolo giudiziale ex art. 2953 cod. civ. ha il proprio fondamento esclusivo nel titolo medesimo, sicché non incide sui diritti non riconducibili a questo e, dunque, non opera per i diritti maturati in periodi successivi a quelli oggetto del giudicato di condanna (nella specie, per differenze retributive maturate nel corso del rapporto di lavoro).

Confermando il costante orientamento giurisprudenziale in materia, Sez. L, n. 21010 (Rv. 627984), est. Fernandes, ha ribadito che l'accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali, atteso che il meccanismo di queste ultime si pone in relazione al distinto rapporto d'imposta, sul quale il giudice chiamato all'accertamento ed alla liquidazione delle spettanze retributive (come pure all'assegnazione delle relative somme in sede di esecuzione forzata) non ha il potere d'interferire, restando le dette somme assoggettate a tassazione, secondo il criterio cd. di cassa e non di competenza, soltanto una volta che saranno dal lavoratore effettivamente percepite.

Nell'ipotesi di trasferimento di azienda, secondo Sez. L, n. 14208 (Rv. 627033), est. Mancino, il riconoscimento, in favore dei lavoratori dell'azienda ceduta, dell'anzianità maturata presso il cedente non implica che il cessionario debba corrispondere gli scatti in riferimento a tale anzianità, ove presso il datore di lavoro precedente non esistesse il diritto a percepire gli scatti periodici di anzianità, essendo questi dovuti solo a partire dal periodo lavorativo regolato dalla contrattazione applicata presso il cessionario.

Sez. L, n. 9067 (Rv. 625965), est. Manna, ha escluso che contrasti con l'ordine pubblico un contratto individuale di lavoro, destinato ad essere eseguito all'estero e che, sottoposto dalle parti alla legge stranera, escluda la corresponsione del trattamento di fine rapporto.

8. Organizzazione sindacale.

In fattispecie di recente risonanza mediatica, Sez. n. 18368 (Rv. 627809), est. Curzio, ha ritenuto antisindacale la condotta del datore di lavoro che, in occasione di uno sciopero, abbia sanzionato con il licenziamento senza preavviso il comportamento di tre lavoratori – due dei quali rappresentanti sindacali – che si siano trattenuti, nella zona di passaggio dei carrelli, cinque-sei minuti in più degli altri aderenti all'astensione dal lavoro, ove la maggior permanenza sia imputabile alla discussione avviata con i rappresentanti dell'azienda (che avevano scelto detti lavoratori come loro interlocutori) e nessun altro manifestante sia stato attinto da misure disciplinari, neppure di tipo conservativo, sussistendo una sicura sproporzione, sia sul piano oggettivo che soggettivo, tra l'addebito e la misura irrogata.

In tema di garanzie dei rappresentanti sindacali, Sez. L, n. 16981 (Rv. 627266), est. Venuti, ha affermato che nel caso di trasferimento di dirigente sindacale l'art. 14 dell'accordo interconfederale del 18 aprile 1966, la cui applicabilità è stata estesa ai trasferimenti dei componenti delle r.s.u. dall'art. 5 del c.c.n.l. 7 maggio 2003 per l'industria metalmeccanica, disciplina generale, sezione 2, secondo il quale, in caso di trasferimento, va avviata su richiesta dell'organizzazione dei lavoratori, una procedura conciliativa entro sei giorni dalla notifica del provvedimento effettuata dall'associazione datoriale, si interpreta nel senso che la mancata richiesta dell'esame conciliativo da parte del sindacato dei lavoratori non rende operante, per l'inutile decorso del termine, il trasferimento del dirigente r.s.u. ove sia intervenuto il preventivo diniego di nulla osta da parte del medesimo sindacato, dovendosi ritenere una diversa interpretazione, che imponga di attivare in ogni caso – e, dunque, anche in caso di diniego espresso – la procedura conciliativa a pena di operatività del provvedimento datoriale, lesiva della tutela dell'inamovibilità sancita dall'art. 22 statuto dei lavoratori, che non può essere derogato da una disciplina contrattuale peggiorativa.

Con riferimento a condotta antisindacale plurioffensiva sez. L, n. 16930 (Rv. 627054), est. Manna, ha escluso che le vicende dell'azione individuale intrapresa dal lavoratore concretamente inciso alla condotta datoriale possano condizionare l'azione collettiva, posto che il comportamento datoriale è suscettibile di dare luogo a due azioni, quella collettiva e quella individuale, distinte autonome e senza interferenze, con la conseguenza che l'attualità della condotta antisindacale e la permanenza dei suoi effetti devono essere accertati avuto riguardo agli interessi di cui l'organizzazione sindacale è portatrice esclusiva.

In materia di contrattazione collettiva Sez. L, n. 14511 (Rv. 627021), est. Marotta, ha escluso che costituisca condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro il quale abbia sottoscritto un nuovo contratto collettivo, sostituendo il trattamento in precedenza applicato, frutto di accordo con alcune organizzazioni sindacali, con il trattamento concordato con altri sindacati, ed imponendo tale nuovo trattamento agli iscritti al sindacato non stipulante nonostante l'esplicito diniego espresso, posto che non sussiste, nel nostro ordinamento, un obbligo a carico del datore di lavoro di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni sindacali, rientrando nell'autonomia negoziale da riconoscere alla parte datoriale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il precedente.

9. Licenziamenti collettivi e trasferimento d'azienda.

Ribadendo un orientamento affermato con riferimento al singolo reparto aziendale Sez. L, n. 18363 (Rv. 627871), est. Blasutto, ha affermato che la deroga al divieto di licenziamento, di cui all'art. 54, comma 3, lett. b), del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, dall'inizio della gestazione fino al compimento dell'età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell'intera attività aziendale, per cui, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione di ramo d'azienda.

In tema di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, Sez. L, n. 17177 (Rv. 627052), est. Blasutto, ha affermato che non assume rilievo, ai fini dell'esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l'azienda e interferenza sull'assetto organizzativo, atteso che, ove sia mancato l'accordo sui criteri di scelta con le organizzazioni sindacali, operano i criteri legali sussidiari previsti dall'art. 5, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, che non contempla tra i suoi parametri la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo la regola legale all'esigenza di assicurare che i procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro.

In punto di tutela del singolo lavoratore Sez. L, n. 13112 (Rv. 626720), est. Ianniello, ha riconosciuto al dipendente licenziato per cessazione di attività oltre il termine di centoventi giorni dalla cessazione della procedura di mobilità il potere di chiedere direttamente all'ufficio del lavoro competente l'iscrizione nelle liste di mobilità, non essendo l'esercizio di tale facoltà impedito dalla mancata previsione, per fatto imputabile al datore di lavoro, dello slittamento del termine nell'accordo collettivo conclusivo della procedura.

Precisando l'esatto contenuto degli adempimenti informativi di cui all'art. 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, Sez. n. 1315 (Rv. 625077), est. Manna, ha escluso che al singolo lavoratore che ne faccia richiesta vadano comunicati i motivi, in applicazione analogica del disposto dell'art. 2 della l. 15 luglio 1966, n. 604, in quanto egli, quando non aderisca ad alcuna organizzazione sindacale, può ottenere le relative informazioni dagli uffici pubblici destinatari della comunicazione di cui all'art. 4 della l. n. 223 del 1991 e qualora questi non vi provvedano, a mezzo dell'ordine giudiziale, ai sensi degli artt. 201 e 213 cod. proc. civ., nel corso del processo, senza che risulti leso il diritto del singolo di non aderire ad associazioni sindacali.

Ugualmente in materia di adempimenti procedimentali, Sez. L, n. 18366 (Rv. 627360), est. Venuti, ha affermato che la comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, in caso di contestazione giudiziale, deve essere prodotta dal datore di lavoro al momento della tempestiva costituzione in giudizio: conseguente la produzione in appello è inammissibile ed all'inerzia della parte non possono ovviare i poteri istruttori d'ufficio del giudice.

L'accordo che intercorre tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali può anche basarsi su criteri diversi da quelli di cui all'art. 5, l. n. 223 del 1991, purché rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità; in tale ottica, secondo Sez. L, n. 4186 (Rv. 625167), est. Curzio, deve ritenersi razionalmente giustificato il ricorso al criterio della maturazione dei requisiti per poter essere collocati in pensione di anzianità, trattandosi di un criterio oggettivo che permette di scegliere, a parità di condizioni, il lavoratore che subisce il danno minore dal licenziamento, potendo sostituire il reddito da lavoro con il reddito da pensione.

Sez. L, n. 6959 (Rv. 625759), est. Marotta, ha precisato che in ogni caso i criteri concordati – oltre a dover essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori – devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità, operando senza discriminazioni tra i dipendenti, cercando di ridurre al minimo il cosiddetto "impatto sociale", e scegliendo, nei limiti in cui ciò sia consentito dalle esigenze oggettive a fondamento della riduzione del personale, di espellere i lavoratori che, per vari motivi, anche personali, subiscono ragionevolmente un danno comparativamente minore; la stessa sentenza (ma Rv. 625758) ha ribadito che la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 rappresenta una cadenza essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro e quindi che il singolo lavoratore è legittimato a far valere l'incompletezza dell'informazione, in quanto la comunicazione rituale e completa della mancanza di alternative ai licenziamenti rappresenta, nell'ambito della procedura, una cadenza legale che, se mancante, risulta ontologicamente impeditiva di una proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato.

In tema di cessione d'azienda Sez. L, n. 6969 (Rv. 625698), est. Fernandes, ha escluso che possa qualificarsi come in frode alla legge, o concluso per motivo illecito – non potendo ritenersi tale il motivo, perseguito con un negozio traslativo, di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti – il contratto di cessione dell'azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali ed in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro.

Nel delimitare la fattispecie, Sez. L, n. 6131 (Rv. 625470), est. Fernandes, ha escluso che il trasferimento del pacchetto azionario di maggioranza di una società di capitali integri gli estremi del trasferimento di azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., in quanto non determina la sostituzione di un soggetto giuridico ad un altro nella titolarità dei rapporti pregressi, ma solo modifica gli assetti azionari interni sotto il profilo della loro titolarità, ferma restando la soggettività giuridica di ogni società anche se totalmente eterodiretta.

Sez. L, n. 11918 (Rv. 626488), est. Balestrieri, ha ribadito che fini del trasferimento d'azienda, la disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ. postula soltanto che il complesso organizzato dei beni dell'impresa – nella sua identità obiettiva – sia passato ad un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio, potendosi così prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l'imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione affermando che, tuttavia, non può ravvisarsi un trasferimento d'azienda in ipotesi di successione nell'appalto di un servizio, ove non sia dimostrato un passaggio di beni di non trascurabile entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.

10. Dimissioni. Mutuo consenso.

Ribadendo orientamento oramai risalente, Sez. L, n. 4305 (Rv. 625835), est. Bandini, ha riaffermato che il principio per cui il rapporto di lavoro continua, con la permanenza delle reciproche obbligazioni delle parti, durante il periodo di preavviso, non impedisce che, nell'ipotesi di dimissioni, il dipendente che recede dal contratto possa validamente manifestare la volontà di pervenire alla risoluzione del rapporto con effetto immediato, rinunciando così alla continuazione suddetta.

Con riguardo soprattutto alla rilevanza del comportamento delle parti dopo la cessazione del rapporto, Sez. L, n. 14209 (Rv. 627124), est. Marotta, ha affermato che il contratto di lavoro può essere dichiarato risolto per mutuo consenso anche in presenza non di dichiarazioni, ma di comportamenti significativi tenuti dalle parti, spettando al giudice del merito la valutazione sulla loro efficacia solutoria, in base ad un apprezzamento che, se congruamente motivato sul piano logico-giuridico, si sottrae a censure in sede di legittimità: in particolare, è suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all'art. 1372, primo comma, cod. civ., il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo, in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano "oggettivo" del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà dei contraenti, intesa come momento psicologico dell'iniziativa contrattuale, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico, là dove, nella materia lavoristica, operano, proprio nell'anzidetta prospettiva, principî di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto risolto tacitamente un rapporto di lavoro, in ragione dell'inerzia del lavoratore per ben sei anni dopo il collocamento a riposo e dell'avvenuta percezione del trattamento pensionistico per il quale aveva raggiunto il massimo dell'anzianità contributiva).

11. Licenziamento individuale.

Con due distinte ordinanze, lan. 18369, rel. Venuti, e, su ricorso 24035 del 2012, resa all'esito della camera di consiglio dell'udienza del 18 settembre 2013 e redatta a verbale (con sostanziale richiamo alla ord. n. 18369), la Sez. L ha rimesso al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni unite la seguente questione: <<Se al lavoratore illegittimamente licenziato, che abbia esercitato l'opzione prevista dall'art. 18, comma quinto, dello Statuto dei Lavoratori – nel testo anteriore alle modifiche apportate con legge 28 giugno 2012, n. 92 – e, dunque, abbia scelto in luogo della disposta reintegrazione nel posto di lavoro la corresponsione della somma pari a quindici mensilità, spettino anche le retribuzioni maturate sino al momento dell'effettivo pagamento dell'indennità sostitutiva>>.

Prima del rilievo della questione, il contrasto si era consolidato a seguito di Sez. L, n. 1810 (Rv 625431), est. Venuti, secondo la quale le obbligazioni scaturenti dalla domanda del lavoratore illegittimamente licenziato volta al riconoscimento della indennità sostitutiva della reintegra nel posto di lavoro – con la consequenziale richiesta anche del risarcimento dei danni connessa all'esercizio del diritto potestativo di opzione – sono compiutamente disciplinate dalla disposizione del quinto comma dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, che, in ragione della specificità del rapporto lavorativo e delle esigenze che con tale disposizione si sono intese soddisfare, si configura come una norma speciale che osta, oltre che alla qualificazione delle suddette obbligazioni in termini di obbligazioni alternative o facoltative, anche all'applicazione dei generali principî codicistici correlati alla suddetta qualificazione. Ne consegue che l'interpretazione letterale della disposizione statutaria, doverosa per il suo chiaro tenore, comporta un proprio ambito applicativo che si articola per quanto attiene alla liquidazione dei danni rivendicati dal lavoratore nei seguenti termini: per il periodo antecedente all'esercizio del diritto di opzione, il risarcimento dei danni va liquidato alla stregua delle regole dettate dal precedente comma quarto dell'art. 18 e l'esercizio del diritto di opzione determina la risoluzione del rapporto lavorativo; per il periodo successivo a tale momento, il mancato pagamento della indennità sostitutiva non è risarcibile alla stregua delle regole di cui al comma 4 dell'art. 18, dovendo in seguito alla risoluzione definitiva del rapporto lavorativo trovare applicazione i principî codicistici dettati in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, con la assoluta indifferenza – ai fini parametrici del risarcimento del danno – della retribuzione globale in precedenza riconosciuta al lavoratore.

Sez. L, n. 10550 (Rv. 626536), est. Garri, ha escluso che l'art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, nel novellare il testo dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, si applichi alle fattispecie di licenziamento oggetto dei giudizi pendenti innanzi alla Corte di cassazione alla data della sua entrata in vigore, giacché introduce una disciplina che àncora le sanzioni irrogabili per effetto dell'accertata illegittimità del recesso a valutazioni di fatto per un verso incompatibili con la natura del giudizio di legittimità, per altro verso non in linea – ove richieste nell'ambito di un nuovo giudizio di merito a seguito di rinvio – con il principio della durata ragionevole del processo, sancito, oltre che dall'art. 111 della Costituzione, dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Sul punto della tempestività della contestazione Sez. L, n. 3532 (Rv. 625097), est. Fernandes, ha ribadito che il principio di immediatezza della contestazione, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l'imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza, pena l'illegittimità del licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto il principio correttamente applicato dalla Corte di merito che aveva annullato, in quanto illegittimo, il licenziamento irrogato dopo diverso tempo a dipendente che, in sede ispettiva, immediatamente aveva ammesso gli addebiti, ritenendo che la società sin da tale momento era in possesso di tutti gli elementi per decidere se procedere alla contestazione disciplinare degli stessi e, quindi, di valutare la sanzione disciplinare da irrogare senza alcuna necessità di attendere, come poi era invece avvenuto, l'esito delle indagini svolte in sede penale).

Sez. L, n. 16095 (Rv. 627041) est. Maisano e n. 5280 (Rv. 625603), est. Tria, hanno ribadito che anche se la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice investito dell'impugnativa della legittimità del licenziamento deve comunque verificare l'effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore e del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 cod. civ.

Sez. L, n. 6501 (Rv. 625864), est. Manna ha escluso che integri giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'avere il dipendente allegato alla denuncia o all'esposto presentati all'autorità giudiziaria penale dei documenti aziendali, aventi a oggetto fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda.

In tema di licenziamento per motivi disciplinari Sez. L, 4543 (Rv. 625565), est. Balestrieri, ha affermato che l'art. 34 del CCNL di categoria del 26 novembre 1994 consente il licenziamento del lavoratore in caso di sentenza penale di condanna irrevocabile, con onere per il datore di lavoro di provare la gravità delle condotte e la irrimediabile lesione del rapporto fiduciario, ma non si estende all'ipotesi in cui la sentenza di condanna non sia definitiva, atteso che, in questa ipotesi, il licenziamento per giusta causa può essere irrogato in forza dell'art. 74 del medesimo accordo collettivo, che prevede la possibilità del licenziamento per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 cod. civ. per le ipotesi non specificamente regolate, fermo, in tal caso, l'onere del datore di lavoro di provare i fatti – costituenti reato ma non accertati in via definitiva dal giudice penale – e la loro gravità, dovendosi ritenere che una diversa interpretazione, privando l'art. 34 citato della sua efficacia precettiva, sia in contrasto con l'art. 1367 cod. civ.

Pronunciando su fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per esternalizzazione del servizio di gestione del magazzino, Sez. L, n. 18416 (Rv. 627530), est. Venuti, ha ritenuto necessario che il datore di lavoro, qualora abbia assunto, successivamente al recesso, nuovo personale, indichi, al fine di ritenere raggiunta la prova dell'inutilizzabilità aliunde del lavoratore licenziato, le assunzioni effettuate, il relativo periodo, le qualifiche e le mansioni affidate ai nuovi dipendenti e dimostri che queste ultime non siano da ritenersi equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato, tenuto conto della professionalità da questi raggiunta.

Sez. L, n. 4187 (Rv. 625345), est. Pagetta, ha ribadito, in controversia concernente lavoratore di Poste italiane s.p.a., che la mera comunicazione del datore di lavoro di collocamento a riposo del dipendente, in forza dell'applicazione della clausola di automatica risoluzione del rapporto di lavoro (già contenuta nel CCNL integrativo del 26 novembre 1994) al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, non integra una ipotesi di licenziamento ma esprime solo la volontà datoriale di avvalersi di un meccanismo risolutivo previsto in sede di autonomia negoziale. Ne consegue che, in tale evenienza, non compete al lavoratore il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso.

Con riferimento ad ipotesi di reiterazione di licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, Sez L, n. 6773 (Rv. 625643) est. Mammone, l'ha ritenuta consentita anche se la questione della validità del primo licenziamento sia ancora sub iudice, purché siano adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione. Tale rinnovazione, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art. 1423 cod. civ., norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti ex tunc e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale.

Sez. L, n. 3175 (Rv. 625205), est. Bandini, ha ribadito l'orientamento in forza del quale nel caso di licenziamento di dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendali è esclusa la possibilità del repechage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro. Con riferimento alle specifiche tutele apprestate per il dirigente la stessa sentenza (ma Rv. 625204) ha ritenuto che le motivazioni possano essere esplicitate od integrate dal datore di lavoro nell'ambito del giudizio arbitrale e se il dirigente abbia scelto di adire il giudice ordinario analoghe facoltà vanno riconosciute al datore nell''abito del processo.

Secondo Sez. L, n. 18270 (Rv. 62295), est. Venuti, il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto, sicché deve essere assoggettato alle garanzie dettate a tutela del lavoratore circa la contestazione degli addebiti e il diritto di difesa.

La reintegra del lavoratore nel posto di lavoro non può essere in alcun modo condizionata alla restituzione delle somme ricevute a titolo di competenze per fine rapporto, in quanto le due obbligazioni sono, secondo sez. L n. 9702 (Rv. 626541), est. Venuti, disomogenee e si pongono su piani diversi.

Pure in materia di conseguenza economiche della reintegra Sez. L, n. 18093 (Rv. 627407), est. Stile ha escluso che il cosiddetto aliunde perceptum costituisca oggetto di eccezione in senso stretto e ne ha, pertanto, ritenuto la rilevabilità d'ufficio dal giudice se le relative circostanze di fatto risultano ritualmente acquisite al processo, anche se per iniziativa del lavoratore.

Sez. L, n. 22735 (Rv. 628007), est. Filabozzi, ha chiarito che l'ordine di reintegrazione, che costituisce condanna generica all'adempimento degli obblighi derivanti dal rapporto e contiene, altresì, pronuncia di accertamento di inidoneità del licenziamento ad estinguere il rapporto nel momento in cui è stato intimato, resta condizionato, per entrambi i detti profili, alla permanenza effettiva del rapporto di lavoro dopo il recesso e, quindi, alla possibile incidenza di ulteriori atti o fatti idonei a determinare l'estinzione del rapporto stesso. (In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che il rapporto di lavoro fosse cessato a seguito della richiesta di prepensionamento presentata dal lavoratore in data successiva alla reintegrazione e quindi accettata dal datore di lavoro).

In tema di riparto dell'onere probatorio e in applicazione dell'art. 5 della l. n. 64 del 1966, Sez. L, n. 6501 (Rv. 625862), est. Manna, ha affermato che la prova del giustificato motivo o della giusta causa del recesso deve essere fornita dal datore di lavoro anche nel caso in cui il lavoratore alleghi il carattere ritorsivo del licenziamento e solo quando detta prova sia stata, almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e quindi l'illiceità del motivo unico determinante.

La già richiamata Sez. L, n. 10550 (ma Rv. 626535), est. Garri, ha ritenuto che ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l'inadempimento del lavoratore licenziato sia stato tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è di regola irrilevante che un'analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; nondimeno, l'identità delle situazioni riscontrate può essere valorizzata dal giudice per verificare la proporzionalità della sanzione adottata, privando, così, il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa.

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto Sez. L, n. 12233 (Rv. 626670), est. Arienzo, ha affermato che nel caso di concessione di un periodo di aspettativa, successivo a quello di malattia, ai sensi dell'art. 40 del c.c.n.l. 11 luglio 2003, per i dipendenti della Poste Italiane s.p.a., i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell'aspettativa, sicché il mancato rientro del lavoratore alla scadenza dell'aspettativa deve ritenersi idoneo a giustificare il recesso datoriale, in quanto il superamento del dato temporale è condizione sufficiente a legittimare il recesso, non essendo necessaria, in tal caso, la prova del giustificato motivo oggettivo, né dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.

Sez. L, n. 1302 (Rv. 624882) est. Amoroso, ha ritenuto che in tema di rapporto di lavoro sorto, eseguito e risolto all'estero, la nozione di "ordine pubblico", che costituisce un limite all'applicazione della legge straniera, è desumibile innanzi tutto dal sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla tutela del lavoro prevista dalla Costituzione (artt. 1, 4 e 35 Cost.) e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell'Unione europea dall'art. 6 TUE, fonti che includono le tutele del lavoratore contro il licenziamento ingiustificato. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto la contrarietà all'ordine pubblico italiano di una normativa, quale quella in vigore negli Stati Uniti d'America, che consente indistintamente il licenziamento ad nutum e non prevede garanzie minime, né procedimentali né sostanziali, per il lavoratore destinatario di un licenziamento individuale o collettivo).

La domanda introdotta dal lavoratore in relazione a rapporto di lavoro sorto ed eseguito all'estero, secondo la stessa sentenza (ma Rv. 624880) introduce una controversia relativa ad obbligazioni contrattuali ai sensi dell'art. 57 della legge 31 maggio 1995, n. 218 e pertanto la legge applicabile deve essere individuata secondo le disposizioni della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, resa esecutiva con legge 18 dicembre 1984, n. 975.

Affrontando tematica processuale (cd. prospective overruling) ma con riferimento a norme procedimentali di cui alla l. n. 300 del 1970, Sez. L, n. 5962 (Rv. 625840), est. Tria, ha affermato che affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di prospective overruling, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte. La prima e la terza condizione non ricorrono nel caso di mutamento della giurisprudenza in ordine alle garanzie procedimentali di cui all'art. 7, secondo e terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 300, non equiparabili a regole processuali, perché finalizzate non già all'esercizio di un diritto di azione o di difesa del datore di lavoro, ma alla possibilità di far valere all'interno del rapporto sostanziale una giusta causa o un giustificato motivo di recesso. (In applicazione di tale principio, espresso in relazione al mutamento di giurisprudenza conseguente a Sez. Un., 30 marzo 2007, n. 7880, che aveva esteso l'ambito applicativo dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 a tutte le categorie di dirigenti, a prescindere dalla specifica collocazione assunta nell'impresa, la S.C., ritenendo che la richiamata pronuncia non costituisse un mutamento di giurisprudenza, avendone invece composto un contrasto, ha confermato la sentenza impugnata che aveva affermato l'illegittimità del licenziamento di un dirigente apicale, non preceduto dalla procedura di contestazione).

12. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Con riferimento alla costituzione del rapporto, e segnatamente in tema di assunzione e promozioni, Sez. Un., n. 13176 (Rv. 626293), est. Napoletano, ha affermato che in materia di procedure concorsuali (di assunzione e promozione del personale), il sindacato giurisdizionale sull'esercizio del potere datoriale può essere esercitato nei casi in cui esso non sia rispettoso dei canoni generali di correttezza e buona fede, o sia affetto da manifesta inadeguatezza o irragionevolezza oppure arbitrarietà, sicché la valutazione delle prove concorsuali con criteri diversi da quelli indicati nel bando, da ritenersi predefiniti e vincolanti, inficia il diritto soggettivo dei singoli concorrenti al rispetto di tali criteri, a prescindere dall'accertamento del rapporto di causalità tra il corretto svolgimento della prova e l'utile collocazione fra gli idonei dei candidati interessati.

In tema di rapporto di pubblico impiego all'estero Sez. L, n. 10070 (Rv. 626439), est. Curzio, ha escluso, in forza del disposto dell'art. 16 della legge 31 maggio 1995, n. 218, che un contratto di lavoro a termine con la pubblica amministrazione avente quale luogo di svolgimento una sede estera possa essere convertito, in caso di rinnovo ingiustificato, in un contratto a tempo indeterminato, in quanto l'applicazione di una legge straniera nell'ordinamento italiano è sempre inibita se determina effetti contrari all'ordine pubblico, da intendersi quale insieme dei principî essenziali della lex fori tra i quali rientra anche quello per cui l'accesso all'impiego pubblico deve avvenire mediante concorso, salve le eccezioni previste dalla legge, purché rispondenti a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico.

Numerose pronunce si sono occupate di mobilità del personale tra enti e di attribuzione o comunque svolgimento di fatti di mansioni superiori o di espletamento dell'attività lavorativa presso una pubblica amministrazione diversa da quella di appartenenza. In tema di mobilità del personale Sez. L, n. 2281 (Rv. 624850), est. Berrino, ha ritenuto che i due termini utilizzati dall'art. 31 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (disciplinante il passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse) ai fini dell'applicazione dell'art. 2112 cod. civ., cioè quelli di trasferimento o di conferimento di attività, esprimono, attraverso la loro ampia valenza semantica, la volontà del legislatore di comprendere nello spettro applicativo della suddetta disposizione – in funzione della tutela dei dipendenti pubblici addetti all'attività trasferite – ogni vicenda traslativa riguardante un'attività svolta dal soggetto pubblico a prescindere dallo strumento tecnico adoperato. (Nella specie, attraverso lo strumento della concessione erano state affidate attività del CONI all'Azienda autonoma dei Monopoli di Stato; in applicazione del principio di cui in massima, la S.C. ha ritenuto ininfluente lo strumento prescelto, operando in ogni caso il trasferimento del personale).

Sez. L, n. 7982 (Rv. 625890) est. Napoletano, resa parimenti in materia di procedure di mobilità ha affermato che il diritto alla conservazione del trattamento retributivo più favorevole per il personale transitato dall'Ente Ferrovie dello Stato ad un ente locale è disciplinato dall'art. 5, comma 2, del d.p.c.m. 5 agosto 1988, n. 325 – che, in quanto atto amministrativo, non può essere interpretato autenticamente dalle parti sociali, non rientrando tre le materie ad esse riservate, ai sensi dell'art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001 – e non dall'art. 26 del CCNL. del 5 ottobre 2001 per il personale degli enti locali, dovendosi escludere che le parti sociali, nel fare mero riferimento al citato d.p.c.m. e agli indirizzi applicativi formulati dal Dipartimento della funzione pubblica, abbiano inteso inserire nell'accordo collettivo una nuova norma prevedente la conservazione del pregresso più favorevole trattamento con un assegno ad personam.

Con pronuncia innovativa, Sez. L, n. 5011 (Rv. 625432), est. Amoroso, ha ritenuto che la protrazione dell'assegnazione temporanea per una durata assolutamente esorbitante l'originario provvedimento (nella specie, per dodici anni) radica una situazione di fatto di concreta individuazione della sede di lavoro. Ne consegue che trova applicazione l'art. 2103 cod. civ. e la cessazione dell'assegnazione temporanea può essere disposta solo in presenza di ragioni giustificatrici, equivalendo sostanzialmente ad un trasferimento del lavoratore.

In relazione alla retribuzione per l'espletamento di mansioni superiori a seguito dell'assegnazione, per lunghi periodi, delle funzioni di reggente dell'ufficio di assegnazione per la vacanza del posto dirigenziale e rientrante, quindi, nell'ambito di applicazione dell'art. 52, comma 5, d.lgs. n. 30 marzo 2001, n. 165, la Sez. L, n. 7823 (Rv. 626295), est. Fernandes, ha negato che la contrattazione collettiva possa incidere sul disposto dell'art. 52, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto il comma 6 del detto articolo autorizza la contrattazione collettiva a regolare diversamente i soli effetti di cui i commi 2, 3 e 4 della disposizione e non anche quelli di cui al comma 4, non richiamato.

Sez. L, n. 10105 (Rv. 626441), est. Manna, ha escluso disparità di trattamento tra personale del ruolo ad esaurimento di ispettore generale o di direttore di divisione del Ministero dell'economia e gli altri appartenenti della ex IX qualifica funzionale, inseriti in area C dai CCNL del 12.2.1999 e del 12.6.2003, in quanto il principio espresso dall'art. 45 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera nell'ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, in quanto la disparità trova titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive, come tali, della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell'autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato, di regola sufficiente, salva l'applicazione di divieti legali, a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle situazioni concrete.

In fattispecie di contratto a termine con ente pubblico Sez. L, n. 22320 (Rv. 627645), est. Garri, ha affermato che la P.A. ove verifichi di aver nominato come insegnante di sostegno, con contratto a tempo determinato, un soggetto privo degli specifici titoli di specializzazione (nella specie, per carenza dell'abilitazione all'insegnamento nelle discipline umanistiche e per mancato conseguimento del titolo di insegnante di sostegno) di cui all'art. 325 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, in conformità alle disposizioni di cui al d.m. 30 novembre 1999, n. 287, è tenuta a risolvere il contratto, fatti salvi, in ogni caso, i diritti medio tempore maturati dal lavoratore ai sensi dell'art. 2126 cod. civ.

Sez. L, n. 18198 (Rv. 627293), est. Napoletano, ha ritenuto applicabile al dirigente comunale licenziato, in forza dell'art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, la disciplina di cui all'art. 18 l. n. 300 del 1970, avuto riguardo al rapporto fondamentale mentre ha ritenuto applicabile all'incarico dirigenziale la disciplina del rapporto a termine sua propria.

Tre pronunce di rilievo hanno riguardato il tema del recesso e comunque della cessazione del rapporto: Sez. L, n. 16224 (Rv. 627077), est. Manna, ha affermato che in tema di lavoro in prova, il principio secondo il quale il recesso del datore di lavoro per esito negativo della prova ha natura discrezionale e dispensa dall'onere di provarne la giustificazione (differenziandosi, pertanto, dal recesso assoggettato alla disciplina limitativa dei licenziamenti) si applica anche al recesso della P.A. nel rapporto di lavoro privatizzato, cui non si estende l'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi previsto dall'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, trattandosi di atto gestionale del rapporto di lavoro adottato con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro.

Secondo Sez. L, n. 18196 (Rv. 627368), est. Napoletano, il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, sicché in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore (nella specie, dipendente del Ministero della Giustizia) allo svolgimento delle mansioni assegnate – che costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento ove lo stesso non possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse – non si determina una risoluzione automatica del rapporto di lavoro, dovendo pur sempre l'amministrazione, per provocarne la cessazione, esercitare il potere di recesso, in conformità, del resto, a quanto previsto dall'art. 21, comma 4, c.c.n.l. comparto Ministeri del 16 maggio 1995.

Infine, sul tema, Sez. L, n. 5413 (Rv. 625611), est. Balestrieri, ha ritenuto che le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio e sono quindi efficaci dal momento in cui vengono a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle e quindi non necessitano di un provvedimento della pubblica amministrazione e la cessazione del rapporto fa venire meno l'esercizio del potere disciplinare.

Con riferimento alla sospensione cautelare dal servizio in pendenza di procedimento penale, Sez. L, n. 5147 (Rv. 626061), est. Ianniello, ha ritenuto che il principio secondo il quale quanto corrisposto a titolo d'indennità all'impiegato nel periodo della suddetta sospensione dev'essere conguagliato con quanto dovuto se il lavoratore fosse restato in servizio, trova applicazione non solo nel caso –espressamente previsto dall'art. 27, comma 7, c.c.n.l. comparto Ministeri del 16 maggio 1995 –di proscioglimento in sede penale con formula piena, ma anche nel caso in cui la durata della sospensione cautelare ecceda quella della sanzione della sospensione irrogata a conclusione del procedimento disciplinare riattivato a seguito della sentenza penale di proscioglimento, ma con formula diversa da quella "piena" (come poi espressamente statuito dall'art. 15 c.c.n.l. comparto Ministeri del 12 giugno 2003), in quanto altrimenti la perdita della retribuzione dovuta non sarebbe giustificata e finirebbe per gravare il lavoratore prosciolto di una vera e propria sanzione disciplinare aggiuntiva per fatto unilaterale del datore di lavoro.

La più recente Sez. L, n. 17130 (Rv. 627056), est. Bandini, ha – sullo stesso tema – ritenuto che l'art. 40 del c.c.n.l. 1994-1997 per le amministrazioni autonome dello Stato, nel prevedere che quanto corrisposto a titolo d'indennità al dipendente (nella specie, vigile del fuoco) nel periodo della suddetta sospensione dev'essere conguagliato con quanto dovuto se il lavoratore fosse restato in servizio solo in caso di proscioglimento con formula piena, ha innovato rispetto alla previgente disciplina di cui all'art. 96, d.P.R. n. 3 del 1957, che permetteva il conguaglio in tutte le ipotesi di proscioglimento disciplinare. Ne consegue che le nuove disposizioni, trasformando la sospensione cautelare della retribuzione in provvedimento definitivo, ossia in pena disciplinare, non si applicano agli illeciti disciplinari commessi – come nella specie – anteriormente alla sua entrata in vigore.

Infine con riferimento alla cessazione del rapporto di pubblico impiego Sez. L, con ordinanza interlocutoria n. 26247, rel. A. Manna, ha rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite, la questione se nel caso di successione di plurimi rapporti di lavoro con un'amministrazione pubblica l'indennità premio di servizio sia frazionabile o infrazionabile, stante il relativo pagamento all'atto della cessazione del servizio e non del rapporto previdenziale.

Sez. L, n. 21700 (Rv. 627943), est. Tria, ha ritenuto risarcibile il danno derivante, nelle trattative volte all'attribuzione di un incarico di funzione dirigenziale, dal comportamento della P.A. non conforme ai criteri di correttezza e buona fede e ai principî ex art. 97 Cost., in quanto idoneo a far sorgere nell'interessato un affidamento per l'attribuzione dell'incarico (anche accogliendo l'istanza di trattenimento in servizio per un biennio oltre l'età pensionabile), poi non assegnato, in assenza di adeguate forme di partecipazione dell'interessato medesimo al processo decisionale e senza l'esternazione delle ragioni giustificatrici della scelta (nella specie, non fornendo alcun elemento circa i criteri e le motivazioni che hanno indotto la P.A. a non conferire alcun incarico dirigenziale al lavoratore e, al contempo, ad attribuirne di analoghi ad altri dirigenti), ma limitatamente al solo interesse legittimo privato avente ad oggetto la correttezza, l'imparzialità ed il buon andamento dell'amministrazione, e non anche del diritto al conferimento dell'incarico dirigenziale, insussistente in assenza del contratto stipulato con l'amministrazione.

Le Sez. Un., n. 21671 (Rv. 627410), est. Petitti, ha ritenuto che la P.A. nel conferimento degli incarichi dirigenziali, attuato mediante atti privatistici, in quanto determinazioni negoziali assunte dalla pubblica amministrazione con i poteri del datore di lavoro privato, è tenuta all'osservanza dei principî generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principî di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Costituzione; dalla violazione di detti principî, in caso di mancato conferimento dell'incarico dirigenziale per un errore nell'attribuzione dei punteggi in sede di approvazione della graduatoria concorsuale, si concretizza inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre un danno risarcibile.

Sez. Un., n. 21678 (Rv. 627416), est. Mammone, in contenzioso concernente personale ministeriale, con riferimento a domanda di risarcimento del danno per perdita di chance di promozione (nella specie prospettato come conseguenza dell'inadempimento da parte del datore di lavoro pubblico dell'obbligo, contrattualmente previsto, di organizzare procedure selettive per progressioni verticali), ha affermato che incombe sul singolo dipendente l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l'inadempimento datoriale e il danno, ossia la concreta sussistenza della probabilità di ottenere la qualifica superiore.

13. Parasubordinazione. Agenzia.

In materia di rapporti di cui all'art. 409, n. 3, cod. proc. civ. (di cd. parasubordinazione), Sez. L n. 7141 (Rv. 625705), est. Mancino, ha affermato che sebbene non sia imposto per legge al lavoratore parasubordinato un dovere di fedeltà, tuttavia il dovere di correttezza della parte in un rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.) e il dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.) vietano alla parte di un rapporto collaborativo di servirsene per nuocere all'altra, sì che l'obbligo di astenersi dalla concorrenza nel rapporto di lavoro parasubordinato non è riconducibile direttamente all'art. 2125 cod. civ. – che disciplina il relativo patto per il lavoratore subordinato alla cessazione del contratto – ma, permeando come elemento connaturale ogni rapporto di collaborazione economica, rientra nella previsione dell'art. 2596 cod. civ. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto applicabile ad un rapporto di lavoro parasubordinato la disciplina del patto limitativo della concorrenza ex art. 2596 cod. civ., ricorrendone uno dei presupposti, previsti in via disgiuntiva, costituito dalla delimitazione ad una determinata attività, escludendo così la nullità della pattuizione per l'indiscriminato ambito geografico mondiale del vincolo negoziale).

In tema di agenzia Sez. L, n. 10568 (Rv. 626199), est. Napoletano, ha ritenuto non ravvisabile l'abuso del diritto nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell'altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti. Ne consegue, pertanto, che, nel contratto di agenzia, l'abuso del diritto è da escludere, allorché il recesso non motivato dal contratto sia consentito dalla legge, la sua comunicazione sia avvenuta secondo buona fede e correttezza e l'avviso ai clienti si prospetti come doveroso.

Due pronunce in tema di agenzia hanno affrontato la materia dell'indennità di cessazione del rapporto: Sez. L, n. 9348 (Rv. 626806), est. Balestrieri, ha affermato che l'art. 1751 cod. civ., la cui attuale formulazione deriva dall'art. 4 del d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303 (attuativo della direttiva 86/653/CEE del 18 dicembre 1986), e quindi dall'art. 5 del d.lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, prevede, al quinto comma, l'ipotesi della decadenza dell'agente dal diritto all'indennità di cessazione del rapporto: tale disciplina prevale su quella di cui all'accordo economico collettivo del 20 giugno 1956, recepito dal d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 145, che tale decadenza non contempla, prevalendo la disciplina legale successiva sulla pregressa disciplina contrattuale, pur resa efficace erga omnes.

Nello stesso ambito Sez. L, n. 18413 (Rv. 627489), est. Tria, ha ritenuto che – a seguito della sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 23 marzo 2006, in causa C-465/04, interpretativa degli artt. 17 e 19 della direttiva 86/653 – ai fini della quantificazione dell'indennità di cessazione del rapporto spettante all'agente nel regime precedente all'accordo collettivo del 26 febbraio 2002 che ha introdotto l'"indennità meritocratica", ove l'agente provi di aver procurato nuovi clienti al preponente o di aver sviluppato gli affari con i clienti esistenti (ed il preponente riceva ancora vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti) ai sensi dell'art. 1751, primo comma, cod. civ., è necessario verificare – non secondo una valutazione complessiva ex ante dell'operato dell'agente, ma secondo un esame dei dati concreti ex post – se – fermi i limiti posti dall'art. 1751, terzo comma, cod. civ. – l'indennità determinata secondo l'accordo collettivo per gli agenti di commercio, tenuto conto di tutte le circostanze del caso e, in particolare, delle provvigioni che l'agente perde, sia equa e compensativa del particolare merito dimostrato, dovendosi, in difetto, riconoscere la differenza necessaria per ricondurla ad equità.

In tema di contratto di lavoro a progetto Sez. L, n. 22396 (Rv. 627859), est. Venuti, ha affermato che il recesso anticipato per giusta causa, regolato dall'art. 67, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, non comporta l'obbligo di corresponsione di alcuna penale, dovendosi interpretare l'eventuale clausola penale recepita nel contratto come intesa a disciplinare le sole ipotesi di recesso ad nutum in quanto funzionale a rafforzare il vincolo contrattuale e a liquidare preventivamente, a favore della parte adempiente, la prestazione risarcitoria spettante per l'inadempimento della controparte, e non potendo viceversa trovare applicazione al caso in cui il recesso è fatto per giusta causa, in quanto, altrimenti, verrebbe a beneficiare della penale la parte inadempiente agli obblighi contrattuali.

  • congedo per malattia
  • pensione complementare
  • regime pensionistico
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XVII

PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE

(di Luciano Ciafardini )

Sommario

1 Retribuzione imponibile ai fini previdenziali e assicurativi. - 1.1 Il lavoro nelle società di capitali. - 1.2 Lavoratori dello spettacolo. - 1.3 Trasfertisti. - 1.4 Viaggi vacanza per dipendenti di tour operator. - 1.5 Il lavoro nelle cooperative. - 1.6 Buoni pasto. - 1.7 L'una tantum per ritardato rinnovo di c.c.n.l. - 1.8 Il lavoro dei familiari del titolare di farmacia. - 2 Esenzione dagli obblighi contributivi. - 3 Sospensione degli obblighi contributivi. - 4 Benefici contributivi. - 5 Indebito previdenziale. - 5.1 Ambito di applicazione. - 5.2 Elemento soggettivo. - 5.3 Sgravi contributivi e rimborso. - 5.4 Il recupero degli assegni familiari indebitamente percepiti. - 5.5 I versamenti indebiti dei contributi per malattia. - 6 Riscossione dei contributi. - 7 Prescrizione del credito contributivo. - 7.1 Atti interruttivi. - 7.2 Denuncia del lavoratore. - 8 Omissione ed evasione contributiva. - 8.1 Omessa presentazione dei modelli D.M./10. - 8.2 Lavoro giornalistico. - 8.3 Il caso degli obblighi informativi a carico del socio receduto dalla società. - 8.4 Il risarcimento del danno da omissione contributiva. - 8.5 Reintegra del lavoratore e obblighi contributivi. - 9 Condono e sanatoria. - 10 Determinazione del premio per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. - 10.1 Classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi INAIL. - 10.2 Lavoratori esposti ad asbestosi e silicosi. - 11 Lavoratori autonomi. - 11.1 Imponibile contributivo per ingegneri ed architetti. - 11.2 Indennità di maternità. - 12 Previdenza complementare. - 12.1 Natura giuridica. - 12.2 Il finanziamento. - 12.3 L'accesso ai trattamenti. - 12.4 Portabilità e riscatto. - 13 Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti procedimentali. - 13.1 Decadenza dall'azione giudiziaria. - 13.2 Decadenza e indennizzo del danno da epatite posttrasfusionale. - 13.3 Prescrizione delle azioni. - 13.4 Accertamento giudiziale e riconoscimento amministrativo. - 13.5 Ricongiunzione dei periodi assicurativi. - 13.6 Revisione e rettifica della rendita. - 13.7 Causa di servizio ed equo indennizzo. - 14 Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti sostanziali - 14.1 Rendita per malattia professionale. - 14.2 Prestazioni in caso di infortunio. - 14.3 Infortunio in itinere. - 14.4 Congedo per maternità. - 14.5 Congedi parentali. - 14.6 Lavoratori socialmente utili. - 14.7 Indennità di accompagnamento. - 14.8 Indennità per danni da emotrasfusione. - 14.9 Elargizione in favore delle vittime di attentati terroristici. - 14.10 Pensioni di invalidità: condizioni per la concessione e requisiti reddituali. - 14.11 Assegno sociale: requisiti reddituali. - 14.12 Pensioni di anzianità per gli operai. - 14.13 Pensioni di vecchiaia. - 14.14 Pensioni di reversibilità. - 14.15 Cumulo tra pensione e reddito da lavoro. - 14.16 La responsabilità dell'Ente previdenziale per inesatte informazioni. - 15 Previdenza di categoria. - 16 Personale ferroviario. - 16.1 Fondo pensioni. - 16.2 Benefici combattentistici. - 16.3 Equo indennizzo. - 17 Agenti di commercio. - 18 Trattamenti di fine rapporto e di fine servizio. - 18.1 Trattamenti convenzionali. - 18.2 Contribuzione aggiuntiva. - 18.3 Dipendenti postali. - 18.4 Incarichi di reggenza e determinazione dell'indennità di buonuscita. - 18.5 Dipendenti degli Enti locali. - 18.6 Dipendenti del cd. parastato.

1. Retribuzione imponibile ai fini previdenziali e assicurativi.

Cospicua, anche nel corso del 2013, è stata la casistica affrontata dalla Suprema Corte in ordine alla individuazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale.

1.1. Il lavoro nelle società di capitali.

Secondo Sez. L, n. 23943, in corso di massimazione, est. Curzio, nel caso di amministratori di s.r.l., che detenga quasi l'intero capitale di altra società di cui tali amministratori sono soci, svolgendo in quest'ultima attività commerciale, sono dovuti tanto i contributi, a carico della prima società controllante, relativi all'attività di amministrazione (da versare alla gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, della legge n. 6132 del 2005), quanto i contributi dovuti, personalmente, alla gestione commercianti, quali soci che svolgono l'attività nella seconda società controllata. Questi contributi infatti sono dovuti anche dai soci di società a responsabilità limitata in base alla normativa prima richiamata (art. 1, comma 203, della legge 662 del 2006), con la quale il legislatore ha voluto evitare che, grazie allo schermo societario, la prestazione del socio di s.r.l. espletata nell'ambito dell'impresa commerciale sia sottratta alla contribuzione previdenziale obbligatoria e ha voluto superare la preesistente disparità di trattamento tra i titolari di imprese individuali o i soci di società di persone, da un lato e, dall'altro, i soci di società a responsabilità limitata.

1.2. Lavoratori dello spettacolo.

Sono soggetti a contribuzione, in favore dell'Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo, anche i compensi corrisposti – ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui all'art. 3, primo comma, numeri da 1 a 14 del d.lgs. C.p.S. n. 708 del 1947 e successive modificazioni –, per le prestazioni dirette a realizzare, senza la presenza del pubblico che ne è il destinatario finale, registrazioni (fonografiche, come nella specie, o in altra forma) di manifestazioni musicali o di altre manifestazioni a carattere e contenuto (artistico, ricreativo o culturale) di spettacolo. La disposizione sopravvenuta, introdotta con l'art. 43 della legge n. 289 del 2002 allo scopo dichiarato di ridurre il contenzioso e concernente, direttamente, il compenso imponibile, conferma tale interpretazione, presupponendo l'assoggettamento all'obbligo contributivo dei compensi corrisposti a titolo di cessione dello sfruttamento del diritto d'autore, d'immagine e di replica [Sez. L, n. 4882 (Rv. 625335), est. Bandini].

1.3. Trasfertisti.

Sez. 6-L, ord., n. 4837 (Rv. 625560), rel. La Terza, ha statuito che per i lavoratori cd. "trasfertisti", che sono tenuti per contratto ad una attività lavorativa in luoghi variabili, diversi da quello della sede aziendale, in applicazione dell'art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 314 del 1997 (applicabile al caso di specie ratione temporis), gli emolumenti erogati ai dipendenti a titolo di indennità di trasferta concorrono a formare il reddito nella misura del cinquanta per cento del loro ammontare e, su detto importo, è configurabile l'obbligo contributivo dell'azienda.

1.4. Viaggi vacanza per dipendenti di tour operator.

Sez. L, n. 10972 (Rv. 626571), est. Ianniello, in tema di determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, in applicazione dell'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, precedente l'entrata in vigore delle disposizioni di cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335, ha ritenuto corretta ed immune da vizi logici o violazioni di legge la sentenza di merito che ha escluso che le agevolazioni di viaggio fruite dai dipendenti di una società, svolgente attività di tour operator, sotto forma di sconti per viaggi– vacanza organizzati e rimasti invenduti, trovino la propria ragion d'essere nella esistenza del rapporto di lavoro, venendo in rilievo, piuttosto, oltre che il carattere occasionale dell'offerta e la sua facoltatività, il carattere commerciale dell'iniziativa, svincolata dalle previsioni del contratto collettivo e volta alla copertura dei costi aziendali necessari per l'organizzazione del viaggio.

1.5. Il lavoro nelle cooperative.

Anche con riferimento al regime anteriore all'entrata in vigore della legge n. 142 del 2001, le società cooperative, in virtù dell'art. 2, comma terzo, del r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, per cui esse «sono datori di lavoro anche nei riguardi dei loro soci che impiegano in lavori da esse assunti», sono da considerare, ai fini previdenziali, come datrici di lavoro rispetto ai soci suddetti. Ne consegue che sono assoggettati a contribuzione previdenziale i compensi da esse corrisposti ai propri soci che abbiano svolto attività lavorativa, indipendentemente dalla sussistenza degli estremi della subordinazione e dal fatto che la cooperativa svolga attività per conto proprio o per conto terzi, purché tale lavoro sia prestato in maniera continuativa e non saltuaria e non si atteggi come prestazione di lavoro autonomo [Sez. trib., n. 13766 (Rv. 627116), est. Di Blasi].

1.6. Buoni pasto.

Secondo Sez. L, n. 4326 (Rv. 625567), est. Bandini, in materia di obblighi contributivi, ai sensi degli artt. 48, secondo comma, lett. c), del d.P.R. n. 917 del 1986 (come sostituito dall'art. 3 del. d.lgs. n. 314 del 1997), e 12, secondo comma, legge n. 153 del 1969 (come sostituito dall'art. 6 del. d.lgs. n. 314 del 1997), applicabili ratione temporis al caso affrontato, l'importo complessivo giornaliero di lire 10.420 dei buoni pasto, fino al cui ammontare la relativa erogazione non rientra nel reddito di lavoro dipendente neppure al fine del calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, va riferito, in caso di plurime somministrazioni giornaliere a favore dello stesso lavoratore, al loro complessivo ammontare, con la conseguenza che, in detta ipotesi, non è consentita una deduzione eccedente il valore di lire 10.420.

1.7. L'una tantum per ritardato rinnovo di c.c.n.l.

Con riferimento all'assogettabilità delle somme alla contribuzione del Fondo di previdenza dei lavoratori dell'Enel, la Corte ha ribadito che, prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 562 del 1996, che dal 1° gennaio 1997 ha definito la base imponibile da prendere a riferimento per il versamento dei contributi, si applicava la legge n. 293 del 1956, che all'art. 14 espressamente indicava le voci da computare, tra le quali non rientrava il compenso dell'una tantum prevista dai contratti collettivi succedutisi dal 1983 al 1996 per compensare il tardato rinnovo degli stessi, avendo le stesse parti sociali attribuito al compenso in questione natura propriamente risarcitoria e non retributiva [Sez. L, n. 19174, in corso di massimazione, est. Garri].

1.8. Il lavoro dei familiari del titolare di farmacia.

Secondo Sez. L, n. 24590, in corso di massimazione, est. Nobile, stante la qualificabilità dell'attività di una farmacia quale attività di impresa commerciale, deve ritenersi che sussistano le condizioni per l'operatività dell'assicurazione commercianti previsti dalla legge n. 662 del 1996, art. 1, commi 202 e 203, ove sussistano in concreto quei requisiti, specificati dal comma 203, di organizzazione dell'attività con il prevalente lavoro del titolare e dei componenti della famiglia, di partecipazione del titolare al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, e di possesso delle licenze o autorizzazioni previste dalla legge. Del resto il fatto che il farmacista titolare di farmacia (professionista, soggetto ad apposita assicurazione) sia personalmente esentato dall'assicurazione commercianti per ragioni, per così dire, soggettive, inerenti alla sua qualificazione professionale, non impedisce che la legge possa operare per i suoi coadiutori familiari (non farmacisti), per i quali le medesime ragioni d'ordine soggettivo non hanno ragione di operare.

2. Esenzione dagli obblighi contributivi.

Sez.L, n.20818 (Rv. 627946), est. Mammone, ha chiarito che, in tema di contribuzione previdenziale, le società a capitale misto, ed in particolare le società per azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l'esercizio di attività industriali (nella specie, una società per la gestione e la fornitura di servizi agli enti locali in materia di fornitura di acqua, gas ed elettricità) sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l'esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata, finalizzate all'erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l'amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell'ente pubblico.

Sez. L, n. 8764 (Rv. 625761), est. La Terza, ha statuito che ai fini dell'esenzione dal versamento dei contributi agricoli unificati, per l'individuazione e classificazione dei territori montani, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 991 del 1952, sostituito dall'art. unico della legge n. 657 del 1957, e dell'art. 3 della legge n. 1102 del 1971, il parere della commissione censuaria centrale è necessario e non può essere sostituito dalle disposizioni della legge regionale, che non hanno potere classificatorio, ma solo di definizione di eventuali operazioni di raggruppamento in zone omogenee di territori già qualificati come montani. Nella medesima sentenza si è anche espresso il principio (Rv. 625760) per cui, nella controversia previdenziale relativa all'esenzione dal versamento dei contributi agricoli unificati, la qualifica del territorio come montano è requisito costitutivo del diritto al beneficio, sicché può e deve essere verificata d'ufficio dal giudice, anche in assenza di contestazioni tra le parti, valendo il principio di non contestazione per i soli fatti e non per la sussunzione dei fatti nella norma.

3. Sospensione degli obblighi contributivi.

Nell'affrontare la questione di diritto relativa alla sussistenza o meno dell'obbligo del datore di lavoro edile di pagare i contributi previdenziali all'Inps e all'Inaii in caso di accordo individuale per la sospensione dell'attività lavorativa con i singoli lavoratori per mancanza di carico di lavoro, non comunicata preventivamente agli Istituti previdenziali, e uniformandosi quanto alla soluzione a Sez. L, n. 12624 del 2008 (Rv. 603260), la Sezione lavoro ha confermato che, tra le ipotesi di esenzione dall'obbligo del minimale contributivo in edilizia, elencate dall'art. 29 del d.l. n. 244 del 1995, convertito in legge n. 341 del 1995, e dal d.m. 16 dicembre 1996, da considerare tassative, vanno ricomprese anche le sospensioni di attività aziendale senza intervento della Cassa integrazione guadagni, purché preventivamente comunicate agli enti previdenziali in modo da consentirne gli opportuni controlli, sicché l'omessa comunicazione determina l'inefficacia dell'esenzione e la vigenza dell'obbligo contributivo [Sez. L, n. 1577 (Rv. 624833), est. Arienzo].

4. Benefici contributivi.

L'art. 6, comma 9, del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito con modificazioni nella legge 7 dicembre 1989, n. 389, prevede la decadenza dal diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali e agli sgravi contributivi in relazione ai lavoratori che non siano stati denunciati agli istituti previdenziali, ovvero siano stati denunciati con orari o giornate di lavoro inferiori a quelli effettivamente svolti o con retribuzioni inferiori a quelle minime previste dai contratti collettivi, ovvero siano stati retribuiti in misura inferiore a tali retribuzioni minime.

Anche l'art. 3 del d.l. 3 luglio 1986, n. 328, convertito nella legge 31 luglio 1986 n. 440 ha fissato regole analoghe per poter usufruire degli sgravi contributivi, e in particolare la condizione che lo imprese interessate assicurino ai propri dipendenti trattamenti economici non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali e provinciali.

Sez. L, n. 1571 (Rv. 624764), est. Napoletano, ha ribadito la precedente giurisprudenza di legittimità secondo cui la fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi contributivi non competono in relazione ai lavoratori che, pur denunciati agli istituti previdenziali con retribuzioni non inferiori a quelle minime previste dai contratti collettivi, non abbiano effettivamente ricevuto il corrispondente trattamento economico.

Conformandosi alla sentenza n. 17273 del 2011 (Rv. 618758), la Sezione Lavoro ha ribadito che, in materia di benefici contributivi a favore delle imprese che assumono lavoratori collocati in mobilità, non è configurabile il diritto di fruire delle agevolazioni previste dall'art. 8, comma 4, della legge n. 223 del 1991 in favore di impresa edile che, dopo aver licenziato per fine lavori i propri dipendenti, decida di procedere alla ripresa dell'attività e, entro un anno dal licenziamento (ora sei mesi in virtù della modifica introdotta dall'art. 6 Comma quarto, del d.lgs. 19 dicembre 2002, n. 297), riassuma i lavoratori per lo svolgimento delle medesime mansioni precedentemente esercitate, perché il precisato diritto presuppone l'assunzione di lavoratori in assenza dell'obbligo di cui all'art. 15, comma sesto, della legge n. 264 del 1949, che, previsto nei casi di "riduzione di personale", ricorre non solo nel caso di licenziamenti collettivi, ma anche nel caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo per riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro, in quanto, da un lato, la disciplina di cui alla legge n. 233 del 1991 ha eliminato qualsiasi differenza ontologica tra i primi ed i secondi, e, dall'altro, la circostanza della fine lavoro nelle costruzioni edili integra una fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo consistente nella cessazione o comunque riduzione di attività o di lavoro, che ben può qualificarsi come licenziamento per riduzione di personale, conseguendone infatti inevitabilmente una diminuzione della forza lavoro con riferimento ai lavoratori assunti per lo svolgimento delle opere relative ad una specifica fase, la quale abbia poi trovato la sua naturale ultimazione [Sez. L, n. 6719 (Rv. 625553), est. D'Antonio].

