PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE

  • giurisdizione civile
  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione

CAPITOLO XXIV

LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE

(di Giuseppe Fuochi Tinarelli )

Sommario

1 I motivi inerenti la giurisdizione e il sindacato delle Sezioni unite. - 1.1 Il sindacato sulle decisioni del Consiglio di Stato. - 1.2 Il sindacato sulle sentenze della Corte dei conti. - 1.3 Il riparto di giurisdizione: casistica. - 2 Le questioni processuali. - 2.1 I limiti provvedimentali e temporali in tema di regolamento di giurisdizione e di ricorso per cassazione. - 2.2 Il giudicato implicito sulla giurisdizione. - 2.3 Profili in tema di connessione di cause tra giurisdizioni. - 3 Il riparto di giurisdizione nel pubblico impiego. - 4 Giurisdizione e diritto internazionale privato. - 5 Crimini di guerra, giurisdizione e immunità degli Stati: il punto d'arrivo del cammino delle Sezioni unite.

1. I motivi inerenti la giurisdizione e il sindacato delle Sezioni unite.

Nel corso del 2013 le Sezioni unite con i propri interventi hanno ulteriormente precisato la nozione di "motivi inerenti alla giurisdizione" contenuta nell'art. 111, ottavo comma, Cost., ossia degli unici motivi per i quali, come ribadito dall'art. 362 cod. proc. civ., sono censurabili le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

Con questa espressione, infatti, vengono indicati i vizi della sentenza che abbiano inciso, in positivo o in negativo, l'ambito della giurisdizione in generale (invadendo la sfera riservata all'autorità politica o all'amministrazione ovvero rifiutando la giurisdizione sull'erroneo assunto della sua inesistenza in assoluto) o comunque abbiano violato i limiti esterni della propria giurisdizione (con sconfinamento nella sfera di competenza della giurisdizione ordinaria o delle altre giurisdizioni speciali ovvero, ove sia riconosciuta una giurisdizione di legittimità, con un sindacato sul merito amministrativo), escluso, in ogni caso, un sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale e, dunque, sugli eventuali errori in iudicando e in procedendo, che attengono alla fondatezza (o meno) della domanda.

Tale nozione è stata ribadita dalla Corte – Sez. Un., n. 9687 (Rv. 625798-625799), est. Ceccherini – che ha precisato che in sede di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato per motivi attinenti alla giurisdizione, le Sezioni unite possono rilevare l'eventuale superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, ma il loro sindacato non può estendersi al modo in cui la giurisdizione è stata esercitata, in rapporto a quanto denunciato dalle parti, come nel caso di pretesa ultrapetizione, che concreta un error in procedendo.

1.1. Il sindacato sulle decisioni del Consiglio di Stato.

In tema di "sconfinamento nella sfera del merito amministrativo", le Sezioni unite hanno riaffermato gli ambiti della potestà del giudice amministrativo (e, correlativamente, i limiti al proprio sindacato) escludendo – con la sentenza Sez. Un., n. 21586 (Rv. 627437), est. Travaglino – che sia configurabile un eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo in presenza di una decisione del Consiglio di Stato che, «nell'interpretare l'art. 161, comma 4, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – attributivo al Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche (COVIRI) della facoltà di impartire prescrizioni sulla necessità di modificare le clausole contrattuali e gli atti che regolavano i rapporti tra le autorità d'ambito e i gestori – abbia ritenuto che la norma legittimasse, sotto il profilo della legalità/tipicità/nominatività dei provvedimenti amministrativi, la delibera del COVIRI con cui era stato ordinato il recupero delle somme oggetto della transazione intervenuta tra le parti, non ravvisandosi in tale decisione alcun indebito sindacato della transazione, né, a maggior ragione, l'annullamento del contenuto della stessa».

In termini analoghi si è ritenuto – Sez. Un., n. 11344 (Rv. 626183), est. Macioce – per la decisione con cui il Consiglio di Stato aveva dichiarato inefficace, ai sensi dell'art. 1380 cod. civ., l'aggiudicazione al vincitore di una gara per pubblico incanto concernente la gestione di un complesso turistico-ricreativo, operata nonostante l'avvenuta dichiarazione di esercizio del diritto di prelazione riconosciuto al precedente affidatario della gestione, «non ravvisandosi in detta decisione alcuna indebita sostituzione nelle prerogative discrezionali dell'amministrazione appaltante, né alcuna intrusione nelle valutazioni della stessa P.A. relative ad assunte inadempienze occorse nel pregresso rapporto».

Né l'annullamento da parte del giudice amministrativo di un atto di alta amministrazione in quanto viziato da insufficienza, e non già da contraddittorietà od illogicità della motivazione, configura – come affermato da Sez. Un., n. 9687 (Rv. 625798), est. Ceccherini – una ipotesi di sconfinamento nel merito riservato all'autorità amministrativa, trattandosi di mero error in iudicando, interno alla giurisdizione di legittimità (consistente nella mancata osservanza della riduzione che la valutazione del vizio di motivazione subisce nell'ipotesi di atti di alta amministrazione) che sfugge sindacato della Suprema Corte.

La Corte ha anche escluso che integrasse uno sconfinamento nel merito (e, dunque, un eccesso di potere giurisdizionale), il sindacato delle valutazioni compiute dalla commissione di gara – in relazione all'appalto per la realizzazione del centro accoglienza per richiedenti asilo – in sede di verifica dell'anomalia dell'offerta sul profilo del costo del lavoro (Sez. Un., n. 26939, in corso di massimazione, est. Piccininni).

Un rilevante numero di sentenze della Suprema Corte, peraltro, ha avuto ad oggetto ipotesi in cui veniva in contestazione, sia pure per diversi profili, "l'interpretazione delle norme di legge" e, ancor più specificamente, "l'applicazione delle regole del processo amministrativo".

Si tratta di profili che, pur astrattamente riconducibili alla problematica valutazione degli errores in procedendo o in judicando tradizionalmente sottratta al sindacato delle Sezioni unite, si inseriscono in un percorso di progressivo ampliamento della stessa nozione di "motivi inerenti alla giurisdizione", che, in tal modo, viene sempre più ancorata al principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Nella gran parte dei casi, invero, le Sezioni unite, pur valutando l'eventuale irregolarità o l'errata applicazione di norme e regole processuali (o sostanziali), hanno comunque concluso nel senso di ritenere insussistente, nel caso concreto, i presupposti per l'ammissibilità di un proprio intervento.

Così è stato, in particolare, nelle seguenti decisioni:

- Sez. Un., n. 300 (Rv. 624523), est. Segreto, che ha ritenuto che la violazione del giudicato esterno (nella specie, giudicato penale) «non può essere dedotta come motivo di ricorso alle Sezioni unite avverso le decisioni del giudice amministrativo in grado di appello (nella specie, Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia), trattandosi di doglianza che attiene ad un error in iudicando e non al superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa»;

- Sez. Un., n. 3037 (R.v. 624902), est. Piccininni, che ha affermato che il rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo legittima il ricorso alle Sezioni unite solo quando lo stesso sia determinato dall'affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, sicché la stessa che non possa essere da lui conosciuta, con la conseguenza che è «inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso decisione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con cui sia stata dichiarata l'inammissibilità della revocazione di una sentenza, sotto il profilo che l'errore censurato non ricadesse sui fatti prospettati dalle parti, essendo, piuttosto, imputabile ad un'inadeguata valutazione del collegio giudicante, in quanto il diniego di tutela» deriva non da un ritenuto ostacolo alla conoscibilità della domanda, ma dall'interpretazione delle norme invocate a sostegno della pretesa;

- Sez. Un., n. 20360 (Rv. 627354), est. Napoletano, che, con riguardo ad una decisione di rigetto di una domanda di risarcimento danni, fondata sull'interpretazione delle norme allegate dallo stesso ricorrente, ha escluso che si configurasse «un eccesso di potere giurisdizionale da parte del giudice amministrativo, non determinandosi né una sostituzione della volontà dell'organo giudicante a quella della P.A., né un'autonoma produzione normativa e né, comunque, un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia».

- Sez. Un., n. 20569 (Rv. 627358), est. Segreto, secondo la quale «la declaratoria di inammissibilità del ricorso fondata sul principio dell'alternatività del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica con quello giurisdizionale, non integra un'ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale in quanto mera applicazione del principio previsto dall'art. 34 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e dall'art. 8 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, senza che assuma rilievo l'eventuale errata valutazione dell'identità delle domande», che attiene all'esplicazione interna del potere giurisdizionale del giudice amministrativo;

- in termini analoghi si è espressa Sez. Un., n. 20590 (Rv. 627420), est. Vivaldi, che ha escluso la sussumibilità nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale della decisione di rigetto del giudice amministrativo fondata sull'asserita spettanza di un sindacato di sola legittimità e non di giurisdizione esclusiva (nella specie, in materia di provvedimenti interdittivi antimafia adottati dall'autorità prefettizia), «trattandosi di questione che attiene esclusivamente alle caratteristiche del sindacato e non integra un'ipotesi di rifiuto di giurisdizione»;

- da ultimo, infine, Sez. Un., n. 24468 (Rv. 627990), est. Amoroso, con estrema chiarezza ha enunciato il principio secondo il quale «è configurabile l'eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia e non già un mero dissenso del ricorrente (nella specie il ricorrente, revocato dalla provvisoria aggiudicazione del servizio di riscossione tributi per sua inaffidabilità desumibile da un precedente rapporto, aveva lamentato che il Consiglio di Stato non si fosse limitato alla mera verifica della sufficienza della motivazione di tale revoca, ma che ne avesse operato una vera e propria integrazione ritenendo sussistente il presupposto di cui all'art. 38, lett. f, del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163, così compiendo apprezzamenti discrezionali riservati alla pubblica amministrazione)».

Un'ipotesi particolare è, poi, quella esaminata da Sez. Un., n. 27847 (in corso di massimazione), est. Amoroso, in cui la Corte ha ritenuto che in caso di «di ricusazione del giudice amministrativo, nella specie per il fatto di essere parti nel giudizio anche magistrati amministrativi, l'applicazione dell'art. 18, comma 4, del codice del processo amministrativo – il quale consente che il collegio investito della controversia possa disporre la prosecuzione del giudizio se ad un sommario esame ritenga l'istanza inammissibile o manifestamente infondata – appartiene alle regole del processo amministrativo, sicché sono configurabili solo eventuali errores in procedendo che non ridondano in possibili vizi di giurisdizione censurabili con ricorso per cassazione ex art. 362, primo comma, cod. proc. civ., salvo che non risulti la mancata (o meramente apparente o abnorme) applicazione di tali regole processuali, deducibile invece sotto il profilo dell'eccesso di potere giurisdizionale per violazione dei limiti esterni della giurisdizione stessa».

Sempre in tema di interpretazione delle norme la Corte ha ripetutamente escluso che la mera attività interpretativa possa, in sé determinare uno sconfinamento nella sfera riservata al legislatore: in un caso – Sez. Un., n. 11347 (Rv. 626181), est. Macioce – il giudice amministrativo si era limitato, nell'esercizio del suo compito di rinvenimento della regula iuris, ad interpretare estensivamente «ai fini dell'individuazione del quorum occorrente per l'elezione del presidente del consiglio comunale, l'ambito di operatività della delega demandata dagli artt. 38 e 42 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, alle norme regolamentari contenute nello statuto e nel regolamento del comune», mentre nell'altro, di particolare interesse per la fattispecie considerata (Sez. Un., n. 20698, Rv. 627426, est. Macioce), il Consiglio di Stato aveva annullato un regolamento ministeriale (il d.m. 256 del 2003 del Ministero dell'economia e delle finanze con cui erano stati dettati i criteri per il riconoscimento dell'esenzione di accise per biodiesel) escludendone il suo carattere di norma primaria (asseritamente determinato da rinvio recettizio ad opera della legge successiva) ma tale risultato era stato raggiunto, con un'ampia, effettiva ed articolata motivazione, in via interpretativa, senza che, per contro, assumesse alcun rilievo l'esito dell'interpretazione stessa, come tale ricadente in un (eventuale) errore di giudizio, sottratto al sindacato delle Sezioni unite.

La Corte è altresì ritornata sulle problematiche relative al rispetto dei limiti esterni della giurisdizione in ordine alle decisioni adottate dal Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza, consolidando e ribadendo l'orientamento emerso tra la fine del 2011 e il 2012. In tal senso ha precisato – Sez. Un., n. 10060 (Rv. 626158), est. Di Palma – che ai fini dell'ammissibilità del sindacato delle Sezioni unite «è decisivo stabilire se oggetto del ricorso sia il modo con cui il potere di ottemperanza è stato esercitato (limiti interni della giurisdizione) oppure se sia in discussione la possibilità stessa, in una determinata situazione, di fare ricorso al giudizio di ottemperanza (limiti esterni della giurisdizione)», con la conseguenza che ove le censure riguardino l'interpretazione del giudicato e delle norme oggetto di quel giudizio, gli errori (eventuali) restano inerenti al giudizio di ottemperanza e non sono sindacabili dalla Corte di cassazione (in termini analoghi anche Sez. Un., n. 26583, in corso di massimazione, est. Macioce, che, tra l'altro, ha precisato che «l'interpretazione del giudicato sottoposto per l'esecuzione appartiene per intero alla sfera dei limiti interni del giudizio di ottemperanza»). Né diverso esito – Sez. Un., n. 20565 (Rv. 627353), est. Rordorf – ha la valutazione, raggiunta dal giudice amministrativo, dell'assenza di contrasto tra la decisione di cui si chiede l'osservanza e il successivo provvedimento dell'amministrazione reiterativo della misura «trattandosi di un possibile esito naturale del giudizio».

Del resto, si è anche evidenziato che, ove sia chiesta l'esecuzione di una sentenza avente natura meramente dichiarativa di un obbligo (nella specie, dell'obbligo, gravante su un Comune, di pagare la retta di degenza a favore di un ente ospedaliero), è connaturato al giudizio di ottemperanza e ai poteri del giudice amministrativo di adottare i necessari provvedimenti amministrativi, senza che ciò comporti uno sconfinamento di giurisdizione (Sez. Un., n. 17654, Rv. 627552, est. Bucciante).

Da ultimo, con riguardo allo specifico tema, meritano di essere evidenziate due decisioni relative alla deducibilità, come motivo afferente alla giurisdizione, del (mancato) esercizio del sindacato incidentale di legittimità (Sez. Un., n. 7929, Rv. 625629, est. Di Palma), nonché del (mancato) accoglimento della richiesta di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (Sez. Un., n. 16886, Rv. 626853, est. Piccininni).

La Corte in entrambi i casi ha escluso l'ammissibilità del ricorso per cassazione fondato su questi profili, atteso che, da un lato, «il vigente sistema di sindacato incidentale di costituzionalità attribuisce a qualunque autorità giurisdizionale, innanzi a cui sia sollevata la relativa eccezione, il potere di respingerla per manifesta irrilevanza o infondatezza», con la conseguenza che il concreto esercizio di tale potere non può «per definizione, integrare, un vizio di eccesso di potere giurisdizionale sindacabile dalla Suprema Corte alla stregua degli artt. 111, ottavo comma, Cost. e 362, primo comma, cod. proc. civ.», mentre, dall'altro, neppure il mancato rinvio pregiudiziale configura «una questione attinente allo sconfinamento dalla giurisdizione del giudice amministrativo» attesa la funzione propria della Corte di Giustizia Europea ex art. 234 Trattato CEE, che «non opera come giudice del caso concreto, ma come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale».

1.2. Il sindacato sulle sentenze della Corte dei conti.

Anche con riferimento alla giurisdizione della Corte dei conti sono intervenute, nel corso del 2013, decisioni che hanno contribuito alla definizione del concetto di "motivi inerenti alla giurisdizione" e, conseguentemente, a meglio definire gli ambiti della potestà del giudice contabile.

Si è affermato, infatti, che il sindacato delle Sezioni unite sulle decisioni della Corte dei conti in sede giurisdizionale «non investe un eventuale error in iudicando, essendo circoscritto al controllo dell'eventuale violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice contabile, ovvero all'esistenza dei vizi che attengono all'essenza della funzione giurisdizionale, senza estendersi al modo del suo esercizio» (Sez. Un., n. 17660, Rv. 627546, est. Bucciante; nonché da ultimo Sez. Un., n. 25037, in corso di massimazione, est. Virgilio), con la conseguenza – Sez. Un., n. 14503 (Rv. 626630), est. Vivaldi – che è inammissibile il ricorso prospettante carenze motivazionali per aver la Corte dei conti, in un giudizio di responsabilità erariale, disatteso l'istanza di definizione agevolata della controversia formulata ai sensi dei commi 231-233 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, «trattandosi di censura che non investe l'omesso esercizio del concreto potere attribuito a quella Corte ma la sua modalità operativa».

Negli stessi termini, poi, si è espressa la Corte – Sez. Un., n. 12102 (Rv. 626178), est. Salvago – con riguardo alle censure volte a «contestare la violazione dell'art. 2 del d.lgs. 19 novembre 2004, n. 286, in tema di riordino dell'Istituto nazionale di valutazione del sistema dell'istruzione, nonché ad addebitare al giudice contabile di aver compiuto apprezzamenti discrezionali dell'interesse pubblico perseguito dal medesimo istituto, e a denunciare l'inosservanza del dovere di motivazione in ordine ai criteri adottati per la determinazione del danno erariale, in quanto tutte questioni attinenti all'esercizio del potere giurisdizionale da parte della Corte dei conti ovvero di verifiche comunque spettanti allo stesso giudice contabile circa la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico».

È stato altresì ribadito, anche rispetto alle decisioni della Corte dei conti, l'ormai consolidato orientamento secondo il quale l'implicita affermazione della giurisdizione effettuata con la decisione di merito di primo grado è ostativa al rilievo d'ufficio in grado d'appello, rilievo che, ove effettuato, è suscettibile di sindacato proprio in quanto afferente alla giurisdizione (Sez. Un., n. 24150, Rv. 627993, est. Macioce); è poi precluso – e l'eventuale sindacato è suscettibile di integrare un diniego di giurisdizione – il riesame della giurisdizione da parte del giudice del rinvio ove le Sezioni unite abbiano disposto, con la declaratoria di giurisdizione, un nuovo giudizio di merito (Sez. Un., n. 20696, Rv. 627424, est. San Giorgio).

La questione che, peraltro, nel 2013 ha raccolto le maggiori attenzioni da parte delle Sezioni unite ha ad oggetto l'ambito della responsabilità amministrativa nei confronti di soggetti che, in vario modo, hanno una relazione con la P.A.

Di particolare interesse è la fattispecie considerata con l'ordinanza Sez. Un., n. 20701 (rv. 627456-627457), est. Salvago, che ha ritenuto la giurisdizione della Corte dei conti sulla domanda della procura contabile per la restituzione alla Commissione europea delle somme erogate in via diretta, ed illecitamente percepite; si è affermato, infatti, che «l'alveo della giurisdizione del giudice contabile non è limitato, ai sensi dell'art. 52 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, al solo danno arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico nazionale, ma si estende all'intero importo finanziato, attesa l'estensione dell'ambito dell'azione di responsabilità operata dall'art. 1, comma 4, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, di cui non è consentita una discriminazione applicativa in funzione del carattere sovranazionale dell'amministrazione tutelata ovvero della natura del contributo erogato, dovendosi anzi – in applicazione del principio di assimilazione, in forza del quale gli interessi finanziari europei sono assimilati a quelli nazionali – assicurare, per la tutela dei medesimi beni giuridici, le stesse misure previste dal diritto interno». Né, a tal fine, assume rilievo la possibilità dell'amministrazione di agire in via risarcitoria secondo le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità «che restano reciprocamente indipendenti, integrando le eventuali interferenze tra i giudizi una questione di proponibilità dell'azione di responsabilità innanzi al giudice contabile e non di giurisdizione», come autonoma e differente, per presupposti e finalità, resta l'azione revocatoria ordinaria rispetto all'analoga azione erariale (in termini analoghi Sez. Un., n. 20957, Rv. 627433, est. Cappabianca e Sez. Un., n. 26935, in corso di massimazione, est. Salvago).

Più approfondita e reiteratamente affrontata, peraltro, è la questione della responsabilità dell'ente ovvero della società, od anche del privato, che si ponga in rapporto privilegiato con la P.A. in quanto soggetto partecipato ovvero destinatario di contributi erogati dalle amministrazioni pubbliche.

La Corte, nell'individuare i criteri di riparto della giurisdizione del giudice contabile, ha ritenuto di scarso rilievo la circostanza della mera partecipazione pubblica, anche totalitaria (Sez. Un., n. 8352, Rv. 625963, est. Salvago; Sez. Un., n. 10299, Rv. 625964, est. Amatucci, con riferimento ad un caso di mala gestio da parte dell'organo di amministrazione) ed anche che il soggetto sia stato destinatario di risorse pubbliche (Sez. Un., n. 20075, Rv. 627356, in tema di fondazioni), riconoscendo un valore discretivo, invece, alla circostanza che l'attività sia stata posta in essere in relazione alle finalità istituzionali ovvero, con riguardo all'azione di privati, che la condotta fosse connessa ad un instaurato rapporto di servizio (Sez. Un., n. 7374, Rv. 625714, est. Amatucci; Sez. Un., n. 1774, Rv. 624835, est. Macioce, con riguardo, specificamente, al caso di una società beneficiaria di un finanziamento per la realizzazione di un impianto di maricoltura off-shore, nonché, recentemente, Sez. Un., n. 26034, in corso di massimazione, est. Vivaldi, che ha precisato che tra la P.A. che eroga un contributo e il privato che lo riceve si instaura un rapporto di servizio, sicché il percettore del finanziamento risponde per danno erariale qualora, disponendo della somma in modo diverso da quello programmato, frustri lo scopo perseguito dall'ente pubblico) e, rispetto ai dipendenti di società, ad un rapporto organico (Sez. Un., n. 295, Rv. 624669, est. Mammone).

Recentemente – con Sez. Un., n. 26581 (in corso di massimazione), est. Macioce – si è pure ribadito il concetto che, ai fini della giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, «non deve aversi riguardo alla qualità del soggetto che gestisce denaro pubblico bensì alla natura del danno ed alla portata degli scopi perseguiti con la contribuzione stessa».

Giova sottolineare, sul punto, che il punto centrale della questione, invero, riguarda la verifica e individuazione di un rapporto di servizio tra l'amministrazione e il dipendente.

Su questa problematica l'orientamento della Corte è, da tempo, in positiva evoluzione ed ha condotto ad assegnare alla nozione – come emerge, ad esempio, con Sez. Un., n. 23599 del 2010 (Rv. 615020), e con Sez. Un., n. 20434 del 2009 (Rv. 609244) – un contenuto più ampio del mero rapporto di impiego, avvicinandosi ad un rapporto quasi funzionale, con inserimento dell'agente nell'iter procedimentale o nell'apparato organico dell'ente e compartecipazione all'attività amministrativa di quest'ultimo, indicazioni che hanno ricevuto piena continuità nel corso del 2013.

Una più specifica indicazione, peraltro, ha riguardato le cosiddette "società in house" (Sez. Un., n. 26283, in corso di massimazione, est. Rordorf).

In questo caso, infatti, la particolare configurazione della società – che è «costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggetta a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici» – comporta la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti per l'azione erariale (esercitata dalla competente procura) quando debba essere fatta valere la responsabilità degli organi sociali per i danni cagionati al patrimonio della società medesima. In una successiva decisione – Sez. Un., n. 26936 (in corso di massimazione), est. Macioce, nonché la conforme n. 27489, est. Amatucci – poi, la Corte ha ritenuto sussistente la giurisdizione della Corte dei conti in quanto l'esame dei dati statutari applicabili all'epoca della condotta portava ad escludere che la società (nella specie, l'AMA spa) fosse qualificabile come in house.

Un ultimo profilo investe le controversie pensionistiche appartenenti alla giurisdizione del giudice contabile. In tale ambito le pronunce intervenute nel corso del 2013 si inseriscono in orientamenti consolidati.

In tal senso si è ribadito che appartengono alla «giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti nella materia pensionistica non solo le controversie aventi ad oggetto il diritto o la quantificazione della prestazione, ma anche le domande di risarcimento del danno per l'inadempimento delle obbligazioni derivanti da tale rapporto» (Sez. Un., n. 153, Rv. 624717, est. Rordorf; nello stesso senso anche Sez. Un., n. 4853, Rv. 625162, est. Ianniello).

Ove, peraltro, la questione investa l'attribuzione di una quota della pensione di reversibilità la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, venendo in rilievo il diverso profilo concernente i rapporti tra l'ex coniuge e il coniuge superstite (Sez. Un., n. 25456, in corso di massimazione, est. Napoletano).

1.3. Il riparto di giurisdizione: casistica.

Gli interventi della giurisprudenza per la risoluzione del conflitto tra le giurisdizioni – ossia per definire una volta per tutte quale giudice abbia giurisdizione sulla domanda proposta dalla parte – ha interessato una varietà di questioni, su cui la Corte, nel corso del 2013, ha avuto più volte occasioni di pronunciarsi e di fornire specifiche indicazioni.

In tema di "azione risarcitoria" le Sezioni unite hanno ritenuto, nella materia dei "servizi pubblici", siano essi dati o meno in concessione, la controversia «intrapresa da un utente di un servizio di istruzione professionale che ne lamenti l'avvenuta erogazione in modo non corrispondente alla prestazione in riferimento alla quale aveva pagato il corrispettivo appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che il pregiudizio prospettato non è il riflesso dell'organizzazione del servizio stesso, ma attiene al rapporto di utenza, discutendosi, quindi, non dell'esercizio o del mancato esercizio del potere amministrativo o, comunque, di comportamenti anche mediatamente riconducibili all'esercizio di tale potere tenuti da pubbliche amministrazioni o da soggetti ad essi equiparati, bensì di danni derivanti da difettosa erogazione del servizio» (Sez. Un., n. 24467, Rv. 627989, est. Amoroso). In termini analoghi si è pronunciata la Corte – Sez. Un. n. 7043 (Rv. 625505), est. Spirito – con riguardo alle richieste risarcitorie per i danni conseguenti al cattivo funzionamento dell'erogazione dell'energia elettrica proposte nei confronti dell'ente gestore del servizio.

In caso di servizio pubblico di trasporto aereo, più incisivamente, si è affermato che la domanda di risarcimento danni «per il mancato adeguamento annuale dei diritti aeroportuali, da effettuare, con l'adozione di appositi decreti ministeriali, in misura pari al tasso di inflazione programmato ai sensi dell'art. 2, comma 190, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, trattandosi di provvedimenti a contenuto vincolato ex lege e la cui emissione è obbligatoria per l'autorità amministrativa, per cui non sono ravvisabili l'esercizio di alcun potere autoritativo, né spazi di scelta discrezionale» (Sez. Un., n. 20566, Rv. 627352, est. Rordorf).

Numerose decisioni hanno poi riguardato, sotto vari profili, la tematica della "gestione dei rifiuti". In tal senso si è ritenuto:

- con Sez. Un., n. 17935, est. Ceccherini, che «è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, stante la carenza di entrambi i requisiti, oggettivo e soggettivo, per l'attribuzione a quella esclusiva del giudice amministrativo, la controversia sull'asserita illegittimità di un "contratto di investimento" riguardante l'acquisto di un terreno e l'obbligo di realizzarvi un impianto di recupero di rifiuti in vetro – come tale non riconducibile alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi o forniture svolte da soggetti tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale – concluso, senza previo esperimento di gara pubblica, da una società per azioni, controllata per una quota di maggioranza da due comuni (peraltro non tenuti a ripianarne le perdite) quotata in borsa, con previsione statutaria di conseguimento di utili da distribuirsi anche ai soci privati e la cui attività è soggetta al rischio di impresa»;

- con Sez. Un., n. 16304 (Rv. 626905), est. Chiarini, che «le controversie concernenti l'organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani – ivi comprese quelle aventi ad oggetto il risarcimento dei danni conseguenti all'omessa adozione dei provvedimenti necessari a prevenire o impedire l'abbandono di rifiuti sulle strade, ovvero a rimuoverne gli effetti – appartenevano alla giurisdizione del giudice amministrativo già in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'art. 4, comma 1, del d.l. 23 maggio 2008, n. 90, convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2008, n. 123, norma che – sebbene abrogata dall'art. 4, allegato 4, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 – è stata riprodotta dall'art. 133, comma 1, lettera p) del medesimo d.lgs., nulla avendo innovato, ambedue tali disposizioni, in ordine al riparto della giurisdizione in detta materia, posto che la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani costituiscono un servizio pubblico che la legge riserva obbligatoriamente ai Comuni, ai sensi di quanto già previsto – prima della sua abrogazione ad opera dell'art. 4, allegato 20, del già citato d.lgs. n. 104 del 2008 – dall'art. 33, comma 2, lettera e), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, nel testo modificato dall'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205»;

- con Sez. Un., n. 12901 (Rv. 626611), est. Segreto, che «l'ente pubblico, che stipuli con società private contratti per la realizzazione e gestione di termovalorizzatori finalizzati a risolvere l'emergenza rifiuti, assume la medesima posizione di un soggetto privato, ponendo in essere atti disciplinati dal codice civile e dalle relative leggi speciali, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, in coerenza ed analogia con i principi comunitari afferenti la costituzione di società da parte delle pubbliche amministrazioni, che non ammettono poteri speciali da parte dell'azionista pubblico, sicché, una volta sorti gli impegni negoziali da essi derivanti, le conseguenti controversie per responsabilità da inadempimento con le società contraenti, riguardando essenzialmente rapporti tra parti paritetiche, e non potendo più spendere o esercitare la P.A. alcun potere di supremazia o di imperio, nemmeno in sede di autotutela, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario» e che, in termini ancora più puntuali (Sez. Un., n. 22317, Rv. 627521, est. Ceccherini), «la realizzazione delle infrastrutture necessarie per l'espletamento dei servizi di gestione del ciclo dei rifiuti non costituisce essa stessa gestione di tale ciclo», con la conseguenza che la controversia concernente il risarcimento di pretesi danni per la loro mancata costruzione non ricade nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ma in quella del giudice ordinario.

In tema di "appalto pubblico" e risarcimento del danno la Corte ha invece ribadito i criteri di riparto tra le giurisdizioni.

Secondo Sez. Un., n. 17858 (Rv. 627213), est. Di Palma, in particolare, «qualora alla deliberazione di aggiudicazione dell'appalto non segua la stipula della convenzione di disciplina tra le parti, bensì, all'esito di una fase interlocutoria volta alla eventuale rinegoziazione dell'oggetto dell'instaurando rapporto, la decadenza dalla stessa aggiudicazione, la controversia introdotta dall'aggiudicatario decaduto per ottenere l'accertamento del preteso inadempimento dell'ente agli obblighi contrattuali e la sua condanna alla restituzione delle cauzioni versategli, oltre rivalutazione ed interessi, nonché al risarcimento del danno asseritamente patito nel corso della trattativa precontrattuale, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, essendosi la fattispecie svolta ed esaurita tra l'originaria aggiudicazione e la stipula del contratto, mai avvenuta», mentre, per Sez. Un., n. 10301 (Rv. 626352), est. Forte, l'azione risarcitoria proposta da un appaltatore di opera pubblica nei confronti della P.A. committente, «relativa all'inadempimento degli obblighi di collaborazione nascenti dal contratto d'appalto, come pure quella proposta contro il progettista e il direttore dei lavori, nonché contro altri enti pubblici, chiamati in causa per l'inottemperanza ai doveri di buona fede e correttezza, che abbiano determinato, con le loro condotte inerti od omissive, un ingiusto prolungamento dei lavori, causa dei danni di cui si chiede la reintegrazione, trattandosi di domande fondate non su provvedimenti illegittimi dell'amministrazione, ma su comportamenti illeciti della stessa». Analogamente quanto alla chiamata in manleva operata dalla stessa P.A. nei confronti di terzi ove la domanda sia fondata sulle medesime ragioni (Sez. Un., n. 10300, Rv. 625968, est. Forte). Diverso è il caso, peraltro, in cui la decadenza della società aggiudicataria sia conseguente alla volontà, già espressa dalla stessa, di recedere dal contratto e il contenzioso riguardi esclusivamente le contrapposte pretese delle parti in ordine alla cauzione a suo tempo prestata (così Sez. Un., n. 26584, in corso di massimazione, est. Rordorf).

Più in generale, poi, è stata ribadita – Sez. Un., n. 20571 (Rv. 627429), est. Amatucci – la giurisdizione del giudice ordinario ove non vengano in considerazione scelte od atti autoritativi dell'amministrazione ma una attività soggetta al principio del neminem laedere, ossia condotte che attengono al rispetto delle regole tecniche ovvero dei parametri di diligenza e prudenza o comunque – Sez. Un., n. 14506 (Rv. 626590), est. Botta, relativa all'illecita iscrizione di ipoteca da parte di concessionario per la riscossione tributi – attengono ad un fatto illecito della P.A., potendosi porre, in tale evenienza, anche una questione di riferibilità della condotta alla P.A. (Sez. Un., n. 7380, Rv. 625540, est. Amoroso, in relazione alla condotta penalmente illecita dei componenti di una commissione di concorso a professore universitario).

Diversi interventi hanno anche investito la materia "urbanistica ed edilizia". Si è affermato, in particolare, che «rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, prevista dall'art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, nel testo modificato dall'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205 (applicabile ratione temporis), la controversia concernente il risarcimento dei danni lamentati da un Consorzio di bonifica in relazione all'esecuzione dei lavori di realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, ricorrendo i presupposti oggettivi e soggettivi per l'applicazione della norma, quali la natura pubblicistica del procedimento preordinato allo svolgimento dell'attività, il carattere soprattutto pubblico degli interessi coinvolti, le scelte discrezionali della P.A., il ricorso da parte di essa a strumenti autoritativi, la manifesta incidenza sul territorio del progetto e della sua attuazione e, soprattutto, il nesso esistente tra atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni o soggetti ad esse equiparati (tale dovendosi ritenere la società T.A.V. s.p.a, in quanto strumento per la realizzazione di un fine pubblico, il trasporto ferroviario, qualificato come servizio pubblico essenziale dall'art. 1, comma 2, lettera b, della legge 12 giugno 1990, n. 146) ed uso del territorio» (Sez. Un., n. 16883, Rv. 626884, est. Vivaldi).

Rientrano, poi, nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie, anche di natura risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime preordinate all'espropriazione, attuate in presenza di un concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione, nonché l'irreversibile trasformazione della stessa, siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva» (Sez. Un., n. 7938, Rv. 625635, est. Rordorf).

Più in generale, del resto, si è affermato – Sez. Un., n. 8349 (Rv. 635846), est. Salvago – che ove «la controversia abbia per oggetto accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, la stessa rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quali che siano i diritti – reali o personali – fatti valere nei confronti dell'amministrazione espropriante, nonché la natura – restitutoria o risarcitoria – della pretesa avanzata nei confronti di quest'ultima».

Ove, peraltro, l'occupazione delle aree derivi dall'illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità per mancata indicazione dei termini per lo svolgimento dei lavori, la vicenda è «riconducibile ad un comportamento materiale della P.A., non ricollegabile in alcun modo ad un esercizio dei poteri ad essa conferiti» da cui la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda risarcitoria proposta (Sez. Un., n. 26778, in corso di massimazione, est. Piccininni).