Con riferimento ai benefici contributivi in favore dei centralinisti telefonici privi della vista, le cui prestazioni di lavoro sono considerate particolarmente usuranti dall'art. 9 della legge 29 marzo 1985, n. 113, Sez. L, n. 12090 (Rv. 626483), est. Bronzini, ha chiarito che il beneficio dei quattro mesi di contribuzione figurativa per ogni anno di servizio svolto presso pubbliche amministrazioni o aziende private, utile ai soli fini del diritto alla pensione e dell'anzianità contributiva, non si applica all'assegno di sostegno al reddito di cui al d.m. 28 aprile 2000, n. 158, la cui finalità è invece quella di favorire il mutamento e il rinnovamento della professionalità della generalità dei dipendenti del settore bancario, supportando il reddito degli stessi durante le fasi di riconversione aziendale.

Sez. L, n. 16092 (Rv. 626977), est. Manna, ha avuto modo di precisare che i benefici previsti dall'art. 44, comma 1, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 – con cui è stato prorogato il regime introdotto con l'art. 3, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – si applicano, alla luce di una interpretazione letterale e teleologica, esclusivamente agli imprenditori, dovendosi escludere che l'agevolazione sia riconoscibile agli esercenti una libera professione (nella specie, la professione forense), atteso il richiamo, nel testo della norma, all'art. 3, comma 6, della legge del 1998, espressamente riferito alle sole imprese, e la finalità, che caratterizza entrambe le disposizioni, di promuovere l'occupazione nel Mezzogiorno, realtà carente nel settore dell'imprenditoria. Né può ritenersi che tale previsione sia suscettibile di interpretazione estensiva od applicazione analogica attesa l'esistenza di disposizioni per l'ordinario pagamento dei contributi e la natura eccezionale di una norma che, in presenza di determinate condizioni, esoneri specifici soggetti dal generale obbligo contributivo, ponendosi una diversa interpretazione anche in contrasto con i vincoli in materia di aiuti di Stato imposti dalla Commissione europea, ed affermati con riguardo al citato art. 3, commi 5 e 6, legge n. 448 del 1998 (decisione SG (99) D/6511 del 10 agosto 1999), che ha ritenuto la conformità della disciplina nazionale alla politica comunitaria in materia di occupazione sul solo espresso presupposto che il beneficio riguardava le imprese.

Sullo stesso piano interpretativo si è posta Sez. L, n. 18710, Rv. 628350, est. Fernandes, con riferimento a sgravi contributivi pretesi in misura totale (e non al 50% come invece riconosciuto dall'Inps), ai sensi dell'art. 8, comma 9, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, da parte di un libero professionista (nella specie ragioniere commercialista). Nell'occasione la S.C. ha riconosciuto che, secondo la nozione di impresa elaborata dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia in numerose decisioni rese con riferimento alle regole comunitarie della concorrenza – in cui si esclude che possa operarsi una distinzione tra "impresa" e "libera professione", proprio al fine di evitare di falsare il mercato – si fa rientrare nel novero delle imprese qualsiasi attività che consista nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato a prescindere dallo status giuridico della detta entità e dalle sue modalità di finanziamento. Ha ritenuto, tuttavia, che tale nozione estensiva di impresa non può trovare applicazione al caso in cui vengono in rilievo sgravi contributivi, cioè nell'ambito di una normativa di stretta interpretazione, siccome derogatoria alla generale sottoposizione alle obbligazioni contributive, tenuto conto del fatto che intanto può ritenersi che il mancato riconoscimento di detti sgravi anche al libero professionista alteri la concorrenza, solo quando quest'ultimo abbia organizzato la propria attività con un supporto organizzativo tale che l'entità dei mezzi impiegati sovrasti l'attività professionale del titolare, circostanza che nel caso di specie non era stata dimostrata.

Sez. L, n. 20413, Rv. 628277, est. Tria, ha precisato che non è ipotizzabile la contemporanea fruizione, da parte dello stesso datore di lavoro e per i medesimi lavoratori, dei benefici previsti dall'art. 3 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (aventi la finalità di incrementare l'occupazione) e dei benefici connessi con l'applicazione della normativa sugli accordi di riallineamento, istituiti dall'art. 5 del d.l. n. 510 del 1996, convertito dalla legge n. 608 del 1996, per offrire ai datori di lavoro l'opportunità di regolarizzare i propri dipendenti e quindi farli emergere dal "sommerso".

Quanto alle imprese edili, in una controversia in cui veniva preteso da una di esse il beneficio della fiscalizzazione previsto dal d.l. n. 15 del 1977, convertito in legge n. 102 del 1977, sul presupposto dell'assimilabilità alle imprese manifatturiere ed estrattive espressamente destinatarie della previsione normativa, Sez. L, n. 19082 (Rv. 628353), est. Coletti De Cesare, ha ricordato che il legislatore, nei vari provvedimenti in cui le imprese edili sono menzionate, ne tratta sempre in modo distinto e differenziato rispetto alle imprese estrattive e manifatturiere, dovendosi dunque escludere che le prime abbiano diritto ai medesimi benefici previsti per le seconde.

Con riferimento agli sgravi contributivi previsti per le aziende agricole ricadenti in zona montana, Sez. L, n. 19420 (Rv. 628403), est. Tria, ha affermato che l'art. 8 della legge n. 991 del 1952 (che li prevedeva) – già implicitamente abrogato per la parte relativa alle agevolazioni fiscali prima dagli artt. 58 e 68 del d.P.R. n. 645 del 1958 e poi dall' art. 9 del d.P.R. n. 601 del 1973 – colpito, per la parte relativa ai benefici contributivi, dalla sentenza di accoglimento della Corte costituzionale n. 370 del 1985, coinvolto, sia pure indirettamente, nell'abrogazione dell'art. 3 della legge n. 1102 del 1971 ad opera dell'art. 29 della legge n. 142 del 1990, non più richiamato dal legislatore, per quel che riguarda i benefici contributivi in favore delle zone montane, a partire dalla legge n. 67 del 1988 (in quanto le relative disposizioni hanno fatto principalmente riferimento alla definizione di territori montani contenuta nell'art. 9 del d.P.R. n. 601 del 1973), non può che considerarsi implicitamente abrogato, tanto più che esso prevede un regime di totale esenzione contributiva che – come criterio generalizzato da applicare ai territori montani – risulta essere stato abbandonato dal legislatore, a partire dalla legge n. 67 del 1988 cit.

Ne consegue che, come si desume dall'art. 1, comma 3, lettera d, del d.lgs. n. 179 n. 2009 e dalla relativa legge di delega, il suddetto art. 8 non poteva essere incluso fra le norme "salvate" dal d.lgs. n. 179 cit., avente carattere meramente ricognitivo e non innovativo, sicché la relativa ricomprensione al suddetto fine nell'allegato 1 – vocen. 1266 – a tale provvedimento legislativo, tra le disposizioni, specificamente indicate, della legge n. 991 del 1952 da "mantenere in vigore", si deve considerare tamquam non esset, frutto di un lapsus calami, sulla base di una interpretazione rispettosa dell'art. 15 delle preleggi e costituzionalmente orientata, nel senso della coerenza e ragionevolezza dell'ordinamento (art. 3 Cost.), del rispetto dei principî e criteri direttivi della legge di delega (art. 76 Cost.), alla luce anche dell'art. 44, secondo comma, Cost.

5. Indebito previdenziale.

5.1. Ambito di applicazione.

In tema di ripetizione dell'indebito previdenziale, è insorto, nel corso del 2013, un contrasto all'interno della Sezione Lavoro, in ordine alle condizioni e ai limiti di applicabilità della disciplina codicistica dettata dall'art. 2033 cod. civ.

Sez. L, n. 11922 (Rv. 626487), est. Curzio, infatti, ha affermato il principio per cui la speciale disciplina dettata dall'art. 1, comma duecentosessantesimo, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 – secondo cui «Nei confronti dei soggetti che hanno percepito indebitamente prestazioni pensionistiche o quote di prestazioni pensionistiche o trattamenti di famiglia nonché rendite, anche se liquidate in capitale, a carico degli enti pubblici di previdenza obbligatoria, per periodi anteriori al 1° gennaio 1996, non si fa luogo al recupero dell'indebito qualora i soggetti medesimi siano percettori di un reddito personale imponibile IRPEF per l'anno 1995 di importo pari o inferiore a lire 16 milioni» –riguarda tutti i soggetti che abbiano indebitamente percepito prestazioni pensionistiche, sempre che sussistano le condizioni di reddito specificate nella norma, senza possibilità di distinzione in ragione della causa che ha dato luogo all'indebito, dovendosi escludere l'applicabilità dell'ordinaria disciplina dell'indebito civile ex art. 2033 cod. civ., anche qualora sia stata accertata l'insussistenza del rapporto di lavoro subordinato cui si riferiva la posizione assicurativa.

Nel rigettare la tesi dell'Inps ricorrente, secondo cui ai fini della ripetizione di somme indebitamente corrisposte a titolo di prestazione previdenziale, trova applicazione l'ordinaria disciplina dell'indebito civile nell'ipotesi in cui la posizione assicurativa sia stata annullata in ragione dell'accertamento giudiziario dell'insussistenza del rapporto di lavoro subordinato al quale tale posizione assicurativa si riferiva, la Sezione Lavoro ha ritenuto, in questa occasione, che non è possibile introdurre un elemento di distinzione tra gli indebiti previdenziali, che, sebbene dotato indubbiamente di una sua astratta ragionevolezza, tuttavia non trova riscontro e fondamento nella lettera della legge, che riguarda tutti i soggetti che hanno percepito prestazioni pensionistiche indebitamente, cioè senza averne diritto, sempre che sussistano le condizioni di reddito specificate dalla norma.

Su posizioni consapevolmente diverse si è attestata invece Sez. L, n. 21453 (Rv. 628374), est. Blasutto, la quale, nel condividere l'indirizzo espresso da Sez. L, n. 12406 del 2003 (Rv. 565985), Sez.L, n. 328 del 2002 (Rv. 551518) e Sez. L, n. 5167 del 1998 (Rv. 515763), ha affermato il principio secondo cui, qualora sia stata indebitamente corrisposta una prestazione assistenziale pur dopo il decesso del beneficiario, le somme indebitamente percepite sono ripetibili sulla base della ordinaria disciplina codicistica dettata dall'art. 2033 cod. civ., mancando la ratio per applicarsi, in questo caso, il principio di settore di necessaria tutela del percettore in buona fede della prestazione assistenziale indebita; viene infatti in rilievo l'erogazione di somme estranee ad un rapporto previdenziale facente capo al percettore, collocandosi l'indebito al di fuori dell'alveo della disciplina di settore, per situarsi in quella comune disciplinata dalla richiamata norma codicistica.

Secondo tale ultima pronuncia la disciplina dell'indebito previdenziale riveste carattere speciale rispetto al regime ordinario dell'art. 2033 cod. civ., in quanto diretta ad approntare una tutela idonea in favore di chi abbia "in buona fede" percepito le prestazioni.

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 431 del 1993, ha infatti affermato che si è venuto via via consolidandosi un principio di settore, secondo il quale – in luogo della generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell'indebito (art. 2033 cod. civ.) – trova applicazione la diversa regola, propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione in presenza di una situazione di fatto avente come minimo comun denominatore la non addebitabilità al percipiente della erogazione non dovuta, declinandosi in forme e modalità diverse a seconda delle peculiari discipline di volta in volta dettate dal legislatore, che a volte richiede la mancanza di dolo (come nei casi disciplinati dall'art. 80 del R.d. 28 agosto 1924, n. 1422, dagli artt. 52 e 53 della legge 9 marzo 1989, n. 88, dall'art. 13 della legge 30 dicembre 1991, n. 412) a volte l'accertamento della buona fede (come nei casi disciplinati dall'art. 11, della legge 6 ottobre 1986, n. 656), oltre a prevedere solo in alcune ipotesi (es. dal citato art. 13 dellalegge n. 412 del 1991) la consacrazione del carattere indebito in un provvedimento formale e la sua comunicazione all'interessato e solo in alcuni casi (art. 11, legge n. 656 del 1986; art. 13, legge n. 412 del 1991) la condizione dell'insussistenza della violazione da parte del percipiente di un obbligo di comunicazione posto a suo carico.

Tale regola di favore della irripetibilità (a determinate condizioni) della prestazione, dettata in funzione di essenziali esigenze di vita della parte più debole del rapporto – che verrebbero ad essere contraddette da una indiscriminata ripetibilità di prestazioni naturaliter già consumate in correlazione, e nei limiti, della loro destinazione alimentare – trova una sua copertura costituzionale nell'art. 38 della Carta, che tutela esigenze non ravvisabili laddove l'erogazione non sia in alcun modo riconducibile ad un rapporto previdenziale o assistenziale facente capo al percettore, conseguendone in tal caso l'applicazione della disciplina ordinaria di cui all'art. 2033 cod. civ., propria dell'indebito oggettivo, trattandosi di pagamento effettuato senza titolo, che colui che lo ha fatto ha diritto di ripetere.

La contraria tesi, secondo la sentenza da ultimo citata, permetterebbe la definitiva attribuzione di somme a persone del tutto estranee al sistema pensionistico, il che non corrisponderebbe al canone di ragionevolezza espresso dal capoverso dell'art. 3 Cost.

5.2. Elemento soggettivo.

Sez. L, n. 12097 (Rv. 626666), est. Marotta, ha ribadito che nell'indebito previdenziale il dolo non opera nel momento di formazione della volontà negoziale, bensì nella fase esecutiva, riguardando un fatto causativo della cessazione dell'obbligazione di durata, non noto all'ente debitore, titolare passivo di un numero assai rilevante di rapporti, il quale non può ragionevolmente attivarsi per prendere conoscenza della situazione personale e patrimoniale dei creditori, senza la collaborazione attiva di ciascuno di essi. Conseguentemente, integra un dolo idoneo a determinare l'Inps a corrispondere una prestazione non dovuta anche il mero silenzio di chi, avendo l'obbligo di dichiarare di non svolgere altra attività lavorativa onde ottenere il beneficio della pensione di anzianità, omette di comunicare la circostanza dello svolgimento di tale attività, non essendo necessario un positivo e fraudolento comportamento dell'assicurato ed essendo invece sufficiente la consapevolezza dell'insussistenza del diritto in ragione delle disposizioni anticumulo.

5.3. Sgravi contributivi e rimborso.

Ribadendo l'orientamento consacrato dalle Sezioni unite nel 2004 (con la sentenza n. 8432), Sez. L, n. 14011 (Rv. 626985), est. Fernandes, ha statuito che la disposizione dell'art. 1, comma terzo, del d.l. 22 marzo 1993, n. 71, convertito con modificazioni in legge 20 maggio 1993, n. 151, la quale – in relazione al rimborso delle somme dovute dall'INPS per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 261 del 1991 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 18, comma secondo, d.l. n. 918 del 1968, convertito con modificazioni in legge n. 1089 del 1968, nella parte in cui esclude il beneficio degli sgravi contributivi in caso di retribuzioni non assoggettate a contribuzione contro la disoccupazione involontaria) – prevede, relativamente a periodi contributivi anteriori alla data di pubblicazione di tale sentenza, che tali rimborsi siano effettuati in dieci rate annuali di pari importo senza alcun aggravio per l'INPS per rivalutazione o interessi, va interpretata nel senso che tale principio è valido in qualsiasi tempo, ossia a prescindere dal momento della domanda giudiziaria o amministrativa, come affermato anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 320 del 1995, che ha effetto retroattivo sui rapporti giuridici sorti anteriormente ma non ancora esauriti, sicché non assume alcun rilievo la circostanza che la domanda di rimborso dei contributi sia stata effettuata prima o dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 261 del 1991.

5.4. Il recupero degli assegni familiari indebitamente percepiti.

In materia di assegni familiari, il datore di lavoro ha una generale funzione sostitutiva dell'ente previdenziale, per conto del quale anticipa gli assegni ai propri dipendenti (compensando i relativi importi sulla misura globale dei contributi dovuti all'Inps e versando cosi la sola eccedenza);ne deriva che, in caso di prestazioni indebitamente erogate al lavoratore poste a conguaglio, il datore di lavoro è tenuto a recuperare le relative somme, trattenendole su quelle da lui dovute al lavoratore medesimo a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di lavoro, giusta la previsione dell'art. 24 del d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797 (Sez. L, n. 19261, Rv. 628390, est. Coletti De Cesare).

5.5. I versamenti indebiti dei contributi per malattia.

L'art. 20 del d.l. n. 112 del 2008 ha stabilito una nuova disciplina del contributo previdenziale relativo all'assicurazione contro le malattie.

La disposizione ha, per un verso (innovando il diritto vivente) dichiarati non dovuti i contributi di malattia da parte dei datori di lavoro che corrispondono ai propri dipendenti il trattamento di malattia e, dall'altro, mantenuto fermi i pagamenti (indebiti) eventualmente già eseguiti a tale titolo da quei datori di lavoro.

Sez. L, nn. 24997 e 25308, entrambe in corso di massimazione, est. Napoletano, hanno statuito la ripetibilità dei contributi di malattia versati dai datori di lavoro che abbiano direttamente corrisposto ai dipendenti i relativi trattamenti, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 82 del 2013, secondo la quale l'art. 20 (nel testo originario) del d.l. n. 112 del 2008, convertito in legge dall'art. 1 della legge 6 agosto 2008, n. 133 deve essere considerato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di uguaglianza consacrato nell'art. 3 Cost., nella parte in cui, a fronte della non debenza della prestazione patrimoniale di cui trattasi, prevede l'irripetibilità di quanto sia stato versato nell'apparente adempimento della (in realtà inesistente) obbligazione.

6. Riscossione dei contributi.

In tema di riscossione dei contributi previdenziali mediante ruolo, la previsione del termine di decadenza per l'iscrizione a ruolo ex art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999 non è retroattiva, secondo un'interpretazione costituzionalmente adeguata della disciplina transitoria di cui al successivo art. 36, comma 6, atteso che il sistema precedente non sanciva alcun onere di tempestività dell'iscrizione a ruolo per la riscossione dei crediti previdenziali né può esigersi dall'ente previdenziale un comportamento non ancora imposto dall'ordinamento [Sez. L, n. 23606, in corso di massimazione, est. Fernandes].

7. Prescrizione del credito contributivo.

La legge 8 agosto 1995, n. 335, nel più ampio contesto della riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, ha innovato anche la materia della prescrizione dei contributi previdenziali, in generale e non solo dell'INPS, uniformando tutti i termini prescrizionali a cinque anni.

La nuova disciplina è entrata in vigore il 17 agosto 1995 (ex art. 17, legge n. 335 cit.) giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (in G.U., suppl. ord., del 16 agosto 1995, n. 190), ma il legislatore ha dettato tempi diversi di attuazione per i diversi tipi di contributi, dovendo, pertanto, distinguersi tra entrata in vigore del nuovo impianto normativo ed efficacia di alcune disposizioni.

La disposizione introdotta dall'art. 3 disciplina, con il comma 9, i contributi relativi a periodi successivi all'entrata in vigore della legge; con il comma 10, la sorte dei contributi relativi a periodi precedenti la data di entrata in vigore della legge.

In particolare, per i contributi IVS del 1° tipo, il comma 9 alla lett. a) stabilisce che il termine prescrizionale sia di dieci anni sino al 31.12.1995 e che sia ridotto a cinque anni dal 1° gennaio 1996, salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti.

Per i contributi del 2° tipo, il comma 9 alla lett. b) stabilisce invece, da subito, il termine di prescrizione di cinque anni.

Per la disciplina transitoria, il comma 10 ha esteso i nuovi termini di prescrizione anche alle contribuzioni relative a periodi precedenti la data di entrata in vigore della legge, e ha fatto venir meno l'operatività della sospensione triennale di cui all'art. 2, comma 19, del d.l. n. 463 del1983, a meno che, per entrambe le previsioni, non siano stati compiuti atti interruttivi o siano iniziate procedure nel rispetto della normativa preesistente.

L'ambigua formulazione della norma ha dato luogo, contrariamente alle intenzioni del legislatore, ad un imponente contenzioso, trascinatosi fino all'anno in corso.

7.1. Atti interruttivi.

Sez. L, n. 11529 (Rv. 626558), est. Filabozzi, ha ribadito che l'art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335, che ha ridotto a cinque anni il termine di prescrizione per le contribuzioni di previdenza e assistenza sociale obbligatorie, nel prevedere che continua ad applicarsi il vecchio termine decennale nel caso di atti interruttivi già compiuti o di procedure finalizzate al recupero dell'evasione contributiva iniziate durante la vigenza della precedente disciplina, ha inteso riferirsi a qualunque concreta attività di indagine ed ispettiva compiuta dall'ente previdenziale, indipendentemente dalla instaurazione del contraddittorio con il debitore, sicché anche la redazione di verbali di accertamento meramente interni consente l'applicazione del più lungo termine prescrizionale.

Sez. L, n. 9771 (Rv. 626550), est. La Terza, ha statuito che il temine di prescrizione del diritto di credito dell'INAIL, in relazione alla differenza premi, ha durata decennale, ai sensi dell'art. 3, comma 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, norma che prevede il mantenimento del precedente termine decennale, in luogo del nuovo termine quinquennale, per contribuzioni anteriori alla sua entrata in vigore, qualora l'Istituto abbia posto in essere atti interruttivi o procedure di recupero, ai primi essendo riconducibile anche la comunicazione inviata dall'Istituto – a fronte del ricorso del datore di lavoro alla Commissione Tariffe – di pagamento dei premi "salvo conguaglio".

Conformandosi alla sentenza n. 17849 del 2009 (Rv. 609651), la Sezione Lavoro ha invece chiarito che l'ordinanza ingiunzione relativa a sanzioni amministrative e il verbale ispettivo dell'Ispettorato del lavoro non hanno efficacia interruttiva della prescrizione del credito contributivo: la prima, attesa la diversità della pretesa, non è qualificabile come procedura finalizzata al recupero dell'evasione contributiva, né configura un atto prodromico diretto al conseguimento dei contributi omessi; il secondo, costituisce un atto posto in essere da un soggetto, l'Ispettorato del lavoro, diverso dall'Ente impositore. Ne consegue che i predetti atti, non integrando i presupposti di cui all'art. 3, comma 10, della legge n. 335 del 1995, non determinano la perdurante applicabilità del termine decennale di prescrizione, né della sospensione triennale della prescrizione medesima già prevista dall'art. 2, comma diciannovesimo, d.l. n. 463 del 1983, convertito nella legge n. 638 del 1983 [Sez. L, n. 13218 (Rv. 626574), est. Filabozzi].

7.2. Denuncia del lavoratore.

Con ordinanza interlocutoria n. 17274 del 2013, est. D'Antonio, la Sezione Lavoro ha rilevato l'insorgenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, nella quale per lungo tempo era apparsa maggioritaria l'opzione ermeneutica propugnata da Sez. L., n. 4153 del 2006 (Rv. 587455), secondo la quale, in relazione ai contributi per i quali il quinquennio dalla scadenza si fosse integralmente maturato prima dell'entrata in vigore della legge, la denuncia del lavoratore era idonea a mantenere il precedente termine decennale solo quando intervenuta prima, ovvero comunque entro il 31 dicembre 1995, analogamente a quanto previsto per gli atti interruttivi dell'ente previdenziale. Quanto agli altri contributi, parimenti dovuti per periodi anteriori alla entrata in vigore della legge, ma per i quali, a quest'ultima data, il quinquennio dalla scadenza non si fosse integralmente maturato, il termine decennale poteva operare solo mediante una denuncia intervenuta nel corso del quinquennio dalla data della loro scadenza.

L'orientamento di cui alla citata pronuncia n. 4153 del 2006 è stato confermato dalla giurisprudenza successiva [Sez. L, n. 29479 del 2008 (Rv. 606235); Sez. L., n. 73 del 2009 (Rv. 607015); Sez. L, n. 948 del 2012 (Rv. 620901); Sez. L, n. 2417 del 2012 (Rv. 621216)].

Il continuum ermeneutico fondato sull'orientamento innanzi esposto è stato, tuttavia, interrotto da Sez. L, n. 12422(Rv. 628158), est. Manna, in cui si è affermato che la riduzione del termine da decennale a quinquennale, a decorrere dal 1° gennaio 1996, non si applica ai casi di denuncia di omissione contributiva presentata all'Inps da parte del lavoratore o dei suoi superstiti entro il quinquennio successivo al 1° gennaio 1996 e nei limiti del decennio dalla nascita del diritto alla contribuzione, indipendentemente dall'avvenuta promozione dell'azione di recupero dell'INPS nei confronti del datore di lavoro inadempiente.

Secondo la pronuncia citata da ultimo, dunque, ai fini del permanere del termine decennale di prescrizione, la denuncia da parte del lavoratore deve essere proposta nel termine di 5 anni a decorrere dal 1° gennaio 1996 e, comunque, nei limiti del decennio dalla nascita del diritto a contribuzione e non già, come affermato nelle precedenti citate pronunce della Corte, nel termine quinquennale decorrente dalla scadenza dei contributi.

Rilevata l'insorgenza di un contrasto, il Collegio ha ritenuto necessario rimettere la causa al Primo Presidente per l'assegnazione della stessa alle Sezioni unite, per la risoluzione del contrasto, stabilendo se, per i contributi dovuti per periodi anteriori alla data di entrata in vigore della legge n. 335 del 1995 ed ai fini della conservazione del termine decennale di prescrizione, la denuncia di omissione contributiva da parte del lavoratore o dei suoi superstiti debba essere presentata nel termine quinquennale decorrente dalla scadenza dei contributi oppure possa utilmente essere proposta entro il quinquennio successivo al 1° gennaio 1996 e nei limiti del decennio dalla nascita del diritto alla contribuzione.

Quanto invece ai contributi maturati successivamente all'entrata in vigore della riforma, Sez. L, n. 23237 (Rv. 628285), est. Tria, ha precisato che la scelta del lavoratore di presentare la denuncia – cui viene collegato l'effetto di allungare il termine di prescrizione – ancorché non debba essere comunicata al datore di lavoro, tuttavia, dato l'effetto ad essa riconnesso di impedimento dell'acquisto da parte del debitore del "diritto potestativo" di provocare l'estinzione del rapporto, deve essere effettuata in modo da garantire adeguatamente il diritto di difesa del datore di lavoro stesso. Ciò comporta che la suddetta presentazione debba avvenire entro un termine congruo che, in assenza di indicazione legislativa, si può far coincidere – in base ad un criterio finalistico e nel rispetto del generale principio di razionalità – con il medesimo termine, quinquennale, entro il quale il datore di lavoro potrebbe chiedere l'accertamento negativo del proprio debito contributivo e così ottenere il riconoscimento giudiziale del suddetto diritto potestativo.

In altre parole, il termine di prescrizione "si allunga" a dieci anni purché l'atto interruttivo, consistente nella denuncia del lavoratore (o dei suoi superstiti), intervenga prima dell'estinzione del diritto alla contribuzione (cioè prima del decorso del nuovo termine di cinque anni).

8. Omissione ed evasione contributiva.

8.1. Omessa presentazione dei modelli D.M./10.

Nel caso di mancato pagamento di contributi rispetto ai quali il datore di lavoro abbia omesso di presentare all'Istituto, entro il termine di legge, i modelli D.M./10, problema molto dibattuto è se tale condotta concretizzi un'ipotesi di evasione e non di semplice omissione contributiva.

La questione ha formato oggetto di diverse e contrastanti pronunce della S.C., essendosi in un primo tempo affermato che in tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed assistenziali, l'omessa denuncia all'INPS di lavoratori, ancorché registrati nei libri paga e matricola, configura l'ipotesi di "evasione contributiva" di cui all'art. 116, comma 8, lett. b) della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e non la meno grave fattispecie di "omissione contributiva" di cui alla lett. a) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l'omessa denuncia dei lavoratori all'INPS faccia presumere l'esistenza della volontà del datore di occultare i rapporti di lavoro al fine di non versare i contributi, e gravando sul medesimo l'onere di provare la sua buona fede, che non può reputarsi assolto in ragione della mera registrazione dei lavoratori nei libri paga e matricola, che restano nell'esclusiva disponibilità del datore stesso e sono oggetto di verifica da parte dell'istituto previdenziale solo in occasione delle ispezioni (in questo senso Sez. L, n. 11261 del 2010, Rv. 613896).

Si è poi invece sostenuto che nel vigore della L. 23 dicembre 2000, n. 388, la mera mancata presentazione del modello D.M./10 (recante la dettagliata indicazione dei contributi previdenziali da versare) configura la fattispecie della omissione –e non già della evasione –contributiva, ricadente nella previsione dell'art. 116, comma 8, lett. a), della medesima legge, qualora il credito dell'istituto previdenziale sia comunque evincibile dalla documentazione di provenienza del soggetto obbligato (nella specie libri contabili e denunce riepilogative annuali), dovendo in tal caso escludersi l'occultamento del rapporto di lavoro e delle retribuzioni erogate (in questo senso Sez. L, n. 1230 del 2011, Rv. 616258).

Successivamente la Corte ha affermato che l'omessa o infedele denuncia mensile all'INPS (attraverso i cosiddetti modelli D.M./10) di rapporti di lavoro o di retribuzioni erogate, ancorché registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta, concretizza l'ipotesi di "evasione contributiva" di cui alla legge n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. b), e non la meno grave fattispecie di "omissione contributiva" di cui alla lettera a) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l'omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l'esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti; conseguentemente, grava sul datore di lavoro inadempiente l'onere di provare la mancanza dell'intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede, onere che non può tuttavia reputarsi assolto in ragione della avvenuta corretta annotazione dei dati, omessi o infedelmente riportati nelle denunce, sui libri di cui è obbligatoria la tenuta (Sez. L, n. 28966 del 2011, Rv. 619933). L'orientamento è stato di recente ribadito da Sez. L, n. 10509 del 2012 (Rv. 623170), secondo cui l'omessa o infedele denuncia mensile all'INPS attraverso i modelli D.M. 10 circa rapporti di lavoro e retribuzioni erogate integra "evasione contributiva" la legge n. 388 del 2000, ex art. 116, comma 8, lett. b), e non la meno grave "omissione contributiva" di cui alla lett. a) della medesima norma, in quanto l'omessa o infedele denuncia fa presumere l'esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti. Ne consegue che grava sul datore di lavoro inadempiente l'onere di provare l'assenza d'intento fraudolento e, quindi, la propria buona fede.

Nel 2013, con le Sentenze n. 4188 (Rv. 625096), est. Balestrieri, e 19362 (in corso di massimazione), est. D'Antonio, la Sezione Lavoro ha dato continuità all'orientamento più rigoroso, basato sulla circostanza che l'omessa o infedele denuncia fa presumere l'esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti, salvo prova contraria del soggetto obbligato.

Sez. L, n. 10265 (Rv. 626434), est. Balestrieri, ha invece statuito che integra la fattispecie della omissione contributiva, ai sensi dell'art. 1, comma 217, lettera b), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (e non quella, più grave, dell'evasione contributiva, ipotizzabile in presenza di omissioni di denunce obbligatorie, ovvero di denunce e dichiarazioni non rispondenti al vero), il fatto del datore di lavoro che presenti all'Inps le dichiarazioni trimestrali della manodopera impiegata con riduzioni retributive esplicitamente riferite alla dichiarata applicazione del contratto di riallineamento di cui all'art. 5 del d.l. del 1° ottobre 1996, n. 510, convertito nella legge 18 novembre 1996, n. 608, irrilevante essendo – a tali fini – che detto contratto sia stato dichiarato successivamente invalido.

8.2. Lavoro giornalistico.

Secondo Sez. L, n. 1233 (Rv. 624832), est. La Terza, ove il praticante giornalista non sia iscritto all'Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI), ma ad altro sistema previdenziale, non può trovare applicazione il regime sanzionatorio per l'omissione contributiva verso l'INPGI per il tempo precedente l'iscrizione nell'Albo dei praticanti giornalisti, atteso che la mancanza dell'iscrizione comporta la nullità del contratto di lavoro per violazione di legge, che non è sanabile con la successiva retrodatazione dell'iscrizione stessa, mentre, per il tempo successivo all'iscrizione, la disciplina prevista dall'art. 116 della legge n. 388 del 2000, per cui il debitore in buona fede è liberato in caso di pagamento ad altro ente di previdenza pubblico diverso dal titolare, non si applica automaticamente, poiché l'Istituto, per assicurare l'equilibrio del proprio bilancio in ottemperanza dell'obbligo di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 509 del 1994, ha il potere di adottare autonome deliberazioni.

8.3. Il caso degli obblighi informativi a carico del socio receduto dalla società.

Sez. L, n. 13240 (Rv. 627125), est. Blasutto, ha affermato il principio secondo cui il socio receduto da una società in nome collettivo risponde dell'adempimento delle obbligazioni contributive verso l'Inps, sorte successivamente al suo recesso dalla società, qualora questo non sia stato comunicato all'ente ai sensi dell'art. 2 del d.l. 6 luglio 1978, n. 352, convertito nella legge 4 agosto 1978, n. 467, imponendo tale norma una speciale forma di pubblicità (che impone la comunicazione agli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie degli eventi riguardanti la sospensione, la variazione e la cessazione dell'attività), che si aggiunge a quella comune prevista per l'opponibilità ai terzi di cui agli artt. 2290 e 2300 cod. civ., in difetto della quale l'evento non è opponibile all'ente medesimo; resta, inoltre, irrilevante a tal fine che il recesso sia iscritto nel registro delle imprese, non potendosi imputare all'ente la possibilità di conoscere aliunde variazioni incidenti sul rapporto assicurativo, laddove l'obbligo informativo, gravante sull'assicurato, sia rimasto inadempiuto.

La sentenza addossa, dunque, al socio illimitatamente responsabile che receda dalla società, le conseguenze del mancato adempimento dell'onere di comunicare tale evento agli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, con le modalità previste dall'art. 2 della legge 4 agosto 1978, n. 467, nel senso che in mancanza di tale adempimento l'ex socio continua a rispondere delle obbligazioni contributive assunte dopo il suo recesso, nonostante l'impiego di forme di pubblicità generalmente considerate idonee ai sensi dell'art. 2290 cod. civ.

Tale orientamento si pone in parziale contrasto con il principio enunciato da Sez. L, n. 10109 (Rv. 626440), est. Arienzo, secondo cui l'art. 2 del d.l. 3 luglio 1978, n. 352, convertito in legge 4 agosto 1978, n. 467, nell'imporre al titolare o al legale rappresentante dell'impresa obblighi di comunicazione agli enti previdenziali, non prescrive al socio receduto da una società in nome collettivo l'obbligo di comunicare all'INPS la propria cessazione dalla qualità di socio, in quanto la norma si riferisce alle variazioni dell'attività dell'impresa e non ai mutamenti della composizione societaria, che lasciano invariati gli obblighi contributivi, sia pure rendendoli riferibili a diversi soggetti, che divengono legittimati passivamente rispetto alle relative obbligazioni.

Con tale sentenza la Sezione lavoro ha escluso che l'adempimento, da parte del socio receduto da una società in nome collettivo, dell'obbligo informativo specifico, imposto dall'art. 2 cit. al titolare o al legale rappresentante dell'impresa, costituisca condizione necessaria per rendere opponibile il recesso nei confronti dell'INPS, e quindi sottrarsi alle richieste di pagamento dell'istituto per omissioni contributive sorte successivamente a tale evento.

8.4. Il risarcimento del danno da omissione contributiva.

L'omissione della contribuzione produce un pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, distinguendosi due tipi di danno: l'uno, dato dalla perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, che si verifica al momento in cui il lavoratore raggiunge l'età pensionabile; l'altro, dato dalla necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva, eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui all'art. 13 della legge n. 1338 del 1962.

In sostanza, maturata la prescrizione del credito contributivo, il lavoratore è titolare delle seguenti posizioni soggettive: a) nei confronti dell'Istituto, del diritto alla costituzione della rendita vitalizia; b) nei confronti del datore di lavoro, del diritto a che questi versi all'Istituto la riserva matematica per la costituzione della rendita; c) in caso di inadempimento del datore, del diritto alla restituzione di quanto versato all'Istituto in sostituzione del datore di lavoro.

Secondo Sez. L, n. 20827 (Rv. 628282), est. Maisano, l'ingiustificata mancanza di esercizio di una di queste situazioni soggettive costituisce fatto colposo del lavoratore, che concorre ad aggravare il danno da omessa contribuzione, oppure difetto dell'ordinaria diligenza idonea ad elidere il danno stesso. Questi fatti possono diminuire il risarcimento oppure escluderlo, secondo una gravità della colpa ed un'entità delle conseguenze la cui valutazione è riservata al giudice di merito (ai sensi dell'art. 1227 cod. civ., primo e secondo comma).

Sez. L, n. 21355 (Rv. 628367), est. Bronzini, ha precisato che la somma ottenuta giudizialmente dal lavoratore a titolo di riserva matematica, nel caso di omissioni contributive, costituisce una provvista non assimilabile in alcun modo ad un trattamento pensionistico e retributivo del lavoratore e, dunque, non soggetta a tassazione.

8.5. Reintegra del lavoratore e obblighi contributivi.

Appare sufficientemente consolidato il principio, ribadito da Sez. L, n. 23181 (Rv. 628407), est. Curzio, secondo cui il ritardo nel pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali, relativi al periodo di tempo intercorso tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, comporta l'applicazione delle sanzioni civili previste dai commi 8° e 9° dell'art. 116 della legge 388 del 2000. Dalla efficacia retroattiva della condanna prevista dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, infatti, si desume che, nel periodo di tempo tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione, il rapporto di lavoro è quiescente ma non estinto e rimangono in vita il rapporto assicurativo previdenziale ed il corrispondente obbligo del datore di lavoro di versare all'ente previdenziale i contributi assicurativi per tutta la durata di tale periodo.

9. Condono e sanatoria.

Nel conformarsi alla sentenza n. 8908 del 2010 (Rv. 612881), la Sezione Lavoro ha ribadito chela regolarizzazione dei contributi evasi per la mancata esposizione di retribuzioni sul libro paga, effettuata ex art. 4 del d.l. 15 gennaio 1993, n. 6, convertito in legge 17 marzo 1993 n. 63, non comporta altresì la sanatoria delle riduzioni contributive non spettanti, posto che detta norma, a differenza di precedenti analoghe sanatorie in materia contributiva che contenevano una specifica disposizione al riguardo, non prevede, fra i benefici derivanti dal condono, anche la non applicazione delle disposizioni di cui all'art. 6, commi nono e decimo, della legge n. 389 del 1989, escludenti le riduzioni contributive previste dal medesimo art. 6 nel caso di lavoratori non denunciati agli istituti previdenziali, o denunciati con orari, giornate di lavoro o retribuzioni inferiori al vero. Ne consegue che, in tali casi, l'indebita autoattribuzione di riduzioni contributive integra un'omissione contributiva, che il datore di lavoro deve sanare con specifica domanda di condono e pagamento dei corrispondenti oneri; tale domanda va distinta da quella relativa all'infrazione consistente nella mancata o irregolare corresponsione della retribuzione, che ha dato luogo alla decadenza dal beneficio delle riduzioni contributive [Sez. L, n. 7401 (Rv. 625770), est. Napoletano].

10. Determinazione del premio per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

10.1. Classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi INAIL.

In linea generale, ai fini della determinazione del premio da pagare per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, non è consentito cercare definizioni delle lavorazioni in fonti diverse dalle tabelle contenute nei decreti ministeriali emanati ai sensi dell'art. 40, primo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, tabelle basate sull'analisi del rischio infortunistico dell'attività svolta, a meno che la lavorazione di cui si tratta non sia contemplata dalla tariffa della gestione nella quale è inquadrato il datore di lavoro e sempre con l'avvertenza che, in questo caso, «la relativa classificazione è effettuata attraverso l'analisi tecnica delle operazioni fondamentali che compongono la lavorazione stessa, in modo da poterla ricondurre a specifiche previsioni tariffarie della gestione nella quale è inquadrato il datore di lavoro», come prescritto dall'art. 7, comma 1, del D.M. 12 dicembre 2000 [Sez. L, n. 9769 (Rv. 626243), est. Tria].

Secondo Sez. L, n. 5649 (Rv. 625614), est. Mancino, ai fini della classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi dovuti dalle imprese all'INAIL per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ove un'impresa svolga più lavorazioni, il giudice del merito, ai sensi dell'art. 2 del d.m. 18 giugno 1988, applicabile ratione temporis, deve in concreto accertare, tra le lavorazioni svolte, quale assuma la connotazione di lavorazione principale e, quindi, l'eventuale sussistenza della connessione funzionale tra lavorazioni complementari o sussidiarie e lavorazione principale e, solo all'esito positivo della predetta indagine, attribuire la voce tariffaria corrispondente alla lavorazione principale.

Se, dunque, nel concetto di lavorazione vanno comprese le operazioni complementari e sussidiarie svolte dal datore di lavoro in connessione operativa con l'attività principale, è invece irrilevante la natura delle ulteriori attività, estranee all'ambito produttivo in esame, relative alla realizzazione del prodotto finale [Sez.L, n. 21702 (Rv. 627942), est. Berrino].

In caso di contestazione, Sez. L, n. 9771 (Rv. 626551), est. La Terza, ricorda che, proposto ricorso alla Commissione Tariffe, il datore di lavoro – in forza di quanto previsto dall'art. 45 della legge 30 giugno 1965, n. 1124 (nel testo modificato dall'art. 4, comma 4, del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito in legge 7 dicembre 1989, n. 389) – deve pagare i premi, in caso di prima applicazione, in base al tasso medio di tariffa e, negli altri casi, in base al tasso in vigore alla data del provvedimento che ha dato origine al ricorso (salvo conguaglio per la eventuale differenza tra la somma versata e quella che risulti dovuta con l'applicazione del tasso del 5%), restando peraltro escluso che l'INAIL –prima di conoscere l'esatto ammontare del premio all'esito della decisione della Commissione –possa procedere a riscuotere la differenza pretesa tra quanto a suo parere dovuto e quanto già versato, ciò che rileva ai fini dell'applicazione dell'art. 2935 cod. civ.

10.2. Lavoratori esposti ad asbestosi e silicosi.

Sez. L, n. 9078 (Rv. 626208), est. Bandini ha chiarito che, ai fini della debenza a carico dei datori di lavoro del premio supplementare di cui all'art. 153, primo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, come sostituito dall'art. 10 della legge 27 dicembre 1975, n. 780, il rischio di esposizione dei lavoratori ad inalazioni di silice libera o di amianto va accertato in concreto, con riferimento all'ambiente in cui viene espletata l'attività lavorativa, a prescindere dagli effetti dell'utilizzo dei necessari dispositivi di protezione individuale.

Sez. L, n. 13908 (Rv. 626674), est. Garri, ha chiarito che, con riferimento al calcolo della percentuale di caricamento degli oneri indiretti – afferenti alle spese generali dell'istituto e determinati percentualmente in relazione agli oneri diretti – il sistema di "capitalizzazione pura" (che esclude il computo delle rendite capitalizzate dagli oneri diretti) non trova applicazione nel sistema finanziario per la gestione "industria", fondato, al contrario, su una ripartizione dei capitali di copertura in funzione mutualistica, sicché negli oneri diretti vanno inserite le rendite capitalizzate del periodo, e non solamente i relativi ratei.

La medesima pronuncia sopra citata ha espresso altri due principî: con il primo (Rv. 626675), conformandosi alla sentenza n. 11145 del 2008 (Rv. 603102) e premesso che l'intervento assicurativo in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali si basa sul principio generale di mutualità tra assicuranti e sulla necessità di salvaguardare l'equilibrio finanziario dell'assicuratore, ha ribadito che è corretto il criterio di computo degli oneri diretti, che prevede la ripartizione tra tutte le aziende, comprese quelle non specificamente esposte al relativo rischio, di una percentuale (nella misura del settantacinque per cento) degli oneri collegati alle malattie professionali derivanti dalla esposizione a rischio di silicosi ed asbestosi.

Con il secondo (Rv. 626673) ha precisato che nel calcolo del tasso specifico aziendale devono essere inclusi gli oneri presunti (che si traducono nella riserva sinistri, ossia nella somma destinata a coprire oneri non determinabili attualmente in via definitiva), da distribuirsi secondo un criterio di probabilità basato su gruppi di imprese, in modo che il rischio venga ripartito secondo il criterio mutualistico, proprio dell'assicurazione, atteso che il tasso aziendale non si riferisce all'andamento infortunistico della singola impresa, bensì al rapporto tra l'andamento infortunistico in ciascuna categoria di lavorazione, il numero dei lavoratori assicurati nelle singole imprese, nonché le loro retribuzioni. Tale meccanismo corrisponde al principio di mutualità sopra ricordato, che consente di evitare che l'assenza di eventi dannosi per una pluralità di imprese e la conseguente riduzione contributiva, eventualmente assai consistente nel complesso, si traduca in un pesante aggravio per le imprese colpite da sinistri o si ripercuota sul bilancio dell'ente assicuratore, mentre l'assenza di sinistri per la singola azienda può eventualmente comportare per quest'ultima il beneficio di una riduzione del tasso, una volta che questo sia stato determinato previa inclusione della detta riserva.

11. Lavoratori autonomi.

11.1. Imponibile contributivo per ingegneri ed architetti.

Sez. L., n. 5827 (Rv. 625737), est. Bandini, e Sez. L, n. 9076 (Rv. 625918), est. Napoletano, nell'uniformarsi a Sez. L, n. 14684 del 2012 (Rv. 623724), hanno espresso il principio secondo cui, in tema di previdenza di ingegneri e architetti, l'imponibile contributivo va determinato alla stregua dell'oggettiva riconducibilità alla professione dell'attività concreta, ancorché questa non sia riservata per legge alla professione medesima, rilevando che le cognizioni tecniche di cui dispone il professionista influiscono sull'esercizio dell'attività. La limitazione dell'imponibile contributivo ai soli redditi da attività professionali tipiche non trova fondamento nell'art. 7 della legge n. 1395 del 1923 e negli artt. 51, 52 e 53 del r.d. n. 2537 del 1925, che riguardano soltanto la ripartizione di competenze tra ingegneri e architetti, mentre l'art. 21 della legge n. 6 del 1981 stabilisce unicamente che l'iscrizione alla Cassa è obbligatoria per tutti gli ingegneri e gli architetti che esercitano la libera professione con carattere di continuità.

Tali sentenze ritengono che, al fine di stabilire se i redditi prodotti dall'attività di un libero professionista siano qualificabili come redditi professionali, soggetti, come tali, alla contribuzione dovuta alla Cassa previdenziale di categoria, il concetto di "esercizio della professione" debba essere interpretato non in senso statico e rigoroso, bensì tenendo conto dell'evoluzione in senso estensivo subita nel mondo contemporaneo della nozione di attività professionale: da tale premessa hanno ritenuto di ricavare la conseguenza che nel concetto in questione deve ritenersi compreso, oltre all'espletamento delle prestazioni tipicamente professionali (ossia delle attività riservate agli iscritti negli appositi albi), anche l'esercizio di attività che, pur non professionalmente tipiche, presentino, tuttavia, un "nesso" con l'attività professionale strettamente intesa, in quanto richiedono le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvale nell'esercizio dell'attività professionale e nel cui svolgimento, quindi, mette a frutto (anche) la specifica cultura che gli deriva dalla formazione tipologicamente propria della sua professione.

In tal modo le pronunce appena compendiate si pongono in consapevole contrasto con un diverso indirizzo interpretativo espresso, fra l'altro, proprio in materia di previdenza per gli ingegneri e architetti, da Sez. L, n. 11154del 2004 (Rv. 573615) e Sez. L, n. 3468 del 2005 (Rv. 580020), che vorrebbero soggette all'obbligo di contribuzione alla Inarcassa le sole attività riservate ai suddetti professionisti dal r.d. 23 ottobre 1925 n. 2537 (artt. 51 e 52), seguite poi più di recente da Sez. L, n. 4057 del 2008 [(Rv. 601966), con riferimento alla categoria professionale dei geometri] e Sez. L, n. 11472 del 2010 [(Rv. 613503), con riferimento alla categoria professionale dei biologi], in applicazione del principio espresso, da ultimo, da Sez. 6-L, ord., n. 1139 del 2012 (Rv. 620917), secondo cui l'ingegnere che svolga attività di perito balistico non è tenuto all'iscrizione alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Ingegneri e Architetti, né, conseguentemente, al pagamento dei relativi contributi previdenziali, poiché l'art. 21 della legge 3 gennaio 1981, n. 6, pone l'obbligo di iscrizione solo per gli ingegneri e gli architetti che esercitano la libera professione con carattere di continuità e, quindi, di effettività, in relazione ai contenuti tipici della stessa, fissati dall'art. 7 della legge 24 giugno 1923, n. 1395 e dagli artt. 51 e 52 del r.d. 23 ottobre 1925, n. 2537, ai quali è estranea l'attività di perito balistico, per il cui esercizio, non occorre né il titolo di ingegnere né l'iscrizione al relativo albo, essendo inoltre irrilevante che la competenza professionale e culturale acquisita come ingegnere possa influire sull'attività in concreto svolta.

11.2. Indennità di maternità.

Partendo dalla considerazione che i principî che regolano la normativa in materia, come modificata dagli interventi della Corte Costituzionale, possono essere sintetizzati in quello della alternatività tra i due genitori e della loro fungibilità e che ciò è espressamente previsto per le coppie composte da entrambi i genitori dipendenti (art. 28 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, che attribuisce l'indennità di maternità al padre ove non richiesta dalla madre lavoratrice), Sez. L, n. 809 (Rv. 624668), est. D'Antonio,ha ritenuto l'insussistenza di ragioni per discostarsi da tali principî in caso di coppie in cui un genitore è libero professionista, trattandosi di situazioni omogenee nelle quali l'interesse primario da tutelare è e rimane quello della prole e quello di facilitare il suo inserimento nella nuova famiglia. Ha sancito perciò che l'indennità di maternità per le libere professioniste, disciplinata dagli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, risponde all'interesse di inserimento della prole adottiva, adeguatamente tutelato mediante l'attribuzione del beneficio ad uno soltanto dei genitori, sicché, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 385 del 2005, che ne ha esteso il godimento al padre, vige un principio di alternatività e fungibilità tra i genitori adottivi, nel senso che la percezione dell'indennità da parte dell'uno esclude il diritto dell'altro, anche se – come nel caso considerato – un genitore è libero professionista e l'altro lavoratore dipendente.

Sez. L, n. 27068 (in corso di massimazione), est. Mancino, nel ribadire la non retroattività delle modifiche apportate dalla legge 15 ottobre 2003, n. 289, all'art. 70 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151,ha statuito che l'indennità di maternità dovuta alle libere professioniste esercenti la professione legale, per lo stato di gravidanza nel periodo antecedente al 29 ottobre 2003 (data di entrata in vigore della legge di modifica), soggiace al più favorevole regime reddituale previsto dall'originaria formulazione della citata norma.

12. Previdenza complementare.

12.1. Natura giuridica.

Anche nel 2013, come nell'anno precedente, la Sezione Lavoro ha affrontato il problema della qualificazione della natura giuridica, retributiva ovvero previdenziale, delle somme versate dal datore di lavoro e volte ad alimentare la posizione contributiva del lavoratore nei fondi di previdenza integrativa.

Consolidando il mutamento di rotta già delineatosi nel 2012 [Sez. L, n. 8695 del 2012 (Rv. 623056)] e pervenendo a soluzione opposta rispetto a quella seguita in passato anche dalle Sezioni unite (sentenza n. 974 del 1997, Rv. 502147) e ribadita dalla Sezione Lavoro fino alla sentenza n. 545 del 2011 (Rv. 616071), Sez. 6-L, ord., n. 8228 (Rv. 625923), rel. La Terza, ha affermato che i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare non hanno natura retributiva, trattandosi di esborsi non legati da nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa, ed esonerati dalla contribuzione AGO, con assoggettamento a contributo di solidarietà, ai sensi della disposizione retroattiva dell'art. 9 bis del d.l. n. 103 del 1991, conv. in legge n. 166 del 1991. Ne consegue che le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare –quale che sia il soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti –non si computano né nella indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982) né nel trattamento di fine rapporto, non avendo tali somme carattere e funzione retributiva ma previdenziale.

La più recente Sez. L, n. 13399 (Rv. 626668), est. Berrino, tuttavia, riallacciandosi al vecchio orientamento (seguito anche da Sez. L, n. 20418 del 2012, Rv. 624712), ha invece affermato che i trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita. Tuttavia, in relazione alla loro funzione previdenziale, sono ascrivibili alla categoria delle erogazioni solo in senso lato in relazione di corrispettività con la prestazione lavorativa, con la conseguenza che l'autonomia privata non subisce, in linea generale, limiti alla determinazione del quantum dovuto e dei presupposti e requisiti di erogazione di dette pensioni, potendo determinare altresì le condizioni della reversibilità delle prestazioni in favore del coniuge e dei figli del pensionato.

12.2. Il finanziamento.

Nella base imponibile, sulla quale calcolare l'entità del contributo di solidarietà a carico del datore di lavoro, da versare a titolo di finanziamento dei fondi di previdenza integrativi costituiti al fine di erogare prestazioni previdenziali o assistenziali in favore del lavoratore e dei suoi familiari, rientrano anche le somme erogate dal datore di lavoro per il pagamento dei premi assicurativi ove la polizza sia stata stipulata contro i rischi extraprofessionali e non quando l'assicurazione abbia ad oggetto la copertura dei rischi da infortuni professionali, trattandosi, in tal caso, di pagamento effettuato per soddisfare l'interesse del datore di lavoro di cautelarsi dagli eventuali effetti della propria responsabilità ex art. 2087 cod. civ. o per il fatto dei dipendenti e non di una integrazione della retribuzione [Sez. L, n. 18527 (Rv. 627490), est. Mammone].

12.3. L'accesso ai trattamenti.

In materia di accesso ai trattamenti previdenziali complementari, Sez. L, n. 10009 (Rv. 626393), est. Mancino, ha precisato che l'art. 3, comma 19, della legge 8 agosto 1995, n. 335, estende ai regimi integrativi le norme restrittive in materia pensionistica, relative all'assicurazione generale obbligatoria (AGO), mentre l'art. 15 della medesima legge (che ha aggiunto il comma 8-quinquies all'art. 18 del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, recante la disciplina delle forme pensionistiche complementari) ha introdotto il divieto di percepire la pensione integrativa prima della maturazione della pensione a carico dell'AGO, per cui l'accesso alle prestazioni di anzianità e di vecchiaia assicurate dalle forme di previdenza complementare è subordinato al possesso dei requisiti per fruire del trattamento pensionistico obbligatorio, senza che rilevino eventuali disposizioni più favorevoli previste dalla disciplina del Fondo integrativo, non essendo queste fatte salve dalla legge. Ne deriva che la fruizione del trattamento pensionistico integrativo per coloro che siano andati in pensione il 31 agosto 1995, data di entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, presuppone sia la cessazione del rapporto di lavoro, sia la maturazione di trentacinque anni di anzianità contributiva, non essendo sufficienti i minori anni di contribuzione previsti dal regolamento del fondo.

12.4. Portabilità e riscatto.

Nel 2013 è insorto un contrasto all'interno della Sezione Lavoro sulla questione involgente la possibilità o meno di configurare il diritto alla portabilità e riscatto della posizione individuale anche nell'ambito dei fondi di previdenza complementare cd. "a ripartizione" (o a "prestazione definita").

Sez. L, n. 7161 (Rv. 625738), est. Bandini ha, infatti, affermato il principio secondo cui, in tema di fondi previdenziali integrativi, devono considerarsi ammessi il riscatto o, in alternativa, la portabilità della posizione previdenziale, ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (applicabile ratione temporis), da un fondo cd. "a prestazione definita" – preesistente alla riforma della previdenza complementare introdotta con il d.lgs. 124 del 1993 e che si avvale, ai fini della determinazione delle risorse necessarie, del meccanismo della ripartizione –ad un fondo a capitalizzazione individuale, posto che anche nell'ambito dei fondi a ripartizione è enucleabile e quantificabile una posizione individuale, secondo le metodologie di calcolo elaborate dalla statistica e dalla matematica attuariale. La sentenza indicata ritiene che la facoltà di opzione o di trasferimento, prevista dalla norma, non venga meno nel caso in cui essa abbia ad oggetto non la contribuzione versata con il sistema della capitalizzazione su conto individuale, come tale riferibile immediatamente al singolo lavoratore, ma quella accantonata prima della riforma previdenziale, nell'ambito dei fondi cd. "a prestazione definita", gestiti secondo il sistema della ripartizione, in cui manca tale diretta riferibilità a posizioni individuali.

L'orientamento appena riferito, tuttavia, si pone in consapevole contrasto con un diverso indirizzo interpretativo espresso da Sez. L, n. 4369 del 2010 (Rv. 612794), secondo cui il diritto al riscatto delle quote, previsto dall'art. 10, lett. c), del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (in alternativa al trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo chiuso o al trasferimento ad un fondo aperto) in favore degli iscritti a fondi preesistenti che abbiano cessato il rapporto senza maturazione del diritto a pensione in epoca successiva all'entrata in vigore della legge, non trova applicazione in riferimento a forme di previdenza integrativa basate su un sistema a ripartizione (nel senso che la misura della prestazione erogata non è calcolata in rapporto con l'insieme dei contributi versati nel tempo dal singolo lavoratore o per suo conto), non essendo nelle stesse configurabili posizioni individuali soggette a capitalizzazione, e non essendo detta disposizione inclusa tra quelle per le quali l'art. 18 del d.lgs. cit. prevede precisi termini di adeguamento nei confronti dei fondi preesistenti, ai quali è pertanto demandato il compito di riorganizzarsi secondo il principio della capitalizzazione anche attraverso adeguamenti statutari, tenendo conto delle proprie caratteristiche strutturali.

Tale ultima opzione ermeneutica è stata abbracciata, anche in tal caso in consapevole contrasto con la di poco precedente sentenza 7161, da Sez. L, n. 18266 (Rv. 627282), est. Berrino, in tal modo acuendo il contrasto.

13. Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti procedimentali.