Un ulteriore ambito esaminato dalla Suprema Corte riguarda il riparto della giurisdizione rispetto "all'azione della P.A." e "alle posizioni soggettive dei destinatari dei provvedimenti adottati".

Tali situazioni sono generalmente devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo atteso che la P.A. opera le sue scelte con atti autoritativi o, comunque, avvalendosi delle potestà discrezionali discendenti dalla legge.

In tal senso si è ritenuto – Sez. Un., n. 17932 (Rv. 627215), est. Piccialli – che «l'ampliamento dell'organico del personale disposto dal Comune di Caltanissetta secondo la previsione ed entro i limiti sanciti dall'art. 1 della legge della regione Sicilia 15 maggio 1991, n. 22, poi confermato in base alla successiva legge regionale 1 settembre 1993, n. 25, è avvenuto in forza di una norma genericamente conferente tale facoltà agli enti locali dell'isola alla stregua di loro valutazioni discrezionali e con ampi margini di variabilità, pur nell'ambito del previsto tetto massimo percentuale, con conseguente impossibilità, quindi, di determinare a priori una preventiva copertura delle spese per tutte le assunzioni effettuate dalle varie amministrazioni interessate», da cui l'inesistenza di un diritto soggettivo di credito a favore del suddetto comune, potendosi configurare solo un suo «interesse legittimo in relazione alla instaurazione ed al corretto svolgimento del relativo procedimento».

La stessa prospettiva, pur nella diversità della materia, si trova in Sez. Un., n. 12107 (Rv. 626339), est. Piccialli, che, in caso di istituzione da parte di una Regione di un nuovo servizio sanitario (quello di ortodognatodonzia infantile, distinto e separato da quello di odontoiatria), alla cui dirigenza potevano accedere solo persone in possesso di specifici requisiti (ossia, «l'abilitazione specialistica in "ortognatodonzia", oppure l'iscrizione all'ultimo anno della relativa scuola di specializzazione»), la controversia sulla domanda di un professionista (nella specie, odontoiatra), già in rapporto convenzionato con la medesima Regione, di adibizione alle nuove prestazioni, appartiene alla giurisdizione amministrativa «venendo in rilievo non l'ampliamento delle mansioni collaborative derivanti dal rapporto già in corso, quanto la pretesa di instaurare un ulteriore rapporto di collaborazione, nell'ambito del servizio di nuova istituzione, con conseguente configurabilità di una posizione di interesse legittimo a partecipare alla relativa procedura concorsuale».

In una prospettiva analoga si pone in tema di "dismissione del patrimonio degli enti previdenziali pubblici" Sez. Un., n. 9692 (Rv. 625792), est. Segreto, la quale, sul rilievo che «la quantificazione del prezzo contenuto nell'offerta da effettuarsi al conduttore dell'immobile ad uso residenziale per consentirgli l'esercizio del diritto di opzione, di cui all'art. 3 del d.l. 25 settembre 2001, n. 351 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, successivamente ulteriormente riformato) è connotata, in ragione delle variabili che la determinano, da discrezionalità pubblicistica, ne è precluso al giudice ordinario un sindacato non circoscritto alla sola sua legittimità, bensì di merito, di tipo sostitutivo delle valutazioni dell'amministrazione, sicché la controversia relativa alla sua non corrispondenza al "prezzo di mercato" come previsto dalla legge, rimanendo nella sfera di determinazione dell'ente pubblico, non integra violazione del diritto soggettivo di opzione del conduttore, ma solo un interesse legittimo alla corretta formazione della volontà dell'amministrazione, spettando alla giurisdizione del giudice amministrativo».

In tema di "società pubbliche", ossia di società per azioni a partecipazione pubblica, la Corte, sulla scorta del principio che tale partecipazione, anche totale, non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, con la conseguenza che, per incidere sulle scelte sociali, l'ente deve avvalersi degli strumenti previsti dal diritto societario, ha ribadito e consolidato i criteri di riparto di giurisdizione in relazione ai diversi momenti e ai diversi contenziosi che possano riguardare la società stessa.

In particolare è stata esclusa la configurabilità della giurisdizione amministrativa con riguardo alla controversia diretta alla declaratoria «di illiceità dell'oggetto di una società mista pubblico-privata» – Sez. Un., n. 15121 (Rv. 626892), est. Ceccherini – nonché per tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario (quali «le domande relative alla validità ed efficacia della costituzione della società mista pubblico-privata» ovvero «l'acquisizione, da parte del socio privato minoritario, del quarantanove per cento delle azioni della società stessa»),i quali restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito, mentre appartengono al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la procedura di selezione del socio privato, la conseguente aggiudicazione, nonché quella relativa all'affidamento della gestione del servizio (Sez. Un., n. 21588, Rv. 627436, est. Di Palma).

L'applicazione dei medesimi principî ha condotto la Corte – Sez. Un., n. 9534 (Rv. 625802), est. Segreto – a ritenere la giurisdizione ordinaria (e, in particolare, del Tribunale Regionale delle Acque) rispetto alla domanda di risarcimento per il danno cagionato da una società a totale partecipazione pubblica per un comportamento abusivo (nella specie, l'escavazione di un pozzo senza permesso di costruire, né concessione di derivazione di acqua pubblica e in violazione della fascia di rispetto).

Una diversa ipotesi è, invece, quella in cui la domanda di risarcimento trovi la sua causa nell'inosservanza degli obblighi sorgenti da un "accordo da qualificare come integrativo o sostitutivo del provvedimento amministrativo concessorio" poiché, in questa evenienza, l'art. 133, lett. a), n. 2 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, riconosce la competenza riservata del giudice amministrativo (così in termini generali Sez. Un., n. 1713, Rv. 624694, est. Forte; nello stesso senso Sez. Un., n. 18192, Rv. 627258, est. Forte, relativa all'inosservanza da parte di una società privata degli obblighi di un accordo di programma stipulato tra enti pubblici, cui la prima aveva successivamente aderito, «finalizzato alla bonifica ed al recupero di un'intera zona industriale»

Analoghe considerazioni sono state indicate – Sez. Un., n. 306 (Rv. 624779), est. Di Palma, nonché, da ultimo, con riguardo all'assegnazione di lotti di terreno nell'ambito di una lottizzazione, Sez. Un., n. 27494 (in corso di massimazione), est. Rordorf – per la decisione a favore della devoluzione alla giurisdizione amministrativa nel caso della domanda «di nullità dell'assegnazione, trasfusa in un atto di compravendita, di un lotto ricompreso in un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.)» e di richiesta del risarcimento dei danni derivanti «dalla condotta omissiva della P.A., in tesi contrastante con il dovere di assicurare l'idoneità del bene assegnato rispetto allo scopo per il quale era stato inserito nel piano».

Vengono in rilievo, infatti, questioni strettamente correlate a provvedimenti amministrativi (cessione di beni pubblici, convenzione tra comune e concessionario o acquirente, concessione edilizia) «costituenti esercizio di poteri autoritativi fino a quando non sia realizzata la finalità pubblicistica cui la cessione è diretta, che rientrano in tale giurisdizione alla stregua dell'art. 133, primo comma, lettera b), del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, investendo, altresì, il buon governo del territorio ed il suo uso, anch'essi riservati alla medesima giurisdizione giusta la lettera f) del primo comma della citata disposizione, e dovendo, infine ricondursi la convenzione regolante il rapporto con l'assegnatario del lotto alla figura degli accordi di natura pubblica, previsti dal primo comma, lettera a), n. 2».

In altri casi, invece, ha carattere assorbente rispetto alla posizione soggettiva della parte interessata l'indicazione normativa dell'attribuzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In tal senso si è ribadito – Sez. Un., n. 8349 (Rv. 625846), est. Salvago – che ove «la controversia abbia per oggetto accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, la stessa rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quali che siano i diritti – reali o personali – fatti valere nei confronti dell'amministrazione espropriante, nonché la natura – restitutoria o risarcitoria – della pretesa avanzata nei confronti di quest'ultima».

Nello stesso senso si è espressa Sez. Un., n. 17664 (Rv. 627557), est. Botta, in tema di "barriere architettoniche", che ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo al «giudizio relativo al servizio di sostegno scolastico a favore di minori diversamente abili (ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, come inciso dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale e finalizzato alla condanna di un Comune all'esecuzione di interventi edilizi di tipo strutturale per l'eliminazione delle barriere architettoniche impeditive dell'accesso a locali pubblici, appartenendo tale controversia al novero di quelle» riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, comma 1, lettera f), del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

Non sempre, peraltro, l'esercizio del potere amministrativo è suscettibile di affievolire la posizione del privato e ciò può dipendere dalla natura della pretesa fatta valere (e dalla correlata quasi necessaria disciplina normativa) ovvero dallo stato del rapporto tra privato e amministrazione.

In tal senso, ad esempio, in tema di "danni arrecati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole" e della corrispondente pretesa ad ottenere i contributi risarcitori, il criterio di riparto ha preso in considerazione la posizione del privato che, ove «pretenda il rispetto della procedura di accertamento dei danni subiti e della proporzione tra entità del pregiudizio verificato e stanziamento erogato, è di diritto soggettivo perché disciplinato da norme di relazione contenute nella legge», mentre, ove chieda l'integrale ristoro del danno come accertato dalla Provincia, è di interesse legittimo in quanto la disciplina normativa «che dispone il sacrificio economico costituisce un vincolo alla proprietà ed all'impresa per la tutela di interessi pubblici e dipende dall'ammontare dei fondi assegnati dalla Regione alla Provincia» (Sez. Un., n. 24466, Rv. 627988, est. Chiarini).

Nella medesima ottica si pongono anche:

- Sez. Un., n. 9690 (Rv. 625973), est. Piccialli, secondo la quale «la controversia relativa alla domanda proposta da un'impresa concessionaria del servizio di trasporto pubblico locale, volta ad ottenere non solo l'annullamento di una deliberazione regionale di ripartizione di fondi, ma anche la consequenziale condanna dell'ente territoriale al pagamento delle differenze dovute rispetto alle somme corrisposte, in osservanza degli operanti criteri legali di derivazione comunitaria, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice amministrativo, non attenendo al mancato o illegittimo esercizio di un potere discrezionale dell'amministrazione concedente, bensì alla radicale negazione delle condizioni normativamente previste per l'insorgenza della pretesa pecuniaria, connotante il petitum, vantata dalla concessionaria»;

- Sez. Un., n. 3044 (Rv. 624893), est. Rordorf, che ha ritenuto la giurisdizione del giudice ordinario con riguardo alla «domanda proposta dal concessionario della gestione di un aeroporto per il pagamento delle tasse e dei diritti aeroportuali, non ravvisandosi momenti di valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in gioco, ma esclusivamente l'applicazione di un parametro di natura normativa» spettando al giudice amministrativo solo la giurisdizione sulla domanda avente ad oggetto il pagamento di somme a titolo di corrispettivo per la prestazione di servizi concernenti l'uso delle infrastrutture e dei beni dell'areostazione;

- Sez. Un., n. 150 (Rv. 624548), est. Rordorf, in tema di benefici a favore di concessionario per la diffusione televisiva locale spettanti ex art. 23, terzo comma, della legge 6 agosto 1990, n. 223 e, in particolare, quelli specificamente previsti dall'art. 11, primo comma, della legge 25 febbraio 1987, n. 67, le cui controversie appartengono alla giurisdizione ordinaria «in quanto la suddetta normativa subordina la possibilità del concessionario di godere dei summenzionati benefici al solo accertamento, ad opera della pubblica amministrazione, della sussistenza delle condizioni a tal fine previste dalla legge, indipendentemente da ogni valutazione di opportunità».

Significativo è poi l'affermato sviluppo – Sez. Un., n. 21590 (Rv. 627444), est. San Giorgio – della situazione del privato già destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio o di approvazione: questi provvedimenti, infatti, «rendono di regola possibile l'esercizio di un diritto (o di un potere a questo connesso) che già apparteneva al destinatario del provvedimento, in tal modo ampliando la sua preesistente posizione di diritto soggettivo», con la conseguenza che, in caso di illegittimo diniego del rinnovo (nella specie, dell'autorizzazione all'esercizio di guardia particolare giurata), «il danno derivatone è risarcibile – e l'azione resta devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario – configurandosi la lesione del diritto soggettivo, che in virtù del provvedimento autorizzatorio aveva avuto piena espansione ad attuazione».

Di particolare interesse è altresì la distinzione – individuata dalla giurisprudenza (Sez. Un., n. 12110, Rv. 626177, est. Rordorf) – tra declaratoria di nullità, operata in via unilaterale da parte dell'amministrazione, e annullamento in via di autotutela, costituendo solo quest'ultimo esercizio proprio dei poteri autoritativi o discrezionali riconosciuti alla P.A. e, dunque, restando la giurisdizione devoluta, nel primo caso, al giudice ordinario atteso il dovere della P.A. di «misurarsi con gli eventuali diritti soggettivi che i terzi possano aver al riguardo acquisito» (nella specie l'amministrazione aveva adottato deliberazioni dichiarative della nullità di precedenti determinazioni dirigenziali poste a base di contratti per operazioni su strumenti finanziari stipulati in base a trattativa privata da un comune).

Esistono poi posizioni di diritto soggettivo la cui valenza è tale da non poter subire un affievolimento in relazione all'ambito dei poteri attribuiti alla P.A. In tal senso, con riguardo al "diritto alla salute" si è affermato – Sez. Un., n. 20577 (Rv. 627421), est. Amatucci – che «la controversia relativa al diniego dell'autorizzazione ad effettuare cure specialistiche presso centri di altissima specializzazione all'estero appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario giacché la domanda è diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo – il diritto alla salute – non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica attribuita in materia alla P.A., senza che rilevi che, in concreto, sia stato chiesto l'annullamento dell'atto amministrativo, il quale implica solo un limite interno alle attribuzioni del giudice ordinario, giustificato dal divieto di annullamento, revoca o modifica dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 4, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, e non osta alla possibilità per il giudice di interpretare la domanda come comprensiva della richiesta di declaratoria del diritto ad ottenere l'autorizzazione ad effettuare le cure all'estero».

Lo stesso fondamento è stato individuato con riguardo alla materia delle "immissioni" (nella specie acustiche e derivanti dalle strutture poste dalla P.A. in una zona di verde pubblico destinata a parco giochi) atteso che, come precisato da Sez. Un., n. 4848 (Rv. 625169), est. Mazzacane, «il risarcimento dei danni alla persona subiti, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto volta alla tutela dei diritti soggettivi lesi dalle immissioni, senza investire alcun provvedimento amministrativo, essendo, d'altra parte, la P.A. priva di qualsiasi potere di affievolimento del diritto alla salute, garantito dall'art. 32 Cost.»

Così pure in tema di "immigrazione" dove, con principio enunciato ai sensi dell'art. 363 cod. proc. civ., si è precisato – Sez. Un., n. 14501 (Rv. 626888), est. Salmé – che «la domanda di risarcimento dei danni derivanti dal ritardo nell'adozione del rinnovo del permesso di soggiorno richiesto da titolare dello status di rifugiato, proposta in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha aggiunto alla legge 7 agosto 1990, n. 241, l'art. 2 bis, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario»; analoga affermazione è stata compiuta da Sez. Un., n. 15115 (Rv. 626850), est. Macioce, con riguardo alla disciplina dei respingimenti, giustificandosi questa soluzione in quanto «in mancanza di norma derogatrice al criterio generale, la cognizione dell'impugnazione dei respingimenti, incidendo il relativo provvedimento su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo, in quanto rivolto, senza margini di ponderazione di interessi in gioco da parte dell'Amministrazione, all'accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge ed a quello negativo della insussistenza dei presupposti per l'applicazione delle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale».

Un filone in parte autonomo riguarda le questioni relative alla "materia dell'edilizia economica e popolare pubblica" su cui si sono registrati, nel corso del 2013, diversi interventi delle Sezioni unite.

Si è in particolare affermato – Sez. Un., n. 12898 (Rv. 626375), est. Piccialli – che «appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia insorta successivamente all'assegnazione degli alloggi ai soci da parte di cooperativa edilizia fruente di contributo erariale, senza che abbia rilievo, a tal fine, che si tratti di cooperativa a proprietà indivisa, con conseguente attribuzione agli assegnatari soltanto di un diritto di uso delle case, in quanto questo costituisce pur sempre un diritto reale che, all'esito di un provvedimento autorizzativo dell'amministrazione locale competente diretto alla verifica delle condizioni previste dalla legge, può trasformarsi in diritto di proprietà, rimanendo così in discussione, nella fase terminale del procedimento, unicamente l'entità del giusto prezzo di cessione secondo criteri predeterminati, i quali non riservano alcuna discrezionalità all'amministrazione», mentre appartiene al giudice amministrativo – così Sez. Un., n. 9694 (Rv. 625971), est. Vivaldi, nonché Sez. Un., n. 20589 (Rv. 627422), est. Vivaldi – quella «avente ad oggetto la legittimità del rifiuto opposto dalla P.A. all'istanza di assegnazione, a titolo di regolarizzazione, di un alloggio già occupato dal richiedente, in quanto relativa alla fase iniziale del procedimento riconducibile all'esercizio di pubblici poteri, e non già a quella successiva ricadente nell'ambito di un rapporto paritetico soggetto alle regole del diritto privato».

Più in generale, poi, si è precisato che spettano al giudice amministrativo tutte le controversie dirette ad ottenere «l'annullamento dell'assegnazione per vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento» mentre la domanda appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario «quando siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione»; in relazione a ciò, pertanto, si è affermato – Sez. Un., n. 22957 (Rv. 627781), est. Spirito – che spetta al giudice ordinario «la controversia promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto locatizio, giacché la disciplina recata in relazione al subentro nell'assegnazione dalle leggi della Regione Piemonte 28 marzo 1995, n. 46 (artt. 1 e 15) e 17 febbraio 2010, n. 3 (artt. 4 e 13), non riservano all'Amministrazione alcuna discrezionalità al riguardo, configurando un diritto soggettivo».

Un'ulteriore importante questione – esaminata da Sez. Un., n. 2595 (Rv. 625336-625338), est. Virgilio – ha riguardato l'esistenza, e la valutazione, di un possibile "riparto di giurisdizione tra giudice nazionale e giudice comunitario".

La vicenda presa in esame aveva ad oggetto una domanda diretta a far valere un credito nei confronti della Commissione Europea, che si fondava su di una decisione della stessa istituzione. Nella specie, pertanto, veniva in rilievo una azione di responsabilità contrattuale da cui discendeva l'appartenenza della domanda alla giurisdizione nazionale in forza della regola generale della «competenza delle giurisdizioni nazionali nelle cause in cui è parte la Comunità, a norma dell'art. 240 del Trattato CE nella versione consolidata del 1997», restando irrilevanti la natura, di diritto pubblico o privato, delle norme da applicare.

Il criterio risolutivo del riparto tra la giurisdizione nazionale e quella comunitaria, del resto, va individuato (fatto salvo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea) «in una prospettiva di diritto comunitario, in quanto la giurisdizione del giudice comunitario è determinata dalle norme dei Trattati comunitari e tali disposizioni si impongono su quelle di diritto nazionale in virtù del primato del diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia».

Da ultimo, meritano di essere segnalate quelle situazioni nelle quali il riparto tra le giurisdizioni incontra il limite del difetto assoluto di giurisdizione e, in ispecie, i casi nei quali la Corte di cassazione si è trovata a discernere del "principio di autodichia".

Così è stato, in particolare, in tema di operazioni elettorali riguardanti l'elezione del Parlamento, dove si è affermato – Sez. Un., n. 3731 (Rv. 625210), est. Rordorf – che l'art. 87 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (attuativo del principio di cui all'art. 66 Cost.), nel riservare all'assemblea elettiva la convalida dell'elezione dei propri componenti, nonché il giudizio definitivo su ogni contestazione, protesta o reclamo presentati ai singoli Uffici elettorali circoscrizionali ed all'Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente, «affida la cognizione di ogni questione concernente le operazioni elettorali alla funzione giurisdizionale esclusiva delle Camere tramite le rispettive Giunte parlamentari, restando così preclusa qualsivoglia possibilità di intervento in proposito, anche di natura cautelare, da parte del giudice ordinario e del giudice amministrativo». Per contro la Corte – Sez. Un., n. 26035 (in corso di massimazione), est. Vivaldi – ha ritenuto inammissibile il regolamento ex art. 41, secondo comma, cod. proc. civ., proposto dalla Presidenza della Repubblica contro la condanna per responsabilità erariale di alcuni dipendenti della Presidenza stessa, accusati di malversazione, poiché la norma è posta a presidio dell'area di spettanza della P.A. – che può esercitare un potere di veto ma non anche richiedere la decisione della cassazione – da invasioni del giudice ordinario e non opera nei rapporti tra pubblica amministrazione e giudice contabile.

2. Le questioni processuali.

Nel corso del 2013 le Sezioni unite hanno avuto modo, in diverse occasioni, di precisare o ribadire i consolidati orientamenti con riguardo agli spazi e alle condizioni richieste per ottenere – con regolamento o mediante ricorso ordinario – una decisione della Corte in tema di giurisdizione.

Merita di essere sottolineato, in via generale, peraltro, che la Corte ha escluso che sia «immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza d'appello che abbia affermato la giurisdizione del giudice ordinario, negata dal giudice di primo grado, e rimesso la causa a quest'ultimo, trattandosi di pronuncia che, decidendo sulla questione pregiudiziale insorta, non è idonea a definire, neppure parzialmente, il giudizio» e che tale principio ha avuto l'esplicito riconoscimento di principio consolidato ai sensi dell'art. 360-bis, primo comma, n. 1 (così Sez. Un., n. 20073, Rv. 627355, est. Massera; in senso conforme anche Sez. Un., n. 16310, Rv. 626753, est. Segreto, nonché Sez. Un., n. 299, Rv. 624522, est. Forte con riferimento a decisione della Corte dei conti).

Giova precisare che la stessa soluzione è stata adottata dalla Corte – con Sez. Un., n. 3268 (Rv. 625207), est. Botta – anche con riguardo a problematiche involgenti la litispendenza comunitaria (nella specie, in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale), precisando che «l'art. 360, comma terzo, cod. proc. civ., come modificato dall'art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, ostativo al ricorso immediato per cassazione avverso le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire neppure parzialmente il giudizio, è applicabile all'ipotesi di litispendenza comunitaria, nel quadro delle regole dettate dagli artt. 19, 22, lett. b) e 24 del regolamento del Consiglio CE 27 novembre 2003, n. 2201, relativo alla competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale; infatti, da tale sistema normativo emerge che tanto l'accertamento della giurisdizione, quanto la declinatoria del giudice successivamente adìto e la verifica dell'accettazione della decisione da parte del contumace sono passaggi processuali rimessi al regime nazionale e non consentono l'ipotizzabilità di una deroga al differimento della ricorribilità per cassazione, nemmeno sotto il profilo della ragionevole durata del processo di accertamento, in difetto di norme che espressamente vi facciano riferimento»

2.1. I limiti provvedimentali e temporali in tema di regolamento di giurisdizione e di ricorso per cassazione.

In tema di regolamento di giurisdizione appare di particolare interesse – anche per la fattispecie ivi considerata – la sentenza pronunciata da Sez. Un., n. 23217 (Rv. 627734-627735), est. Rordorf.

Nella vicenda il tribunale aveva, con decreto, affermato la propria giurisdizione e, quindi, aveva dichiarato inammissibile la domanda di concordato preventivo di una società con sede all'estero, disponendo il prosieguo del procedimento prefallimentare. La parte, allora, aveva proposto, con il medesimo atto, sia ricorso per cassazione sia regolamento di giurisdizione avverso le rispettive statuizioni.La Corte, disattesa la questione di merito (sollevabile con reclamo innanzi alla corte d'appello), ha anche dichiarato inammissibile il regolamento «attesa la valenza di vera e propria pronuncia sulla giurisdizione dell'affermazione contenuta nel decreto».

La Corte, peraltro, è intervenuta anche su altri profili.

Lo stato di sospensione del processo, in particolare, non preclude la proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione perché non esclude la pendenza del giudizio, ma impedisce solo il compimento di atti propri di quest'ultimo, senza essere «di ostacolo al promovimento di un'autonoma fase processuale diretta alla verifica del potere giurisdizionale del giudice adìto» (Sez. Un., n. 21109, Rv. 627417, est. Chiarini).

Né è ostativo – Sez. Un., n. 21677 (Rv. 627414), est. Mammone – che sia stato adottato un provvedimento cautelare, la cui mancanza di carattere decisorio e l'incapacità di incidere in via definitiva sulle posizioni soggettive dedotte in giudizio ne precludono l'idoneità ad «assumere autorità di giudicato, neppure sul punto della giurisdizione».

Sotto il profilo della proponibilità si è poi rilevato – Sez. Un., n. 17935 (Rv. 627254), est. Ceccherini – che «la dichiarazione d'improcedibilità dell'istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, non depositata nel termine stabilito dall'art. 369 cod. proc. civ., non osta all'ammissibilità di una successiva richiesta di regolamento» che può essere anche presentata dalla controparte «stante l'ininfluenza dell'adozione di una forma processuale non utilizzabile nell'ambito del procedimento per regolamento di giurisdizione, ove quell'atto possa convertirsi in un ricorso autonomo per regolamento di giurisdizione, presentandone i prescritti requisiti».

Non osta, invece, alla dichiarazione di improcedibilità di un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione non iscritto a ruolo «la circostanza che per la trattazione dello stesso sia stata fissata udienza pubblica e non in camera di consiglio, posto che le garanzie offerte dalla prima alle parti che abbiano svolto le loro difese non rendono rilevante la difformità del rito dal modello processuale previsto dall'art. 375, n. 4, cod. proc. civ.» (Sez. Un., n. 5948, Rv. 625320, est. Macioce), mentre ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione «non è necessaria la specifica indicazione delle norme violate o erroneamente applicate dal giudice, essendo sufficiente la deduzione, nella parte motiva, dei principi relativi al riparto di giurisdizione di cui si denunci il malgoverno» (Sez. Un., n. 9690, Rv. 625972, est. Piccialli).

Una volta poi che le Sezioni unite si siano pronunciate sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, la relativa decisione «costituisce giudicato con efficacia vincolante nel processo al cui interno sia stata domandata» (Sez. Un., n. 7930, Rv. 625630, est. Di Palma).

2.2. Il giudicato implicito sulla giurisdizione.

L'orientamento delle Sezioni unite – con il quale è stata ridisegnata la portata e la lettura dell'art. 37 cod. proc. civ., assumendo che la questione di giurisdizione è coperta dal giudicato interno e non è rilevabile in cassazione (né in appello) ove il giudice di primo grado si sia pronunciato solo sul merito e sia mancata la proposizione di un apposito gravame – introdotto con la sentenza Sez. Un., n. 24883 del 2008 (Rv. 604576), a cui avevano fatto immediatamente seguito le decisioni Sez. Un., n. 26019 del 2008 (Rv. 604949), e Sez. Un., n. 29253 del 2008 (Rv. 605914), ha trovato un riconoscimento normativo con l'art. 9 del nuovo cod. proc. amm., secondo il quale nei giudizi di impugnazione il difetto di giurisdizione è rilevato se dedotto come specifico motivo avverso il capo della sentenza impugnata che «in modo esplicito od implicito ha statuito sulla giurisdizione».

Nel ribadire i concetti ormai consolidati – in tal senso Sez. Un., n. 8363 (Rv. 625680), est. Rordorf, nella quale, con riguardo ad una decisione del Consiglio di Stato, si è pure precisato che il giudicato così formatosi non è più contestabile neppure ai sensi dell'art. 111, ultimo comma, Cost. – nel corso del 2013 le pronunce della Corte hanno, in prevalenza, coinvolto profili accessori, evidenziando, in particolare, che, ove l'interesse a sollevare l'eccezione del difetto di giurisdizione, sorga solo sulla base del percorso decisionale in concreto adottato dal giudice in appello non può configurarsi un giudicato implicito (così Sez. Un., n. 20698, Rv. 627425, est. Macioce, con riguardo ad una decisione con la quale era stata annullata, in grado d'appello, una norma regolamentare asseritamente divenuta norma primaria, nonché negli stessi termini Sez. Un., n. 6081, Rv. 625319, est. Segreto).

Si è poi ribadito – Sez. Un., n. 9693 (Rv. 626100), est. Segreto – che, comportando ogni statuizione di merito «una pronuncia implicita sulla giurisdizione, il giudice dell'impugnazione non può riesaminare d'ufficio quest'ultima, in assenza di specifico gravame sul punto, né le parti possono limitarsi a sollecitare in tal senso il giudice, rimanendo irrilevante, pertanto, che nella sentenza d'appello la questione di giurisdizione sia stata egualmente trattata».

2.3. Profili in tema di connessione di cause tra giurisdizioni.

La Suprema Corte ha ribadito che, nell'ordinamento processuale, non è dato rilevare un principio generale che porti a ritenere ammissibile lo spostamento di giurisdizione per connessione.

In tal senso si è esplicitamente affermato – Sez. Un., n. 10305 (Rv. 625979), est. Amatucci – che «in caso di domande equiordinate e soggettivamente connesse, appartenenti l'una alla giurisdizione del giudice ordinario e l'altra alla giurisdizione del giudice amministrativo (in quanto concernenti, nella specie, il risarcimento dei danni conseguenti all'annullamento di una concessione edilizia e di quelli derivati dalla mancata approvazione di una variante del piano urbanistico comunale), ciascuna causa deve essere promossa innanzi al giudice munito della relativa giurisdizione, non sussistendo alcuna norma che ne concentri la cognizione in un'unica attribuzione».

In alcune ipotesi, peraltro, è possibile una vis actractiva della giurisdizione amministrativa e tale evenienza è stata individuata da Sez. Un., n. 18190 (Rv. 627260), est. Ceccherini, che ne ha precisato le condizioni stabilendo che «l'attrazione della giurisdizione contemplata dall'art. 113, comma 1, lett. e), n. 1, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, in ordine alla dichiarazione di inefficacia del contratto nel giudizio instaurato per l'annullamento dell'aggiudicazione, suppone che al giudice amministrativo sia chiesto di pronunciarsi sulla dedotta invalidità dell'aggiudicazione e sulla connessa consequenziale domanda di annullamento del contratto stipulato in forza dell'aggiudicazione medesima, investendo l'oggetto della cognizione non il vizio, in sé considerato, del contratto (al quale il concorrente vittorioso nel giudizio di impugnazione è estraneo), bensì il rapporto sostanziale, che è di responsabilità extracontrattuale, tra il concorrente impugnante che la fa valere e l'amministrazione resistente, con l'aggiudicatario controinteressato, dall'altro. Laddove, invece, debba decidersi solo sul rapporto contrattuale costituitosi tra l'aggiudicatario, all'esito di una gara viziata, e l'amministrazione, torna applicabile il principio per cui competono al giudice ordinario le controversie rivolte ad accertare l'intero spettro delle patologie negoziali, anche quando su di esse incidano di riflesso i vizi del procedimento amministrativo presupposto dal contratto medesimo».

Ipotesi differente – e che dà risalto alla necessità di una attenta valutazione del petitum della domanda – è quella presa in esame da Sez. Un., 26937 (in corso di massimazione), est. Vivaldi (nell'ambito del diritto internazionale privato), che ha escluso che possa ritenersi pretestuoso il cumulo soggettivo – realizzato al solo fine di determinare lo spostamento della competenza giurisdizionale per ragioni di connessione – ove, dalla prospettazione della domanda, risulti che ogni convenuto non è estraneo alla pretesa fatta in giudizio.

3. Il riparto di giurisdizione nel pubblico impiego.

Dopo gli importanti arresti posti in essere dalle Sezioni unite nell'annualità passata, minori sono stati gli interventi nel corso del 2013 in tema di riparto della giurisdizione nel pubblico.

Merita di essere richiamato, brevemente, peraltro, lo stato della giurisprudenza attestatosi in ordine alla "problematica del frazionamento della giurisdizione per fasi temporali", ossia nei casi in cui il rapporto di lavoro di pubblico impiego si collochi a cavallo del 30 giugno 1998, data di avvenuta sottoposizione del rapporto alla disciplina privatistica e alla giurisdizione del giudice ordinario.

La Corte – affrontata la questione per la prima volta con la sentenza Sez. Un., n. 3183 del 2012 (Rv. 621089), e ripresa, con una ampia e articolata ricostruzione, da Sez. Un., n. 20726 del 2012 (Rv. 624043), che ha tracciato l'intero percorso giuridico ed argomentativo affrontato dalla giurisprudenza dell'ultimo decennio – ha sottolineato il carattere sostanzialmente unitario della fattispecie dal punto di vista giuridico che da quello fattuale, con la conseguenza che, anche con riguardo alla giurisdizione, il giudizio doveva concentrarsi innanzi ad un unico giudice senza che rilevasse l'epoca della pretesa ed assumendo valore, per contro, l'esigenza di evitare uno spezzettamento del processo con onere per l'interessato – e possibile pregiudizio anche per il convenuto – di attivare due distinti giudizi per veder riparato un torto essenzialmente unico e possibilità di differenti risposte ad una stessa istanza di giustizia.

L'individuazione del giudice ordinario come giudice elettivo su cui concentrare il giudizio, poi, rinveniva il suo fondamento nel sistema disegnato dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 nel quale la sopravvivenza della giurisdizione del giudice amministrativo, regolata dall'art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, costituisce ipotesi assolutamente eccezionale, sicché, quando il lavoratore deduce un inadempimento unitario dell'amministrazione, la protrazione della fattispecie oltre la data del 30 giugno 1998 necessariamente radica la giurisdizione presso il giudice ordinario anche per il periodo anteriore.

Tale impostazione è stata esplicitamente ribadita da Sez. Un., n. 142 (Rv. 624829), est. Napoletano, nonché – implicitamente poiché, nel caso concreto, venivano in riferimento rapporti di lavoro cessati ovvero relative a periodi solo anteriori al 30 giugno 1998, da cui l'inapplicabilità del nuovo orientamento – da Sez. Un., n. 4846 (Rv. 625251), est. San Giorgio, e Sez. Un., n. 20358 (Rv. 627375), est. Napoletano.

Merita di essere segnalata, in questo ambito, la sentenza Sez. Un., n. 12103 (Rv. 626193), est. Ianniello, che, con riguardo alla domanda di risarcimento danni di un dipendente nei confronti della P.A., attinente al periodo di rapporto di lavoro antecedente la data del 1° luglio 1998, ha precisato che «la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo, se si fa valere la responsabilità contrattuale dell'ente datore di lavoro, mentre appartiene al giudice ordinario nel caso in cui si tratti di azione che trova titolo in un illecito» fermo restando che l'accertamento «circa la natura del titolo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall'attore, anche attraverso il richiamo strumentale a disposizioni di legge, quali l'art. 2087 cod. civ. o l'art. 2043 cod. civ., mentre assume valore decisivo la verifica dei tratti propri dell'elemento materiale dell'illecito, e quindi l'accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di neminem laedere e riguardi, quindi, condotte la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino la ragion d'essere nel rapporto di lavoro» (negli stessi termini, avuto riguardo in generale ad ipotesi di rapporto di lavoro pubblico non devoluto, per ragioni soggettive o temporali, alla giurisdizione ordinaria, anche Sez. Un., n. 4850, Rv. 625163, est. Ianniello).