13.1. Decadenza dall'azione giudiziaria.

Secondo l'orientamento consacrato dalla sentenza delle Sezioni unite n. 12718 del 2009 (Rv. 608222), in tema di decadenza dall'azione giudiziaria per il conseguimento di prestazioni previdenziali, l'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, art. 47 (nel testo modificato dal d.l. 19 settembre 1992, n. 384, art. 4, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438), dopo avere enunciato due diverse decorrenze delle decadenze riguardanti dette prestazioni (dalla data della comunicazione della decisione del ricorso amministrativo o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della detta decisione), individua infine – nella "scadenza dei termini prescritti per l'esaurimento del procedimento amministrativo" – la soglia di trecento giorni (risultante dalla somma del termine presuntivo di centoventi giorni dalla data di presentazione della richiesta di prestazione di cui alla legge 11 agosto 1973, n. 533, art. 7 e di centottanta giorni, previsto dalla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 46, commi 5 e 6), oltre la quale la presentazione di un ricorso tardivo – pur restando rilevante ai fini della procedibilità dell'azione giudiziaria – non consente lo spostamento in avanti del dies a quo per l'inizio del computo del termine decadenziale (di tre anni o di un anno). Ne consegue che, al fine di impedirne qualsiasi sforamento in ragione della natura pubblica della decadenza regolata dall'anzidetto art. 47, il termine decorre, oltre che nel caso di mancanza di un provvedimento esplicito sulla domanda dell'assicurato, anche in quello di omissione delle indicazioni di cui al medesimo art. 47, comma 5.

Sez. L, n. 1576 (Rv. 624763), est. Arienzo, ha applicato la decadenza prevista dall'art. 47 cit. anche all'azione giudiziaria del pensionato che chieda la rivalutazione contributiva ai sensi dell'art. 7 della legge n. 155 del 1981, dell'art. 9 della legge n. 113 del 1985 e dell'art. 2 della legge n. 120 del 1991, perché l'art. 47 si riferisce genericamente alle "controversie in materia di trattamenti pensionistici", nel cui ambito sono riconducibili anche quelle relative alla posizione contributiva, e perché, inoltre, il beneficio di che trattasi è legato alla condizione di non vedente, la quale, distinta e autonoma rispetto alle condizioni della liquidazione ordinaria di pensioni e supplementi, è nota solo all'assicurato, che ha l'onere di portarla a conoscenza dell'INPS mediante apposita istanza amministrativa.

Conformandosi ala sentenza n. 6959 del 2012 (Rv. 622511), la Sezione Lavoro ha ribadito che, in caso di azioni giudiziarie volte ad ottenere la riliquidazione di una prestazione parzialmente riconosciuta, la novella dell'art. 38 lett. d) del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in l. 111 del 2011 – che prevede l'applicazione del termine decadenziale di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970 n. 639, anche alle azioni aventi ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito –, detta una disciplina innovativa con efficacia retroattiva limitata ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni, con la conseguenza che, ove la nuova disciplina non trovi applicazione, come nel caso di giudizi pendenti in appello, o in cassazione alla data predetta, vale il generale principio dell'inapplicabilità del termine decadenziale [Sez.L, n. 15375 (Rv. 626943), est. Coletti De Cesare].

Sez. L, n. 19361, in corso di massimazione, est. D'Antonio, ha ribadito che, in caso di avvenuta presentazione dei ricorsi amministrativi previsti dall'art. 11 del d.lgs. n. 375 del 1993 contro i provvedimenti di mancata iscrizione (totale o parziale) negli elenchi nominativi dei lavoratori agricoli, ovvero di cancellazione dagli elenchi medesimi, il termine di centoventi giorni per l'esercizio dell'azione giudiziaria, stabilito dall'art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, decorre dalla definizione del procedimento amministrativo contenzioso, definizione che coincide con la data di notifica all'interessato del provvedimento conclusivo espresso, se adottato nei termini previsti dall'art. 11 citato, ovvero con la scadenza di questi stessi termini nel caso del loro inutile decorso, dovendosi equiparare l'inerzia della competente autorità a un provvedimento tacito di rigetto, conosciuto ex lege dall'interessato, al verificarsi della descritta evenienza.

13.2. Decadenza e indennizzo del danno da epatite posttrasfusionale.

Sez. L, n. 17131 (Rv. 627208), est. Bandini, ha ribadito che, in tema di indennizzo in favore dei soggetti danneggiati da epatite post– trasfusionale, il termine di decadenza triennale di cui all'art. 3, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, introdotto dall'art. 1, comma 9, della legge 25 luglio 1997, n. 238, decorre, per i diritti insorti anteriormente, dall'entrata in vigore della nuova disciplina, senza che assuma rilievo, a tal fine, né la pregressa omologa indicazione contenuta nell'art. 6, comma 4, del d.l. n. 334 del 1996 non convertito – dovendosi ritenere che il decorso di un termine di decadenza non ancora maturato non rientri tra gli effetti di un decreto legge non convertito, "fatti salvi" da una legge di conversione di un distinto e successivo decreto legge, poiché la mancata conversione cancella l'onere di impedire la decadenza gravante sul titolare del diritto – né la pregressa omologa indicazione contenuta nell'art. 7, comma 4, del d.l. 23 ottobre 1996, n. 548, convertito nella legge 20 dicembre 1996, n. 641, trattandosi di disposizione abrogata, ai sensi dell'art. 15 preleggi a seguito della nuova regolamentazione dell'intera materia, prima ancora del decorso del termine stesso e, quindi, priva di ogni effetto.

13.3. Prescrizione delle azioni.

Conformandosi a Sez. Un., n. 5572 del 2012 (622264), la Sezione Lavoro ha ribadito che, in tema di prestazioni di previdenza e assistenza, la prescrizione è sospesa, oltre che durante il tempo di formazione del silenzio rifiuto sulla richiesta all'istituto assicuratore ex art. 7 della legge n. 533 del 1973, anche durante il tempo di formazione del silenzio rigetto sul ricorso amministrativo condizionante la procedibilità della domanda giudiziale ex art. 443 cod. proc. civ., essendo ancora valido il principio di settore, enucleabile dall'art. 97 del r.d.l. n. 1827 del 1935 e conforme ai principî costituzionali di equità del processo ed effettività della tutela giurisdizionale, per cui il decorso del termine di prescrizione è sospeso durante il tempo di attesa incolpevole dell'assicurato; ne consegue che la prescrizione del diritto all'indennità di maternità, soggetta al termine annuale ai sensi degli artt. 6 della legge n. 138 del 1943 e 15 della legge n. 1204 del 1971, è sospesa per i centoventi giorni di formazione del silenzio rifiuto di cui all'art. 7 della legge n. 533 del 1973 e per i centottanta giorni di formazione del silenzio rigetto previsto dall'art. 46 della legge n. 88 del 1989 [Sez. L, n. 19364 (Rv. 628397), est. D'Antonio].

Le Sezioni unite, con la sentenza n. 783 del 1999 (Rv. 531145), hanno statuito che la prescrizione triennale delle azioni per conseguire le prestazioni dell'Inail, di cui all'art. 112 d.P.R. n. 1124 del 1965, può legittimamente essere interrotta, secondo le norme del codice civile, non solo con la proposizione dell'azione in giudizio, ma anche con atti stragiudiziali, senza che l'efficacia sospensiva della prescrizione medesima (prevista dall'art. 111, secondo comma, del citato decreto) escluda l'efficacia interruttiva, che permane fino alla definizione del procedimento amministrativo di liquidazione. L'attribuzione della facoltà di agire in giudizio, in sostanza, non comporta anche l'onere di agire, in pendenza del procedimento amministrativo (magari prossimo a chiudersi favorevolmente), onde evitare la prescrizione. Al contrario, apparirebbe contraddittorio prevedere una fase amministrativa destinata a prevenire procedimenti giudiziari e allo stesso tempo forzarne la definizione entro un certo termine, impedendo all'assicurato di consentirne lo svolgimento onde tutelarsi contro la prescrizione.

In applicazione di tali principî, Sez. L, n. 15733 (Rv. 626941), est. Berrino, ha statuito che il termine di prescrizione delle azioni per conseguire le prestazioni dell'Inail di cui all'art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 è sospeso durante la pendenza del procedimento amministrativo, anche ove questo non si concluda nel termine di 150 giorni previsto dalla legge.

13.4. Accertamento giudiziale e riconoscimento amministrativo.

Nel chiarire i rapporti tra provvedimento amministrativo ricognitivo del diritto alla prestazione e accertamento nel giudizio promosso dall'interessato per ottenere dall'Inps una prestazione previdenziale collegata allo stato di invalidità, Sez. L, n. 3540 (Rv. 625091), est. Bandini, ha ribadito che il giudice deve sempre accertare l'esistenza dei requisiti necessari per l'erogazione della prestazione, anche nel caso in cui, in sede amministrativa, sia stato già emanato un provvedimento ricognitivo del diritto fatto valere dall'assicurato, in quanto, vertendosi in tema di prestazioni sottratte alla disponibilità delle parti, nemmeno l'acquisita esecutività di un provvedimento amministrativo ricognitivo del diritto dell'assicurato comporta, nella sede giurisdizionale adita, l'automatico riconoscimento di un corrispondente diritto nei confronti del medesimo. Ne deriva che l'avvenuto riconoscimento della prestazione in sede amministrativa, successivo alla proposizione dell'impugnazione da parte dell'Inps avverso una sentenza favorevole all'istante, non fa venir meno l'interesse dell'Istituto ad ottenere, in sede giurisdizionale, l'accertamento dell'insussistenza dei presupposti di legge richiesti per la concessione del beneficio.

13.5. Ricongiunzione dei periodi assicurativi.

Secondo Sez. L, n.10844 (Rv. 626176), est. Curzio, l'art. 5, ultimo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, stabilisce, quale regola di carattere generale, che gli effetti della ricongiunzione di più periodi assicurativi si producono nel momento stesso in cui sorge il diritto alla prestazione previdenziale cui la contribuzione complessiva afferisce; ne consegue che, ove sia richiesta la ricongiunzione di periodi di contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa, ai fini del diritto e della misura della pensione di vecchiaia, le maggiorazioni del trattamento derivanti dalla considerazione di detti contributi sono dovute sin dalla data di decorrenza originaria della pensione, e non dalla data della successiva domanda di ricongiunzione.

L'art. 5, secondo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, come autenticamente interpretato dall'art. 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (con previsione ritenuta costituzionalmente legittima dalle sentenze Corte cost. 23 maggio 2008, n. 172, e 28 novembre 2012, n. 264), prevede – ai fini della determinazione della retribuzione pensionabile per i periodi di lavoro svolto in Paesi esteri in caso di trasferimento, in forza di convenzioni ed accordi internazionali di sicurezza sociale, presso l'assicurazione generale obbligatoria italiana dei contributi ivi versati – una riparametrazione, diretta a rendere i contributi trasferiti proporzionali alle prestazioni.

Sez. L, n. 7832 (Rv. 626296), est. Bandini, e Sez. L, n. 15003 (Rv. 627083), est. Filabozzi, hanno reputato manifestamente infondata la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE della questione interpretativa relativa alla compatibilità con l'art. 23, comma primo, del regolamento comunitario 14 giugno 1971, n. 1408, della norma contenuta nell'art. 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, la quale interpretando autenticamente l'art. 5, secondo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, relativo alla determinazione della retribuzione pensionabile inerente i periodi di lavoro svolto nei Paesi esteri in caso di trasferimento presso l'assicurazione generale obbligatoria italiana dei contributi versati ad enti previdenziali di Paesi esteri in conseguenza di convenzioni ed accordi internazionali di sicurezza sociale (come quello intercorso, e rilevante nelle fattispecie sottoposte al vaglio della S.C., tra l'Italia e la Svizzera il 14 dicembre 1962, ratificato con la legge 18 maggio 1973, n. 283), ha previsto che la retribuzione pensionabile relativa ai periodi di lavoro svolto nei Paesi esteri è determinata moltiplicando l'importo dei contributi trasferiti per cento e dividendo il risultato per l'aliquota contributiva per invalidità, vecchiaia e superstiti in vigore nel periodo cui i contributi si riferiscono atteso che l'art. 23, comma primo, del citato regolamento comunitario concerne le prestazioni di malattia e maternità e non i trattamenti pensionistici, cosicché non si pone un problema di interpretazione della legislazione comunitaria.

Sez. L, n. 17788 (Rv. 627280), est. Balestrieri, e Sez. L, n. 17791 (Rv. 627281), est. Coletti De Cesare, hanno poi precisato che la clausola di salvezza delle posizioni dei lavoratori ai quali, al momento dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, di interpretazione autentica dell'art. 5, secondo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, sia già stato liquidato il trattamento pensionistico secondo un criterio più favorevole, non è applicabile nel caso di provvedimenti di ricalcolo adottati in conformità di pronuncia giudiziale di primo grado provvisoriamente esecutiva ma non ancora definitiva, non potendosi qualificare la spontanea esecuzione dell'Inps, successiva alla proposizione dell'appello, in termini di acquiescenza alla sentenza di primo grado, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 329 cod. proc. civ., che opera come preclusione solo rispetto ad una impugnazione non ancora proposta, laddove nel caso di specie viene in rilievo un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione.

13.6. Revisione e rettifica della rendita.

In tema di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, i due istituti della revisione per miglioramento o aggravamento e della rettifica per errore sono distinti ed hanno diversi presupposti, nonché diversa disciplina, in quanto il primo si fonda sulla variazione, in meglio od in peggio, delle condizioni sanitarie dell'assicurato, e garantisce che la rendita sia aderente, entro determinati limiti temporali, alla condizione di bisogno dell'assicurato, variabile nel tempo, mentre il secondo si fonda su un errore iniziale di valutazione e sull'esigenza che il beneficio corrisponda ai presupposti di legge, fermo restando che l'individuazione del procedimento, spettante al giudice di merito, va operata in base ai rispettivi presupposti e non in forza del mero nomen attribuito dalla parte. Ne consegue che ove l'assicurato si sia limitato a domandare l'accertamento dell'erroneità della liquidazione della rendita ex art. 104 del d.P.R. n. 1124 del 1965 (con indicazione della misura dell'indennità ritenuta corretta) senza chiedere, né in via amministrativa, né in sede giudiziale, la verifica del sopravvenuto aggravamento dei postumi dell'infortunio, non si può tenere conto del peggioramento che sia stato rilevato dal consulente tecnico d'ufficio [Sez. L, n.4069 (Rv. 625562), est. Filabozzi].

Allo stesso modo, ove l'iniziativa in tema di modificazione, totale o parziale, della rendita per inabilità conseguente a infortunio o malattia professionale, sia stata assunta la dall'INAIL, la qualificazione quale rettifica o revisione non è determinata dal nomen juris imposto dal provvedimento amministrativo, né dal risultato dell'accertamento emerso dal giudizio su di esso, ma deve essere preminentemente fondata sull'effettiva volontà che sorregge l'atto, distinguendo se sia finalizzato a correggere l'iniziale riconoscimento per emendarlo dall'errore da cui era affetto (nel qual caso si ha rettifica), ovvero ad adeguarlo all'intervenuto mutamento delle condizioni dell'attitudine lavorativa (ove si ha revisione), restando sottoposte le due fattispecie a differente disciplina relativa a criteri, metodi e strumenti del suo accertamento e a decorrenza del termine di esercizio della relativa facoltà [Sez. L, n. 21082 (Rv. 627867), est. Balestrieri].

A quest'ultimo proposito, e in particolare quanto all'istituto della revisione, il dies a quo del termine di dieci anni previsto dall'art. 83, comma ottavo, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 – entro il quale può procedersi, a domanda dell'assicurato o per disposizione dell'Istituto, alla revisione della rendita – è costituito dalla data di maturazione del diritto alla prestazione, e non già da quella del provvedimento di liquidazione o di inizio della materiale corresponsione della rendita, posto che l'atto formale ha natura meramente dichiarativa e ricognitiva [Sez. L, n. 21082 (Rv. 627868), est. Balestrieri].

Tale termine decennale non è né di prescrizione, né di decadenza, non incidendo sull'esercizio ma sull'esistenza del diritto avendo solo la funzione di delimitare l'ambito temporale di rilevanza dell'aggravamento o del miglioramento delle condizioni dell'assicurato, poiché la legge collega al trascorrere del tempo una presunzione assoluta per effetto della quale devono ritenersi definitivamente stabilizzate le condizioni fisiche. Ne consegue che l'attivazione del procedimento di revisione e l'accertamento medico legale possono aver luogo oltre il termine decennale se relative a modifiche intercorse entro il suddetto limite temporale [Sez. L, n. 19128 (Rv. 628287), est. De Renzis].

Sez. L, n. 23362, in corso di massimazione, est. Bronzini, nel ribadire che, alla stregua di un'interpretazione letterale, sistematica, storica e costituzionalmente orientata dell'art. 9, comma 3, del d.lgs. n. 38 del 2000, il mantenimento delle prestazioni indebite erogate dall'INAIL a seguito di errore non rettificabile, comporta la cristallizzazione della prestazione al momento in cui l'errore è stato rilevato, e non consente le rivalutazioni periodiche delle rendite INAIL (trattandosi di disposizione più favorevole all'assicurato rispetto alla regola civilistica, che impone la restituzione dell'indebito e alla regola precedente, in subjecta materia, dell'art. 55 della legge n. 88 del 1989 che ne escludeva la ripetizione e non garantiva, a differenza dell'art. 9, comma 3, del d.lgs. n. 38 cit., la conservazione, per il futuro, delle prestazioni indebite), ha aggiunto che in tali ipotesi non può operare neppure alcun meccanismo di riassorbimento della prestazione, attraverso il mancato adeguamento delle prestazioni non coinvolte da errori.

13.7. Causa di servizio ed equo indennizzo.

Secondo Sez. L, n. 13222 (Rv. 626665), est. Berrino, il procedimento di riconoscimento della dipendenza dell'infermità o lesione da causa di servizio è prodromico e autonomo rispetto a quello di concessione dei consequenziali benefici di legge, precedendolo logicamente e cronologicamente, sicché l'amministrazione, che abbia riconosciuto la dipendenza da causa di servizio, non può pronunciarsi di ufficio sulla concessione dell'equo indennizzo, che presuppone necessariamente l'espressa domanda dell'interessato, la quale può essere contestuale o successiva alla domanda di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, ovvero può essere prodotta nel corso del relativo procedimento, ma deve essere specifica e precisare il tipo di prestazione richiesta, non potendo essere invece ritenuta implicitamente inclusa nella generica richiesta di riconoscimento "di tutti i benefici di legge".

14. Prestazioni previdenziali ed assistenziali: aspetti sostanziali

14.1. Rendita per malattia professionale.

Sez. L, n. 10818 (Rv. 626557), est. Tria, ha chiarito che, in tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità. (Nella specie, trattandosi di provare l'origine professionale di una malattia tumorale, carcinoma uroteliale papillare, la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha confermato la decisione di merito che, sulla base delle argomentate conclusioni della consulenza tecnica di ufficio, aveva disatteso la richiesta del lavoratore fondata su un breve periodo di esposizione al rischio, ritenuto non significativo con riferimento al periodo di latenza della malattia).

Sez. L, 21360 (R. 628368), est. Pagetta, in corso di massimazione, ha ulteriormente precisato che la presunzione legale circa la eziologia professionale delle malattie contratte nell'esercizio delle lavorazioni morbigene investe soltanto il nesso tra la malattia tabellata e le relative specificate cause morbigene (anch'esse tabellate) e non può esplicare la sua efficacia nell'ipotesi di malattia ad eziologia multifattoriale, in cui il nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di concreta e specifica dimostrazione – quanto meno in via di probabilità – in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale e alla sua idoneità causale alla determinazione dell'evento morboso.

Sez.L, n. 2285 (Rv. 625197), est. Tricomi, ha chiarito che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 206 del 1988 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 135, secondo comma, del d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui poneva una presunzione assoluta di verificazione della malattia professionale nel giorno in cui veniva presentata all'istituto assicuratore la denuncia con il certificato medico), nel regime normativo attuale la manifestazione della malattia professionale, rilevante quale dies a quo per la decorrenza del termine triennale di prescrizione di cui all'art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, può ritenersi verificata quando la consapevolezza circa l'esistenza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell'assicurato, che costituiscano fatto noto, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., come la domanda amministrativa, nonché la diagnosi medica contemporanea, dai quali la malattia sia riconoscibile per l'assicurato.

14.2. Prestazioni in caso di infortunio.

La disciplina relativa alla fornitura delle protesi e degli apparecchi atti a ridurre il grado di inabilità degli invalidi è diversa a seconda che riguardi gli invalidi per lavoro (assicurati presso l'I.N.A.I.L.) ovvero la generalità degli assicurati, ai quali provvede il Sistema Sanitario Nazionale, secondo la disciplina dettata ancora dal d.m. 27 agosto 1999, n. 332, contenente il cd. "nomenclatore tariffario delle protesi e degli ausili", in quanto solo nel sistema I.N.A.I.L., la cui disciplina viene periodicamente aggiornata e modificata in senso favorevole al lavoratore infortunato, possono essere fornite protesi anche se non comprese nel suddetto nomenclatore tariffario, quali ad esempio quelle necessarie in caso di lesioni dentarie e maxillo-dentarie, che possono essere confezionate anche in metalli nobili, qualora sia necessario per assicurare una maggiore efficienza e durata [Sez. L, n. 17895 (Rv. 627288), est. Tria].

Nella medesima pronuncia la Sezione Lavoro ha espresso anche il principio (Rv. 627287) secondo cui le prestazioni consistenti nella "fornitura di protesi" sono distinte – come si desume dall'art. 66 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 – da quelle relative alle "cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici". L'erogazione di queste ultime, infatti, deve avvenire, eventualmente anche dopo la guarigione clinica ove siano necessarie per il recupero della capacità lavorativa, con il possibile coinvolgimento del Servizio Sanitario Nazionale, mentre le prime – ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.m. 27 agosto 1999, n. 332, contenente il cd. "nomenclatore tariffario delle protesi e degli ausili" – sono fornite dall'I.N.A.I.L. con spesa a proprio carico e secondo le indicazioni e le modalità stabilite dall'Istituto medesimo.

Con la citata sentenza, infine, la Sezione Lavoro ha fissato un principio importante (Rv. 627286) in relazione ai dipendenti pubblici, affermando che, nel regime antecedente al d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214 – il cui art. 6 ha abrogato gli istituti dell'accertamento della dipendenza dell'infermità da causa di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell'equo indennizzo e della pensione privilegiata, così attribuendo all'I.N.A.I.L. la gestione dell'intera materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali sul lavoro dei dipendenti pubblici, fatta eccezione per i comparti sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico – il sistema assicurativo previsto in favore dei dipendenti pubblici, comunque gestito, era basato sul principio secondo cui la retribuzione automaticamente erogata dall'amministrazione di appartenenza al dipendente infortunatosi per causa di servizio escludeva la corresponsione dell'indennità per inabilità temporanea assoluta da parte dell'I.N.A.I.L.

14.3. Infortunio in itinere.

Secondo Sez. L, n. 6725 (Rv. 626069), est. Tricomi, il "rischio elettivo", configurato come l'unico limite alla copertura assicurativa di qualsiasi infortunio, in quanto ne esclude l'essenziale requisito della "occasione di lavoro", assume, con riferimento all'infortunio in itinere, una nozione più ampia rispetto all'infortunio che si verifichi nel corso dell'attività lavorativa vera e propria, in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sé non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva ritenuto che la scelta del lavoratore di utilizzare, in luogo dei mezzi pubblici, il proprio motoveicolo per coprire la distanza di due km tra la propria abitazione ed il posto di lavoro integrasse comportamento configurabile come "rischio elettivo").

14.4. Congedo per maternità.

Un importante principio è stato espresso da Sez. L, n. 10180 (Rv. 626489), est. Curzio, in tema di congedo cd. flessibile per maternità, affermandosi che, nel caso in cui la lavoratrice abbia continuato a prestare servizio nell'ottavo mese di gravidanza, il datore di lavoro – oltre a subire le sanzioni previste dall'art. 18 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, ove non sia stata preventivamente presentata al datore la certificazione medica di assenza di rischio, prevista dall'art. 20 del medesimo decreto – deve corrispondere in ogni caso alla lavoratrice la relativa retribuzione e l'Inps non è tenuto a corrispondere l'indennità di maternità per tale mese, fermo restando che la detta indennità è dovuta per il periodo di astensione di cinque mesi, e, dunque, fino al quarto mese successivo al parto, essendo escluso che dalla mancata presentazione da parte della lavoratrice delle certificazioni suddette possa derivare, quale sanzione, la riduzione del periodo di fruizione dell'indennità di maternità rispetto a quello, non disponibile, previsto dalla legge.

Secondo Sez. L, n. 19423 (Rv. 628256), est. Manna, in materia di contributi figurativi, il diritto al loro accredito per il periodo di maternità, in forza del disposto dell'art. 25, comma 2, del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 – come interpretato autenticamente dall'art. 2,comma504,dellal.24dicembre2007,n. 244 – è consentito in favore della lavoratrice in maternità, nell'intervallo tra un rapporto di lavoro subordinato ed un altro, purché al momento dell'entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 151 del 2001 – ossia al 27 aprile2001 – in capo alla lavoratrice sussistessero le seguenti concomitanti condizioni: non fosse titolare di un trattamento pensionistico; risultasse iscritta ad un'assicurazione di lavoro dipendente ordinaria o sostitutiva od esclusiva; avesse versato i contributi per almeno cinque anni in costanza di rapporto di lavoro; la maternità è pertanto coperta da contribuzione figurativa anche se nel relativo periodo la lavoratrice fosse disoccupata o svolgesse attività lavorativa autonoma ed a prescindere dalla collocazione temporale del quinquennio di versamenti; viceversa il diritto all'accredito dei contributi figurativi non spetta in favore di lavoratrice dipendente che dopo la maternità abbia ripreso a lavorare in condizione di autonomia senza più tornare a svolgere attività di lavoro dipendente, né prima né dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001.

14.5. Congedi parentali.

Confomandosi alla sentenza n. 17234 del 2010 (Rv. 614653), la Sezione Lavoro ha ribadito che, in tema di congedi parentali, le disposizioni di cui all'art. 11 del c.c.n.l. 15 marzo 2001 del personale del comparto scuola, a differenza delle pregresse norme del contratto collettivo 4 agosto 1995, che limitavano la fruizione di tali congedi alle lavoratrici a tempo indeterminato, hanno portata generale e si applicano anche ai dipendenti a tempo determinato, in quanto fatte salve, quali condizioni di maggior favore, dall'art. 2 del d.lgs. n. 151 del 2001 (T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità) [Sez. L, n. 5829 (Rv. 625549), est. Filabozzi].

14.6. Lavoratori socialmente utili.

In tema di lavori socialmente utili, il d.l. 8 aprile 1998, n. 78, conv. con modifiche nella legge 5 giugno 1998, n. 176, innovando l'art. 12 del d.lgs. 1° dicembre 1997, n. 468, va interpretato nel senso che esso ha introdotto una nuova e diversa ipotesi di concessione del contributo a fondo perduto in favore del lavoratore socialmente utile, prevedendola, oltre che nel caso di versamento di contributi volontari, anche nel caso di "erogazione anticipata del trattamento relativo all'anzianità maturata", ciò che risponde all'esigenza di compensare il lavoratore per la percezione di una pensione che, essendo anticipata, è correlata ad una minore contribuzione [Sez. L, n. 14635 (Rv. 627135), est. Bronzini].

14.7. Indennità di accompagnamento.

Conformandosi alla sentenza n. 1585 del 2010 (Rv. 611974), la Sezione Lavoro ha ribadito che, ai fini del diritto all'indennità di accompagnamento, l'inabile non deambulante o non autosufficiente non è tenuto a provare di non essere ricoverato gratuitamente in istituto o di non beneficiare di prestazioni incompatibili, rilevando esclusivamente il requisito sanitario previsto dall'art. 1 della legge n. 18 del 1980 e non anche la condizione del non ricovero dell'inabile in istituto, la quale si pone come elemento esterno alla fattispecie e non costituisce ostacolo al riconoscimento del diritto all'indennità bensì all'erogazione della stessa per il tempo in cui l'inabile sia ricoverato a carico dell'erario e non abbisogni dell'accompagnatore [Sez. L, n. 5548 (Rv. 625554), est. Bronzini].

In linea generale, per l'accertamento della sussistenza dei requisiti condizionanti l'attribuzione del diritto all'indennità di accompagnamento, è necessario che l'interessato, al fine di un adeguato soddisfacimento dell'onere probatorio a suo carico, non soltanto produca una documentazione rilevante, ma offra la sua piena collaborazione con gli specialisti medico-legali ai fini di una diagnosi completa. Secondo Sez. L, n. 19577 (Rv. 628267), est. Blasutto, nelle controversie previdenziali, tale onere di collaborazione, consistente nella sottoposizione alla visita medica, permane anche in sede di impugnazione, anche nell'ipotesi che sia l'Inps ad impugnare una decisione basata su una consulenza tecnica d'ufficio svolta in primo grado e favorevole all'interessato, con la conseguenza che la mancata, ingiustificata presentazione dell'interessato alla visita può comportare il rigetto della domanda per difetto di prova.

14.8. Indennità per danni da emotrasfusione.

In tema di danni da trasfusione e somministrazione di emoderivati, l'indennità integrativa speciale ex art. 2, comma 2, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, è soggetta – con efficacia retroattiva, fatti salvi i rapporti esauriti, non più suscettibili di soluzione a livello giudiziario o non più azionabili – a rivalutazione annuale a seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2011, che ha dichiarato illegittima l'esclusione della rivalutazione per violazione del principio di uguaglianza, rispetto alla disciplina, introdotta con l'art. 2, comma 363, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, dei danni da somministrazione di talidomide [Sez. L, Sentenza n. 22256 (Rv. 627706), est. Tria].

14.9. Elargizione in favore delle vittime di attentati terroristici.

Conformandosi a Sez. L, n. 17238 del 2010 (Rv. 614991), la Sezione Lavoro ha avuto occasione di ribadire, in tema di speciali elargizioni per le vittime del terrorismo e loro familiari, che il meccanismo di rivalutazione di cui all'art. 8, comma 2, della legge n. 302 del 1990, non si applica alle riliquidazioni, operate con le leggi n. 407 del 1998 e n. 206 del 2004, relative ad eventi terroristici intervenuti anteriormente all'entrata in vigore della norma, dovendosi ritenere, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, che la ridefinizione normativa del capitale elargibile anche per gli eventi pregressi abbia abrogato, per incompatibilità, il meccanismo di rivalutazione automatica. Ne consegue che, in sede di corresponsione dell'importo come riliquidato per effetto delle leggi successive a quella originaria n. 302 del 1990, debbono essere detratti gli importi già corrisposti, ivi compresi quelli derivanti dalla rivalutazione della somma originariamente spettante [Sez. L, n. 9603 (Rv. 626540), est. Nobile].

Con la medesima sentenza è stato espresso anche il principio (Rv. 626538) secondo cui la previsione di cui all'art. 2, comma 106, lettera a), della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (che ha modificato l'art. 4, comma 2, della legge 3 agosto 2004, n. 206) è priva di efficacia retroattiva, come attesta – unitamente al tenore letterale della norma – la mancanza nel testo legislativo de quo di una disposizione che deroghi al principio generale della irretroattività della legge sancito dall'art. 11 delle Preleggi. Ne consegue, pertanto, che la equiparazione della pensione spettante alle vedove e agli orfani delle vittime di atti terroristici all'ultima retribuzione percepita integralmente dal loro congiunto è stata introdotta solo con effetto dal 1° gennaio 2008, costituendo in precedenza tale retribuzione (con l'incremento del 7,5% fin dal 1° settembre 2004) soltanto la base di calcolo della pensione, rapportata alla anzianità contributiva (con l'aumento figurativo di dieci anni di versamenti contributivi utili, a decorrere dal 1° gennaio 2007).

14.10. Pensioni di invalidità: condizioni per la concessione e requisiti reddituali.

Sez. L, n. 22737 (Rv. 628008), est. D'Antonio, ha ritenuto che, in materia di invalidità pensionabile, la legge 12 giugno 1984, n. 222, ha adottato, come criterio di riferimento ai fini del conseguimento del diritto all'assegno ordinario di invalidità, non la riduzione della generica capacità lavorativa, secondo quanto previsto dalla legge 30 marzo 1971, n. 118, per i mutilati ed invalidi civili, bensì la riduzione della capacità lavorativa in occupazioni confacenti alle attitudini dell'assicurato; ne consegue l'inidoneità del parametro relativo all'invalidità civile per valutare l'invalidità pensionabile anche se come mera guida di massima, a meno che nell'ambito di questa diversa valutazione non si dia espressa ragione dell'adeguamento del parametro all'oggetto specifico della diversa invalidità da valutare.

Quanto al requisito della in collocazione al lavoro, Sez. L, n. 19833, in corso di massimazione, est. Curzio, ha chiarito che, nello specifico contesto normativo che caratterizza il periodo di tempo tra l'entrata in vigore della legge 12 marzo 1999, n. 68, e l'entrata in vigore della legge 24 dicembre 2007, n. 247, esso può dirsi sussistente qualora l'interessato, che ne ha l'onere, provi di non aver svolto attività lavorativa e di aver richiesto l'accertamento di una riduzione dell'attività lavorativa, in misura tale da consentirgli l'iscrizione negli elenchi di cui all'art. 8 della n. 68 del 1999, da parte delle commissioni mediche competenti a tal fine. Nel caso in cui tale accertamento sia precedente rispetto alla data di decorrenza del requisito sanitario per l'invalidità (riduzione della capacità lavorativa del 74% o superiore), sarà ecessaria la prova di aver ottenuto o quanto meno richiesto l'iscrizione negli elenchi di cui all'art. 8 della legge n. 68 del 1999.

Conformandosi a Sez. L, n. 17624 del 2010 (Rv. 614995), la Sezione Lavoro ha ribadito che, in tema di prestazioni assistenziali, i requisiti reddituali che condizionano il riconoscimento del beneficio (nella specie, la pensione di invalidità) debbono coesistere con l'erogazione del trattamento. Ne consegue che il relativo accertamento giudiziale va operato con riferimento all'anno da cui decorre la prestazione e non – come invece previsto ai fini dell'accertamento amministrativo, nel cui ambito è applicato, per ragioni pratiche, un criterio probabilistico di permanenza dei requisiti stessi – con riferimento all'anno precedente, trovando conferma tale regola nel disposto di cui all'art. 35, commi 8 e 9, del d.l. n. 297 del 2008, convertito nella legge n. 14 del 2009, secondo il quale ai fini della liquidazione o ricostituzione delle prestazioni previdenziali ed assistenziali «il reddito di riferimento è quello conseguito nell'anno solare precedente il 1 luglio di ciascun anno ed ha valore per la corresponsione del relativo trattamento fino al 30 giugno dell'anno successivo», e, in sede di prima liquidazione di una prestazione, «è quello dell'anno solare in corso, dichiarato in via presuntiva» [Sez. L, n. 21925 (Rv. 627656), est. Arienzo].

Quanto alle pensioni di invalidità in favore dei ciechi, finora appariva maggioritario l'orientamento secondo cui la particolare disciplina prevista dall'art. 68 della legge 30 aprile 1969 n. 153 – che, derogando alla generale normativa posta dall'art. 10 r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 (secondo cui la pensione d'invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato non è più inferiore ai minimi di legge), persegue la finalità di favorire il reinserimento sociale dell'invalido, non distogliendolo dall'apprendimento e dall'esercizio di un'attività lavorativa – va letta in senso costituzionalmente orientato (artt. 2, 3, 4 e 38 Cost.), sicché la stessa esclude che anche la pensione di invalidità già riconosciuta all'assicurato in ragione della sua cecità possa essergli revocata qualora siano mutati i suoi redditi per effetto del conseguimento di una nuova occupazione. Sez. L, n. 24192, in corso di massimazione, est. Marotta, ha ritenuto invece che non sia possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale previsto dalla legge n. 66 del 1962 (che ha istituito la pensione, non reversibile, per i ciechi assoluti) il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale. Secondo tale ultima pronuncia, la disposizione di cui all'art. 68 della legge n. 153 del 30 aprile 1969 (come, del resto, quella di cui all'art. 10, comma 2, del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636) è dettata per la pensione di invalidità erogata dall'Inps ed a carico dell'assicurazione generale obbligatoria, presupponente un rapporto contributivo, sicché tali disposizioni, ponendosi come norme eccezionali, non espressamente dettate per le prestazioni assistenziali di invalidità civile, non possono essere applicate anche a queste ultime.

14.11. Assegno sociale: requisiti reddituali.

Conformandosi a Sez. L, n. 14456 del 2012 (Rv. 625025), la Sezione Lavoro ha precisato che, in tema di assegno sociale, attribuito a seguito della conversione dell'assegno di invalidità civile, già erogato ai sensi dell'art. 13 della legge n. 118 del 1971, per il raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, ai fini della determinazione del requisito reddituale non si tiene conto del reddito della casa di abitazione, in quanto, da un lato, l'art. 3 della legge n. 114 del 1974, nonché il successivo art. 14 septies del d.l. n. 663 del 1979, convertito nella legge n. 33 del 1980, ne escludevano il computo per la concessione dell'assegno di invalidità civile, mentre, dall'altro, l'art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 per la determinazione dei redditi utili per il riconoscimento dell'assegno sociale non include, a propria volta, tale voce. Né assume rilievo, in senso contrario, la previsione di cui all'art. 2 del d.m. n. 553 del 1992, che comprende tra gli oneri deducibili anche la casa di abitazione, trattandosi di disposizione dettata in funzione della denuncia dei redditi a fini assistenziali e non relativa ai criteri per la determinazione effettiva del reddito da considerare per l'attribuzione del diritto [Sez. 6-L, ord., n. 20387 (Rv. 627705), rel. La Terza]

14.12. Pensioni di anzianità per gli operai.

In tema di requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità, l'art. 59, comma settimo, lett. a), della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nell'indicare, tra i destinatari della disposizione, non soltanto "i lavoratori dipendenti pubblici e privati qualificati dai contratti collettivi come operai", ma anche "i lavoratori ad essi equivalenti, come individuati ai sensi del comma 10", si riferisce anche ai lavoratori che, seppure non specificamente qualificati come operai dai contratti collettivi, esplicano attività riconducibili a quelle proprie degli operai, che sono caratterizzate da lavoro manuale o, comunque, che si mantengano nella sfera della semplice esecuzione, senza involgere alcuna discrezionalità, non essendo d'ostacolo all'operatività della disposizione suddetta la mancata emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, cui la norma aveva demandato la concreta individuazione dei lavoratori da considerare equivalenti agli operai [Sez. L, n. 10982 (Rv. 626572), est. Arienzo; nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza con la quale i giudici di merito avevano riconosciuto ad un lavoratore domestico, ai sensi della norma citata, il diritto di usufruire della cd. finestra al marzo 2005].

14.13. Pensioni di vecchiaia.

Secondo Sez. L, n. 25205 (in corso di massimazione), est. Blasutto, Al fine di stabilire il requisito contributivo necessario e sufficiente per accedere alla pensione di vecchiaia, la deroga all'innalzamento del requisito contributivo stabilita dall'art. 2, comma 3, lett. c) del d.lgs. n. 503 del 1992 trova applicazione unicamente nel confronti di chi possa ottenere il trattamento a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, in forza del requisito contributivo ridotto stabilito dalla citata disposizione, mentre non ricade nell'alveo applicativo della indicata deroga anche l'assicurato, iscritto alla gestione lavoratori autonomi, il quale vanti contribuzione versata sia presso una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi sia presso il Fondo lavoratori dipendenti e chieda l'erogazione della pensione a carico della gestione lavoratori autonomi, in forza del cumulo gratuito dei contributi accreditati anche nella gestione lavoratori dipendenti.

14.14. Pensioni di reversibilità.

In linea generale, il termine "pensione di reversibilità" adottato dall'art. 5, comma 4, della legge 3 agosto 2004, n. 206, deve essere inteso in senso lato (e non rigorosamente tecnico), come tale comprensivo anche della pensione indiretta, spettante ai familiari superstiti di lavoratori in attività, in ragione della finalità perseguita dalla legge di apprestare un sistema di provvidenze non meramente simbolico, a favore delle vittime del terrorismo e dei loro familiari, in eguaglianza di posizioni tra gli appartenenti alla medesima categoria. Ne consegue, pertanto, che il beneficio delle due annualità comprensive della tredicesima mensilità, previsto da tale norma, spetta anche ai superstiti aventi diritto alla pensione indiretta [Sez. L, n. 9603 (Rv. 626539), est. Nobile].

Secondo Sez. L, n. 3678 (Rv. 625090), est. Bandini, in caso di morte del pensionato, il figlio superstite ha diritto alla pensione di reversibilità, ove maggiorenne, se riconosciuto inabile al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi, laddove il requisito della "vivenza a carico", se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, va considerato con particolare rigore ed in tale valutazione occorre prendere in considerazione tutti gli elementi di giudizio acquisiti al processo in base ai quali poter ricostruire la sussistenza o meno di una rilevante dipendenza economica del figlio inabile dal defunto genitore.

Per Sez.6-L, ord., n. 18744 (Rv. 628085), rel. La Terza, ove la pensione (nella specie di reversibilità) sia stata conseguita con la totalizzazione dei periodi lavorativi prestati presso diversi Stati membri della Comunità Europea, le quote aggiuntive previste dall'art. 10, terzo comma, della legge 3 giugno 1975, n. 160, spettano solo se il pro rata italiano sia superiore al trattamento minimo, senza che rilevi il diverso regime previsto per la perequazione automatica di cui al primo comma della medesima norma, il cui riconoscimento alle pensioni inferiori al trattamento minimo è stato esteso dal successivo art. 14 del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, convertito nella legge 29 febbraio 1980 n. 33.

14.15. Cumulo tra pensione e reddito da lavoro.

Sez. 6-L, ord., n. 4480 (Rv. 625564), rel. La Terza, ha ribadito che, in materia di cumulo tra pensione di anzianità (o di vecchiaia) e reddito da lavoro dipendente, costituisce presupposto indefettibile per beneficiare del suddetto regime, ove consentito, che la prestazione pensionistica possa essere erogata e, dunque, che il rapporto di lavoro da cui deriva sia cessato.

L'art. 1, comma 185, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, tuttavia, ha previsto il diritto dei lavoratori, in possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità, di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale ottenendo, al contempo, in deroga al regime di non cumulabilità di cui al successivo comma 189, la liquidazione del trattamento di pensione, seppure con decurtazione del relativo importo in misura inversamente proporzionale alla diminuzione dell'orario normale di lavoro.

Ciò posto, conformandosi alla sentenza n. 25800 del 2011 (Rv. 619939), la Sezione Lavoro ha statuito che l'art. 1, comma 185, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 è norma eccezionale poiché consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente, per quanto a tempo non più pieno ma parziale, e il contemporaneo conseguimento, entro specificati limiti, del trattamento pensionistico di anzianità in costanza del rapporto, con lo stesso datore di lavoro, derogando ai principî generali per cui il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell'attività di lavoro dipendente. Ne deriva che la suddetta disciplina non è derogabile dalla successiva normativa generale di cui all'art. 44 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, abolitrice del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro subordinato, senza che possa trovare spazio alcuna censura costituzionale per irragionevole permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico [Sez. 6-L, ord., n. 4835 (Rv. 625318), est. La Terza].

Sez. L, n. 10174 (Rv. 626442), est. Mancino, a questo proposito, ha ricordato che la disciplina di emersione prevista dall'art. 44, terzo comma, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, non si applica agli illeciti già accertati e contestati dall'Inps, prima dell'entrata in vigore della predetta disposizione, sia perché il legislatore del 2002 non ha introdotto una generale sanatoria di tutti i comportamenti elusivi, sia perché mancherebbe, in radice, la spontanea iniziativa del pensionato che ha posto l'ente previdenziale al corrente della propria situazione di inadempimento e richiede, pertanto, di giovarsi delle norme agevolative.

14.16. La responsabilità dell'Ente previdenziale per inesatte informazioni.

Sez. L, n. 21454 (Rv. 628374), est. Blasutto, ha affrontato il problema della responsabilità dell'Ente previdenziale che abbia fornito inesatte informazioni all'assicurato, in ordine alla propria posizione contributiva, convincendolo erroneamente di aver maturato il diritto alla pensione di anzianità e inducendolo, così, a dare le dimissioni.

Secondo tale pronuncia, nell'ipotesi in cui l'Inps abbia fornito all'assicurato, mediante il rilascio di estratti-conto assicurativi, contenenti risultanze di archivio sebbene privi di sottoscrizione, una erronea indicazione (in eccesso) del numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti a fruire di pensione di anzianità, il danno sofferto dall'interessato per la successiva interruzione del rapporto di lavoro per dimissioni e del versamento dei contributi, è riconducibile non già a responsabilità extracontrattuale, ma contrattuale, in quanto fondata sull'inadempimento dell'obbligo legale gravante su enti pubblici dotati di poteri di indagine e certificazione, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (applicabili alla stregua dei principî di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.), di non frustrare la fiducia di soggetti titolari di interessi al conseguimento di beni essenziali della vita (quali quelli garantiti dall'art. 38 Cost.), fornendo informazioni errate o anche dichiaratamente approssimative, pur se contenute in documenti privi di valore certificativo.

In tal modo il Collegio si è consapevolmente discostato dal precedente costituito da Sez. L, n. 7683 del 2010 (Rv. 613456), secondo cui, in casi del genere, va esclusa la responsabilità dell'INPS per il danno sofferto dall'interessato, ove la situazione contributiva sia stata comunicata dall'ente, con la specificazione della provvisorietà dei dati forniti e dell'eventuale presenza di errori, al fine di verificare, con la collaborazione dell'assicurato, la sua posizione contributiva.

Nella medesima sentenza n. 21454 (Rv. 628373), si è anche precisato il principio, in corso di massimazione, secondo cui, benché sia da escludersi in via generale che l'ordinamento imponga all'assicurato l'obbligo di verificare l'esattezza dei dati forniti dall'INPS, può trovare applicazione il principio di cui all'art. 1227, comma secondo, cod. civ., che impone l'onere di doverosa cooperazione della parte creditrice per evitare l'aggravamento del danno indotto dal comportamento inadempiente del debitore, sicché l'assicurato, che subisce un danno ingiusto – nella specie per anticipate dimissioni, nell'erronea convinzione di avere maturato il diritto alla pensione di anzianità –per effetto di dichiarazioni non veritiere rese dalla pubblica amministrazione, deve essere risarcito in misura diminuita, qualora abbia trascurato le espressioni cautelative usate dalla medesima e idonee a far dubitare dell'esattezza dei dati esposti.

15. Previdenza di categoria.

Le leggi di previdenza di categoria, come la legge del 13 luglio 1965, n. 859, istitutiva del Fondo di previdenza per il personale di volo presso l'INPS (modificata dalla legge 31 ottobre 1988, n. 480, e quindi integrata dal d.lgs. 24 aprile 1997, n. 164), alle quali corrisponde in generale un più vantaggioso sistema di tutela e di prestazioni, costituendo deroga alle leggi sulla previdenza generale, e comportando regole contributive conseguenziali, non sono suscettibili di interpretazione analogica; pertanto, non è sufficiente l'esposizione al medesimo rischio per attrarre altri soggetti non contemplati, e sottoposti ad apposita disciplina previdenziale, nello stesso fondo categoriale [Sez. 6-5, ord., n. 15498 (Rv. 627189), rel. Di Blasi].

Con particolare riferimento al Fondo di previdenza per il personale di volo presso l'Inps, la Sezione Lavoro della S.C., con l'ordinanza n. 14072 del 2010, aveva rimesso al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni unite, la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, relativa ai coefficienti applicabili per il calcolo della quota in capitale della pensione degli ex dipendenti di azienda di navigazione aerea, iscritti al Fondo di previdenza relativo.

Con successiva ordinanza interlocutoria n. 27281 del 2011, le Sezioni unite hanno rilevato che preliminare rispetto alla questione ad esse rimessa era altra questione (quella della decadenza ex art. 47, d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, in ordine alla quale, nelle more, era sopravvenuto il d.l. 6 luglio 2011, n. 98, art. 38, comma 1, lett. d) e comma 4, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111), ed hanno quindi deciso di restituire gli atti alla Sezione Lavoro per la valutazione della questione preliminare.

Con nuova ordinanza interlocutoria n. 1847 del 2013, rel. Amoroso, la Sezione Lavoro, nel richiamare comunque la propria giurisprudenza che ha affermato l'irretroattività della nuova disciplina ai giudizi già pendenti in cassazione, non essendo mutato il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha nuovamente rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione della stessa alle Sezioni unite, la questione dell'individuazione dei coefficienti applicabili al ricalcolo della quota in capitale della pensione.

In particolare ha chiesto al Supremo Collegio di chiarire:

– se, in relazione alle domande, presentate anteriormente al 1° luglio 1997, di liquidazione in somma capitale di una quota della pensione, da parte degli iscritti al Fondo speciale di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, l'art. 2, comma 503, della legge n. 244 del 2007, finanziaria del 2008) – secondo il quale, ai fini della determinazione del valore capitale della quota di pensione spettante agli iscritti al Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, antecedentemente all'entrata in vigore dell'art. 11, comma 2, della legge n. 480, del 1988, devono intendersi applicabili i coefficienti di capitalizzazione determinati sulla base dei criteri attuariali specifici per il predetto Fondo, deliberati dal consiglio di amministrazione dell'INPS su conforme parere del comitato amministratore del Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea – possa trovare applicazione quale norma interpretativa retroattiva ovvero sia allo stato inapplicabile, in quanto norma non operativa fino a che non abbia avuto attuazione e sia intervenuta la determinazione del consiglio di amministrazione dell'INPS relativamente ai coefficienti di capitalizzazione da utilizzare, secondo il meccanismo previsto dalla richiamata norma;

– nel caso di inapplicabilità della norma dell'art. 2, co. 503, su richiamata, quali siano i coefficienti applicabili, ed in particolare se siano quelli di cui al r.d. 1403 del 1922, ovvero quelli di cui ai d.m. 27 gennaio 1964 e 19 febbraio 1981.

Con riferimento al Fondo di previdenza per gli impiegati delle esattorie e ricevitorie, Sez. L, n. 19824 (in corso di massimazione), est. Venuti, ha statuito che il diritto al pagamento una tantum della somma pari al 75 per cento della contribuzione integrativa, riconosciuto agli iscritti al Fondo dall'art. 32 della legge 2 aprile 1958, n. 377, ha natura previdenziale, non trattandosi di un vero e proprio rimborso di contributi inutilizzabili, bensì dell'erogazione "una volta tanto" di una indennità sostitutiva e anticipatoria del trattamento pensionistico, commisurata ad una parte soltanto dei contributi versati, sicché sulla una tantum è dovuto unicamente il maggior importo tra interessi legali e rivalutazione monetaria.

Orientamenti contrastanti si registrano nella giurisprudenza di legittimità sul tema dell'esistenza o meno del potere della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti di annullare periodi contributivi durante i quali la professione sia stata svolta in situazione di incompatibilità, sebbene tale incompatibilità non sia stata accertata e sanzionata dal Consiglio dell'Ordine competente.

Un primo indirizzo giurisprudenziale nega alla Cassa tale potere quando la situazione di incompatibilità non sia stata già sanzionata dal competente Consiglio dell'Ordine con un provvedimento di cancellazione dall'albo del professionista (Sez. L, n. 13853 del 2009, Rv. 608825), mentre altro orientamento glielo riconosce a prescindere da un previo provvedimento in tal senso (Sez. L, n. 5344 del 2003, Rv. 561910), dovendo l'ente accertare il requisito dell'esercizio della professione periodicamente e comunque prima dell'erogazione dei trattamenti previdenziali od assistenziali.

Sez. L, 25526 (in corso di massimazione), est. Manna, ha aderito a tale ultimo orientamento, secondo cui prima dell'erogazione dei trattamenti la Cassa è tenuta ex lege a verificare l'esistenza del requisito del legittimo esercizio della professione, che si manifesta, tra l'altro, nell'assenza di situazioni d'incompatibilità.

16. Personale ferroviario.

Anche nel 2013 la S.C. ha avuto modo di occuparsi di diversi aspetti concernenti la disciplina del rapporto di lavoro del personale ferroviario, anche con riferimento ai profili previdenziali.

16.1. Fondo pensioni.

Sez. L, n. 6966 (Rv. 625703), est. Venuti, ha chiarito che l'art. 43 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 ha previsto la soppressione del Fondo pensioni del personale delle Ferrovie dello Stato (istituito con la legge 9 luglio 1908, n. 418) e la contestuale istituzione, con effetto dal 10 aprile 2000, di un apposito Fondo speciale presso l'Inps (al quale è iscritto obbligatoriamente, con effetto dalla stessa data, tutto il personale dipendente dalla Ferrovie dello Stato s.p.a.), che è subentrato nella gestione di tutti i rapporti pensionistici in essere o da liquidare nei confronti degli ex dipendenti delle Ferrovie dello Stato, diventando l'unico legittimato passivo nei relativi giudizi.

Sez. L, n. 1210 (Rv. 624891), est. La Terza, ha riconosciuto la legittimazione dell'Inps a ripetere i ratei indebitamente erogati, a prescindere dalla qualificazione dell'Istituto quale successore universale e dalla contabilizzazione ed iscrizione a bilancio al 31 dicembre 1999 delle relative posizioni debitorie, attesa l'inapplicabilità dell'art. 43, comma 2, lett. c), della legge n. 488 del 1999, che regola tale condizione, trattandosi di disposizione riferita alle poste di bilancio diverse dalle pensioni.

16.2. Benefici combattentistici.

Sez. L, n. 6977 (Rv. 625697), est. De Renzis, nell'affrontare il problema del riconoscimento dei benefici combattentistici previsti dall'art. 2, comma 2, della legge 24 maggio 1970, n. 336, ai dipendenti delle ex Ferrovie dello Stato, ha affermato che, per il periodo fino al 31 dicembre 1995 (ossia fino a quando risultavano applicabili le norme sull'indennità di buonuscita e non quelle sul t.f.r.), essi vanno riconosciuti in relazione al valore ipotetico dell'indennità di buonuscita alla stregua del criteri di cui alla legge 14 dicembre 1973, n. 829, e l'ammontare di tale trattamento si cumula con gli accantonamenti, calcolati per gli anni successivi, ai sensi dell'art. 2120 cod. civ., senza includere, però, i benefici per gli ex combattenti, in ragione della natura privatistica del rapporto.

16.3. Equo indennizzo.

Poiché l'equo indennizzo ha la funzione di ristorare il dipendente delle menomazioni subite per infermità a causa di servizio, la procedura amministrativa per la sua concessione deve da lui essere attivata, quantomeno nella fase iniziale della richiesta di accertamento della causa di servizio, nel rispetto del termine di decadenza fissato dall'art. 4 del d.m. Trasporti 2 luglio 1983 n. 1622, affinché, nel caso di suo decesso, le fasi successive possano essere promosse dai sui aventi causa.

Sulla scorta di questa premessa, Sez. L, n. 14317 (Rv. 627036), est. Venuti, con riferimento al rapporto di lavoro dei ferrovieri, ha affermato che l'equo indennizzo è riconoscibile solo a favore dei dipendenti e non anche a favore dei loro familiari, cui l'indennizzo compete per diritto successorio e non iure proprio, dichiarando inammissibile il ricorso, sul presupposto che la domanda di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio era stata presentata non già dal dipendente defunto, ma dalla vedova successivamente al decesso del coniuge.

17. Agenti di commercio.

Secondo Sez. L, n. 1152 (Rv. 624667), est. La Terza, in materia di trattamento pensionistico degli agenti e rappresentanti di commercio, il supplemento di pensione derivante dall'espletamento dell'attività nel quinquennio successivo al pensionamento deve essere calcolato sulla base della contribuzione versata per tale periodo ulteriore, non sulla base dell'anzianità complessiva, atteso che quest'ultima è già stata utilizzata per il conseguimento del diritto a pensione, così dovendosi interpretare il riferimento alla "anzianità contributiva" di cui all'art. 20 del regolamento ENASARCO del 5 agosto 1998.

Sez. L, n. 1327 (Rv. 624887), est. La Terza, ha poi chiarito che l'art. 1, comma 3 del d.m. 24 settembre 1998, che ha allungato da due a cinque anni dalla data di conseguimento del diritto alla pensione il termine per ottenere, per gli agenti di commercio in pensione che siano titolari di una nuova posizione assicurativa in forza dell'espletamento di ulteriori rapporti di agenzia, un supplemento di pensione ai sensi dell'art. 10 della legge n. 12 del 1973, si applica anche rispetto a coloro che, al momento di entrata in vigore del nuovo regime, non avevano ancora maturato il diritto al supplemento per decorrenza del biennio, dovendosi escludere l'ultrattività della precedente disciplina e la cristallizzazione della pensione in godimento, attesa la facoltà per gli enti previdenziali privatizzati di adottare, ai sensi dell'art. 3, comma 12, legge n. 335 del 1995, le modifiche della disciplina regolamentare al fine di assicurare l'equilibrio di bilancio.

Sez. L, n. 10817 (Rv. 626565), est. Filabozzi, ha statuito che, in materia di pensione di inabilità per gli agenti, l'art. 21 del Regolamento delle attività istituzionali della Fondazione Enasarco, approvato con d.m. 24 settembre 1998, va interpretato, in forza del suo chiaro tenore letterale, nel senso che richiede, ai fini della concessione della pensione di inabilità, che l'agente, a causa di difetto fisico o mentale, si trovi nella totale incapacità di svolgere qualsiasi attività lavorativa, e non solo quella che si esplica nell'attività di agente di commercio, rilevando la riduzione oltre i due terzi della capacità lavorativa specifica ai diversi fini dalla spettanza della pensione di invalidità.

18. Trattamenti di fine rapporto e di fine servizio.

18.1. Trattamenti convenzionali.

Secondo Sez. L, n. 13395 (Rv. 626719), est. Fernandes, la previdenza aziendale, avente – secondo un accertamento, riservato al giudice di merito, che involge l'interpretazione della disciplina contrattuale ed è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato – natura e funzioni non diverse da quelle dell'indennità di anzianità, di fine lavoro o di buonuscita, comunque denominata e da qualsiasi fonte disciplinata, ricade – nel regime introdotto dalla legge 29 maggio 1982, n. 297 – nella generale invalidazione sancita dall'art. 4 della legge citata, con la conseguenza che risultano caducate non solo le clausole contrattuali che regolano il rapporto tra lavoratori e datore di lavoro o fondo di previdenza (avente ad oggetto l'erogazione del trattamento), ma anche ogni altra clausola, comprese quelle che istituiscano o regolino un fondo ad hoc del quale, pertanto, deve escludersi la sopravvivenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato l'impugnata sentenza che aveva ritenuto che il trattamento aggiuntivo di previdenza previsto dall'art. 41 del Regolamento INA Casa del 1960 in favore dei dipendenti, consistendo in un capitale liquidato in concomitanza con la cessazione del rapporto di lavoro, dovesse essere ricompreso nella disciplina abrogativa della legge n. 297 del 1982).