Pure l'altra grande questione, che spesso caratterizza gli interventi delle Sezioni unite ai fini del riparto di giurisdizione nel pubblico impiego, ossia il riparto nelle procedure concorsuali di lavoro e in tema di assunzione, è stato oggetto di interventi con i quali sono stati ribaditi i principî ormai consolidati nella giurisprudenza.

In tema di concorso interno per accedere verso una posizione economica più elevata si è affermato – Sez. Un., n. 21676 (Rv. 627413), est. Mammone – che «per i dipendenti dell'I.N.P.D.A.P., in forza della classificazione del personale operata dal c.c.n.l. sottoscritto il 16 febbraio 1999 per il comparto enti pubblici non economici e dal c.c.n.l. integrativo I.N.P.D.A.P. stipulato in data 26 luglio 1999 – mediante accorpamento nell'area "C" delle ex qualifiche funzionali VII, VIII e IX previste dal d.P.R. n. 285 del 1988, e contestuale attribuzione di posizioni economiche differenziate – il passaggio dalla posizione economica "C1" alla posizione "C3" costituisce accesso ad una qualifica superiore interna alla medesima area professionale, con conseguente devoluzione delle relative questioni al giudice ordinario»; diversa è la soluzione, con devoluzione della giurisdizione al giudice amministrativo (Sez. Un. n. 10409, Rv. 625975, est. Nobile), nel caso di concorso (nella specie, per il personale non docente universitario) che comporti l'accesso «del personale già assunto a una fascia o area funzionale superiore, con progressione verticale e passaggio ad una posizione funzionale qualitativamente diversa» «poiché il sistema di classificazione del c.c.n.l. 9 agosto 2000 è articolato in categorie, che si caratterizzano per il diverso grado di autonomia e responsabilità, mentre le aree contrassegnano i diversi campi di specializzazione trasversalmente alle categorie».

Appartiene, invece, alla giurisdizione del giudice ordinario – Sez. Un., n. 21671 (Rv. 627409), est. Petitti – la controversia relativa alla domanda del pubblico dipendente il quale «dopo l'espletamento di procedura pubblica concorsuale, chieda l'accertamento del suo diritto all'assunzione nel ruolo del personale dirigenziale e alla stipulazione del relativo contratto di lavoro, con la condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno» trattandosi di questione che esula dall'ambito di quelle inerenti la procedura del pubblico concorso e, quindi, permane nell'ambito privatistico in cui la P.A. opera come datore di lavoro e non avvalendosi della sua attività autoritativa (negli stessi termini anche Sez. Un., n. 13176, Rv. 626293, est. Napoletano); per contro appartiene al giudice amministrativo, ex art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001, la controversia che investa direttamente la procedura concorsuale di assunzione (Sez. Un., n. 17930, Rv. 627459, est. Mammone, relativa al rapporto instaurato con una autorità portuale, qualificabile, sia sul piano funzionale che finanziario come ente pubblico non economico e, dunque, riconducibile «all'ambito soggettivo delle pubbliche amministrazioni indicate dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165»).

Ai fini dell'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, del resto, come ribadito da Sez. Un., n. 27989 (in corso di massimazione), est. Amoroso, nella nozione di assunzione devono ritenersi estensivamente comprese le procedure riguardanti soggetti già dipendenti di pubbliche amministrazioni ove queste siano dirette a realizzare la novazione del rapporto con inquadramento qualitativamente diverso dal precedente (nella specie si trattava di un passaggio da collaboratore scolastico ad assistente amministrativo).

Un diverso profilo riguarda quello del cosiddetto «scorrimento della graduatoria». Anche in questo ambito la Corte ha dato continuità a principî consolidati affermando – Sez. Un., n. 10404 (Rv. 626070), est. Nobile, nonché, successivamente, Sez. Un., n. 26774 (in corso di massimazione), est. Nobile – che «la cognizione della domanda, avanzata dal candidato utilmente collocato nella graduatoria finale, riguardante la pretesa al riconoscimento del diritto allo scorrimento della graduatoria del concorso espletato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, facendosi valere, al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, il "diritto all'assunzione"; ove, invece, la pretesa al riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di diverse procedure (nella specie di conferimento di incarichi esterni e di mobilità esterna) per la copertura dei posti resisi vacanti, la contestazione investe l'esercizio del potere dell'Amministrazione, cui corrisponde una situazione di interesse legittimo e la cui tutela spetta al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 63, comma 4, del d.P.R. n. 165 del 2001».

Nella materia previdenziale e contributiva, poi, le Sezioni unite sono intervenute su questioni di specie. In particolare si è affermato – Sez. Un., n. 12896 (Rv. 626575), est. Mammone – che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario «la controversia instaurata dal datore di lavoro, avente ad oggetto l'accertamento negativo del diritto dell'I.N.A.I.L. a riscuotere i premi assicurativi, fondata sulla contestazione della misura contributiva definita con d.m. 12 dicembre 2000, deducendosi in sostanza la lesione del diritto soggettivo del datore di lavoro a pagare contribuzioni conformi a legge e richiedendosi non già la rimozione del provvedimento generale di determinazione delle tariffe, ma la sua eventuale disapplicazione in ordine al rapporto contributivo oggetto del giudizio» e così pure la controversia che non abbia ad oggetto l'an o il quantum del trattamento pensionistico ma solo la concreta determinazione degli elementi di computo utili (nella specie, il riconoscimento del diritto di riscatto degli anni universitari) per la determinazione del trattamento di fine servizio, venendo in rilievo una questione la cui cognizione spetta al giudice del rapporto d'impiego (Sez. Un., n. 25039, in corso di massimazione, est. Di Cerbo).

Appare opportuno segnalare, infine, due decisioni che si pongono sul confine della disciplina del pubblico impiego, investendo, la prima, il trattamento economico del personale onorario e, la seconda, il regime giuridico con riguardo all'adempimento di un uffizio doveroso.

Con la sentenza Sez. Un., n. 21592 (Rv. 627438), est. Virgilio, la Corte ha ritenuto devoluta alla giurisdizione amministrativa «la controversia avente ad oggetto la scelta dei criteri per la determinazione del compenso, fisso e aggiuntivo, spettante ai componenti delle commissioni tributarie per l'attività svolta» «trattandosi di emolumenti di natura indennitaria, la cui determinazione non è automatica ma resta affidata al potere discrezionale dell'autorità che ha proceduto alla nomina dei componenti medesimi, il cui esercizio deve avvenire in base a parametri correlati alla qualità, quantità e complessità del lavoro svolto ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 545».

Con la decisione Sez. Un., n. 3040 (Rv. 625008), est. Massera, si è invece precisato che il militare di leva obbligatoria «non è legato all'amministrazione da un rapporto di pubblico impiego, ma da un mero rapporto di servizio privo del carattere della spontaneità, destinato a cessare dopo il periodo di utilizzazione», con la conseguenza che la domanda di equo indennizzo per la malattia contratta nel periodo di ferma appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario «vertendosi in materia di diritti soggettivi di natura patrimoniale fatti valere nei confronti della P.A.».

4. Giurisdizione e diritto internazionale privato.

In materia di diritto internazionale privato, le Sezioni unite sono in più occasioni intervenute nel corso del 2013.

In tema di ambito ed efficacia dei criteri di determinazione della giurisdizione la Corte – Sez. Un., n. 21672 (Rv. 627411), est. Travaglino – ha innanzitutto ribadito che «l'art. 4 della legge 31 maggio 1995, n. 218 esclude ogni possibilità di deroga convenzionale alla giurisdizione italiana qualora tale deroga non sia provata per iscritto».

Si è poi precisato – Sez. Un., n. 17863 (Rv. 627212), est. Spirito – che «la controversia insorta tra cittadini italiani residenti in Italia, ed avente ad oggetto l'appartenenza, totale o parziale, ad uno di essi delle somme depositate su di un conto corrente bancario cointestato presso un istituto di credito austriaco, appartiene alla giurisdizione del giudice italiano alla stregua di quanto sancito dall'art. 2 del reg. Consiglio CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000».

Nella stessa linea ed altrettanto significativo è, poi, l'arresto della Corte con riguardo all'individuazione di fattispecie riconducibili ai "contratti a tutela del consumatore": secondo Sez. Un., n. 4211 (Rv. 625157), est. Travaglino (ribadita con la successiva decisione conforme Sez. Un., n. 21589, Rv. 627439, est. Travaglino), «l'acquisto di titoli obbligazionari emessi da uno Stato estero deve essere ricompreso nella categoria dei contratti con i consumatori e la relativa azione può essere legittimamente esercitata dinanzi al giudice del domicilio del consumatore, pure in presenza di eventuali clausole di proroga da quest'ultimo sottoscritte. Anche alla luce delle disposizioni della Carta di Nizza, il cui art. 38 garantisce un alto livello di protezione dei consumatori, deve infatti ritenersi prevalente sulla disposizione dell'art. 4, comma secondo, della legge 31 maggio 1995, n. 218, in tema di deroga alla giurisdizione, l'art. 3, comma secondo, della medesima legge, secondo cui, vertendosi in tema di contratti del consumatore, si applicano le disposizioni della sezione III del Regolamento CE n. 44 del 2001 e, quindi, l'art. 17, che ammette la deroga soltanto a date condizioni ed, in particolare, ove pattuita posteriormente al sorgere della controversia»

Diversi sono stati altresì gli interventi nella materia lavoristica.

Con riguardo ai rapporti di lavoro alle dipendenze di ambasciate di Stati esteri in Italia si è in particolare affermata la giurisdizione italiana – Sez. Un., n. 7382 (Rv. 625594), est. Amoroso – «non soltanto quando si tratti di dipendenti con mansioni meramente ausiliarie, ma anche di dipendenti con funzioni consolari, ove la domanda sia indirizzata solo al conseguimento di spettanze retributive o comunque investa esclusivamente questioni patrimoniali, le quali non interferiscano con l'organizzazione dell'ufficio consolare»

In tema di licenziamento illegittimo, poi, la Corte (Sez. Un., n. 1302, Rv. 624880-624882, est. Amoroso), premesso che una simile controversia è relativa alle obbligazioni contrattuali ai sensi dell'art. 57 della legge 31 maggio 1995, n. 218, per cui la legge applicabile «dev'essere individuata secondo le disposizioni della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, resa esecutiva con legge 18 dicembre 1984, n. 975» ha precisato che la nozione di ordine pubblico, che costituisce un limite all'applicazione della legge straniera, trova le sue fonti, primariamente, nel sistema delle tutele approntate a livello sovraordinato a quello della legislazione primaria, con la conseguenza che «occorre far riferimento alla tutela del lavoro prevista dalla Costituzione (artt. 1, 4 e 35 Cost.) e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell'Unione europea dall'art. 6 TUE, fonti che includono le tutele del lavoratore contro il licenziamento ingiustificato».

Anche le problematiche relative alla disciplina fallimentare sono state oggetto dell'attenzione delle Sezioni unite, le quali, da un lato, hanno precisato che la cancellazione della società dal registro delle imprese per il fittizio trasferimento della sede all'estero non comporta, una volta accertata tale condizione, il venire meno della giurisdizione italiana (Sez. Un., n. 9414, Rv. 625784, est. Rordorf) e, dall'altro, quando il provvedimento di cancellazione non sia la conseguenza del compimento del procedimento di liquidazione (o comunque in dipendenza della cessazione dell'esercizio d'impresa) ma solo del trasferimento della sede all'estero e, dunque, presupponga la prosecuzione dell'attività imprenditoriale, non trova applicazione l'art. 10 della legge fall. «atteso che un siffatto trasferimento, almeno nelle ipotesi in cui la legge applicabile nella nuova sede concordi sul punto con i principi desumibili dalla legge italiana, non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita e non ne comporta, quindi, in alcun modo, la cessazione dell'attività, come peraltro agevolmente desumibile dal disposto degli articoli 2437, primo comma, lett. c) e 2473, primo comma, cod. civ.», permanendo anche in questa evenienza la giurisdizione italiana (Sez. Un., n. 5945, Rv. 625476-625478, est. Rordorf).

Del resto, è comunque inopponibile al creditore che abbia chiesto il fallimento di una società «la deliberazione di trasferimento all'estero della sede di quest'ultima, iscritta nel registro delle imprese successivamente alla proposizione di detta istanza, con conseguente sua insensibilità rispetto al corso della procedura alla stregua dell'art. 5 cod. proc. civ. e sussistenza della giurisdizione italiana» (così Sez. Un., n. 15872, Rv. 626754, est. Piccininni).

La Corte ha avuto occasione di pronunciarsi anche su problematiche afferenti alla materia brevettuale e del diritto industriale. Con la sentenza Sez. Un., n. 14508 (Rv. 626591), est. D'Alessandro, si è affermata la giurisdizione italiana avuto riguardo «alla domanda di accertamento negativo di avvenuta contraffazione di prodotti industriali coperti da brevetto europeo proposta da una società estera (nella specie tedesca) nei confronti di società straniere (titolari delle frazioni italiane e tedesche del medesimo brevetto) prive di sedi, anche secondarie, in Italia, rientrando una tale controversia nella sfera di applicazione dell'art. 5, n. 3, del Regolamento CE 22 dicembre 2000, n. 44/2001, come interpretato dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza 25 ottobre 2012, nella causa C-133/11», principio successivamente ribadito con la decisione Sez. Un., n. 20700 (Rv. 627454), est. Vivaldi, che ha ulteriormente precisato l'irrilevanza, ai fini della verifica della competenza giurisdizionale, dell'inversione dei ruoli che caratterizza la domanda di accertamento negativo che, in ogni caso, verte sui medesimi elementi di fatto.

Giova sottolineare che in quest'ultima occasione la Corte – Sez. Un., n. 20700 (Rv. 627455), est. Vivaldi – ha avuto anche modo di precisare la nozione di locus commissi delicti in riferimento ad una condotta illecita posta in essere via internet (ossia, con pubblicizzazione su un sito del prodotto messo in commercio abusivamente) stabilendo che fosse da individuare – in relazione all'esigenza di assicurare la raccolta delle prove con maggior facilità – «in quello di stabilimento dell'inserzionista, trattandosi del luogo in cui è stato deciso ed avviato il processo tecnico finalizzato alla visualizzazione dell'annuncio commerciale».

Merita di essere segnalata, infine, la decisione – Sez. Un., n. 27495 (in corso di massimazione), est. Giusti – con la quale si è affermata la devoluzione alla giurisdizione italiana della domanda diretta ad ottenere la condanna dell'ex coniuge al versamento della metà degli importi conseguiti dalla vendita a terzi di un immobile già ricadente nella comunione legale, atteso che la questione non rientra nell'ambito di applicazione della regola sulla competenza esclusiva, in materia di diritti reali immobiliari, prevista dall'art. 22, punto 1, del regolamento CE n. 44 del 2001, del Consiglio, del 22 dicembre 2000.

5. Crimini di guerra, giurisdizione e immunità degli Stati: il punto d'arrivo del cammino delle Sezioni unite.

Con l'ordinanza Sez. Un., n. 4284 (Rv. 625142), est. Spirito, le Sezioni unite hanno concluso una parabola avviata con la sentenza Sez. Un., 5044 del 2004 (Rv. 571034), e proseguita con impeto, anche culturale, con Sez. Un., n. 14201 del 2008 (Rv. 603273), e, poi, con Sez. 1, n. 11163 del 2011 (Rv. 618107).

La problematica – afferente sempre alle medesime vicende, ossia per crimini contro l'umanità posti in essere dal Reich nazista – riguardava la questione se il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana avesse assunto, anche nell'ordinamento internazionale, il valore di principio fondamentale, così riducendo la portata e l'ambito di altri principî ai quali tale ordinamento si è tradizionalmente ispirato, quale quello del rispetto delle reciproche sovranità, cui si collega il riconoscimento dell'immunità statale dalla giurisdizione civile straniera.

La soluzione positiva originariamente accolta aveva portato alla conclusione che la norma consuetudinaria di diritto internazionale generalmente riconosciuta – che impone agli Stati l'obbligo di astenersi dall'esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri per gli atti iure imperii – non avesse carattere incondizionato, ma, qualora venisse in contrapposizione con il principio del primato assoluto dei valori fondamentali della libertà e dignità della persona umana, ne rimanesse conformata.

Così concludendo, la Corte aveva ritenuto che allo Stato straniero non potesse essere accordata un'immunità totale dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale «in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l'umanità che, in quanto lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali, segnano il punto di rottura dell'esercizio tollerabile della sovranità»

Contro queste decisioni della Suprema Corte, peraltro, la Repubblica Federale Tedesca aveva proposto ricorso innanzi alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja, che, con sentenza del 3 febbraio 2012, aveva dato torto all'Italia, affermando, in particolare, che: a) l'esame della prassi internazionali, della giurisprudenza delle Corti internazionali e Supreme, nonché dei comportamenti degli Stati non porta a ritenere che, allo stato attuale, esista una consuetudine internazionale secondo la quale il diritto all'immunità dipenda dalla gravità dell'atto di cui lo Stato è accusato o dal carattere imperativo della norma che avrebbe violato; b) non esiste alcun conflitto tra la norma consuetudinaria internazionale che riconosce agli Stati l'immunità dalla giurisdizione e le norme di jus cogens, poiché queste ultime sono di natura sostanziale e servono ad attribuire un valore alle azioni dello Stato, mentre le prime hannocarattere procedurale e regolano il processo, per cui tra le due categorie non vi è alcuna interferenza, né l'una può influire sull'altra; c) va escluso che la prassi seguita dagli Stati permetta di affermare che il diritto internazionale faccia dipendere il diritto di uno Stato all'immunità all'esistenza di altri rimedi efficaci in grado di far ottenere il risarcimento.

La sentenza della Corte internazionale, quindi, esplicitamente stabiliva che «la Repubblica italiana, promulgando l'opportuna legislazione o facendo ricorso ad altro metodo a sua scelta, dovrà fare in modo che le decisioni dei suoi giudici e quelle di altre autorità giudiziarie che violano l'immunità riconosciuta alla Repubblica Federale di Germania dal diritto internazionale siano rese inefficaci».

Le Sezioni unite, quindi, di fronte a questa autorevole e cogente presa di posizione dell'organo internazionale di giustizia, hanno mutato il proprio orientamento stabilendo che «non sussiste la giurisdizione italiana in relazione alla domanda risarcitoria promossa nei confronti della Repubblica federale di Germania con riguardo ad attività iure imperii lesive dei valori fondamentali della persona o integranti crimini contro l'umanità, commesse dal Reich tedesco fra il 1943 ed il 1945, dovendosi escludere che il principio dello jus cogens deroghi al principio dell'immunità giurisdizionale degli Stati».

La stessa posizione, del resto, era stata fatta propria dalla Sezione 1 penale (Sez. 1 pen., n. 32139 del 2012, Rv. 252931), che – come riporta in motivazione anche la stessa decisione delle Sezione Unite – «pur esprimendo perplessità sulle argomentazioni adottate dalla Corte internazionale di giustizia» aveva dovuto prendere atto che la tesi inaugurata dalla citata Sez. Un., n. 5044 del 2004 «era rimasta isolata e non era stata "convalidata dalla comunità internazionale", sicché il principio dell'jus cogens non può essere portato ad ulteriori applicazioni».

Merita di essere evidenziato, peraltro, che anche il legislatore, in ossequio alla decisione della Corte internazionale, era intervenuto, prevedendo, con l'art. 3, comma 1, della legge 14 gennaio 2013, n. 5, sopravvenuta tra la decisione ed il deposito della sentenza, che, quando la Corte internazionale di giustizia, con sentenza che ha definito un procedimento di cui è stato parte lo Stato italiano, ha escluso l'assoggettamento di specifiche condotte di altro Stato alla giurisdizione civile, il giudice sia obbligato a rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo.

PARTE NONA IL PROCESSO

  • giudice
  • pubblico ministero
  • competenza giurisdizionale
  • avvocato
  • interesse ad agire

CAPITOLO XXV

IL PROCESSO IN GENERALE

(di Francesca Picardi )

Sommario

1 Il giudice: la sua individuazione nell'ufficio e tra gli uffici. - 1.1 Il giudice all'interno dell'ufficio. - 1.2 Decisione sulla competenza. - 1.3 Criteri di competenza e litispendenza, continenza e connessione. - 1.4 Regolamento di competenza. - 2 Gli ausiliari del giudice. - 2.1 Il cancelliere. - 2.2 Il c.t.u. - 2.3 Il custode giudiziario. - 3 Il pubblico ministero, le parti ed i difensori. - 3.1 Le modalità di partecipazione del p.m. al giudizio. - 3.2 La perdita della capacità di stare in giudizio. - 3.3 Vizi della procura ad litem. - 3.4 Revoca o rinuncia al mandato. - 3.5 Il diritto allo sciopero del difensore. - 3.6 Il compenso del difensore. - 3.7 Le spese di causa. - 4 Interesse e legittimazione. - 4.1 L'interesse con riguardo alla domanda. - 4.2 L'interesse con riguardo all'impugnazione. - 4.3 Legittimazione. - 5 Pluralità di parti. - 5.1 Litisconsorzio necessario. - 5.2 Litisconsorzio facoltativo. - 5.3 Interventi. - 5.4 Successione di parti. - 6 I poteri e gli atti del giudice. - 6.1 Le conseguenze dell'art. 111 Cost. sull'esercizio dei poteri del giudice. - 6.2 Corrispondenza tra chiesto e pronunciato. - 6.3 Diritto o equità. - 6.4 I poteri del giudice di direzione e di valutazione. - 6.5 Forma e contenuto dei provvedimenti. - 7 Comunicazioni e notificazioni. - 7.1 Comunicazioni e notificazioni: disciplina. - 7.2 Elezione di domicilio. - 7.3 La domiciliazione ex lege presso la cancelleria. - 7.4 Inesistenza e nullità. - 8 I termini. - 8.1 Perentori ed ordinatori. - 8.2 La rimessione in termini. - 9 Nullità. - 9.1 Il raggiungimento dello scopo. - 9.2 Nullità relative. - 9.3 Conversione della nullità in motivi di impugnazione.

1. Il giudice: la sua individuazione nell'ufficio e tra gli uffici.

1.1. Il giudice all'interno dell'ufficio.

Nel corrente anno non si sono registrati mutamenti giurisprudenziali relativamente alla composizione dell'organo giudicante, disciplinata dagli artt. 50-bis,50-ter e 50-quater cod. proc. civ.

Sez. 3, n. 3550 (Rv. 625120), est. Frasca, ha chiarito che in tema di opposizioni ai sensi degli artt. 615, secondo comma, e 619 cod. proc. civ., l'applicabilità del rito camerale, prevista dall'art. 185 disp. att. cod. proc. civ., si riferisce esclusivamente alla fase a cognizione sommaria davanti al giudice dell'esecuzione, mentre nella fase di merito si applicano le regole della cognizione piena, con conseguente esclusione di una composizione collegiale.

Sez. 2, n. 22278 (Rv. 627903), est. Parziale, ha affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo per onorari ed altre spettanze dovute dal cliente al proprio difensore, proposta ai sensi dell'art. 30 della legge 13 giugno 1942, n. 794, è di attribuzione collegiale, sicché è nulla la decisione adottata dal tribunale in composizione monocratica (questione che per i procedimenti successivi alla sua entrata in vigore va affrontata alla luce dell'art. 14, comma secondo, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, disposizione oggetto di questione di legittimità costituzionale in virtù dell'ordinanza del Tribunale di Verona del 3 maggio 2013).

Sez. 1, n. 24684 (in corso di massimazione), est. Lamorgese, ha escluso la riconducibilità all'art. 50-bis, n. 5, cod. proc. civ. della domanda di responsabilità, proposta da un socio, nei confronti di un altro socio.

Può, inoltre, segnalarsi Sez. 6-3, ord. n. 23433 (in corso di massimazione), rel. Lanzillo, che evidenzia come la competenza funzionale a decidere sulla istanza di verificazione proposta in via incidentale, desumibile dall'art. 216 cod. proc. civ., è del giudice della causa in cui è proposta, anche se giudice di pace o giudice monocratico.

Quanto al principio di immutabilità del giudice, di cui all'art. 276 cod. proc. civ., inteso unicamente ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione, Sez. 6-1, ord. n. 21667 (Rv. 627978-627979), rel. Acierno, ha precisato che non si riscontra alcuna nullità in caso di mutamento del collegio in appello da una udienza all'altra, ove il collegio sia rimasto identico dopo l'apertura della discussione, e Sez. 6-1, ord., n. 15863 (Rv. 626866), rel. Cultrera, con riferimento al procedimento diretto alla dichiarazione del fallimento, ha escluso la configurabilità di una nullità, ancorché il giudice delegato che ha proceduto all'audizione del debitore sia rimasto estraneo al collegio che ha deliberato la dichiarazione di fallimento, atteso che il predetto principio è applicabile solo dal momento in cui inizia la discussione – la quale non può essere identificata con l'audizione del debitore – e non si riferisce a precedenti fasi interlocutorie, come quelle destinate alla raccolta di informazioni e all'ascolto dei creditori e del debitore.

È stata risolta, inoltre, la questione, rimessa l'anno passato alle Sezioni unite da Sez. 2, ord. n. 6478, rel. Carrato, circa le conseguenze della violazione dell'art. 276 cod. proc. civ. e, cioè, circa l'individuazione del regime di invalidità della sentenza resa da giudice diverso da quello dinanzi al quale sono state precisate le conclusioni:Sez. Un., n. 26938 (in corso di massimazione), est. Piccininni, a composizione del contrasto, ha enunciato il seguente principio di diritto: «La sentenza pronunciata da un giudice diverso da quello dinanzi al quale sono state precisate le conclusioni è affetta da nullità per vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158 cod. proc. civ., ed il vizio può essere fatto valere nei limiti e secondo le regole proprie dei mezzi di impugnazione ai sensi dell'art. 161, primo comma, cod. proc. civ.». Era stato, nel corso dell'anno, da Sez. 6-1, ord., n. 17834 (Rv. 627482), rel. Didone, riaffermato del resto che la nullità derivante da vizio di costituzione del giudice, ancorché assoluta e rilevabile d'ufficio, non si sottrae, ai sensi dell'art. 158 cod. proc. civ., che fa espressamente salva la disposizione del successivo art. 161, al principio di conversione delle cause di nullità in motivi d'impugnazione.

Occorre segnalare, infine, l'intervento delle Sez. Un., n. 24148 (Rv. 627789), est. Massera, che chiarisce l'inoperatività dell'obbligo di astensione del giudice ex art. 51, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nell'eventuale nuovo giudizio di legittimità, successivo ad un primo rinvio, sancendo che «qualora una sentenza pronunciata dal giudice di rinvio formi oggetto di un nuovo ricorso per cassazione, il collegio può essere composto anche con magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, ciò non determinando alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice».

In merito alle conseguenze processuali della violazione, da parte del giudice,dell'obbligo di astensione, Sez. 2, n. 16861 (Rv. 627092), est. Carrato, e Sez. 3, n. 12115 (Rv. 626399), est. Vincenti, hanno confermato che non ne discende una nullità della sentenza deducibile in sede di impugnazione, potendo l'incompatibilità del giudice dar luogo soltanto all'esercizio del potere di ricusazione, che la parte interessata ha l'onere di far valere nelle forme e nei termini di cui all'art. 52 cod. proc. civ. Del resto, è stata affermata da Sez. 3, n. 14037 (Rv. 626710), est. Frasca, con riguardo alla omessa decisione sulla istanza di ricusazione nel giudizio di legittimità, avvenuta tramite la fissazione dell'udienza, da parte del Presidente di Sezione, dinanzi al collegio composto dai giudici ricusati, l'operatività della sanatoria ex art. 157 cod. proc. civ., ove la parte istante non prospetti alcun rilievo né nella memoria costituente la prima difesa esercitata, né nella udienza di discussione.

Tale regime processuale non esclude, tuttavia, le conseguenze sul piano disciplinare, considerata la previsione dell'illecito consistente nella consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge che, come chiarito da Sez. Un., n. 5942 (Rv. 625535), est. Piccialli, non richiede, sotto il profilo soggettivo, uno specifico intento trasgressivo, tantomeno finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti, essendo sufficiente la consapevolezza nell'agente di quelle situazioni di fatto, in presenza delle quali l'ordinamento esige, al fine della tutela dell'immagine del singolo magistrato e dell'ordine di appartenenza nel suo complesso, che lo stesso non compia un determinato atto, stante il pericolo di ingenerare il sospetto di parzialità di chi lo compie: in definitiva, l'elemento psicologico dell'illecito non richiede la "coscienza dell'antigiuridicità" del comportamento, ma la mera conoscenza di quelle circostanze di fatto in presenza delle quali, in considerazione della ricorrenza dell'interesse proprio o di un proprio congiunto, sussista l'obbligo di astensione, nonché l'adozione, cosciente e volontaria, dell'atto medesimo, pur versandosi in quella situazione.

1.2. Decisione sulla competenza.

Nel passare, dal piano interno all'ufficio giudiziario e dalle connesse problematiche concernenti la composizione dell'organo giudicante, a quello esterno ed ai rapporti di competenza tra i vari uffici giudiziari, vanno segnalate le regole e le questioni emerse sulle modalità procedimentali da seguire per pervenire alla decisione sulla competenza.

In primo luogo non è possibile una istruzione "ordinaria" sull'eccezione di incompetenza territoriale del convenuto, che deve essere decisa sulla base delle risultanze emergenti dagli atti introduttivi e dalle produzioni documentali effettuate con essi, o in replica o controreplica alla prima udienza di cui all'art. 183 cod. proc. civ., salvo il caso in cui il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa esiga, secondo quanto prevede l'art. 38, ultimo comma, cod. proc. civ., un'eventuale istruzione di natura sommaria in limine litis, se del caso anche non documentale, che deve, tuttavia, essere sollecitata dalla parte interessata ed aver luogo nella stessa prima udienza del giudizio o, se non sia possibile, in un'eventuale udienza appositamente fissata in breve (in questo senso Sez. 6-3, ord., n. 17794, Rv. 627275, rel. Frasca).

A ciò si aggiunga che, come già emerso nel 2011, Sez. 6-3, ord., n. 14136 (Rv. 626767), rel. Amendola, e Sez. 6-3, ord., n. 16051 (Rv. 626954), rel. Vivaldi, hanno confermato che ogni decisione formale sulla competenza, sebbene da assumere con la forma dell'ordinanza, per effetto della legge 18 giugno 2009, n. 69, deve essere preceduta, ai sensi degli artt. 187 e 281-bis cod. proc. civ., dall'invito a precisare le conclusioni, essendo configurabile, in caso contrario, solo un provvedimento relativo all'ordine del processo ed alla gestione dell'istruttoria, anche se contenente affermazioni relative alla competenza, di cui va esclusa l'impugnabilità ex art. 42 cod. proc. civ. Peraltro, proprio tale conclusione, che sembrava, ormai, consolidata, è stata posta in dubbio, prima da Sez. 6-1, ord., n. 23095 (in corso di massimazione), rel. Bernabai, che ha ammesso il regolamento di competenza avverso ordinanza assunta senza previo invito delle parti alla precisazione delle conclusioni, pur censurando la scelta del giudice, e successivamente dall'ordinanza interlocutoria Sez. 6-2, n. 18577, rel. Giusti, la quale ha rimesso alle Sezioni unite la questione circa la necessità del previo invito delle parti alla precisazione delle conclusioni, ai fini della decisione sulla competenza, alla luce della tesi prevalente in dottrina secondo cui il mutamento di forma implica non soltanto il mutamento degli elementi che compongono l'atto decisorio, ma anche un diverso atteggiarsi della scansione procedimentale, con conseguente inapplicabilità degli art. 187 e 281-bis cod. proc. civ.

Di nuova enunciazione, tenuto conto della recente introduzione della regola, appare, invece, l'affermazione di Sez. 6-2, n. 6691 (Rv. 625385), est. Petitti, secondo cui la disciplina della translatio iudicii, di cui all'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, riguarda esclusivamente la decisione delle questioni di giurisdizione e non trova applicazione con riferimento alle questioni di competenza.

1.3. Criteri di competenza e litispendenza, continenza e connessione.

Numerose sono le sentenze sulla interpretazione dei criteri di competenza.