18.2. Contribuzione aggiuntiva.

Conformandosi all'ordinanza n. 4225 del 2012 (Rv. 622050), la Sezione Lavoro ha ribadito che ,in tema di contribuzione aggiuntiva sulle quote di trattamento di fine rapporto, prevista dall'art. 3 della legge n. 297 del 1982, è legittima la trattenuta operata dall'Inps a carico dei propri dipendenti, sebbene costoro siano soggetti alla disciplina dell'indennità di fine servizio, e non a quella del trattamento di fine rapporto, atteso che la contribuzione aggiuntiva è destinata a finanziare l'aumento delle pensioni di assicurazione generale obbligatoria a perequazione automatica, con la conseguenza che tutti gli iscritti all'AGO vanno a tal fine equiparati in quanto se uguale è il trattamento pensionistico, uguale deve essere l'onere contributivo [Sez. 6-L, ord., n. 4838 (Rv. 625632), est. La Terza].

18.3. Dipendenti postali.

Conformandosi alla pronuncia n. 17987 del 2009 (Rv. 609800), la Sezione Lavoro ha ribadito che per i dipendenti postali in servizio alla data del 28 febbraio 1998 cessa il regime giuridico dell'indennità di buonuscita e diventa applicabile quello del trattamento di fine rapporto previsto dall'art. 2120 cod. civ., il cui tratto essenziale è costituito dall'insensibilità rispetto all'ultima retribuzione, dovendo essere calcolato sulla base degli accantonamenti annuali dei corrispettivi effettivamente ricevuti. La buonuscita maturata al 28 febbraio 1998 e calcolata secondo le regole proprie dell'istituto diventa così una componente del trattamento di fine rapporto, perdendo la sua originaria natura previdenziale per assumere quella di credito di lavoro, ancorché la discrezionalità del legislatore sia stata esercitata nel senso di sostituire all'effettivo debitore (il soggetto datore di lavoro) l'Ipost, sul quale però grava un debito assoggettato al nuovo regime giuridico, non a quello precedente, cui invece la legge significativamente fa riferimento alla lettera d) del comma 6 dell'art. 53 legge n. 449 del 1997 ("trattamento di quiescenza sulla base della normativa vigente"). La mancata previsione di un meccanismo di rivalutazione periodica della buonuscita accantonata, che renderebbe manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale, è stata già scrutinata dalla Corte costituzionale che ha escluso il contrasto con gli artt. 3 e 36 cost. (v. Corte cost. n. 366 del 2006 e n. 444 del 2007) [Sez. L, n. 8444 (Rv. 625771), est. Arienzo].

18.4. Incarichi di reggenza e determinazione dell'indennità di buonuscita.

Con ordinanza interlocutoria n. 10979 del 2013, rel. Mancino, la Sezione Lavoro, ha rilevato l'insorgenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, nella quale per lungo tempo era apparsa consolidata l'opzione ermeneutica secondo la quale, nel computo dell'indennità di buonuscita spettante ai pubblici dipendenti, non potessero includersi emolumenti diversi da quelli tassativamente previsti dall'art. 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973 o da leggi speciali, restando esclusa la possibilità di interpretare le locuzioni "stipendio", "paga" o "retribuzione", come riferibili a tutto quanto ricevuto dal lavoratore in modo fisso o continuativo e con vincolo di corrispettività con la prestazione lavorativa.

Secondo tale orientamento, il sistema delineato dal d.P.R. n. 1032 del 1973 rifiuta, ai fini della liquidazione dell'indennità di cui si discute, una nozione omnicomprensiva di retribuzione; il termine "stipendio", anzi, nel pubblico impiego deve essere inteso come paga tabellare (laddove l'aggettivo "complessivo" si ricollega alla necessità di considerare anche l'anzianità acquisita), con esclusione di tutti gli altri emolumenti erogati con continuità e a scadenza fissa, pena l'inspiegabilità della minuziosa elencazione, compiuta dall'art. 38 del d.P.R. 1032 cit., delle altre indennità da computare ed indicate tassativamente, in quanto non già ricomprese nella locuzione "stipendio", sicché il trattamento conseguito dal dipendente pubblico collocato a riposo, al quale continua ad applicarsi ratione temporis, la disciplina dettata dal d.P.R. n. 1032 del 1973, continua ad essere in ogni caso più favorevole rispetto a quello spettante ai dipendenti da pubbliche amministrazioni soggetti (per essere stati assunti successivamente al 1° gennaio 1996) al regime del T.F.R., il quale ultimo – a differenza dell'indennità di buonuscita, risultante dalla moltiplicazione dell'ultimo "stipendio" per il numero di anni di servizio prestati – si compone della somma di accantonamenti annuali, che riproducono solo la quota (pari al 13,5%) dei compensi ricevuti anno per anno, e non il più elevato trattamento percepito al termine della carriera.

Il continuum ermeneutico fondato sull'orientamento innanzi esposto è stato, tuttavia, interrotto dalla sentenza n. 9646 del 2012, pronunciata dalla Sezione Lavoro, secondo cui l'indennità di buonuscita dei dipendenti statali, pur realizzando una funzione previdenziale, ha natura retributiva e, alla luce del principio di proporzionalità sancito dall'art. 36 Cost., deve essere commisurata all'ultima retribuzione anche se percepita per lo svolgimento di mansioni superiori, purché queste ultime siano esercitate, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, con pienezza di poteri e responsabilità, con la conseguenza che, ove sia stata conferita la reggenza per un posto di dirigente con attribuzione del relativo trattamento economico e tali mansioni siano state effettivamente esercitate per lungo tempo, ai fini del contributo dell'indennità di buonuscita del dipendente, che, nel frattempo, abbia maturato i requisiti per il collocamento a riposo, si deve considerare, quale ultimo trattamento economico percepito, quello corrisposto per l'incarico svolto a titolo di reggenza.

Tanto premesso, la Sezione Lavoro ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l'assegnazione alle Sezioni unite, ai fini della risoluzione della questione concernente la possibilità, o meno, di computare, nella base retributiva per la determinazione dell'indennità di buonuscita, anche il trattamento economico goduto in ragione del conferimento di un incarico temporaneo di reggenza e percepito al momento della cessazione del servizio.

18.5. Dipendenti degli Enti locali.

Sez. L, n. 18724 (Rv. 628345), est. Blasutto, ha ribadito il principio, già rinvenibile in Sez. Un., n. 1135 del 1997 (Rv. 502259), secondo cui, ai sensi dell'art. 17, secondo comma, della legge 8 marzo 1968, n. 152 (che ha dettato nuove norme in materia previdenziale per il personale degli enti locali, introducendo il divieto di corrispondere trattamenti supplementari di fine servizio e pensionistici in favore dei dipendenti in aggiunta al trattamento dovuto dagli enti previdenziali cui il personale medesimo è iscritto per legge), i trattamenti supplementari di fine servizio e pensionistici deliberati dagli organi competenti a favore del personale degli enti locali entro il 1° marzo 1966 e debitamente approvati dagli organi di tutela sono mantenuti limitatamente al personale in servizio alla data del 1° marzo 1966 presso il medesimo ente che tale trattamento ha istituito, con esclusione dei lavoratori in servizio presso altri enti locali che siano passati alle sue dipendenze successivamente a tale data. Tali trattamenti supplementari costituiscono, dunque, una voce previdenziale ad esaurimento, e la natura integrativa, rispetto a quello legale goduto da ogni altro dipendente, li rende equipollenti al trattamento di fine rapporto, previsto dall'art. 2120 cod. civ., come tali sottoposti al regime impositivo dei redditi separati di cui all'art. 17, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 [Sez. trib., n. 19698 (Rv. 628160), est. Greco].

18.6. Dipendenti del cd. parastato.

Ribadendo quanto già statuito da Sez. Un., n. 7158 del 2010 (Rv. 612462), in tema di base di calcolo del trattamento di quiescenza o di fine rapporto spettante ai dipendenti degli enti pubblici del c.d. parastato, Sez. L, in corso di massimazione, est. Maisano, ha statuito che l'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70, di riordinamento di tali enti e del rapporto di lavoro del relativo personale, detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto (rimasta in vigore, pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego, per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 cod. civ.), non derogabile neanche in senso più favorevole ai dipendenti, costituita dalla previsione di un'indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato, lasciando all'autonomia regolamentare dei singoli enti solo l'eventuale disciplina della facoltà per il dipendente di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio. Il riferimento quale base di calcolo allo stipendio complessivo annuo ha valenza tecnico– giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari (nella specie, l'indennità di funzione ed il salario di garanzia ex art. 15, comma 2, della legge n. 88 del 1989) e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti che prevedano, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo in genere delle competenze a carattere fisso e continuativo.

PARTE SESTA IL DIRITTO DEL MERCATO

  • marchio depositato
  • brevetto
  • diritto d'autore

CAPITOLO XVIII

I DIRITTI DI PRIVATIVA

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Il diritto d'autore. - 2 Il marchio. - 3 Il brevetto.

1. Il diritto d'autore.

Le decisioni in tema di diritto di autore si sono mostrate molto attente alla tutela dei diritti del creatore/ideatore dell'opera. Ha così affermato Sez. 1, n. 12086 (Rv. 626622), est. Ragonesi, che il contratto di cessione di diritti di autore di opera cinematografica è un contratto atipico, cui sono pertanto applicabili solo le norme a carattere generale dall'art. 107 al 114 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto di autore, e non anche l'art. 119, che disciplina la portata del contratto di trasferimento dei diritti di utilizzazione spettanti all'autore, dovendosi ritenere tale disposizione applicabile ai soli contratti di edizione. Pertanto, la decisione della controversia sui diritti e sugli obblighi delle parti si risolve in una quaestio voluntatis rimessa in massima parte all'interpretazione del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata. (Nella specie, la corte territoriale, con valutazione ritenuta logicamente coerente in quanto fondata sul dato testuale del contratto di cessione del 1985, ha ritenuto che la categoria dei diritti di sfruttamento a mezzo di home video comprendesse una serie di strumenti di sfruttamento ampia e indeterminata, tale da comprendere anche mezzi derivanti da future tecnologie e non previsti alla data dell'accordo, purché finalizzati alla utilizzazione domestica delle opere).

Analogamente, ha stabilito Sez. 1, n. 15402 (Rv. 627592), est. Ragonesi, che in tema di diritto d'autore, l'art. 71-sexies della legge 22 aprile 1941, n. 633, consente al privato persona fisica che abbia la legittima disponibilità di un'opera (nella specie, un'opera audiovisiva) la libera riproduzione privata per uso personale e senza scopo di lucro di una copia dell'opera senza necessità di versare alcun ulteriore prezzo, prevedendo la legge stessa – con gli artt.71-septies e 71-octies, a fronte della limitazione imposta al titolare dei diritti d'autore – il versamento di un compenso, da parte della SIAE e per il tramite delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative, che, in quanto notevolmente inferiore al prezzo di acquisto di un'ulteriore copia del bene, ha una valenza indennitaria in favore del titolare dei diritti in ragione della mancata possibilità di pieno sfruttamento dei diritti esclusivi ad esso spettanti. Ne consegue che, ove sia intervenuta la cessione dei diritti esclusivi di sfruttamento dell'opera, anche il diritto a compenso per copia privata spetta al cessionario e non al cedente, non potendosi configurare a carico di quest'ultimo alcun autonomo pregiudizio da ristorare.

Sempre su questo filone, Sez. 1, n. 1247 (Rv. 625410), est. Berruti, ha statuito che la illegittima trasmissione della medesima opera cinematografica da parte di più emittenti televisive, cui era stata trasferita senza la concessione di tale diritto, determina una responsabilità solidale ex art. 2055 cod. civ. in capo a tutte le emittenti che hanno posto in essere la condotta.

2. Il marchio.

In tema di marchi sembra che il filo conduttore sia quello della tutela del consumatore, nel senso che il marchio intanto riceve una tutela giuridica in quanto svolga una reale funzione distintiva e sia suscettibile di essere riconosciuto dai consumatori. Così, secondo Sez. 1, n. 21472 (Rv. 628037), est. Ragonesi, i nomi geografici usati in passato e non più attuali possono continuare a costituire indicazioni di provenienza geografica di un prodotto quando la loro notorietà perdura nonostante non siano più usati ufficialmente.

Secondo Sez. 1, n. 13090 (Rv. 626643), est. Ragonesi, il giudizio di "affinità" di un prodotto rispetto ad un altro coperto da un marchio notorio o rinomato deve essere formulato – anche nella disciplina dei marchi interpretata conformemente alla direttiva 21 dicembre 1988, n. 89/104/CEE e previgente rispetto alle modifiche introdotte con il d.lgs. 4 dicembre 1992 n. 480 (espressione di un vero e proprio favor legis nei confronti dei marchi notori) – secondo un criterio più largo di quello adoperato per i marchi comuni. Ne consegue che in relazione ai marchi cosiddetti "celebri" – ai quali il pubblico ricollega non solo un prodotto, ma un prodotto di qualità "soddisfacente" e che quindi garantiscono un successo del prodotto stesso a prescindere dalle sue qualità intrinseche – occorre tener conto del pericolo di confusione in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti, non rilevantemente distanti sotto il piano merceologico e non caratterizzati – di per sé – da alta specializzazione, cosicché il prodotto meno noto si avvantaggi di quello notorio e del suo segno. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistere tale affinità tra i capi di abbigliamento contrassegnati dal marchio "celebre" Barbour e capi di pelletteria – in particolare zainetti – sempre contrassegnati dallo stesso marchio).

Afferma poi Sez. 1, n. 21023 (Rv. 628001), est. Ragonesi, che ai fini della tutela del marchio d'impresa recante indicazioni geografiche da segni idonei ad ingannare il pubblico, la denominazione identificativa prescelta continua a rivestire piena validità ed efficacia quando la sua notorietà perdura, ancorché essa non sia più ufficialmente usata e sia perciò diversa da quella attuale, riferendosi l'art. 14 del Codice della proprietà industriale a qualunque designazione idonea ad indicare presso i consumatori la provenienza di un prodotto da un certo ambito geografico.

Ancora, Sez. 1, n. 1249 (Rv. 624851), est. Ragonesi, chiarisce che il marchio complesso, che consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell'originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest'ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato debole, tale seconda fattispecie differenziandosi, peraltro, dal marchio di insieme in ragione del fatto che i segni costitutivi di quest'ultimo sono privi di un'autonoma capacità distintiva, essendolo solo la loro combinazione.

3. Il brevetto.

In tema di brevetto, oltre a delicate questioni in tema di giurisdizione internazionale che mettono in risalto la dimensione europea quando non mondiale dei problemi in tema di privativa e le relative esigenze di tutela (con la conseguente necessità di fare corretta applicazione del diritto dell'Unione europea), altre decisioni si sono concentrate sul tema della delimitazione della tutela nascente dal brevetto, nel difficile compito di bilanciare l'interesse del titolare del brevetto ad ampliare al massimo la sfera di tale tutela (il che sicuramente incoraggia la ricerca e lo sviluppo di nuove idee) e l'interesse della collettività e dei concorrenti a poter usufruire delle applicazioni oggetto di tutela brevettuale.

Quanto ai problemi in tema di giurisdizione, ha affermato Sez. Un., n. 14508 (Rv. 626591), est. D'Alessandro, che sussiste la giurisdizione italiana relativamente alla domanda di accertamento negativo di avvenuta contraffazione di prodotti industriali coperti da brevetto europeo proposta da una società estera (nella specie tedesca) nei confronti di società straniere (titolari delle frazioni italiane e tedesche del medesimo brevetto) prive di sedi, anche secondarie, in Italia, rientrando una tale controversia nella sfera di applicazione dell'art. 5, n. 3, del Regolamento CE 22 dicembre 2000, n. 44/2001, come interpretato dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza 25 ottobre 2012, nella causa C-133/11 (nello stesso senso, v. pure la sentenza cit. al Cap. XIX, § 3.2).

È stato anche affermato da sez. 1, n. 1000 (Rv. 625135), est. Berruti, che in tema di brevetto per modello di utilità, l'imitazione servile del prodotto di impresa concorrente può configurare atto di concorrenza sleale a prescindere dalla circostanza che il prodotto imitato costituisca oggetto di privativa; tuttavia, il danno cagionato dalla commercializzazione in tale ipotesi non è in re ipsa, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell'illecito di violazione di privativa rispetto alla distorsione della concorrenza, richiede di essere provato secondo i principî generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, solo tale avvenuta dimostrazione consentendo al giudice di passare alla liquidazione del danno.

Infine, è stato stabilito da Sez. 1, n. 622 (Rv. 624801), est. Berruti, che in tema di contraffazione di brevetto per invenzioni industriali, la protezione che abbia per oggetto il procedimento industriale si estende a tutti quei prodotti che ne siano effetto diretto, ovvero causalmente discendano dalla filiera relativa alle soluzioni tecniche brevettate; né rileva, al fine di escluderne la contraffazione, che il prodotto non sia stato rivendicato. La protezione non si estende, invece, a prodotti che, pur simili, siano ottenuti mediante un procedimento diverso da quello protetto. (Fattispecie relativa alla contraffazione di un brevetto per la produzione di "compost", accertata con riguardo alle fasi centrali e caratterizzanti il "cuore" inventivo del procedimento brevettato, restando irrilevante la mancanza di una sola fase delle sei brevettate).

  • libera concorrenza
  • concorrenza

CAPITOLO XIX

IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 Condotte anticoncorrenziali ai sensi della legge n. 287 del 1990. - 2 Il patto di non concorrenza. - 3 La concorrenza sleale. - 3.1 Aspetti sostanziali. - 3.2 Aspetti processuali. - 4 Il consumatore e il professionista. - 5 Prodotti difettosi e contratti negoziati fuori dai locali commerciali. - 6 Il foro del consumatore.

1. Condotte anticoncorrenziali ai sensi della legge n. 287 del 1990.

Forse più che in altri settori del diritto, in tema di diritto antitrust è molto forte la necessità di una integrazione fra le fonti del diritto interno e quelle dell'Unione europea: la piena consapevolezza dell'importanza del diritto dell'Unione europea è palese in Sez. 1, n. 20695 (Rv. 627912), est. Bernabai, secondo cui l'obbligatorietà della disciplina comunitaria antitrust impone agli organi giurisdizionali o amministrativi, tenuti a dare attuazione nell'ordinamento nazionale alle leggi ed agli atti aventi forza di legge, di non applicare le norme interne incompatibili con la prima, senza che per essi sia configurabile l'esimente dell'ignoranza incolpevole della gerarchia delle fonti in subiecta materia, altrimenti vanificandosi la tutela offerta ai privati dalla menzionata disciplina contro gli abusi anticoncorrenziali realizzati altresì dalla P.A. con la giustificazione della doverosa osservanza degli atti normativi nazionali. (Così statuendo, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la dedotta responsabilità risarcitoria dell'Agenzia del Territorio per abuso di posizione dominante, giustificandone l'insussistenza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa sull'assunto di aver essa fatto applicazione della normativa nazionale in materia particolarmente complessa e causa di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di merito).

La disciplina antitrust mette il giudice di Cassazione nella condizione di doversi confrontare con principî base di macroeconomia: afferma infatti Sez. 1, n. 21033 (Rv. 627914), est. Bernabai, che ai fini dell'accertamento del danno derivante da abuso di posizione dominante, suscettibile di traslazione sulla clientela per effetto della conseguente maggiorazione delle tariffe, costituisce principio di economia di comune esperienza quello secondo cui l'aumento del corrispettivo della prestazione determina una riduzione della domanda, salva la prova contraria della rigidità dei consumi.

Coerentemente con i principî che regolano la responsabilità extracontrattuale, è stato stabilito dalla citata Sez. 1, n. 20695 (Rv. 627910), est. Bernabai, che il danno cagionato mediante abuso di posizione dominante non è in re ipsa, ma, in quanto conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, deve autonomamente provarsi secondo i principî generali in tema di responsabilità aquiliana.

È stato pertanto fissato – da Sez. 1, n. 12551 (Rv. 626623), est. Lamorgese – il principio secondo cui l'assicurato che proponga azione risarcitoria, ai sensi dell'art. 33, secondo comma, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (cosiddetta legge antitrust), nei confronti dell'impresa di assicurazione che sia stata sottoposta a sanzione dall'Autorità garante per aver partecipato ad un'intesa anticoncorrenziale, ha l'onere di allegare la polizza assicurativa contratta e l'accertamento, in sede amministrativa, dell'intesa anticoncorrenziale, potendosi su queste circostanze fondare la presunzione dell'indebito aumento del premio per effetto del comportamento collusivo e della misura di tale aumento. Né in questo modo può considerarsi violato il brocardo praesumptum de praesumpto non admittitur, perché nel danno subìto dalla generalità degli assicurati per effetto dell'illecito antitrust, accertato sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, è infatti ricompreso, come suo essenziale componente, il danno subìto dai singoli assicurati, dovendosi ritenere che lo stesso, pur concettualmente distinguibile sul piano logico, non lo sia sul piano fattuale e, dunque, non richieda, per essere dimostrato, un'ulteriore presunzione.

2. Il patto di non concorrenza.

In tema di patto di non concorrenza, ha affermato Sez. 3, n. 21729 (Rv. 628149), est. Scrima, che la clausola di esclusiva inserita in un contratto di somministrazione, in virtù del principio generale di libertà delle forme negoziali, deve avere la medesima forma prevista per il contratto cui accede e non soggiace all'operatività dell'art. 2596 cod. civ. che impone tale forma, ad probationem, per il patto che limita la concorrenza e che (Rv. 628150) tale clausola non è soggetta al limite di durata quinquennale previsto dall'art. 2596 cod. civ. per gli accordi limitativi della concorrenza, a meno che non possa qualificarsi come un autonomo patto, nel qual caso però il limite temporale di validità del patto di non concorrenza non si estende alla durata del contratto di somministrazione.

Molto significativa è la decisione presa da Sez. 3, n. 3080 (Rv. 625012), est. De Stefano, in tema di patto di non concorrenza, ove tale patto rischi di incidere negativamente su diritti fondamentali quale quello alla salute – una cui estrinsecazione consiste nella maggiore facilità di accesso possibile ai farmaci – rendendosi così immeritevole di una tutela giuridica: non è sanzionabile in via disciplinare il comportamento del farmacista il quale abbia contravvenuto all'accordo raggiunto con gli altri appartenenti al rispettivo ordine professionale, volto a vietare l'apertura al di fuori dei turni minimi e, dunque, a restringere convenzionalmente l'esercizio di facoltà spettanti per legge all'imprenditore nel settore della vendita al dettaglio dei farmaci, trattandosi di contratto atipico che persegue solamente una finalità economica di regolamentazione dei flussi di clientela a beneficio esclusivo dei partecipanti all'intesa, e però comporta una potenziale vanificazione delle finalità di incremento della concorrenza nel settore farmaceutico recepite nelle previsioni regionali e comunque imposte dall'ordinamento nazionale e comunitario, con conseguente non meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti, ai sensi dell'art. 1322, secondo comma, cod. civ.

3. La concorrenza sleale.

In tema di concorrenza sleale, sono stati ribaditi e sviluppati principî già venuti alla luce negli anni precedenti.

3.1. Aspetti sostanziali.

Ha così affermato Sez. 1, n. 5848 (Rv. 625468), est. Ragonesi, che la concorrenza sleale di cui all'art. 2598 n. 2 cod. civ., consistente nel diffondere notizie ed apprezzamenti sull'attività altrui in modo idoneo a determinarne il discredito, richiede un'effettiva divulgazione della notizia ad una pluralità di persone, e non è, pertanto, configurabile nell'ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell'ambito di separati e limitati colloqui.

Secondo Sez. 1, n. 1000 (Rv. 625135), est. Berruti, l'imitazione servile del prodotto di impresa concorrente può configurare atto di concorrenza sleale a prescindere dalla circostanza che il prodotto imitato costituisca oggetto di privativa; tuttavia, il danno cagionato dalla commercializzazione in tale ipotesi non è in re ipsa, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell'illecito di violazione di privativa rispetto alla distorsione della concorrenza, richiede di essere provato secondo i principî generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, solo tale avvenuta dimostrazione consentendo al giudice di passare alla liquidazione del danno.

Infine, ha deciso Sez. 1, n. 20228 (Rv. 627529), est. Ragonesi, che lo storno dei dipendenti di impresa concorrente costituisce atto di concorrenza sleale allorché sia perseguito il risultato di crearsi un vantaggio competitivo a danno di quest'ultima tramite una strategia diretta ad acquisire uno staff costituito da soggetti pratici del medesimo sistema di lavoro entro una zona determinata, svuotando l'organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative mediante sottrazione del modus operandi dei propri dipendenti, delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi acquisite, nonché dell'immagine in sé di operatori di un certo settore. Ne consegue che, al fine di individuare tale animus nocendi, consistente nella descritta volontà di appropriarsi, attraverso un gruppo di dipendenti, del metodo di lavoro e dell'ambito operativo dell'impresa concorrente, nessun rilievo assume l'attività di convincimento svolta dalla parte stornante per indurre alla trasmigrazione il personale di quella.

3.2. Aspetti processuali.

Ha affermato Sez. Un., n. 20700 (Rv. 627454), est. Vivaldi, come già Sez. Un. n. 14508 (Rv. 627455), est. D'Alessandro, citata in tema di brevetti, che sussiste la giurisdizione italiana relativamente alla domanda di accertamento negativo dell'illiceità della condotta (ovvero di accertamento positivo della liceità della medesima condotta) e al conseguente risarcimento del danno, proposta da una società italiana in relazione alla commercializzazione e produzione di prodotti da essa realizzati e asseritamente integranti una condotta di concorrenza sleale, rientrando tale controversia nella sfera di applicazione dell'art. 5, n. 3, del Regolamento CE 22 dicembre 2000, n. 44/2001, come interpretato dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza 25 ottobre 2012, nella causa C-133/11, senza che assuma rilievo l'inversione di ruoli che caratterizza l'azione di accertamento, vertendo l'esame giudiziale, al fine di verificare la competenza giurisdizionale, sui medesimi elementi di fatto e di diritto che giustificano il collegamento con lo Stato nel quale è accaduto il fatto generatore o il danno ovvero vi è il rischio del suo prodursi. (Nella specie, le S.U., in applicazione dell'anzidetto principio, hanno sottolineato che la domanda di accertamento coinvolgeva ogni aspetto della produzione e commercializzazione del prodotto –un faro per auto –e, dunque, assumeva rilievo il luogo, in Italia, in cui tale attività veniva primariamente posta in essere).

Secondo Sez. 6-1, n. 21762 (Rv. 627813), est. Cristiano, in tema di competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, si ha interferenza tra fattispecie di concorrenza sleale e tutela della proprietà industriale o intellettuale sia nelle ipotesi in cui la domanda di concorrenza sleale si presenti come accessoria a quella di tutela della proprietà industriale e intellettuale, sia in tutte le ipotesi in cui, ai fini della decisione sulla domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni, debba verificarsi se i comportamenti asseritamente di concorrenza sleale interferiscano con un diritto di esclusiva. Ne consegue che la competenza delle sezioni specializzate va negata nei soli casi di concorrenza sleale c.d. pura, in cui la lesione dei diritti riservati non sia, in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale, tale da dover essere valutata, sia pure incidenter tantum, nella sua sussistenza e nel suo ambito di rilevanza. (Nella fattispecie, riguardante la violazione di un patto di non concorrenza tra due galleristi d'arte per avere uno di essi aperto la sua galleria a poca distanza dall'altro, la S.C. ha riconosciuto una ipotesi di concorrenza sleale "pura", con la conseguente dichiarazione di competenza della sezione ordinaria del tribunale).

È stato ribadito da Sez. 1, n. 6226 (Rv. 625928), est. Ragonesi, che il carattere essenziale e tipico dell'azione inibitoria ex art. 2599 cod. civ. è quello di apprestare una tutela giurisdizionale preventiva rivolta verso il futuro. Ne consegue che la pronuncia di inibitoria implica non solo l'ordine di cessare una attività in atto, ma anche quello di astenersi in futuro dal compiere una certa attività, pur se nel frattempo cessata.

Secondo Sez. 1, n. 6226 (Rv. 625929), est. Ragonesi, l'ordine di pubblicazione del dispositivo della sentenza che accerti atti di concorrenza sleale e le modalità in cui esso deve essere eseguito costituiscono esercizio di un potere discrezionale ed insindacabile del giudice del merito, che prescinde dalla stessa individuazione del danno e della sua riparabilità mediante la pubblicazione dell'indicato dispositivo, trattandosi di sanzione autonoma, diretta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso.

Ha infine affermato Sez. 1, n. 5848 (Rv. 625467), est. Ragonesi, che, qualora il giudice d'appello lasci immutati i fatti materiali in base ai quali sia stata chiesta dall'attore la condanna del convenuto per concorrenza sleale non altrimenti inquadrata in una delle figure (tipiche ovvero atipiche) normativamente previste, ben può tale giudice, senza con ciò andare oltre i limiti della domanda proposta (sulla quale si sia validamente instaurato il contraddittorio) e senza, in particolare, sostituire alla causa petendi della domanda medesima una causa petendi diversa, procedere all'esatta qualificazione giuridica dei fatti anzidetti, dedotti a fondamento costitutivo della domanda stessa, inquadrando l'azione proposta nella tipizzazione legislativa che le è propria e ponendo i medesimi fatti a base dell'accertamento della concorrenza sleale sotto uno, piuttosto che sotto un altro, dei profili normativi di cui all'art. 2598 cod. civ. (Nella specie, la corte d'appello ha correttamente ritenuto che – pur esclusa la ricorrenza dell'ipotesi tipica dell'art. 2598, n. 2, cod. civ. – fossero comunque configurabili, quali atti atipici di concorrenza sleale, ai sensi del successivo n. 3 dello stesso art. 2598 cod. civ., gli atti denigratori posti in essere dalla ricorrente, in quanto contrari alla correttezza professionale).

4. Il consumatore e il professionista.

Le classiche definizioni di consumatore e professionista sono state ribadite: afferma infatti Sez. 6-1, n. 21763 (Rv. 627977), est. Cristiano,che, in tema di contratti del consumatore, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui al vecchio testo dell'art. 1469 bis cod. civ. (ora art. 33 del Codice del consumo, approvato con d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), la qualifica di "consumatore" spetta solo alle persone fisiche e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice "consumatore" soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività; correlativamente deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che utilizzi il contratto non necessariamente nell'esercizio dell'attività propria dell'impresa o della professione, ma per uno scopo connesso all'esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale. (Nella specie, la S.C. ha escluso l'applicabilità della disciplina di cui al vecchio testo dell'art. 1469-bis cod. civ. in favore di una persona fisica la quale, pur avendo concluso un contratto di apertura di credito con una banca in nome proprio, aveva però ottenuto il finanziamento –come emergeva dalle risultanze istruttorie –non per sé ma in favore della società di cui era amministratore e principale azionista, con la conseguente validità della clausola di deroga alla competenza territoriale prevista dal contratto).

Secondo Sez. 6-3, n. 24731 (in corso di massimazione), est. Vivaldi, intema didisciplinadituteladelconsumatore e di contratti negoziatifuoridailocali commerciali, non riveste la qualità di consumatore unapersonafisica quando, attraverso il contratto, si procuri un bene o un servizio nel quadro dell'organizzazione di un'attività professionale da intraprendere, prendendo l'iniziativa di ricercare il bene o il servizio stesso, proprio al fine di realizzare tale organizzazione. Ne consegue, pertanto, che, ai fini della competenza, il foro esclusivo del consumatore trova applicazione soltanto con riferimento ai contratti conclusi al di fuori ed indipendentemente da qualsiasi attività o finalità professionale, sia attuale, che futura. (Principio enunciato dalla Suprema Corte ex art. 363, terzo comma, cod. proc. civ.).

Quanto al professionista, secondo Sez. 3, n. 11773 (Rv. 626477), est. Carleo, in tema di contratti del consumatore, ai fini dell'applicabilità del Codice del consumo, approvato con il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che utilizzi il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. Perché ricorra la figura del "professionista" non è, pertanto, necessario che il contratto sia concluso nell'esercizio dell'attività propria dell'impresa o della professione, essendo sufficiente che esso venga posto in essere al fine dello svolgimento o per le esigenze dell'attività imprenditoriale o professionale. (Nella specie, la S.C. ha riconosciuto la qualifica di "professionista" ad una banca, che aveva preso in locazione un immobile per adibirlo a sede di una sua agenzia).

È stato affermato peraltro da Sez. 1, n. 21600 (Rv. 628046), est. Mercolino, che il controllo giudiziale sul contenuto del contratto stipulato con il consumatore, pur postulando una valutazione complessiva dei diritti e degli obblighi ivi contemplati, e nel cui ambito svantaggi e benefici determinati da singole clausole possono compensarsi, è circoscritto alla componente normativa del contratto stesso, mentre è preclusa ogni valutazione afferente le caratteristiche tipologiche e qualitative del bene o del servizio fornito, o l'adeguatezza tra le reciproche prestazioni, richiedendosi soltanto, alla stregua dell'art. 1469-ter, secondo comma, cod. civ. (poi sostituito dall'art. 34, secondo comma, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), che l'oggetto del contratto ed il corrispettivo pattuito siano individuati in modo chiaro e comprensibile. (Nella specie, la S.C., ritenendo puntualmente verificata dal giudice del merito, in base al piano finanziario sottoscritto dal cliente, la natura dell'operazione concordata tra le parti con il contratto my way, ha ritenuto inammissibile, anche perché estraneo alle questioni sollevate nel giudizio di merito, il motivo di ricorso concernente l'esistenza di uno squilibrio del rapporto contrattuale nella sua interezza).

Molto significativo è quanto statuito da Sez. 6-3, n. 21419 (Rv. 628097), est. De Stefano, in quanto dà un significativo impulso alla disciplina dei consumatori spesso ritenuta confinata ai soli contratti di compravendita: la disciplina generale dei contratti dei consumatori, quanto all'individuazione del giudice inderogabilmente competente (da individuarsi in quello del luogo della residenza – o del domicilio – del consumatore), trova applicazione anche in relazione al contratto di albergo, ove il cliente persona fisica lo abbia stipulato per soddisfare esigenze della vita quotidiana, estranee all'esercizio della propria eventuale attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, e ciò indipendentemente dal fatto che possa configurarsi altresì un contratto di pacchetto turistico, essendo la disciplina relativa a quest'ultimo speciale e ulteriore rispetto a quella generale dei contratti del consumatore.

5. Prodotti difettosi e contratti negoziati fuori dai locali commerciali.

In tema di prodotti difettosi ha affermato Sez. 3, n. 13458 (Rv. 626815), est. Ambrosio, che ai sensi dell'art. 5 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (trasfuso nell'art. 117 del cd. "codice del consumo"), il livello di sicurezza al di sotto del quale il prodotto deve ritenersi difettoso non corrisponde a quello della sua innocuità, dovendo piuttosto farsi riferimento ai requisiti di sicurezza generalmente richiesti dall'utenza in relazione alle circostanze tipizzate dalla suddetta norma, o ad altri elementi valutabili e in concreto valutati dal giudice di merito, nell'ambito dei quali rientrano anche gli standard di sicurezza eventualmente imposti da normative di settore.

La stessa sentenza (Rv. 626816), est. Ambrosio, ha altresì precisato che la responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto. Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato – ai sensi dell'art. 8 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (trasfuso nell'art. 120 del cd. "codice del consumo") – la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno.

Ancora la stessa decisione (Rv. 626814) ha rilevato che la disciplina del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (ora confluita negli artt. da 114 a 127 del cd. "codice del consumo") ha per oggetto il "danno da prodotti difettosi" e prevede un tipo di responsabilità che prescinde dalla colpa del produttore, conseguendo alla mera "utilizzazione" del prodotto difettoso da parte della vittima. Ne deriva che legittimati a far valere la pretesa risarcitoria in forza di tale disciplina risultano tutti i soggetti che si sono trovati esposti, anche in maniera occasionale, al rischio derivante dal prodotto difettoso, riferendosi la tutela accordata all'"utilizzatore" in senso lato, e non esclusivamente al consumatore o all'utilizzatore non professionale.

La sentenza Sez. 2, n. 27404, est. Scalisi (in corso di massimazione), ha chiarito come le norme che dispongono l'informazione dei consumatori e l'etichettatura dei prodotti commercializzati di qualsiasi categoria, di cui alla legge 10 aprile 1991, n. 126 e al d.m. 8 febbraio 1997, n. 101, non impongono al venditore di consegnare anche la "scheda-prodotto", obbligo introdotto soltanto per gli oggetti in legno (con la circolare del Ministero delle attività produttive del 3 agosto 2004, n. 1).

Secondo Sez. 6-3, n. 8167 (Rv. 625874), est. Scarano, nelle controversie concernenti i contratti negoziati fuori dai locali commerciali relativi a strumenti finanziari, il consumatore può adire un giudice diverso da quello determinato ai sensi dell'art. 63 del codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), ove ravvisi maggiormente rispondente al proprio interesse derogare – anche unilateralmente – al cd. "foro del consumatore", e così adire il giudice competente per territorio in base ad uno dei criteri di cui agli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ., ovvero quello indicato nel contratto, senza che il giudice adìto, in accoglimento della relativa eccezione sollevata dal professionista ovvero rilevata d'ufficio, possa dichiarare la propria incompetenza a svantaggio del consumatore, e cioè in pregiudizio dell'interesse di quest'ultimo, la cui scelta non scalfisce l'esigenza di tutela contro l'unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto contrattuale da parte del "professionista", che la disciplina in argomento è funzionalmente volta a garantire. (Nel caso di specie, i consumatori – domiciliati in luoghi diversi – avevano ritenuto più vantaggioso concentrare la vertenza presso il tribunale del luogo in cui aveva sede legale l'istituto di credito convenuto in giudizio, piuttosto che adire ciascuno, singolarmente, il foro del consumatore, conseguendo così l'obiettivo di garantire non solo l'uniformità del giudicato, ma anche un sensibile contenimento dei costi ed una maggiore celerità ed economia processuale).

La stessa sentenza (Rv. 625873), ha precisato che nelle controversie concernenti i contratti negoziati fuori dai locali commerciali relativi a strumenti finanziari, la competenza territoriale è determinata ai sensi dell'art. 63 del codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), in quanto l'art. 46 del medesimo codice esclude – con riguardo ai contratti relativi a strumenti finanziari – l'applicabilità delle sole norme contenute nella sezione prima, e non nella sezione terza, del capo cui entrambe appartengono.

6. Il foro del consumatore.

La consapevolezza di dover fare applicazione di una disciplina "asimmetrica" in applicazione del principio costituzionale del trattamento adeguatamente diseguale di situazioni diseguali è alla base di Sez. 6-3, n. 17083 (Rv. 627672), est. Ambrosio, secondo cui la domanda riconvenzionale proposta dal consumatore, in un giudizio incardinato dal professionista innanzi ad un giudice diverso da quello competente ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, non può assumere il significato di una deroga implicita al foro del consumatore, né precludere il rilievo officioso del proprio difetto di competenza da parte del giudice adìto.

Analoga ratio decidendi ispira Sez. 6-3, n. 17083 (Rv. 627671), est. Ambrosio, secondo cui il foro del consumatore, sebbene esclusivo, è di natura derogabile, in forza di quanto previsto dall'art. 33, comma 2, lettera u), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, sempre che si dimostri l'esistenza di una specifica trattativa tra le parti, sicché la prova di tale circostanza costituisce onere preliminare a carico del professionista che intenda avvalersi della clausola di deroga, ponendosi l'esistenza della trattativa come un prius logico rispetto alla dimostrazione della natura non vessatoria di siffatta clausola.

Pure in quest'ottica va valutata Sez. Un., n. 4211 (Rv. 625157), est. Travaglino, secondo cui l'acquisto di titoli obbligazionari emessi da uno Stato estero deve essere ricompreso nella categoria dei contratti con i consumatori e la relativa azione può essere legittimamente esercitata dinanzi al giudice del domicilio del consumatore, pure in presenza di eventuali clausole di proroga da quest'ultimo sottoscritte. Anche alla luce delle disposizioni della Carta di Nizza, il cui art. 38 garantisce un alto livello di protezione dei consumatori, deve infatti ritenersi prevalente sulla disposizione dell'art. 4, comma secondo, della legge 31 maggio 1995, n. 218, in tema di deroga alla giurisdizione, l'art. 3, comma secondo, della medesima legge, secondo cui, vertendosi in tema di contratti del consumatore, si applicano le disposizioni della sezione III del Regolamento CE n. 44 del 2001 e, quindi, l'art. 17, che ammette la deroga soltanto a date condizioni ed, in particolare, ove pattuita posteriormente al sorgere della controversia.

  • società
  • società di capitali
  • diritto delle società

CAPITOLO XX

IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ

(di Loredana Nazzicone )

Sommario

1 La società di fatto. - 2 I soci illimitatamente responsabili. - 3 I patti parasociali. - 4 I conferimenti. - 5 Quote e azioni. - 6 L'oggetto sociale. - 7 Diritto di recesso e termine di durata. - 8 L'assemblea. - 9 Gli amministratori. - 9.1 - 9.2 - 9.3 - 9.4 - 9.5 - 9.6 - 9.7 - 10 I sindaci. - 11 Il compenso dell'amministratore giudiziario. - 12 Riduzione del capitale per perdite e qualità di socio. - 13 Il bilancio. - 14 Scioglimento e liquidazione. - 15 I gruppi. - 16 Trasformazione, fusione, scissione. - 17 Agenzia e società di capitali. - 18 Società cooperative. - 19 Società sportive. - 20 Società a partecipazione pubblica. - 20.1 I danni alla società in house. - 20.2 Revoca degli amministratori. - 20.3 Le società partecipate fra atto e negozio.

1. La società di fatto.

Né la riforma del 2003 sulle società di capitali e le cooperative, né le riforme della legge fallimentare che si sono succedute fra il 2005 ed il 2007 si sono occupate della società irregolare e della società di fatto.

Peraltro, proprio quest'ultima, per la sua caratteristica di costituire la figura base per lo svolgimento in comune di un'attività economica, è suscettibile delle più varie applicazioni, e la S.C. continua a ricostruirne i contorni in via interpretativa.

Nel caso frequente di società fra consanguinei, si esige la prova rigorosa dell'esteriorizzazione del vincolo societario, in modo da potersi ragionevolmente escludere che l'intervento del familiare possa essere motivato dall'affectio familiaris, in luogo che dall'effettiva compartecipazione all'attività commerciale (Sez. 2, n. 15543, Rv. 626822, est. Nuzzo).

In un caso in cui le parti, una delle quali priva di permesso di soggiorno in Italia, avevano concluso un contratto di associazione in partecipazione, accertato dal giudice del merito come dissimulante un contratto di società, si è escluso che la violazione delle regole amministrative che impediscono al soggetto in tali condizioni di svolgere attività commerciali – pur potendo dare naturalmente luogo all'irrogazione di sanzioni – rendesse nullo il contratto di società da esse stipulato (Sez. 1, n. 9334, Rv. 626136, est. Ceccherini).

Fenomeno sin troppo diffuso è quello della sedicente associazione sportiva la quale, sotto le vesti dell'incremento della pratica dello sport, dissimula lo svolgimento in comune di attività economica a scopo di lucro, secondo la nozione dell'art. 2247 cod. civ.: sovente queste <<associazioni>> non solo ricavano profitti dai servizi resi a terzi, ma vi affiancano attività commerciali (bar, ristorante, vendita di articoli sportivi). Una valida azione di contrasto (non ultimo, all'evasione fiscale, ma anche contro l'alterazione della leale concorrenza) dovrebbe gradualmente condurre a valorizzare, in tali fattispecie, la pretestuosità delle c.d. tessere associative, in mancanza di qualsiasi attività individuabile come tale e della presenza, al contrario, di un sostanziale obbligo di <<associarsi>> per instaurare un rapporto che è interamente riconducibile alla prestazione di servizi alla clientela. Peraltro, Sez. 1, n. 5836 (Rv. 625907), est. Scaldaferri, ha negato ad un'associazione natura giuridica di società, in un caso in cui i soci avevano sì previsto il perseguimento di un utile, ma non risultava la volontà di ripartirlo, mirando essa, in via principale, a contribuire alla pratica della educazione fisica e sportiva tra gli associati; la Corte ha ritenuto irrilevante ad integrare la natura societaria la circostanza che i tre fondatori fossero retribuiti in base alle ore di attività svolte come allenatori. Con riguardo ad un "circolo bocciofilo", si veda invece Sez. trib., n. 3360 (Rv. 625267), est. Iofrida, in tema di IRPEG, su cui cfr. cap. XXIII, § 8.

2. I soci illimitatamente responsabili.

Sul socio grava un'obbligazione propria, che lo rende coobbligato con la società per i debiti della stessa, essendo egli tenuto, per vincolo sociale, al soddisfacimento dell'obbligazione dell'ente (soggetto distinto, anche ove privo di personalità) con tutto il suo patrimonio.

Tra le due obbligazioni si pone un vincolo di solidarietà, ma il rapporto di sussidiarietà, previsto per i soci che godano di beneficio d'escussione (artt. 2268, 2304 cod. civ.), non esclude la natura solidale della relativa obbligazione: con la conseguente applicabilità, sul piano sostanziale, dell'art. 1310 cod. civ., onde l'atto interruttivo della prescrizione nei confronti di un socio ha effetto anche nei confronti dell'ente (Sez. 1, n. 22093, Rv. 627771, est. Lamorgese), e, sul piano processuale, dell'esclusione del litisconsorzio necessario, restando le cause scindibili (Sez. 2, n. 19985, Rv. 627807, est. D'Ascola).

Quanto all'unico azionista, secondo consolidati principî, perSez. 2, n. 20702 (Rv. 628075), est. Matera, sul medesimo grava, ai sensi dell'art. 2362 cod. civ. ante riforma (ora art. 2325, secondo comma, cod. civ.) un'obbligazione personale, che si affianca a quella della società, senza però confondere i rispettivi patrimoni, di cui ciascuno resta titolare, ancorché <<economicamente>> l'unico azionista possegga l'intero patrimonio di questa: scopo è rafforzare la garanzia dei creditori sociali ed impedire che i limiti della responsabilità patrimoniale della società consentano all'unico azionista di eludere la responsabilità patrimoniale sancita dall'art. 2740 cod. civ., ma pur sempre solo in presenza dell'insolvenza della società, tornando, in mancanza di questa, ad avere pieno vigore il principio della limitazione di responsabilità al patrimonio conferito.

3. I patti parasociali.

La possibilità di ricondure tali patti alla fattispecie del contratto a favore di terzo, produttivo di effetti giuridici per i soci, in cui il terzo è la società, è accolta da tempo in giurisprudenza (si pensi al tema dei versamenti in conto capitale).

Il vincolo che ne discende opera su di un terreno esterno a quello dell'organizzazione sociale, dal che, appunto, il loro carattere <<parasociale>>. Già anni addietro (Sez. 1, n. 15963 del 2007, Rv. 600414), la Corte aveva chiarito che i patti parasociali possono essere stipulati non solo tra soci, ma anche tra soci e terzi: in quel caso, l'accordo mirava ad assicurare la ricapitalizzazione della società, in concomitanza con l'ingresso di un soggetto nella compagine sociale.

La sentenza Sez. 1, n. 17200 (Rv. 627224), est. Bernabai, si è occupata del patto avente ad oggetto l'impegno di taluni soci ad eseguire prestazioni a beneficio della società (il trasferimento di rami d'azienda e relative concessioni, afferenti stazioni di servizio per la distribuzione di carburanti), qualificandolo come contratto a favore di terzo disciplinato dall'art. 1411 cod. civ., il cui adempimento può essere, dunque, chiesto sia dalla società terza beneficiaria, sia dai soci stipulanti e pur nell'ipotesi in cui abbiano ceduto a terzi le loro partecipazioni: ciò, in quanto la validità del patto parasociale non è legata alla permanenza della qualità di socio degli stipulanti.

4. I conferimenti.

Il conferimento di un'azienda individuale in società ne comporta il trasferimento, con la conseguente cessione ex lege dei crediti relativi all'esercizio della stessa sin dal momento dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese (Sez. 3, n. 19155, Rv. 627842, est. Armano).

In tema di simulazione del conferimento, quando il soggetto sottoscrive la quota di capitale in aumento in società già costituita, la causa del negozio non può esulare dal collegamento con la deliberazione di aumento: ciò posto, la Corte ha escluso la configurabilità della simulazione del conferimento, laddove si deduceva il mero accordo simulatorio concluso tra il conferente e l'amministratore, posto che quest'ultimo, anche qualora sia delegato al compimento delle operazioni necessarie all'esecuzione della deliberazione, non è legittimato a rappresentare la società nella stipulazione di accordi diretti a simulare i conferimenti(Sez. 1, n. 17467, Rv. 627320-627321, est. Ceccherini).

In tema di azione revocatoria ex art. 2901 cod. civ., si è precisato (Sez. 1, n. 23891, Rv. 628065-628067, est. Bernabai), in una fattispecie concernente conferimenti in natura, che:

a) il conferimento societario è atto dispositivo revocabile, ai fini della garanzia patrimoniale generica del patrimonio del debitore, non interferendo sulla validità del contratto costitutivo della società;

b) l'azione revocatoria non richiede il litisconsorzio necessario dei soci, in quanto i conferimenti integrano negozi traslativi diretti in favore della società, ma i soci possono spiegare intervento adesivo;

c) per il consilium fraudis occorre tener conto, per quanto riguarda la società, alla situazione soggettiva dei soci, allorché si tratti di conferimento in fase di costituzione dell'ente collettivo, non trascurandosi il caso delle società a base azionaria diffusa, ove, quando sia avvenuta la nomina del rappresentante legale, si può ricercare in capo al medesimo il requisito ex art. 1391 cod. civ.

Le esigenze del diritto tributario sono alla base della <<riqualificazione>> di atti negoziali di conferimento, che la Sezione quinta nel corso del 2013 ha palesato, sempre con maggior chiarezza, di ritenere legittime e doverose, in applicazione del principio di interpretazione degli atti secondo <<la intrinseca natura e gli effetti giuridici>> di essi, come dispone l'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131. Le decisioni affrontano il tema dell'elusività, ai fini delle relative imposte, della cessione indiretta d'immobili o di aziende caratterizzate da ingente componente immobiliare (alberghiere, agricole), qualificando come unica fattispecie a formazione progressiva il conferimento di beni immobili, seguìto da altre operazioni concorrenti al medesimo fine.

Così hanno ritenuto:

Sez. 6-5, ord. n. 6835 (Rv. 626038), rel. Bognanni, con riguardo all'effettiva cessione di masseria con fabbricato rurale, attuata mediante iniziale conferimento di azienda agricola a società, previa acquisizione delle azioni e contestuale cessione di esse alla cessionaria ed agli stessi soci in pari data e con atto separato;

Sez. 5, n. 10743 (Rv. 626531), est. Bruschetta, in fattispecie di conferimento di immobile in società neo-costituita, riqualificato come compravendita;

Sez. 5, n. 14150 (Rv. 627127), est. Terrusi, che ha individuato un unitario fenomeno di trasferimento di beni, laddove erano state posti in essere più negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre, nella specie, l'unico effetto giuridico finale costituito dal trasferimento della proprietà di beni immobili a seguito di conferimento in una società a responsabilità limitata e successiva cessione delle quote sociali.

Sez. 5, n. 15319 (Rv. 627196), est. Cappabianca, la quale ha altresì chiarito che non sussiste alcun contrasto con la nozione di <<imposta d'atto>> e con gli artt. 23 e 41 Cost., mantenendo i soggetti integra la propria autonomia privata, in fattispecie relativa al finanziamento alla società contribuente, apporto del patrimonio immobiliare di questa ad un Fondo comune di investimento immobiliare verso accollo liberatorio del finanziamento in capo alla società di gestione del Fondo, attribuzione all'apportante di quote di partecipazione al Fondo per importo di gran lunga inferiore al valore finanziato, cessione delle quote stesse ad altri partecipanti o investitori, tale fattispecie essendo stata apprezzata, legittimamente, come vendita onerosa e dunque base imponibile per la proporzionalità della tassazione dei suoi effetti: dove, quindi, gli elementi sospetti erano soprattutto l'accollo di un finanziamento appena concluso e la rapida successione degli atti;

Sez. 5, n. 16345 (Rv. 627064), est. Sambito, vicenda di costituzione di una s.a.s., contestuale conferimento di azienda alberghiera e successiva cessione delle quote, riqualificata dall'amministrazione come cessione d'azienda (per Invim, registro, ipotecaria, catastale).

5. Quote e azioni.

La Corte ha ribadito, al riguardo, principî consolidati, ed offerto qualche nuovo spunto.

La vendita di partecipazioni sociali è contratto traslativo ad effetti reali: onde, in presenza della stipula di un patto di opzione, la partecipazione si trasferisce con l'accettazione dello stipulante (Sez. 1, n. 23203, in corso di massimazione, est. Didone); il consenso degli altri soci, ove necessario, non incide sul perfezionamento e sulla validità del contratto, ma ne costituisce mera condicio iuris per l'opponibilità alla società, potendo pure intervenire dopo il fallimento del socio alienante (Sez. 1, n. 17255, Rv. 627378, est. Cristiano).

Le partecipazioni sociali, quali beni "di secondo grado", mantengono la capacità di essere oggetto di negozi giuridici anche qualora la società fallisca, dal momento che il fallimento è causa di scioglimento e non di estinzione della società, ai sensi dell'art. 2448 cod. civ ante riforma, sicché la perdurante esistenza in vita dell'ente (sia pure privo di poteri sul suo patrimonio) conferisce natura di beni commerciabili alle relative quote di partecipazione (Sez. 2, n. 12831, Rv. 626248, est. Giusti).

Viene ribadito, in continuità con quanto deciso lo scorso anno, che la violazione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto totalitaria, ai sensi dell'art. 106 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, comporta una responsabilità risarcitoria nei confronti degli azionisti cui l'offerta avrebbe dovuto essere rivolta, ove essi dimostrino di avere perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione della stessa (Sez. 1, n. 22099, Rv. 628106-628108, est. Lamorgese, in conformità a Sez. 1, n. 14392 del 2012, Rv. 623642). La sentenza precisa pure che l'intestazione delle azioni ad una società fiduciaria lascia permanere la proprietà dei titoli in capo al fiduciante, essendo i titoli intestati alla fiduciaria in mera gestione (tanto da non essere aggredibili da parte dei creditori di questa), onde al fiduciante va riconosciuta la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno, anche nei confronti della stessa fiduciaria, in quanto concorrente nell'illecito del mancato lancio dell'opa.

L'esigenza di massima tutela dell'integrità del capitale sociale – valore che la riforma non ha smentito – è alla base dell'affermazione secondo cui viola l'art. 2358 cod. civ. qualsiasi forma di agevolazione finanziaria, avvenga essa prima o dopo l'acquisto delle azioni, come nel caso del mutuo concesso successivamente all'acquisto delle azioni, ma a questo strumentale (Sez. 1, n. 15398, Rv. 626927, est. Di Virgilio).

In tema di comunione dei coniugi – affermata l'applicabilità dell'art. 178 cod. civ., laddove discorre di <<esercizio dell'impresa>>, anche all'acquisto di una partecipazione in società personale –si è respinta la tesi secondo cui l'altro coniuge nulla potrebbe concretamente vantare, se il valore della partecipazione societaria risulti pari a zero nel momento dello scioglimento della società, in cui diviene esigibile per il coniuge socio la ripartizione dell'eventuale attivo ai sensi degli artt. 2280 e 2282 cod. civ, pur successivo alla data di scioglimento della comunione. Al contrario, secondo la S.C. tale credito va calcolato al tempo della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento. La conclusione discende dalla considerazione secondo cui l'attivo nella comunione de residuo si arricchisce nel momento in cui il vincolo tra i coniugi si allenta con la separazione, onde a questo va ancorata la stima del valore (Sez. 1, n. 6876, Rv. 625994, est. Lamorgese). Traspare, nelle intenzioni della Corte, la preoccupazione di intenti elusivi da parte del coniuge socio; ed invero, la materia richiede un delicato bilanciamento degli interessi, di rango costituzionale, alla libera iniziativa economica ed alla solidarietà familiare. Da tempo, peraltro, la Corte (cfr. Sez. 1, n. 7060 del 1986, Rv. 449134) ha osservato che la legge ha indicato i parametri del bilanciamento proprio mediante l'istituto della comunione de residuo, la quale contempera le due esigenze, permettendo ad un coniuge l'attività d'impresa ed all'altro attribuendo un'aspettativa in ordine a quei beni quando la comunione sarà sciolta; in tal modo si tutelano anche i creditori dell'imprenditore, i quali sanno di potere contare su tutti i beni che risultano intestati all'imprenditore e facenti parte dell'azienda.

Sempre in materia di valore delle partecipazioni sociali, la Sez. trib., n. 17062 (Rv. 627136), est. Chindemi, ha invece deciso che la determinazione del valore delle azioni di una s.p.a. non quotata deve senz'altro tenere conto degli incrementi o delle riduzioni sopravvenuti tra la data di chiusura dell'esercizio sociale e la data della donazione, perché rileva il valore effettivo.

Importanti precisazioni ha compiuto Sez. 1, 27733 (in corso di massimazione), est. Lamorgese, secondo cui, sebbene di regola i soci di una società di capitali non abbiano titolo al risarcimento dei danni che costituiscono un riflesso di quelli cagionati alla società, in quanto mera porzione di questi, tuttavia un danno non può considerarsi giuridicamente riflesso quando attiene alla sfera del socio, personale (come per il diritto all'onore o alla reputazione) o patrimoniale (come per la perdita di opportunità personali, di tipo economico e lavorativo, o per la riduzione del cd. merito creditizio), danni che vanno risarciti dal terzo responsabile direttamente in favore del socio (la fattispecie concerne pretesi comportamenti illeciti di istituti bancari nei confronti delle società partecipate e poi fallite).

6. L'oggetto sociale.

Con riguardo al cd. oggetto strumentale, contenente spesso elencazioni pletoriche nell'intento illusorio di fornire adeguata "copertura" a tutti gli atti di amministrazione esterna (in particolare, le garanzie bancarie), si può osservare che l'indicazione, nella clausola statutaria sull'oggetto sociale, della concessione di determinati tipi di garanzie (ove beninteso tale attività non costituisca l'oggetto principale, peraltro riservato agli intermediari debitamente autorizzati) non è, in verità, neppure necessaria per l'operatività dell'ente, dal momento che non rileva il profilo formale del tipo contrattuale ivi enunciato, ma quello sostanziale, in dottrina ricondotto al <<principio di normalità>> dell'operazione rispetto al tipo di attività svolta; mentre l'elencazione statutaria di atti tipici, più o meno genericamente definiti, non può sostituire tale criterio concreto, giacché, da un lato, essa non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti di vario tipo che possono essere funzionali all'esercizio di una determinata attività e, dall'altro, anche l'espressa previsione statutaria di un atto tipico, in particolare di garanzia, non assicura che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quell'attività (in tal senso, cfr. Sez. 1, n. 17696 del 2006).