Relativamente alla competenza territoriale:

Sez. 6-2, ord., n. 11337 (Rv. 626324), rel. Giusti, ha, conformemente ad un risalente orientamento, precisato che per determinare quale sia l'obbligazione dedotta in giudizio, in relazione all'art. 20 cod. proc. civ., si deve aver riguardo a quella delle obbligazioni originarie, scaturenti dal contratto, sulla quale si contenda, sia che di essa si chieda l'adempimento, sia che la medesima funzioni da causa petendi rispetto al contenuto specifico della pretesa giudiziale (nel caso di specie, quindi, avendo ad oggetto la causa la garanzia per vizi della cosa, si è fatto riferimento all'obbligazione del venditore di consegnare una cosa non difettosa);

Sez. 6-3, ord., n. 14937 (Rv. 626855), rel. Segreto, ha osservato che l'elezione di domicilio contenuta nella procura a margine di un ricorso per decreto ingiuntivo non è idonea a far considerare il luogo indicato quale domicilio del creditore, rilevante, ai sensi dell'art. 1182, terzo comma, cod. civ., per l'individuazione del luogo dell'adempimento, in quanto ai fini della competenza territoriale, sia in relazione all'art. 18 cod. proc. civ., sia in relazione all'art. 20 cod. proc. civ., s'intende per domicilio il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e dei suoi interessi, che non va individuato solo con riferimento ai rapporti economici e patrimoniali, ma anche ai suoi interessi morali, sociali e familiari, che confluiscono normalmente nel luogo ove la stessa vive con la propria famiglia, mentre un'eventuale elezione di domicilio speciale ex art. 47 cod. civ. deve essere espressa, esplicita ed inequivoca, requisiti di cui è priva l'elezione di domicilio contenuta nella procura alle liti;

Sez. 6-3, ord., n. 3615 (Rv. 625301), rel. Barreca, ha rilevato che la competenza territoriale per il procedimento di esecuzione dei crediti è di natura inderogabile ed appartiene al tribunale del luogo di residenza del terzo pignorato e quindi, nel caso di espropriazione nei confronti di ente territoriale ai sensi dell'art. 150 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, al tribunale del luogo di residenza del soggetto che ne sia tesoriere, non rilevando – ai fini dell'individuazione di diverso giudice – il contenuto della dichiarazione resa ex art. 547 cod. proc. civ. da soggetto diverso dal tesoriere indicato erroneamente come terzo pignorato e come tale destinatario della notificazione dell'atto di pignoramento;

Sez. 6-3, ord., n. 668 (Rv. 624991), rel. Segreto, conformemente a Sez. 6-3, ord., n. 8997 del 2012 (Rv. 622634), con il medesimo relatore, ha nuovamente dichiarato che, in tema di azione per la responsabilità civile dei magistrati, ai fini dell'individuazione del giudice competente per territorio, il criterio di collegamento di cui all'art. 11 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 4 della legge n. 117 del 1988, opera nei confronti di tutti i magistrati, compresi quelli delle istituzioni di vertice, non ostandovi, sul piano lessicale, il termine "distretto", adoperato nell'art. 4 cit., atteso che tutti i magistrati, anche quelli che non hanno un "distretto" di appartenenza, operano comunque in una sede, rispetto alla quale può individuarsi la sede diversa ex art. 11 cod. proc. pen., al fine di assicurare che i giudici competenti a decidere sulla responsabilità non siano prossimi ai giudici cui la responsabilità è ascritta;

Sez. 6-3, ord., n. 17611 (Rv. 627670), rel. Frasca, ha ritenuto, relativamente ai giudizi di opposizione ad ingiunzione fiscale, che l'art. 3 del r.d. 14 aprile 1910, n. 639 costituisce una norma speciale che prevale sulle norme generali in materia di competenza per territorio;

Sez. 6-1, ord., n. 8016 (Rv. 625656), rel. Scaldaferri, ha chiarito che, anche dopo la recente riforma in tema di affido condiviso, la competenza territoriale a conoscere dei procedimenti di revisione delle disposizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio è devoluta al giudice del luogo in cui è sorta l'obbligazione controversa, dovendo applicarsi a tali procedimenti i criteri ordinari di competenza per territorio stabiliti dagli articoli da 18 a 20 del codice di rito e non il disposto dell'art. 709-ter, ultimo comma, cod. proc. civ., destinato alla soluzione di controversie insorte tra genitori in ordine all'esercizio della potestà genitoriale o alle modalità di affidamento;

Sez. 6-1, ord., n. 16544 (Rv. 627221), rel. Cultrera, ha affermato che, in tema di nomina dell'amministratore di sostegno, la competenza per territorio spetta al giudice tutelare del luogo in cui la persona interessata abbia stabile residenza o domicilio, che, come già rilevato da Sez. 6-1, ord., n. 6880 del 2012 (Rv. 622379), deve identificarsi, in caso di collocamento del beneficiario in una casa di riposo, con il luogo dove si trovi detta struttura di assistenza, qualora venga meno il carattere transitorio della permanenza, mentre risulta inapplicabile (in questo senso Sez. 6-1, ord., n. 9389, Rv. 626074, rel. Campanile), ai fini del trasferimento, il luogo di residenza dell'amministratore, in considerazione della esigenza che il beneficiario interoloquisca con il giudice tutelare, che deve tenere conto dei suoi bisogni e delle sue richieste, o il criterio della perpetuatio iurisdictionis, trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze;

Sez. 6-1, ord., n. 10373 (Rv. 626335), Pres. est. Salmè, ha, invece, individuato il giudice competente per l'apertura della tutela dell'interdetto legale in quello del luogo in cui l'interessato sia detenuto al momento in cui la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, dovendosi ritenere inapplicabile il criterio del domicilio che presuppone l'elemento soggettivo del volontario stabilimento.

Va, inoltre, ricordata, quanto agli istituti della litispendenza e continenza, che regolano la competenza per territorio e che, quindi, evidentemente operano solo tra cause pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi (Sez. 6-1, ord., n. 21761, Rv. 627815, rel. Cristiano), ma appartenenti allo stesso ordine giudiziario (Sez. 6-5, ord., n. 18100, Rv. 627502, rel. Caracciolo, e Sez. 6-5, ord., n. 18024, Rv. 627496, rel. Caracciolo), la pronuncia di Sez. 6-1, ord., n. 8170 (Rv. 625654), rel. Scaldaferri, secondo cui la questione (nel caso di specie della continenza), rilevabile di ufficio dal giudice, deve essere decisa con riguardo alla situazione processuale esistente al momento della pronuncia della relativa statuizione, e quella di Sez. 2, n. 16634 (Rv. 627099), est. Matera, secondo cui la relativa eccezione (nel caso di specie della litispendenza) può essere proposta nel giudizio di cassazione solo se nei precedenti gradi del processo sia stato almeno allegato il fatto della pendenza della stessa causa davanti a diverso giudice e sia dimostrata dall'interessato la persistenza, fino all'udienza di discussione, delle condizioni per l'applicabilità dell'art. 39 cod. proc. civ., con conseguente onere di deposito della relativa documentazione, non soggetto alla preclusione di cui all'art. 372 cod. proc. civ.

È stata risolta l'importante questione – sollevata nel 2012 da Sez. 6-1, ord. n. 14678 – concernente la configurabilità della litispendenza anche tra cause pendenti dinanzi a giudici di grado diverso: la sentenza Sez. Un., n. 27846 (in corso di massimazione), est.Petitti, ha enunciato, a composizione del contrasto, il seguente principio di diritto: «A norma dell'art. 39, primo comma, cod. proc. civ., qualora la medesima causa venga introdotta davanti a giudici diversi, quello successivamente adìto è tenuto a dichiarare la litispendenza, rispetto alla causa identica precedentemente iniziata, anche se questa, già decisa in primo grado, penda davanti al giudice dell'impugnazione».

È, invece, tuttora pendente innanzi alle Sezioni unite, in seguito all'ordinanza interlocutoria Sez. 3, n. 22454, rel. Frasca, la questione concernente l'individuazione del momento di perfezionamento della notificazione dell'atto introduttivo della causa, alla luce del principio di scissione tra notificante e notificato, rilevante ai fini dell'applicazione del criterio di prevenzione di cui all'art. 39 cod. proc. civ.

Relativamente alla competenza per valore:

Sez. 6-2, ord., n. 16898 (Rv. 626976), rel. Giusti, ha ribadito che, riguardo all'impugnativa della deliberazione dell'assemblea condominiale di approvazione del rendiconto annuale e di ripartizione dei contributi, seppure l'attore abbia chiesto la dichiarazione di nullità o l'annullamento dell'intera delibera, deducendo l'illegittimità di un obbligo di pagamento a lui imposto, occorre far riferimento soltanto all'entità della spesa specificamente contestata;

Sez. 3, n. 19488 (Rv. 627580), est. Barreca, ha affermato che, in materia di opposizione ad esecuzione forzata, quando l'esecuzione sia già iniziata, l'individuazione del giudice competente deve essere effettuata, in applicazione dell'art. 17 cod. proc. civ., sulla base del «credito per cui si procede» e, quindi, dell'importo del credito di cui al pignoramento e non dell'importo del credito di cui al precetto;

Sez. 3, n. 8197 (Rv. 625940), est. Scrima, ha sottolineato l'irrilevanza, ai fini della determinazione del valore della causa, di una eventuale domanda di risarcimento del danno per lite temeraria ex art. 96 cod. proc. civ. (la pronuncia si riferisce non all'individuazione del giudice competente, ma all'ammissibilità del giudizio equitativo del giudice di pace e all'individuazione del mezzo di impugnazione);

Sez. 2, n. 1848 (Rv. 624841), est. Falaschi, ha escluso che, qualora siano state proposte una domanda principale di valore non eccedente euro 1.100,00 e una riconvenzionale, connessa ex art. 36 cod. proc. civ., eccedente la competenza del giudice di pace, che quest'ultimo possa separare la riconvenzionale e rimettere essa sola al giudice superiore, dovendo, viceversa, rimettere al tribunale l'intera causa, ai sensi dell'art. 40, sesto e settimo comma, cod. proc. civ., in modo che la domanda principale e la riconvenzionale siano trattate in simultaneus processus e decise entrambe con pronuncia secondo diritto, impugnabile, in tutti i capi, con l'appello.

Relativamente alla competenza per materia:

Sez. 6-3, ord., n. 14782 (Rv. 627110), rel. Lanzillo, ha considerato devoluta alla competenza per materia del tribunale ordinario, e non della sezione specializzata agraria, la controversia avente ad oggetto la risoluzione del contratto di comodato di un immobile, pur essendo il comodante soggettivamente titolare di un rapporto di affitto agrario e l'immobile in comodato contiguo al complesso di beni con destinazione agricola, in quanto non implicante l'applicazione di alcuna disposizione sui contratti agrari.

Relativamente ai criteri di competenza in caso di cumulo soggettivo di cause connesse per l'oggetto o per il titolo:

Sez. 6-1, ord., n. 12444 (rv. 626272), Pres. est. Salmè, ha ammesso lo spostamento della competenza in favore di fori anche differenti da quelli generali di cui agli artt. 18 e 19 cod. proc. civ. in caso di comunanza del criterio di collegamento a tutte le parti convenute, e non soltanto ad alcune di esse, non potendo l'ulteriore facoltà di scelta attribuita all'attore dall'art. 33 cod. proc. civ. risolversi in un suo pregiudizio, così da limitare, anziché ampliare, l'ordinaria analoga facoltà che gli spetterebbe nei riguardi di ciascun convenuto separatamente considerato;

Sez. 6-1, ord., n. 576 (Rv. 624853), rel. Mercolino, ha escluso l'operatività di una eventuale deroga convenzionale alla competenza per territorio.

Sicuramente interessanti, in considerazione della novità delle questioni, appaiono gli orientamenti che stanno emergendo, con riferimento al foro del consumatore: in particolare il principio posto da Sez. 6-3, ord., n. 17083 (Rv. 627672), rel. Ambrosio, in virtù del quale la domanda riconvenzionale proposta dal consumatore, in un giudizio incardinato dal professionista innanzi ad un giudice diverso da quello competente ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, non può assumere il significato di una deroga implicita al foro del consumatore e non può, pertanto, precludere il rilievo officioso del proprio difetto di competenza da parte del giudice adìto, e quello ribadito da Sez. 6-3, ord., n. 8167 (Rv. 625874), rel. Scarano, che consente al consumatore, ove lo ritenga maggiormente rispondente al proprio interesse, derogare, anche unilateralmente, al cd. "foro del consumatore", ed adire il giudice competente per territorio in base ad uno dei criteri di cui agli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ., ovvero quello indicato nel contratto, senza che il giudice adìto, in accoglimento della relativa eccezione sollevata dal professionista ovvero rilevata d'ufficio, possa dichiarare la propria incompetenza.

1.4. Regolamento di competenza.

Per quanto concerne il rimedio del regolamento di competenza, se ne è evidentemente esclusa la proposizione con riguardo: 1) ai provvedimenti concernenti il rito (Sez. 6-1, ord., n. 21669, Rv. 627784, rel. Cristiano, con riferimento alle questioni relative all'autorità giudiziaria dinanzi alla quale va introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore dichiarato fallito); 2) ai provvedimenti concernenti l'applicazione delle regole di distribuzione delle cause all'interno di uno stesso ufficio (Sez. 6-3, ord., n. 7462, Rv. 625571, rel. Frasca, e Sez. 3, n. 12388, Rv. 626403, est. Travaglino); ed, in applicazione dell'art. 46 cod. proc. civ., 3) ai provvedimenti del giudice di pace (Sez. 6-1, ord., n. 20324, Rv. 627514, rel. Acierno).

Quello d'ufficio è stato reputato ammissibile da Sez. 6-3, ord., n. 17782 (Rv. 627111), rel. Lanzillo, anche nel caso in cui il giudice preventivamente adìto, erroneamente ritenendo sussistente non una questione di competenza, ma una mera questione di riparto degli affari tra le sezioni del medesimo ufficio, abbia rimesso la causa al capo dell'ufficio ex art. 83-ter disp. att. cod. proc. civ., e questi a sua volta l'abbia assegnata ad un diverso organo giudicante (nella specie, il giudice assegnato ad una sezione distaccata ordinaria aveva rimesso la causa al presidente del tribunale perché fosse assegnata alla sezione specializzata agraria, ed il presidente aveva effettivamente disposto in tal senso), mentre, dal punto di vista temporale, Sez. 6-2, ord., n. 16888 (Rv. 626885), rel. Giusti, ne ha escluso la proponibilità dopo la prima udienza di trattazione, più precisamente dopo la concessione alle parti dei termini di cui all'art. 183, sesto comma, cod. proc. civ.

Relativamente al regolamento ad istanza di parte, Sez. 6-1, ord. n. 22765 (in corso di massimazione), rel. Bisogni, ha ribadito la necessaria prova, tramite il deposito del biglietto di cancelleria, unitamente alla copia autentica della sentenza impugnata, entro il termine fissato dal primo comma dell'art. 369 cod. proc. civ., della sua tempestività, pena l'improcedibilità, anche in caso di omessa contestazione della controparte, e Sez. 6-1, ord. n. 17386 (Rv. 627428), rel. Dogliotti, l'applicabilità del termine lungo dell'art. 327 cod. proc. civ. dalla data del suo deposito, laddove la comunicazione di cancelleria al difensore del ricorrente, ex art. 47, secondo comma, cod. proc. civ., non risulti effettuata nel domicilio da lui eletto e non vi sia stata notificazione del provvedimento.

2. Gli ausiliari del giudice.

2.1. Il cancelliere.

La Suprema Corte è intervenuta più volte per delimitare gli obblighi che incombono sul cancelliere, il cui inadempimento può avere conseguenze processuali: ad esempio, Sez. 3, n. 15655 (Rv. 626891), est. Armano, ha escluso, conformemente a pronunce più risalenti, che, in base al nuovo testo dell'art. 168-bis cod. proc. civ., il cancelliere abbia l'obbligo di comunicare alla parte costituita il rinvio d'ufficio dell'udienza di comparizione, per non esservi udienza nel giorno fissato nell'atto introduttivo, all'udienza immediatamente successiva che sarà in concreto tenuta dal giudice designato alla trattazione del processo, mentre Sez. 6-3, ord., n.20176 (Rv. 627872), rel. Lanzillo, ha escluso che nel giudizio di legittimità il cancelliere abbia l'obbligo, in base all'art. 134 disp. att. cod. proc. civ., di dare avviso alle parti delle eventuali irregolarità o lacune degli atti prodotti, dovendo solo dare conferma dell'avvenuta ricezione del plico inviato a mezzo posta e dei documenti allegati, così come materialmente prodotti.

Sez. 6-1, ord., n. 11100 (Rv. 626446), rel. De Chiara, ha ritenuto che non comporta nullità la mancata partecipazione del cancelliere all'udienza, nel giudizio di convalida e di proroga del trattenimento, ai sensi dell'art. 14, comma 4, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che è giudizio di natura civile, cui non si applica la disciplina del giudizio penale. Si è, quindi, fatta applicazione ad un procedimento speciale dell'orientamento ormai consolidato, secondo cui l'assistenza del cancelliere nella formazione del processo verbale di udienza ha soltanto funzione integrativa di quella del giudice, per cui la sua eventuale assenza e l'omessa sottoscrizione del verbale non incidono sull'idoneità dell'atto al concreto raggiungimento degli scopi cui è destinato.

Meritano menzione Sez. 3, n. 6304 (Rv. 625532), est. Carleo, e Sez. 3, n. 8216 (Rv. 625831), stesso estensore, che hanno ravvisato in eventuali inadempienze del cancelliere una possibile causa di rimessione in termini ex art. 153, secondo comma, cod. proc. civ.: di esse si parlerà al successivo § 8.2.

2.2. Il c.t.u.

Per quanto concerne gli ausiliari esterni del giudice, le pronunce più interessanti concernono il consulente tecnico di ufficio, cui possono essere attribuiti compiti non solo valutativi, ma anche di indagine ed accertamento, come sottolineato da Sez. 3, n. 4792 (Rv. 625766), est. Carluccio, in materia di responsabilità medicochirurgica, che ha riconosciuto alla consulenza il valore di fonte oggettiva di prova nella ipotesi in cui, attesa la necessità delle conoscenze tecniche specialistiche non solo ai fini della comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, il giudice abbia affidato al consulente sia l'incarico di valutare i fatti accertati, sia quello di accertare i fatti medesimi; e da Sez. 1, n. 28669 (in corso di massimazione), est. Nazzicone, in tema di responsabilità degli amministratori di società. Su tali profili, si rinvia al cap. XXVII, § 15.1.

È stato confermato da Sez. 2, n. 1744 (Rv. 624965), est. Carrato, e da Sez. 3, n. 2251 (Rv. 624974), est. Ambrosio, l'orientamento secondo cui la nullità della consulenza tecnica d'ufficio ha carattere relativo e deve, pertanto, essere fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanata: il principio è stato ribadito con riferimento alla mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali e all'allargamento dell'indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o dai poteri conferiti dalla legge, precisandosi, per quanto concerne il vizio procedurale dell'omessa comunicazione dell'inizio delle operazioni, che per udienza successiva deve intendersi anche quella di mero rinvio della causa per l'esame della relazione, non richiedendo la denuncia di detto inadempimento formale la conoscenza del contenuto dell'elaborato. Ad ogni modo, Sez. 3, n. 6093 (Rv. 625480), est. Vivaldi, ha escluso la nullità di una consulenza tecnica di ufficio redatta regolarmente in lingua italiana, ma fondata su una pubblicazione in inglese, osservando che il principio della obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall'art. 122 cod. proc. civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti esibiti dalle parti, per i quali il giudice ha la facoltà, e non l'obbligo, di procedere, ai sensi dell'art. 123 cod. proc. civ., alla nomina di un traduttore, di cui può farsi a meno allorché trattasi di un testo di facile comprensibilità.

In tema di liquidazione del compenso del consulente tecnico d'ufficio, Sez. 6-2, ord. n. 15465, rel. Bertuzzi, ha affermato che, ai sensi dell'art. 11 della tabella allegata al d.m. 30 maggio 2002, avente ad oggetto la consulenza in materia di costruzioni edilizie, la mancanza di certezza sul valore dell'immobile non giustifica di per sé il ricorso al criterio delle vacazioni, che ha carattere solo residuale, dovendo il giudice in tale ipotesi verificare se la valutazione sia possibile sulla base di quanto risulta dagli atti ed anche in base ai valori indicati dal consulente nella propria richiesta, se ritenuti congrui, mentre Sez. 2, n. 20116 (Rv. 627369), est. Carrato, in materia di consulenza contabile, ha ammesso, conformemente ad un precedente del 1998, il ricorso al criterio residuale delle vacazioni ove non sia possibile determinare il valore della controversia.

Relativamente al giudizio di opposizione al decreto di liquidazione del compenso a favore del consulente tecnico d'ufficio, in cui, come osservato da Sez. 1, n. 7294 (Rv. 625931), est. Ragonesi, il giudice deve verificare se l'opera svolta dall'ausiliare sia rispondente ai quesiti posti dal giudice che ha conferito l'incarico, tenuto conto, ai sensi dell'art. 51 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della difficoltà, completezza e pregio della relazione peritale, si va consolidando la tesi secondo cui, stante la previsione di cui all'art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la competenza a provvedere spetta ad un giudice singolo del tribunale o della corte d'appello, cui appartiene il magistrato che ha emanato il provvedimento di liquidazione dell'indennità oggetto di impugnazione, da identificare con il presidente del medesimo ufficio giudiziario o con il giudice da lui delegato, mentre non costituisce ragione di invalidità dell'ordinanza, adottata in sede di opposizione al decreto di liquidazione del compenso dell'ausiliario, il fatto che essa sia stata pronunciata da un giudice diverso dal presidente del tribunale, non essendo configurabili, all'interno di uno stesso ufficio giudiziario, questioni di competenza tra il presidente ed i giudici da questo delegati, ma solo di distribuzione degli affari in base alle tabelle di organizzazione (in questo senso, Sez. 1, n. 18080, Rv. 627327, est. Cultrera, sentenza che ha anche ribadito l'esclusione dalla categoria degli ausiliari del giudice, prevista dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dell'amministratore giudiziario nominato nel procedimento disciplinato dall'art. 2409 cod. civ.: cfr. Volume Primo, cap. XX, § 11).

Ad ogni modo, Sez. 3, n. 25179, est. Lanzillo (in corso di massimazione), ha sottolineato che, emesso il decreto di liquidazione del compenso, il c.t.u. è tenuta a rivolgersi prioritariamente alla parte onerata del pagamento, ma che, in caso di inadempienza, persiste la responsabilità solidale nei suoi confronti di entrambe le parti, azionabile anche in via ordinaria e nonostante la diversa statuizione della sentenza.

2.3. Il custode giudiziario.

Per completezza vanno segnalate due pronunce concernenti il custode giudiziario: Sez. L, n. 8443 (Rv. 625914), est. Stile, che ha riconosciuto al custode di bene sottoposti a sequestro giudiziario la legittimazione a stare in giudizio, attivamente e passivamente, limitatamente alle azioni relative a tali rapporti, attinenti alla custodia ed amministrazione dei beni sequestrati, in quanto rappresentante di ufficio, nella sua qualità di ausiliario del giudice, di un patrimonio separato, costituente centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi; Sez. 3, n. 924 (Rv. 624958), est. Carluccio, che ha configurato, nell'ipotesi di detenzione di immobile pignorato in forza di titolo non opponibile alla procedura esecutiva, un danno risarcibile in capo al custode giudiziario, derivante dall'impossibile proficua utilizzazione del bene pignorato e dalla difficoltà che lo stesso sia venduto al suo effettivo valore di mercato: danno a cui, quale frutto, si estende il pignoramento ex art. 2912 cod. civ.

3. Il pubblico ministero, le parti ed i difensori.

3.1. Le modalità di partecipazione del p.m. al giudizio.

Relativamente all'intervento del pubblico ministero nel giudizio civile, Sez. 6-1, ord., n. 22567 (Rv. 627925), rel. Acierno, ha confermato che al fine dell'osservanza delle norme che prevedono l'intervento obbligatorio del p.m. non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nelle udienze, né la formulazione di conclusioni, essendo sufficiente che il p.m., mediante l'invio degli atti, sia informato del giudizio e posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna: principio espresso in un procedimento per querela di falso a tutela di interessi generali per la pubblica fede, ai sensi dell'art. 221, terzo comma, cod. proc. civ., ove si è esclusa la nullità della consulenza tecnica d'ufficio per assenza del p.m. all'udienza di conferimento dell'incarico e per la conseguente omissione della sua firma sul documento oggetto di querela.

3.2. La perdita della capacità di stare in giudizio.

Numerosi sono stati gli interventi della Suprema Corte relativamente alle problematiche concernenti le parti, in particolare sulla perdita della capacità processuale in corso di causa.

Ad esempio, appare pacifico, come affermato da Sez. 6-5, ord. n. 17008 (Rv. 627104), rel. Bognanni, che la chiusura del fallimento di una società priva il curatore della capacità di stare in giudizio, sicché la legittimazione passiva, rispetto al ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata dopo tale evento, spetta alla società tornata in bonis.

Più problematica è la ricostruzione della disciplina applicabile in caso di perdita di capacità di stare in giudizio ex art. 75 cod. proc. civ. in conseguenza della estinzione della persona giuridica. Sez. Un., n. 6070 (Rv. 625324), est. Rodorf, ha affermato che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l'estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall'art. 10 legge fall.), determinando nel processo, eventualmente pendente, un evento interruttivo soggetto alla disciplina degli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., ed ha precisato che, qualora ciò non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare non sarebbe più stato possibile, l'impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l'evento estintivo è occorso (si rinvia, per altri profili, al Volume Primo, cap. XX, § 14).

Del resto, Sez. 1, n. 6701 (Rv. 607195), est. Felicetti, ha chiarito che il principio di ultrattività del mandato, attribuendo al procuratore la possibilità di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato, costituisce deroga al principio secondo il quale la morte del mandante estingue il mandato (secondo la normativa sulla rappresentanza e sul mandato di cui all'art. 1722 n. 4 cod. civ.) e, pertanto, va contenuto nei limiti della fase del processo in cui si è verificato l'evento non dichiarato né notificato. Non può, quindi, invocarsi la persistente legittimazione del procuratore della parte originaria, in relazione al giudizio di impugnazione.

Non sono, tuttavia, mancate decisioni di contenuto diverso: come, ad esempio, Sez. 6-1, ord., n. 22056 (Rv. 627770), rel. Ragonesi (e cfr. Sez. Un., n. 19509 del 2010), secondo cui in tema di fusione per incorporazione, realizzata prima dell'entrata in vigore del novellato art. 2504-bis cod. civ., l'impugnazione è validamente notificata al procuratore costituito di una società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si sia estinta per incorporazione, se l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento modificatore della capacità giuridica mediante la notificazione di esso; Sez. 1, n. 17267 (Rv. 627441), est. Piccinini, secondo cui è ammissibile l'impugnazione notificata presso il procuratore costituito se costui, unico legittimato a tale fine, ometta di dichiarare o notificare alle altre parti, durante il processo, il verificarsi dell'evento interruttivo per soppressione del soggetto rappresentato, intervenuto prima della pubblicazione della sentenza impugnata, così dando luogo alla ultrattività del mandato ad litem.

In questo contesto si inserisce Sez. 2, ord. n. 10216, rel. Bianchini, che ha rimesso alle Sezioni unite la questione avente ad oggetto il regime del ricorso per cassazione indirizzato ad un soggetto defunto e notificato presso l'avvocato domiciliatario dello stesso: le Sezioni unite dovranno risolvere il dubbio circa la riconducibilità dell'atto alla categoria della inesistenza o della nullità, con conseguente ammissibilità della sanatoria in caso di costituzione degli eredi.

Il problema dell'ultrattività del mandato è stato, ad ogni modo, impostato in modo diverso da Sez. L, n. 4648, Rv. 625692, est. Marotta, relativamente alle pubbliche amministrazioni, difese ex lege dalla Avvocatura dello Stato, ove si è esclusa l'applicabilità della regola secondo cui l'estinzione del soggetto rappresentato, ancorché non dichiarata in udienza, determina la perdita di legittimazione del difensore a compiere attività processuali, avvalendosi del mandato conferito dal soggetto soppresso, successivamente alla pronuncia della sentenza, in base alla considerazione che l'Avvocatura, traendo il proprio jus postulandi dalla legge e non da atto negoziale, è sempre legittimata a compiere attività processuali anche per l'ente cessato: si è, quindi, negata la nullità sia del ricorso per cassazione che indichi il soggetto cessato, sia della notifica del ricorso medesimo presso l'Avvocatura.

3.3. Vizi della procura ad litem.

Per quanto concerne, invece, la regolarità del mandato, Sez. 3, n. 15884 (Rv. 626953), est. Carluccio, ha ribadito che nel caso in cui tra due o più parti sussista conflitto di interessi (tanto attuale, quanto virtuale), è inammissibile la loro costituzione in giudizio a mezzo di uno stesso procuratore, al quale sia stato conferito mandato con un unico atto, e ciò anche in ipotesi di simultaneus processus, dato che il difensore non può svolgere contemporaneamente attività difensiva in favore di soggetti portatori di istanze confliggenti, investendo siffatta violazione il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente garantiti.

Tendenzialmente può affermarsi che la mancata indicazione nel contesto della procura ad litem dell'organo titolare del potere rappresentativo e del nome della persona fisica, la cui sottoscrizione sia illeggibile, integra un vizio di nullità relativa, sanabile se non eccepito nella prima difesa utile, come ribadito da Sez. 6-1, ord., n. 21205 (Rv. 627935), rel. Acierno. Tuttavia, come precisato da Sez. L, n. 6712 (Rv. 625615), est. Amoroso, l'omessa menzione nella procura del potere rappresentativo dell'ente che sta in giudizio, ove sia contenuta nelle premesse dell'atto, così come l'omessa indicazione del nominativo della persona che l'ha sottoscritta, ove non ne sia controverso il potere di rappresentanza, né l'illegibilità della firma, autenticata dal difensore, non si traducono in causa di nullità.

L'inesistenza della procura alle liti si traduce in causa di nullità processuale ove non venga nel corso del giudizio prodotta valida procura, come affermato da Sez. 3, n. 4780 (Rv. 625315), est. Frasca, secondo cui l'inesistenza della procura alle liti relativa al ricorso per decreto ingiuntivo (nella specie, conferita da società estintasi per incorporazione) comporta l'invalidità non solo della fase monitoria e dell'ingiunzione, ma anche della domanda agli effetti della cognizione piena con il rito ordinario in sede di giudizio di opposizione, allorché l'opposto non abbia prodotto in quest'ultimo una nuova valida procura nella comparsa di risposta, con la conseguenza che il giudice deve definire l'opposizione con una pronuncia di mero rito dichiarativa del difetto del presupposto processuale del ministero del difensore.

Deve, tuttavia, sottolinearsi che le problematiche relative alla procura si sono certamente attenuate ed andranno ulteriormente attenuandosi alla luce della nuova formulazione dell'art. 182 cod. proc. civ., sicuramente applicabile ai processi di primo e di secondo grado instaurati dopo il 4 luglio 2009, su cui, però, non si rinvengono precedenti nel 2013, riferendosi al testo anteriore alla legge 17 giugno 2009, n. 69 la sentenza Sez. 6-1 n. 17301 (Rv. 627390), est. Bisogni, la quale afferma che l'omessa assegnazione di un termine per l'eventuale sanatoria di una procura ritenuta invalida comporta violazione della disposizione citata solo a fronte di una esplicita richiesta della parte.

Va ricordato che, in linea con decisioni più risalenti, Sez. 1, n. 6228 (Rv. 625592), est. Lamorgese, ha escluso la necessità, anche nell'ipotesi di rappresentanza e difesa facoltativa degli enti pubblici da parte dell'Avvocatura dello Stato, sia di uno specifico mandato da parte dell'ente, in base agli artt. 1 e 45 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611,sia della produzione del provvedimento di autorizzazione da parte dell'organo competente in base all'art. 12 della legge 3 aprile 1979, n. 103.

3.4. Revoca o rinuncia al mandato.

La revoca della procura da parte del cliente o la rinuncia alla stessa da parte del difensore, a norma dell'art. 85 cod. proc. civ., non fa perdere al procuratore (revocato o rinunciante), la legittimazione a ricevere gli atti nell'interesse della parte, con la conseguenza che la notificazione della sentenza allo stesso è idonea a far decorrere i termini d'impugnazione (così Sez. 6-1, ord., n. 14368, Rv. 626842, rel. Dogliotti). A diverse conclusioni è, invece, pervenuta, Sez. L, n. 11529 (Rv. 626559), est. Filabozzi, relativamente alla ipotesi particolare del legale dipendente di ente pubblico, iscritto nell'albo speciale ed abilitato al patrocinio esclusivamente per le cause e gli affari propri dell'ente presso il quale presta la sua opera, per il quale la cessazione del rapporto di impiego, determinando la mancanza di legittimazione a compiere e ricevere atti processuali relativi alle cause proprie dell'ente, comporta il totale venir meno dello ius postulandi, con l'ulteriore conseguenza che le notificazioni necessarie, ed in particolare quelle delle impugnazioni, devono essere fatte alla parte personalmente.

3.5. Il diritto allo sciopero del difensore.

Appare, oramai, pienamente riconosciuto che l'adesione del difensore all'astensione dalle udienze, legittimamente deliberata dal competente organismo forense, ha delle conseguenze processuali: il difensore ha, difatti, il diritto di ottenere un differimento della trattazione della causa, per cui lo svolgimento dell'attività processuale, in presenza di tale impedimento, ben può determinare, ove ne sia derivato pregiudizio al diritto di difesa, una nullità degli atti assunti. Sez. L, n. 1567 (Rv. 624860), est. Manna, nell'affermare tale principio, ha, tuttavia, chiarito che l'impedimento in oggetto deve essere previamente portato a conoscenza dell'ufficio, siccome si tratta di una facoltà del difensore che, pur avendo origine o fonte in un deliberato "collettivo", si esercita mediante un atto di esternazione individuale: nel caso di specie, in cui il fax, contenente la dichiarazione di astensione, pur essendo stato inviato dal difensore la sera prima dell'udienza, in cui la sentenza impugnata era stata emessa, non risultava dal fascicolo, si è ritenuto onere a carico della parte richiedente il rinvio che tale comunicazione fosse stata portata tempestivamente a conoscenza del collegio giudicante e della controparte, per cui si è esclusa la nullità.

Sez. 6-1, n. 15420 (Rv. 627015), est. Bisogni, ha, inoltre, escluso che, ai fini dell'equo indennizzo previsto dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, possano essere imputati alle parti i ritardi dovuti a rinvii delle udienze derivanti dall'astensione degli avvocati, che rappresenta l'esplicazione di un diritto costituzionalmente tutelato dei difensori e non integra un comportamento riconducibile alle parti stesse. Nella decisione si è, peraltro, osservato che l'astensione dalle udienze non è di per sé idonea a ledere il diritto al rispetto del termine di ragionevole durata, comportando solo un rinvio della causa, la cui irrealizzabilità nei tempi brevi previsti dal codice di rito consegue all'inadeguatezza del sistema giudiziario a fronteggiare la domanda di giustizia in tempi congrui.

3.6. Il compenso del difensore.

Quanto al compenso del difensore va, in primo luogo, segnalata Sez. Un., n. 21675 (Rv. 627418), est. Travaglino, secondo cui, ai sensi della legge 13 giugno 1942, n. 794 (applicabile ratione temporis), l'opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dall'avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile deve proporsi con atto di citazione, sicché, qualora l'opponente abbia introdotto il corrispondente giudizio con ricorso, la sanatoria del vizio procedurale (operante quando, con la regolare instaurazione del contraddittorio, conseguente alla costituzione della controparte in assenza di eccezione alcuna, sia stato raggiunto lo scopo dell'atto, in virtù del principio di conversione degli atti processuali nulli di cui all'art. 156 cod. proc. civ.) sussiste alla condizione che il ricorso venga notificato nel termine indicato nel decreto, analogamente a come si sarebbe dovuto procedere con l'atto di citazione.

Devono, inoltre, ricordarsi due casi in cui il valore della controversia, ai fini della liquidazione dei diritti e degli onorari del difensore, secondo la disciplina anteriore, è stato ritenuto indeterminabile: l'opposizione alla sentenza di risoluzione del concordato preventivo e conseguente dichiarazione di fallimento, in cui si è esclusa l'applicazione analogica dell'art. 17 cod. proc. civ. ed in cui la risoluzione del concordato costituisce un mero presupposto (Sez. 1, n. 1346, Rv. 624849, est. Ceccherini); la controversia introdotta innanzi al giudice amministrativo per l'annullamento di un atto, qualora la causa petendi della domanda sia l'illegittimità dell'atto stesso e il petitum la sua eliminazione, senza che rilevino eventuali risvolti patrimoniali della vicenda (Sez. 2, n. 1754, Rv. 624983, est. Petitti).

3.7. Le spese di causa.

Nei rapporti tra le parti del processo, come noto, le spese sono tendenzialmente ripartite in base alla soccombenza, da stabilirsi in virtù di un criterio unitario e globale e, cioè, con riferimento all'esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole, per cui:

Sez. 3, n. 19158 (Rv. 627843), est. Segreto, ha ritenuto violare l'art. 91 cod. proc. civ. la integrale condanna alle spese della fase di gravame, da parte del giudice di appello, a carico della parte qualificata come soccombente per effetto della riduzione della somma accordatale in primo grado;

Sez. 6-3, ord. 6369 (Rv. 625486), rel. Ambrosio, ha cassato la sentenza con cui il giudice d'appello aveva disposto, per il primo grado di giudizio, la condanna alle spese, sia pure parziale, a carico della parte attrice – sul presupposto del rigetto della domanda dalla stessa proposta, con contestuale reiezione anche della domanda riconvenzionale e delle domande di condanna, comuni ad entrambe le parti, ex art. 96 cod. proc. civ. – e, per il grado di appello, della convenuta appellata – sul presupposto dell'accoglimento del gravame proposto dall'attrice soccombente – procedendo, su tali basi erronee, alla compensazione legale dei loro reciproci crediti.