Sez. 2, n. 2220 (Rv. 625189), est. Giusti, ha affermato come la clausola statutaria sull'oggetto sociale, la quale preveda il rilascio delle garanzie nei confronti del pubblico – con la conseguente possibilità per qualsiasi terzo, anche un non socio o un soggetto non facente parte del medesimo gruppo della società concedente, di rendersi beneficiario delle stesse – rende la previsione statutaria collidente con l'area della riserva di cui all'art. 106 del d.lgs. n. 385 del 1993, testo unico bancario, e perciò nulla per contrasto con una norma imperativa (onde la responsabilità disciplinare del notaio che l'atto abbia rogato: cfr. pure al cap. XXXV, § 4).

7. Diritto di recesso e termine di durata.

In tema di società a responsabilità limitata, la previsione statutaria di una durata della società per un termine particolarmente lungo (nella specie, l'anno 2100), tale da superare qualsiasi orizzonte previsionale anche per un soggetto collettivo, ne determina l'assimilabilità ad una società a tempo indeterminato, onde, in base all'art. 2473 cod. civ., compete al socio in ogni momento il diritto di recesso, sussistendo la medesima esigenza di tutelarne l'affidamento circa la possibilità di disinvestimento della quota. Ne consegue che integra l'ipotesi dell'eliminazione di una causa di recesso, ai sensi della norma menzionata, la modificazione statutaria che abbia notevolmente ridotto il termine di durata della società, nella specie dal 2100 al 2050 (Sez. 1, n. 9662, Rv. 626392, est. Bisogni).

8. L'assemblea.

Sez. Un., n. 23218 (Rv. 627762), est. Rordorf,ha affermato il principio secondo cui, salvo che l'atto costitutivo della società a responsabilità limitata non contenga una disciplina diversa, l'assemblea è validamente costituita se gli avvisi di convocazione siano stati spediti agli aventi diritto almeno otto giorni prima dell'adunanza (o nel diverso termine eventualmente indicato dall'atto costitutivo), salvo il destinatario dimostri che, per causa a lui non imputabile, egli non abbia affatto ricevuto l'avviso di convocazione o lo abbia ricevuto così tardi da non consentirgli di prendere parte all'adunanza; non senza ricordare che, in ogni caso, al socio è possibile la richiesta di rinvio dell'assemblea, che gli organi sociali sono tenuti a prendere in considerazione secondo buona fede [la precedente Sez. 1, n. 15672 del 2007 (Rv. 600415), non aveva avuto, invece, l'occasione di affrontare la questione se il termine di convocazione debba reputarsi rispettato ponendo mente al momento della ricezione, o di spedizione dell'avviso]. Una presunzione iuris et de iure di conoscenza dell'avviso non sarebbe ragionevole, proprio di fronte a casi in cui il socio lo abbia ricevuto irrimediabilmente tardi, o affatto; ed il nuovo art. 2479 bis cod. civ. richiama l'esigenza che – quale che sia la modalità prescelta dallo statuto – essa assicuri pur sempre la tempestiva informazione dei destinatari sugli argomenti da trattare. La Corte, dunque, individuando in via interpretativa – salvo che i soci non abbiano diversamente disposto – una presunzione iuris tantum, ha raggiunto l'auspicato equilibrio fra la tutela dell'interesse della società all'efficienza organizzativa e quello del socio alla partecipazione informata alla vita sociale.

Un'importante precisazione ha compiuto anche Sez. 1, ord. n. 4946 (Rv. 625945-625946), rel. De Chiara, con riguardo all'idoneità organizzativa con riguardo alla vita sociale della deliberazione assembleare, sia pure annullabile.

In sede di regolamento avverso ordinanza di sospensione, la Corte ha deciso che il vizio di annullabilità di una deliberazione di aumento del capitale sociale non incide sulla validità delle successive deliberazioni, adottate con la nuova maggioranza che da quell'aumento sia scaturita: ciò, in coerenza con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali.

Ed anche il sopravvenuto annullamento della deliberazione, sebbene in linea di principio retroattivo, è pur sempre regolato dalla legge ed operante nei soli limiti da essa sanciti.

Su tale premessa, la Corte ha quindi escluso il rapporto di pregiudizialità fra giudizio sulla validità dell'atto sanante ex art. 2377, ottavo comma, cod. civ. e giudizio sulla validità di un atto sanato, non pregiudiziale al primo agli effetti dell'art. 295 cod. proc. civ.

9. Gli amministratori.

Nutrito, come sempre, il numero delle pronunce riguardanti gli amministratori.

9.1.

Circa la netta alterità soggettiva rispetto alla società amministrata, merita una menzione Sez. 1, n. 18549 (Rv. 627473), est. De Chiara, secondo cui, quando un soggetto, già amministratore di società sottoposta a liquidazione coatta amministrativa dall'Isvap, si dolga dell'inesistenza del diniego di decadenza dall'autorizzazione all'esercizio dell'attività per intervenuta rinuncia, al medesimo va riconosciuta unicamente la legittimazione ad agire per i danni che assuma personalmente subiti, e rispetto a tale giudizio è configurabile un interesse all'accertamento, di carattere pregiudiziale e da effettuarsi incidenter tantum, della suddetta inesistenza (al riguardo, v. pure al § 5, in fine).

9.2.

In tema di regime delle incompatibilità, interessante interpretazione del regime della nuova s.r.l. compie la sentenza Sez. 3, n. 18904 (Rv. 627799), est. Scrima, la quale, preso atto che la novella del 2003 non regolamenta le cause di ineleggibilità e di decadenza degli amministratori, ha escluso potersi applicare, ancorché per analogia, l'art. 2382 cod. civ. dettato per le s.p.a.: con la conseguenza che, salva diversa previsione statutaria, il fallimento dell'amministratore di società a responsabilità limitata non ne determina l'incapacità alla carica sociale.

L'esistenza di effettivi poteri di gestione o di rappresentanza è il discrimine utilizzato da Sez. Un., n. 25797 (in corso di massimazione), est. Ceccherini, per ravvisare l'incompatibilità "all'inverso" in capo ad un avvocato con riguardo alla carica di presidente del consiglio di amministrazione di una società a responsabilità limitata, costituita per la gestione del servizio municipalizzato di farmacia (non in house), rientrante nella previsione dell'<<esercizio del commercio in nome proprio o altrui>>, a norma dell'art. 3 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 (abrogato per incompatibilità dalla legge 31 dicembre 2012, n. 247, che prevede ora che la professione di avvocato è incompatibile con la qualità di presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione di società capitalistiche).

9.3.

Viene ribadito che il compenso va determinato, ove non previsto già nello statuto, da una deliberazione assembleare esplicita, non potendo ravvisarsi una cd. deliberazione implicita in tal senso nella mera approvazione del bilancio, che quel compenso indichi nel suo testo: ciò per la natura imperativa ed inderogabile dell'art. 2389 cod. civ. (Sez. trib., n. 20265, Rv. 628116, est. Crucitti e n. 17673, Rv. 627505, est. Greco). Le pronunce richiamano le affermazioni di Sez. Un., n. 21933 del 2008 (Rv. 604262) secondo cui, sia pure con riferimento al testo della norma ante riforma, la disciplina del funzionamento delle società è dettata anche nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività economica, in particolare essendo la percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea contemplata come delitto dall'art. 2630, secondo comma, cod. civ. (peraltro, abrogato dall'art. 1 del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61). Altri argomenti sono tratti dalla distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi, ai sensi dell'art. 2364, nn. 1 e 3, cod. civ.; dalla mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio, per l'art. 2434 cod. civ.; dal diretto contrasto delle deliberazioni tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà sociale, di cui all'art. 2366 cod. civ.

9.4.

Circa la possibilità per l'amministratore di prestare lavoro subordinato per la società, si ribadisce che ciò richiede l'effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare da parte dell'organo gestorio (Sez. 6-1, ord. n. 10396, Rv. 626233, rel. Ragonesi, con riguardo a componente del consiglio di amministrazione di una s.r.l.; Sez. 1, n. 24972, in corso di massimazione, est. Ragonesi), condizione per definizione insuscettibile di essere integrata in capo al socio accomandatario di una società in accomandita semplice (Sez. L, n. 7312, Rv. 625700, est. Blasutto).

Criterio analogo è accolto per il dirigente aziendale, ove si presenti apicale e dunque alter ego dell'imprenditore, da Sez. L, n. 18414 (Rv. 627531), est. Marotta; per altri riferimenti, si rinvia al cap. XVI, § 1.

9.5.

In tema di operazioni in conflitto d'interessi, è noto il diverso ambito di applicazione, da un lato, dell'art. 1394 cod. civ. e, dall'altro, degli art. 2373 e 2391 cod. civ.: il primo inteso a regolare i negozi compiuti dall'amministratore in nome e per conto della società nei confronti dei terzi (momento rappresentativo), i secondi le deliberazioni interne societarie (momento deliberativo). Peraltro, la Corte ha deciso che la riconduzione alla previsione dell'art. 1394 cod. civ., anziché a quelle degli art. 2373 e 2391 cod. civ., di una fattispecie di conflitto di interessi, dedotta con riferimento ad un negozio concluso dell'amministratore unico (nella specie, il rilascio di fideiussioni) integra gli estremi di una diversa qualificazione del medesimo fatto dedotto, onde non configura una eccezione diversa da quella sollevata dalla parte. Ciò è stato possibile in quanto, nella sollevata eccezione, sia mancato il riferimento specifico al momento deliberativo nell'ambito delle determinazioni di un organo collegiale, onde la riconduzione del conflitto di interessi relativo ad un contratto stipulato da amministratore unico di s.r.l. alla disciplina dettata dall'art. 1394 cod. civ. diviene l'unica possibile e costituisce legittimo esercizio del potere di qualificazione spettante al giudice. (Sez. 1, n. 23089, in corso di massimazione, est. Di Amato).

9.6.

La Corte continua ad interpretare in modo restrittivo il requisito della giusta causa di revoca degli amministratori di società azionaria, il quale, ai sensi dell'art. 2383 cod. civ, abilita la società ad interrompere il rapporto sociale senza dover corrispondere una somma per il ristoro del danno.

Così, Sez. 1, n. 21342 (Rv. 627848), est. Di Amato, ha affermato che la nozione di giusta causa non è integrata in forza del mero potere di autorganizzazione da parte della società: se, da un lato, le scelte dell'assemblea sulla governance societaria sono insindacabili, dall'altro esse neppure possono ricondursi in sé alla rottura del pactum fiducia e (con riguardo all'Enav s.p.a., che aveva sostituito il c.d.a. con un amministratore unico).

In presenza, poi, di società partecipata dal socio pubblico con una quota di maggioranza, il mero deterioramento del rapporto con il medesimo non legittima, secondo Sez. 1, n. 23381 (in corso di massimazione), est. Bisogni, la revoca per giusta causa: peculiare la fattispecie, in cui il Comune richiedeva di ravvisare tale presupposto nel fatto che gli amministratori avessero agito contro il medesimo ente, inadempiente al contratto concluso con la società amministrata, e respinto la pretesa di esaminare alcuni documenti societari da parte del socio: ed in cui la Corte ha escluso che il socio pubblico potesse fruire di una situazione diversa o di favore, rispetto alle regole privatistiche delle s.p.a., cui si è interamente ispirata la motivazione della sentenza (cfr., sul punto, anche il § 18.2).

9.7.

In tema di responsabilità, la Corte sottolinea l'esigenza che la domanda, da chiunque proposta, contenga una sufficiente determinazione del petitum e della causa petendi, anche al fine di consentire alla controparte l'approntamento dei adeguati e tempestivi mezzi di difesa, sebbene la lettura dell'art. 163 cod. proc. civ. non possa essere puramente formalistica, nella specie reputando soddisfatto il requisito (Sez. 1, n. 28669, in corso di massimazione, est. Nazzicone).

Prosegue, inoltre, la linea di escludere la legittimità di facili tautologie nella liquidazione del danno, in quanto il mancato rinvenimento della contabilità d'impresa non determina in modo automatico che l'ex amministratore risponda della differenza tra l'attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, potendo il giudice di merito applicare il criterio differenziale soltanto in funzione equitativa, attraverso l'indicazione delle ragioni che non hanno permesso di accertare gli specifici effetti pregiudizievoli della condotta e che rendono plausibile ascrivere al convenuto l'intero sbilancio patrimoniale (Sez. 1, n. 17198, Rv. 627238, est. De Chiara, sulle orme di Sez. 1, n. 11155 del 2012, Rv. 623081); sebbene il quantum del risarcimento possa essere determinato con liquidazione equitativa del danno, anche qualora si riscontri l'impossibilità o l'eccessiva difficoltà di effettuare complessi conteggi in ordine al maggior onere per interessi pagato dalla società (Sez. 1, n. 23233, in corso di massimazione, est. Di Amato, in tema di responsabilità dei sindaci: v. pure oltre).

Nell'azione di responsabilità promossa dal commissario liquidatore di una Sim, il quale abbia fatto valere pure la responsabilità ex art. 2394 cod. civ., precisa Sez. 1, n. 8426, in corso di massimazione, est. Cristiano, che l'azione si prescrive dal momento in cui l'insufficienza patrimoniale della società sia divenuta conoscibile, ed al riguardo i convenuti hanno facoltà di provare i fatti che dimostrino l'anteriorità del termine di decorrenza della prescrizione rispetto alla dichiarazione di insolvenza, sulla base di elementi oggettivi e conoscibili dal ceto creditorio (nella specie, l'incapienza patrimoniale della Sim era emersa sin dal momento della pubblicazione del bilancio dell'esercizio che, pur presentando ancora un patrimonio netto positivo, non era stato certificato dalla società incaricata della revisione ed era stato accompagnato da una relazione del commissario estremamente pessimista). Inoltre, all'azione risarcitoria non può applicarsi il più lungo termine di prescrizione di cui all'art. 2947, terzo comma, cod. civ., quando i fatti costitutivi dei reati (nella specie, di bancarotta fraudolenta) allegati siano stati prospettati solo nella memoria di cui all'art. 183 cod. proc. civ., all'epoca vigente, in maniera generica e senza specifica attribuzione all'uno od all'altro dei convenuti. Ha, infine, escluso, con riguardo all'invocata applicazione dell'art. 2941, n. 8, cod. civ., che la nozione di "massa dei creditori" postuli l'individuazione della posizione, all'interno di essa, di ogni singolo creditore, così che l'azione possa ritenersi prescritta per alcuni degli appartenenti ad essa e non per altri.

10. I sindaci.

La citata Sez. 1, n. 23233 (in corso di massimazione), est. Di Amato, pronunciata nell'ambito di un'azione di responsabilità sociale ex art. 146 legge fall., ha ravvisato il nesso eziologico in ipotesi di concorso omissivo dei sindaci nel procurato ritardo della dichiarazione di fallimento, a sua volta causa dell'aumentato ammontare degli interessi sulle esposizioni debitorie della società dissestata (cfr. art. 55 legge fall.)

La sentenza Sez. 1, n. 24362 (Rv. 628206-628208), est. Didone, oltre ad alcuni profili processuali concernenti il mero litisconsorzio facoltativo in capo ai sindaci di s.p.a. e gli effetti della sopravvenuta transazione per la quota di un corresponsabile, in tema di prova del nesso causale nella responsabilità omissiva dei sindaci per fatto degli amministratori, concernente l'art. 2449 cod. civ., nel testo anteriore alla riforma societaria, ha precisato che, fermo restando il relativo incombente a carico della società, occorre verificare se un diverso e più diligente comportamento dei sindaci nell'esercizio dei loro compiti (tra cui la mancata tempestiva segnalazione della situazione agli organi di vigilanza esterni) avrebbe evitato le conseguenze degli illeciti compiuti dagli amministratori; quanto, poi, alla non esigibilità di una diversa condotta in presenza di fatto degli amministratori, ha ritenuto che non possano non giovare ai sindaci le concrete circostanze che possano evidenziare un'assenza di colpa, come, nella specie, l'avvenuta convocazione dell'assemblea, la positiva adozione della delibera di aumento del capitale sociale e la sottoscrizione dell'aumento da parte di un nuovo socio, allorché poi il mancato versamento nelle casse sociali della somma promessa sia imputabile solo agli amministratori.

11. Il compenso dell'amministratore giudiziario.

La Corte ribadisce che l'amministratore giudiziario, nominato nel procedimento disciplinato dall'art. 2409 cod. civ., per la natura stessa dell'attività che gli è demandata dal giudice, la quale si concreta nella gestione della società strumentale al ripristino del suo corretto funzionamento, non rientra nella categoria degli ausiliari prevista dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, con la conseguenza che il rimedio contro il provvedimento che ne dispone la liquidazione del compenso non è l'opposizione prevista dall'art. 170 del citato d.P.R. n. 115 del 2002 (oggi dall'art. 34, comma sedicesimo, lett. b, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150), ma quella di cui all'art. 645 cod. proc. civ., attesa la natura monitoria del decreto pronunciato ai sensi dell'art. 92, u.c., disp. att. cod. civ. (Sez. 1, n. 18080, Rv. 627328, est. Cultrera, sulle orme di Sez. 1, n. 9241 del 2012, Rv. 622599 e Sez. 2, n. 7631 del 2011, Rv. 617353).

Ciò perché le funzioni ed i caratteri propri di tale figura si differenziano, secondo la Corte, a tal punto da quelli degli ausiliari del giudice – per il fatto che egli svolge i compiti di gestione della società, tenuta al compenso – da escluderne l'assimilabilità ai medesimi anche con riguardo all'opposizione sulla liquidazione del compenso. Sebbene non manchi in dottrina chi, invece, proprio in taluni caratteri sostanziali comuni agli altri ausiliari (la nomina in vista di determinate esigenze concrete, lo svolgimento della propria attività sotto il controllo del giudice, la cessazione di tale configurazione una volta terminata la sua funzione) rinviene la possibilità di qualificarlo come ausiliario del giudice, incaricato di un pubblico ufficio temporaneo.

12. Riduzione del capitale per perdite e qualità di socio.

Un principio essenziale di civiltà giuridica è ribadito da Sez. 1, n. 21889 (Rv. 627732), est. Scaldaferri, secondo cui chi abbia perso la qualità di socio, per la mancata sottoscrizione della propria quota di ricostituzione del capitale sociale, conserva la legittimazione ad esperire l'azione di accertamento della nullità della deliberazione assembleare assunta ex art. 2447 cod. civ., in quanto sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con l'art. 24, primo comma, Cost., ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l'istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.

Sez. 1, n. 24362 (Rv. 628208), est. Didone, ad altri fini già ricordata, ha optato per la tesi più rigorosa secondo cui, in ipotesi di riduzione del capitale per perdite di cui all'art. 2447 cod. civ., non è sufficiente la mera deliberazione di aumento del capitale ad escludere lo scioglimento ex art. 2448, n. 4, cod. civ., né la sola sottoscrizione delle quote optate, ma occorre, altresì, il versamento almeno della percentuale minima prescritta dalla legge.

13. Il bilancio.

In tema di società di persone, Sez. 1, n. 28806 (in corso di massimazione), est. Bisogni, ha deciso che il diritto del socio agli utili postula, ai sensi dell'art. 2262 cod. civ., l'approvazione del rendiconto, condizione non surrogabile a mezzo delle dichiarazioni fiscali della società.

Si è stabilito che, nel giudizio d'impugnazione di deliberazione assembleare di società di capitali recante l'approvazione del bilancio di esercizio, la sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti dell'amministratore, il quale in sede penale abbia riconosciuto la falsità (nella specie, per omessa appostazione tra i crediti di somme indebitamente distratte dalle casse sociali) può costituire, quale fatto storico espressione della sua condotta, idoneo elemento di valutazione in ordine alla dedotta falsità del bilancio stesso, nel contesto delle risultanze complessive degli accertamenti condotti dal giudice civile (Sez. 1, n. 22213, Rv. 627699, est. Scaldaferri).

Il valore probatorio della deliberazione approvativa del bilancio sociale è stato considerato dalla sentenza Sez. 1, n. 15394 (Rv. 626928), est. Scaldaferri, in quanto tale deliberazione, in deroga all'art. 2709 cod. civ., fa piena prova nei confronti dei soci dei crediti della società, ove chiaramente indicati nel bilancio medesimo.

14. Scioglimento e liquidazione.

Con riguardo ai fini della società in liquidazione, la pronuncia Sez. 1,n. 13644 (Rv. 626448), est. Di Virgilio, ha precisato che, per definizione, l'impresa in liquidazione non si propone di restare sul mercato, avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori, previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci; ciò rileva ai fini dell'integrazione dello stato di insolvenza, ai fini dell'art. 5 legge fall.

Circa la figura ed i poteri del liquidatore di società, Sez. 2, n. 18124 (Rv. 627303), est. Carrato, ha affermato che egli acquista il potere rappresentativo non al momento della nomina (assembleare o giudiziale), ma in quello dell'iscrizione della stessa nel registro delle imprese, onde la procura speciale rilasciata dal liquidatore prima dell'iscrizione è invalida ed inammissibile è il ricorso per cassazione cui quella procura accede.

Ma le più importanti pronunce nel corso dell'anno sono quelle delle Sezioni unite nn. 6070 (Rv. 625323-625325), 6071 (Rv. 625326-625328) e 6072 (Rv. 625329), est. Rordorf, che, nel risolvere le questioni loro rimesse (da Sez. 1, ord., n. 9943 del 2012, e Sez. 1, ord., n. 14390 del 2012, rispettivamente in tema di società di persone e di capitali, nonché da Sez. 2, ord., n. 16606 del 2012, sul giudizio di equa riparazione), hanno preso posizione circa i rapporti sostanziali, e processuali, facenti capo alla società estinta per cancellazione dal registro delle imprese all'esito della liquidazione.

Sotto il primo profilo, hanno accolto la tesi della successione universale dei soci. In un passaggio essenziale, la Corte afferma che <<il dissolversi della struttura organizzativa…fa naturalmente emergere il sostrato personale>> e pone l'accento sul <<carattere strumentale del soggetto società>>. Pertanto, passa ai soci lo stesso debito (stessa causa, stessa natura) già in capo alla società, in un vero meccanismo successorio.

I soci succedono anche qualora non siano destinatari della distribuzione dell'attivo con il bilancio finale di liquidazione, o non in modo sufficiente; però, possono opporre il limite di responsabilità ex art. 2495 cod. civ., ove si tratti di società di capitali, lasciando permanere la legittimazione passiva del socio, sebbene la situazione, secondo la Corte, potrebbe a volte rendere insussistente l'interesse del creditore ad agire contro quel socio. Quanto ai rapporti attivi, si ha una comunione indivisa dei beni; ma la cancellazione volontaria palesa l'implicita volontà di dismettere il diritto con riguardo alle poste non iscrivibili in bilancio, quali il credito controverso (le mere pretese azionate o azionabili in giudizio) ed il credito illiquido (come proprio nel caso di società che volontariamente si cancelli dal registro delle imprese, senza aver agito per l'accertamento e la liquidazione del diritto all'equo indennizzo); in tal caso, il processo pendente si chiuderà con una pronuncia in rito.

Le conseguenze processuali tratte dalla Corte sono rilevanti:

– la società cancellata non può intraprendere o essere convenuta in giudizio;

– si applica la disciplina della interruzione e riassunzione ex artt. 299 ss. cod. proc. civ.;

– se la società viene cancellata in corso di causa, si applica l'art. 110 cod. proc. civ., in quanto nell'espressione <<per altra causa>> si può comprendere anche la cancellazione che provoca estinzione; non si può applicare, invece, l'art. 111 cod. proc. civ., perché non vi è fenomeno successorio a titolo particolare e manca un soggetto, diverso dai soci, nei cui confronti possa nel frattempo proseguire il giudizio;

– vi è una sola eccezione nell'art. 10 legge fall.: ove il fallimento venga dichiarato entro un anno dalla cancellazione, la società (in persona del legale rappresentante) continua ad essere destinataria della sentenza dichiarativa e delle successive vicende impugnatorie: è una fictio iuris che postula la società esistente, ma ai soli fini del fallimento, come del resto nel caso della persona fisica fallita entro un anno dal suo venir meno; dunque, ove la società fosse in stato di liquidazione, legittimato a contraddire è il liquidatore sociale (cfr. pure Sez. 1, n. 17208, Rv. 627095, est. Ceccherini; Sez. 1, n. 18138, Rv. 627385, est. Ceccherini; Sez. 1, n. 21026, Rv. 627758, est. Di Amato);

– allorché la causa non sia stata interrotta nel grado in cui l'evento della cancellazione è avvenuto, il giudizio d'impugnazione deve svolgersi sempre da e nei confronti dei soggetti legittimati (la giusta parte), posto che <<l'esigenza di stabilità del processo>> è limitata al singolo grado: l'impugnazione perciò deve coinvolgere non la società cancellata, ma i suoi soci, perché il regime pubblicitario del registro delle imprese non permette una soluzione diversa (al di fuori del caso speciale entro il grado); in mancanza, l'impugnazione è inammissibile (così, ancora, Sez. Un., n. 11344, Rv. 626182, est. Macioce, in tema di società in accomandita semplice; Sez. 1, n. 18128, Rv. 627322, est. Mercolino; Sez. 5, n. 21517, Rv. 628164, est. Sambito).

Grazie alla propria interpretazione sistematica volta ad assicurare la certezza del diritto, nel rispetto della Costituzione, le Sezioni unite hanno superato la rimessione alla Corte costituzionale operata da un giudice di merito (App. Milano, 18 aprile 2012, Foro it., 2012, I, 3060).

Particolari applicazioni di tali principî sono già avvenute da parte delle Sezioni semplici. Ad esempio, qualora una società in accomandita semplice si estingua per cancellazione dal registro delle imprese dopo la formazione di un titolo esecutivo nei suoi confronti, il titolo de quo ha efficacia contro i soci accomandanti, ex art. 477 cod. proc. civ., nei confronti dei quali, pertanto, l'azione esecutiva potrà essere intrapresa dal creditore sociale nei limiti della quota di liquidazione (Sez. 3, n. 18923, Rv. 627846, est. Barreca); secondo Sez. 3, n. 21714 Rv. 628102, est. Scrima, la disciplina di cui all'art. 2495 cod. civ. resta estranea alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale, sicché l'inizio e la fine di detta qualità sono subordinati all'effettivo svolgimento o al reale venir meno dell'attività imprenditoriale e non alla formalità della iscrizione dal registro delle imprese, che resta, pertanto, priva effetto sulla legittimazione e capacità processuale del titolare dell'impresa individuale.

15. I gruppi.

Nel caso di fideiussione prestata dalla società a vantaggio del socio di controllo, è in capo al creditore, il quale affermi l'insussistenza di un conflitto di interessi, l'onere di provare lo specifico interesse, facente capo al gruppo e condiviso dalla garante, soddisfatto con il rilascio delle fideiussioni (Sez. 1, n. 23089, in corso di massimazione, est. Di Amato).

Circa il rapporto di lavoro nel gruppo, la Corte ribadisce il proprio costante orientamento, secondo cui la concreta ingerenza della capogruppo nella gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle società ad esso appartenenti determina l'assunzione in capo alla prima della qualità di datore di lavoro, ma soltanto laddove l'ingerenza ecceda il ruolo di direzione e coordinamento generale alla stessa spettante sul complesso delle attività delle controllate (Sez. L, n. 24770, in corso di massimazione, est. Filabozzi).

16. Trasformazione, fusione, scissione.

Secondo il diritto vigente anteriormente alla riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, la trasformazione di un'impresa individuale in una società di capitali non era riconducibile alla trasformazione societaria, in quanto uno dei termini del rapporto è estraneo all'ambito delle società, trattandosi, invece, di un trasferimento a titolo particolare, e nel quale dunque si individueranno o il conferimento, o la cessione di un diritto dall'imprenditore individuale all'impresa collettiva per atto tra vivi, atteso che l'estinzione dell'impresa individuale non costituisce il presupposto del trasferimento stesso. Quale conseguenza processuale, è stato deciso che, pertanto, si applicano le disposizioni sulla successione a titolo particolare nel diritto controverso (Sez. 2, n. 16556, Rv. 626964, est. Scalisi)

La Corte ha precisato che, in mancanza del consenso esplicito o presunto dei creditori sociali, in caso di trasformazione di una società di persone in società di capitali permane la responsabilità illimitata del socio per le obbligazioni sorte prima della trasformazione; laddove, invece, dopo la trasformazione comunque delle obbligazioni sociali della società di capitali risponde solo questa, non essendo contemplata alcuna ultrattività delle norme che impongono la responsabilità illimitata e solidale in capo ai soci di società personale. Ne deriva che, ai sensi dell'art. 147, comma secondo, legge fall., decorso l'anno dall'iscrizione della trasformazione ex art. 2500 bis cod. civ. non può essere dichiarato il fallimento del socio già illimitatamente responsabile (Sez. 1, n. 25846, in corso di massimazione, est. Di Amato).

Viene precisato che, nella fusione perfezionatasi prima della riforma del diritto societario, posto che l'art. 2504 bis cod. civ. comportava l'estinzione della società incorporata o fusa, l'impugnazione nei confronti di società colpita dall'evento nel corso del giudizio va rivolta alla società incorporante tutte le volte che, pur non dichiarato, tuttavia esso sia stato reso conoscibile secondo l'ordinaria diligenza alla parte impugnante, come quando la sentenza sia stata notificata ad istanza della società incorporante o risultante dalla fusione; mentre, nello specifico caso della fusione, non è di per sé idonea ad integrare detta conoscibilità l'avvenuta iscrizione della fusione nel registro delle imprese, ai sensi dell'art. 2193 cod. civ. (Sez. 1, n. 28664, in corso di massimazione, est. Nazzicone). Per profili connessi, si veda infra, § 15, in tema di effetti successori delle società cancellate dopo la liquidazione.

Di un'ipotesi di scissione cd. negativa di società – in cui il valore reale del patrimonio assegnato sia negativo – si è occupata Sez. 1, n. 26043 (in corso di massimazione), est. Di Amato, reputandola non consentita, dal momento che essa non permette la determinazione di un rapporto di cambio, e, quindi, la distribuzione delle azioni.

Purtuttavia, la Corte ha rilevato che l'intervenuta iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di scissione ha un effetto sanante e la nullità della scissione non può essere più pronunciata, a norma dell'art. 2504 cod. civ., richiamato dall'art. 2506 ter cod. civ.

Ne deriva che, pur in presenza della suddetta illiceità, deve applicarsi l'art. 2506 quater, terzo comma, cod. civ. quanto all'imputazione dei debiti, onde ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico; mentre, con riguardo alla dichiarazione di fallimento, il requisito dell'insolvenza va valutato separatamente per le due società.

17. Agenzia e società di capitali.

Con una pronuncia dai rilevanti riflessi pratici, Sez. Un., n. 27986 (in corso di massimazione), est. Di Palma, ha stabilito, risolvendo un contrasto di giurisprudenza, che l'art. 2751 bis, n. 3, cod. civ. deve interpretarsi nel senso che il privilegio generale ivi previsto non assiste i crediti per provvigioni spettanti alla società di capitali che eserciti l'attività di agente; la sentenza svolge, inolre, interessanti considerazioni sull'efficacia delle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale (nella specie la n. 1 del 2000).

18. Società cooperative.

In tema di vigilanza sulle società cooperative, va menzionata Sez. 1, n. 22925 (Rv. 628180), est. Lamorgese, secondo cui la responsabilità della P.A. per omessa vigilanza nei confronti non è attenuata neppure dalla mancata attivazione, da parte dei soci, dei poteri di controllo agli stessi spettanti, ai sensi degli artt. 2408 e 2422 cod. civ., atteso che il controllo sulla gestione sociale è affidato al collegio sindacale, mentre la vigilanza compete agli enti istituzionali; la Corte ha così respinto il ricorso avverso la decisione impugnata, la quale, nell'escludere il concorso colposo dei soci, aveva altresì osservato che la perdurante mancanza di rilievi da parte degli organi pubblici di controllo nei confronti della società cooperativa vigilata (che aveva raccolto fondi fra i soci a fini di investimento ed era poi fallita) ingenerava, agli occhi inesperti dei soci aderenti, un alone di affidabilità e una ragionevole presunzione di legittimità del suo operato.

L'esclusione da società cooperativa ha fornito a Sez. 1, n. 22097 (Rv. 628111), est. Bernabai, l'occasione di porre l'accento, anche all'interno di questo tipo sociale, sul principio di buona fede nei rapporti sociali: la sentenza ha deciso che la deliberazione di esclusione del socio per morosità, nonostante la richiesta, da parte di quest'ultimo, di chiarimenti e la manifestata disponibilità a pagare la somma, una volta accertata la motivazione, costituisce reazione sproporzionata e lesiva del criterio della buona fede oggettiva (si trattava della cooperativa "Nomadelfia").

Il settore socialmente delicato delle cooperative edilizie è stato esaminato da Sez. 1, n. 13641 (Rv. 626528), est. Cultrera, la quale ha ribadito la distinzione tra rapporto sociale, di carattere associativo, e quello di scambio, di natura sinallagmatica – a causa giuridica autonoma, seppur collegati – pertinendo al secondo il pagamento di una somma di denaro a titolo di prenotazione dell'immobile, dunque da restituire in ipotesi di scioglimento dal rapporto sociale, ed anche in presenza di un bilancio in perdita.

Inoltre, Sez. 1, n. 28808 (in corso di massimazione), est. Ceccherini, ha chiarito che il socio prenotatario dell'alloggio immesso in possesso dell'immobile, in quanto titolare di un diritto personale di godimento su porzione del suddetto fabbricato, in caso di difetti e manchevolezze dello stesso può domandare nei confronti della società, in base al rapporto organico che la lega agli amministratori rimasti inerti nel pretendere l'esatta esecuzione del contratto da parte dell'appaltatore, il risarcimento del danno subìto dal proprio patrimonio per la lesione di quel diritto di godimento.

19. Società sportive.

L'interessante Sez. 5, n. 24931 (in corso di massimazione), est. Perrino, si è occupata della causa mutualistica con riferimento ai compensi percepiti dalla squadra di calcio di una società sportiva (l'A.S. Roma s.p.a.) per la partecipazione agli incassi delle partite giocate in trasferta.

L'occasione è stata colta dalla Corte per individuare lo scopo mutualistico, che non riceve positiva definizione, ma è caratterizzato dall'<<intento di realizzare, anziché il profitto, l'immediato vantaggio dei soci, in quanto appartenenti all'ente che persegue il fine mutualistico>>, nonché per ribadire che le società sportive costituite in forma azionaria restano soggette allo statuto di questo tipo sociale, i cui tratti salienti non possono essere derogati per il mero oggetto di tale attività.

20. Società a partecipazione pubblica.

20.1. I danni alla società in house.

Lo scorso anno si dava conto di come, in tema di riparto di giurisdizione nelle azioni di responsabilità avverso l'amministratore per mala gestio,la Corte si sia attestata (sin da Sez. Un., n. 26806 del 2009, Rv. 610656) sul principio che le società di capitali, sebbene a partecipazione pubblica, si inscrivono nella disciplina societaria di diritto comune, salve le specifiche norme derogatorie, in quanto operanti in regime di diritto privato ed aventi personalità distinta ed autonomia patrimoniale rispetto all'ente pubblico socio. La Corte ha dunque disegnato un sistema razionale, secondo cui gli amministratori della società partecipata rispondono in sede civile dei danni causati alla società, ed in sede contabile per i danni alla reputazione dell'ente pubblico derivatine, in quanto danno erariale, oltre ad eventuali responsabilità dei vertici politici dell'ente verso il medesimo, parimenti per danno erariale.

E però, vi è un tipo di società, in cui la presenza di talune concomitanti caratteristiche finisce per palesare la natura di longa manus dell'amministrazione, al pari di un'articolazione interna, onde a questa viene ai nostri effetti equiparata: si tratta delle società in house providing, nei cui confronti nel corso del 2013 le Sezioni unite hanno gradualmente affermato la giurisdizione della Corte dei conti sull'azione di responsabilità degli organi sociali per danni cagionati al suo patrimonio.

Sovente tali società, specie nel settore del trasporto pubblico, dissipano il pubblico denaro per fatto dei soggetti nominati alla carica gestoria, oltretutto con il rischio di una sostanziale immunità, posto che difficilmente l'ente pubblico delibera di intervenire con l'azione sociale di responsabilità avverso i medesimi. Tale considerazione di fondo non può dirsi estranea alla preoccupazioni della Corte Suprema, quale interprete del diritto.

In un primo momento, sullo scorcio dell'anno 2012 (la camera di consiglio è di tale anno), le S.U. hanno ribadito il principio, senza operare particolari distinzioni nell'ambito delle società a partecipazione pubblica. Si è così deciso, in completa conformità con il precedente orientamento, che la giurisdizione sulle azioni di responsabilità contro gli organi sociali appartiene al giudice ordinario (Sez. Un., n. 7374, Rv. 625714, rel. Amatucci, con riguardo alla Amaco s.p.a., società di gestione del servizio dei parcometri nel comune di Cosenza).

Ma, in seguito, si è fatto strada un distinguo.

In una serie di rilevanti decisioni, nell'ideale continuazione di un discorso sviluppato dall'una all'altra, le Sezioni unite hanno affermato la giurisdizione della Corte dei conti sull'azione di responsabilità degli organi sociali per i danni arrecati al patrimonio di una società in house.

La Corte ha preso le mosse dalla definizione di questa, che deve intendersi come la società, costituita da uno o più enti pubblici per finalità di gestione dei pubblici servizi: a) di cui esclusivamente medesimi enti possano essere soci, come deve essere precisato nello statuto, che appunto deve escludere la cessione delle partecipazioni a privati; b) che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, nel senso sostanziale che non si ponga in concorrenza con altre imprese sul mercato, anche in una visuale prospettica, onde l'attività accessoria sia marginale e puramente strumentale rispetto a quella principale d'interesse economico generale; c) la cui gestione sia per statuto assoggetta a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, ossia con vincolo di subordinazione gerarchica e potere del primo di dettare le linee strategiche e determinare le scelte operative: dunque non controllo mero ex art. 2359 cod. civ., ma potere diretto sulla gestione (Sez. Un., n. 26283, in corso di massimazione, est. Rordorf; e già Sez. Un., ord. n. 10299, Rv. 625964, rel. Amatucci).

Ma <<per poter parlare di società in house, è necessario che detti requisiti sussistano tutti contemporaneamente e che tutti trovino il loro fondamento in precise e non derogabili disposizioni dello statuto sociale>> (così la citata n. 26283).

Pertanto, ciò che occorre è l'esame dello statuto – nel testo in vigore al momento della condotta di mala gestio – indispensabile per valutare l'interpositio, che la S.C. è abilitata a compiere in sede di sindacato sulla giurisdizione: esame concluso in senso negativo per la S.T.A. di Bolzano (ord. n. 8352, Rv. 625963, rel. Salvago), la A.M.T. di Verona (ord. n. 10299, Rv. 625964, rel. Amatucci), l'AMA s.p.a. (ord. n. 26936, rel. Macioce ed ord. n. 27489, rel. Amatucci, entrambe in corso di massimazione) ed in senso affermativo per Etruria Trasporti e Mobilità s.p.a. (Sez. Un., n. 26283, in corso di massimazione, est. Rordorf).

Invero (così la sentenza da ultimo citata), <<anomalia non piccola>> è già il fatto che la società di capitali non sia destinata allo svolgimento di attività a fini di lucro, peraltro ancora forse conciliabile con la funzione organizzativa prevalente assunta dallo strumento; ma soprattutto, lo "statuto" di questa società si differenzia per la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, ben oltre l'eterodirezione, presupposta, ad esempio, nel diritto dei gruppi dall'art. 2497 cod. civ. o i particolari diritti riguardanti l'amministrazione di cui all'art. 2468, terzo comma, cod. civ.: non vi è spazio per aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso, né si ravvisa in realtà un centro d'interessi distinto rispetto all'ente pubblico.

L'amministratore è legato alla società da un rapporto non privato, ma di servizio, ed il patrimonio della società ha un regime di separazione, non di distinta titolarità da quello dell'ente: ecco dunque il danno erariale, con le relative conseguenze in tema di responsabilità e giurisdizione.

E l'uso del vocabolo "società" serve allora solo a significare che, in mancanza di diversa disposizione, ne resta applicabile lo schema organizzativo.

20.2. Revoca degli amministratori.

L'art. 2449 cod. civ. attribuisce allo Stato o all'ente pubblico socio la facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla partecipazione del capitale sociale, prevedendone la revocabilità da parte del solo ente che li ha nominati. La norma non sancisce alcun rapporto di dipendenza con l'ente, ma un suo particolare potere di socio; il rapporto resta privatistico e lo status di tali amministratori non è difforme da quello degli altri (una situazione analoga è prevista per il socio di s.r.l. dall'art. 2468 cod. civ.).

Sono coinvolti, qui, da un lato, l'interesse del socio pubblico ad influire sulla nomina e sulla gestione, e, dall'altro, quelli dello stesso amministratore e dei terzi: se prevale il primo, il profilo "politico" si accentua sino a ridurre gli amministratori a mero strumento (taluno osserva che, peraltro, anche nel diritto comune delle società l'amministratore è sempre revocabile, salvo il profilo risarcitorio).

L'ordinanza interlocutoria Sez. Un., n. 297 del 2013, est. Di Palma, ha sentito l'esigenza di approfondire (in una vicenda relativa alla revoca di amministratori della società mista Dolomiti Bus s.p.a.) tutti gli aspetti di disciplina delle società di servizi a partecipazione totalitaria o mista, specie quanto ai servizi pubblici locali; nonché la norma dell'art. 2449 cod. civ, la natura ed i caratteri dei poteri di nomina e revoca, il rapporto dell'ente con gli amministratori e i sindaci nominati. La questione è pendente alle Sezioni unite.

20.3. Le società partecipate fra atto e negozio.

In tema di giurisdizione, è principio costantemente affermato quello che spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto l'interesse legittimo delle parti al corretto svolgimento della fase procedimentale relativa all'attività unilaterale pubblicistica e prodromica alla vicenda societaria, con la quale un ente pubblico delibera di costituire una società, o di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della medesima, o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa; per converso, sono attribuite alla giurisdizione ordinaria le controversie aventi ad oggetto tutti i successivi atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario – dal contratto di costituzione della società, alla successiva attività della compagine societaria partecipata con cui l'ente esercita dal punto di vista sia soggettivo che oggettivo le facoltà proprie del socio (azionista), fino al suo scioglimento – in quanto soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito.

È stato quindi precisato che:

– appartengono alla giurisdizione ordinaria le domande relative alla validità ed efficacia della costituzione della società mista ed all'acquisizione delle azioni della stessa, mentre appartengono al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la procedura di selezione del socio privato, la conseguente aggiudicazione, nonché quella relativa all'affidamento della gestione del servizio (nella specie, idrico, con realizzazione anche delle opere infrastrutturali di acquedotto, fognatura e depurazione) (Sez. Un., ord. n. 21588, Rv. 627436, rel. Di Palma, sulle orme di Sez. Un., n. 30167 del 2011, Rv. 620489);

– rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia diretta alla declaratoria di illiceità dell'oggetto di una società mista pubblico-privata, costituita da un Comune per la gestione del servizio farmaceutico, sia in quanto si assuma violata la regola della procedura di evidenza pubblica (art. 23 bis, comma secondo, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), sia in quanto si denunzi la violazione del divieto per i Comuni con popolazione inferiore a trentamila abitanti di costituire società (art. 15 d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv., con modif., nella legge 30 luglio 2010, n. 122) (Sez. Un., ord. n. 15121, Rv. 626892, rel. Ceccherini);

– spetta al giudice ordinario la controversia sull'illegittimità di un contratto riguardante l'acquisto di un terreno e l'obbligo di realizzarvi un impianto di recupero di rifiuti in vetro, dunque non riconducibile alle procedure di affidamento di pubblici lavori, concluso senza gara pubblica da una società per azioni controllata a maggioranza da due comuni, quotata in borsa, con previsione statutaria di conseguimento di utili da distribuirsi anche ai soci privati e la cui attività è soggetta al rischio di impresa (Sez. Un., ord. n. 17935, Rv. 627255, rel. Ceccherini);

– spetta al giudice ordinario la controversia sulla permanenza o esclusione del socio nell'ambito della società, nel caso del fallimento del medesimo ex art. 2288 cod. civ. (Sez. Un., n. 4217, est. Salvago, non mass.).

In tal modo, dunque, è interpretata dalla S.C. la "scissione" tra il concreto esercizio di potestà autoritative pubbliche nella scelta del partner operativo e la successiva attività negoziale della compagine societaria.

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  • mercato finanziario
  • istituto di credito

CAPITOLO XXI

IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI

(di Francesco Federici )

Sommario

1 I contratti bancari. - 1.1 - 1.2 - 1.3 - 1.4 - 2 I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria. - 2.1 - 2.2 - 2.3

1. I contratti bancari.

Anche nel 2013 non si segnala una produzione copiosa della Corte sui contratti bancari. Cionondimeno pur senza evidenziare novità interpretative, vanno menzionate alcune pronunce, soprattutto in ordine alle conseguenze della nullità dell'applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi e alla condotta richiesta alle parti del rapporto bancario. Deve inoltre segnalarsi l'intervento delle SS. UU. in tema di giurisdizione del giudice italiano su un contenzioso sorto per un conto corrente cointestato presso un istituto di credito austriaco.

1.1.

Iniziando da quest'ultimo tema con la pronuncia a Sez. Un., n. 17863 (Rv. 627212), est. Spirito, è stata riconosciuta la giurisdizione del giudice italiano nell'ipotesi di controversia insorta tra cittadini italiani, tutti residenti in Italia, avente ad oggetto l'appartenenza, totale o parziale, ad uno di essi, delle somme depositate su un conto corrente bancario cointestato presso un istituto di credito austriaco. A tali conclusioni la Corte è pervenuta in applicazione dell'art. 2 del Regolamento del Consiglio CEE 22/12/2000 n. 44, rilevando che l'opposta interpretazione si fondava sulla confusione della ricorrente tra il rapporto interno tra i cointestatari del conto e il rapporto tra questi e la banca (austriaca). Nel caso di specie non vi era discussione sul secondo rapporto, bensì solo sul primo, pacifico poi che con riguardo a questo le parti fossero tutti cittadini italiani e residenti in Italia.

1.2.

Tra le tematiche più ricorrenti delle controversie in materia bancaria rientrano gli effetti della accertata nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi. Sul punto Sez. 1, n. 20688 (in corso di massimazione), est. Lamorgese, ha affermato che in questa ipotesi non è travolto l'intero credito azionato dalla banca in via monitoria, ma la sola parte di esso riguardante gli interessi. Ciò impone al giudice un nuovo ricalcolo degli interessi dovuti, sempre che sussista la prova del credito nella sorte capitale, ciò che può non esserci ogni volta che lo scoperto di conto del correntista, cui corrisponde il credito della banca, trovi causa proprio nel calcolo di interessi con capitalizzazione trimestrale. La pronuncia inoltre ha ribadito l'orientamento ormai costante sull'onere della banca di dare prova del suo credito, a nulla rilevando che gli estratti conto siano stati distrutti dopo un periodo decennale, quando ancora non si era manifestato il nuovo orientamento della giurisprudenza in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi. Ha negato infine la possibilità di ricorrere al criterio equitativo ex art. 1226 cod. civ., che è norma eccezionale, applicabile ai fini della liquidazione del danno, ma non della determinazione del corrispettivo di obbligazioni contrattuali, chiarendo sul punto che in mancanza di riconoscimento dalla controparte di un credito, non vi è neppure la prova dell'an del credito medesimo. E in ordine alla prova del credito questo orientamento trova conferma in Sez. 1, n. 21597 (Rv. 627524), est. Scaldaferri, che ribadisce come nei rapporti bancari in conto corrente, una volta esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultra legali a carico del correntista, la rideterminazione del saldo del conto deve avvenire attraverso i relativi estratti a partire dalla data della sua apertura, così effettuandosi l'integrale ricostruzione del dare e dell'avere, con applicazione del tasso legale sulla base di dati contabili certi in ordine alle operazioni ivi registrate, essendo invece inutilizzabili i criteri presuntivi o approssimativi.

Sez. 1, n. 21466 (Rv. 628028), est. Mercolino, poi, nell'esprimere il medesimo orientamento, chiarisce che la banca, tenuta a dimostrare il suo credito producendo tutti gli estratti conto dall'inizio del rapporto, non può trincerarsi dietro l'assunto che il credito sia stato provato in conseguenza della mera circostanza che il correntista non abbia formulato rilievi in ordine alla documentazione prodotta nel procedimento monitorio, non incidendo quella mancata contestazione sulla necessità di ricostruzione dell'intero rapporto per l'accertata illegittimità del sistema di calcolo degli interessi.

1.3.

Esaminando gli altri temi trattati nel corso del 2013 è di rilievo la Sez. 3, n. 21163 (Rv. 627954), est. Armano, che nel valutare la condotta del dipendente della banca verso il correntista, afferma che viola i principî di correttezza e di buona fede nell'esecuzione del contratto, destinati ad operare anche nella fase di esaurimento di un rapporto contrattuale, il comportamento del dipendente di un istituto di credito che, a conoscenza della chiusura di un rapporto di conto corrente intercorso con un cliente, abbia incassato una somma di denaro esplicitamente versata a copertura di un assegno tratto sul conto ormai chiuso, senza avvisare l'ex correntista che il prenditore non avrebbe mai potuto incassare il titolo, posto che l'istituto, con il quale il conto era ormai estinto, non poteva ricostituire il fondo del conto corrente e pagare l'assegno. In motivazione la Corte osserva che la clausola di buona fede nell'esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire preservando gli interessi dell'altra, da ciò conseguendo che l'inosservanza di tale obbligo costituisce di per sé inadempimento e può comportare la condanna al risarcimento dei danno causalmente relazionato a tale violazione. La pronuncia dunque impone l'obbligo della condotta secondo correttezza e buona fede nella fase esecutiva del rapporto, ex art. 1375 cod. civ., includendo in questo anche la fase terminale del contratto.

Nel solco della imputazione alla banca di una condotta non conforme alle regole della buona fede nell'esecuzione del contratto si pone anche Sez. 6-3, ord. n. 14455 (Rv. 626706), est. Lanzillo, che, trattando di una ipotesi in cui con un semplice telegramma inviato al correntista, contenente un invito generico a regolarizzare una posizione irregolare, ma ciò a fronte di un correntista titolare di più rapporti con il medesimo istituto di credito e senza dunque porre il destinatario del telegramma in condizione di comprendere quale posizione regolarizzare, ha ritenuto di confermare la sentenza di merito, di condanna della banca al risarcimento dei danni per l'elevazione di un protesto per un assegno tratto su conto con disponibilità di fondi per il fido concesso. Nella motivazione la S.C. chiarisce che nulla autorizza un soggetto, legato ad altro da più contratti, a comunicare il suo recesso da uno di essi senza specificare quale, ed inoltre, prosegue la pronuncia, non esiste alcun canone legale interpretativo, che autorizzi a estendere gli effetti del recesso da un singolo rapporto a tutti quelli intrattenuti dal recedente con il destinatario della comunicazione, in mancanza di apposita specificazione.

1.4.

La Corte si è anche occupata della disciplina delle cassette di sicurezza. In particolare Sez. 2, n. 13614 (Rv. 626283), est. Proto, ha affermato che la cointestazione di una cassetta di sicurezza o di un conto corrente bancario autorizza ciascuno degli intestatari all'apertura della cassetta e al relativo prelievo, più in generale al compimento di tutte le operazioni sul conto. Non attribuisce invece al medesimo cointestatario, che sia consapevole dell'appartenenza ad altri degli oggetti custoditi o delle somme risultanti a credito, il potere di disporne come proprietario. In motivazione la sentenza ha spiegato che non deve confondersi la presunzione semplice della contitolarità per quote uguali dei saldi dei correntisti, o dei beni contenuti nella cassetta cointestata, per i quali, come creditori solidali della banca, opera la presunzione di eguali quote ex art. 1298, comma secondo, cod. civ., dal rapporto interno tra i medesimi cointestatari, che invece segue la sua disciplina. Nei suddetti rapporti infatti la titolarità delle somme depositate sul conto o dei beni custoditi nella cassetta è regolata dai titoli facenti capo a ciascun cointestatario, per cui chi non ne è proprietario non può disporne come di cosa propria, discendendone altrimenti una errata e falsa applicazione dell'art. 1854 cod. civ.

Infine, va segnalata Sez. 1, n. 13658 (Rv. 626716), est. Ceccherini, che in tema di esecuzione d'incarichi e in particolare di pagamento di credito confermato ex art. 1530, comma secondo, cod. civ., ai fini della rilevanza dell'operazione nei rapporti tra beneficiario, poi dichiarato fallito, e revocatoria fallimentare, ha statuito che il suddetto pagamento non è configurabile, nei rapporti tra banca e accreditato, come bonifico accreditato su ordine del compratore, ma costituisce adempimento dell'autonoma obbligazione assunta dalla banca con la conferma del credito. Ne consegue che, ove l'accredito sia eseguito su un conto corrente scoperto esistente presso la medesima banca, tra il credito del venditore derivante dal rapporto di conferma ed il suo debito scoperto di conto corrente si ha compensazione parziale, conforme alla previsione dell'art. 56, primo comma, della legge fall., insuscettibile di revocatoria fallimentare. In motivazione la sentenza, dopo aver sottolineato la diffusione di questa forma di pagamento nelle transazioni internazionali, ha evidenziato che la banca mandataria, confermando il credito al beneficiario, assume una obbligazione autonoma rispetto a quella del pagamento del prezzo da parte del compratore, propria e diretta nei confronti del venditore, sorgendo così un debito proprio della banca delegata (mandataria), che può estinguersi solo con l'accredito della somma a seguito della ricezione e verifica dei documenti rappresentativi della merce, senza avere natura solutoria rispetto agli eventuali debiti del beneficiario (poi fallito) nei confronti della banca medesima.

2. I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria.

La produzione giurisprudenziale nel segmento dei diritti del mercato finanziario non è stata copiosa, ma certo importante per alcune pronunce, intervenute a comporre contrasti emersi nell'anno precedente, e comunque utili a puntualizzare la regolamentazione dei rapporti tra investitore e società di intermediazione.

2.1.

Deve innanzitutto segnalarsi l'importante sentenza delle Sez. Un., n. 13905 (Rv. 626684), est. Rordorf, in materia di diritto di recesso accordato all'investitore dall'art. 30 comma sesto del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. Come già riportato nella rassegna del 2012 era stato registrato un contrasto in materia con riguardo alle offerte fuori sede concernente il collocamento di strumenti finanziari.Sez. 1, n. 2065 del 2012 (Rv. 621331) aveva affermato l'inapplicabilità dell'art. 30 ai contratti di negoziazione di obbligazioni, eseguiti in attuazione del contratto-quadro già sottoscritto tra il cliente e l'istituto di intermediazione finanziaria. A favore di questo orientamento militava, secondo la sentenza citata, l'estraneità di tali contratti al cd. "servizio di collocamento", e ciò perché quest'ultimo suppone un accordo tra soggetto emittente e società d'intermediazione che provvede al collocamento, fattispecie dunque distinta dall'acquisto o esecuzione di ordini dell'investitore parte del contratto-quadro; inoltre perché si riteneva che il legislatore avesse limitato la tutela apprestata con il diritto di recesso solo agli investitori raggiunti all'esterno dei locali commerciali del proponente, esposti al rischio di decisioni poco meditate.Sez. 1, n. 4564 del 2012 (Rv. 622119) affermò poi in modo più esplicito che non fosse estensibile alla negoziazione di titoli la nullità disposta dall'art. 30, commi sesto e settimo del d.lgs n. 58 del 1998, applicabile invece alle sole ipotesi di contratti di collocamento di strumenti finanziari e di gestione individuale di portafogli. Sennonché Sez. 3, ordinanza n. 10376 del 2012, ritenendo che vari indici normativi conducessero alla applicabilità del diritto di recesso anche alla ipotesi di sottoscrizione dei contratti-quadro, rimise al Primo Presidente la questione, per l'eventuale assegnazione alle SS. UU. Investite del contrasto, con la pronuncia citata queste hanno sancito che il diritto di recesso accordato all'investitore dal sesto comma dell'art. 30 del d.lgs. n. 58 del 1998, che al settimo comma sanziona con la nullità i contratti in cui quel diritto non sia contemplato, trova applicazione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell'intermediario sia intervenuta nell'ambito di un servizio di collocamento prestato dall'intermediario medesimo in favore dell'emittente o dell'offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio di investimento diverso, ove ricorra la medesima esigenza di tutela. In motivazione le SS. UU. hanno premesso che la questione fosse quella se ritenere operativa la disciplina del recesso per le sole ipotesi previste nell'art. 1, comma quinto, lett. c), del d.lgs. n. 58 del 1998 (ora anche lett. c bis), che menziona i "servizi di collocamento", e dunque ai soli contratti e alle prestazioni strettamente connessi a questo, oppure se la tutela fosse applicabile a qualunque operazione nella quale l'intermediario finanziario fuori della propria sede offra in vendita a clienti non professionali strumenti finanziari, e tra questi anche quelli di negoziazione o di esecuzione enunciati alle lett. a) e b) del medesimo quinto comma dell'art. 1. Analizzando il testo della normativa e valorizzando la ratio legis le SS. UU. hanno ritenuto per un verso che il sintagma "collocamento", nella funzione ad esso attribuita dall'art. 30 cit., non vada tanto assunto nel suo significato strettamente tecnico, relazionandolo solo al servizio di collocamento propriamente detto (che riguarda peraltro prevalentemente il rapporto tra il soggetto emittente o offerente del prodotto finanziario e l'intermediario che si incarica della distribuzione sul mercato), quanto tenendo conto di un significato atecnico, cioè come sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all'investitore di strumenti finanziari <<anche nell'espletamento di servizi d'investimento diversi (negoziazione, esecuzione, ricezione o trasmissione di ordini), se effettuati dall'intermediario al di fuori della propria sede>>. L'ambito applicativo dello ius poenitendi pertanto non troverebbe ragione in specifiche operazioni, ma nel dato oggettivo che un investitore non professionale, presso il cui domicilio si reca il promotore che opera per conto dell'intermediario, acquisti un prodotto non per sua premeditata decisione, ma su sollecitazione del promotore stesso, circostanza che in sé implica la possibilità che l'investitore, colto impreparato, abbia assunto una scelta negoziale non meditata. In tale logica di tutela il diritto di recesso va riconosciuto anche per quelle operazioni di acquisto di strumenti finanziari riconducibili nell'alveo di un contratto-quadro (non invece il contratto quadro in sé), purché offerti e sottoscritti fuori sede.

2.2.

Con la sentenza pronunciata da Sez. 1, n. 21600 (Rv. 628046), est. Mercolino, la Corte si è occupata, in modo articolato, della vendita di un prodotto finanziario, ideato e proposto sul mercato da un istituto di credito sul finire degli anni '90, denominato my way, che, al pari dell'altro prodotto, ideato dal medesimo istituto e denominato 4 you, ha dato origine ad un cospicuo contenzioso. La pronuncia menzionata se ne occupa sotto molteplici profili, come molteplici erano le motivazioni che avevano portato gli investitori a chiederne di volta in volta l'annullamento o la nullità. Innanzitutto, con riferimento alla deduzione di una causa di nullità contrattuale diversa da quella invocata nei gradi di merito la Corte afferma che, allorquando la corrispondente questione non sia stata esaminata né denunciata nelle precedenti fasi di merito, essa non è prospettabile in sede di legittimità, essendone precluso il rilievo d'ufficio dal momento che il potere del giudice deve coordinarsi con i principî desumibili dagli artt. 99 e 112 cod. civ., sicché la pronuncia resta circoscritta alle ragioni di illegittimità denunciate dall'interessato, quando la nullità sia stata prospettata come elemento costitutivo della domanda. Spiega infatti la sentenza che <<ove la parte abbia contestato l'applicazione o l'esecuzione di un atto, la cui validità si ponga come elemento costitutivo della domanda>> la nullità sarà rilevabile in ogni stato e grado del giudizio indipendentemente dalla attività assertiva delle parti; se invece <<sia l'attore a chiedere la dichiarazione d'invalidità di un atto per lui pregiudizievole, la pronuncia del giudice deve essere circoscritta alle ragioni di illegittimità enunciate dall'interessato, non potendo fondarsi su elementi rilevati d'ufficio o tardivamente indicati, dal momento che in tali ipotesi la nullità si configura come elemento costitutivo della domanda che opera come limite alla pronuncia del giudice>>. Nel caso di specie la parte aveva denunciato alcuni profili di nullità del contratto dinanzi al giudice di merito, ma non quelli sulla verifica di meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti dalle parti ai sensi dell'art. 1322 cod. civ., sulla configurabilità di uno squilibrio del rapporto contrattuale, sulla omessa previsione del diritto di recesso ex art. 30 del d.lgs n. 58 del 1998. Di essi invece aveva chiesto l'esame al giudice di legittimità, che ne ha ritenuto l'inammissibilità.

Quanto poi al difetto di chiarezza e comprensibilità delle clausole contrattuali unilateralmente predisposte dalla banca, questa tempestivamente eccepita invocando la disciplina degli artt. 1469 ter, secondo comma e 1469 quater cod. civ. (ratione temporis vigenti), la Corte afferma che il controllo giudiziale sul contenuto del contratto stipulato con il consumatore, pur postulando una valutazione complessiva dei diritti e degli obblighi ivi contemplati, è circoscritto alla componente normativa del contratto stesso, mentre è preclusa ogni valutazione afferente le caratteristiche tipologiche e qualitative del bene o del servizio fornito, o l'adeguatezza tra le reciproche prestazioni, richiedendosi soltanto, alla stregua dell'art. 1469 ter (all'epoca vigente), che l'oggetto del contratto ed il corrispettivo pattuito siano individuati in modo chiaro e comprensibile. In conclusione poi la sentenza, esaminando i dati emergenti, ha riconosciuto la chiarezza e comprensibilità del piano finanziario sottoscritto dalla ricorrente, la natura della operazione concordata, consistente nella erogazione di un finanziamento a lungo termine della banca al cliente per l'acquisto immediato di strumenti finanziari (e non come preteso dalla ricorrente per la realizzazione di un piano di accumulo a scopo previdenziale, non risultante da alcun documento), l'osservanza dei doveri d'informazione previsti dal d.lgs n. 58 del 1998 e del Regolamento Consob (il n. 11522 del 1° luglio 1998 ratione temporis vigente, poi abrogato e sostituito dal n. 16190 del 29 ottobre 2007) per la sua attuazione, la cui violazione non inciderebbe peraltro sulla validità del contratto e sulla declaratoria di nullità, ma solo sulla responsabilità precontrattuale con conseguenze meramente risarcitorie. Ha pertanto rigettato il ricorso.

D'altronde in merito agli obblighi imposti agli intermediari finanziari nella fase precontrattuale valgono anche per questo contratto i principî ormai ben chiariti dalla giurisprudenza. In particolare, l'intermediario deve innanzitutto acquisire ogni notizia ed elemento utile a comprendere le caratteristiche dello strumento finanziario da trattare. È necessario cioè che prima ancora di fornire informazioni al cliente sia lo stesso intermediario a capire di cosa si tratti, e ciò sia in relazione alle qualità generali del prodotto, sia in relazione alla sua specificità rispetto alla prestazione richiesta dal cliente. Trattasi indubbiamente del primo essenziale obbligo dell'operatore finanziario, che nello svolgere una funzione così rilevante nel mercato finanziario "deve" essere in grado di valutare il prodotto stesso, comprendendone caratteristiche oggettive e solidità rispetto al suo emittente, presupposto per valutare a sua volta l'adeguatezza rispetto alle esigenze del cliente-investitore. Sempre nell'alveo della ricezione delle informazioni l'intermediario "deve" acquisire dal cliente notizie sulla sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, sulla sua situazione finanziaria, sugli obiettivi d'investimento, sulla propensione al rischio. Infine, acquisite le notizie sul prodotto e sul soggetto (naturalmente ciò nella complessa organizzazione a disposizione), "deve" fornire al potenziale investitore adeguate informazioni sulle caratteristiche, natura e rischi del singolo prodotto, affinché il cliente sia messo nella condizione di effettuare scelte consapevoli. Solo successivamente "può" consigliare o effettuare l'operazione. È appena il caso di evidenziare che l'obbligo informativo nei riguardi del cliente non è soddisfatto dalla consegna del documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, poiché tale documento, che pur rientra tra quanto va dato al cliente, è solo finalizzato ad una conoscenza generica della tipologia degli strumenti finanziari, senza tuttavia alcuna attinenza con quella informazione specifica su un determinato strumento, possibile oggetto di negoziazione (artt. 26-28 Regolamento Consob 11522 del 1998, e attualmente gli artt. 39-51 del Regolamento n. 16190 del 2007).

È anche in ragione degli obblighi appena esposti che la giurisprudenza insiste sulla necessità della forma scritta del contratto-quadro, finalizzato all'introduzione di un ulteriore elemento di consapevolezza dell'investitore e dell'intermediario medesimo. Sul punto è intervenuta Sez. 1, n. 7283 (Rv. 626017), est. Rordorf, affermando che in tema di intermediazione finanziaria, ed alla stregua di quanto sancito dall'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, sono nulle, per carenza dell'indispensabile requisito di forma prescritto dalla legge a protezione dell'investitore, le operazioni di investimento compiute dalla banca in assenza del cosiddetto contratto-quadro, senza che sia possibile una ratifica tacita, che sarebbe affetta dal medesimo vizio di forma (su tale principio la Corte ha confermato la sentenza con la quale il giudice di merito non aveva tenuto conto delle note e dei rendiconti inviati dall'istituto di credito alle parti, e mai contestate dai clienti, da ciò l'istituto volendo dedurre la ratifica del contratto).

2.3.

Per concludere deve segnalarsi la pronuncia della Sez. 2, n. 2736 (Rv. 625071 e 625072), est. Giusti, che, nel trattare una controversia generata dalla applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie ad una società di intermediazione finanziaria per violazione dell'art. 99, comma 1, lett. a) del d.lgs n. 58 del 1998, si è diffusa sullo schema del contratto d'investimento e sulla natura del "prodotto finanziario", affermando che la nozione di contratto di investimento costituisce uno schema atipico, che comprende ogni forma di investimento finanziario, ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett u) del d.lgs. 58 del 1998. Ciò è il riflesso della natura aperta e atecnica di "prodotto finanziario", la quale rappresenta la risposta alla creatività del mercato ed alla molteplicità degli strumenti offerti dal pubblico, nonché all'esigenza di tutela degli investitori, in maniera da permettere la riconduzione nell'ambito della disciplina di protezione anche delle operazioni innominate.

Partendo da tale ricostruzione la pronuncia ha statuito che l'investimento di natura finanziaria comprende ogni conferimento di una somma di danaro da parte del risparmiatore con una aspettativa di profitto o remunerazione o utilità, unita ad un rischio, a fronte delle disponibilità impiegate in un dato intervallo temporale. Ne consegue che è configurabile come prodotto finanziario, con correlata applicazione della disciplina in materia di sollecitazione all'investimento, il contratto con cui una società proponga al pubblico il "blocco" di una somma per un anno in prospettiva di un guadagno mediante un meccanismo negoziale consistente nella consegna in affidamento all'investitore di un diamante del valore ipotetico di mille euro, chiuso in un involucro sigillato, contro il versamento in denaro di un identico importo, con l'impegno di una società di riprendersi il prezioso dopo dodici mesi e di restituire il capitale maggiorato di ottanta euro, senza alcun'altra prestazione a carico dell'investitore, prevalendo in detta operazione gli elementi del credito fruttifero e della garanzia rispetto a quella della custodia, e sussistendo altresì il "rischio emittente" legato all'incertezza sulla capacità della società di restituire il tantundem con l'incremento promesso.

In motivazione la Corte è attenta nel distinguere la fattispecie portata alla sua attenzione dallo schema negoziale del contratto di vendita del diamante con patto unilaterale di retrovendita, così come interpretato dal giudice d'appello, che ne aveva escluso anche la componente di rischio. La ricostruzione offerta invece dalla S.C. è l'indice più significativo della atipicità degli schemi negoziali utilizzati, così come della estrema varietà del prodotto finanziario proposto. Il vaglio attento degli elementi contrattuali è pertanto l'unico strumento per riconoscerne la causa negoziale finanziaria e la componente del rischio dell'operazione.

  • fallimento

CAPITOLO XXII

PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI

(di Massimo Ferro )

Sommario

1 L'estinzione del soggetto societario ed i limiti temporali connessi alla fallibilità. - 2 I rapporti patrimoniali e la posizione del fallito. - 3 I rapporti pendenti. - 4 La prededuzione.

1. L'estinzione del soggetto societario ed i limiti temporali connessi alla fallibilità.

I principali effetti derivanti dal fallimento sulla sfera soggettiva del debitore, tra cui lo spossessamento e la diminuita capacità di agire, hanno rinvenuto una focalizzazione indiretta nell'aggiornato catalogo dei requisiti di fallibilità, riguardati da un punto di vista sostanziale. Così, è stato ribadito che lo scioglimento di società in nome collettivo non comporta né l'estinzione della società stessa, la quale continua ad esistere, sia pure sostituendo lo scopo liquidatorio a quello lucrativo, né lo scioglimento del rapporto sociale inerente i singoli soci, i quali restano, pertanto, illimitatamente responsabili sino alla cancellazione della società dal registro delle imprese, decorrendo solo da tale momento il termine di un anno ex art. 10 legge fall. per la dichiarazione di fallimento in estensione dei medesimi soci, al pari della società [Sez. 1, n. 18964 (Rv. 627399), est. Ceccherini]. La tutela dell'apparenza, quale integrativa della buona fede dei terzi, ha poi trovato specificazione con riguardo al caso della società di fatto emersa nonostante la configurazione siccome individuale dell'impresa, iscritta come tale nel relativo registro: la mancanza di riscontri formali, per sua natura, della società di fatto, fa sì chela cessazione di essa sia opponibile ai terzi creditori, con conseguente inizio della decorrenza del termine annuale di cui all'art. 10 legge fall., dalla data di cancellazione dal registro della impresa individuale, a meno che non si <<dimostri che il vincolo sociale si sia sciolto in data anteriore e che tale circostanza sia stata portata a conoscenza dei terzi creditori con mezzi idonei>> [Sez. 1, n. 16145 (Rv. 626867), est.Scaldaferri].

A sua volta, il limite annuale di cui all'art. 10 legge fall. è rilevabile anche d'ufficio e, per la prima volta, altresì nel giudizio di cassazione, ove non richieda accertamenti di fatto,non operando esso come un termine di prescrizione o decadenza, ma costituendo un limite oggettivo alla dichiarazione di fallimento: la sua funzione non è tanto quella di tutelare i creditori rispetto all'inatteso venire meno della qualifica di imprenditore commerciale nel loro debitore, quanto quella di garantire la certezza delle situazioni giuridiche e l'affidamento dei terzi, altrimenti esposti illimitatamente al pericolo di revocatorie [Sez. 1, n. 8932 (Rv. 625942), est. Di Amato]. La norma, pur ponendo a carico del creditore istante (e tempestivo) il rischio della durata del relativo procedimento, non è stata giudicata in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto: <<a) con riferimento al principio di eguaglianza, il possibile diverso trattamento dei creditori in relazione alla diversa durata del procedimento non discende dal requisito temporale prescritto dalla legge, ma dal concreto svolgersi del procedimento ed è perciò un problema di fatto irrilevante ai fini della legittimità costituzionale della norma; b) con riferimento al diritto di difesa, la previsione di un termine annuale rappresenta il punto di mediazione nella tutela di interessi contrapposti, quali, da un lato, quelli dei creditori, e, dall'altro, quello generale, e non del solo cessato imprenditore, alla certezza dei rapporti giuridici>>.

La limitata ultrattività del soggetto societario estinto è stata poi spiegata da Sez. 1, n. 17208 (Rv. 627095), est. Ceccherini e puntualmente collocata nel solo procedimento per la dichiarazione di fallimento: così, per la società di capitali cancellata dal registro delle imprese, la legittimazione al contraddittorio spetta al liquidatore sociale, poiché, pur implicando detta cancellazione l'estinzione della società, ai sensi dell'art. 2495 cod. civ., la possibilità che entro un anno possa intervenirne il fallimento, in caso di insolvenza manifestatasi anteriormente alla cancellazione o nell'anno seguente, implica lo svolgimento di un contraddittorio nei confronti del soggetto qual era, derivandone che il liquidatore, in tal caso ed anche dopo la cancellazione, è legittimato altresì a proporre reclamo avverso la sentenza di fallimento.

2. I rapporti patrimoniali e la posizione del fallito.

Il ripristino della piena capacità in capo al fallito si connette alla chiusura del fallimento, tale evento privando il curatore della capacità di stare in giudizio, sicché la legittimazione passiva, rispetto ai rapporti processuali pendenti (nella specie, il ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata dopo tale evento), spetta in tal caso alla società tornata in bonis [Sez. 6-5, ord., n. 17008 (Rv. 627104), rel. Bognanni].

Più in generale, per Sez. L, n. 5650 (Rv. 625604), est. Pagetta, in caso di interruzione di diritto del processo, determinata dall'apertura del fallimento, ai sensi dell'art. 43, legge fall. novellato, al fine del decorso del termine per la riassunzione <<non è sufficiente la sola conoscenza da parte del curatore fallimentare dell'evento interruttivo rappresentato dalla dichiarazione di fallimento>>, ma è necessaria anche la conoscenza dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare. La conoscenza deve inoltre essere legale, cioè acquisita non in via di mero fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento che determina l'interruzione del processo, assistita da fede privilegiata.

3. I rapporti pendenti.

La riscrittura normativa del sistema ha spostato l'attenzione sulle singole vicende contrattuali, tra le quali spicca Sez. 1, ord., n. 27111, est. Cristiano, che, per la prima volta affrontando la questione su una procedura aperta dopo la riforma del d.lgs. n. 5 del 2006, rimette alle Sezioni Unite l'interrogativo circa i limiti del potere del curatore di sciogliersi, com'era pacifico in passato, dal contratto preliminare con cui l'imprenditore fallito aveva promesso in vendita un immobile ad un terzo, e ciò anche nel caso in cui il promissario abbia a propria volta trascritto la domanda ex art. 2932 cod. civ. prima del fallimento. Le opzioni individuate, rispettivamente, risalgono all'indirizzo più restrittivo, già posto da Sez. Un., n. 12505 del 2004 (Rv. 574280), in base al quale, in conformità alla tutela pubblicitaria della domanda (diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto), prevale la trascrizione di questa, se anteriore alla dichiarazione di fallimento, ancorchè la sentenza che l'accolga sia trascritta dopo, con preclusione al curatore di apprensione del bene e scioglimento dal contratto.

L'altra tesi che la Sezione Prima si è prospettata – seguita fra le altre da Sez. 1, n. 17405 (Rv. 609475), est. Didone – fa leva sulla efficacia ex nunc della sentenza costitutiva, conseguendone l'effetto traslativo del bene solo dal momento del suo passaggio in giudicato, per cui ben potrebbe il curatore nel frattempo sciogliersi, anche a prescindere dalla preclusione di cui all'art. 45 legge fall., specie se si condivide la portata della potestà del curatore, di non agevole inquadramento come eccezione.

In tema, Sez. Un., ord., n. 17866 (Rv. 627263), rel. Spirito, hanno affermato la giurisdizione del giudice italiano in ordine alla domanda principale, formulata dal curatore di un fallimento apertosi in Italia, avente ad oggetto la legittimità dell'esercizio, da parte di quest'ultimo, della facoltà prevista dall'art. 72 legge fall., alla quale risultavano poi subordinate tutte le altre domande: a norma dell'art. 3, secondo comma, ultima parte, della legge 31 maggio 1995, n. 218, nelle materie escluse dall'ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles 27 settembre 1968, resa esecutiva con la legge 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni, tra le quali ricade la materia fallimentare, la giurisdizione del giudice italiano sussiste infatti in base ai criteri di collegamento stabiliti per la competenza per territorio.

In materia di appalto, lo scioglimento in conseguenza del fallimento dell'appaltatore, a norma dell'art. 81 legge fall., è tuttora – per Sez. 6-1, ord., n. 21411 (Rv. 627933), rel. Scaldaferri – un effetto legale che si produce ex nunc con la sentenza dichiarativa e dunque non può elevarsi a titolo di responsabilità della procedura nei confronti del committente: questi è a sua volta tenuto, a norma dell'art. 1672 cod. civ., al pagamento in proporzione, nei limiti in cui è per lui utile, del prezzo pattuito per l'intera opera, da determinare, specie nel caso in cui il corrispettivo sia stato pattuito a corpo, altresì con il ricorso a criteri equitativi, che il giudice può sempre utilizzare, anche d'ufficio, ove dia conto dei dati obiettivi utilizzati e del processo logico seguito.

L'interferenza con le regole del concorso ha poi riguardato anche la vendita con riserva di proprietà, in caso di fallimento del compratore: per Sez. 2, n. 21388 (Rv. 627969), est. D'Ascola, il venditore può richiedere la restituzione della cosa nell'ipotesi di scioglimento del contratto, sempre che ancora il curatore non si sia avvalso della facoltà di subentro nel rapporto oppure può proseguire l'azione di risoluzione già intrapresa nei confronti dell'acquirente successivamente fallito. La facoltà preclusa al venditore, dopo la dichiarazione di fallimento e se il curatore sia subentrato nel contratto, è invece quella di chiedere la risoluzione dello stesso – ancorché fondata su clausola risolutiva espressa – in ragione del pregresso inadempimento del fallito, tornando ad applicarsi la destinazione del patrimonio di quest'ultimo al soddisfacimento paritario di tutti i creditori, e perciò impedendosi effetti restitutori e risarcitori propri della risoluzione.

Con riguardo al fallimento del locatore, ancora Sez. Un., n. 11830 (Rv. 626185),est.Vivaldi, hanno statuito che, ove si tratti di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza, per il mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di diniego di rinnovazione, ai sensi degli artt. 28 e 29 della legge 27 luglio 1978, n. 392, costituisce un effetto automatico derivante direttamente dalla legge e non da una manifestazione di volontà negoziale. Ne consegue che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dal secondo comma dell'art. 560 cod. proc. civ.

Infine, in materia di rapporti tra fallimento ed arbitrato, è stata affermata da Sez. 1, n. 1543 (Rv. 625114), est. Ferro, la competenza dell'autorità giurisdizionale ed escluso, quindi, il fondamento dell'eccezione di arbitrato, qualora la posizione fatta valere dal curatore non sia strettamente rinvenuta nel patrimonio del fallito (nella specie, per un contratto di appalto contenente clausola compromissoria), bensì abbia carattere autonomo, proprio della rappresentanza della massa (avendo il creditore chiesto l'escussione di crediti inerenti a detto rapporto, ma successivamente oggetto di nuovi negozi, conclusi anche con terzi e ritenuti simulati ovvero revocabili), non potendosi rinvenire quella continuità di funzionamento del meccanismo negoziale presidiato dalla clausola compromissoria, tanto più che il deferimento di una controversia al giudizio degli arbitri comporta una deroga alla giurisdizione ordinaria e, quindi, in caso di dubbio in ordine alla sua portata, deve preferirsene un'interpretazione restrittiva.

4. La prededuzione.

Aggiornando un istituto profondamente incentivato dalle riforme concorsuali più recenti nella legislazione di sostegno all'economia (legge 7 agosto 2012, n. 134 e legge 9 agosto 2013, n. 98), Sez. 1, n. 8533 (Rv. 626127), est. Piccininni, ha specificato che il credito del professionista, sorto a seguito delle prestazioni rese per l'apprestamento del concordato preventivo e per la relativa assistenza al debitore, va soddisfatto in via di prededuzione, ai sensi dell'art. 111, comma secondo, legge fall., che ha portata generale: la norma non prevede ora particolari restrizioni e risponde alla ratio di favorire il ricorso alle procedure concorsuali diverse dal fallimento, senza che, in senso contrario, possa essere invocata la limitazione alla prededucibilità prevista dall'art. 182 quater della legge fall., che regola un ambito autonomo.

La pronuncia si inserisce in un orientamento, riattualizzato da Sez. 1, n. 8534 (Rv. 626163), est. Piccininni, anche per vicende non strettamente regolate dalla riforma del 2005 – 2007, e per il quale le finalità del concordato preventivo (ed anche dell'abrogata amministrazione controllata) non sono solo quelle del recupero aziendale, volgendo il procedimento anche alla soddisfazione dei creditori; ciò permette di reinquadrare il credito dei professionisti che abbiano prestato la loro opera, anche prima dell'entrata in vigore del nuovo art. 111 legge fall., per il risanamento dell'impresa ovvero per prevenirne la dissoluzione, potendosi ad esso riconoscere la prededuzione, almeno quando le relative prestazioni si pongano in rapporto di adeguatezza funzionale con le necessità risanatorie dell'impresa e siano state in concreto utili per i creditori, per aver loro consentito una sia pur contenuta realizzazione dei crediti.

Tra i crediti di gestione, ha trovato collocazione prededotta – per Sez. 1, n. 5705 (Rv. 625445), est. Didone – anche la spesa sostenuta per l'avvenuta bonifica di immobili acquisiti al fallimento: tale esborso arreca un vantaggio alla massa, escludendo che i cespiti, in sede di liquidazione dell'attivo, vengano alienati siccome gravati dall'onere reale di cui all'art. 17, comma 10, del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22; giustifica tale qualificazione del credito,la sussistenza del necessario collegamento occasionale o funzionale con la procedura concorsuale, oggi menzionato dall'art. 111 legge fall., da intendersi non soltanto con riferimento al nesso tra l'insorgere del credito e gli scopi della procedura, ma anche con riguardo alla circostanza che il pagamento del credito, ancorché avente natura concorsuale, rientri negli interessi della massa e dunque risponda agli scopi della procedura, in quanto utile alla gestione.

PARTE SETTIMA IL DIRITTO TRIBUTARIO

  • giurisdizione tributaria
  • IVA
  • imposta di registro
  • dichiarazione d'imposta
  • diritto tributario
  • condono fiscale

CAPITOLO XXIII

IL DIRITTO TRIBUTARIO SOSTANZIALE

(di Giuseppe Dongiacomo )

Sommario

1 Le Sezioni unite: la soluzione di un contrasto - 2 … e l'emersione di un nuovo contrasto: l'art. 391 cod. proc. civ. - 3 Una questione di legittimità costituzionale: l'art. 37 bis, comma quarto, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. - 4 La rimessione alla Corte di giustizia dell'Unione Europea in ordine all'interpretazione degli artt. 18, n. 1, lett. d, e 22 della sesta direttiva 77/388. - 5 La tutela dell'affidamento e della buona fede del contribuente. - 6 L'abuso del diritto: casi e limiti. - 7 Le dichiarazioni tributarie. - 8 Esenzioni e le agevolazioni fiscali. - 9 Il condono. - 10 Gli accertamenti tributari. - 10.1 La competenza territoriale. - 10.2 Gli accertamenti fiscali: le forme. - 10.3 Gli accertamenti fiscali: la motivazione. - 10.4 Gli accertamenti fiscali: la documentazione bancaria. - 10.5 Gli accertamenti fiscali: accessi, ispezioni e verifiche. - 10.6 Gli accertamenti fiscali: le presunzioni e l'onere della prova. - 10.7 Gli accertamenti fiscali: l'elusione fiscale. - 10.8 Gli atti di accertamento: la notificazione. - 11 Il sostituto d'imposta. - 12 Le imposte sui redditi: le plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili. - 13 L'imposta di registro: la qualificazione dell'atto. - 14 L'IVA. - 14.1 Le fatture soggettivamente inesistenti. - 14.2 L'IVA: la detrazione. - 14.3 L'IVA: il credito al rimborso. - 15 Il classamento catastale. - 16 L'imposta di successione. - 17 Le sanzioni amministrative in materia tributaria. - 18 Le imposte doganali. - 19 La Tariffa di igiene ambientale. - 20 La TARSU. - 21 L'ICI. - 22 L'IRAP. - 23 La cd. ecotassa. - 24 La tassa di concessione governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari. - 25 La riscossione delle imposte statali. - 25.1 L'iscrizione a ruolo. - 25.2 La cartella esattoriale: la forma. - 25.3 La cartella esattoriale: la notificazione. - 25.4 La cartella esattoriale: la motivazione. - 25.5 I termini di decadenza. - 25.6 Impugnazione della cartella esattoriale. - 26 La riscossione delle imposte locali. - 27 La prescrizione e la decadenza.

1. Le Sezioni unite: la soluzione di un contrasto

Il contrasto di orientamenti in relazione alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine di sessanta giorni tra il rilascio del verbale di constatazione e la notifica dell'avviso di accertamento, fissato dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, è stato risolto dalle Sezioni unite.

Come è noto, nel corso del 2012, la Sezione tributaria ha espresso sul punto giudizi opposti.

Con la sentenza n. 16992 (Rv. 624093), est. Cicala, ha ritenuto che l'avviso di accertamento è atto a natura vincolata rispetto al verbale di constatazione sul quale si fonda, che la sanzione della invalidità non è espressamente prevista dalla legge e che il contribuente può comunque esercitare il diritto di difesa tanto in via amministrativa con il ricorso all'autotutela, quanto in via giudiziaria, nel termine ordinario previsto dalla legge.

Con la sentenza n. 16999 (Rv. 624094), est. Bognanni,invece, richiamando Corte cost., ord., n. 244 del 2009, è pervenuta alla soluzione opposta, in applicazione degli artt. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000, 3 e 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, 42, commi 2 e 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 56, comma 5, del d.P.R. 26 ottobre 1973, n. 633, aggiungendo che il termine di sessanta giorni deve essere rispettato anche se il contribuente abbia presentato osservazioni prima dello spirare di esso, poiché solo con la sua consumazione viene meno anche la facoltà di esporre osservazioni e richieste all'Ufficio impositore.

Le Sezioni unite, con la sentenza n. 18184 (Rv. 627474), est. Virgilio, hanno risolto il contrasto affermando il principio per cui <<in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 deve essere interpretato nel senso che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni –determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l'illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva>>, aggiungendo, però, che <<il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall'osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all'epoca di tale emissione, deve essere provata dall'ufficio>>.

2. … e l'emersione di un nuovo contrasto: l'art. 391 cod. proc. civ.

La Corte, con ordinanza n. 25139, rel. Virgilio, ha rimesso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite la questione di massima di particolare importanza relativa all'interpretazione dell'art. 391 cod. proc. civ. nella parte in cui, dopo aver previsto che il decreto presidenziale di estinzione del processo abbia efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chieda la fissazione dell'udienza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione, attribuisce alle parti in causa, che non ritengano esaustivo il provvedimento presidenziale di estinzione emanato a seguito della rinunzia, la possibilità di chiedere alla Corte di pronunciarsi sulla controversia con istanza da presentare entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto, evidenziando, con riferimento al termine per la proposizione dell'istanza, che Sez. 3, n. 14858, est. Vivaldi – concernente un caso di decreto di estinzione del giudizio di cassazione per rinuncia – ha ritenuto il termine in esame posto a pena di decadenza, avendo dichiarato inammissibile l'istanza depositata in cancelleria dopo il decorso dei dieci giorni dalla comunicazione del decreto. Invece, ad avviso di Sez. trib., n. 8727 (Rv. 626527), est. Adamo, emessa a seguito di istanza ex art. 391 cod. proc. civ., presentata in relazione a decreto di estinzione del processo in conseguenza di condono della lite fiscale, il termine de quo non ha carattere perentorio, essendosi osservato che la norma, facendo conseguire all'inutile decorso del termine l'acquisizione di "efficacia di titolo esecutivo" al provvedimento presidenziale, va intesa nel senso che quest'ultimo <<non è suscettibile di passare ingiudicato, tranne che per la parte contenente eventuale condanna alle spese avendo tale condanna carattere decisorio e definitivo>> (e poiché nella specie il decreto non conteneva – come per prassi, trattandosi di definizione agevolata della controversia – condanna alle spese, è stata ritenuta ammissibile l'istanza depositata ben oltre dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento).

3. Una questione di legittimità costituzionale: l'art. 37 bis, comma quarto, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

La Sezione Tributaria, con ordinanza n. 24739, rel. Bruschetta, ha sollevato d'ufficio la questione di legittimità costituzionale, rispetto agli artt. 3 e 53 Cost., dell'art. 37 bis, comma quarto, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui tale norma prevede la nullità dell'avviso di accertamento non preceduto, almeno 60 giorni prima, dalla richiesta di chiarimenti con lettera raccomandata al contribuente, sul rilievo che, a fronte dell'esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio generale, ricavabile dalla Costituzione, precisamente dall'art. 53 della stessa, che vieta di conseguire indebiti vantaggi fiscali abusando del diritto (Sez. Un., n. 15029 del 2009; Sez. Un., n. 30057 del 2008; Sez. trib., n. 10807 del 2012; Sez. trib., n. 22932 del 2005; Sez. trib., n. 20398 del 2005), <<la fattispecie antielusiva di cui all'art. 37 bis d.P.R. n. 600 del 1973 si presenta … inevitabilmente, come speciale rispetto a quella più generale del cosiddetto abuso del diritto>>, essendo in entrambi casi il fondamento della ripresa <<costituito da un vantaggio fiscale che, per mancanza di causa economica, diventa indebito. Tuttavia, irrazionalmente, soltanto per la ripresa antielusiva ai sensi dell'art. 37 bis cit. è legge che le forme del preventivo contraddittorio debbano esser seguite sub poena nullitatis>>, rilevando, ad aumentare l'irragionevolezza della misura in parola, <<l'esistenza di altre norme che, nella comune interpretazione, consentono l'inopponibilità di negozi elusivi, ma senza che però vi sia un'analoga previsione di nullità per difetto di forme del contraddittorio>>, quale l'art. 20 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; mentre, nell'interpretazione della giurisprudenza, il giudice deve, anche d'ufficio, quando ritenga sussistenti gli elementi della fattispecie abusiva, far applicazione della ripresa antielusiva, ciò che, <<ovviamente, implica l'impossibilità di ogni preventivo contraddittorio>>.

4. La rimessione alla Corte di giustizia dell'Unione Europea in ordine all'interpretazione degli artt. 18, n. 1, lett. d, e 22 della sesta direttiva 77/388.

Con l'ordinanza interlocutoria n. 25035, rel. Conti, la Corte ha esaminato il meccanismo della c.d. inversione contabile in materia di IVA, regolato dagli artt. 37 ss del D.L. n. 331/1993, conv. con la legge n. 427/1993, rilevando che si tratta di un peculiare sistema di liquidazione dell'imposta che deroga il meccanismo ordinario di detrazione nel quale al versamento dell'IVA da parte del cedente corrisponde il diritto di addebitarla, a titolo di rivalsa, al cessionario. Il sistema dell'inversione contabile, invece, consente al cessionario di far valere immediatamente il proprio diritto di credito attraverso la compensazione tra il debito IVA maturato ed il credito di deduzione sorto, esonerandolo dalla materiale anticipazione monetaria. Il cessionario o committente, però, per compensare l'IVA dovuta con il credito alla detrazione maturato, deve eseguire una doppia iscrizione contabile: il committente, infatti, deve emettere apposita autofattura, con indicazione dell'IVA, da registrare contestualmente sia nel registro delle fatture emesse che in quello degli acquisti. La Corte di Giustizia, con la sentenza Ecotrade, resa in data 8 maggio 2008 nelle cause riunite C-95/07 e C-96/07, ha ritenuto, tra l'altro, che gli artt. 18, n. 1, lett. d), e 22 della sesta direttiva 77/388, ostano ad una prassi di rettifica delle dichiarazioni e di accertamento dell'imposta sul valore aggiunto la quale sanzioni con il diniego del diritto alla detrazione l'inosservanza degli obblighi derivanti dalle formalità introdotte dalla normativa nazionale in applicazione di tale art. 18, n. 1, lett. d), e degli obblighi contabili nonché di dichiarazione risultanti, rispettivamente, dal detto art. 22, nn. 2 e 4, sul rilievo che la detrazione dell'imposta sul valore aggiunto a monte deve essere accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti pur se taluni obblighi formali sono stai omessi dai soggetti passivi.

La Corte di Cassazione ha rilevato che la predetta sentenza è stata oggetto di differenti interpretazioni.

Secondo un primo indirizzo, "ai fini dell'esercizio del diritto alla detrazione è necessario che l'imposta dovuta sia comunque versata, per effetto della prevista iscrizione nel registro delle vendite, perché il contribuente possa, quindi, detrarre l'IVA assolta sull'operazione intracomunitaria dall'ammontare dell'imposta relativa a tutte le operazioni effettuate nell'esercizio dell'impresa" (sent. n. 6925/2013, est. Valitutti): per ottenere il riconoscimento della detrazione è, cioè, necessario il pagamento dell'imposta dovuta, che si realizza con la registrazione delle fatture nel registro delle vendite ed integra l'adempimento degli obblighi sostanziali imposti a livello nazionale ed euro unitario. Ne consegue che il mancato assolvimento degli obblighi di autofatturazione e di registrazione in regime di inversione contabile imposti dalle norme interne e comunitarie impedisce di riconoscere il diritto a detrazione dell'imposta al contribuente che non ha assolto gli obblighi sostanziali di versamento del tributo (in tal senso, sent. n. 20771/2013, est. Perrino, per cui le registrazioni assolvono ad una funzione sostanziale e non meramente formale per cui il mancato assolvimento degli obblighi di autofatturazione e di registrazione in regime di inversione contabile imposti dalle norme interne e comunitarie impedisce di riconoscere il diritto di detrazione dell'imposta).

In altra prospettiva, invece, la Corte ha riconosciuto il diritto a detrazione anche in caso di mancato rispetto, parziale o integrale, degli obblighi di autofatturazione e di registrazione delle fatture nei registri IVA. In particolare, si è ritenuto che gli inadempimenti concernenti gli obblighi formali posti a carico del soggetto passivo ai fini dell'esercizio dei diritti indicati non possono determinare la perdita del diritto stesso (Cass. n. 22250/2011; Cass. n. 10808/2012; Cass. n. 17588/2010, per cui l'adempimento degli obblighi di tenuta, registrazione e conservazione delle fatture, con le modalità, le forme e i tempi stabiliti dal d.P.R. n. 633 del 1972, pur potendo per eventuali violazioni comportare l'applicazione di sanzioni amministrative, non costituisce "conditio sine qua non" per il riconoscimento del diritto alla detrazione dell'imposta, ove si acquisisca, anche altrimenti, la prova certa dell'avvenuto effettivo versamento di quanto dovuto; di recente, Cass. nn. 8038 e 8039 del 2013, est. Conti, che hanno riconosciuto il diritto di detrazione anche in presenza di violazione degli obblighi contabili imposti dalla disciplina interna e comunitaria in tema di inversione contabile).

Peraltro, ha aggiunto la Corte, il contrasto emerso nella giurisprudenza nazionale in ordine alla portata della sentenza Ecotrade rende opportuno un chiarimento di ordine semantico del concetto di "obbligo sostanziale" con specifico riferimento all'ipotesi di c.d. reverse charge, che più volte compare nella versione italiana della predetta sentenza e che, per converso, in altre versioni linguistiche del stessa sentenza viene specificato con espressioni che indurrebbero a pensare al concetto di "requisito" piuttosto che a quello di "obbligo", come "substantive requirements" (nella versione inglese) ed "exigences de fond" (nella versione francese), con la conseguente necessità di chiarire se la Corte abbia inteso far riferimento alla necessità del pagamento del tributo IVA oppure all'assunzione del debito di imposta ovvero ancora all'esistenza delle condizioni sostanziali che giustificano l'assoggettamento del contribuente allo stesse tributo e che disciplinano il diritto alla detrazione volto a salvaguardare il principio di neutralità del detto tributo – di matrice UE – es. inerenza, imponibilità e totale detraibilità.

Nel caso esaminato dalla Corte, una società italiana, beneficiaria di servizi resi da due soggetti stabiliti all'interno della UE, ha, in un caso totalmente omesso di provvedere all'autofatturazione delle prestazioni ed alla iscrizione delle fatture nel registro degli acquisti e delle vendite e, in altro caso, si è limitata ad annotare le fatture nei registri degli acquisti con l'indicazione "fuori campo IVA". L'Amministrazione, dal suo canto, non ha mai contestato né la ricorribilità dei presupposti per ritenere che le fatture rinvenute riguardassero ipotesi di acquisti intracomunitari, né risulta in questa fase e nelle precedenti che l'Ufficio abbia posto in discussione la mala fede della società contribuente.

La Corte, quindi, ritenendo che la soluzione del caso (nel quale la contribuente si è visto negare il diritto alla detrazione in ragione della natura sostanziale degli obblighi previsti dagli artt. 46 e 47 del D.L. n. 331/1993) dipende dall'interpretazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, ha rimesso a quest'ultima, a norma dell'art. 267 del Trattato di funzionamento dell'Unione Europea, le questioni pregiudiziali consistenti, appunto, nello stabilire:

1) se i principi dichiarati dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nella sentenza resa in data 8 maggio 2008 nelle Cause riunite C-95/07 e C-96/07, secondo i quali gli artt. 18, n. 1, lett. d, e 22 della sesta direttiva 77/388, come modificati dalla Dir. 91/680/CEE in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, ostano ad una prassi di rettifica delle dichiarazioni e di accertamento dell'imposta sul valore aggiunto la quale sanzioni un'inosservanza, per un verso, degli obblighi derivanti dalle formalità introdotte dalla normativa nazionale in applicazione di tale art. 18, n. 1, lett. d), e, per altro verso, degli obblighi contabili nonché di dichiarazione risultanti, rispettivamente, dal detto art. 22, nn. 2 e 4, con un diniego del diritto a detrazione in caso di applicazione del regime dell'inversione contabile, siano anche applicabili in caso di totale inosservanza degli obblighi previsti dalla medesima normativa quando non vi è comunque dubbio circa la posizione di soggetto tenuto al pagamento dell'imposta e del duo diritto alla detrazione;

2) se le espressioni obblighi sostanziali, substantive requirements e exigences de fond utilizzate dalla Corte di Giustizia nelle diverse versioni linguistiche della sentenza resa in data 8 maggio 2008 nelle Cause riunite C-95/07 e C-96/07 si riferiscono, rispetto alle ipotesi di c.d. inversione contabile prevista in materia di IVA, alla necessità del pagamento del tributo oppure all'assunzione del debito d'imposta ovvero ancora all'esistenza delle condizioni generali che giustificano l'assoggettamento del contribuente allo stesso tributo e che disciplinano il diritto alla detrazione volto a salvaguardare il principio di neutralità del detto tributo, di matrice euro unitaria – es. inerenza, imponibilità e totale detraibilità -(in tema, cfr. infra, paragr. 14.2).

5. La tutela dell'affidamento e della buona fede del contribuente.

Le decisioni della Corte in ordine all'interpretazione ed all'applicazione della legge 27 luglio 2000, n. 212 hanno riguardato, in particolare, l'ambito di applicazione del principio della tutela dell'affidamento e della buona fede del contribuente, previsto dall'art. 10, ed i limiti alla sua rilevanza in caso di incertezza normativa.

La sentenza n. 9308 (Rv. 626312), est. Botta, ha affermato, in particolare, che tale principio <<trovando origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., espressamente richiamati dall'art. 1 del medesimo statuto, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l'attività legislativa ed amministrativa>>. Nel medesimo contesto può essere ricordata Sez. trib., n. 6627 (Rv. 626056), est. Iofrida, che ha osservato come <<l'Ufficio finanziario, che riceva per errore atti appartenenti alla competenza di altro Ufficio, è tenuto ad inoltrarli a quello competente, trovando applicazione sia le norme sul procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241 del 1990, sia il richiamo alla tutela di buona fede ed affidamento del contribuente ex art. 10 legge n. 212 del 2000: di conseguenza, in difetto di trasmissione dell'istanza (nella specie, di riconoscimento di credito d'imposta, con atto telematico indirizzato non al Centro Operativo di Pescara ai sensi dell'art. 63 della legge n. 289 del 2002, bensì all'Ufficio territoriale di domicilio fiscale del contribuente) all'organo ritenuto competente o di comunicazione al contribuente da parte dell'Ufficio e nell'inerzia dell'Amministrazione finanziaria, il contribuente non ha ragione di dubitare della piena formazione del silenzio-rifiuto e, pertanto, ricorre l'ipotesi prevista dall'art. 19, comma primo, lett. g), del d.lgs. n. 546 del 1992 (possibilità di impugnare il diniego davanti al giudice tributario)>>.

Nel medesimo spirito può essere letta la sentenza n. 453 (Rv. 624728), est. Perrino, per la quale la preclusione fissata dal terzo e dal quarto comma dell'art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che vieta al contribuente di produrre in giudizio elementi a proprio discarico, se non tempestivamente forniti all'amministrazione nel termine assegnatogli, non opera se l'amministrazione non l'abbia previamente avvertito delle conseguenze collegate a tale inottemperanza.

Quanto, invece, all'incertezza normativa oggettiva, quale causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua dell'art. 10, comma terzo, del d.lgs. 27 luglio 2000, n. 212, e dell'art. 8 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la sentenza n. 4522 (Rv. 625683), est. Conti, ha chiarito che deve trattarsi di un condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, ossia insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento di interpretazione, in presenza di pluralità di prescrizioni di coordinamento difficoltoso per via di elementi positivi di confusione, che è onere del contribuente allegare; dette insicurezza ed equivocità, inoltre, vanno riferite non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, o all'Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell'ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di un determinata interpretazione.

Nel medesimo contesto, va ricordata la sentenza n. 14142 (Rv. 627159), est. Greco, che, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie (nella specie, afferenti all'imposta di pubblicità ed affissioni ex art. 12 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507), ha ritenuto come l'art. 6 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, stabilisca una ipotesi di non punibilità, vale a dire l'esclusione dell'applicazione di sanzioni amministrative, per il caso di obiettiva incertezza <<sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono>>, per cui tale previsione, concernente esclusivamente le sanzioni, non tocca l'obbligazione concernente il tributo.

Altro tema affrontato dalla Corte riguarda il diritto del contribuente a presentare osservazioni, previsto dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212, e ribadito, in ambito doganale, sia con la sentenza n. 8060 (Rv. 625893), est. Conti, per la quale <<in tema di rettifica di accertamento per maggiori diritti doganali, allorquando non sia in contestazione la motivazione del provvedimento impugnato, ma soltanto la sua adozione, perché asseritamente non preceduta dal contraddittorio con il destinatario, deve ritenersi tutelato tale diritto –desumibile dall'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 e costituente principio generale del diritto eurounitario ogni qualvolta l'Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo – se sia stata assicurata la partecipazione di quest'ultimo alla contestazione esposta nei suoi confronti avvenuto nel processo verbale di constatazione, per il richiamo espresso al diritto del contribuente a rendere osservazioni nel termine fissato dall'art. 12, settimo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212>>, sia dalla sentenza n. 6621 (Rv. 626116), est. Perrino, per cui <<in materia doganale, il principio del rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente richiamato dal Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913/92 (codice doganale comunitario), si evince dalle previsioni espresse dell'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 e costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogni qualvolta l'Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo (cfr. Corte di Giustizia CE, sent. 18 dicembre 2008, in causa C– 349/07). Ne deriva che la denuncia di vizi di attività dell'Amministrazione capaci di inficiare il procedimento è destinata ad acquisire rilevanza soltanto se, ed in quanto, l'inosservanza delle regole abbia determinato un concreto pregiudizio del diritto di difesa della parte, direttamente dipendente dalla violazione che si sia riverberata sui vizi del provvedimento finale>>.

6. L'abuso del diritto: casi e limiti.

La Corte ha fissato i criteri per individuare i casi di abuso del diritto del contribuente, come la esterovestizione, ossia la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all'estero, rilevando che, in siffatta ipotesi, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento non è necessario accertare la sussistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, occorrendo, invece, verificare se il trasferimento in realtà vi è stato, o no, cioè se l'operazione sia meramente artificiosa, consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica (sentenza n. 2869, Rv. 625687, est. Virgilio).

Il riordino degli assetti societari, invece, costituisce, in linea di principio, l'espressione di insindacabili scelte imprenditoriali.

Tuttavia, il ripianamento delle perdite della partecipata, realizzato dalla società partecipante, per un importo superiore di oltre otto volte il valore della partecipazione e l'immediata successiva cessione di quest'ultima, al valore di quota del patrimonio netto, ad altra società del medesimo gruppo, danno luogo, nel loro complesso, ad un'operazione antieconomica, per la società partecipante, e già astrattamente priva di qualsiasi potenziale idoneità ad incidere positivamente sulla sua capacità di produrre utili, come tale, quindi, nella prospettiva di cui all'art. 75, comma quinto, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo vigente ratione temporis) e rispetto all'attività propria del soggetto che l'ha posta in essere, carente del nesso di inerenza richiesto dalla predetta norma, oltre che qualificabile come condotta integrante un abuso del diritto (sentenza n. 4901, Rv. 625307, est. Cappabianca, in tema di accertamento delle imposte sui redditi d'impresa).

La repressione dell'abuso del diritto può essere rinvenuta anche nel principio affermato dalla sentenza n. 13748 (Rv. 627185), est. Cirillo, con la quale la Corte, in tema di divieto di intermediazione di manodopera, ai sensi dell'art. 1, ultimo comma, della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, nel testo vigente ratione temporis, ha affermato che i prestatori di lavoro occupati in violazione di esso sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'imprenditore appaltante o interponente che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni, ed al quale incombono, oltre che gli obblighi di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, anche gli obblighi fiscali del datore di lavoro, per cui il medesimo soggetto, in ragione di detto rapporto, assume gli obblighi del sostituto d'imposta, di cui all'art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1973 n. 600, per le ritenute d'acconto sulle retribuzioni.

Invece, il compimento da parte del contribuente di un'operazione commerciale fiscalmente vantaggiosa che, in virtù di una norma approvata ma non ancora in vigore, sarebbe divenuta di lì a poco non consentita, non configura un abuso del diritto (sentenza n. 3193, Rv. 625618, est. Cigna, nel caso di una società commerciale, che, pochissimi giorni prima dell'entrata in vigore dell'art. 27 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, il quale introdusse il principio della neutralità fiscale delle operazioni di fusione societaria, aveva incorporato una società controllata senza aspettare il termine di un mese tra pubblicazione del progetto di fusione e delibera di fusione, iscrivendo in bilancio il disavanzo di fusione ed utilizzandolo negli esercizi a seguire per l'iscrizione tra le poste attive di valore in franchigia d'imposta).

7. Le dichiarazioni tributarie.

La Corte ha avuto modo di occuparsi della natura e degli effetti delle dichiarazioni tributarie.

La sentenza n. 1427 (Rv. 625068), est. Conti, ha rilevato che le denunce dei redditi costituiscono, di norma, mere dichiarazioni di scienza e possono, quindi, essere modificate ed emendate in presenza di errori che espongano il contribuente al pagamento di tributi maggiori di quelli effettivamente dovuti.

Tuttavia, quando il legislatore subordina la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà del contribuente, da compiersi direttamente nella dichiarazione attraverso la compilazione di un modulo predisposto dall'erario, la dichiarazione assume per questa parte il valore di un atto negoziale, come tale irretrattabile anche in caso di errore, salvo che il contribuente dimostri che questo fosse conosciuto o conoscibile dall'amministrazione (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva escluso che avesse diritto all'applicazione dell'aliquota ridotta sugli utili d'impresa prodotti dai maggiori investimenti, ai sensi degli artt. 1 e 3 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, c.d. dual income tax, il contribuente che, per errore, non aveva manifestato la volontà di beneficiarne, compilando l'apposito modulo "RC" da allegare alla dichiarazione dei redditi).

In ordine agli effetti, la sentenza n. 1113 (Rv. 624997), est. Crucitti; ha ritenuto che la dichiarazione tributaria è atto direttamente attuativo della legge tributaria e produce di per sé un effetto di liquidazione dell'imposta, rispetto al quale l'eventuale ulteriore liquidazione dell'ufficio, a seguito dell'esercizio del potere di accertamento formale automatizzato ex art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, non innova se non per la correzione degli errori materiali e di calcolo, tanto è vero che il quarto comma dello stesso articolo adotta il principio dell'imputazione diretta della liquidazione al dichiarante.

Le dichiarazioni integrative presentate in base alla legge 30 dicembre 1991, n. 413, quindi, mentre precludono l'accertamento dell'amministrazione finanziaria, a norma dell'art. 57 lasciano salvi gli effetti della liquidazione dell'imposta in base alla dichiarazione a norma degli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Quanto alla forma, l'ordinanza n. 385 (Rv. 624704), rel. Virgilio, ha evidenziato che la procedura di presentazione della dichiarazione in via telematica, prevista dall'art. 3 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, comporta che la dichiarazione e la sua presentazione costituiscano, diversamente dal sistema cartaceo (per il quale vi è una dichiarazione distinta dalla prova del suo invio o della sua presentazione all'Ufficio), un unico, complesso atto, che viene ad esistenza giuridica soltanto con l'invio da parte del contribuente, il quale, quindi, non può addurre dati diversi desunti da una propria dichiarazione cartacea (salvo il caso di errore da lui compiuto nel formare ed inviare la dichiarazione, eventualmente emendabile secondo le regole generali), attesa la irrilevanza di quest'ultima, poiché non costituente copia della dichiarazione presentata all'Ufficio, in quanto l'elaborazione telematica attribuisce certezza (superabile solo con rigorosa prova contraria attinente al sistema informatico di trasmissione dei dati) della conformità del file (contenente la dichiarazione) giunto all'amministrazione a quello inviato dal contribuente.

8. Esenzioni e le agevolazioni fiscali.

Numerose sono state le sentenze pronunciate dalla Corte in tema di esenzioni ed agevolazioni.

In linea generale, la sentenza n. 1427 (Rv. 625068), est. Conti, già citata in precedenza, ha affermato che quando il legislatore subordina la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà del contribuente, da compiersi direttamente nella dichiarazione attraverso la compilazione di un modulo predisposto dall'erario, la dichiarazione assume per questa parte il valore di un atto negoziale ed è, come tale, irretrattabile anche in caso di errore, salvo che il contribuente dimostri che questo fosse conosciuto o conoscibile dall'amministrazione.

Inoltre, per la sentenza n. 8409 (Rv. 626568), est. Botta, la sottoposizione di un atto ad una determinata tassazione, ai fini dell'imposta di registro, con il trattamento agevolato richiesto o comunque accettato dal contribuente, comporta, in caso di decadenza dal beneficio, l'impossibilità di invocare altra agevolazione, nemmeno se richiesta in via subordinata già nell'atto di acquisto, in quanto i poteri di accertamento e valutazione del tributo si esauriscono nel momento in cui l'atto viene sottoposto a tassazione e non possono rivivere, sicché la decadenza dell'agevolazione concessa in quel momento preclude qualsiasi altro accertamento sulla base di altri presupposti normativi o di fatto. (Nella specie, per la S.C. non poteva essere concessa l'aliquota ridotta dell' 8% una volta che i contribuenti erano decaduti dalla agevolazione di cui all'art. 9, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, prevista per le imprese diretto-coltivatrici).

In campo matrimoniale, si segnalano due pronunce: la sentenza n. 14157 (Rv. 627108), est. Bruschetta, ha ritenuto, in tema di imposta di registro relativa ad atti giudiziari, che l'agevolazione di cui all'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, opera con riferimento a tutti i provvedimenti "relativi" al procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio, compresi quelli (nella specie, la divisione giudiziale con attribuzione della casa coniugale in proprietà esclusiva al contribuente) pronunciati fuori dallo stesso, purché rivolti a regolare rapporti economici insorti tra i coniugi a cagione della loro lite matrimoniale; la sentenza n. 16348 (Rv. 627198), est. Sambito, in ipotesi di trasferimento di immobili in aadempimento di obbligazioni assunte in sede di separazione personale dei coniugi, ha ritenuto che l'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (norma speciale rispetto a quella di cui all'art. 26 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 11 giugno 2003, n. 202, 10 maggio 1999, n. 154 e 15 aprile 1992, n. 176, deve essere interpretato nel senso che l'esenzione si estende <<a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi>>, in modo da garantire l'adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli.

In tema di benefici previsti per l'acquisto della prima casa, la sentenza n. 14399 (Rv. 627170), est. Sambito, ha ritenuto, in tema di imposta di registro, che l'art. 2 del d.l. 7 febbraio 1985, n. 12 (convertito nella legge 5 aprile 1985, n. 118), richiede, per la fruizione dei benefici cd. prima casa, previsti in caso di acquisto di immobile in altro Comune, che il compratore vi trasferisca la residenza, rilevante ai fini del godimento dell'agevolazione, entro il termine di diciotto mesi dall'acquisto; detto trasferimento, elemento costitutivo del beneficio richiesto e provvisoriamente accordato, rappresenta un obbligo del contribuente verso il fisco, dovendosi però tenere conto di eventuali ostacoli nell'adempimento di tale obbligazione, caratterizzati dalla non imputabilità alla parte obbligata e dall'inevitabilità ed imprevedibilità dell'evento. Ne consegue che il mancato stabilimento nei termini di legge della residenza non comporta la decadenza dall'agevolazione, qualora tale evento sia dovuto a causa di forza maggiore sopravvenuta rispetto alla stipula dell'acquisto (nella specie, la sospensione dei lavori di ristrutturazione dell'immobile disposta dalla sopraintendenza per la cd. "sorpresa archeologica", cioè il rinvenimento di reperti, impeditivo della prosecuzione dei lavori).

La sentenza n. 14398 (Rv. 627153), est. Sambito, ha, poi, ritenuto che i benefici fiscali previsti per l'acquisto a titolo oneroso della "prima casa", relativi all'imposta di registro, si applicano anche alla sentenza dichiarativa dell'acquisto per usucapione, ove l'immobile sia destinato a prima casa di abitazione, in virtù della previsione di cui all'art. 8, nota II bis, della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, introdotta dall'art. 23, comma secondo, del d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito nella legge 27 aprile 1989, n. 154, che estende ai provvedimenti che accertano l'acquisto per usucapione della proprietà di beni immobili o diritti reali di godimento sui medesimi le disposizioni dell'art. 1 della tariffa.

Sempre in tema di agevolazioni tributarie per l'acquisto della "prima casa", ai sensi del comma quarto, ultimo periodo, della nota II bis all'art. 1 della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, la relativa decadenza è evitata se il contribuente, pur avendo trasferito l'immobile acquistato con i detti benefici prima del decorso del termine di cinque anni dall'acquisto stesso, entro un anno dall'alienazione ne acquisti un altro, da adibire ad abitazione principale; ne deriva che il dies a quo della decorrenza del termine triennale di decadenza del potere dell'Ufficio di recuperare l'imposta nella misura ordinaria va individuato nel giorno di scadenza dell'anno successivo all'alienazione, perché solo allo spirare di tale termine senza avere effettuato un nuovo acquisto il contribuente perde, in via definitiva, il diritto all'agevolazione, provvisoriamente goduta sul primo acquisto (sentenza n. 3783, Rv. 625855, est. Virgilio).

Sul medesimo tema è intervenuta l'ordinanza n. 3749 (Rv. 625409), rel. Virgilio, per cui la previsione del comma quarto, ultimo periodo, della nota II bis dell'art. 1 della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, stabilisce la spettanza delle agevolazioni qualora il contribuente, pur avendo alienato l'immobile entro cinque anni dall'acquisto, nell'anno da tale alienazione, ne acquisti un altro da adibire ad abitazione principale, evidenziando, però, che la lettera e la ratio della disposizione si riferiscono al solo caso in cui il primo acquisto sia stato effettuato in presenza dei requisiti per la fruizione del beneficio e non anche quando per tale primo acquisto questo non spettasse a causa di dichiarazione mendace originariamente o per fatti sopravvenuti, quale la mancata definitiva realizzazione dell'intento di stabilire la propria residenza nel comune di ubicazione dell'immobile.

In tema di agevolazioni d'imposta di carattere territoriale, l'art. 105 del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, come modificato dall'art. 14, comma quinto, della l. 1 marzo 1986, n. 64, ha introdotto l'esenzione totale dall'IRPEG del reddito in favore delle imprese che si costituiscono in forma societaria ed impiantano nuove iniziative produttive nei territori del mezzogiorno; il reddito prodotto concorre, tuttavia, a formare l'utile civilistico di un dato anno d'imposta, per cui, se il periodo chiude in perdita, va esclusa la possibilità che questa sia computata in diminuzione del reddito complessivo per i periodi d'imposta successivi, poiché, ai sensi dell'art. 102 del T.U.I.R. ratione temporis vigente, il riporto delle perdite va diminuito dei proventi esenti da imposta per la parte eccedente i componenti negativi non dedotti. A tale disciplina nulla aggiunge l'art. 5, commi secondo e terzo, della l. 29 marzo 1979, n. 91, di conversione del d.l. 30 gennaio 1979, n. 23, norma di interpretazione autentica con cui si ribadisce che, per l'ipotesi di società che svolga attività in luoghi diversi o più attività, l'esenzione è riconosciuta in funzione del luogo – meridione d'Italia – e della fonte – investimenti produttivi – del reddito prodotto (ed a tal fine è necessaria una contabilità diversificata, ex art. 26, secondo comma, del d.P.R. n. 601 del 1973, che è ripreso dall'art. 5 del d.l. n. 23 del 1979) ma non altera il predetto meccanismo agevolativo, quale sopra enunciato (n. 8970, Rv. 626303, est. Sambito).