In applicazione dello stesso principio Sez. 6-2, ord., n. 2671 (Rv. 624920), rel. Giusti, ha precisato che la regolamentazione delle spese del subprocedimento incidentale, privo di autonomia rispetto al giudizio di merito, avente ad oggetto la sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata, deve essere disposta con il provvedimento che chiude il procedimento principale, tenendo conto del suo esito complessivo: pertanto, ove la sentenza impugnata sia stata riformata in toto dal giudice d'appello, la liquidazione delle spese relative a tale subprocedimento non può essere esclusa sul presupposto che l'istanza di sospensione fosse stata, medio tempore, rigettata.

Quanto alla soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale delle spese, si tratta di concetto che presuppone una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l'accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti solo alcuni, ovvero una parzialità dell'accoglimento meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo, mentre va esclusa, come puntualizzato da Sez. 6-2, ord., n. 21684 (Rv. 627822), rel. D'Ascola, nell'ipotesi in cui l'intergale vittoria nel merito si accompagni a qualche error in procedendo, come, ad esempio, la proposizione del gravame con ricorso e non con citazione. Sez. 1, n. 1703 (Rv. 624926), est. De Chiara, ha, inoltre, osservato che nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell'una o dell'altra basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, dovendo essere valutato l'oggetto della lite nel suo complesso.

Ad ogni modo, come evidenziato da Sez. 1, n. 8886 (Rv. 626077), est. Lamorgese, colui che attivamente o passivamente si espone all'esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente conseguenziali e strettamente dipendenti dalla sua attività, come quelle liquidate in favore del chiamato iussu iudicis.

Relativamente alla concreta liquidazione, Sez. 6-3, ord., n. 11522 (Rv. 626367), rel. Barreca, ha riaffermato che, quando la parte presenta la nota delle spese, secondo quanto è previsto dall'art. 75 disp. att., specificando la somma domandata, il giudice non può attribuire alla parte a titolo di rimborso delle spese, una somma di entità superiore, mentre Sez. 6-3, ord., n. 7654 (Rv. 625598), rel. Lanzillo, ha osservato che, qualora la nota non sia prodotta, deve presumersi che la liquidazione giudiziale sia avvenuta con riferimento a quel che risulta dagli atti, quanto alla corrispondenza fra l'attività svolta dal difensore e la somma spettante a titolo di spese, diritti ed onorari, essendo onere della parte che lamenti l'erronea liquidazione dimostrare, attraverso la produzione in giudizio della nota specifica delle prestazioni svolte, che l'attività esposta sia stata effettivamente resa, nonché quali singole voci non siano state incluse nella somma liquidata a compensazione, o siano state liquidate in violazione dei limiti tariffari, potendo il giudice, solo in forza di tale attività, verificare con puntualità e precisione la corrispondenza o meno delle richieste alle risultanze di causa, traendo anche argomento dalla mancata contestazione della controparte.

Ad ogni modo, Sez. 3, n. 1023 (Rv. 624919), est. Carluccio, non ha ravvisato alcuna violazione del principio di soccombenza nella ripartizione delle spese della consulenza tecnica d'ufficio in quote uguali tra la parte soccombente e la parte totalmente vittoriosa, atteso che la compensazione non implica condanna, ma solo esclusione del rimborso, e, altresì, che la consulenza tecnica d'ufficio, quale ausilio fornito al giudice da un collaboratore esterno, anziché mezzo di prova in senso proprio, è un atto compiuto nell'interesse generale della giustizia e, dunque, nell'interesse comune delle parti.

Sez. 2, n. 84 (Rv. 624396), est. Giusti, ha confermato l'orientamento consolidato secondo cui le spese per la consulenza tecnica di parte, pur rientrando tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsare, possono essere escluse dalla ripetizione, se ritenute dal giudice eccessive o superflue.

Sez. 6-2, ord. n. 21213 (Rv. 627802), rel. Proto, ha ribadito che nel procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 391 bis cod. proc. civ. non è ammessa alcuna pronuncia sulle spese processuali in quanto non è possibile individuare una parte vittoriosa e una parte soccombente.

Proprio a tale procedimento si può ricorrere, ad avviso di Sez. 3, n. 18518 (Rv. 627471), est. D'Amico, in caso di mancata liquidazione delle somme dovute per spese generali, omissione che costituisce un errore materiale, riguardando una statuizione di natura accessoria e a contenuto normativamente obbligato, che richiede al giudice una mera operazione tecnico-esecutiva, da svolgersi sulla base di presupposti e parametri oggettivi. Sez. 6-2, ord., n. 21207 (Rv. 627856), rel. Proto, ha, comunque, sottolineato che la liquidazione, da parte del giudice, non è neppure necessaria per quanto concerne il contributo unificato atti giudiziari, di cui all'art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che costituisce un'obbligazione ex lege di importo predeterminato, gravante sulla parte soccombente per effetto della stessa condanna alle spese.

Al contrario, come ricordato da Sez. 3, n. 4012 (Rv. 625121), est. Carluccio, integra un vizio di omessa pronuncia, riparabile soltanto con l'impugnazione, il mancato regolamento delle spese di un procedimento contenzioso da parte del giudice, che (a norma dell'art. 91 cod. proc. civ.) avrebbe dovuto provvedervi con la sentenza od altro provvedimento a contenuto decisorio, emesso a definizione dello stesso, quale, ad esempio, la sentenza definitiva di estromissione dal giudizio di un soggetto privo di legittimazione passiva, che ha il valore di una pronuncia di rigetto della domanda proposta contro tale soggetto, e, quindi, esaurendo nei confronti di questo la materia del contendere, deve provvedere al regolamento delle spese del relativo rapporto processuale (così Sez. 2, n. 7625, Rv. 625637, est. Proto).

In tema di distrazione delle spese processuali, Sez. 6-2, n. 7232 (Rv. 625396), rel. Bertuzzi, ha ribadito che la notifica della sentenza al soccombente, effettuata dal difensore distrattario al solo scopo del recupero delle spese, essendo finalizzata alla realizzazione di un diritto proprio del procuratore, diverso ed autonomo rispetto alla posizione sostanziale della parte rappresentata, non fa decorrere nei confronti di quest'ultima il termine breve per proporre l'impugnazione, mentre per Sez. 3, n. 8215 (Rv. 625757), est. Carleo, allorché sia riformata in appello la sentenza, costituente titolo esecutivo, di condanna alle spese in favore del difensore della parte vittoriosa, il soggetto tenuto alla restituzione delle somme pagate a detto titolo è il difensore distrattario, quale parte del rapporto intercorrente tra chi ha ricevuto il pagamento non dovuto e chi lo ha effettuato.

Quanto alla domanda ex art. 96 cod. proc. civ., domanda proponibile, secondo Sez. 3, n. 22812 (in corso di massimazione), est. De Stefano, anche nel giudizio di legittimità, nel ricorso o nel controricorso, risulta confermato da Sez. L, n. 9080 (Rv. 626145), est. Bandini, che la domanda di cui all'art. 96, primo comma, cod. proc. civ. richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell'an e sia del quantum debeatur, o comunque postula che, pur essendo la liquidazione effettuabile di ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa. Sez. 2, n. 7620 (Rv. 625885), est. Bianchini, sembra, tuttavia, meno rigorosa sul punto, esigendo solo unagenerica allegazione della direzione dei supposti danni, reputati di carattere necessariamente indeterminato.

La medesima Sez. 2, n. 7620 (Rv. 625885), est. Bianchini, si sofferma, inoltre, sul diverso presupposto della responsabilità per lite temeraria a seconda dei gradi del giudizio, precisando che, mentre in primo grado essa sanziona l'iniziativa giudiziaria avventata, nel secondo grado, regolato dal principio devolutivo, il presupposto è la pretestuosità dell'impugnazione, valutata con riguardo non tanto alle domande proposte, quanto, piuttosto, alla palese e strumentale infondatezza dei motivi dell'appello e, più in generale, alla condotta processuale tenuta dalla parte soccombente nella fase di gravame. Ad ogni modo, come sottolinea Sez. 1, n. 19583 (Rv. 627730), est. Giancola, la condanna al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità aggravata per lite temeraria in sede di appello presuppone la totale soccombenza della parte in relazione all'esito del singolo grado di giudizio, aggiungendosi essa, ai sensi dell'art. 96, primo comma, cod. proc. civ., alla condanna alle spese, la quale è, invece, correlata all'esito finale della lite.

Con specifico riferimento alla responsabilità processuale aggravata ex art. 96, secondo comma, cod. proc. civ.:

Sez. 2, n. 8913 (Rv. 626099), est. Matera, ribadisce, ai fini della condanna, il necessario accertamento dell'inesistenza del diritto oggetto della trascrizione, nonché l'inosservanza da parte dell'attore della prudenza tipica dell'uomo di media diligenza, sottolineando che il giudice, investito dell'istanza della parte danneggiata, non può pronunciare su di essa se non abbia preventivamente deciso le questioni di merito attinenti al grado di fondatezza della domanda trascritta;

Sez. 3, n. 1590 (Rv. 625062), est. Barreca, ha escluso la proponibilità della richiesta risarcitoria nei confronti del creditore pignorante nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi, limitandola nell'ambito del giudizio di merito nel quale il titolo esecutivo si è formato ovvero nell'opposizione all'esecuzione;

Sez. 3, n. 9152 (Rv. 626027), est. Barreca, ha limitato l'accertamento della mala fede del creditore pignorante, per i fini di cui all'art. 96, comma secondo, cod. proc. civ., alla condotta tenuta nel giudizio di esecuzione, ammettendo l'estensione alla condotta tenuta nel giudizio di opposizione nel caso in cui venga invocata dall'opponente anche la responsabilità dell'opposto, ai sensi del primo comma dell'art. 96, cod. proc. civ., per avere in mala fede o colpa grave resistito al giudizio di opposizione all'esecuzione.

4. Interesse e legittimazione.

4.1. L'interesse con riguardo alla domanda.

La sussistenza o la carenza dell'interesse ad agire, come condizione dell'azione, è una questione affrontata costantemente dalla Suprema Corte, per cui appare opportuna una breve disamina delle soluzioni in concreto adottate sul punto.

Preliminarmente deve ricordarsi Sez. 3, n. 8093 (Rv. 625650) est. Uccella, in cui si è ribadito che la domanda di accertamento incidentale con efficacia di giudicato in ordine a questione pregiudiziale, ai sensi dell'art. 34 cod. proc. civ., presuppone, ai fini del suo accoglimento, che l'istante dimostri un interesse effettivo in grado di travalicare il giudizio in corso: la questione deve, cioè, essere idonea ad influire altresì su liti diverse e di prevedibile insorgenza fra le stesse parti, o anche su altri rapporti e altri soggetti, non potendosi altrimenti, in ossequio al principio costituzionale di ragionevole durata del processo, ritardare il processo.

Per quanto concerne le fattispecie in concreto esaminate, Sez.6-1, ord., n. 7347 (Rv. 625741), rel. Acierno, ha affermato che l'esperibilità di ulteriori rimedi nei confronti di altri soggetti non può escludere la sussistenza di un concreto interesse ad agire e, facendo applicazione di tale regola, in materia di conto corrente bancario, ha riconosciuto che l'indebita percezione, da parte di un correntista, di una somma di denaro della banca ne giustifica l'interesse ad agire contro lo stesso ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., senza che assuma rilievo, in senso contrario, la possibilità di recuperare la medesima perdita patrimoniale con una autonoma azione risarcitoria nei confronti del dipendente, il cui comportamento illecito sia stato fonte del pregiudizio economico.

Sez. 3, n. 9238 (Rv. 626004), est. Cirillo, ha escluso l'interesse ad agire del prelazionario al fine di far accertare l'autenticità della sottoscrizione del contratto preliminare, negozio che, di per sé, non implica una lesione attuale del diritto altrui, ma che potrebbe eventualmente produrla soltanto all'esito di una fattispecie complessa, ancora in via di completamento, atteso che nel sistema delineato dall'art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590 la violazione del diritto di prelazione agraria, tramite la conclusione di un contratto preliminare, non oggetto di denuntiatio, tra il proprietario del terreno ed un terzo, non consente all'affittuario di avvalersi né del rimedio risarcitorio, né di quello dell'esecuzione in forma specifica del diritto violato, bensì (una volta intervenuto il contratto definitivo tra quelle stesse parti) esclusivamente di esercitare il diritto di riscatto.

Parimenti Sez. 6-2, ord., n. 11214 (Rv. 626417), rel. Bianchini, ha confermato la decisione del giudice di primo grado, la quale aveva dichiarato la carenza di interesse del condomino all'impugnativa di due delibere, l'una concernente la nomina di un tecnico per la verifica di necessità dei lavori di manutenzione sollecitati dallo stesso ricorrente, l'altra volta a precisare la portata della precedente espressione della volontà assembleare, proprio nel senso di eliminare il contenuto negativo ravvisato dal singolo partecipante nella prima deliberazione, osservando che l'interesse all'impugnazione per vizi formali di una deliberazione dell'assemblea condominiale, ai sensi dell'art. 1137 cod. civ., pur non essendo condizionato al riscontro della concreta incidenza sulla singola situazione del condomino, postula comunque che la delibera in questione sia idonea a determinare un mutamento della posizione dei condomini nei confronti dell'ente di gestione, suscettibile di eventuale pregiudizio. Sempre in tema di condominio Sez. 2, n. 23955 (Rv. 628020), est. Manna, ha chiarito che nel giudizio promosso da un condomino per la revoca dell'amministratore, interessato e legittimato a contraddire è soltanto l'amministratore, non anche il condominio, che, pertanto, non può intervenire in adesione all'amministratore, né beneficiare della condanna alle spese del condomino ricorrente.

Ovviamente, secondo Sez. 2, n. 20155 (Rv. 627798), est. Piccialli, la morte dell'usufruttuario, in corso di causa, determina l'inammissibilità per carenza di interesse ad agire, conseguente all'intrasmissibilità mortis causa del diritto di usufrutto, della domanda allo scioglimento della "comunione impropria" (ovvero all'individuazione dei beni su cui l'usufrutto avrebbe dovuto essere concretamente esercitato, nell'ambito di quelli collettivamente gravati dallo stesso), mentre resta ammissibile e può, pertanto, essere proseguita dagli eredi la pretesa risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. azionata dall'usufruttuario in relazione al rifiuto dei nudi proprietari a consentire la locazione di taluni beni oggetto del diritto di usufrutto, pretesa collegata ad un diritto la cui trasmissibilità agli eredi non è esclusa da alcuna norma e per la quale può, quindi, affermarsi la sopravvivenza dell'interesse ad agire.

Collegate allo stesso principio e, cioè, alla persistenza dell'interesse ad agire in capo agli eredi solo relativamente a quelle posizioni giuridiche trasmissibili mortis causa appaiono anche le decisioni in materia di separazione e divorzio. Così per Sez. 1, n. 18130 (Rv. 627596), est. Dogliotti, la morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale o di divorzio, anche nella fase di legittimità, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici; né il figlio maggiorenne non autosufficiente potrebbe coltivare una domanda di assegno nei confronti dell'obbligato ormai deceduto o, trattandosi di rapporto personale, procedere nei confronti di eventuali altri eredi.

Sempre in tema di famiglia, va, invece, ricordato che, come ribadito da Sez. 1, n. 19555 (Rv. 627564), est. Giancola, e da Sez. 6-1, ord., n. 17825 (Rv. 627312), rel. Dogliotti, la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale (di modifica delle condizioni di separazione) che sia iniziato anteriormente e sia tuttora in corso, ove esista l'interesse di una delle parti alla operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali, che trovano il proprio limite nel passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, come nel caso in cui permanga quello alla definitiva regolamentazione dell'assegno fino alla cessazione dell'obbligo di mantenimento per sopravvenute nuove nozze del beneficiario di esso. È, invece, pacifico che la raggiunta maggiore età del figlio determina la sopravvenuta carenza di interesse delle domande aventi ad oggetto l'affidamento dei figli minori nei giudizi tra i genitori, come si ricava da Sez. 1, n. 10719 (Rv. 626444), est. Acierno.

Con riguardo all'opposizione agli atti esecutivi, Sez. 3, n. 2968 (Rv. 625428), est. Barreca, ha negato la sussistenza dell'interesse ad agire relativamente ai provvedimenti del giudice dell'esecuzione, che abbiano finalità di mero governo del processo, come è tipicamente quello di rinvio dell'udienza: l'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. deve, difatti, investire un atto, viziato nelle forme o nei presupposti, che abbia incidenza dannosa nella sfera degli interessati, tale che sia attualmente configurabile un interesse reale alla rimozione dei suoi effetti.

Particolarmente interessante risulta, per la novità della posizione espressa, Sez. 6-3, n. 10579 (Rv. 626174), est. Frasca, secondo cui il terzo, chiamato in causa su istanza di parte, non può eccepire l'irritualità della stessa per mancata osservanza delle prescrizioni stabilite dall'art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., essendo al riguardo carente di interesse, visto che le prescrizioni de quibus sono dirette a tutelare l'attore dall'estensione soggettiva del rapporto processuale, che inevitabilmente può avere ripercussioni sulla tempistica ed organizzazione del giudizio: al contrario, può reputarsi sussistente l'interesse del terzo chiamato con riguardo a quelle questioni di rito concernenti non il suo ingresso nel processo, ma il rapporto tra le parti originarie ed idonee, pertanto, a determinarne l'immediata decisione della domanda, precludendone l'esame nel merito.

Una pronuncia collegata alla sopravvenuta carenza di interesse dell'attore è quella di cessazione della materia del contendere, che ricorre soltanto quando nel corso del processo intervengano determinate circostanze riferibili a fatti obiettivi, ammessi da entrambe le parti, che, avendo incidenza sulla situazione sostanziale prospettata, facciano venire meno la necessità della pronuncia del giudice in precedenza richiesta, senza che sia, pertanto, a tal fine sufficiente il mero riconoscimento, ad opera del convenuto, del diritto vantato dall'attore, ove non risulti integralmente soddisfatta la domanda di quest'ultimo, come osservato da Sez. 2, n. 13217 (Rv. 626282), est. Matera, che, alla stregua dell'enunciato principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso che comportasse la cessazione della materia del contendere la semplice dichiarazione di disponibilità del convenuto ad eliminare le infiltrazioni di umidità lamentate dall'attore con riguardo al proprio immobile.

4.2. L'interesse con riguardo all'impugnazione.

Con specifico riferimento all'impugnazione, l'interesse ad agire postula, da un lato, la soccombenza, nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione, e, dall'altro, una concreta utilità giuridica che possa derivare al proponente dall'accoglimento del gravame, come chiarito da Sez. 1, n. 8934 (Rv. 626025), est. De Chiara.

Riguardo ad entrambi i profili dell'interesse all'impugnazione, sono intervenute le Sezioni unite, con più pronunce:

Sez. Un., n. 24470 (Rv. 627992), est. Rodorf, ha escluso la soccombenza (più precisamente parziale) e, conseguentemente, dichiarato inammissibile l'impugnazione della sentenza proposta dal ricorrente qualora, in presenza di richieste di annullamento di atti amministrativi per una molteplicità di vizi di legittimità, il giudice abbia accolto tali domande ed annullato quegli atti, spiegando in motivazione di avere riscontrato solo alcuni dei vizi denunciati;

Sez. Un., n. 24469 (Rv. 627991), est. Rodorf, ha dichiarato inammissibile il motivo di impugnazione rivolto esclusivamente alla motivazione di merito, da ritenersi svolta solo ad abundantiam dal giudice, che abbia rigettato in rito una domanda, o un capo di essa, o un singolo motivo di gravame, così spogliandosi della potestas iudicandi;

Sez. Un., n. 7931 (Rv. 625631), est. Di Palma, per il caso in cuila decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per cassazione che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione, sottolineando che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti;

Sez. Un., n. 18752 (Rv. 627259), est. Spirito, ha dichiarato l'inammissibilità dell'appello incidentale tardivo proposto dal coobbligato solidale al risarcimento del danno, perché privo di reale utilità per la parte, qualora il gravame principale sia stato instaurato dalla sola compagnia assicuratrice di altro coobbligato al fine di escludere l'operatività della garanzia prestata in favore di quest'ultimo, dovendo in tal caso negarsi che il suddetto gravame abbia messo in discussione l'assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale il primo aveva prestato acquiescenza.

È stata, inoltre, negata la configurabilità della soccombenza in caso di omessa pronuncia relativamente ad una domanda proposta da controparte, da Sez. 1, n. 11012 (Rv. 626336), est. Campanile. Mentre l'interesse all'impugnazione viene escluso, sotto il profilo dell'utilità, riguardo alla censura avente ad oggetto la mancata ammissione di una prova richiesta dalla controparte da Sez. 1, n. 714 (Rv. 624670), est. Giancola; riguardo alla censura avente ad oggetto l'apposizione di una data di pubblicazione diversa e precedente da quella di deliberazione della sentenza, in assenza di una prova del concreto pregiudizio subìto, da Sez. 3, n. 9722 (Rv. 626379), est. Vincenti; riguardo alla censura avente ad oggetto la violazione della regola processuale che impone la prioritaria trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito, la cui fondatezza non comporterebbe, comunque, un diverso esito della decisione finale, da Sez. 3, n. 7253 (Rv. 625883), est. Amendola.

Ad ogni modo, Sez. 1, n. 21596 (Rv. 627525), est. Mercolino, ha ritenuto non possibile, in sede di legittimità, la produzione di un documento (nella specie, la rinuncia agli effetti della sentenza appellata) dal quale risulti la sopraggiunta carenza d'interesse all'impugnazione in sede di legittimità, allorquando lo stesso avrebbe potuto essere prodotto nella fase di merito, perché anteriore alla sua conclusione.

Si riferisce, invece, alla necessaria attualità dell'interesse Sez. Un., n. 7381 (Rv. 625558), est. Amatucci, secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito ha natura di ricorso condizionato all'accoglimento del ricorso principale, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte: va, quindi, esaminato solo in presenza dell'attualità dell'interesse, ovvero unicamente nell'ipotesi della fondatezza del ricorso principale.

4.3. Legittimazione.

Quanto alla legittimatio ad causam, Sez. 1, n. 21889 (Rv. 627732), est. Scaldaferri, ha affermato che colui il quale abbia perso la qualità di socio, non avendo sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale, conserva la legittimazione ad esperire l'azione di accertamento della nullità della deliberazione assembleare adottata ex art. 2447 cod. civ., in quanto sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all'art. 24, primo comma, Cost., ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l'istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.

Occorre, inoltre, ricordare Sez. 1, n. 22099 (Rv. 628106), est. Lamorgese, che ha ribadito che la legittimazione processuale, riguardando un presupposto della regolare costituzione del rapporto processuale, è questione esaminabile anche d'ufficio, come dimostra la previsione dell'art. 182, secondo comma, cod. proc. civ., in ogni stato e grado del giudizio, salvo il limite della formazione del giudicato, con la conseguenza che non rileva il momento processuale in cui sia fornita la relativa prova, non operando, ai relativi effetti, le ordinarie preclusioni istruttorie ed ha, quindi, escluso la tardività della prova della qualità di legale rappresentante di una persona giuridica, offerta nella memoria di replica istruttoria di cui all'art. 184 cod. proc. civ.

Si registrano, poi, altre pronunce che non sono, tuttavia, riconducibili alla questione della legittimazione processuale, ma a quella sostanziale. Sez. Un., n. 11830 (Rv. 626186), est. Vivaldi, ha reputato inammissibile, in relazione al divieto di introdurre nuove eccezioni nel giudizio di appello, di cui all'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., il motivo di impugnazione con cui l'intimato di sfratto per morosità deduca il proprio difetto della qualità di conduttore a seguito di cessione d'azienda e contestuale cessione del contratto di locazione dell'immobile, senza che tale profilo attinente alla legittimazione passiva sostanziale fosse stato in precedenza contestato in primo grado, trattandosi di eccezione che presuppone l'accertamento in sede di gravame di un fatto impeditivo del tutto nuovo, in violazione del sistema delle preclusioni. La decisione si ricollega, però, all'orientamento secondo cui non attiene alla legitimatio ad causam, ma al merito della lite, la questione relativa alla titolarità, attiva o passiva, del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, risolvendosi nell'accertamento di una situazione di fatto favorevole all'accoglimento o al rigetto della pretesa azionata: tale questione (a differenza della legitimatio ad causam, che è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio)è affidata alla disponibilità delle parti (così, da ultimo, Sez. 2, n. 8175del 2012, Rv. 622407).

Non vi è, quindi, alcun contrasto con la decisione delle Sezioni unite n. 1912 del 2012 (Rv. 620484), secondo cui la verificadella coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge regolatrice del rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronunzia richiesta, preliminare al merito, va effettuata anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, col solo limite della formazione del giudicato interno, in quanto questione che si collega al divieto di cui all'art. 81 cod. proc. civ.,secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e che mira a prevenire una sentenza inutiliter data.

Non si pone, in senso proprio, una questione di difetto di legittimazione passiva neppure nell'ipotesi di vocatio in ius di un Ministero diverso da quello istituzionalmente competente, come chiarito da Sez. 3, n. 16104 (Rv. 626902), est. Frasca: in tale ipotesi, però, allorché l'Avvocatura dello Stato – pur ricorrendo i presupposti per l'applicazione dell'art. 4 della legge 25 marzo 1958, n. 260 – non si avvalga, nella prima udienza, della facoltà di eccepire l'erronea identificazione della controparte pubblica, provvedendo alla contemporanea indicazione di quella realmente competente, resta preclusa la possibilità di far valere, in seguito, l'irrituale costituzione del rapporto giuridico processuale, ferma restando la facoltà per il reale destinatario della domanda di intervenire in giudizio e di essere rimesso in termini.

5. Pluralità di parti.

5.1. Litisconsorzio necessario.

Di fondamentale importanza risulta l'individuazione delle ipotesi di litisconsorzio necessario, in quanto, come ribadito da Sez. 1, n. 18127 (Rv. 627384), est. Acierno, quando risulta integrata la violazione dell'art. 102 cod. proc. civ., non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l'integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell'art. 354, primo comma, cod. proc. civ., resta viziato l'intero processo e s'impone, in sede di giudizio di cassazione, l'annullamento, anche d'ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell'art. 383, terzo comma, cod. proc. civ.

Resta, però, confermato, come evidenziato da Sez. 2, n. 1739 (Rv. 624975), est. Carrato, e Sez. 6-3, n. 17458 (Rv. 17458), est. Segreto, che l'ordine di integrazione del contraddittorio emesso in difetto dei presupposti per la sua emanazione è improduttivo di effetti, sicché la mancata ottemperanza al medesimo, essendo irrilevante, non può determinare né l'estinzione del giudizio di primo grado né l'inammissibilità dell'impugnazione.

È stato, inoltre, precisato da Sez. 2, n. 6822 (Rv. 625383), est. Nuzzo, che la parte che denunci per cassazione la violazione dell'art. 354 cod. proc. civ., in relazione all'art. 102 cod. proc. civ., ha l'onere di indicare in ricorso nominativamente le persone che debbono partecipare al giudizio ai fini dell'integrità del contraddittorio, nonché di documentare i titoli che attribuiscano ai soggetti pretermessi la qualità di litisconsorti, ricadendo sul ricorrente il dubbio in ordine a queste circostanze, tale da non consentire alla S.C. di ravvisare la fondatezza della dedotta violazione. Tale orientamento è conforme al principio posto da Sez. Un., n. 15289 del 2001 (Rv. 550823), secondo cui la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l'onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorzi necessari e di provarne l'esistenza, ma anche quello di dimostrare i presupposti di fatto che giustificano l'integrazione. Tuttavia, la regola in esame sembra attenuata da Sez. 2, n. 25810 (in corso di massimazione), est. Proto, che ha ammesso l'individuazione di ufficio dei litisconsorti pretermessi da parte del giudice.

Ipotesi di litisconsorzio necessario sono state ravvisate:

da Sez. 2, n. 16633 (Rv. 626851), est. Piccialli, tra tutti i promissari acquirenti, detentori dell'immobile, quando la domanda di rilascio immobiliare presuppone l'accertamento del legittimo esercizio del diritto potestativo del fallimento di sciogliersi da un preliminare di vendita ad effetti anticipati, ai sensi dell'art. 72 legge fall., non potendo lo scioglimento contrattuale essere limitato ad uno solo di essi, tenuto conto dell'inscindibilità della prestazione traslativa dedotta nel preliminare;

da Sez. 6-2, ord., n. 12385 (Rv. 626230), rel. Carrato, nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale, relativa al pagamento di sanzione amministrativa per violazione del codice della strada, ove il destinatario della stessa deduca la mancata notifica del verbale di accertamento dell'infrazione, tra quest'ultimo, l'ente impositore, quale titolare della pretesa sostanziale contestata, e l'esattore che ha emesso l'atto opposto e ha perciò interesse a resistere, in ragione dell'incidenza che un'eventuale pronuncia di annullamento della cartella può avere sul rapporto esattoriale;

da Sez. 2, n. 25810 (in corso di massimazione), est. Proto, nel giudizio di annullamento di un contratto per incapacità di intendere e di volere, tra tutti i coeredi della parte deceduta nel corso del giudizio, non potendo l'azione essere frazionata, in quanto inconcepibile una caducazione soggettiva parziale dell'atto, che non può essere valido per alcuni coeredi ed invalido per altri.

È stato, inoltre, confermato il litisconsorzio necessario tra danneggiante ed assicuratore da Sez. 3, n. 3567 (Rv. 625437), est. Giacalone, nei giudizi proposti ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (oggi abrogato e trasfuso nell'art. 144 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209), con la conseguenza dell'assenza del valore di prova piena della dichiarazione confessoria, contenuta nel modulo di constatazione amichevole di incidente, resa dal responsabile del danno proprietario del veicolo assicurato, che deve essere liberamente apprezzata dal giudice in applicazione dell'art. 2733, terzo comma, cod. civ.

L'applicabilità dell'art. 102 cod. proc. civ. è stata, invece, esclusa tra i proprietari dei fondi confinanti, nell'ipotesi dell'actio confessoria e dell'actio negatoria a tutela di una servitù di passaggio attraverso più fondi, che vanno proposte nei confronti del solo proprietario del fondo gravato che ne contesti o impedisca l'esercizio, senza necessità di integrare il contradditorio nei confronti dei proprietari degli altri fondi (Sez. 2, n. 12479, Rv. 626462, est. Bertuzzi). Nella stessa linea si colloca Sez. 2, n. 23593 (Rv. 628018), est. Manna, secondo cui il superficiario, in ragione della natura "proprietaria" del diritto di superficie, può agire per l'accertamento della communio incidens su una strada poderale a servizio della costruzione e per la rimozione degli ostacoli materiali frapposti all'accesso da altri frontisti, esercitando, in tal modo, una negatoria servitutis, rispetto alla quale non sussiste necessità di litisconsorzio di tutti i comproprietari latistanti, atteso che l'accertamento e la condanna sono utilmente pronunciati tra le parti in giudizio; egli non è tenuto, in particolare, a chiamare in causa il titolare del suolo, in applicazione analogica dell'art. 1012, secondo comma, cod. civ., essendo la posizione del dominus soli diversa da quella del nudo proprietario, in quanto l'usufrutto è un diritto reale limitato nel tempo e nelle facoltà, mentre la superficie può essere perpetua ed attribuisce al superficiario facoltà dominicali piene e stabili. Da ultimo Sez. 2, n. 24751 (in corso di massimazione), est. Falaschi, ha ritenuto non necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti del legatario nell'ambito del giudizio avente ad oggetto l'azione di riduzione, che, stante la natura personale, tende a produrre la risoluzione del negozio di acquisto del bene, senza esplicare alcun effetto nei confronti del beneficiario del legato.

Con riferimento, invece, alla diversa ipotesi di azione di costituzione coattiva di servitù di passaggio attraverso una pluralità di fondi, Sez. Un., n. 9685 (Rv. 625962), est. Bucciante, pur confermando la necessaria partecipazione al giudizio dei proprietari di tutti i fondi che si frappongono all'accesso alla pubblica via, ne ha ravvisato il fondamento nella stessa configurazione del diritto azionato e nella possibilità giuridica della tutela richiesta, pervenendo al rigetto della domanda proposta solo nei confronti di alcuni, in quanto diretta a far valere un diritto inesistente, ed escludendo, invece, la possibilità di integrare il contraddittorio rispetto ai proprietari pretermessi.

Sempre in materia di diritti reali, Sez. 6-2, n. 22235 (in corso di mass.), est. Petitti, ha affermato che in materia di patrimonio indisponibile dello Stato, la miniera è un corpus concettualmente distinto dal suolo o sottosuolo su cui sorge, per cui nella controversia tra privati, avente ad oggetto la proprietà del fondo, su cui o entro cui si trovi il giacimento, lo Stato non è litisconsorte necessario ai sensi dell'art. 102 cod. proc. civ.

In tema di comunione legale tra coniugi, più precisamente di atto di compravendita, stipulato da un solo coniuge, ma avente ad oggetto un bene in comunione, per Sez. 3, n. 2082 (Rv. 625043), est. Vivaldi, il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto è litisconsorte necessario in tutte le controversie in cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto dominicale, mentre non può ritenersi tale in quelle controversie in cui si chieda una decisione che incide direttamente e immediatamente sulla validità ed efficacia del contratto, come, ad esempio, avviene con l'azione revocatoria, esperita ai sensi dell'art. 2901 cod. civ., che non determina alcun effetto restitutorio né traslativo, ma comporta l'inefficacia relativa dell'atto rispetto al creditore, senza caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di alienazione.

Nello stesso senso Sez. 2, n. 16559 (Rv. 626936), est. Matera, che ha negato la necessaria partecipazione del coniuge dell'acquirente, nel giudizio, instaurato dall'alienante, di risoluzione della compravendita, trattandosi di un'azione che verte sull'inadempimento dello stipulante ed incide direttamente sull'atto, pur potendosi ripercuotere sull'acquisto del coniuge non stipulante, avvenuto ope legis, ai sensi dell'art. 177, primo comma, lett. a), cod. civ.

Particolarmente interessante risulta, infine, Sez. Un., n. 11523 (Rv. 626187), est. Petitti, che, nel risolvere il problema della riconducibilità della fattispecie all'art. 102 cod. proc. civ., ha usato il criterio della ragionevole durata del processo. È, quindi, pervenuta ad escludere che, nel giudizio avente ad oggetto la simulazione relativa di una compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente, l'alienante rivesta la qualità di litisconsorte necessario, se nei suoi confronti il contratto sia stato integralmente eseguito, mediante adempimento degli obblighi tipici di trasferimento del bene e di pagamento del prezzo, e se non venga dedotto ed allegato l'interesse dello stesso ad essere parte del processo, ovvero la consapevolezza e volontà del venditore di aderire all'accordo simulatorio, osservando che, da un lato, resta, di regola, irrilevante per chi vende la modifica soggettiva della controparte e, dall'altro lato, l'attuazione del principio del giusto processo, di cui all'art. 111 Cost., impone un contemperamento tra le esigenze di natura pubblicistica del litisconsorzio necessario ed il dovere del giudice di verificare preliminarmente la sussistenza di un reale interesse a contraddire in capo al soggetto pretermesso.