Per le agevolazioni riconosciute in relazione all'oggetto dell'atto, come i trasferimenti degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici ed archeologici, va segnalata la sentenza n. 16070 (Rv. 627182), est. Bruschetta, per la quale, in tema di agevolazioni tributarie per l'applicazione dell'aliquota ridotta di cui all'art. 1, n. 1, Parte I, della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, occorre necessariamente che l'immobile trasferito sia tra quelli amministrativamente e formalmente riconosciuti come "bene paesaggistico", in quanto il mero inserimento di una costruzione nel perimetro di un "piano paesistico" non implica di per sé che la stessa abbia le caratteristiche di eccezionale bellezza naturale, idonee, ai sensi degli artt. 33, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 e 76 della legge 28 dicembre 2001, n. 488, alla sottoposizione a "vincolo paesistico".

Quanto alle agevolazioni concesse in ragione della natura del contribuente, la sentenza n. 20249 (Rv. 627686), est. Virgilio, ha ritenuto che l'agevolazione della riduzione alla metà dell'IRPEG sancita per gli "enti ospedalieri" dall'art. 6, primo comma, lett. a), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, espressamente inserita tra quelle di carattere soggettivo, è inapplicabile, pure in via di interpretazione estensiva, alle aziende sanitarie locali costituitesi per effetto del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, non potendo esse, alla stregua del quadro normativo succedutosi nel tempo, equipararsi ai primi, perché assegnatarie, oltre che dell'assistenza ospedaliera, di attività e funzioni nuove e diverse da quelle già di questi ultimi, i quali, peraltro, hanno mantenuto una loro autonomia, o perché costituiti in "aziende ospedaliere" oppure quali "presidi ospedalieri" nell'ambito delle predette A.S.L. Nel medesimo contesto, va ricordata la sentenza n. 3360 (Rv. 625267), est. Iofrida, in tema di imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG), per la quale gli enti di tipo associativo non godono di una generale esenzione da ogni prelievo fiscale, potendo anche le associazioni senza fini di lucro –come si evince dall'art. 111, comma secondo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo applicabile nella specie, ratione temporis) –svolgere, di fatto, attività a carattere commerciale; il citato art. 111, comma primo –in forza del quale le attività a favore degli associati non sono considerate commerciali e le quote associative non concorrono a formare il reddito complessivo–costituisce, d'altro canto, deroga alla disciplina generale, fissata dagli artt. 86 e 87 del medesimo d.P.R., secondo cui l'IRPEG si applica a tutti i redditi, in denaro o in natura, posseduti da soggetti diversi dalle persone fisiche: con la conseguenza che l'onere di provare i presupposti di fatto che giustificano l'esenzione è a carico del soggetto che la invoca, secondo gli ordinari criteri stabiliti dall'art. 2697 cod. civ. (In applicazione di tale principio, la S.C., decidendo nel merito, ha ritenuto le attività di servizio bar e organizzazione di serate danzanti e giochi non rientranti nelle finalità istituzionali, assistenziali e culturali, di un ente non commerciale).

In tema di credito d'imposta riconosciuto per l'incremento dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, secondo i requisiti e per l'ambito territoriale di cui all'art. 4 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, la sentenza n. 17431 (Rv. 627905), est. Perrino, ha ritenuto che la relativa revoca, connessa alla obiettiva riduzione del livello occupazionale raggiunto, opera altresì per le cause non imputabili né alla volontà del datore di lavoro, né a quella del prestatore, per cui è legittima detta revoca nell'ipotesi di sospensione dei lavori della stazione appaltante, tenuto conto che non integrando essa causa di forza maggiore né determinando cessazione dell'attività di impresa, il licenziamento dei dipendenti neoassunti va ricondotto ad una libera scelta del datore di lavoro.

La Corte, poi, ha ritenuto che il credito d'imposta, accordato dall'art. 8 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 all'imprenditore che abbia effettuato nuovi investimenti nelle aree svantaggiate ivi descritte, non è concepito come beneficio di carattere soggettivo assoluto, e, pertanto, in caso di cessione d'azienda esso si trasferisce al cessionario, al pari di ogni altro credito relativo all'esercizio dell'impresa; invero lo stesso art. 8, comma 7, individua i casi di decorrenza o rideterminazione dell'agevolazione solo con riguardo all'oggettiva utilizzazione anomala dei beni acquistati ai fini dell'impresa (sentenza n. 3202, Rv. 625617, est. Cappabianca).

Nello stesso senso ha opinato la sentenza n. 3342 (Rv. 625263), est. Chindemi, per cui, in caso di cessione d'azienda, il credito d'imposta di cui all'art. 4 della legge n. 449 del 1997, concesso per l'incremento della base occupazionale alle piccole e medie imprese, per la parte già maturata, ma non ancora utilizzata dal cedente l'azienda, è trasferibile alla società –qualora quest'ultima prosegua la stessa attività –succeduta nella titolarità della stessa azienda, verificandosi una continuità anche fiscale tra le due aziende, come previsto dagli artt. 2559 cod. civ. e 58 del d.P.R. n. 917 del 1986.

La sentenza n. 7706 (Rv. 626121), est. Sambito, ha, infine, ritenuto che, nel caso in cui il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito di imposta, l'azione volta al relativo recupero è sottoposta all'ordinario termine di prescrizione decennale, sulla cui decorrenza non incidono né il limite temporale stabilito per il controllo formale o cartolare delle dichiarazioni e la liquidazione delle somme dovute, ai sensi dell'art. 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, né i limiti alla proponibilità della relativa eccezione, posti dall'art. 2, comma 58, della legge 24 dicembre 2003, n. 350: la prima disposizione è volta, infatti, ad imporre un obbligo dell'Amministrazione finanziaria, senza stabilire un limite all'esercizio dei diritti del contribuente, mentre la seconda contiene un mero invito rivolto agli uffici, non suscettibile di applicazione diretta da parte del giudice.

Interessanti, poi, sono due sentenze che hanno escluso la sussistenza di esenzioni fiscali.

La sentenza n. 4144 (Rv. 625250), est. Botta, ha affermato che l'Ospedale "Bambin Gesù" di Roma, il quale manca di autonoma personalità giuridica e configura un'entità patrimoniale della Santa Sede, pur trovandosi in un immobile che gode della extraterritorialità, fa parte del territorio dello Stato italiano ai sensi dell'art. 15, primo comma, del Trattato lateranense dell'11 febbraio 1929, non avendo esso sede nel territorio dello Stato della Città del Vaticano, né ponendosi l'attività di assistenza ospedaliera ivi svolta –al pari di analoghe attività svolte da enti ecclesiastici gestori di case di cura –in diretto collegamento funzionale con gli scopi istituzionali e con i compiti primari di religione e culto propri della Chiesa cattolica o con l'esercizio di funzioni sovrane pari a quelle di uno Stato.

La sentenza n. 4885 (Rv. 625448), est. Greco, ha ritenuto che l'esenzione da ogni imposta, prevista dall'art. 3 d.lgs. lgt. 28 settembre 1944, n. 359, in favore dell'Accademia Nazionale dei Lincei, non può essere fatta valere in riferimento all'ICI, in quanto il carattere della disciplina dell'imposta ed il sistema delle esenzioni, nel testo applicabile ratione temporis, inducono a ritenere che l'elenco di cui all'art. 7 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e successive modificazioni, sia esaustivo e quindi incompatibile, alla stregua dell'art. 15 delle preleggi, con l'esenzione personale riconosciuta dall'art. 3 del d.lgs. lgt. n. 359 del 1944, da ritenersi sul punto tacitamente abrogato.

Infine, deve essere ricordata la sentenza n. 21527 (in corso di massimazione), est. Sambito, per la quale l'art. 1, comma 5, della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, introdotto dal d.l. n. 669 del 1996, art. 3, comma 14, conv. nella legge n. 30 del 1997, a norma del quale va applicata l'aliquota dell'1% <<se il trasferimento avente per oggetto fabbricati o porzioni di fabbricato è esente dalla imposta sul valore aggiunto ai sensi del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10, comma 1, numero 8 bis, ed è effettuato nei confronti di imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale della attività esercitata la rivendita di beni immobili, a condizione che nell'atto l'acquirente dichiari che intende trasferirli entro tre anni>>, trova applicazione anche in caso di vendita forzata sempre che, in eccezione rispetto al principio desumibile dall'art. 77 del d.P.R. n. 131 cit., che consente di recuperare un'agevolazione non richiesta al momento dell'imposizione e di rimediare con gli ovvi limiti temporali all'erronea imposizione, l'acquirente renda la richiesta dichiarazione, che attiene ai presupposti dell'agevolazione, prima della registrazione del decreto di trasferimento, che determina l'effetto traslativo della proprietà del bene.

9. Il condono.

La sentenza n. 7701 (Rv. 625809), est. Olivieri, ha ritenuto, in linea generale, che il termine perentorio per la presentazione dell'istanza di condono non ha "natura processuale", in quanto trattasi di atto incidente sul rapporto sostanziale, con la conseguenza che il contribuente non può beneficiare della sospensione legale dei termini durante il periodo feriale.

Sempre in generale, va segnalata la sentenza n. 5865 (Rv. 625842), est. Terrusi, per cui, in materia tributaria, non è ammissibile, di regola, l'applicabilità di un condono ad una controversia relativa a un precedente condono, in quanto la lite fiscale, venendo appunto definita mediante l'applicazione del provvedimento di condono, non può esserlo una seconda volta. Non rientrano, invero, nel concetto di lite pendente ai fini del condono, ai sensi della legge 27 dicembre 2002, n. 289, le controversie che abbiano ad oggetto esclusivamente la liquidazione, senza applicazione di sanzioni, delle dichiarazioni integrative presentate dal contribuente in occasione di un precedente provvedimento di condono, mentre è possibile che, in un momento successivo, insorga nuova controversia sull'applicazione della norma di favore o sui suoi effetti.

La Corte ha, poi, esaminato numerosi casi in cui era in discussione la possibilità di adesione al condono.

E così, con la sentenza n. 5867 (Rv. 625961), Terrusi, la Corte ha ritenuto, in ordine al condono fiscale previsto dall'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che il mancato o insufficiente versamento della prima rata comporta l'inefficacia della definizione ovvero la perdita della possibilità di avvalersi della stessa, a differenza del caso di omesso (o insufficiente) versamento delle rate successive alla prima, soltanto in rapporto al quale – considerandosi la già avvenuta definitiva sostituzione dell'obbligazione assunta dal contribuente, con la presentazione di una domanda di condono implicitamente accettata, all'obbligazione tributaria oggetto della lite pendente – può procedersi ad iscrizione a ruolo (a titolo definitivo) ai sensi dell'art. 14 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, con addebito di una sanzione amministrativa pari al 30 per cento delle somme non versate, ridotta alla metà nel caso di versamento eseguito entro i trenta giorni successivi alla scadenza della rata, oltre agli interessi legali.

In considerazione del fatto che l'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 esclude l'applicabilità del condono per gli atti di liquidazione o le cartelle nel caso in cui si risolvono nell'applicazione "matematica" di imposta certa o comunque facilmente determinabile e che non sia oggetto di alcuna contestazione, nel merito, da parte del contribuente, la sentenza n. 5879 (Rv. 626076), est. Chindemi, ha ritenuto che non si è in presenza di lite pendente, qualora non vi sia contestazione sull'importo di cui all'avviso di liquidazione, ma solamente sulla datio in solutum di beni culturali in pagamento di imposte dovute, avendo il contribuente richiesto il diritto di usufruire dei benefici fiscali spettanti ai sensi dell'art. 36 della legge 31 ottobre 1990, n. 346, per cessione di beni culturali in sostituzione di imposte dovute in dipendenza di successione.

L'art. 9, comma 14, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 preclude la possibilità di fruire del condono fiscale ai contribuenti cui al momento dell'entrata in vigore della legge fosse già stato notificato un avviso di accertamento relativo all'imposta oggetto di definizione, a prescindere da qualsiasi valutazione circa la legittimità di esso; l'accesso al condono, pertanto, resta escluso per i suddetti contribuenti anche quando l'avviso di accertamento sia stato revocato dall'amministrazione in via di autotutela (sentenza n. 3210 Rv. 625332, est. Bruschetta).

La sentenza n. 27163 (in corso di massimazione), est. Greco, ha ritenuto che, con riguardo alla definizione agevolata prevista dall'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, non può ritenersi lite fiscale pendente la controversia introdotta con l'impugnazione di una cartella di pagamento recante le somme dovute a seguito di un avviso di accertamento notificato e non impugnato, che si esaurisce nell'intimazione al versamento della somma dovuta in base all'avviso, non integrante un nuovo ed autonomo atto impositivo ma un atto meramente liquidatorio di una pretesa fiscale ormai definitiva.

La controversia nata dal ricorso del contribuente avverso un avviso di liquidazione di imposta, a seguito dell'attribuzione della rendita ad un immobile non accatastato, per il quale le parti hanno dichiarato, in sede di compravendita, di volersi avvalere del criterio di valutazione automatica di cui all'art. 12 del d.l. n. 70 del 1988 (conv. nella legge n. 154 del 1988), nel caso in cui il ricorso investa anche il provvedimento di classamento, conosciuto solo con la notifica del predetto avviso, ha un duplice oggetto: uno, derivante dall'impugnazione dell'atto impositivo, in relazione al quale si verifica la situazione di "lite fiscale pendente", ai sensi dell'art. 16 della legge n. 289 del 2002, definibile, quindi, in base a tale disposizione, ed un altro, che deriva dalla contestazione del classamento e dei criteri di attribuzione della rendita catastale e che, non avendo ad oggetto una pretesa fiscale, non può essere definito in base alla citata disposizione agevolativa (sentenza n. 14383, Rv. 627158, est. Botta). Per <<lite pendente>>, suscettibile di estinzione attraverso la definizione agevolata di cui alla legge n. 289 del 2002, deve intendersi anche quella introdotta da un ricorso inammissibile od improcedibile, mentre tale non può ritenersi quella introdotta da un ricorso inesistente, perché privo dei requisiti minimi di forma o contenuto (sentenza n. 431, Rv. 624719, est. Perrino).

Relativamente all'accertamento con adesione del contribuente, ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, la sentenza n. 13750 (Rv. 627160), est. Chindemi, ha ritenuto che il pagamento della prima rata e la prestazione della garanzia non costituiscono mera modalità di esecuzione della procedura, ma un presupposto fondamentale e imprescindibile di efficacia della stessa; ne consegue che, quando sia stata omessa la prestazione della garanzia prevista dalla legge, in caso di pagamento rateale, i futuri pagamenti non possono essere rimessi alla sola diligenza del debitore, per cui la procedura non può dirsi perfezionata e permane, nella sua integrità, l'originaria pretesa tributaria oggetto di accertamento, da impugnare in via autonoma.

Ai fini della definibilità delle liti pendenti ai sensi dell'art. 2-quinquies del d.l. 30 settembre 1994, n. 564, convertito nella legge 30 novembre 1994, n. 656, in presenza di una controversia promossa a seguito della liquidazione delle imposte sulla base della dichiarazione del contribuente a norma dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la Corte, con sentenza n. 20467 (Rv. 627609), est. Greco, ha ritenuto che si debba distinguere i casi in cui l'amministrazione abbia esercitato il potere di "controllo formale", relativo alla riscossione nella misura risultante dalla stessa dichiarazione, cui segue effettivamente un'attività di mera liquidazione, dai casi di "rettifica cartolare", cioè di rettifica dei risultati dalla dichiarazione attraverso la correzione di errori materiali e di calcolo, o la esclusione (o riduzione) di scomputi di ritenute, di detrazioni o deduzioni, di crediti d'imposta, casi nei quali si è in presenza di un'attività impositiva vera e propria, rientrante per definizione in quella di accertamento (ancorché più semplice e immediata rispetto alle "verifiche sostanziali"). Solo nella prima ipotesi la lite, concernendo un atto meramente liquidatorio, non rientra tra quelle suscettibili di definizione agevolata, laddove nella seconda ipotesi non vi è ragione di escluderla, in presenza di un atto con il quale, al di là della sua qualificazione formale, l'amministrazione esercita per la prima volta una pretesa sostanzialmente impositiva, in contrasto con quanto evidenziato dal contribuente nella dichiarazione.

Quanto, infine, al condono previsto dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, la sentenza n. 24017 (in corso di massimazione), est. Cigna, ha rilevato che il primo ed il secondo comma dell'art. 16 della legge vanno valutati unitariamente, in quanto entrambi stabiliscono le duplici condizioni necessarie per giungere alla definizione della controversia nel caso in cui sia intervenuto un accertamento in rettifica o d'ufficio; in particolare: il primo comma fissa l'importo minimo dell'imponibile da indicare nella dichiarazione integrativa, importo minimo diverso nell'ipotesi di imponibile originariamente dichiarato dal contribuente (importo che non deve essere inferiore alla somma del sessanta per cento dell'imponibile accertato dall'ufficio e del quindici per cento dell'imponibile dichiarato dal contribuente) rispetto all'ipotesi in cui nella dichiarazione originaria non sono indicati redditi imponibili (importo non inferiore al 60% dell'imponibile accertato dall'ufficio); il secondo comma pone ulteriori condizioni e fissa l'importo minimo dell'imposta conseguente a detto imponibile, per cui, anche nel caso di dichiarazione integrativa che (in ordine all'imponibile) rispetti le condizioni previste dal primo comma, non si ha "in nessun caso" diritto alla definizione della controversia se, nell'ipotesi in cui vi sia stata dichiarazione originaria, calcolando l'imposta rispetto a tale imponibile originariamente dichiarato, l'imposta stessa si viene a ridurre ad un ammontare inferiore al 20% della differenza tra l'imposta corrispondente all'imponibile accertato e l'imposta corrispondente all'imponibile dichiarato (es. imponibile accertato 200; imposta 20; imponibile dichiarato 100; imposta 10; differenza tra imposte: 20 meno 10 uguale 10; 20% di 10 uguale 2; l'imposta deve essere superiore a 2), ovvero se, nell'ipotesi in cui non vi sia stata dichiarazione originaria, l'imposta risultante dalla dichiarazione integrativa è inferiore a quella determinata riducendo l'imponibile accertato dall'Ufficio di un importo pari al 30% (es., imponibile accertato 200; ridotto del 30% uguale 140; corrispondente imposta 14; importo risultante dalla dichiarazione integrativa 100; corrispondente imposta 10; in tal caso la controversia potrà essere definita perché 14 è maggiore di 10). Ne consegue che, nel caso in cui il contribuente, che abbia presentato originariamente la dichiarazione dei redditi senza indicare redditi imponibili, presenti la dichiarazione integrativa ai fini del condono, trova applicazione il primo comma dell'art. 16 della legge 7 agosto 1982, n. 516, e non il secondo comma dello stesso articolo.

10. Gli accertamenti tributari.

10.1. La competenza territoriale.

Dal punto di vista del contribuente, la sentenza n. 2869 (Rv. 625688), est. Virgilio, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 87, comma terzo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (secondo la numerazione vigente ratione temporis, corrispondente all'odierno art. 73, comma terzo, in virtù della riforma introdotta dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344), per il quale, ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d'imposta hanno sede legale o dell'amministrazione ad oggetto principale nel territorio dello Stato, la nozione di "sede dell'amministrazione", in quanto contrapposta alla "sede legale", coincide con quella di "sede effettiva" (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente.

Dal punto di vista dell'amministrazione, la sentenza n. 11170 (Rv. 626921), est. Crucitti, ha affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la competenza territoriale dell'ufficio è determinata dall'art. 31 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, con riferimento al domicilio fiscale indicato dal contribuente, la cui variazione, comunicata nella dichiarazione annuale dei redditi, costituisce pertanto atto idoneo a rendere noto all'Amministrazione il nuovo domicilio non solo ai fini delle notificazioni, ma anche ai fini della legittimazione a procedere, che spetta all'ufficio nella cui circoscrizione il contribuente ha indicato il nuovo domicilio. Tale ius variandi dev'essere peraltro esercitato in buona fede, nel rispetto del principio dell'affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario: pertanto, il contribuente che abbia indicato nella propria denuncia dei redditi il domicilio fiscale in un luogo diverso da quello precedente, non può invocare detta difformità, sfruttando a suo vantaggio anche un eventuale errore, al fine di eccepire, sotto il profilo dell'incompetenza per territorio, l'invalidità dell'atto di accertamento compiuto dall'ufficio finanziario del domicilio da lui stesso dichiarato. Né appare rilevante, data l'unicità del domicilio fiscale, che questo, diverso dalla residenza anagrafica, sia stato dichiarato ai fini di un'imposta diversa (I.V.A.) da quella oggetto di accertamento (I.R.P.E.F.).

10.2. Gli accertamenti fiscali: le forme.

La sentenza n. 17044 (Rv. 627203), est. D'Alonzo, ha ritenuto che l'avviso di accertamento è nullo, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. In caso di contestazione, l'Amministrazione finanziaria non è tenuta a dimostrare la sussistenza della delega, trattandosi di un atto che non attiene affatto alla legittimazione processuale, in quanto l'avviso di accertamento ha natura sostanziale e non processuale. Anche la sentenza n. 1659 (Rv. 625418), est. Olivieri, ha ritenuto che la contestazione della qualità giuridica (qualifica dirigenziale) ovvero la contestazione dei poteri attribuiti al soggetto che ha sottoscritto il provvedimento impositivo, risolvendosi nella eccezione di invalidità dell'atto tributario viziato da carenza di potere, pone a carico dell'eccipiente l'onere di dimostrare la insussistenza della qualità giuridica o del potere rappresentativo in capo al sottoscrittore dell'atto.

La sentenza n. 14942 (Rv. 627193), est. Cirillo, ha ribadito che l'avviso di accertamento è nullo, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, richiamato dall'art. 56 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (che opera un generale rinvio all'art. 1 del cit. d.P.R. n. 600), se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato; in caso di contestazione, però, ha ritenuto che l'Agenzia delle Entrate ha l'onere di dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza di eventuale delega, trattandosi di un documento, se esistente, già in possesso dell'amministrazione finanziaria, mentre la distribuzione dell'onere della prova non può subire eccezioni. Pertanto, non è consentito al giudice tributario attivare d'ufficio poteri istruttori, in ragione del fatto che non sussiste l'impossibilità di una delle parti di acquisire i documenti in possesso dell'altra, mentre le parti possono sempre produrre, anche in appello, nuovi documenti nel rispetto del contraddittorio, ai sensi dell'art. 58, secondo comma, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Il contrasto de quo è stato segnalato dall'Ufficio del Massimario e del Ruolo con la relazione n. 138 del 2013.

10.3. Gli accertamenti fiscali: la motivazione.

In ordine all'obbligo di motivazione dell'avviso di accertamento, la sentenza n. 9582 (Rv. 626327), est. Chindemi, ha affermato che stabilire se, in concreto, la sua motivazione risponda o no ai requisiti di validità – che, in generale, possono riferirsi anche ad elementi extratestuali che il contribuente sia in grado di conoscere – è compito del giudice tributario e non è dato al contribuente, se la decisione è motivata, sollecitare alla Corte di cassazione una revisione critica, salvo che non vengano enunciati ed evidenziati, nel ricorso, specifici errori di diritto in cui il giudice di merito sia incorso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto sufficiente, per un atto di accertamento concernente la vendita di un appezzamento di terreno, il riferimento, oltre che ai valori dichiarati nel triennio per terreni similari, altresì a quelli comunicati dall'Osservatorio prezzi dell'Agenzia del territorio, nonché al valore dichiarato dall'acquirente per l'atto di vendita dello stesso bene a meno di un mese dall'acquisto).

10.4. Gli accertamenti fiscali: la documentazione bancaria.

La sentenza n. 446 (Rv. 624993), est. Cirillo, ha ritenuto che, al fine dell'accertamento della base imponibile (nella specie imposta sul valore aggiunto), è legittima l'utilizzazione, da parte dell'erario, dei movimenti bancari, ancorché senza previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell'accertamento, atteso che la legge tributaria lo prevede come mera facoltà dell'amministrazione tributaria e non già come obbligo. La sentenza n. 11624 (Rv. 626992), est. Cigna, ha aggiunto, in tema di accertamento delle imposte sul reddito, che l'art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui prevede l'invito al contribuente a fornire dati e notizie in ordine agli accertamenti bancari, attribuisce all'Ufficio una mera facoltà, il cui mancato esercizio non determina l'illegittimità della verifica operata sulla base dei medesimi accertamenti, né comporta la trasformazione della presunzione legale posta dalla norma in presunzione semplice, con possibilità per il giudice di valutarne liberamente la gravità, la precisione e la concordanza e con il conseguente onere per il Fisco di fornire ulteriori elementi di riscontro; ciò in quanto, atteso il tenore letterale della disposizione (<<per l'adempimento dei loro compiti gli Uffici possono invitare i contribuenti...>>) e la discrezionalità espressamente prevista, non può ritenersi obbligatoria la convocazione del contribuente in sede amministrativa prima dell'accertamento; né può sostenersi che siffatta discrezionalità violi il diritto di difesa, potendo l'Ufficio procedere al ritiro eventuale del provvedimento, nell'esercizio del potere di autotutela, in caso di osservazioni e/o giustificazioni proposte dall'interessato.

10.5. Gli accertamenti fiscali: accessi, ispezioni e verifiche.

La sentenza n. 4498 (Rv. 625673), est. Terrusi, in tema di accessi, ispezioni e verifiche da parte degli uffici finanziari dello Stato (o della Guardia di finanza, nell'esercizio dei compiti di collaborazione con detti uffici ad essa demandati), ha, infine, ritenuto che l'autorizzazione all'accesso al domicilio privato del contribuente data dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, legittima solo lo specifico accesso in tal senso autorizzato, secondo la stretta interpretazione della norma conseguente alle garanzie per la tutela della libertà personale poste dall'art. 14 Cost.; in base ad essa non è, pertanto, consentito ai citati uffici accedere ad altri luoghi, ove pur si ritenga che il domicilio debba ivi essere individuato in via di fatto. (La S.C., nel ribadire detto principio, ha confermato il difetto della necessaria autorizzazione nel caso di accesso avvenuto presso l'abitazione della convivente del contribuente, essendo il luogo non nominativamente indicato nell'atto del Procuratore della Repubblica).

10.6. Gli accertamenti fiscali: le presunzioni e l'onere della prova.

Innumerevoli sono state le sentenze che, in tema di accertamento fiscale, si sono occupate, specie a fronte dei meccanismi presuntivi previsti dalle norme, della distribuzione dell'onere della prova tra amministrazione e contribuente.

In linea di principio, la Corte ha affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta all'amministrazione finanziaria – nel quadro dei generali principî che governano l'onere della prova – dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi della (maggiore) pretesa tributaria azionata, anche sulla base di presunzioni semplici, purché esse sappiano cogliere il reale senso economico dell'operazione, onde desumerne la ricaduta fiscale (sentenza n. 2908, Rv. 625198, est. Cirillo).

Soccorrono, tuttavia, taluni meccanismi presuntivi. E così, con la sentenza n. 433 (Rv. 624788), est. Perrino, ha Corte ha affermato il principio per cui il titolare di un conto corrente bancario si presume, ai fini fiscali, possessore dei redditi rappresentati dalle somme ivi versate, a nulla rilevando che quelle somme siano di fatto nella disponibilità di un terzo (nella specie, il coniuge del correntista) in virtù di un accordo tra i due che, in quanto costituente una interposizione reale, è inopponibile ai terzi, ivi compreso l'erario. Nello stesso senso ha opinato la sentenza n. 1418 (Rv. 624904), est. Perrino, per cui, in tema di accertamento per l'imposta sul valore aggiunto, la presunzione fissata dall'art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, secondo la quale il contribuente si avvale di tutti i propri conti bancari per le rimesse e i prelevamenti inerenti all'esercizio dell'attività imponibile, può essere superata unicamente con la prova specifica della non imponibilità dei movimenti finanziari, prova che va fornita dal contribuente. (Nella specie, applicando tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva annullato l'avviso di rettifica emesso in base ai movimenti sul conto di un promotore finanziario, dei quali il titolare non aveva provato la riferibilità ad operazioni esenti da imposta).

Inoltre, la sentenza n. 9539 (Rv. 626412), est. Terrusi, ha ritenuto che, in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cosiddetto redditometro, dispensa l'amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all'esistenza dei fattori– indice della capacità contributiva, giacché codesti restano individuati nei decreti medesimi, per cui è legittimo l'accertamento fondato sui predetti fattori– indice, provenienti da parametri e calcoli statistici qualificati, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell'esistenza di quei fattori, l'onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. Nello stesso senso ha, in sostanza, opinato la sentenza n. 11633 (Rv. 626925), est. Virgilio, per cui l'accertamento tributario standardizzato mediante applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente, il quale, in tale sede, ha l'onere di provare, ma senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento ma va integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello standard prescelto e le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate, fermo restando, però, che l'esito del contraddittorio non condiziona l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l'applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa. In tal caso, però, egli ne assume le conseguenze, in quando l'Ufficio può motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli standards, dando conto dell'impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all'invito. (Nella specie, il contraddittorio endoprocedimentale non aveva dato esito positivo, a causa del rifiuto della contribuente di accettare una proposta di riduzione avanzata dall'Ufficio, senza fornire specifiche prove della inapplicabilità dei parametri). Nello stesso senso ha opinato la sentenza n. 6918 (Rv. 625848), est. Valitutti, per la quale, una volta contestata dall'erario l'antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell'economia, incombe sul medesimo l'onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all'accertamento induttivo da parte dell'amministrazione, ai sensi degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972.

Per il resto, come ha evidenziato la sentenza n. 6929 (Rv. 625850), est. Valitutti, il potere di accertamento dell'Ufficio, ai sensi degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 e 3 della legge n. 549 del 1995, una volta che l'amministrazione finanziaria abbia applicato i parametri presuntivi, personalizzati in relazione alla specifica situazione del contribuente, ed abbia soppesato e disatteso le contestazioni proposte da quest'ultimo in sede amministrativa, non può ritenersi condizionato da alcun altro incombente; né tale potere accertativo è impedito dalla regolarità della contabilità tenuta dal contribuente, che non può costituire neppure una valida prova contraria a fronte degli elementi presuntivi desumibili dai parametri suindicati.

10.7. Gli accertamenti fiscali: l'elusione fiscale.

La Corte, con la sentenza n. 449 (Rv. 625134), est. Valitutti, ha ritenuto, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, che la disciplina dell'interposizione, prevista dal comma terzo dell'art. 37 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l'applicazione del regime fiscale costituente il presupposto d'imposta. Ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell'ambito della quale può ricomprendersi l'interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali. (In applicazione del principio, la Corte ha qualificato come elusiva la cessione di un terreno, che il contribuente aveva pochi mesi prima donato ai propri figli, ritenendo applicabile l'art. 37, comma terzo, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, il quale prevede l'imputabilità dei redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, quando il contribuente ne risulti l'effettivo possessore per interposta persona). Quanto, poi, al fenomeno economico del transfer pricing, cioè lo spostamento di imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti,la sentenza n. 10742 (Rv. 626523), est. Bruschetta, sempre in tema di determinazione del reddito di impresa, ha ritenuto che la disciplina di cui all'art. 76, quinto comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non richiede di provare, da parte dell'amministrazione, la funzione elusiva, ma solo l'esistenza di transazioni tra imprese collegate, gravando invece sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 cod. civ., l'onere di dimostrare che tali transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dell'art. 9, terzo comma, del menzionato decreto, secondo cui sono da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati <<in condizioni di libera concorrenza>>, con riferimento <<in quanto possibile>> a listini e tariffe di uso, non escludendosi pertanto l'utilizzabilità, al descritto fine, di altri mezzi di prova.

10.8. Gli atti di accertamento: la notificazione.

La sentenza n. 1440 (Rv. 624960), est. Conti, ha ritenuto che, in tema di notificazione degli atti in materia tributaria, qualora risulti che il contribuente si sia trasferito in località sconosciuta, il messo notificatore, prima di procedere alla notifica ai sensi dell'art. 60, primo comma, lettera e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, deve effettuare ricerche nel comune dove è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso comune; la notificazione ai sensi della predetta disposizione può essere tuttavia ritenuta valida anche nell'ipotesi in cui risulti a posteriori che il trasferimento era intervenuto nell'ambito dello stesso comune, sempre che al momento della notificazione, nonostante le ricerche effettuate nell'ambito dello stesso comune dal messo notificatore (la cui sufficienza va valutata dal giudice di merito con apprezzamento sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo motivazionale), permanessero ignoti il nuovo indirizzo ed il relativo comune per circostanze non addebitabili né opponibili all'Amministrazione, ad esempio, per il decorso di un termine troppo breve tra il trasferimento e la notificazione e/o l'inottemperanza del contribuente agli oneri posti a suo carico dalla disciplina in materia di mutamenti anagrafici. In caso di irreperibilità, la sentenza n. 16696 (Rv. 627074), est. Di Blasi, ha affermato che la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, nel sistema delineato dall'art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, va effettuata secondo il rito previsto dall'art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l'indirizzo del destinatario ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all'art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel Comune dov'è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso Comune, evidenziando che, rispetto a tali principî, nulla ha innovato la sentenza della Corte costituzionale del 22 novembre 2012, n. 258, la quale nel dichiarare in parte qua, con pronuncia di natura "sostitutiva", l'illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente all'attualmente vigente quarto comma) dell'art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ovvero la disposizione concernente il procedimento di notifica delle cartelle di pagamento, ha soltanto uniformato le modalità di svolgimento di detto procedimento a quelle già previste per la notificazione degli atti di accertamento, eliminando una diversità di disciplina che non appariva assistita da alcuna valida ratio giustificativa e non risultava in linea con il fondamentale principio posto dall'art. 3 della Costituzione.

L'erronea indicazione del destinatario dell'atto impositivo e la sua conseguente notificazione (nella specie, alla società conferente l'azienda e già incorporata altra società, nel vigore del precedente testo dell'art. 2504-bis cod. civ.) determinano una nullità, suscettibile, se il soggetto nei confronti del quale il provvedimento doveva essere emanato lo impugna tempestivamente, di sanatoria, la quale opera ex nunc, determinando il venir meno dell'interesse del destinatario a denunciare tale specifico vizio, ma non esplica alcun effetto sui requisiti di validità dell'avviso di accertamento, non potendo quindi impedire il decorso del termine di decadenza previsto dalla legge per l'esercizio della potestà impositiva, eventualmente maturato precedentemente al fatto sanante; tuttavia, tale decadenza dell'Amministrazione finanziaria dal potere di accertamento, non producendo l'inesistenza degli atti impositivi successivamente emanati, va dedotta dal contribuente come specifico vizio nel ricorso introduttivo dinanzi alle commissioni tributarie, dovendo escludersi un potere di declaratoria d'ufficio del giudice (sentenza n. 1088, Rv. 625183, est. Iofrida).

Quanto al luogo in cui provvedere alla notifica, interessante è la sentenza n. 5499 (Rv. 625514), est. Crucitti, con la quale la Corte ha rilevato che l'obbligo per l'Amministrazione di acquisire d'ufficio le informazioni già possedute da altre pubbliche amministrazioni concerne solo, ai sensi del comma quarto dell'art. 6 della legge n. 212 del 2000, lo status del contribuente, mentre il comma uno dello stesso articolo prevede, per la comunicazione degli atti (nella specie, la notifica dell'avviso di accertamento avvenuta presso la sede legale della società e l'abitazione del legale rappresentante), l'onere dell'Amministrazione di ricercare il luogo del domicilio effettivo solo se il contribuente indica le altre amministrazioni in possesso di tali informazioni.

Infine, in caso di notificazione a cittadino non residente nello Stato, la sentenza n. 27154 (in corso di massimazione), est. Greco, ha ribadito il principio per cui <<in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 366 del 2007, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 60, camma 1, lett. c), e) ed f) e dell'art. 58, comma 2, secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, laddove prevedono che le disposizioni contenute nell'art. 142 cod. proc. civ. non si applichino in caso di notificazione di atto impositivo a cittadino italiano avente all'estero una residenza conoscibile dall'Amministrazione finanziaria in base all'iscrizione all'A.I.R.E., deve ritenersi nulla la notificazione di un avviso di accertamento effettuata, ai sensi dell'art. 60, lett. e) cit., mediante deposito dell'atto nella casa comunale del domicilio fiscale, qualora, attraverso le risultanze dell'Albo, sia stata accertata nei confronti del contribuente la variazione anagrafica per trasferimento della residenza all'estero>>.

11. Il sostituto d'imposta.

Interessante è la sentenza n. 3795 (Rv. 625305), est. Conti, per cui, nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono – prima dell'intervenuta abrogazione ad opera dell'art. 85, comma primo, lett. c), del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 – i primi tre commi dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego della manodopera negli appalti di opere e di servizi), la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione dell'ultimo comma dello stesso articolo –secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni – comportano che solo sull'appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell'appaltatore (o interposto) in virtù dell'apparenza del diritto e dell'apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi. Ne consegue che, per tali ipotesi, non è configurabile alcuna violazione del principio di doppia imposizione, sussistendo anche gli obblighi propri del sostituto di imposta e di cui agli artt. 23 del d.P.R n. 600 del 1973 e del d.P.R. n. 602 del 1973 in capo al solo soggetto che si considera appaltante.

I rapporti tra le obbligazioni del sostituto di imposta e quelle del sostituito sono tratteggiati nella sentenza n. 16686 (Rv. 627121), est. Cigna, in cui la Corte ha affermato che sul sostituto d'imposta (nella specie, datore di lavoro) grava una autonoma obbligazione tributaria che ha ad oggetto il versamento (a titolo di acconto) dell'imposta alla fonte: pertanto, se è vero che, nelle ipotesi in cui il sostituto non abbia operato la ritenuta d'acconto e abbia omesso il relativo versamento, il percettore (sostituito) ha l'obbligo di ovviare alla omissione, dichiarando i relativi proventi e calcolando l'imposta sull'imponibile, alla cui formazione quei proventi hanno concorso, siffatto obbligo del sostituito non fa, tuttavia, venir meno il distinto precedente obbligo del sostituto di provvedere al versamento della ritenuta di acconto e la sua legittimazione passiva – in caso di omesso versamento – rispetto all'azione dell'Amministrazione finanziaria tesa al recupero delle somme non versate. Ad evitare l'eventuale duplicazione del prelievo da parte dell'Amministrazione vi è non solo il rimedio della ripetizione di indebito, ma anche, in via preventiva, l'eccezione fondata sull'espresso divieto posto dall'art. 127 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.

12. Le imposte sui redditi: le plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili.

In tema di plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili, la corte ha avuto modo di chiarire, con la sentenza n. 16083 (Rv. 627171), est. Ferro, che l'art. 81, comma primo, lettera a), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nell'assoggettare ad imposizione, tra i redditi diversi, le plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili posti in essere al di fuori dell'esercizio di imprese, individua il presupposto dell'obbligazione tributaria in una fattispecie a formazione progressiva, per il cui perfezionamento è necessario il concorso di due elementi costitutivi, il secondo dei quali è rappresentato dalla vendita del terreno o dell'edificio, mentre il primo si realizza alternativamente mediante la lottizzazione del terreno o l'esecuzione di opere finalizzate a renderlo edificabile. Tale disposizione, diversamente dall'art. 76 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, non pone una presunzione assoluta circa l'intento speculativo della vendita di suoli ancora agricoli che siano stati oggetto di lottizzazione o dell'esecuzione di opere tali da renderli edificabili, ma ancora la plusvalenza all'effettiva sussistenza di un rapporto di causalità tra la maggiorazione del prezzo di vendita per l'alienante e la possibilità per l'acquirente di realizzare opere edilizie in conseguenza della lottizzazione. (Nella specie, il contribuente aveva frazionato il terreno, provvedendo alla vendita dei lotti ad imprenditori o società e per piccole pezzature prive singolarmente di apprezzabile utilizzo in agricoltura, a prezzi elevati, nel frattempo essendo state acquisite le prestazioni del medesimo tecnico in seguito incaricato dal Comune di provvedere alla fase esecutiva del piano urbanistico). Inoltre, con la sentenza n. 20277 (Rv. 627906), est. Ferro, con riferimento alla tassazione delle plusvalenze realizzate mediante la cessione di aree lottizzate edificabili, acquisite già come tali, da parte del futuro cedente, per donazione (o successione), il valore normale dei terreni (o dei fabbricati ivi costruiti), da assumere come prezzo di acquisto ai fini del calcolo della plusvalenza, va determinato con riferimento alla data di inizio della lottizzazione (o delle opere ovvero alla data di inizio della costruzione) ai sensi dell'art. 82, comma 2, secondo periodo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nella formulazione applicabile ratione temporis). Tale norma introduce un criterio di determinazione della plusvalenza che ha carattere autonomo rispetto a quello previsto in via generale dal comma 1 della medesima disposizione; ed ispirato, da un lato, alla introduzione di contemperamenti attenuativi del limite logico dato dal differenziale puro tra prezzo di cessione e valore di costo cui perviene l'operazione di scambio e, dall'altro, alla necessità di selezionare la base impositiva più prossima alla matrice economico-operazionale della formazione del presupposto dell'incremento di valore dei beni. La sentenza n. 7694 (Rv. 626046), est. Bruschetta, ha affermato che <<in tema di tassazione di plusvalenza da cessione di immobile, dichiarata pro quota anche per gli anni successivi all'atto, allorché sopraggiunga lo scioglimento volontario della società di persone contribuente prima dell'esaurimento di detto periodo, si ha nullità della dichiarazione di inizio del periodo di liquidazione presentata ai sensi dell'art. 10, comma 1, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicabile ratione temporis, quando a detto scioglimento non segua la fase di liquidazione e perciò nemmeno la dichiarazione finale di liquidazione ai sensi dell'art. 10, comma 2, del d.P.R. citato; da ciò deriva che il termine perentorio per notificare l'avviso di accertamento, ai sensi dell'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, è quello lungo del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione doveva essere presentata".

13. L'imposta di registro: la qualificazione dell'atto.

Numerose sono le sentenze che si sono occupate della corretta qualificazione dell'atto ai fini della determinazione dell'imposta di registro dovuta. La sentenza n. 10743 (Rv. 626531), Bruschetta, ha affermato che l'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, va interpretato nel senso che deve aversi riguardo agli effetti concreti prodotti dallo stesso, alla sua intrinseca natura, al comportamento delle parti, non essendo nella disponibilità di queste l'identificazione vincolante del negozio mediante l'attribuzione di un nomen iuris che non corrisponda alla sua realtà effettuale. (Fattispecie di conferimento di immobile in società neo-costituita, riqualificato come compravendita). E lo stesso principio è stato affermato con la sentenza n. 9541 (Rv. 626779), est. Greco, per cui, ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro, il criterio di interpretazione degli atti, fissato dall'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, dell'<<intrinseca natura e degli effetti giuridici>>, comporta che, nella qualificazione di un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ed alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali, per cui non è decisiva, in caso di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto. (In applicazione di questo principio la S.C. ha confermato la ritenuta finalità elusiva nel collegamento negoziale fra un contratto di apertura di credito di conto corrente garantito da ipoteca su un immobile ed il successivo conferimento del bene, da parte dei mutuatari e quali soci, in una società a tal fine costituita, con contestuale accollo alla medesima del debito garantito, ai sensi dell'art. 50 del d.P.R. n. 131 del 1986, realizzandosi nella sostanza un trasferimento a titolo oneroso del bene, con elusione dell'imposta di registro, riduttivamente pagato sul valore immobiliare al netto delle passività e degli oneri accollati).

Per distinguere, poi, tra cessione di azienda e trasferimento solo di alcuni beni in essa rientranti, la sentenza n. 10740 (Rv. 626525), est. Bruschetta, ha affermato che non è decisiva la volontà delle parti, peraltro desunta, nella specie, esclusivamente dal "nomen iuris" attribuito all'atto posto in essere, occorrendo invece verificare se, in base agli elementi probatori disponibili, i beni complessivamente ceduti abbiano, o meno, mantenuto carattere autonomo idoneo a consentire l'esercizio dell'impresa, seppure con le integrazioni che il cessionario abbia dovuto eventualmente effettuare.

Negli stessi termini ha opinato la sentenza n. 1405 (Rv. 624932), est. Cirillo, per cui, ai fini dell'imposta di registro, va qualificata come cessione d'azienda il trasferimento contestuale al medesimo soggetto, anche se compiuto attraverso negozi formalmente distinti, di beni idonei, nel loro complesso e nella loro interdipendenza all'esercizio dell'impresa; per contro, sarà soggetta ad IVA, e non all'imposta di registro, la cessione di singoli beni, inidonei da soli a garantire l'attività produttiva dell'impresa.

Lo stesso principio è stato affermato dalla sentenza n. 17965 (Rv. 627610), est. Iofrida, che, in tema di imposta di registro su cessione di azienda agricola, ha ritenuto che l'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, attribuisce prevalenza, nell'interpretazione degli atti rispetto alla loro natura intrinseca ed ai relativi effetti giuridici rispetto al titolo ed alla forma apparente, così vincolando ad assumere in maggior conto il dato economico reale su quelli giuridico-formali enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti; ne consegue che una pluralità di cessioni – nella specie, la prima a titolo gratuito dei beni immobili organizzati per l'attività agricola e la seconda, tre anni dopo e quale compravendita degli immobili del fondo – costituisce fenomeno unitario, anche in conformità al principio generale di divieto di abuso del diritto, di origine comunitaria, ma ricavabile altresì, per i tributi non armonizzati, dai principî costituzionali di capacità contributiva e progressività dell'imposizione derivandone l'applicazione dell'imposta in misura ordinaria.

E tale è stato anche il principio affermato dalla sentenza n. 14150 (Rv. 627127), est. Terrusi, per cui l'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, attribuisce prevalenza, nell'interpretazione degli atti registrati ed ai fini impositivi, alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente; e in tal senso vincola l'interprete a privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti, per cui una pluralità di operazioni societarie e di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre, nella specie, un unico effetto giuridico finale costituito dal trasferimento della proprietà di beni immobili a seguito di conferimento dapprima in una società a responsabilità limitata e poi cessione delle relative quote, va considerata, ai fini dell'imposta di registro, come un fenomeno unitario, in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva e all'evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell'imposta.

Nel medesimo indirizzo si pone la sentenza n. 15319 (Rv. 627196), est. Cappabianca, per cui, in tema di imposte ipotecarie e catastali, la prevalenza che l'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, richiamato dall'art. 13 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, attribuisce, ai fini dell'interpretazione degli atti registrati, alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente, vincola l'interprete a privilegiare il dato giuridico reale dell'effettiva causa negoziale dell'atto sottoposto a registrazione, rispetto al relativo assetto cartolare; la disposizione in esame esprime la precisa volontà normativa di assumere, quale oggetto del rapporto giuridico tributario, gli atti in considerazione non della loro consistenza documentale, ma degli effetti giuridici prodotti, né è incompatibile con la nozione di "imposta d'atto", non ponendosi essa in contrasto con il principio costituzionale sancito dall'art. 23 Cost., o con quello di cui all'art. 41 Cost., mantenendo i soggetti integra la propria autonomia privata, anche nelle ipotesi di collegamento negoziale. (Principio affermato dalla S.C. con riguardo alla successione, in rapida sequenza, di finanziamento alla società contribuente, apporto del patrimonio immobiliare di questa ad un Fondo comune di investimento immobiliare verso accollo liberatorio del finanziamento in capo alla società di gestione del Fondo, attribuzione all'apportante di quote di partecipazione al Fondo per importo di gran lunga inferiore al valore finanziato, cessione delle quote stesse ad altri partecipanti o investitori, tale fattispecie essendo stata apprezzata, legittimamente, come vendita onerosa e dunque base imponibile per la proporzionalità della tassazione dei suoi effetti).

La disposizione – aggiunge la sentenza – disponendo che l'imposta deve essere applicata secondo l'<<intrinseca natura>> e gli <<effetti giuridici>> degli atti assoggettati a registrazione, è norma che, pur essendo ispirata a finalità genericamente antielusive, non configura una <<disposizione antielusiva>>, come, invece, l'art. 37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che è norma generale <<antielusiva>> di chiusura; invero l'art. 20 del d.P.R. n. 131 cit. procede alla ricostruzione dell'obiettiva portata, sul piano degli effetti giuridici, dell'attività negoziale posta in essere, mentre l'art. 37 bis del d.P.R. n. 600 cit. verifica lo sviamento e l'uso distorto di forme negoziali per conseguire indebiti vantaggi fiscali; ne consegue la legittimità dell'avviso di liquidazione pur emesso in assenza del contraddittorio preventivo, prescritto dal solo cit. art. 37 bis.

Il c.d. principio del consolidamento del criterio impositivo preclude, però, all'amministrazione finanziaria, una volta decorso il termine previsto dall'art. 76 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, di procedere ad una diversa qualificazione dell'atto presentato per la registrazione ed esigere di conseguenza una diversa imposta.

Tale principio, però, trova applicazione solo quando, essendo pacifica l'applicabilità dell'imposta di registro, sia in discussione la misura di essa ma non anche quando l'amministrazione finanziaria contesti al contribuente di avere assolto, in relazione all'atto, un'imposta di tipo diverso da quella dovuta. Pertanto, nel caso di vendite contestuali di più beni costituenti un ramo d'azienda, artificiosamente considerati dalle parti come cespiti separati, legittimamente l'ufficio territorialmente competente dell'Agenzia delle entrate contesta al contribuente l'indebita detrazione dell'IVA pagata sulla parte di acquisto non assoggettato all'imposta di registro, a nulla rilevando che il competente ufficio del registro, nel liquidare quest'ultima imposta su quella parte dell'atto qualificata dalle parti come cessione d'azienda, non avesse riscontrato alcun intento elusivo nell'operazione (sentenza n. 1405, Rv. 624930, est. Cirillo).

Quanto al parametro di calcolo dell'imposta, la sentenza n. 21526 (in corso di massimazione), est. Sambito, ha ritenuto che l'accertamento del <<valore venale in comune commercio>>, cui fa riferimento l'art. 51, comma secondo, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non può prescindere dal prezzo effettivo pattuito dalle parti, prezzo che rappresenta, ordinariamente e per sua natura, il valore venale del bene (nel caso esaminato, il venditore, nel trasferire porzione di un suo maggior fondo, aveva dichiarato di ricevere, oltre al prezzo, un <<indennizzo>> per la perdita di valore dell'area residua che l'ufficio ha ritenuto quale parte integrante del prezzo di cessione e sottoposto ad imposta di registro con atto di liquidazione ed irrogazione di sanzioni illegittimamente annullato dalla CTR per non aver specificato le ragioni per le quali la somma ricevuta quale <<indennizzo>> non era stata considerata quale parte integrante del corrispettivo pagato dall'acquirente prezzo artificiosamente occultata dalle parti, tenuto conto del fatto che il preliminare non aveva fatto cenno ad alcun indennizzo, che l'elevato ammontare di tale voce, concordata al momento della compravendita, rendeva inverosimile la pattuizione risarcitori e che la previsione di tale indennizzo era contraria alla norma prassi commerciale).

Quanto, invece, al tema della attribuzione della rendita catastale quale base per la determinazione della base imponibile delle imposte di registro ed INVIM, la sentenza n. 5538 (Rv. 625402), est. Ferro, ha ritenuto che il contribuente può sempre impugnare l'atto di classamento nell'ambito del giudizio di impugnazione dell'avviso di riliquidazione dell'imposta: tuttavia l'avviso di liquidazione (a meno che l'atto di classamento non sia stato autonomamente notificato) deve contenere, a pena di nullità, oltre l'importo del tributo, anche l'indicazione dei dati di classamento e della rendita catastale attribuita dall'UTE; perciò, in questa evenienza, il contribuente ha titolo ad impugnare, nell'ambito del giudizio di impugnazione dell'avviso di liquidazione, anche l'atto di classamento presupposto ed a prospettare censure che, oltre ad investire, per vizi propri, l'avviso di liquidazione, riguardino esclusivamente l'atto presupposto, al fine di dimostrare una valutazione dell'immobile erronea e non conforme ai parametri legali.

Infine, la sentenza n. 8053 (Rv. 626128), est. Sambito, ha ritenuto che, in tema di regime fiscale degli edifici riconosciuti di interesse storico, o artistico ai sensi dell'art. 3 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, la particolare disciplina per la determinazione del reddito prevista dall'art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, ancorché gli immobili siano concessi in locazione, trova applicazione solo nell'ambito della materia per la quale è stata dettata, e cioè per le imposte sui redditi, considerato anche la sua natura derogatoria rispetto al principio generale, stabilito dall'art. 53 Cost., di assoggettamento ai tributi delle manifestazioni della capacità contributiva. Essa non può, pertanto, applicarsi ai fini della determinazione dell'imposta di successione, come anche dell'imposta di registro in occasione del trasferimento di tali beni, della cui assoluta peculiarità il legislatore ha comunque tenuto conto, alla luce dell'art. 9 Cost., prevedendo all'art. 1, comma terzo, della tariffa, parte prima, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, un'aliquota agevolata (e prevedendo analogo beneficio per il venditore di tali immobili ai fini dell'INVIM, all'art. 25, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643).

Interessanti sono, poi, alcune sentenze che si sono occupate dell'imposta di registro da applicare ad atti giudiziari quali, in particolare, la pronuncia ex art. 2932 cod. civ e quella che decide sull'opposizione allo stato passivo.

Quanto alla prima, la Corte, con la sentenza n. 17053 (Rv. 627175), est. Chindemi, ha ritenuto che, qualora il promissario acquirente richieda ed ottenga, ex art. 2932 cod. civ., una sentenza produttiva degli effetti del contratto non concluso di trasferimento oneroso della proprietà di un immobile, la sentenza, ancorché non ancora divenuta definitiva, è legittimamente assoggettata ad imposta proporzionale, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; a sua volta, l'eventuale riforma di detta sentenza non incide sulla legittimità del correlato avviso di liquidazione, ma integra un autonomo titolo per l'esercizio dei diritti di conguaglio o di rimborso.

Quanto alla seconda, la Corte, con la sentenza n. 14146 (Rv. 627109), est. Terrusi, ha ritenuto che la sentenza che, in accoglimento dell'opposizione allo stato passivo, riconosca la natura privilegiata di un credito fatto valere nella procedura fallimentare, e già ammesso in via chirografaria dal giudice delegato, è soggetta ad imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell'art. 8, comma primo, lettera d), della parte I della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131: essa, infatti, incide esclusivamente sul profilo qualitativo del credito, determinando un mutamento della sua posizione nel concorso, in quanto l'ammontare ed il titolo, che rappresentano gli unici aspetti rilevanti ai fini dell'imposta in esame, risultano già determinati per effetto del decreto di ammissione; d'altronde, essendo quest'ultimo assoggettato ad imposta in misura proporzionale, ai sensi dell'art. 8, comma primo, lettera c), di detta tariffa, l'applicazione della medesima disposizione, ovvero di quella di cui all'art. 9 della tariffa, alla sentenza in questione, comporterebbe una duplicazione dell'imposta, in contrasto con i principî costituzionali di eguaglianza e capacità contributiva, oltre che con la funzione dell'imposta di registro, che nella specie assume la natura di corrispettivo per il servizio complesso della registrazione.

14. L'IVA.

14.1. Le fatture soggettivamente inesistenti.

Il tema dell'utilizzo di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti è stato affrontato dalla Corte con la sentenza n. 24426 (in corso di massimazione), est. Virgilio, secondo la quale, nel caso in cui l'amministrazione contesti che la fatturazione attenga ad operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente è stato realmente destinatario), l'esigenza della tutela della buona fede del contribuente, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, comporta che spetta, in primo luogo, all'amministrazione finanziaria, la quale contesti il diritto del contribuente a portare in detrazione l'IVA pagata su fatture emesse da soggetto diverso dall'effettivo cedente del bene o servizio, provare, in base ad elementi oggettivi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l'uso dell'ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l'emissione della relativa fattura, evaso l'imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull'avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente; ove l'amministrazione abbia assolto a tale onere probatorio, passa poi al contribuente l'onere di fornire la prova contraria.

Invece, nel caso di fatturazione per operazione soggettivamente inesistente di tipo triangolare, caratterizzata dalla interposizione di un soggetto italiano (fittizio) nell'acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale cedente) ed un altro soggetto italiano (reale acquirente), il detto onere probatorio dell'amministrazione ben può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all'esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una <<cartiera>>), costituendo ciò, di per sé, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poiché l'immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l'ignoranza incolpevole del contribuente in merito all'avvenuto versamento dell'IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa né assoggettato all'obbligo del pagamento dell'imposta, con la conseguenza che, in tal caso, sarà poi il contribuente a dover provare di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri.

Infine, nel caso di combinazione fraudolenta (nota come <<frode carosello>>) posta in essere per far sì che una stessa operazione, mediante strumentali interposizioni anche di cosiddette società filtro, passi attraverso una catena di soggetti che si avvalgono in vario modo del mancato versamento dell'IVA da parte di un cedente, e caratterizzata, quindi, nei vari passaggi, sia da fatturazioni per operazioni oggettivamente inesistenti, sia da fatturazioni per operazioni solo soggettivamente inesistenti, nonché dal fatto che un singolo operatore, che abbia realmente acquistato la merce da un fornitore formalmente effettivo, sia inconsapevole di essere stato inserito in un circuito fraudolento ideato da altri, spetterà all'amministrazione, in base ai principî sopra enunciati, l'onere di provare gli elementi di fatto che concretizzano la frode, nonché la partecipazione ad essa, o la consapevolezza di essa, da parte del contribuente.