Va, inoltre, ricordato che una mera eccezione riconvenzionale, a differenza della proposizione di una domanda riconvenzionale, ai sensi degli art. 34 e 36 cod. proc. civ., non determina una ipotesi di litisconsorzio necessario, come puntualizzato da Sez. 2, n. 4624 (Rv. 625283), est. Piccialli, in un caso in cui un condomino, convenuto da un altro condomino, con la pretesa di usare una cosa comune, aveva proposto un'eccezione riconvenzionale di proprietà esclusiva al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria.

5.2. Litisconsorzio facoltativo.

Relativamente al litisconsorzio facoltativo è di rilievo la posizione assunta dalle Sezioni unite in merito agli effetti dell'evento interruttivo che colpisca la parte di uno solo dei rapporti processuali cumulati, originariamente o successivamente, nell'unico processo.

In particolare nella ipotesi della chiamata in causa, da parte del convenuto del proprio assicuratore della responsabilità civile, ai sensi dell'art. 1917, comma quarto, cod. civ., Sez. Un., n. 9686 (Rv. 626431), est. Spirito, ha precisato che: 1) i fatti che provocano l'interruzione o l'estinzione della domanda di garanzia non si estendono alla domanda di risarcimento, e viceversa; 2) in presenza d'un evento interruttivo che tocchi una sola delle due cause connesse il giudice ha la facoltà e non l'obbligo di separarle, ma, ove non si avvalga di tale facoltà, l'eventuale ordinanza che dichiari interrotto il processo produce gli effetti di cui agli artt. 300 e ss. cod. proc. civ. solo con riferimento alla causa in cui si è verificato l'evento interruttivo, mentre l'altra causa non separata resta in una "fase di stallo" o "di rinvio", destinata necessariamente a cessare per effetto della riassunzione della causa interrotta o dell'estinzione di essa. Non sembrano sussistere ragioni ostative all'estensione di tali principî relativamente a tutte le ipotesi di litisconsorzio facoltativo.

5.3. Interventi.

Riguardo alle ipotesi di litisconsorzio facoltativo determinate dalla chiamata in causa del convenuto o, più genericamente, dall'intervento nel processo, va ricordato che:

Sez. 3, n. 5400 (Rv. 625380), est. Cirillo, ha escluso che la domanda dell'attore si estenda automaticamente al terzo, in mancanza di apposita istanza, nell'ipotesi della chiamata del terzo in garanzia, in ragione dell'autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorché confluiti in un unico processo, diversamente dall'ipotesi in cui il convenuto in giudizio chiami in causa un terzo, indicandolo come il soggetto tenuto a rispondere della pretesa dell'attore;

Sez. 6-2, n. 12386 (Rv. 626231), est. Carrato, ha negato, per difetto di interesse, nella controversia per la costituzione di una servitù di passaggio coattivo,l'intervento volontario adesivo alle ragioni dell'attore spiegato dal proprietario di altro fondo vicino allo scopo di evitare che il passaggio, alla stregua di un ipotetico percorso alternativo, gravi sul proprio terreno, atteso che la pronuncia costitutiva richiesta non sarebbe comunque a lui opponibile, non essendo egli parte del processo, né titolare di diritto dipendente dal titolo dedotto in causa;

Sez. 3, n. 8102 (Rv. 625646), est. Vincenti, ha qualificato come adesivo dipendente l'intervento del liquidatore giudiziale della procedura di concordato preventivo con cessione dei beni nella causa di accertamento di crediti, proposta dopo l'omologazione, confermando che il debitore è l'unico legittimato passivo e che non ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario, sussistendo la legittimazione del liquidatore solo nelle controversie che investono lo scopo liquidatorio, e precisando, altresì,che all'esito dell'intervento, deve necessariamente ipotizzarsi un litisconsorzio processuale nei successivi gradi di giudizio, non esaurendosi in un solo grado l'interesse dell'interventore ad influire con la propria difesa sull'esito dello stesso.

Va ricordato che Sez. L, n. 16930 (Rv. 627053), est. Manna, ha ribadito che l'interventore adesivo non ha un'autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l'impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell'intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico), sicché la sua impugnazione è inammissibile.

L'ipotesi più ricorrente di chiamata iussu iudicis è quella in cui il giudice ordini l'intervento di un terzo a seguito delle difese svolte dal convenuto, che, contestando la propria legittimazione passiva, lo indichi come responsabile della pretesa fatta valere in giudizio: oggetto di esame sia in Sez. 1, n. 6208 (Rv. 625938), est. Mercolino, sia in Sez. 2, n. 315 (Rv. 624589), est. Giusti. In quest'ultima, pur precisandosiche non si ricade nell'art. 102 cod. proc. civ., ma nell'art. 107 cod. proc. civ., funzionale ad esigenze di economia processuale (comunanza di causa), discrezionalmente valutate sotto il profilo dell'opportunità, si è affermato che, ove la notifica al terzo sia nulla, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, restando sanata detta nullità soltanto dall'ordine giudiziale di rinnovazione o dalla spontanea reiterazione, ad opera della parte interessata, della notificazione della citazione al terzo, senza che possa, invece, assumere rilievo sanante l'eventuale notifica al terzo stesso di un ricorso per riassunzione conseguente all'interruzione del processo pendente tra le parti originarie, in quanto atto mancante degli elementi essenziali della domanda estesa nei confronti di quello.

5.4. Successione di parti.

In merito alla successione deve segnalarsi che Sez. Un., n. 9692 (Rv. 625791), est. Segreto, ha proclamato l'applicazione dell'art. 110 cod. proc. civ., nel giudizio di cassazione, rilevando che non è espressamente esclusa per il processo di legittimità, né appare incompatibile con le forme proprie dello stesso: ha, conseguentemente, affermato che il soggetto che ivi intenda proseguire il procedimento, quale successore a titolo universale di una delle parti già costituite, deve allegare e documentare, tramite le produzioni consentite dall'art. 372 cod. proc. civ., tale sua qualità, attraverso un atto che, assumendo la natura sostanziale di un intervento, sia partecipato alla controparte, per assicurarle il contraddittorio sulla sopravvenuta innovazione soggettiva consistente nella sostituzione della legittimazione della parte originaria, mediante notificazione, non essendone, invece, sufficiente il semplice deposito nella cancelleria della Corte, come per le memorie di cui all'art. 378 cod. proc. civ., poiché l'attività illustrativa che si compie con queste ultime è priva di carattere innovativo; ha ritenuto, invece, sufficiente la partecipazione dell'erede alla discussione orale, con conferimento al difensore di procura notarile, ove la parte intimata (e poi deceduta) non abbia, nei termini, proposto e depositato il controricorso.

6. I poteri e gli atti del giudice.

6.1. Le conseguenze dell'art. 111 Cost. sull'esercizio dei poteri del giudice.

I principî costituzionali del contraddittorio e della ragionevole durata del processo sono non solo il fondamento di tutte quelle disposizioni che, da un lato, sanciscono il dovere del giudice di segnalare alle parti le questioni rilevate di ufficio (in particolare l'art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., nella formulazione successiva alla novella del 2009,cui, comunque, sopravvivono l'art. 183, commi quarto ed ottavo, cod. proc. civ.) e che, dall'altro, sanzionano, con la previsione di un indennizzo, l'eccessiva durata del processo, ma sono, ormai assurti, nella giurisprudenza della Suprema Corte, a fondamentali criteri di orientamento nell'esercizio di tutti i poteri del giudice di direzione ed organizzazione del processo.

Tale tendenza, già emersa nelle Sez. Un., ord., n. 6826 (Rv. 612077), rel. Macioce, è evidente nelle pronunce di Sez. 3, n. 12995 (Rv. 626808), est. De Stefano, e di Sez. 3, n. 15106 (Rv. 626969), est. Scrima, che, in applicazione del principio della ragionevole durata del processo, hanno escluso la necessità di adempimenti quali l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari o la concessione del termine per rinnovare la notifica, nel giudizio di cassazione, in presenza di un'evidente ragione d'inammissibilità o di palese infondatezza del ricorso, che consente la definizione immediata del procedimento. Si è, difatti, ritenuto che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice, ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ., di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a produrre i suoi effetti.

In questa stessa direzione si muove anche Sez. L, n. 18410 (Rv. 627725), est. Tria, secondo cui il giudice di merito, ove intenda disporre una nuova consulenza tecnica d'ufficio, è tenuto a motivare adeguatamente, in base ad idonei elementi istruttori o cognizioni proprie, eventualmente integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, le ragioni che lo conducono ad ignorare o sminuire i dati risultanti dalla relazione del c.t.u. già in atti, rispondendo tale esigenza a ragioni di economia processuale e dei costi del giudizio, oltre al rispetto del canone della ragionevole durata del processo, per la cui valutazione si tiene conto anche dei tempi necessari per l'espletamento della consulenza tecnica d'ufficio, che non possono risultare sprecati.

Dal principio del contraddittorio deriva, invece, da parte di Sez. 3, n. 14039 (Rv. 626690), est. Ambrosio, il riconoscimento, in via generale, anche ai processi a cui non sia applicabile l'art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., nella nuova formulazione, del dovere del giudice di collaborare con le parti, indicando le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, per l'intero corso del processo e non solo alla prima udienza. Per quanto riguarda le possibili conseguenze processuali, che possono aggiungersi a quelle deontologiche, resta confermato da Sez. 3, n. 8936 (Rv. 626018), est. Barreca, in linea con Sez. Un., n. 20935 del 2009 (Rv. 610517), che la sentenza che decida su di una questione di puro diritto, rilevata d'ufficio, senza procedere alla sua segnalazione alle parti, onde consentire su di essa l'apertura della discussione, non è nulla, in quanto da tale omissione potrebbe tutt'al più derivare un vizio di error in iudicando, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore si sia in concreto consumato. Qualora, invece, si tratti di una questione di fatto ovvero mista, di diritto e di fatto, che può comportare nuovi sviluppi della lite, Sez. 3, n. 14039 (Rv. 626691), est. Ambrosio, ha precisato che la violazione del contraddittorio, avvenuta tramite l'omessa segnalazione alle parti della questione rilevata di ufficio, ove denunciata nel giudizio di appello ed accompagnata dall'indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere, qualora fosse stato provocato il contraddittorio, determina non già la nullità del procedimento con regressione al primo giudice, bensì, ai sensi dell'art. 354, quarto comma, cod. proc. civ., la rimessione in termini per lo svolgimento in appello di tali attività; per contro, ove la denuncia della violazione riguardi il medesimo giudizio di appello, la sua deduzione nel giudizio di legittimità determina la cassazione della sentenza con rinvio, affinché in tale sede, in applicazione dell'art. 394, terzo comma, cod. proc. civ., venga dato spazio alle attività processuali omesse.

6.2. Corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

L'applicazione e la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., ai sensi del quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare di ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti, è frequentemente oggetto di esame da parte della Suprema Corte.

In primo luogo va segnalato che, sebbene sia stato chiarito che l'omessa pronuncia su una delle domande o eccezioni proposte, così come l'omessa pronuncia su uno dei motivi di censura proposti in appello, integri un vizio denunciabile in cassazione ai sensi del n. 4 e non del n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., Sez. Un., n. 17931 (Rv. 627268), est. Piccialli, ha precisato che, non essendo richieste né formule sacramentali né l'esatta indicazione numerica del vizio lamentato, non è indispensabile che il ricorrente faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell'art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all'art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge. Ad ogni modo, come chiarito da Sez. L, n. 6715 (Rv. 625610), est. Fernandes, il vizio di omessa pronuncia, rilevante ai sensi dell'art. 112 cod. proc. civ., si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie, per le quali l'omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione.

Resta, tuttavia, possibile, come ribadito da Sez. 2, n. 20402 (Rv. 627920), est. Proto, denunciare in cassazione la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato con riferimento alla sentenza di primo grado solo se non si sia formato il giudicato sulla questione oggetto della decisione.

Si tende, comunque, ad escludere ogni violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato qualora il giudice accolga la domanda di contenuto minore, che può ritenersi implicita in quella proposta di contenuto maggiore. Così, secondo Sez. L, n. 8862 (Rv. 625920), est. Arienzo, non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice del merito che riconosca il diritto del lavoratore ad essere inquadrato nella qualifica intermedia, a fronte della proposizione di domanda tesa alla superiore qualifica professionale, che implicitamente include quella inferiore, a condizione che si resti nell'ambito del medesimo genere di mansioni; secondo Sez. 1 n. 10718 (Rv. 626526), est Acierno, nel giudizio di separazione personale tra coniugi, la più ampia domanda di mantenimento comprende la domanda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare, che, quindi, può essere accolta, benché formulata per la prima volta in appello in conseguenza della dichiarazione di addebito; secondo Sez. 1, n. 4184 (Rv. 625246), est. Rordorf, la sentenza di condanna ad un facere (nella specie, consistente nel trasferire al fiduciante la titolarità anche formale della quota societaria intestata al fiduciario), pur essendo diversa da quella costitutiva, prevista dall'art. 2932 cod. civ., in quanto, a differenza di quest'ultima, non produce di per se stessa l'effetto traslativo invocato dalla parte, ma impone alla controparte di svolgere l'attività negoziale necessaria alla produzione di quell'effetto, non eccede i limiti della cognizione del giudice adìto con la domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre, ponendosi rispetto a questa come minore a maggiore, onde non incorre nel vizio di extrapetizione il giudice di merito che, sull'istanza formulata ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., pronunci condanna allo svolgimento dell'attività negoziale necessaria alla produzione del richiesto effetto traslativo; secondo Sez. 2, n. 12473 (Rv. 626510), est. Nuzzo, il giudice può, in presenza di una domanda che deduce l'invalidità di un testamento olografo sia per incapacità del testatore, sia per la falsità dell'atto, dichiarare la nullità dello stesso per mancanza dell'autografia.

È, inoltre, evidente, come rilevato da Sez. 2, n. 8906 (Rv. 625731), est. Carrato, che non si traduce in una violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. la pronuncia di ufficio di effetti derivanti ex lege dall'accoglimento o dal rigetto di una domanda, come la declaratoria di inefficacia del sequestro giudiziario in conseguenza della dichiarazione di inesistenza del diritto a cautela del quale lo stesso era stato concesso.

Al contrario, la risoluzione del contratto pur comportando, per l'effetto retroattivo sancito dall'art. 1458 cod. civ., l'obbligo del contraente di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice ad emettere il provvedimento restitutorio in assenza di domanda dell'altro contraente, atteso che rientra nell'autonomia delle parti disporre degli effetti della risoluzione, chiedendo, o meno, la restituzione della prestazione rimasta senza causa (così, conformemente al passato, Sez. 3, n. 2075, Rv. 624949, est. Vincenti).

Alla medesima conclusione è pervenuta Sez. 2, n. 7220 (Rv. 625530), est. Nuzzo, in merito alla restituzione delle somme versate in esecuzione di un decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, successivamente revocato, affermando che è affetta dal vizio di ultrapetizione, ex art. 112 cod. proc. civ., la decisione che ordini, in assenza di apposita domanda, la restituzione, ritenendola "necessaria conseguenza" della revoca del decreto ingiuntivo, atteso, invece, che la domanda di restituzione della somma presenta una propria autonomia rispetto alla richiesta di revoca dello stesso. Si tratta, tuttavia, di decisione che non appare coerente con la precedente di Sez. 1, n. 3401 (Rv. 625148), est. Di Amato, ispirata alla più risalente Sez. 3, ord. n. 23260 del 2009 (Rv. 609908), che, in caso di inefficacia del decreto ingiuntivo a causa della dichiarazione di fallimento o della sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa del debitore ingiunto, ha ritenuto la domanda di ripetizione della somma corrisposta dall'imprenditore insolvente implicita nella richiesta degli organi della procedura di declaratoria di improseguibilità dell'azione di pagamento nei confronti di quest'ultimo, posto che una siffatta istanza, se accolta, determina di per sé l'esigenza di ripristino della situazione patrimoniale antecedente, indipendentemente dall'accertata esistenza di un indebito oggettivo.

Diversa, ma pur sempre collegata, problematica è quella affrontata dalla Sez. 3, n. 2662 (Rv. 625024), est. Giacalone, la quale ha affermato incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice che, accogliendo l'appello avverso sentenza provvisoriamente esecutiva, ometta di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in forza della decisione riformata, pur essendo stata ritualmente introdotta con l'atto di impugnazione la relativa domanda restitutoria, non potendosi utilizzare la riforma della pronuncia di primo grado, agli effetti di quanto previsto dall'art. 474 cod. proc. civ., nonché dall'art. 389 cod. proc. civ. per le domande conseguenti alla cassazione, come "condanna implicita", il tutto in contrasto con l'orientamento secondo cui, invece, l'obbligo di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della riforma di quella pronuncia, ancorché la stessa non contenga alcuna statuizione al riguardo, prefigurando come implicita la condanna dell'accipiens alla restituzione degli importi ricevuti in favore del solvens; ed escludendo, per ciò stesso, il vizio di omessa pronuncia del giudice d'appello che, nel riformare completamente la decisione impugnata, benché richiestone, non disponga la condanna alle restituzioni

Per quanto concerne, invece, il potere del giudice di rilevare di ufficio le eccezioni in senso lato, particolarmente significativa è la pronuncia di Sez. Un., ord., n. 10531 (Rv. 626194), rel. D'Ascola, che, da un lato, ha ricondotto l'accettazione con beneficio di inventario alla categoria delle eccezioni in senso lato, dall'altro, ha puntualizzato che l'esercizio di tale potere non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis. Tale indirizzo costituisce un necessario adeguamento alle Sez. Un., n. 1099 del 1998 (Rv. 515986), che ha desunto dallo scopo del processo, che è quello di tutelare diritti esistenti e non di crearne di nuovi, la regola generale della rilevabilità di ufficio dell'eccezione, per cui la rilevanza giuridica di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo va subordinata alla specifica manifestazione di volontà della parte solo ed esclusivamente nel caso di una specifica previsione di legge o della sua corrispondenza alla titolarità di un'azione costitutiva. Nel caso in esame, ad ogni modo, le Sezioni unite non hanno dovuto esaminare la problematica, ancora molto discussa, della possibilità di ammettere in appello nuove prove strumentali ad un'eventuale eccezione in senso lato, possibilità esclusa da Sez. L, n. 2420 (Rv. 625002), est. Filabozzi, secondo cui nel rito del lavoro, il potere di rilevazione, anche d'ufficio, delle eccezioni in senso lato può essere esercitato dal giudice d'appello solo sulla base di elementi probatori ritualmente e tempestivamente allegati agli atti.

Si è, inoltre, escluso che costituiscano eccezioni in senso stretto l'esercizio del diritto di critica nel reato di diffamazione a mezzo stampa (Sez. 1, n. 2190, Rv. 625828, est. Di Amato), e la natura sussidiaria dell'azione di arricchimento senza causa (Sez. 1, n. 9486, Rv. 626152, est. Salvago), che possono, quindi, se risultanti dagli atti, essere rilevate di ufficio, mentre Sez. Un., n. 4213 (Rv. 625119), est. Piccininni, ha espressamente qualificato come eccezione in senso lato la mancanza di data certa delle scritture prodotte dal creditore, che proponga istanza di ammissione al passivo, salva la necessità, in caso di rilievo di ufficio, della comunicazione alle parti per eventuali osservazioni.

Va, altresì, ricordata la posizione assunta da Sez. 3, n. 18602 (Rv. 627493), est. Scrima, con riferimento all'eccezione di interruzione della prescrizione, che è stata qualificata come un'eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, rilevabile d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti, essendosi escluso che la rilevabilità ad istanza di parte possa giustificarsi in ragione della rilevabilità soltanto ad istanza di parte dell'eccezione di prescrizione e, cioè, che possa desumersi dal regime di rilevazione di una eccezione in senso stretto quello di una controeccezione, qual è l'interruzione della prescrizione.

Inoltre, Sez. 2, n. 26858 (in corso di massimazione), est. Proto, ha ricondotto alla categoria delle eccezioni rilevabili di ufficio la deduzione, nel giudizio di riduzione, delle donazioni ricevute dall'attore da imputare alla legittima; mentre la precedente Sez. 2, n. 22274 (Rv. 627902), est. Manna, aveva, invece, ritenuto, nel giudizio di divisione ereditaria, eccezione in senso proprio la dedotta nullità di donazione effettuata dal de cuius in favore del convenuto, proposta dall'attore, nel replicare alla domanda riconvenzionale di collazione.

Va segnalato sul tema che Sez. 2, ord. n. 21083 nel 2012, ha rimesso alle Sezioni unite la questione circa la possibilità del rilievo di ufficio, da parte del giudice, della nullità del contratto nel giudizio vertente sul suo annullamento; mentre l'ordinanza interlocutoria n. 16630, rel. Carrato, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza afferente la «individuazione delle condizioni per la formazione e l'estensione dell'efficacia del c.d. giudicato implicito esterno riguardante la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo stesso contratto».

Sez. 3, n. 7115 (Rv. 625502), est. Vincenti, ha, invece, negato che il giudice possa supplire all'onere, che incombe sulla parte, di allegazione dei fatti, pur se risultanti dai documenti prodotti, decidendo che quando le allegazioni poste a fondamento di una domanda giudiziale non consentono di includere alcuni fatti tra quelli costitutivi del diritto azionato in giudizio (nella specie, provvedimenti ulteriori rispetto a quello, allegato, di decadenza da una concessione edilizia), la successiva produzione documentale, che pure attesti l'esistenza di quei fatti, non è idonea a supplire al difetto originario di allegazione, giacché ciò equivarrebbe ad ampliare indebitamente il thema decidendum. Infatti, i documenti – da indicare nell'atto di citazione ai sensi del numero 5) del terzo comma dell'art. 163 cod. proc. civ. – rivestono funzione eminentemente probatoria, che, come tale, non può surrogare quella dell'allegazione dei fatti (imposta, a pena di nullità della citazione, ex art. 164 cod. proc. civ., dal precedente numero 4 del medesimo terzo comma dell'art. 163 cod. proc. civ.), potendo al più gli stessi, nell'ambito di un impianto allegatorio già delineato, essere di chiarimento della portata e dei termini dei fatti addotti.

6.3. Diritto o equità.

La Suprema Corte è intervenuta più volte per delimitare il confine tra diritto ed equità rilevante ai fini della individuazione del mezzo di impugnazione esperibile nel sistema anteriore al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e nell'attuale ai fini della individuazione dei motivi di gravame proponibili

Sez. 3, n. 2966 (Rv. 625290), est. Amatucci, ha osservato che ai fini della determinazione della regola di giudizio – di diritto o equitativa – da seguirsi dal giudice di pace ex art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., il valore della causa deve essere determinato ai sensi dell'art. 10, secondo comma, cod. proc. civ., sommando, pertanto, al capitale unicamente gli interessi scaduti e non pure quelli maturati dalla data della domanda, ma ha, anche, precisato che, ai fini suddetti, è sufficiente che la richiesta di corresponsione degli interessi venga limitata a quelli già scaduti in occasione della precisazione delle conclusioni, in quanto il contenimento della domanda operato in tale sede, se è del tutto ininfluente ai fini dell'individuazione del giudice competente, vale invece a determinare la regola di giudizio cui è vincolato il giudice di pace.

Sez. 6-3, n. 17080 (Rv. 627678), est. Ambrosio, ha qualificato come pronuncia secondo diritto, ex art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., quella resa dal giudice di pace in ordine a rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 cod. civ., tra i quali rientra anche il contratto di trasporto avente ad oggetto l'acquisto on line di un biglietto aereo, e Sez. 2, n. 1848 (Rv. 624840), est. Falaschi, ha affermato che, ove sia stata emessa una sentenza non definitiva secondo diritto, la sentenza definitiva non può essere emessa secondo equità, posto che la decisione parziale costituisce la base e il presupposto della decisione definitiva.

6.4. I poteri del giudice di direzione e di valutazione.

Sulla importante figura della non contestazione delle altrui deduzioni, si rinvia a quanto esposto al cap. XXVI, § 2.

La Corte è, inoltre, intervenuta più volte sul fatto notorio, che dispensa le parti dal fornire la prova, e, confermatane un'accezione rigorosa, come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice (in primo luogo, un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo). Sez. 2, n. 16881 (Rv. 627086), est. Bertuzzi, ne ha negato la configurabilità relativamente alla circostanza dell'uso del dollaro statunitense quale moneta dovuta nei rapporti commerciali internazionali, non potendosi con sufficiente sicurezza, escludere il ricorso a pratiche diverse; Sez. 6-5, ord., n. 2808 (Rv. 625457), rel. Di Blasi, ne ha escluso la configurabilità relativamente alla sottoscrizione degli atti impositivi (nella specie, il ruolo e la cartella esattoriale relativi ad IVA ed IRPEF), qualora il contribuente eccepisca il difetto di rappresentanza sostanziale, non essendo sufficiente, ai fini predetti, la verifica di tali requisiti degli atti, da parte del giudice decidente, in sede di esame di altro ricorso. Sez. 1, n. 21033 (Rv. 627914), est. Bernabai, ha, invece, ravvisato il fatto notorio, ai fini dell'accertamento del danno derivante da abuso di posizione dominante, suscettibile di traslazione sulla clientela per effetto della conseguente maggiorazione delle tariffe, nel principio di economia di comune esperienza secondo cui l'aumento del corrispettivo della prestazione determina una riduzione della domanda, salva la prova contraria della rigidità dei consumi.

6.5. Forma e contenuto dei provvedimenti.

Quanto al contenuto dei provvedimenti, l'attenzione della giurisprudenza di legittimità è concentrata sulla motivazione, la cui omissione può assumere rilevanza, peraltro, anche sul piano disciplinare. Sez. Un., n. 20570 (Rv. 627332), est. Amatucci, ha, ad esempio, statuito che integra l'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, il comportamento di un magistrato che abbia omesso di motivare, anche solo in forma succinta, come richiesto dall'art. 134, primo comma, cod. proc. civ., un'ordinanza di ingiunzione di pagamento di somme non conteste emessa a norma dell'art. 423, secondo comma, cod. proc. civ., privando così le parti della possibilità di cogliere la ragione di fondo che sorregge il provvedimento giurisdizionale, destinato a risolversi nell'espressione di un immotivato comando.

Ad ogni modo, secondo Sez. 6-1, ord., n. 12123 (Rv. 626714), rel. De Chiara, l'obbligo di motivazione è ottemperato mediante l'indicazione del ragionamento svolto con riferimento a ciascuna delle domande o eccezioni (nel giudizio di primo grado) o a ciascuno dei motivi d'impugnazione (nei giudizi d'impugnazione), mentre non è necessaria la confutazione espressa di tutti gli argomenti portati dalla parte interessata a sostegno delle proprie domande, eccezioni o motivi disattesi e cioè anche degli argomenti assorbiti o incompatibili con le ragioni espressamente indicate dal giudice stesso, dovendosi ritenere, diversamente, che la motivazione non possa qualificarsi come "succinta" nel senso voluto dall'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., tanto più ove venga in rilievo una ordinanza pronunziata dalla Suprema Corte ai sensi dell'art. 375 cod. proc. civ. Neppure è indispensabile, come osservato da Sez. 6-3, ord. n. 766 (Rv. 625039), rel. Giacalone, l'indicazione in sentenza, ai sensi dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., delle disposizioni di legge applicate, che non è prescritta a pena di nullità, essendo piuttosto essenziale, in base all'art. 132, primo comma n. 4, cod. proc. civ., che dal complesso delle argomentazioni svolte dal giudice emergano gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della decisione.

Sez. 5, n. 8702 (Rv. 625935), est. Iofrida, ha specificato che l'onere di motivazione, nel caso in cui il giudice disattenda le conclusioni di una consulenza tecnica resa in altro giudizio, si configura in modo analogo rispetto all'obbligo di dare risposta alle argomentazioni difensive poste dalle parti a sostegno di una domanda.

Sez. 5, n. 3340 (Rv. 625260), est. Chindemi, ha reputato illegittimo il rinvio ad una sentenza di merito di commissione tributaria, individuata solo per anno e per numero, senza indicazione della sezione, stante la difficile reperibilità, in considerazione della numerazione per sezione e non per commissioni, essendo ammissibile la motivazione per relationem solo ove sia possibile l'agevole reperimento della sentenza citata mediante riproduzione dei suoi contenuti, oggetto di autonoma valutazione critica, così da consentire la verifica di compatibilità logico-giuridica del richiamo operato.

In merito alla motivazione del decreto, ove necessaria, come nel caso in cui tale provvedimento sia emesso per definire un procedimento in camera di consiglio, Sez. 6-1, ord. n. 21800 (Rv. 627783), rel. Ragonesi, ha sottolineato che non dev'essere ampia come quella della sentenza, né succinta, come quella dell'ordinanza, ma può ben essere sommaria, nel senso che il giudice, senza ritrascriverli nel decreto, può limitarsi ad indicare quali elementi, tra quelli indicati nell'istanza che lo ha sollecitato, lo abbiano convinto ad assumere il provvedimento richiesto, essendo comunque tenuto, in ottemperanza all'obbligo di motivazione impostogli dall'art. 111, sesto comma, Cost., a dar prova, anche per implicito, di aver considerato tutta la materia controversa.

Si riferisce, invece, alla modalità di redazione del dispositivo Sez. 3, n. 6111 (Rv. 625493), est. De Stefano, secondo cui colui che si rivolge al giudice ha diritto a conseguire una pronuncia chiara e comprensibile, suscettibile di essere messa in esecuzione senza necessità di alcuna attività di supplenza, in sede di cognizione o di esecuzione, finalizzata all'integrazione di eventuali lacune, aporie o contraddizioni del titolo, per cui il giudice, a fronte dell'avvenuto riconoscimento in giudizio, compiuto dallo stesso creditore esecutante, della non spettanza di una parte del credito azionato in via esecutiva, deve accogliere in parte qua l'opposizione all'esecuzione e non rigettarla integralmente, facendo ricorso ad una formula ambigua e atecnica, quale "salvo quanto detto", oltre che in contraddizione logica con la decisione di rigetto, contravvenendo, in questo modo, all'esigenza di corrispondenza non solo tra chiesto e pronunciato, ma anche tra quanto deciso ed esposto in dispositivo.

Per quanto riguarda gli ulteriori elementi dei provvedimenti, in particolare la data, Sez. 3, n. 8942 (Rv. 625804), est. Giacalone, ha dichiarato che la data di deliberazione della sentenza non è, a differenza di quella di sua pubblicazione (che ne segna il momento di acquisto della rilevanza giuridica), un elemento essenziale dell'atto processuale, sicché la relativa mancanza e/o la sua erronea indicazione non comportano alcuna nullità deducibile con l'impugnazione, costituendo, invece, fattispecie di mero errore materiale emendabile ex artt. 287 e 288 cod. proc. civ., ravvisabile anche nell'ipotesi di diversità tra la prima di tali date, riportata in calce alla sentenza, e quella dell'udienza collegiale all'uopo fissata, tanto non essendo, di per sé solo, sufficiente a far ritenere, qualora quest'ultima sia successiva, che detto provvedimento sia stato deliberato prima di tale udienza, cioè a far ritenere superata la presunzione di rituale decisione della causa da parte del collegio.

Sez. 3, n. 6093 (Rv. 625480), est. Vivaldi, ha, invece, precisato che il principio della obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall'art. 122 cod. proc. civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti esibiti dalle parti, sicché, quando siffatti documenti risultino redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell'art. 123 cod. proc. civ., ha la facoltà, e non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, di cui può farsi a meno allorché trattasi di un testo di facile comprensibilità, sia da parte dello stesso giudice che dei difensori.

Va, infine, ricordato che in caso di adozione di un provvedimento con una forma erronea, dovrà farsi riferimento a quest'ultima ai fini dell'individuazione del regime di impugnazione, come deciso da Sez. 1, n. 21477 (Rv. 627560), est. Di Virgilio, che ha ritenuto applicabile il termine di cui all'art. 327 cod. proc. civ. e non quello di cui all'art. 702-quater cod. proc. civ. alla pronuncia resa in materia elettorale con sentenza, secondo il rito di cui agli artt. 82 ed 82/2 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, anziché con ordinanza ex art. 702-ter cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all'art. 22 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, applicabile ratione temporis.

7. Comunicazioni e notificazioni.

7.1. Comunicazioni e notificazioni: disciplina.

Le notificazioni e comunicazioni sono costantemente oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte in considerazione delle nefaste conseguenze processuali che l'eventuale nullità o inesistenza può determinare. Quest'anno sono state in parte confermati orientamenti già formati, ma iniziano ad emergere problematiche nuove, soprattutto alla luce delle recenti riforme che consentono l'uso di strumenti più moderni, come fax e posta elettronica.

Continua, inoltre, a creare dubbi ed incertezze il principio di scissione del perfezionamento della notifica tra il notificante ed il notificato, sul quale va segnalato il recente intervento della Sez. Un., n. 9535 (Rv. 625806), est. Rodorf, secondo cui, in tema di notificazioni, il principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio per il notificante ed il destinatario, che si impone ogni qual volta dall'individuazione della data di notificazione possano discendere decadenze, o altri impedimenti, distintamente a carico dell'una o dell'altra parte, non opera, esulando da un tale ambito la corrispondente questione, per la determinazione della pendenza della lite rilevante ai fini del riparto di giurisdizione, che non può che farsi coincidere con il momento in cui il procedimento di notificazione dell'atto introduttivo della causa si è completato, necessariamente corrispondente, quindi, con quello nel quale la notifica si è perfezionata mediante la consegna dell'atto al destinatario o a chi sia comunque abilitato a riceverlo. Imminente è la risoluzione dello stesso quesito, posto con ordinanza interlocutoria della Sez. 6-3, n. 22454, rel. Frasca, con riguardo alla determinazione della pendenza della lite rilevante ai fini della litispendenza e continenza.

In merito al destinatario della notificazione va segnalato che deve essere la parte personalmente e non può, invece, essere il difensore per la sentenza emessa nei confronti del contumace e più in generale per il titolo esecutivo: sul primo problema è intervenuta Sez. 3, n. 6571 (Rv. 625391), est. Carleo; sul secondo Sez. 3, n. 17570 (Rv. 627642), est. D'Amico, che prende atto dell'intervenuta modifica, da parte del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80, dell'art. 479 cod. proc. civ., applicabile nella nuova versione, in virtù del principio tempus regit actum a tutti gli atti successivi alla sua entrata in vigore.

Relativamente al modello procedimentale della notificazione a mani proprie, deve menzionarsi la precisazione di Sez. 1, n. 12545 (Rv. 626521), est. Bernabai, secondo cui il rifiuto di ricevere la copia dell'atto è legalmente equiparabile alla notificazione effettuata in mani proprie, ai sensi dell'art. 138, secondo comma, cod. proc. civ., soltanto ove sia certa l'identificazione dell'autore del rifiuto con il destinatario dell'atto, non essendo consentita una analoga equiparazione nel caso in cui il rifiuto sia stato opposto da un soggetto del tutto estraneo, oppure se l'accipiens sia un congiunto del destinatario o un addetto alla casa (o, a maggior ragione, un vicino o il portiere), ancorché si tratti di soggetti che altre disposizioni abilitano, in ordine prioritario gradato, alla ricezione dell'atto.

Numerose sono le pronunce riferite alla notificazione a mezzo posta, presumibilmente giustificate dal largo uso che se ne fa. Peraltro, il ricorso al servizio postale ex art. 149 cod. proc. civ. è stato ritenuto possibile da Sez. L, n. 6345 (Rv. 626067), est. Stile, anche in virtù dell'art. 145 cod. proc. civ., nel caso in cui la notificazione ad una persona giuridica avvenga alla persona fisica che la rappresenta, di cui siano specificati residenza, domicilio e dimora abituale, nei luoghi e con le modalità prescritte dagli artt. 138, 139 e 141 cod. proc. civ.

In primo luogo, Sez. 2 n. 14355 (Rv. 626460), est. Giusti, ha ribadito che, ai sensi degli artt. 106 e 107 del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, l'ufficiale giudiziario è competente a notificare, per mezzo del servizio postale, a persone residenti, dimoranti o domiciliate nella sua circoscrizione territoriale anche atti di procedimenti pendenti dinanzi ad altri uffici, mentre può eseguire nei confronti di soggetti residenti altrove soltanto le notificazioni degli atti relativi a procedimenti che siano o possano essere di competenza dell'autorità giudiziaria della sede cui è addetto.

Particolarmente interessante, in considerazione del ricorso sempre più frequente ai gestori alternativi all'Ente Poste, Sez. 6-2, ord., n. 2262 (Rv. 625082), rel. Manna, secondo cui il d.lgs. 22 luglio 1999, n. 261, pur liberalizzando i servizi postali in attuazione della direttiva 97/67/CE, all'art. 4, comma quinto, ha continuato a riservare in via esclusiva, per esigenze di ordine pubblico, al fornitore del servizio universale e, cioè, all'Ente Poste, gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie, con la conseguenza che, in tali procedure, la consegna e la spedizione mediante raccomandata, affidata ad un servizio di posta privata, non sono assistite dalla funzione probatoria che l'art. 1 del citato d.lgs. n. 261 del 1999 ricollega alla nozione di "invii raccomandati" e devono, pertanto, considerarsi inesistenti.

Va, inoltre, segnalata Sez. L, n. 6345 (Rv. 626068), est. Stile, secondo cui l'adempimento costituito dall'invio della raccomandata di avviso previsto dal sesto comma dell'art. 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890 – introdotto dall'art. 36, comma 2-quater, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito in legge 28 febbraio 2008, n. 31 – è imposto solo per le notifiche eseguite a far tempo dal 28 febbraio 2008, data di entrata in vigore della legge di conversione, come espressamente previsto dall'art. 36, comma 2-quinquies, del medesimo decreto, rispetto al quale non possono ravvisarsi profili di illegittimità costituzionale, trattandosi di valutazione del legislatore relative a situazioni temporalmente non sovrapponibili.

In ordine al valore probatorio delle dichiarazioni contenute nella relata di notificazione devono ricordarsi:

Sez. 6-5, n. 12181 (Rv. 626781), est. Caracciolo, che, pur se riferita alla notifica della cartella esattoriale di cui all'art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, fa applicazione del principio generale secondo cui, in caso di notificazione ai sensi dell'art. 139, secondo comma, cod. proc. civ., la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda di chi ha ricevuto l'atto si presume iuris tantum dalle dichiarazioni recepite dall'ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell'atto, che contesti la validità della notificazione, l'onere di fornire la prova contraria ed, in particolare, l'inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario, comportante una delle qualità su indicate ovvero la occasionalità della presenza dello stesso consegnatario;

Sez. 1, n. 19021 (Rv. 627372), est. Dogliotti, secondo cui in tema di notificazioni, la relata di notifica non fa fede fino a querela di falso circa l'attestazione che il luogo di notifica corrisponda a quello di residenza del destinatario, trattandosi di una circostanza estranea alle attività dell'ufficiale giudiziario;

Sez. 2 n. 18427 (Rv. 627587), est. Carrato, secondo cui in tema di notificazione a mezzo del servizio postale, l'avviso di ricevimento, che è parte integrante della relata di notifica, riveste natura di atto pubblico, e, riguardando un'attività legittimamente delegata dall'ufficiale giudiziario all'agente postale ai sensi dell'art. 1 della legge 20 novembre 1982, n. 890, gode della medesima forza certificatoria di cui è dotata la relazione di una notificazione eseguita direttamente dall'ufficiale giudiziario, ossia della fede privilegiata attribuita dall'art. 2700 cod. civ. in ordine alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che l'agente postale, mediante la sottoscrizione apposta sull'avviso di ricevimento, attesta avvenuti in sua presenza: in applicazione di tale principio è stata dichiarata valida la notifica e legittima la dichiarazione di contumacia, presupponendo la veridicità dell'attestazione di tentata notifica dell'atto e di rifiuto dello stesso da parte del difensore domiciliatario, a causa di un errore materiale nell'indicazione del destinatario facilmente riconoscibile sulla base della lettura dell'atto che lo contiene.

Per quanto concerne, invece, la prova dell'avvenuta notifica e della sua tempestività:

Sez. 5, n. 8717 (Rv. 626427), est. Perrino, ha affermato che l'avviso di ricevimento prescritto dall'art. 149 cod. proc. civ. e dalle disposizioni della legge 20 novembre 1982, n. 890, è il solo documento idoneo a dimostrare sia l'intervenuta consegna che la data di essa e l'identità e l'idoneità della persona a mani della quale è stata eseguita;

Sez. 1, n. 13640 (Rv. 626362), est. Cristiano, ha precisato che laddove non venga esibita la ricevuta di cui all'art. 109 del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, la prova della tempestiva consegna all'ufficiale giudiziario dell'atto da notificare può essere ricavata dal timbro, ancorché privo di sottoscrizione, da questi apposto su tale atto, recante il numero cronologico, la data e la specifica delle spese, salvo che sia in contestazione la conformità al vero di quanto da esso desumibile, atteso che le risultanze del registro cronologico, che egli deve tenere ai sensi dell'art. 116, primo comma, n. 1, del d.P.R. citato, fanno fede fino a querela di falso.

Per quanto concerne lo specifico procedimento delle comunicazioni, è sufficiente ricordare la tesi in via di affermazione della infungibilità dell'attività del cancelliere, per cui la comunicazione, ai fini del decorso di un termine processuale, non trova equivalenti. In questo senso appaiono orientate Sez. 6-2, ord., n. 3728 (Rv. 627243), rel. Carrato, secondo cui il decreto di liquidazione dei compensi all'ausiliario del giudice, al pari di ogni altro provvedimento giurisdizionale, deve essere comunicato ai sensi degli artt. 136 e segg. cod. proc. civ., ovvero con forme equipollenti, che però non possono prescindere da un'attività del cancelliere, organo infungibilmente deputato a tale incombenza processuale, non potendo ad esso sostituirsi la parte privata con una modalità informativa di carattere extragiudiziale, operata direttamente nei confronti della controparte personalmente, giacché non idonea a soddisfare l'esigenza che il provvedimento sia portato a conoscenza della persona professionalmente qualificata; Sez. 6-1, ord., n. 20326 (Rv. 627513), rel. Acierno, secondo cui per la valutazione della tempestività, ex art. 669 octies, terzo comma, cod. proc. civ., dell'instaurato giudizio di merito susseguente all'ottenimento di un sequestro conservativo, il rilascio di una copia autentica di tale provvedimento in favore della parte, effettuato dalla cancelleria, non può ritenersi equipollente alla sua "comunicazione", ad opera di quest'ultima, prescritta, al suddetto fine, dalla citata norma, trattandosi di attività posta in essere non su esecuzione di ordine del giudice o come adempimento di legge, bensì su iniziativa della parte ed allo specifico scopo esplicitato nella dichiarazione di conformità.

7.2. Elezione di domicilio.

Si è precisato, con riguardo all'elezione di domicilio, ai fini della valida notificazione degli atti processuali, che:

nell'ipotesi di difformità tra il domicilio eletto indicato nell'epigrafe dell'atto introduttivo e quello inserito nel mandato alle liti, deve darsi prevalenza al primo, rappresentando l'elezione di domicilio un atto distinto dal conferimento della procura (in questo senso Sez. 1, n. 18430, Rv. 627797, est. Cultrera);

non è ammissibile che una parte possa eleggere domicilio in due luoghi diversi, per cui Sez. 3 n. 13199 (Rv. 626635), est. Giacalone, ha concluso che nell'ipotesi di nomina in corso di causa di un nuovo difensore, accompagnata da una nuova elezione di domicilio, solo il domicilio eletto per secondo deve ritenersi valido ed efficace al fine della notifica degli atti processuali, a nulla rilevando che né il primo difensore, né la prima elezione di domicilio, siano mai stati formalmente revocati;

la parte che conferisce procura ad litem non può eleggere domicilio presso un ufficio giudiziario, ai sensi e per gli effetti dell'art. 141 cod. proc. civ., che presuppone uno specifico mandato e, quindi, un accordo col domiciliatario, da escludere riguardo agli uffici giudiziari, tranne che nei casi espressamente previsti dalla normativa, come per la domiciliazione contemplata, per i soli professionisti, tuttavia, e non per le parti, dall'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 (così Sez. 2, n. 19556, Rv. 625572, est. Parziale).

Va, inoltre, sottolineato che la specifica elezione di domicilio del legale prevale sul generico domicilio legale, indicato nell'albo professionale, che ha valore solo sussidiario, con conseguente nullità della notifica dell'atto di appello eseguita al difensore costituito presso il domicilio risultante dall'albo, qualora diverso dal domicilio eletto nel giudizio in primo grado e non revocato, come sottolineato da Sez. 2, n. 6377 (Rv. 625711), est. Carrato.

7.3. La domiciliazione ex lege presso la cancelleria.

L'applicazione dell'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 è, comunque, destinata a ridursi in considerazione delle recenti riforme che consentono l'uso della posta elettronica e del telefax ai fini di notificazioni e comunicazioni. Sul punto deve segnalarsi Sez. Un., n. 10143 (rv. 622883), est. Amoroso, secondo cui, a partire dalla data di entrata in vigore delle modifiche degli artt. 125 e 366 cod. proc. civ., apportate dall'art. 25 della legge 12 novembre 2011, n. 183, esigenze di coerenza sistematica e d'interpretazione costituzionalmente orientata inducono a ritenere che, nel mutato contesto normativo, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria, innanzi alla quale è in corso il giudizio, ai sensi dell'art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, consegue soltanto ove il difensore, non adempiendo all'obbligo prescritto dall'art. 125 cod. proc. civ. per gli atti di parte e dall'art. 366 cod. proc. civ. specificamente per il giudizio di cassazione, non abbia indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine. Ad ogni modo, la stessa pronuncia ha precisato che, a queste condizioni, la disposizione in esame trova applicazione in ogni caso di esercizio dell'attività forense fuori del circondario di assegnazione dell'avvocato, come derivante dall'iscrizione al relativo ordine professionale, e, quindi, anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d'appello e l'avvocato risulti essere iscritto all'ordine di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d'appello, ancorché appartenente allo stesso distretto di quest'ultima. Per completezza va sottolineato che Sez. 1 n. 7658 (Rv. 625653), est. Ragonesi, è assolutamente coerente con tale impostazione, pur riferendosi al sistema vigente in virtù del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80,prima delle modifiche del d.l. 29 maggio 2009, n. 193, convertito in legge 22 febbraio 2010, n. 24, che ha inserito l'art. 149-bis cod. proc. civ., sulla notificazione a mezzo di posta elettronica, e del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148, che ha imposto l'indicazione, da parte del difensore, del proprio indirizzo di posta elettronica negli atti di parte.

Così la Sez. 6-2, n. 26696 (non ancora massimata), est. Giusti, ha dichiarato inammissibile il controricorso notificato non all'indirizzo di posta elettronica certificata indicato in ricorso, ma presso la cancelleria della Corte, sull'erroneo presupposto che ivi fosse domiciliato il ricorrente.

Resta da verificare se la pronuncia delle Sezioni unite porterà al superamento di Sez. 6-L, ord., n. 7625 (Rv. 622791), rel. Tria, che, partendo dal presupposto secondo cui, in tema di avvisi della cancelleria al difensore, la previsione dell'art. 366, ultimo comma, cod. proc. civ., che consente l'uso del fax e della posta elettronica quali idonei strumenti di comunicazione, è limitata alle sole "comunicazioni" ai difensori e alle "notificazioni tra avvocati" e non è suscettibile di interpretazione estensiva, aveva escluso l'applicabilità della norma all'avviso di udienza di cassazione al difensore del ricorrente che non abbia eletto domicilio in Roma, il quale è destinatario della notificazione e non di comunicazione da parte della cancelleria, senza che assuma rilievo la circostanza che il difensore abbia dichiarato di avvalersi degli strumenti di cui all'art. 366, ultimo comma, cod. proc. civ. Del resto, Sez. 6-2, ord., n. 6752 (Rv. 625726), rel. Proto, aveva, invece, affermato che in tema di giudizio per cassazione, a seguito delle modifiche dell'art. 366 cod. proc. civ. introdotte dall'art. 25 della legge 12 novembre 2011, n. 183, se il ricorrente ha indicato in ricorso l'indirizzo di posta elettronica certificata, il decreto di fissazione dell'adunanza della Corte e la relazione, di cui all'art. 380-bis, secondo comma, cod. proc. civ., devono essergli notificati a mezzo posta elettronica, ovvero, ove non sia possibile, a mezzo telefax, ai sensi dell'art. 136, terzo comma, cod. proc. civ., risultando dunque irrituale la notificazione fatta presso la cancelleria della Corte di cassazione.

Sez. L, n. 2167 (Rv. 624844), est. Mancino, si è, invece, occupata del momento di perfezionamento della notifica eseguita presso la cancelleria, nel caso di mancata elezione di domicilio nel luogo ove ha sede l'autorità giudiziaria procedente, identificandolo con quello della consegna, da parte dell'ufficiale giudiziario, di copia conforme all'originale della medesima presso la cancelleria del giudice che ha emesso la decisione, divenendo in tale momento l'avvenuta notificazione del provvedimento conoscibile, sotto il profilo legale, dal soggetto destinatario della notificazione, mentre il disposto dell'art. 112, primo comma, del d.P.R. n. 1229 del 1959 – che pone a carico dell'ufficiale giudiziario che abbia notificato una sentenza o un atto d'impugnazione in materia civile l'obbligo di darne immediato avviso scritto al cancelliere, che ne rilascia ricevuta e lo unisce all'originale della sentenza ovvero lo trasmette alla cancelleria dell'autorità giudiziaria che ha pronunciato la sentenza – prevede, per il caso di inadempimento di detto obbligo, solo una sanzione disciplinare nei confronti del soggetto inadempiente, senza alcuna previsione esplicita di specifici riflessi di ordine processuale sull'efficacia della notificazione.

Con specifico riguardo al procedimento di opposizione ad ordinanza ingiunzione, vanno ricordate:

Sez. 2, n. 75 (Rv. 624682), est. Migliucci, secondo cui il disposto dell'art. 22, quinto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, che prevede che le notificazioni possono essere eseguite, nei casi ivi previsti, mediante deposito in cancelleria, si applica solo nei confronti del ricorrente e non anche dell'autorità opposta, per la quale restano operanti le regole generali (art. 170, comma terzo, cod. proc. civ.), né va richiesta alla P.A. la dichiarazione o elezione di domicilio, prevista dall'art. 22, quinto comma citato, tenuto conto che, ai sensi del successivo art. 23, il ricorso e il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione sono comunicati all'autorità che ha emesso il provvedimento opposto, alla quale è ordinato il deposito dei documenti ivi indicati;

Sez. 6-2, ord. n. 9096 (Rv. 627278), rel. Carrato, secondo cui nell'interpretazione dell'art. 22, sesto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (nella specie, applicabile ratione temporis), che rinvia per notificazioni e comunicazioni, allorché l'opponente abbia nominato un procuratore, alle modalità stabilite dal codice di procedura civile, deve tenersi conto che l'art. 58 disp. att. cod. proc. civ., secondo il quale le notificazioni durante il procedimento dinanzi al giudice di pace possono essere validamente eseguite presso la cancelleria dello stesso, ove sia omessa la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio, a norma dell'art. 319, secondo comma, cod. proc. civ., nel comune sede dell'ufficio giudiziario adìto, opera unicamente nei confronti della parte che sta in giudizio personalmente; se, invece, la parte è rappresentata da procuratore alla lite, questi, in difetto di prescrizioni al riguardo nello stesso codice di rito ed alla stregua della legge professionale (art. 82 r.d. 22 gennaio 1934, n. 37), è tenuto ad eleggere domicilio nel luogo ove il giudice ha sede solo quando eserciti il proprio ministero professionale fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato, e non pure quando operi nell'ambito di detta circoscrizione, nel qual caso le notifiche possono validamente eseguirsi solo presso il suo domicilio risultante dall'albo professionale, secondo le normali regole applicabili in materia.

7.4. Inesistenza e nullità.

La Suprema Corte continua a tracciare la labile linea di confine tra nullità ed inesistenza, di cui occorre trattare con riferimento ai casi concreti, stante l'importanza delle conseguenze che ne derivano, potendo solo la nullità, all'esito della rinnovazione, dare luogo a sanatoria con effetti ex tunc.

Sez. 1, n. 17473 (Rv. 627319), est. Giancola, ha attenuato le conseguenze della inesistenza in presenza di situazioni particolari, così riconoscendo che la parte tenutavi, ai fini dell'integrazione del contraddittorio, pur avendo tempestivamente espletato l'adempimento posto a suo carico con la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, veda, perciò, non conseguito il perfezionamento di tale notificazione, nel termine all'uopo fissato, a causa di un evento che non era tenuta a conoscere e di cui venga informata soltanto attraverso la relazione di notifica, ha diritto all'assegnazione di un ulteriore termine, perentorio, per procedere all'integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi della parte defunta, dovendosi escludere, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, una immediata declaratoria di estinzione del giudizio, trattandosi di soluzione contrastante con gli artt. 3 e 24 Cost., sia perché equiparerebbe situazioni processuali affatto diverse (ponendo sullo stesso piano l'inerzia rispetto all'ordine di integrazione e la tempestiva esecuzione di questo, non completata per cause indipendenti dalla volontà della parte procedente e non rientranti nella normale prevedibilità), sia perché si risolverebbe in una irragionevole compressione del diritto di difesa, atteso che la detta parte si vedrebbe addebitato l'esito parzialmente intempestivo del procedimento notificatorio per un fatto in concreto sottratto ai suoi poteri d'impulso, in quanto dalla stessa non conosciuto.

Sul piano degli effetti sostanziali della notifica nulla, invece, Sez. 1, n. 11985 (Rv. 626271), est. Ceccherini, ha aderito al più recente orientamento, secondo cui la nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio impedisce l'interruzione della prescrizione e la conseguente sospensione del suo corso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, a nulla rilevando, in senso contrario, la mera possibilità che la nullità sia successivamente sanata, e fermo restando che, qualora la sanatoria processuale abbia poi effettivamente luogo, i relativi effetti sul corso della prescrizione decorrono dal momento della sanatoria medesima, senza efficacia retroattiva.

Passando all'esame della casistica, la radicale inesistenza della notifica è stata ravvisata, con riferimento alla citazione introduttiva del giudizio di primo grado, da Sez. 2, n. 14360 (Rv. 626463), est. Nuzzo, nell'ipotesi in cui il notificato sia persona già deceduta, posto che la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita e si estingue con la morte. Sul punto va, tuttavia, ricordato che il problema investe non solo la notifica, ma anche l'atto e che Sez. 2, ord. n. 10216, rel. Bianchini, ha rimesso alle Sezioni unite la questione avente ad oggetto il regime del ricorso per cassazione indirizzato ad un soggetto defunto e notificato presso l'avvocato domiciliatario dello stesso, rectius circa la configurabilità di inesistenza o nullità.

Sez. 6-5, ord., n. 13970 (Rv. 627107), rel. Cosentino, ha reputato inesistente la notifica nell'ipotesi in cui il luogo di esecuzione non abbia alcun collegamento con il destinatario, come nel caso in cui avvenga presso la cancelleria della Corte di cassazione, sull'erroneo presupposto di una sua domiciliazione ivi ex lege: decisione concernente il ricorso introduttivo del giudizio di legittimità, dichiarato perciò inammissibile.

Sez. 3 n. 13451 (Rv. 626356), est. Carluccio, ha tuttavia escluso la riconducibilità alla categoria della inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione eseguita, anziché presso il procuratore domiciliatario della parte nel giudizio di secondo grado, in conformità a quanto prescritto dall'art. 330, primo comma, seconda ipotesi, cod. proc. civ., presso il suo diverso procuratore domiciliatario in primo grado, nella ipotesi in cui il destinatario abbia presentato rituale controricorso contenente la difesa nel merito. Si è, difatti, ritenuto che tale comportamento, dimostrando ex post il raggiungimento dello scopo cui è preordinata la notificazione, impedisce di ritenerla inesistente perché non riferibile al luogo ed alla parte sua destinataria e determina la conseguente ammissibilità del ricorso, stante la sanatoria della nullità della sua notificazione per raggiungimento dello scopo.

È stata, invece, ritenuta nulla e non inesistente, ammettendone, pertanto, la sanatoria con effetti ex tunc, tramite rinnovazione, anche spontanea:

la notificazione eseguita, ai sensi degli artt. 1 e segg. della legge 21 gennaio 1994, n. 53, dall'avvocato domiciliatario su delega del difensore munito di procura alle liti, trattandosi di vizio di forma del procedimento notificatorio attinente alla sola fase di adempimento materiale della delega affidata al domiciliatario, atteso che l'istanza di notifica proviene comunque da chi ha il legittimo ius postulandi, come affermato da Sez. 6-3 n. 5096 (Rv. 625357), est. Vivaldi;

la notificazione, oltre l'anno dal deposito del provvedimento di cui si chiede la correzione ex art. 287 cod. proc. civ., effettuata al difensore in luogo che alla parte personalmente, nonostante il superamento del limite di un anno, posto dall'art. 288, terzo comma, cod. proc. civ., alla perpetuatio dell'ufficio del difensore ed all'efficacia dell'elezione di domicilio compiuta per il giudizio, in quanto tale violazione di forma non si traduce nell'impossibilità di riconoscere nell'atto la rispondenza al modello legale della sua categoria, secondo Sez. 1, ord. n. 3827 (Rv. 625438), rel. Mercolino;

la notificazione dell'atto di appello eseguita presso l'avvocato domiciliatario il quale, successivamente alla data di deliberazione della sentenza di primo grado, sia stato cancellato dall'albo per effetto dell'irrogazione di sanzione disciplinare, con conseguente perdita dello ius postulandi del difensore ed inefficacia dell'elezione di domicilio, essendo avvenuta mediante consegna in un luogo ed a persona in qualche modo collegabili al destinatario, come ribadito da Sez. 2, n. 12478 (Rv. 626508), est. Giusti.

La medesima sentenza Sez. 2, n. 12478 (Rv. 626509), est. Giusti, ha escluso anche la nullità, in applicazione dei doveri di buona fede, lealtà e correttezza, che impongono di evitare un impiego abusivo o deviato degli strumenti processuali, relativamente alla notifica dell'atto di impugnazione eseguita presso l'avvocato domiciliatario il quale, successivamente alla data di deliberazione della sentenza di primo grado, nonostante la cancellazione dall'albo per effetto dell'irrogazione di sanzione disciplinare, abbia tenuto un comportamento obiettivamente decettivo, idoneo a creare una situazione di apparenza di persistente titolarità dello ius postulandi, continuando a curare all'esterno la pratica del proprio assistito per ottenere l'esecuzione della sentenza, in maniera da giustificare l'affidamento incolpevole della controparte circa la sua perdurante legittimazione, con la verosimile consapevolezza della parte.

È stato confermato da Sez. 3 n. 11550 (Rv. 626244), est. Carleo, che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell'effettiva abituale dimora, il quale è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le risultanze stesse, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori, di fatto, in via abituale. Nello stesso senso si muove Sez. 1, n. 14338 (Rv. 626662), est. Di Virgilio, che ha dichiarato la nullità della notificazione del ricorso per dichiarazione di fallimento effettuata al liquidatore della società debitrice, ai sensi dell'art. 145, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., nella versione attuale, presso l'indirizzo del medesimo riportato nella visura camerale della società, ove tale indirizzo non corrisponda a quello della sua residenza effettiva, avendo peraltro le risultanze anagrafiche valore presuntivo superabile da prova contraria, ricavabile da qualsiasi fonte di convincimento, e che, comunque, ha ribadito l'inderogabilità dell'ordine preferenziale, contenuto nell'art. 139 cod. proc. civ., dei luoghi di esecuzione della notifica (residenza, dimora, domicilio), per l'ipotesi in cui non sia possibile effettuarla in mani proprie, con conseguente nullità di una notificazione presso il domicilio del destinatario, di cui non sia ignota la residenza anagrafica, ubicata in un luogo diverso dal predetto domicilio.

In Sez. L, n. 6345 (Rv. 626067), est. Stile, si è, tuttavia, affermato, sia pure relativamente alle notifiche a mezzo posta, che ove la consegna del piego raccomandato sia avvenuta a mani di un familiare convivente con il destinatario, ai sensi dell'art. 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890, deve presumersi che l'atto sia giunto a conoscenza dello stesso, restando irrilevante ogni indagine sulla riconducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall'art. 139 cod. proc. civ., in quanto il problema dell'identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell'atto, con la conseguente rilevanza esclusiva della prova della non convivenza, che il destinatario ha l'onere di fornire. Anche se, comunque, nel caso in cui il plico sia stato consegnato al coniuge separato, Sez. 1, n. 18085 (Rv. 627329), est. Di Virgilio, ha osservato che la notifica a mezzo del servizio postale va considerata rituale, ai sensi dell'art. 7, comma secondo della legge 20 novembre 1982, n. 890, solo qualora risulti la presenza consuetudinaria e non occasionale dello stesso presso l'abitazione del destinatario.

8. I termini.

8.1. Perentori ed ordinatori.

La qualifica di un termine come ordinatorio ne comporta la prorogabilità, ma, secondo quanto stabilisce l'art. 154 cod. proc. civ., solo prima della sua scadenza. Tale regola è stata confermata:

da Sez. 6-1, n. 4448 (Rv. 625903), est. San Giorgio, che ha precisato che l'istanza di proroga del termine fissato dal giudice istruttore per l'assunzione dei mezzi fuori dalla circoscrizione del tribunale, che ha carattere ordinatorio, deve essere presentata, ex art. 154 cod. proc. civ., prima della scadenza del termine stesso, il cui inutile decorso comporta la decadenza della parte dal diritto di far assumere la prova delegata, e non soltanto dal diritto di far assumere, per delega, la prova medesima;

da Sez. 1, n. 17202 (Rv. 627066), est. Giancola, che ha precisato che, in mancanza di istanza di proroga prima della scadenza, l'omessa notificazione del ricorso introduttivo di un procedimento di impugnazione con rito camerale (nella specie, in materia di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore) entro il termine assegnato nel decreto di fissazione d'udienza, sebbene ordinatorio, determina la decadenza dalla facoltà processuale e la conseguente improcedibilità dell'appello.

Ad ogni modo, le problematiche relative ai termini non possono essere risolte alla luce del principio di cui all'art. 156 cod. proc. civ., che attiene alle ipotesi di inosservanza delle forme in senso stretto e non di rispetto dei termini, come affermato da Sez. 6-3, ord., n. 12894 (Rv. 626358), rel. Giacalone, che ha dichiarato improcedibile il ricorso per cassazione non depositato nel termine stabilito dall'art. 369 cod. proc. civ., nonostante la costituzione del resistente.

Va, infine, segnalata la questione rimessa da Sez. 5, ord., n. 25139, rel. Virgilio, alle Sezioni unite circa la natura ordinatoria o perentoria del termine di cui all'art. 391, terzo comma, cod. proc. civ., di cui si parla altrove (cfr. Volume I, cap. XXIII, § 2).

8.2. La rimessione in termini.

Unico modo per superare la decadenza verificatasi per la scadenza di un termine è costituito dalla rimessione in termini, istituto oggi previsto in via generale dall'art. 153, comma secondo, cod. proc. civ., ai sensi del quale «la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini».

Si è, tuttavia, escluso che un contrasto di difformi orientamenti giurisprudenziali possa integrare causa di rimessione in termini. In particolare Sez. L, n. 14214 (Rv. 626802), est. Napoletano, ha sancito che l'intervento regolatore delle Sezioni unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, induce ad escludere che possa essere ravvisato un errore scusabile, ai fini dell'esercizio del diritto alla rimessione in termini, in capo alla parte che abbia confidato sull'orientamento che non è prevalso.

Parimenti Sez. L, n. 7393 (Rv. 626119), est. Venuti, non ha ravvisato nello smarrimento del fascicolo d'ufficio e di quello di parte, relativi al giudizio di primo grado, una causa impeditiva della proposizione dell'impugnazione entro il termine di cui all'art. 327 cod. proc. civ., tale da giustificare una richiesta di rimessione in termini, in considerazione della possibilità della parte di chiedere al giudice la ricostituzione di detti fascicoli e l'eventuale integrazione dei motivi d'appello.

Al contrario, Sez. 3, n. 6304 (Rv. 625532) e n. 8216 (Rv. 625831), entrambe est. Carleo, hanno individuato in eventuali inadempienze del cancelliere una possibile causa di rimessione in termini ex art. 153, secondo comma, cod. proc. civ.: la fattispecie esaminata è quella del cancelliere che non abbia reso conoscibile la data del deposito della sentenza, da identificarsi con la data della consegna della stessa al cancelliere e con l'apposizione, da parte di quest'ultimo, della firma e della data, prima della successiva attività certificativa e comunicativa, avvenuta a notevole distanza di tempo ed in prossimità del termine di decadenza per l'impugnazione (più precisamente iscrizione nel registro cronologico e di repertorio con numerazione progressiva annuale, ai sensi dell'art. 34 delle disp. att. cod. proc. civ.; comunicazione alle parti costituite del deposito della sentenza entro cinque giorni, mediante biglietto di cancelleria, contenente il dispositivo, ai sensi degli art. 133 cod. proc. civ. e 45 disp. att. cod. proc. civ.; trasmissione all'Ufficio del Registro degli originali delle sentenze per la registrazione, oltre agli adempimenti oggi prescritti dal d.m. Giustizia del 27 marzo 2000, n. 264, consistenti nella copia digitale, nell'acquisizione nell'archivio digitale di ogni annotazione riportata sull'originale del provvedimento e nell'autenticazione della copia informatica del provvedimento e delle successive annotazioni mediante firma digitale). La problematica in esame va ricollegata al recente revirement delle Sez. Un., n. 13794 del 2012 (Rv. 623301), che ha aderito all'orientamento secondo cui, per effetto dell' art. 133 cod. proc. civ., la sentenza è resa pubblica mediante il deposito risultante dall'annotazione apposta dal cancelliere in calce alla sentenza, con conseguente irrilevanza della diversa attestazione del cancelliere, in data successiva, "sentenza pubblicata", rinnegando la tesi minoritaria, che, in caso di duplice data sulla sentenza pubblicata, una di deposito in cancelleria da parte del giudice e l'altra, successiva, di "pubblicazione", indicata come tale dal cancelliere, attribuiva rilevanza, ai fini della decorrenza del termine lungo per l'impugnazione, solo all'ultima, considerando la prima come data di deposito della minuta. Invero nel primo caso, in cui la sentenza è stata depositata, con apposizione di sottoscrizione e data da parte del cancelliere, in data 28 novembre 2006, i successivi adempimenti, senza la precisazione della data del deposito, sono stati effettuati dal cancelliere in data 15 dicembre 2006, il ricorso per cassazione proposto dalla parte il 30 gennaio 2008 l'istanza è stata accolta, mentre nel secondo caso, in cui la sentenza è stata depositata, con apposizione di sottoscrizione e data da parte del cancelliere, in data 3 ottobre 2002, i successivi adempimenti sono stati effettuati dal cancelliere in data 10 dicembre 2002, il ricorso per cassazione proposto in data 23 gennaio 2004, l'istanza è stata rigettata ed è stato precisato che la causa non imputabile, presupponendo un evento che presenti carattere di assolutezza e non impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà, può ravvisarsi solo ove la parte abbia avuto conoscenza dell'esistenza della sentenza trascorso l'intero decorso del termine ex art. 327 cod. proc. civ. ovvero dopo un lasso temporale tale da rendere oggettivamente difficoltosa la tempestiva proposizione dell'impugnazione. Sullo stesso tema, sebbene da un'angolazione diversa, è intervenuta Sez. 6-5, n. 6048 (Rv. 625941), est. Cicala, secondo cui in tema di processo tributario, nelle controversie in cui non risulti applicabile l'istituto della rimessione in termini dell'art. 153, secondo comma, cod. proc. civ. (introdotto dalle legge 18 giugno 2009, n. 69), il termine lungo per l'impugnazione delle sentenze di cui al primo comma dell'art. 327 cod. proc. civ. decorre, per la parte cui non siano stati debitamente comunicati né l'avviso di trattazione dell'udienza (ex art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992), né il dispositivo della sentenza (ex art. 37 del d.lgs. cit.), dalla data in cui essa ha avuto conoscenza di tali sentenze. Ad ogni modo, il problema segnalato in esame trovare una soluzione all'esito della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Sez. 2, ord. n. 26251, rel. Mazzacane, con riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 24, primo e secondo comma, Cost., avente ad oggetto il combinato disposto degli artt. 133, primo e secondo comma, e 327, primo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui si ritiene, secondo il diritto vivente, che, ove sulla sentenza impugnata siano state apposte due date, una precedente di deposito e l'altra successiva di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici decorrono già dalla prima di esse.

Importante, infine, risulta l'orientamento di Sez. L, n. 20830 (Rv. 627938), est. Venuti, secondo cui sussiste, in virtù del principio di ragionevole durata del processo, l'onere della parte di attivarsi tempestivamente per superare la decadenza, non potendo, in caso contrario, beneficiare della rimessione in termini. La sentenza ha, difatti, sancito che qualora la notificazione di un atto processuale, da effettuare entro un termine perentorio, non si perfezioni per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha l'onere, anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio, di chiedere all'ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, tenuti presenti i tempi necessari, secondo la comune diligenza, per conoscere l'esito negativo della notificazione e assumere le informazioni del caso: conseguentemente ha rigettato l'istanza di rimessione in termini formulata dalla parte che, pur essendo venuta a conoscenza dell'esito negativo della notifica in tempo utile, non aveva sollecitato l'ufficiale giudiziario ai fini di un nuovo tentativo di notifica.