14.2. L'IVA: la detrazione.

La Corte si è occupata di definire i presupposti per la detrazione. Quanto ai requisiti soggettivi ed oggettivi, la sentenza n. 16853 (Rv. 627139), est. Perrino, ha rilevato che l'art. 19, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, consentendo, per le operazioni passive, cioè per i beni o servizi importati o acquistati, al contribuente di portare in detrazione l'imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore o prestatore quando si tratti di acquisto effettuato nell'esercizio di impresa, richiede, oltre alla qualità di imprenditore dell'acquirente, l'inerenza del bene o servizio acquistato all'attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o servizio stesso, ed inoltre non introduce deroga ai comuni criteri in tema di onere della prova, lasciando la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell'interessato, senza che la sussistenza dei predetti requisiti possa presumersi in ragione della sola qualità di società commerciale dell'acquirente. Di rilievo, in argomento, è anche la sentenza n. 16697 (Rv. 627059), est. Conti, per cui, in base alla disciplina dettata dagli artt. 4, secondo comma, n. 1, e 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (ed anche alla luce della sesta direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE), mentre le cessioni di beni da parte di una società di capitali sono da considerare in ogni caso effettuate nell'esercizio di impresa, in ordine invece agli acquisti di beni, ed in generale alle operazioni passive, non è sufficiente, ai fini della detraibilità dell'imposta, che la qualità d'imprenditore societario risulti da elementi meramente formali (quali l'iscrizione nel registro delle imprese e la titolarità della partita IVA), dovendosi altresì verificare in concreto l'inerenza e la strumentalità del bene acquistato rispetto alla specifica attività imprenditoriale, compiuta o anche solo programmata. (Nella specie, una società aveva preso in locazione un complesso immobiliare con imponenti canoni e notevoli costi di ristrutturazione; la S.C., in applicazione del principio di cui alla massima, ha rilevato l'assenza di riscontro sulla congruenza dell'operazione rispetto agli scopi sociali, tanto più che l'obbiettiva sproporzione – e antieconomicità – tra l'operazione commerciale e i proventi astrattamente realizzabili costituiva elemento, utilmente valutabile dall'amministrazione fiscale, per escludere l'esistenza giuridica della società). La sentenza n. 4157 (Rv. 625230), est. Terrusi, infine, ha ritenuto che, in base alla disciplina dettata dagli artt. 1, 4, 17 e 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la qualità di imprenditore societario è condizione unicamente per rendere assoggettabili ad IVA le operazioni attive, mentre la compatibilità con l'oggetto sociale delle spese relative, ad esempio, alla compravendita e/o alla ristrutturazione di immobili costituisce, rispetto alla detraibilità del tributo assolto sulle operazioni passive, elemento puramente indiziario della loro inerenza all'effettivo esercizio dell'impresa, valutabile, pertanto, dal giudice di merito insieme con altre circostanze, idonee a formarne il convincimento circa l'effettiva inerenza delle medesime operazioni passive all'espletamento della progettata attività imprenditoriale, all'interno di un criterio di ripartizione che vede onerata della prova la società.

Quanto ai requisiti formali, la sentenza n. 16341 (Rv. 627068), est. Cigna, ha ritenuto che il titolo necessario per riconoscere il diritto del contribuente alla detrazione è rappresentato dalla presentazione della dichiarazione annuale delle operazioni imponibili, entro il termine di trenta giorni previsto dall'art. 37 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, posto che, a mente di tale disposizione, la dichiarazione presentata con ritardo superiore a trenta giorni costituisce titolo per la riscossione dell'imposta, ma deve considerarsi omessa a tutti gli altri effetti, e quindi anche ai fini del disconoscimento della detrazione.

In caso di mancanza della dichiarazione, la sentenza n. 4531 (Rv. 625450), est. Di Blasi, ha ritenuto che, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 30 e 55 d.P.R. n. 633 del 1972 l'inottemperanza del contribuente all'obbligo della dichiarazione annuale lo espone all'accertamento induttivo, ed esclude implicitamente la possibilità di recuperare il credito maturato in ordine al relativo periodo d'imposta attraverso il trasferimento della detrazione nel periodo d'imposta successivo, a tale riguardo al contribuente pertanto residuando solamente la possibilità di chiederne il rimborso.

La sentenza n. 1441 (Rv. 624952), est. Conti, infine, ha ritenuto che il credito di imposta si collega inscindibilmente alla posizione fiscale di chi lo ha maturato, essendo destinato a divenire uno degli elementi determinanti dell'esistenza e della consistenza del suo debito IVA per l'anno successivo, sicché, in mancanza di specifica richiesta di rimborso, esiste non un diritto di credito, come tale cedibile, ma il diritto ad esercitare, da parte di quel soggetto, la detrazione nell'anno successivo.

Pertanto, è del tutto estranea al sistema applicativo dell'IVA la possibilità che i relativi crediti di un contribuente – per il quale non vi sia stato un consolidamento del diritto al rimborso, conseguente all'esercizio di un'opzione in tal senso ed all'omessa rettifica della dichiarazione entro il termine previsto – possano concorrere alla commisurazione delle detrazioni spettanti, per l'anno successivo, ad un contribuente diverso.

In ambito eurounitario, la sentenza n. 6925 (Rv. 626047), est. Valitutti, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 18, n. 1, lett. d), e 22 della sesta direttiva CE n. 77/388, come modificata dalla direttiva 2000/17 (in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative all'imposta sulla cifra di affari), il principio di "neutralità fiscale" impone che l'inosservanza da parte di un soggetto passivo delle formalità imposte da uno Stato membro non può privarlo del suo diritto alla detrazione dell'IVA – ferma restando l'eventuale sanzione per l'inosservanza di tali obblighi – ove abbia puntualmente osservato gli obblighi sostanziali connessi all'imposta in questione.

In tal senso si pone la sentenza 20771 (in corso di massimazione), est. Perrino, per la quale il mancato assolvimento degli obblighi di autofatturazione e di registrazione in regime di inversione contabile imposti dalle norme interne e comunitarie impedisce di riconoscere il diritto di detrazione dell'imposta.

Di contrario avviso, invece, sono le sentenze nn. 8038 (Rv. 625892) e 8039, est. Conti, che hanno riconosciuto il diritto di detrazione anche in presenza di violazione degli obblighi imposti dalla disciplina in tema di inversione contabile (al riguardo, cfr. § 4).

14.3. L'IVA: il credito al rimborso.

L'art. 69, terzo comma, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 (nel testo applicabile ratione temporis), richiede, affinché la cessione di un credito di un privato verso una P.A. sia efficace nei confronti di quest'ultima, che la stessa risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata da notaio e che il relativo atto sia notificato nei modi di legge, per cui, ove una tale cessione sia realizzata in forme diverse da quelle prescritte dalla citata norma, essa, pur valida nei rapporti tra cedente e cessionario, è inefficace nei confronti della P.A. medesima, salva la facoltà di accettazione. (Così statuendo, la S.C. ha ritenuto non adeguatamente dimostrata, per carenza del corrispondente avviso di ricevimento, la notifica al debitore pubblico, avvenuta tramite il servizio postale, dell'atto notarile di cessione di crediti per rimborsi IVA, né surrogabile la relativa prova con altri mezzi) (n. 5493, Rv. 625398, est. Terrusi)

15. Il classamento catastale.

La revisione del classamento catastale, oltre che in base alla legge del 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, commi 335, 336 e 337, può essere fatta, laddove risulti la manifesta incongruenza tra il precedente classamento dell'unità immobiliare e quello di fabbricati similari aventi caratteristiche analoghe, anche ai sensi dell'art. 3, comma 58°, della legge n. 662 del 1996, a norma del quale <<il comune chiede all'Ufficio tecnico erariale la classificazione di immobili il cui classamento risulti non aggiornato ovvero palesemente non congruo rispetto a fabbricati similari aventi medesime caratteristiche>>, sempre che, trattandosi della revisione di un classamento già attribuito, nel quale è insito un connotato di tendenziale stabilità e sul quale il contribuente è legittimato a fare affidamento, l'atto di rettifica indichi chiaramente le ragioni del mutamento, senza, però, che sia a tal fine necessario che lo stesso contenga, nella motivazione, a pena di nullità, elementi di dettaglio quali la specifica individuazione dei fabbricati similari presi a parametro, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare oggetto del riclassamento, essendo sufficienti, onde consentire al contribuente di conoscere il presupposto del riclassamento e per approntare le proprie consequenziali difese (oltre che per impedire all'amministrazione di addurre in un eventuale contenzioso ragioni diverse rispetto a quelle enunciate), le risultanze della nota del comune posta a base del procedimento di riclassificazione, purché allegata o integralmente riprodotta nell'atto di rettifica, il quale, pertanto, onde rispettare la norma dell'art. 7, comma primo, della legge n. 212 del 2000, non può neppure limitarsi a contenere l'indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall'ufficio ma deve indicare, nella sua motivazione, quale suo imprescindibile requisito di legittimità, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo giustificano (sentenza n. 21532, est. Terrusi, in corso di massimazione).

Sennonché, con ordinanza n. 5784 (Rv. 625909), rel. Cicala,la Corte ha sostenuto che la motivazione del provvedimento di riclassamento di un immobile, già munito di rendita catastale, deve esplicitare se il nuovo classamento sia adottato, ai sensi del comma 336 dell'art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, in ragione di trasformazioni edilizie subite dall'unità immobiliare, recando, in tal caso, l'analitica indicazione di esse; oppure se questo sia stato adottato, ai sensi del comma 335 del medesimo art. 1, nell'ambito di una revisione dei parametri catastali della microzona in cui l'immobile è situato, giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra valore di mercato e valore catastale di questa rispetto all'analogo rapporto nell'insieme delle microzone comunali, recando allora la specifica menzione dei suddetti rapporti e del relativo scostamento; oppure, ancora, se l'atto sia stato emesso ai sensi del comma 58 dell'art. 3 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (conseguente alla richiesta del Comune, formulata all'Agenzia del territorio, di verifica del classamento in essere), in ragione della constatata manifesta incongruenza tra il precedente classamento dell'unità immobiliare e quello di fabbricati similari aventi caratteristiche analoghe, indicando la specifica individuazione di tali fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe, che li renderebbero similari all'unità immobiliare oggetto di riclassamento.

Nello stesso senso ha opinato l'ordinanza n. 10489 (Rv. 626646), rel. Iacobellis, per cui, quando procede all'attribuzione di ufficio di un nuovo classamento ad un'unità immobiliare a destinazione ordinaria, l'Agenzia del Territorio, a pena di nullità del provvedimento per difetto di motivazione, deve specificare se tale mutamento è dovuto a trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione, oppure ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona in cui si colloca l'unità immobiliare, rendendo così possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente.

La motivazione del provvedimento di riclassamento di un immobile già munito di rendita catastale deve esplicitare se il nuovo classamento sia stato adottato, ex comma 336 dell'art. 1 della legge n. 311 del 2004, in ragione di trasformazioni edilizie subite dall'unità immobiliare, recando, in tal caso, l'analitica indicazione di tali trasformazioni, oppure se il nuovo classamento sia stato adottato, ai sensi del comma 335 dell'art. 1 della stessa legge n. 311 del 2004, nell'ambito di una revisione dei parametri catastali della microzona in cui l'immobile è situato, giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra valore di mercato e valore catastale in tale microzona rispetto all'analogo rapporto nell'insieme delle microzone comunali, recando, in tal caso, la specifica menzione dei suddetti rapporti e del relativo scostamento.

Nell'ipotesi in cui il nuovo classamento sia stato adottato, ai sensi del comma 58 dell'art. 3 della legge n. 662 del 1996, in ragione della constatata manifesta incongruenza tra il precedente classamento dell'unità immobiliare ed il classamento di fabbricati similari aventi caratteristiche analoghe, il provvedimento dovrà recare la specifica individuazione di tali fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare oggetto di rilassamento.

Con la sentenza n. 17239 (Rv. 627272), est. Terrusi, la Corte ha ritenuto che, qualora il contribuente abbia dichiarato di volersi avvalere della determinazione automatica del valore di un immobile sulla base della rendita catastale, ai sensi dell'art. 12 del d.l. 14 marzo 1988, n. 70 (conv., con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154), l'attribuzione della rendita da parte dell'Ute innesca un procedimento di valutazione automatica, per cui legittimamente l'ufficio richiede il conguaglio dell'imposta versata con avviso di liquidazione anziché con avviso di accertamento. Ne consegue che, se il contribuente contesta l'atto di attribuzione della rendita catastale, è tenuto ad impugnare tale atto unitamente all'avviso di liquidazione, evocando in giudizio anche l'Ute o l'agenzia del territorio, che tale atto hanno emesso. Questi ultimi, peraltro, non assumono la posizione di litisconsorti necessari nel giudizio di impugnazione dell'avviso di liquidazione, la cui autonomia rispetto all'impugnazione dell'atto di classamento comporta che, alla carente instaurazione del contraddittorio, non può rimediarsi attraverso l'ordine di integrazione ai sensi dell'art. 102 cod. proc. civ.: tra le due cause, infatti, esiste soltanto un vincolo di pregiudizialità logica.

16. L'imposta di successione.

La Corte, con la sentenza n. 2366 (Rv. 625241), est. Crucitti, ha affermato il principio per cui la dichiarazione di successione, siccome dichiarazione di scientia, se affetta da errore (anche non meramente materiale o di calcolo) è emendabile e ritrattabile, anche dopo la notificazione dell'avviso di rettifica e di liquidazione, quando dalla medesima possa derivare l'assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico; infatti, alla luce dei principî costituzionali di capacità contributiva e di buona amministrazione, la predetta notifica opera come mero discrimen ai fini dell'onere probatorio, ma non permette che il sistema legale impedisca al contribuente di dimostrare l'insistenza dei fatti giustificativi del prelievo fiscale. Nello stesso senso ha opinato la sentenza n. 11192 (Rv. 627012), est. Chindemi; per cui, in tema di imposta di successione, il contribuente può procedere alla rettifica di errori di qualsiasi genere, contenuti nella dichiarazione, anche dopo la scadenza del termine per la presentazione, di cui all'art. 31 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, salva, però, l'applicazione delle sanzioni di cui agli artt. 50 e s., e con effetti diversi, a seconda che la modifica abbia luogo prima della notificazione dell'avviso di liquidazione della maggiore imposta, ovvero successivamente alla stessa: nel primo caso, infatti, l'Ufficio è tenuto a rispettare le risultanze della correzione, fermo restando l'esercizio dei suoi poteri in ordine ai valori emendati, ma con onere della prova a carico dell'Amministrazione, mentre, nella seconda ipotesi, pur non potendo considerarsi precluso l'esercizio della facoltà di correzione, quest'ultima, venendo necessariamente ad operare in sede contenziosa, pone a carico del contribuente l'onere di dimostrare la correttezza della modifica proposta. Ne consegue che l'ufficio deve prendere in considerazione la rettifica della dichiarazione, ai fini della liquidazione della predetta imposta, anche quando quest'ultima sia già stata liquidata in base alla dichiarazione originaria, altrimenti spettando tale valutazione al giudice tributario.

Quanto al termine di presentazione della denuncia di successione, la sentenza n. 6940 (Rv. 625510), est. Iofrida; ha evidenziato che la violazione dell'art. 31 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, a norma del quale – nel testo ratione temporis vigente – la denuncia di successione va presentata entro sei mesi dalla apertura della successione, non è più sanzionata specificamente, a meno che non trasmodi in vera e propria omissione, la quale, come si evince dall'art. 33, comma primo, d.lgs. cit., si verifica allorché, scaduto il termine, l'accertamento d'ufficio preceda la dichiarazione del contribuente: l'art. 50 del medesimo d.lgs., come sostituito dall'art. 2, comma primo, lettera d), del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 473, a far data dal 1° aprile 1998, si limita infatti a sanzionare l'omissione della denunzia, mentre l'art. 52 si riferisce al solo pagamento dell'imposta oltre il termine a tal fine stabilito dall'art. 37. Poiché, inoltre, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, applicabile anche ai giudizi in corso alla data del 1° aprile 1998, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile, la nuova disciplina sanzionatoria può essere utilmente invocata anche in riferimento alle violazioni commesse anteriormente alla predetta data.

La sentenza n. 409 (Rv. 625042), est. D'Alonzo, ha, però, rilevato che le "sopravvenienze ereditarie" dalle quali decorre, ai sensi dell'art. 31, lett. f), d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, il termine di dodici mesi per la presentazione della dichiarazione di successione sono rappresentate soltanto dall'acquisto jure haereditario di beni e diritti che, al momento dell'apertura della successione, non facevano parte dell'asse ereditario, ma che vi entrano successivamente in virtù di un titolo riferibile al defunto, mentre non vi rientrano i beni inclusi ab origine nell'eredità e la cui esistenza, ignota all'erede al momento di apertura della successione, venga da questi conosciuta solo successivamente (nella specie, l'amministrazione finanziaria aveva ritenuto tardiva la dichiarazione di parte dell'asse ereditario, ed il contribuente aveva impugnato il provvedimento irrogativo della relativa sanzione allegando che la banca, nella quale il defunto custodiva i propri beni, gli aveva tardivamente comunicato l'esistenza di questi ultimi, da lui incolpevolmente ignorata. La S.C., confermando la sentenza di merito, ha escluso che la comunicazione inviata dalla banca all'erede potesse costituire una "sopravvenienza ereditaria" ex art. 31 d.lgs. n. 346 del 1990, ai fini della decorrenza del termine per la dichiarazione).

Quanto al contenuto, la sentenza n. 6908 (Rv. 626055), est. Virgilio, ha rilevato che, in tema d'imposta di successione, l'art. 12, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 346 del 1990, ai fini dell'esclusione di un credito del de cuius dall'attivo ereditario, fa riferimento ai <<crediti contestati giudizialmente alla data di apertura della successione, fino a quando la loro sussistenza non sia riconosciuta con provvedimento giurisdizionale o con transazione>>; ne deriva che, quando il credito è riconosciuto in tal modo, esso concorre a formare l'attivo ereditario, con effetto non già a far tempo dalla data del riconoscimento – che può intervenire anche a distanza di anni dall'apertura della successione – bensì ab origine, cioè dalla data di detta apertura; ciò in quanto il credito, nel frattempo, può anche essere ritenuto insussistente, onde il legislatore ha reputato opportuno non computarlo nell'attivo fino a quando la sua sussistenza non sia accertata, ma, intervenuto l'accertamento, esso rientra nell'attivo ereditario ad ogni effetto. A tale stregua, resta ininfluente che il giudizio sul credito sia proseguito per scelta degli eredi o che sia intervenuta poi tra le parti una transazione, circostanze inidonee ad elidere il collegamento con l'originario credito del de cuius.

17. Le sanzioni amministrative in materia tributaria.

In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, la Corte si è occupato di numerose questioni, affermando, tra l'altro, che:

– l'omessa comunicazione dell'invito al pagamento prima dell'iscrizione a ruolo, con la riduzione e per gli effetti previsti dall'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, non determina la nullità di tale iscrizione e degli atti successivi, ma una mera irregolarità, inidonea ad incidere sull'efficacia dell'atto, sia perché non si tratta di condizione di validità, stante la mancata espressa sanzione della nullità, avendo il previo invito al pagamento l'unica funzione di dare al contribuente la possibilità di attenuare le conseguenze sanzionatorie dell'omissione di versamento, sia perché l'interessato può comunque pagare, per estinguere la pretesa fiscale, con riduzione della sanzione, una volta ricevuta la notifica della cartella (sentenza n. 3366, Rv. 625273, est. Iofrida);

– il principio del favor rei di cui all'art. 3 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, è applicabile, anche d'ufficio ed in ogni stato e grado di giudizio, secondo il successivo art. 25, secondo comma, alle infrazioni commesse anteriormente alla data di sua entrata in vigore (1° aprile 1998), a condizione che vi sia un procedimento ancora in corso e il provvedimento impugnato non sia definitivo (così statuendo, la S.C. ha dichiarato la legittimità dell'avviso di liquidazione e pagamento di sanzione relativi all'anno di imposta 1993, per violazioni circa l'emissione della bolla di accompagnamento di beni viaggianti, benché il corrispondente obbligo fosse stato abolito con d.P.R. 14 agosto 1996, n. 472, trattandosi di rapporto già esaurito e con procedimento definito al momento della entrata in vigore del suddetto decreto legislativo) (sentenza n. 17972, Rv. 627913, est. Meloni);

– il principio di retroattività della legge più favorevole, previsto dall'art. 3 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 non opera con riguardo alle infrazioni valutarie e tributarie, in quanto il differente e più favorevole trattamento, non irragionevolmente riservato dal legislatore alla disciplina di tali infrazioni, trova fondamento nell'innegabile peculiarietà sostanziale che caratterizza le rispettive materie (sentenza n. 7689, Rv. 626137, est. Crucitti);

– l'art. 26, comma primo, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, espressamente individua anche la soprattassa come sanzione pecuniaria, cui quindi può applicarsi il meccanismo della continuazione alle altre sanzioni (sentenza n. 5873, Rv. 625590, est. Bruschetta);

– la violazione meramente formale non punibile deve rispondere a due concorrenti requisiti: non arrecare pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo e, al contempo, non incidere sulla determinazione della base imponibile dell'imposta e sul versamento del tributo (sentenza n. 5897, Rv. 625953, est. Perrino).

18. Le imposte doganali.

Numerose sono le sentenze che hanno riguardato la materia doganale.

Sul piano generale, va segnalata la sentenza n. 8323 (Rv. 626425), est. Perrino, secondo la quale il dazio doganale da importazione è un dazio ad valorem, in quanto rappresenta un'aliquota del valore in dogana che coincide con quello della transazione, ossia col prezzo effettivamente pagato o da pagare.

Questa regola, che soffre di rare eccezioni (secondo l'alternativo sistema della somma fissa per parametri dimensionali) e che esclude l'impiego di valori arbitrari o fittizi, non è espressamente stabilita dal codice doganale comunitario, di cui al Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913, ma è implicitamente presupposta da tutto il sistema normativo che in esso rinviene la propria fonte.

Ne consegue che l'Autorità doganale, per potersene discostare, è tenuta a sollecitare il contraddittorio e chiedere informazioni, prima di decidere di non determinare il valore della dogana delle merci importate in base alla predetta regola fissata dall'art. 29 del medesimo regolamento.

La cd. first sale rule, che rappresenta un particolare metodo di determinazione del valore doganale delle merci, applicabile ogniqualvolta una data merce sia assoggettata a vendite a catena prima della sua importazione definitiva e prevede l'utilizzo, ai fini daziari, del prezzo relativo ad una vendita anteriore all'ultima vendita sulla cui base le merci sono state introdotte nel territorio doganale della Comunità, consente all'importatore di scegliere uno dei prezzi relativi per la determinazione del valore di transazione, ma una volta che si è riferito ad uno di essi nella dichiarazione in dogana, non può più modificare tale dichiarazione dopo lo svincolo delle merci per la libera pratica, potendo peraltro sempre essere offerto successivamente, anche su richiesta dell'autorità doganale, ogni elemento di obiettivo e ulteriore riscontro (sentenza n. 5188, Rv. 625463, est. Cirillo).

In tema di accertamento delle violazioni doganali, l'art. 9, comma terzo decies, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modifiche, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, si presenta, nel suo contenuto precettivo, non come una norma di interpretazione autentica, bensì alla stregua di un'ordinaria norma integrativa di altra preesistente, diretta a disporre, in materia di competenza dell'autorità doganale ed ai sensi dell'art. 11 delle preleggi, per l'avvenire, introducendo una nuova disciplina quanto alla revisione dell'accertamento doganale definitivo, secondo la quale l'autorità competente non può essere quella che ha effettuato l'attività investigativa su delega dell'autorità giudiziaria, ma quella presso la quale è sorta l'obbligazione tributaria, e quindi la Dogana dove si sono svolte le operazioni di importazione (sentenza n. 5507, Rv. 627178, est. Valitutti).

Negli stessi termini ha opinato la sentenza n. 8699 (Rv. 626024), est. Conti, per cui l'art. 9, comma terzo decies, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito nella legge 26 aprile 2012, n. 44 – secondo cui l'ufficio doganale che effettua le verifiche generali o parziali con accesso presso l'operatore è competente alla revisione delle dichiarazioni doganali oggetto del controllo anche se accertate presso un altro ufficio doganale – non ha carattere retroattivo, sicché non si applica alle fattispecie verificatesi anteriormente alla sua entrata in vigore; né esso costituisce norma di interpretazione autentica dell'art. 11, nono comma, del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, in quanto, pur prescindendosi dall'art. 1, secondo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212, che limita, in materia tributaria, a casi eccezionali l'emanazione di norme siffatte, la natura interpretativa di una disposizione viene stabilita direttamente dal legislatore, laddove quella in esame, introdotta nel 2012, non risulta espressamente rivolta ad interpretare la normativa pregressa, invece disciplinando, per il futuro, le regole della competenza per l'emissione di un atto amministrativo, la legittimità del quale, peraltro, deve essere valutata alla stregua delle norme vigenti al momento della sua emanazione.

Il ritardato pagamento dei diritti doganali da parte di una società che fruisca di un conto di debito differito integra una violazione sostanziale e non formale ed è sanzionato dall'articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, applicabile anche alla materia doganale, senza l'applicazione del meccanismo del computo previsto per il caso del concorso materiale omogeneo dall'art. 12 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (sentenza n. 5897, Rv. 625953, est. Perrino).

In tema di recupero dei tributi doganali, la sentenza n. 6628 (Rv. 626289), est. Olivieri, ha rilevato che il provvedimento ingiuntivo di cui all'art. 82 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, a seguito dell'unificazione della procedura di riscossione a mezzo ruolo, estesa anche ai diritti doganali dall'art. 67 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, e del venir meno della disciplina differenziata del controllo a posteriori della dichiarazione doganale, deve essere pienamente assimilato all'avviso di rettifica già previsto dall'art. 74 del d.P.R. n. 43 del 1973 ed ora dall'art. 11, comma quinto, del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374.

Ne consegue che, non emergendo sostanziali divergenze, quanto alle esigenze di effettiva assicurazione del contraddittorio ed ai rimedi esperibili dall'interessato, tra il procedimento di revisione dell'accertamento divenuto definitivo (ex art. 11 d.lgs. n. 374 del 1990) ed il procedimento di esame della dichiarazione presentata alla Dogana (ex artt. 8 e 9 d.lgs. 374 del 1990), deve concludersi che l'ambito precettivo del rinvio disposto dal comma quarto dell'art. 84 del d.P.R. n. 43 del 1973 operi in senso meramente confermativo della unitarietà della disciplina del procedimento di revisione.

19. La Tariffa di igiene ambientale.

La sentenza n. 11157 (Rv. 626783), est. Terrusi,ha ritenuto che gli atti con cui il gestore del servizio smaltimento rifiuti solidi urbani richiede al contribuente quanto da lui dovuto a titolo di tariffa di igiene ambientale (T.I.A.), anche quando assumono la forma di fattura commerciale, non attenendo al corrispettivo di una prestazione liberamente richiesta, ma ad un'entrata sicuramente pubblicistica, hanno natura di atti amministrativi impositivi e debbono perciò rispondere ai requisiti sostanziali previsti dalla legge per tali atti, come del resto ha statuito anche la Corte costituzionale in sede di conferma della legittimità dell'appartenenza delle relative controversie alla giurisdizione tributaria (sentenza n. 238 del 2009).

20. La TARSU.

La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), in virtù dell'art. 62, primo comma, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, che costituisce previsione di carattere generale, è dovuta unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti (ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie ad abitazioni).

Ne consegue che sia le deroghe alla tassazione indicate dal secondo comma del medesimo art. 62, sia le riduzioni delle tariffe stabilite dal successivo art. 66 non operano in via automatica, in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo, invece, i relativi presupposti essere di volta in volta dedotti nella denunzia originaria o in quella di variazione. (Principio affermato dalla S.C. con riguardo ad aree detenute dal contribuente per concessione demaniale, restando indifferente – per la tassazione a suo carico – che il loro utilizzo fosse in prevalenza di terzi) (sentenza n. 3772, Rv. 625621, est. Perrino).

Quanto alla estinzione dell'obbligo di versare l'imposta, la sentenza n. 13296 (Rv. 626843), est. Virgilio, ha ritenuto che l'art. 64, quarto comma, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, deve interpretarsi nel senso che, pur in caso di omissione della denuncia di cessazione di occupazione dell'immobile nell'anno in cui tale cessazione è avvenuta, la tassa non è comunque dovuta, per gli anni successivi a quello della cessazione così dichiarata, qualora: a) l'utente presenti denuncia tardiva di cessazione (comunque non oltre sei mesi dalla notifica del ruolo, ex art. 75, secondo comma, del d.lgs. cit.) e fornisca la prova di non aver effettivamente continuato, dalla data indicata, l'occupazione o la detenzione del bene; b) oppure, anche a prescindere dalla presentazione della denuncia tardiva, risulti che la medesima tassa è stata assolta dal soggetto effettivo nuovo occupante o detentore, subentrato a seguito di denuncia od iscrizione a ruolo d'ufficio a suo carico.

Quanto agli effetti della soppressione della tassa, la Corte, con la sentenza n. 4893 (Rv. 625528), Perrino, ha ritenuto l'art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, prevedendone la sostituzione con la <<tariffa per la gestione dei rifiuti urbani>> soltanto a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio indicato nel comma primo del medesimo articolo (nel testo modificato prima dall'art. 1, comma 28, della legge 9 dicembre 1998, n. 426 e, poi, dall'art. 33 della legge 23 dicembre 1999, n. 488), al comma 13 attribuisce al <<soggetto che gestisce il servizio>> unicamente il potere di riscuotere la "tariffa", ma non la tassa; ne consegue che tale potere non può comprendere le tasse corrisposte o comunque dovute prima dell'introduzione della tariffa, in ordine alle quali la legittimazione sostanziale e processuale, in tutte le controversie ad esse attinenti, permane in capo al Comune, quale unico ente impositore e percettore della soppressa TARSU.

21. L'ICI.

La Corte di è occupata dell'imposta comunale sugli immobili, tra l'altro, in caso di fabbricato di nuova costruzione e di fabbricato rurale.

In ordine al primo, la sentenza n. 10735 (Rv. 626501), est. Greco, ha ritenuto che, poiché la nozione di fabbricato, di cui all'art. 2 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, rispetto all'area su cui esso insiste, è unitaria, nel senso che, una volta che l'area edificabile sia comunque utilizzata, il valore della base imponibile ai fini dell'imposta si trasferisce dall'area stessa all'intera costruzione realizzata, per l'applicazione dell'imposta sul <<fabbricato di nuova costruzione>> la norma individua due soli criteri alternativi: la data di ultimazione dei lavori ovvero, se antecedente, quella di utilizzazione, senza alcun riferimento alla divisione del fabbricato in piani o porzioni. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva invece ritenuto legittima l'imposta in relazione all'ampliamento ed alla sopraelevazione di un appartamento, in corso di esecuzione sul lastrico solare del fabbricato, considerando detto lastrico area fabbricabile ai sensi dell'art. 5, sesto comma, del menzionato decreto).

Quanto al secondo, la sentenza n. 14386 (Rv. 627152), est. Chindemi, ha rilevato che i fabbricati rurali sono esclusi dall'imposta, ai sensi dell'art. 2 del d.P.R. 23 marzo 1998, n. 139, a condizione che si utilizzi l'immobile ad abitazione da parte del titolare di diritto reale sul terreno, affittuario dello stesso, o comunque soggetto che conduca il fondo, o familiari conviventi; ne consegue che mentre il comproprietario che abiti l'immobile rurale ha diritto all'esenzione pro quota, questa non può essere estesa anche agli altri comproprietari che non lo abitino.

Sul piano formale, la Corte, con la sentenza n. 1659 (Rv. 625417), est. Olivieri, ha ritenuto che per l'esercizio della potestà amministrativa relativa alla emissione dell'avviso di liquidazione ICI non è richiesta la "qualifica dirigenziale" sul rilievo che il rapporto di specialità che regola il conflitto tra le disposizioni dell'art. 11, comma quarto, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, a tenore del quale <<con delibera della giunta comunale è designato un funzionario cui sono conferiti le funzioni e i poteri per l'esercizio di ogni attività organizzativa e gestionale dell'imposta: il predetto funzionario sottoscrive anche le richieste, gli avvisi e i provvedimenti, appone il visto di esecutività sui ruoli e dispone i rimborsi>>, e le disposizioni degli artt. 107, comma secondo, e 109, comma primo, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, secondo cui <<la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti>> e gli incarichi dirigenziali sono conferiti con provvedimento motivato del Sindaco, va risolta alla stregua del principio lex poterior generalis non derogat priori speciali, confortato, nella specie, dal fatto che l'art. 274 del testo unico del 2000, che pure ha disposto, alle lettere x) e y), l'abrogazione espressa di numerose disposizioni del d.lgs. n. 504 del 1992, non ne ha abrogato l'art. 11, comma 4.

Interessante, infine, è l'ordinanza n. 5736 (Rv. 625521), rel. Cicala, che, in caso di immobile sottoposto a pignoramento, ha ritenuto che le conseguenze giuridiche derivanti dall'esecuzione delle formalità del pignoramento escludono l'applicazione dell'imposta a carico del custode dei beni pignorati, mentre il relativo onere grava sul proprietario, il quale beneficia del reddito del bene, anche quando non lo utilizzi direttamente, in quanto tale reddito concorre al soddisfacimento dei debiti.

22. L'IRAP.

La sentenza n. 21326 del 18/09/2013 (Rv. 628289), est. Ferro, ha rilevato che il presupposto per l'applicazione dell'IRAP, secondo la previsione dell'art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, è l'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, il cui accertamento spetta al giudice di merito e che ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'"id quod plerumque accidit", il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza dell'organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. (In applicazione del principio, l'imposta è stata ritenuta applicabile ai tassisti organizzati in cooperativa, in ragione delle specifiche modalità di esercizio dell'attività, integrata dall'apporto qualificante della predetta stabile struttura societaria, che assicura al singolo tassista, in via tipica e costante, continuità di lavoro, migliori condizioni economicoprofessionali, centralizzazione della raccolta pubblicitaria, assistenza amministrativa e fiscale).

Quanto alla base imponibile la sentenza n. 400 (Rv. 624802), est. Greco, ha ritenuto che la base imponibile dell'IRAP, ai sensi degli artt. 4 e 5 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, è costituita dal valore della produzione netta, determinata con riguardo alla somma delle voci in essa classificabili in base all'art. 2425, primo comma, lettera A), cod. civ., che al n. 1 elenca i ricavi delle vendite e delle prestazioni, da indicarsi ivi, a norma del successivo articolo 2425-bis, al netto degli sconti, abbuoni e premi, precisandosi che, anche alla stregua del documento interpretativo n. 1 del principio contabile nazionale PC– OIC n. 12 – avente il carattere di regola tecnica, di ausilio all'interpretazione – gli sconti al netto dei quali sono indicati i ricavi di vendita relativi alla gestione caratteristica dell'impresa, compresi nel <<valore della produzione>> del conto economico di cui agli artt. 2425 e 2435-bis cod. civ., sono quelli di natura commerciale, non gli sconti di natura finanziaria (ad esempio, sconto di cassa per pagamento contanti), che costituiscono oneri finanziari da rilevare alla voce C17 dello schema del conto economico stesso.

La sentenza n. 10777 (Rv. 626518), est. Iofrida, ha rilevato, poi, come l'IRAP, afferendo non al reddito o al patrimonio in sé ma allo svolgimento di un'attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, ha per soggetto passivo anche l'imprenditore familiare (stante il valore esemplificativo dell'elencazione delle figure nell'art. 3 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446), mentre non lo sono i familiari collaboratori – cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall'impresa familiare – colpendo tale imposta il valore della produzione netta dell'impresa ed integrando la collaborazione dei partecipanti quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare.

Sul piano formale, la sentenza n. 2874 (Rv. 625844), est. Iofrida, ai fini dell'accertamento della violazione di cui all'art. 2 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, che, per la presentazione della dichiarazione IRAP, stabilisce (nel testo ratione temporis applicabile) il termine di <<un mese dall'approvazione del bilancio o rendiconto>> e, se il bilancio non è stato approvato nel termine fissato dalla legge o dall'atto costitutivo, <<un mese dalla scadenza del termine stesso>>, occorre fare riferimento all'art. 2364, secondo comma, cod. civ., il quale, nel testo vigente prima della riforma del diritto societario, prevede che l'assemblea ordinaria, unico organo competente all'approvazione del bilancio o del rendiconto, <<deve essere convocata almeno una volta all'anno, entro quattro mesi dalla chiusura dell'esercizio sociale>> e che <<l'atto costitutivo può stabilire un termine maggiore, non superiore in ogni caso a sei mesi, quando particolari esigenze lo richiedono>>. Poiché, peraltro, l'approvazione del bilancio di esercizio può legittimamente avvenire in seconda convocazione, in tale ipotesi il termine di un mese per la presentazione della dichiarazione decorre dalla data di effettiva approvazione del bilancio, pur se successiva al termine legale o statutario. (Principio enunciato con riferimento alla mancata approvazione entro il termine ordinario, in quanto la prima convocazione era andata deserta ed il bilancio era stato approvato in seconda convocazione).

23. La cd. ecotassa.

La sentenza n. 17245 (Rv. 627269), est. Terrusi, ha ritenuto che il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (cd. ecotassa), istituito dall'art. 3, comma 24, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, qualora non sia stata emanata, ai sensi dei commi 30 e 34 dell'art. citato, la legge regionale destinata a regolarne l'applicazione in concreto, pur sussistendo in base alla sola legge statale il presupposto impositivo, non è esigibile, avuto riguardo al principio di legalità, che informa l'intero sistema tributario, con la conseguenza che non è possibile ritenere l'inadempimento dell'onerato nel versamento del predetto tributo né, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, irrogare le relative sanzioni (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito, per avere la Regione Molise regolamentato la materia, con legge 13 gennaio 2003, n. 1, successiva all'annualità in contestazione).

24. La tassa di concessione governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari.

Con ordinanze interlocutorie della V Sezione civile n. 12052/2013 ed altre, rel. Olivieri, la Corte ha ritenuto di non condividere le conclusioni assunte da "…la recente sentenza della Sez. V in data 14.12.2012 n. 23052 …", secondo la quale:

"- le tasse di concessione governativa sono disciplinate dal Dpr n. 641/1972 che all'art. 1 assoggetta alla tassa "i provvedimenti amministrativi e gli altri atti elencati nell'annessa tariffa": in particolare l'art. 21 della Tariffa individua l'atto oggetto della tassa nella "Licenza o documento sostitutivo per l'impiego delle apparecchiature terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione (art. 318 del DPR 29.3.1973 n 156 ed art. 3 del DL 1.5.1973 n. 51 convertito con modificazioni dalla legge 12.7.1991 n. 202)"

- l'art. 318 del Dpr n. 156/1973 stabiliva che "Presso ogni singola stazione radioelettrica di cui sia stato concesso l'esercizio deve essere conservata l'apposita licenza rilasciata dalla Amministrazione delle poste e telecomunicazioni": tale norma è stata reiterata nell'art. 160 del nuovo Codice delle comunicazioni elettroniche

- a seguito della entrata in vigore del Codice delle comunicazioni elettroniche (Dlgs n. 259/2003) il settore delle comunicazioni è stato privatizzato e la fornitura di servizi di comunicazione elettronica è stata qualificata come attività libera dall'art. 3 comma 2 del Dlgs n. 259/2003, ma nel rispetto delle condizioni di legge, essendo tenuto il soggetto interessato allo svolgimento di tale attività a presentare dichiarazione di inizio della fornitura del servizio che è soggetto ad "autorizzazione generale" (dovendo essere verificata dalla Amministrazione statale la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge)

- dal quadro normativo "emerge che l'attività di fornitura di servizi di comunicazione elettronica, pur caratterizzata da una maggiore libertà rispetto alla normativa precedente, resta comunque assoggettata ad un regime autorizzatorio da parte della Pubblica amministrazione, con la particolarità che il contratto di abbonamento con il gestore del servizio radiomobile si sostituisce alla licenza di stazione radio" e tanto consente di ritenere integrato il supposto d'imposta come originariamente considerato nella norma tariffaria, dovendo altresì ritenersi tuttora vigente la tassa in questione anche in considerazione della successiva modifica della nota all'art. 21 Tariffa disposta dalla legge finanziaria n. 244/2007 (che all'art. 1, comma 203, ha esteso il beneficio delle esenzione della tassa ai soggetti non udenti)", evidenziando, tra l'altro, che:

"se la vicenda della liberalizzazione del mercato nel settore delle telecomunicazioni e la sostituzione dell'originario provvedimento concessorio con l'attuale "autorizzazione generale" prescritta per "la fornitura di reti o di servizi di comunicazione elettronica" (art. 25 TU n. 259/2003), si riferisce esclusivamente agli operatori commerciali, rimanendo estranei i diversi rapporti tra il gestore e gli utenti finali del servizio;

- se per le ragioni esposte l'atto amministrativo (licenza di esercizio o documento sostitutivo) indicato nella voce tariffaria, ed attualmente ancora previsto per l'esercizio degli "impianti radioelettrici" (art. 160 Dlgs n. 259/2003), non può (più) essere riferito -giusta la normativa speciale comunitaria e statale di settore- agli "apparecchi terminali di comunicazione" (il cui acquisto ed impiego non è soggetto ad autorizzazione o ad altro provvedimento amministrativo);

se in difetto di una preventiva attività amministrativa, avente ad oggetto la omologazione tecnica degli apparecchi terminali, e – conseguentemente - in mancanza di una previsione legale (riproduttiva dell'art. 3 DM PP.TT. n. 33/1990) dell'obbligo di indicazione dei requisiti essenziali e tecnici degli apparecchi terminali nel contratto stipulato dall'utente con il gestore dei servizi di comunicazione ai sensi dell'art. 70 Dlgs n. 259/2003, tale contratto di diritto privato non può evidentemente "tenere luogo" di un provvedimento amministrativo inesistente;

- se il solo contratto stipulato dall'utente con il gestore del servizio non può assurgere ex se e neppure in via meramente interpretativa - senza che venga ad essere immutato il presupposto impositivo definito dalla legge, in violazione della riserva posta dall'art. 23 Cost. - a fatto generatore del tributo, ebbene tutto ciò premesso allo stato della attuale evoluzione normativa (e già alla data della entrata in vigore del TU n. 259/2003) non è dato ravvisare alcun provvedimento amministrativo od alcuna attività amministrativa di verifica o controllo, al quale corrisponda il presupposto impositivo indicato dall'art. 1 del Dpr n. 641/1972.

Il fondamento del diritto al rimborso della tassa versata dai Comuni resistenti, non va pertanto rinvenuto … nella "liberalizzazione della fornitura di servizi di comunicazione elettronica" - essendo del tutto inconferente, per quanto attiene all'impiego dell'apparecchiatura terminale da parte dell'utente finale, la disciplina della gestione delle reti e della fornitura dei servizi di comunicazione, rivolta ai soli soggetti che operano in regime di concorrenza sul mercato -, né tanto meno trova fondamento nella abrogazione dell'art. 318 TU n. 156/1973 disposta dall'art. 218 col lett. q) del TU n. 259/2003 (essendo stata riprodotta tale norma nell'art. 160 del medesimo TU), e neppure nella abrogazione del medesimo art. 318 TU n. 156/1973 "per incompatibilità" (art. 15 disp. prel c.c.) con la disciplina normativa di settore dettata dal Dlgs n. 259/2003, atteso che tale conclusione, fondata su una generica comparazione dei principi generali che hanno ispirato la nuova disciplina di settore -art. 3 Dlgs n. 259/2003- e di quelli che informavano il precedente regime normativo artt. 1 e 4 Dpr 156/1973-, poggia sull'erroneo convincimento che la eliminazione del provvedimento di concessione (costituivo del diritto di esercizio dei servizi di telecomunicazione, riservato originariamente allo Stato, e non più compatibile con il nuovo regime che prevede soltanto una "autorizzazione generale") abbia automaticamente travolto anche la "licenza di esercizio" dell'impianto radioelettrico (avente ad oggetto, invece, la verifica di compatibilità tecnica dell'impianto), ma deve invece essere rinvenuto nel rapporto di specialità tra i distinti complessi normativi (TU n. 259/2003 ; direttiva n. 5/1999 e Dlgs n. 269/2001) determinatosi in seguito alla separazione della disciplina normativa e tecnica degli "apparecchi terminali di radiotelecomunicazione" (che non prevede interventi autorizzativi del Ministero per l'acquisto e l'impiego di tali apparecchi) dalla disciplina generale degli (altri) impianti radioelettrici dettata dal TU n. 259/2003 (che ne assoggetta ancora l'impiego al preventivo rilascio della "licenza di esercizio")".

La Corte, quindi, ritenendo che la indicata soluzione della controversia si pone in insanabile contrasto con il precedente sopra indicato e che la questione di diritto da risolvere appare di particolare importanza in considerazione del rilevante interesse economico per le entrate tributarie dello Stato, ha investito della questione il Primo presidente per le valutazioni di competenza in ordine alla opportunità che sul ricorso pronuncino le Sezioni Unite.

25. La riscossione delle imposte statali.

25.1. L'iscrizione a ruolo.

A norma dell'art. 14 del d.P.R. 29 settembre 1972, n. 602, possono essere iscritte a ruolo solo le imposte basate su accertamenti definitivi, con la conseguenza che, qualora sia impugnato l'avviso di accertamento, si deve fare riferimento alla sua definitività per la decorrenza del corrispondente termine decadenziale di cui all'art. 17 del d.P.R. citato. Laddove, poi, si verta in tema di imposta ad aliquota progressiva, come l'IRPEF, il dies a quo da cui far decorrere il predetto termine va individuato nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che definisce l'intero giudizio relativo all'avviso di accertamento, con la determinazione della complessiva imposta dovuta, e non in quello in cui si sia eventualmente formato il giudicato interno per mancata contestazione di una parte dell'imponibile, non essendo possibile, in quest'ultimo caso, determinare con certezza l'aliquota applicabile, dipendendo la stessa dall'esito del giudizio, non ancora definito, relativo al maggior imponibile oggetto di accertamento (sentenza n. 4172,Rv. 625212, est. Chindemi).

Anche la riscossione dei contributi per bonifica di immobili urbani, di spettanza del relativo consorzio ed ai sensi dell'art. 21 del r.d. 13 febbraio 1933, n. 215, è eseguita in applicazione delle norme che regolano l'esazione delle imposte dirette, e cioè l'art. 17 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, che, pur prevedendo che si effettua <<mediante ruolo la riscossione delle entrate dello Stato, anche diverse dalle imposte sui redditi, e di quelle degli altri enti pubblici, anche previdenziali, esclusi quelli economici>>, al suo terzo comma stabilisce espressamente che <<continua, comunque, ad effettuarsi mediante ruolo la riscossione delle entrate già riscosse con tale sistema in base alle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto>> (sentenza n. 8271, Rv. 626307, est. Crucitti).

Di estremo interesse, infine, sono le ordinanze interlocutorie n. 18007 e 18008 del 2013, rel. Cicala, con le quali la Sesta Sezione ha rilevato che "… le Sezioni Unite …(da ultimo con la sentenza 5771/2012) hanno affermato che l'ipoteca prevista dall'art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, rappresenta un atto preordinato all'espropriazione immobiliare e dunque un atto della procedura esecutiva (senza che a contraria opinione possa indurre l'intervento legislativo compiuto con l'art. 3, comma 2 ter, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito nella legge 22 maggio 2010, n. 73). Di conseguenza, l'iscrizione ipotecaria è soggetta a tutte le condizioni ed i limiti posti per la procedura esecutiva, anche alla comunicazione dell'avviso di cui al 2° comma dell'art. 50 del D.P.R. 602/1973. Del resto, proprio la natura di atto inerente all'esecuzione forzata dell'iscrizione ipotecaria determinava (prima della modifica dell'art. 19 d.leg. 31 dicembre 1992 n. 546 da parte dell'art. 35, 26° comma quinquies, d.l. 4 luglio 2006 n. 223 , nel testo integrato dalla l. di conversione 4 agosto 2006 n. 248) che il ricorso avverso tale iscrizione andasse proposto al giudice ordinario nelle forme dell'opposizione all'esecuzione od agli atti esecutivi (Cass. S. U. 19- 03-2009, n. 6594). Il Collegio ha però ritenuto, con ordinanza depositata il 6 febbraio 2013 di rimettere la questione alla Pubblica udienza in considerazione della più recente giurisprudenza secondo cui in tema di riscossione coattiva delle imposte, l'ipoteca prevista dall'art. 77 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 602, può essere iscritta senza necessità di procedere a notifica dell'intimazione ad adempiere di cui all'art. 50, 2° comma, medesimo d.p.r., prescritta per il caso che l'espropriazione forzata non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, poiché l'iscrizione ipotecaria non può essere considerata quale mezzo preordinato all'espropriazione forzata, atteso quanto si evince dalla lettera dell'art. 77 citato, il quale, al 2' comma, prevede che, <<prima di procedere all'esecuzione, il concessionario deve iscrivere ipoteca>>, e, al 1° comma, richiama esclusivamente il primo e non anche il 2° comma dell'art. 50 d.p.r. n. 602 del 1973 (sentenza n. 15746 del 19 settembre 2012, ordinanza 20 giugno 2012, n. 10234). … Il Collegio, dopo la discussione in pubblica udienza, ritiene di sottoporre al Primo Presidente la valutazione circa l'opportunità di devolvere alle Sezioni Unite la questione se, il concessionario alla riscossione non sia tenuto, ove sia decorso un anno dalla notifica della cartella di pagamento, prima di procedere all'iscrizione di ipoteca a notificare al debitore un avviso che contenga l'intimazione ad adempiere entro cinque giorni l'obbligo risultante dal ruolo (2° comma dell'art. 50 del DPR 602/1973). E ciò a prescindere dalla entrata in vigore del disposto del D.L. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2, lett. u bis, convertito con modificazioni nella L. n. 106 del 2011, che ha stabilito che "l'agente della riscossione è tenuto a notificare al proprietario dell'immobile una comunicazione preventiva contenente l'avviso che, in mancanza del pagamento delle somme dovute entro il termine di trenta giorni, sarà iscritta l'ipoteca di cui al comma 1…".

25.2. La cartella esattoriale: la forma.

L'omessa indicazione nella cartella esattoriale del nome del responsabile del procedimento (nel regime anteriore all'entrata in vigore dell'art. 36, comma 4 ter, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, conv. con legge 28 febbraio 2008, n. 31), non determina il vizio di illegittimità della cartella, trattandosi di provvedimento a contenuto vincolato e secondo il principio generale in tema di annullamento degli atti amministrativi applicabile in materia, di cui all'art. 21 octies, comma secondo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto l'art. 7 della legge n. 212 del 2000, sullo Statuto del contribuente, è norma minus quam perfecta e priva di sanzione, di guisa che la ricostruzione del suo regime non può essere operata che facendo ricorso ai precetti generali (sentenza n. 3754, Rv. 625778, est. Perrino). La Corte, con ordinanza n. 13747 (Rv. 627119), rel. Iacobellis, ha precisato che la nullità della cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento non sussiste se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1° giugno 2008, atteso che l'art. 36, comma 4 ter, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248 (convertito dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31), ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle di cui all'art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 riferite ai ruoli consegnati a decorrere dalla predetta data, norma ritenuta legittima dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 58 del 28 gennaio 2009.

25.3. La cartella esattoriale: la notificazione.

La tempestiva proposizione del ricorso del contribuente avverso la cartella di pagamento produce l'effetto di sanare ex tunc la nullità della relativa notificazione, per raggiungimento dello scopo dell'atto, ex art. 156 cod. proc. civ., pur non determinando il venire meno della decadenza, eventualmente verificatasi medio tempore, del potere sostanziale di accertamento dell'Amministrazione finanziaria (sentenza n. 17251, Rv. 627334, est. Perrino).

25.4. La cartella esattoriale: la motivazione.

Il difetto di motivazione della cartella esattoriale, che faccia rinvio ad altro atto costituente il presupposto dell'imposizione senza indicarne i relativi estremi in modo esatto, non può condurre alla dichiarazione di nullità, allorché la cartella sia stata impugnata dal contribuente, il quale abbia dimostrato, in tal modo, di avere piena conoscenza dei presupposti dell'imposizione, per averli puntualmente contestati; pertanto, non può ravvisarsi un difetto di motivazione nell'atto impositivo vincolato, che espressamente indichi gli anteriori avvisi di accertamento già notificati all'intimato ed in relazione ai quali sia pendente contenzioso, mentre invece erroneamente l'accertamento era stato indicato come definitivo anziché provvisorio, non sussistendo un'effettiva limitazione del diritto di difesa, che ricorre unicamente qualora il contribuente non sia stato posto in grado di conoscere le ragioni dell'intimazione di pagamento ricevuta e alleghi il pregiudizio patito effettivamente (sentenza n. 2383, Rv. 625187, est. Iofrida).

25.5. I termini di decadenza.

L'art. 1 del d.l. 17 giugno 2005, n. 106, convertito con modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n. 156 – dando seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nella parte in cui non prevedeva un termine di decadenza per la notifica delle cartelle di pagamento relative alle imposte liquidate ex art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – ha fissato, al comma 5-bis, i termini di decadenza per la notifica delle cartelle di pagamento relative alla pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni, ed ha stabilito all'art. 5-ter, sostituendo il comma secondo dell'art. 36 del d.lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, che, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento debba essere notificata, a pena di decadenza, per le dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. La norma, di chiaro ed inequivoco valore transitorio, trova applicazione, come tale, non solo alle situazioni tributarie, anteriori alla sua entrata in vigore, pendenti presso l'ente impositore, ma anche a quelle (come il caso di specie) ancora sub iudice (sentenza n. 8406, Rv. 626329, est. Ferro).

I termini di decadenza per la notificazione delle cartelle di pagamento, introdotti dall'art. 1, commi 5-bis e 5-ter, del d.l. 17 giugno 2005, n. 106, convertito con modificazioni dalla legge 31 luglio 2005, n. 156, trovano applicazione anche alla notificazione delle cartelle di pagamento conseguenti alla liquidazione delle dichiarazioni integrative previste dall'art. 39 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, a condizione che i relativi giudizi fossero ancora pendenti alla data di entrata in vigore della legge di conversione del predetto decreto legge; peraltro, qualora il ruolo sia stato formato e reso esecutivo entro il 30 settembre 1999, il termine per la notificazione decorre non già dal momento in cui il contribuente abbia provveduto agli adempimenti posti a suo carico, bensì dalla scadenza del termine, fissato dal comma terzo dell'art. 39 cit., per la liquidazione dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione integrativa, così come prorogato per effetto della modifica dell'art. 32, secondo comma, della citata legge n. 413 ad opera dell'art. 3, primo comma, del decreto legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 1993, n. 75 (sentenza n. 8025, Rv. 626130, est. Greco).

Con la sentenza n. 8055 (Rv. 626123), est. Terrusi, la Corte ha affermato che il termine annuale per la relativa rettifica cd. formale, previsto dall'art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo l'interpretazione autentica offerta dall'art. 28, primo comma, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, non ha natura decadenziale, né è dato ipotizzarne una trasformazione da perentorio in ordinatorio, in ragione della valenza precettiva ab origine della disposizione interpretativa.

25.6. Impugnazione della cartella esattoriale.

La cartella esattoriale, recante intimazione di pagamento di credito tributario avente titolo in un precedente avviso di accertamento notificato, ed a suo tempo non impugnato, può essere contestata innanzi agli organi del contenzioso tributario ed essere da essi invalidata solo per vizi propri, non già per vizi suscettibili di rendere nullo o annullabile l'avviso di accertamento presupposto (sentenza n. 8704, Rv. 626165, est. Iofrida).

26. La riscossione delle imposte locali.

Il termine triennale di decadenza dell'amministrazione dalla potestà di riscossione dei tributi locali, previsto dall'art. 1, comma 163, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e fissato al 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l'accertamento è divenuto definitivo, si applica a tutti i rapporti tributari pendenti alla data di entrata in vigore della legge (e cioè al 1° gennaio 2007), per tali dovendosi intendere quelli non ancora esauriti, e cioè – tra gli altri – quelli nei quali la controversia (sentenza n. 3188, Rv. 625681, est. Olivieri). La sentenza ha, poi, ritenuto che l'elevazione da due a tre anni del termine di decadenza dell'ente locale dalla potestà di riscossione dei tributi locali, prevista dall'art. 1, comma 163, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, non ha prorogato ex lege il termine biennale previgente, ma ha introdotto un termine nuovo quanto a durata e decorrenza, individuata dalla definitività dell'accertamento e non più dalla notifica dell'avviso di liquidazione o di accertamento.

L'amministrazione comunale che, prima che spiri il nuovo termine triennale, provveda a formare e rendere esecutivo il ruolo, non decade, pertanto, dalla potestà di riscossione, a nulla rilevando che, prima dell'entrata in vigore della nuova legge, essa fosse decaduta da tale facoltà alla stregua del termine previgente (Rv. 625682).

27. La prescrizione e la decadenza.

La prescrizione in materia tributaria è stata affrontata sia dal punto di vista dell'amministrazione, che del contribuente.

Quanto a quest'ultimo, la Corte, con la sentenza n. 16702 (Rv. 627173), est. Botta, ha affermato che in tema di tassa di concessione governativa per l'iscrizione nel registro delle imprese, il diritto di ottenerne il rimborso è soggetto al termine di decadenza triennale stabilito dall'art. 13 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, termine espressamente richiamato dall'art. 11, comma secondo, della legge 23 dicembre 1998, n. 448; quest'ultima disposizione – che ha previsto il diritto di rimborso per i contribuenti che abbiano inoltrato domanda nel predetto termine di decadenza – ha valore di atto interruttivo della prescrizione ordinaria, poiché opera una sostanziale ricognizione di debito; ne consegue che tale legge ha cosi stabilito il dies a quo per la decorrenza del termine ordinario di prescrizione.

Quanto alla prima, se la pretesa erariale si fonda su di una sentenza passata in giudicato, la relativa cartella esattoriale, avendo ad oggetto un credito definitivamente accertato a seguito di contenzioso e come tale avente titolo nella sentenza, va emessa entro il termine decennale di prescrizione previsto dall'art. 78 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non trovando applicazione, nell'ipotesi, né il termine triennale di decadenza di cui all'art. 76 del medesimo d.P.R., che concerne, invece, l'esercizio del potere di imposizione, né il termine annuale di decadenza sancito dall'art. 17, lett. c), del d.P.R. n. 602 del 1973 (rilevante pro tempore), che attiene alle somme dovute in base agli accertamenti dell'ufficio divenuti definitivi per mancata impugnazione dell'atto impositivo che li contiene (sentenza n. 8380, Rv. 626164, est. Terrusi,in tema di imposta di registro).

La prescrizione, poi, è interrotta, a norma dell'art. 2943 cod. civ., non soltanto con quegli atti della sequenza procedimentale specificamente contenenti la "intimazione ad adempiere" – come "l'avviso di mora" di cui all'art. 46 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, o come <<l'avviso contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni cinque>>, di cui all'art. 50, comma secondo, del d.P.R. n. 602 del 1973, nel testo vigente – ma anche con quegli atti che, come "l'avviso di liquidazione", contengono implicitamente anche la richiesta di pagamento ed assolvono, quindi, anche alla funzione di costituire in mora (sentenza n. 1658, Rv. 625063, est. Olivieri).

È stata, infine, rimessa alle Sezioni Unite la questione, sollevata dalla Sezione Sesta con ordinanza interlocutoria n. 959 del 2013, rel. Cosentino, relativa alla decorrenza del termine di decadenza per il diritto al rimborso delle somme versate dal contribuente per effetto di una norma impositiva dichiarata in contrasto con il diritto comunitario da sentenza della Corte di giustizia.