9. Nullità.

9.1. Il raggiungimento dello scopo.

La disciplina della nullità degli atti processuali, come noto, ruota attorno al principio del raggiungimento dello scopo, per cui, ai sensi dell'art. 156 cod. proc. civ., l'atto è nullo per inosservanza di forme se è privo dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, mentre la nullità non può mai essere pronunciata se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

Può ritenersi, ormai, consolidato l'orientamento secondo cui la regola della sanatoria per il raggiungimento dello scopo deve essere applicata in caso di adozione, da parte dell'attore, di una forma e/o di un rito erronei: si è, difatti, considerata la violazione de qua superata a condizione del rispetto di eventuali termini fissati a pena di decadenza.

Sul punto sono intervenute Sez. Un., n. 22848 (Rv. 627462), est. Cappabanca, secondo cui l'appello avverso la sentenza resa ex art. 308, secondo comma, cod. proc. civ., reiettiva del reclamo contro la declaratoria di estinzione del processo pronunciata dal giudice istruttore, promosso con citazione anziché con ricorso è suscettibile di sanatoria, in via di conversione ex art. 156 cod. proc. civ., a condizione che, nel termine previsto dalla legge, l'atto sia stato non solo notificato alla controparte, ma anche depositato nella cancelleria del giudice;Sez. Un., n. 21675, (Rv. 627418), est. Travaglino, secondo cui, ai sensi della legge 13 giugno 1942, n. 794 (applicabile ratione temporis), l'opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dall'avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile deve proporsi con atto di citazione, sicché, qualora l'opponente abbia introdotto il corrispondente giudizio con ricorso, la sanatoria del vizio procedurale, operante quando, con la regolare instaurazione del contraddittorio, conseguente alla costituzione della controparte in assenza di eccezione alcuna, sia stato raggiunto lo scopo dell'atto, in virtù del principio di conversione degli atti processuali nulli di cui all'art. 156 cod. proc. civ., sussiste alla condizione che il ricorso venga notificato nel termine indicato nel decreto, analogamente a come si sarebbe dovuto procedere con l'atto di citazione.

In proposito va ricordata anche la pronuncia Sez. 1, n. 13639 (Rv. 626634), est. Cristiano, la quale chiarisce che il raggiungimento dello scopo presuppone la piena attuazione del contraddittorio e del diritto di difesa, stabilendo che l'adozione del rito camerale in luogo di quello ordinario è superata in virtù dell'avvenuto raggiungimento dello scopo degli atti, quando non ne sia derivato un concreto pregiudizio per alcuna delle parti, relativamente al rispetto del contraddittorio, all'acquisizione delle prove e, più in generale, a quanto possa avere impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nel giudizio ordinario e conseguentemente cassando il provvedimento impugnato che, ritenendo nella specie – regolata dall'art. 183 legge fall., nel testo anteriore alla riforma di cui al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 – esperibile l'appello, in luogo del proposto reclamo, avverso il decreto del tribunale reiettivo della domanda di omologazione del concordato preventivo proposta dalla ricorrente, aveva perciò solo ritenuto inammissibile il suddetto reclamo.

Un'altra applicazione dell'art. 156, terzo comma, cod. proc. civ. continua a registrarsi nell'ipotesi di proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, secondo comma, cod. proc. civ.: vanno ricordate Sez. 6-3, ord. n. 13038 (rv. 626357), rel. Barreca, secondo cui il vizio di notificazione del precetto rileva se di gravità tale da determinare la inesistenza della notificazione, ovvero l'impossibilità di raggiungere il suo scopo tipico, lasciando a disposizione del debitore un termine per adempiere inferiore a quello minimo di dieci giorni sancito dall'artt. 480 cod. proc. civ. sicché, ove tale notificazione sia eseguita da un ufficiale giudiziario territorialmente incompetente la conseguente nullità, non impedendo il perseguimento delle finalità del precetto, è sanata dall'avvenuta proposizione, da parte dell'intimato, dell'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ.; Sez. 6-3, ord., n. 14495 (Rv. 626774), rel. Ambrosio, secondo cui, in caso di notificazione del precetto eseguita da un ufficiale giudiziario territorialmente incompetente, la conseguente nullità, non impedendo il perseguimento delle finalità del precetto stesso, è da considerarsi sanata in forza dell'avvenuta proposizione, da parte dell'intimato, dell'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ.; Sez. 3, n. 19498 (Rv. 627585), est. Carluccio, secondo cui qualora l'esecutato denunci con l'opposizione, oltre alla nullità della notificazione del precetto o del pignoramento, anche vizi di merito, attinenti alla pignorabilità dei beni, la proposizione dell'opposizione, in quanto indice della conoscenza dell'esecuzione annunciata o iniziata, dimostra l'avvenuto raggiungimento dello scopo cui era preordinata la notificazione e comporta, quindi, la sanatoria della sua nullità, in applicazione dell'art. 156, ultimo comma, cod. proc. civ.

Va, infine, ricordata Sez. 6-3, ord., n. 17612 (Rv. 627665), rel. Frasca, secondo cui non è affetta da nullità la sentenza d'appello pronunciata all'esito di un giudizio nel corso del quale non sia stata disposta – a norma dell'art. 151 disp. att. cod. proc. civ., come modificato dall'art. 19 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – la riunione di altri gravami proposti in relazione a controversie su questioni identiche a quella definita dalla pronuncia adottata, non essendo espressamente comminata la sanzione della nullità per la violazione della citata disposizione, né potendosi ritenere tale sentenza – a norma dell'art. 156, secondo comma, cod. proc. civ. – inidonea a raggiungere il suo scopo di decidere la causa, determinando solo il rischio di giudicanti contrastanti o dissimili su questioni identiche.

9.2. Nullità relative.

Diverse sono le sentenze che hanno contribuito ad estendere le ipotesi della nullità relativa, che, ai sensi dell'art. 157 cod. proc. civ., non può essere rilevata di ufficio ed è sanata ove non sia eccepita, nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso, dalla parte nel cui interesse è stabilito il requisito mancante o è disposta la regola violata.

In tema di procura ad litem, ad esempio, Sez. 6-1, ord. n. 21205 (Rv. 627935), rel. Acierno, già menzionata in tema di procura, conformemente ad un orientamento già consolidato, ha ricondotto in tale categoria la mancata indicazione dell'organo titolare del potere rappresentativo e del nome della persona fisica, la cui sottoscrizione sia illeggibile. Tale posizione è stata confermata da Sez. Un., n. 25036 (Rv. 628052), est. Virgilio, in cui si legge che la procura speciale alle liti rilasciata, per conto di una società esattamente indicata con la sua denominazione, con sottoscrizione affatto illeggibile, senza che il nome del conferente, di cui si alleghi genericamente la qualità di legale rappresentante, risulti dal testo della stessa, né dall'intestazione dell'atto, ed altresì priva, nell'uno o nell'altra, dell'indicazione di una specifica funzione o carica del soggetto medesimo che lo renda identificabile attraverso i documenti di causa o le risultanze del registro delle imprese, è affetta da nullità relativa, che la controparte può tempestivamente opporre ex art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., onerando, così, l'istante d'integrare con la prima replica la lacunosità dell'atto iniziale, mediante chiara e non più rettificabile notizia del nome dell'autore della suddetta sottoscrizione, difettando la quale, così come in ipotesi di inadeguatezza o tardività di tale integrazione, si verifica invalidità della procura ed inammissibilità dell'atto cui essa accede. Tuttavia, la sentenza, nel sancire l'onere, a carico della parte che ha dato luogo alla nullità, di integrare la procura nel primo atto successivo, non si occupa del problema del coordinamento con l'art. 182 cod. proc. civ. e del potere-dovere del giudice di assegnare un termine perentorio per sanare le problematiche inerenti la procura: problema che, nel caso di specie, non si è posto, presumibilmente anche in considerazione della tendenza ad escludere l'applicabilità dell'art. 182 cod. proc. civ. nel giudizio di legittimità, ma che dovrebbe portare, in primo e secondo grado, ad estendere, su impulso del giudice, il superamento dei vizi della procura.

Gli interventi più numerosi, comunque, sono quelli in materia di prove.

Così Sez. Un., n. 21670 (Rv. 627450), est. Petitti, hanno qualificato la nullità della testimonianza resa da persona incapace, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ., come relativa, in quanto posta a tutela dell'interesse delle parti, con la conseguenza che l'eccezione collegata deve essere formulata subito dopo l'assunzione della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ. e che, se respinta, deve essere riproposta in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi altrimenti ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.

Già prima, Sez. 2, n. 21442 (Rv. 627823), est. Manna, aveva considerato l'inammissibilità della prova testimoniale, ai sensi degli artt. 2722 e 2723 cod. civ., così come la nullità della prova assunta, previo rigetto di tale eccezione di inammissibilità, soggetta al regime dell'art. 157 cod. proc. civ., derivando non da ragioni di ordine pubblico processuale, quanto dall'esigenza di tutelare interessi di natura privata, con conseguente esclusione della rilevabilità di ufficio e necessaria eccezione dalla parte interessata, prima dell'ammissione del mezzo istruttorio, quanto alla inammissibilità, e nella prima istanza o difesa successiva alla prova, quanto alla nullità. La pronuncia aveva, inoltre, sottolineato la distinzione concettuale e non sovrapponibilità delle due eccezioni, la prima eccezione operante ex ante, per impedire un atto invalido e la seconda ex post per evitare il consolidamento degli effetti dell'atto invalido.

Relativamente alla consulenza tecnica di ufficio è stata inquadrata nella nullità relativa non solo da Sez. 2, n. 1744 (Rv. 624965), est. Carrato, la mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali o attinente alla loro partecipazione alla prosecuzione delle operazioni stesse, ma anche, da Sez. 3, n. 2251 (Rv. 624974), est. Ambrosio, l'allargamento dell'indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente, e da Sez. 6-2, ord., n. 21149 (Rv. 628079), rel. Manna, la mancata esplicitazione dei gravi motivi previsti dall'art. 196 cod. proc. civ. per disporre la sostituzione del consulente tecnico d'ufficio: tali vizi devono, quindi, essere fatti valere dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso, non potendo essere denunciati, in difetto di tempestiva eccezione, secundum eventum litis, come motivo di impugnazione della sentenza.

Sempre in applicazione dell'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., Sez. 1, n. 21609 (Rv. 627657), est. Giancola, ha considerato inammissibile il motivo di ricorso con il quale si eccepisca la violazione delle regole prescritte per la notificazione a persone irreperibili, quando la deduzione proviene da parte diversa dal notificando, poiché la disciplina dell'art. 143 cod. proc. civ. è dettata nell'interesse esclusivo del destinatario della notifica e la sua errata applicazione non può essere eccepita da terzi.

9.3. Conversione della nullità in motivi di impugnazione.

Altra regola che, come quella del raggiungimento dello scopo, tende a superare i vizi processuali, è quella della conversione della nullità in motivi di impugnazione, sancita dall'art. 161 cod. proc. civ., che stabilisce che la nullità delle sentenze soggetto ad appello e a ricorso per cassazione, fatta eccezione per il difetto di sottoscrizione del giudice, può essere fatta valere solo nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione.

Di essa ha fatto applicazione:

Sez. L, n. 12923 (Rv. 626671), est. Manna, nel processo del lavoro, con riferimento all'omessa esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda, qualificata come causa di nullità del ricorso introduttivo, che, ove non rilevata dal giudice di primo grado, è soggetta alla regola generale della conversione in motivi di impugnazione ex art. 161, primo comma, cod. proc. civ., con onere del convenuto di impugnare la decisione anche con riguardo alla pronuncia, implicita, sulla validità dell'atto;

Sez. 1, n. 5847 (Rv. 625627), est. Lamorgese, con riferimento all'omessa audizione dei minori (che abbiano compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capaci di discernimento) nelle procedure relative al loro affidamento nel primo grado di giudizio, qualificata come adempimento necessario in grado di determinare la nullità della sentenza, da far valere nei limiti e secondo le regole fissate dall'art. 161 cod. proc. civ.

La regola de qua, come anticipato, non opera in caso di difetto di sottoscrizione della sentenza, da parte del giudice: resta, tuttavia, ancora da chiarire il regime applicabile in questa ipotesi, stante il contrasto rilevato e la rimessione della questione, dalla Sez. 2, n. 16571, est. Carrato, alle Sezioni unite, che dovranno in particolare affrontare la questione della permanenza della potestas iudicandi in capo al giudice e della conseguente possibilità di rinnovazione dell'atto, anche prima della intervenuta dichiarazione di invalidità.

  • giudizio
  • giurisdizione civile

CAPITOLO XXVI

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

(di Francesca Picardi )

Sommario

1 La nullità della citazione. - 2 La delimitazione del thema decidendum e del thema probandum. - 3 La chiamata in causa del terzo. - 4 Sospensione, interruzione ed estinzione.

1. La nullità della citazione.

La regolare instaurazione del contraddittorio può essere impedita dai vizi della citazione inerenti alla vocatio in ius o alla edictio actionis, di cui solo i primi sono superabili grazie alla costituzione del convenuto: si tratta, quindi, di uno dei primi controlli che il giudice deve effettuare.

Nell'ipotesi in cui in primo grado non sia rilevato un motivo di nullità della citazione inerente alla vocatio in ius, dedotto come motivo di appello, in applicazione della conversione delle nullità in motivi di gravame, Sez. 6-3, n. 10580, (Rv. 626032), rel. Frasca, ha ritenuto applicabile l'art. 294 cod. proc. civ., equivalendo la proposizione dell'appello a costituzione tardiva nel processo, ed è, quindi, pervenuta alla conclusione che il convenuto contumace, pur avendo diritto alla rinnovazione dell'attività di primo grado da parte del giudice di appello, ai sensi dell'art. 354, quarto comma, cod. proc. civ., potrà essere ammesso a compiere le attività che sono colpite dalle preclusioni verificatesi nel giudizio di primo grado, in quanto dimostri che la nullità della citazione gli abbia impedito di conoscere il processo e, quindi, di difendersi, se non con la proposizione del gravame: situazione che, peraltro, si ritenuto potersi verificare solo in ipotesi di nullità per omessa o assolutamente incerta indicazione del giudice adìto in primo grado, occorrendo, in ogni altra ipotesi, la dimostrazione, del tutto residuale, che le circostanze del caso concreto abbiano determinato anche la mancata conoscenza della pendenza del processo.

In applicazione del combinato disposto dell'art. 164, commi primo e terzo, cod. proc. civ., Sez. 6-1, n. 4452 (Rv. 625340), rel. San Giorgio, ha dichiarato che la nullità della citazione (in primo grado e in appello), dalla quale non risulti l'indicazione della residenza dell'attore, ma solo l'elezione di domicilio da lui compiuta, è sanata dalla costituzione in giudizio del convenuto.

Un'ulteriore ipotesi di vizio della citazione, inerente la vocatio in ius, è stata individuata da Sez. 5, ord., n. 384 (Rv. 624698), rel. Virgilio, nella notifica dell'appello, sopravvenuto il fallimento, presso il procuratore domiciliatario della società in bonis anziché nei confronti del curatore fallimentare, trattandosi non di una problematica della notificazione, ma di una errata identificazione del soggetto destinatario dell'atto: si è, pertanto, disposta, ai sensi dell'art. 164, primo e secondo comma, cod. proc. civ., stante la mancata costituzione del convenuto, la rinnovazione dell'atto nullo, con efficacia ex tunc, ritenuta utilizzabile, in assenza di specifica regolamentazione, anche nel processo tributario.

Per completezza e per importanza, anche se riferita al secondo grado di giudizio, va ricordato che Sez. Un., n. 9407 (Rv. 625811), est. Amoroso, ha escluso la necessità che la citazione introduttiva dell'appello, in virtù del richiamo alle indicazioni prescritte nell'art. 163 cod. proc. civ., nel vigore dell'art. 342 cod. proc. civ. prima dell'ulteriore modifica di cui all'art. 54, comma 1, lett. a, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, richiedesse anche lo specifico avvertimento, prescritto dal n. 7 del terzo comma dell'art. 163 cod. proc. civ., ovvero l'avviso delle decadenze, atteso che queste ultime si riferiscono solo al regime delle decadenze nel giudizio di primo grado.

Relativamente ai vizi inerenti alla edictio actionis, Sez. 3, n. 11751 (Rv. 624497), est. Chiarini, ha precisato che la nullità della citazione comminata dall'art. 164, quarto comma, cod. proc. civ. si produce solo quando «l'esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda», prescritta dal numero 4 dell'art. 163 cod. proc. civ., sia stata omessa o risulti assolutamente incerta, con valutazione da compiersi caso per caso, occorrendo tenere conto sia che l'identificazione della causa petendi della domanda va operata con riguardo all'insieme delle indicazioni contenute nell'atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, sia che la nullità della citazione deriva dall'assoluta incertezza delle ragioni della domanda, risiedendo la sua ratio ispiratrice nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese. Nello stesso senso è Sez. 1, n. 28669 (in corso di massimazione), est. Nazzicone, in tema di azione di responsabilità degli amministratori di società. Già precedentemente, in base a tali criteri, Sez. 1, n. 1802 (Rv. 624866), est. Ceccherini, aveva ritenuto che in tema di revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente bancario, l'indicazione del numero di conto corrente sul quale sono stati effettuati i versamenti, della loro natura di pagamenti e del periodo sospetto da prendersi in considerazione è idonea a rendere il convenuto in revocatoria edotto della pretesa azionata e ad escludere, pertanto, la nullità dell'atto di citazione per indeterminatezza dell'oggetto, non risultando necessaria, ai fini dell'individuazione del petitum e della causa petendi, anche la specificazione delle singole rimesse da prendere in considerazione, che la banca è in grado di individuare agevolmente, essendo in possesso di tutta la documentazione relativa alle operazioni effettuate dal correntista.

2. La delimitazione del thema decidendum e del thema probandum.

Il thema decidendum viene progressivamente individuato nel corso del processo alla luce dei comportamenti delle parti e delle preclusioni che caratterizzano l'attuale rito civile.

Così, ad esempio, l'attore può replicare, alla domanda riconvenzionale del convenuto, con una eccezione in senso stretto, che deve, tuttavia, proporre entro la barriera temporale della prima udienza di comparizione e trattazione, come sottolineato da Sez. 2, n. 22274 (Rv. 627902), est. Manna. Sebbene la fattispecie in tale sentenza decisa fosse soggetta a rito anteriore alla novella di cui all'art. 2, comma 3, lettera c ter, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni in legge 14 maggio 2005, n. 80, le conclusioni a cui la Corte è pervenuta con riferimento alla udienza di trattazione possono essere proiettate rispetto alla attuale udienza di prima comparizione e trattazione, prevista dall'art. 183 cod. proc. civ., nell'attuale formulazione.

Fondamentale è, inoltre, l'individuazione del confine tra la emendatio libelli, consentita sino alla prima memoria di cui all'art. 183, comma 6, cod. proc. civ., e la vietata mutatio libelli.

In particolare, va segnalato l'orientamento, di cui sono espressione Sez. 3, n. 18609 (Rv. 627478), est. Amatucci, e Sez. 3, n. 15666 (Rv. 626859), est. Massera, secondo cui, quando l'attore abbia invocato in primo grado la responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., il divieto di introdurre domande nuove (la cui violazione è rilevabile d'ufficio da parte del giudice) non gli consente di chiedere successivamente la condanna del medesimo convenuto ai sensi degli artt. 2050 (esercizio di attività pericolose) o 2051 (responsabilità per cose in custodia) cod. civ., a meno che l'attore non abbia sin dall'atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli, non essendo a tal fine sufficiente un generico richiamo alla disposizione legislativa in assenza di un'argomentazione difensiva chiara e completa.

Devono, inoltre, ricordarsi:

Sez. 2, n. 15791 (Rv. 626930), est. Matera, che ha ravvisato un'inammissibile domanda nuova nel caso in cui l'attore, dopo aver chiesto, nell'atto introduttivo, l'accertamento della simulazione o la revocatoria di un contratto preliminare di compravendita, richieda, nel corso del giudizio, la dichiarazione di simulazione o la revocatoria del contratto definitivo di compravendita stipulato dalle parti in relazione al medesimo immobile, trattandosi di domanda che, avendo ad oggetto un atto negoziale diverso da quello al quale si riferiva la domanda iniziale, presenta diversità di petitum e introduce nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione;

Sez. 3, n. 13446 (Rv. 626613), est. Amendola, che ha ravvisato un inammissibile mutamento della domanda nel caso in cui, proposta una azione revocatoria ordinaria, fondata sull'assunto che il debitore abbia compiuto l'atto dispositivo prima del sorgere del debito, si deduca, in corso di causa, che l'atto dispositivo sia stato compiuto dopo il sorgere del debito, in quanto ne deriverebbe un allargamento del thema probandum, dal momento che, nel primo caso, l'attore avrebbe l'onere di provare il dolo specifico del debitore e cioè la dolosa preordinazione di un intento fraudolento, mentre, nel secondo caso, egli potrebbe limitarsi a provarne il solo dolo generico, e cioè la generica consapevolezza di nuocere alle ragioni del creditore;

Sez. 2, n. 9655 (Rv. 626171), est. Nuzzo, ha, invece, escluso che, in tema di scioglimento di comunioni, il riferimento ad un progetto di divisione diverso da quello originariamente invocato determini novità della domanda, in ragione del fatto che la composizione delle quote non modifica né la causa petendi, né l'oggetto del giudizio, ma attiene solo alle modalità di scioglimento della comunione in base alla stima dei beni, rimessa alla valutazione del giudice di merito.

Espressione della facoltà di modificare le domande e le conclusioni precedentemente formulate è stata, invece, ritenuta da Sez. 3, n. 21848 (Rv. 628157), est. Scarano, la rinuncia a singoli capi della domanda, che, quindi, distinguendosi dalla rinunzia agli atti del giudizio, non richiede l'osservanza di forme rigorose.

Al contrario, si sottraggono al regime delle preclusioni le eccezioni in senso lato, relativamente alle quali si rinvia a quanto esposto al cap. XXV, § 6.2.

Per quanto concerne l'attività finale della precisazione delle conclusioni, che pure può incidere sulla delimitazione del thema decidendum, sono stati confermati orientamenti risalenti. Resta necessaria la formulazione di tutte le domande in cui si intende insistere, in quanto, secondo Sez. 3, n. 2093 (Rv. 624999), est. Carluccio, e Sez. 5, n. 16840 (Rv. 627060), est. Crucitti, la mancata riproposizione della domanda (o eccezione) nella precisazione delle conclusioni comporta l'abbandono della stessa, assumendo rilievo solo la volontà espressa della parte, in ossequio al principio dispositivo che informa il processo civile, con conseguente irrilevanza della volontà rimasta inespressa, salvo il caso di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le domande, in cui sussiste la presunzione di persistenza della domanda pregiudiziale non reiterata, ma non espressamente abbandonata e salvo il caso che non sia necessario, per legge, decidere la questione pregiudiziale con efficacia di giudicato. Tuttavia, come ribadito da Sez. 6-1, n. 22360 (Rv. 627928), rel. Bernabai, nell'ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all'udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate: in applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione del giudice di appello, con cui la domanda era stata accolta nei limiti dell'importo richiesto alla prima udienza di precisazione delle conclusioni, desumendosi dalla mancata comparizione del procuratore di parte attrice alla nuova udienza di precisazione delle conclusioni la rinuncia ad adeguare la somma richiesta al nuovo esito della c.t.u.

Proprio per evitare inconsapevoli errori od omissioni delle parti, Sez. 1, n. 28660 (in corso di massimazione), est. Nazzicone, sebbene in tema di arbitrato, ha ricordato il razionale e generale criterio di conduzione del procedimento da parte del giudice, mirato a non permettere conclusioni o deduzioni – riguardanti un dibattito già illustrato per iscritto e che debba in ultimo avvenire in udienza – mediante fogli scritti, ossia il cd. "foglio conclusioni" (sia esso, poi, da allegare al verbale o venga addirittura depositato dopo l'udienza): e, una volta che il rito prescriva l'indicazione delle domande e delle conclusioni in un determinato atto (come per le conclusioni degli atti introduttivi della lite o in successive memorie), è buona norma che ad esse si faccia semmai rinvio, provvedendosi ad indicare nel verbale esclusivamente – ed allora deliberatamente – quelle conclusioni che si ritenga di modificare od integrare.

È, comunque, escluso, secondo quanto ritenuto da Sez. L, n. 5135 (Rv. 625763), est. Bronzini, a prescindere dalla reiterazione in sede di precisazione delle conclusioni, che, in presenza di domande reciproche proposte dalle parti, il giudice pronunci sulla reconventio reconventionis, avanzata in via autonoma, oppure condizionata, laddove l'esame della domanda riconvenzionale, proposta dal convenuto solo in via subordinata, rimanga assorbito dalla reiezione di quest'ultima.

In conseguenza delle preclusioni maturate il giudice, dopo il passaggio della causa in decisione, non ha alcun obbligo di rimetterla sul ruolo onde permettere una nuova produzione, né lo stesso è tenuto ad esaminare eventuali sollecitazioni al riguardo dell'interessato, non essendo consentito alle parti di rivolgere istanze dopo l'indicato momento, secondo Sez. 6-1, ord., n. 13163 (Rv. 626354), rel. Ragonesi.

Ai fini della delimitazione del thema probandum assume, invece, rilievo la condotta processuale della non contestazione, di cui è stato ribadito più volte, da Sez. 3, n. 15658 (Rv. 626904), est. Armano e daSez. 3, n. 8213 (Rv. 625786), est. Carleo, il carattere vincolante per il giudice, il quale dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio, del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, anche nella ipotesi di tardiva contestazione (nel caso di specie, sopravvenuta solo nella comparsa conclusionale di appello): ciò sia per il sistema delle preclusioni, il quale comporta per le parti l'onere di collaborare al fine di circoscrivere la materia controversa, e sia per il principio di economia, che deve informare il processo, alla stregua dell'art. 111 Cost.Deve, però, segnalarsi Sez. 3, n. 798 (Rv. 624842), est. Trifone, secondo cui, ove soltanto nella comparsa conclusionale la controparte lamenti il difetto del potere rappresentativo in capo alla persona che, per conto di una società di capitali, ha conferito il mandato alle liti, quest'ultima può legittimamente indicare la fonte del proprio potere di rappresentanza nella memoria di replica ed allegarvi i documenti giustificativi. In pratica, nelle due pronunce indicate, si sono assunte due posizioni non coincidenti sulla contestazione tardiva, avvenuta in comparsa conclusionale, che, nel primo caso, è stata ritenuta irrilevante ai fini della delimitazione del thema probandum, mentre, nel secondo caso, rilevante, ma tale da giustificare l'esercizio tardivo, da parte del contestato, dei poteri istruttori. La Corte ha, quindi, assunto un atteggiamento diverso in presenza di analoghe condotte processuali, consistenti nella tardiva contestazione, una volta ritenendo tale facoltà processuale preclusa e irrilevante, un'altra volta assumendola a causa di rimessione in termini per la controparte.

Chiarificatrice sul tema appare Sez. 2, n. 26859, rel. Manna (non ancora massimata), che, sebbene abbia trovato occasione in un procedimento dinanzi al giudice di pace, è riferibile al processo in generale. In primo luogo, la sentenza ha individuato la diversa portata dei principî generali della non contestazione e di preclusione, sottolineando che, mentre quest'ultimo è stato elaborato per selezionare le facoltà processuali esercitabili nel processo, il primo, invece, per impedire l'applicabilità della regola di giudizio ex art. 2697 cod. civ. in presenza di un fatto che, sebbene non provato, sia pacifico. Ha, inoltre, definitivamente superato il risalente orientamento secondo cui la parte può sempre introdurre nuove difese nel corso del processo, sostenuto in base all'assunto secondo cui tutto ciò che non ricade nel divieto di cui all'art. 345 cod. proc. civ. sarebbe consentito in appello, ed ha individuato un'area comune tra non contestazione e preclusione o più precisamente "un luogo processuale" in cui i due principî si incrociano, che è quello dell'esito della trattazione. La conclusione raggiunta è, pertanto, la seguente: all'esito della trattazione, si cristallizzano in modo definitivo il thema decidendum ed il thema probandum, per cui matura anche una preclusione relativamente alla contestazione, che non consente alla parte, contro cui si è formata, proporre una versione alternativa ed incompatibile con la precedente narrazione, determinando un'inammissibile regressione dello stato del processo, incompatibile con la perfetta sequenzialità degli oneri asseritivi, contestativi e probatori, che non può essere alterata o invertita, con riapertura della trattazione dopo l'istruttoria. La regola enunciata in questa sentenza di fine anno è, quindi, quella della inammissibilità in appello della tardiva contestazione o della revoca della non contestazione, nel caso di specie, avente ad oggetto la titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio.

Come sottolineato da Sez. 6-1, n. 20870 (Rv. 627761), est. Macioce, l'obbligo di contestazione specifica, che deve riguardare i fatti del processo e non la determinazione della loro dimensione giuridica, sorge a fronte della mera allegazione dei fatti addotti dall'attore a sostegno della sua pretesa, a prescindere dalla produzione della documentazione dei relativi presupposti soggettivi, ma la parte ne è onerata solo per i fatti noti, non anche per i fatti ad essa ignoti, secondo quanto chiarito da Sez. 3, n. 3576 (Rv. 625006), est. Amatucci.

Resta confermato, da Sez. 3, n. 14860 (Rv. 626849), est. Frasca, che alla contumacia ex art. 290 ss. cod. proc. civ. non solo non può attribuirsi il significato della mancata contestazione, ma neppure del comportamento valutabile ai sensi dell'art. 116, primo comma, cod. proc. civ.

Con riferimento, invece, alle istanze istruttorie rigorosa appare la posizione assunta da Sez. 3, n. 12119 (Rv. 626480), est. Vincenti, che, sebbene riferita al precedente regime processuale, può proiettarsi in quello attuale: si è ritenuto che, ai sensi dell'art. 184 cod. proc. civ., nel testo anteriore a quello vigente, il momento in cui scatta per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie è quello dell'adozione dell'ordinanza di ammissione delle prove, ovvero, nel caso in cui il giudice, su istanza di parte, abbia rinviato tale adempimento ad altra udienza, dello spirare di un duplice termine, il primo concesso per la produzione dei nuovi mezzi di prova e l'indicazione dei documenti idonei a dimostrare l'esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda attorea e delle eccezioni sollevate dal convenuto, il secondo previsto, invece, per l'indicazione della (eventuale) "prova contraria", da identificarsi nella semplice "controprova" rispetto alle richieste probatorie ed al deposito di documenti compiuto nel primo termine, mentre già nelprimo termine la parte interessata ha l'onere di richiedere prova contraria in relazione ai fatti allegati dalla controparte e definitivamente fissati nel thema decidendum, ai sensi dell'art. 183 cod. proc. civ.

3. La chiamata in causa del terzo.

In merito alla chiamata in causa del terzo, va ricordato che, come rilevato da Sez. 6-3, n. 10579, (Rv. 626173), est. Frasca, in base al disposto dell'art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., il convenuto che intenda chiamare in giudizio un terzo ha l'onere di inserire nella comparsa di risposta sia la formulazione della chiamata sia l'istanza di spostamento della prima udienza, sicché incorre nella decadenza prevista dalla medesima disposizione anche quando provveda solo al primo di tali adempimenti, ma non al secondo. Nella stessa sentenza si legge che, tuttavia, l'irritualità della chiamata in causa per mancata osservanza delle prescrizioni stabilite dall'art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., non può essere eccepita dal terzo chiamato, che è al riguardo carente di interesse, atteso che il suo interesse a far valere questioni relative al rapporto processuale originario è correlato esclusivamente alla correttezza della decisione in merito o in rito su di esso e non anche alla stessa ritualità della chiamata in giudizio: secondo il ragionamento svolto, difatti, la disciplina sulle modalità e dei limiti della chiamata in causa del terzo è tesa a tutelare l'interesse della originaria controparte a limitare l'estensione soggettiva del rapporto processuale, che può determinare una maggiore complessità ed un conseguente allungamento del processo, ma non anche l'interesse del terzo, per il quale è indifferente essere coinvolto in quello o in altro giudizio.

Sez. 3, n. 5400 (Rv. 625380), est. Cirillo, ha sottolineato che diversamente dall'ipotesi in cui il convenuto in giudizio chiami in causa un terzo, indicandolo come il soggetto tenuto a rispondere della pretesa dell'attore, ipotesi in cui la domanda dell'attore si estende automaticamente al terzo, pur in mancanza di apposita istanza, dovendosi individuare il vero responsabile nel quadro di un rapporto oggettivamente unitario, nell'ipotesi della chiamata del terzo in garanzia, la predetta estensione automatica non si verifica, in ragione dell'autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorché confluiti in un unico processo.

In caso di chiamata iussu iudicis, determinata dalle difese del convenuto, che abbia contestato la propria legittimazione passiva, indicando il terzo come responsabile della pretesa fatta valere in giudizio, Sez. 2, n. 315 (Rv. 624589), est. Giusti, ha chiarito che, nonostante non si ricada nell'ambito applicativo dell'art. 102 cod. proc. civ., trattandosi di un adempimento rispondente solo ad esigenze di economia processuale, ove la notifica al terzo sia nulla, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, restando sanata detta nullità soltanto dall'ordine giudiziale di rinnovazione o dalla spontanea reiterazione, ad opera della parte interessata, della notificazione della citazione al terzo, senza che possa, invece, assumere rilievo sanante l'eventuale notifica al terzo stesso di un ricorso per riassunzione conseguente all'interruzione del processo pendente tra le parti originarie, in quanto atto mancante degli elementi essenziali della domanda estesa nei confronti di quello.

4. Sospensione, interruzione ed estinzione.

Sul processo possono incidere una serie di vicende, bloccandone, a volte temporaneamente, a volte definitivamente, l'ordinaria prosecuzione.

Rientra nell'assoluta ordinarietà la sospensione feriale. In proposito, Sez. 3, n. 8113 (Rv. 625644), est. Ambrosio, ha precisato che qualora si trovino cumulate fra loro, per ragioni di connessione, due o più controversie, soltanto una delle quali sia soggetta al regime della sospensione feriale dei termini, la decisione che intervenga su di esse senza sciogliere tale connessione è soggetta all'applicazione della menzionata sospensione, non essendo concepibile l'operare di due regimi distinti, né il non operare della sospensione per tutta la controversia, potendo l'impugnazione coinvolgere la decisione con riferimento ad entrambe le domande connesse. Sez. 3, n. 23410 (in corso di massimazione), est. Amendola, nell'occuparsi di un giudizio di impugnazione, concernente solo il regime delle spese di causa, ha confermato l'inapplicabilità della sospensione feriale alle cause di opposizione all'esecuzione ed agli atti esecutivi.

Relativamente alla sospensione necessaria, che è, invece, vicenda straordinaria, prevista dall'art. 295 cod. proc. civ., ai sensi del quale il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa, Sez. Un., n. 12901, (Rv. 626612), est. Segreto, ne hanno proclamato l'ammissibilità, pur mancandone la corrispondente previsione nel vigente testo della disposizione processuale, in pendenza di un giudizio amministrativo tra le stesse parti, la cui decisione sia ritenuta pregiudiziale, a condizione che sussista l'esigenza di evitare un conflitto tra giudicati e non anche un mero contrasto tra gli effetti pratici delle rispettive pronunce, come può accadere ove il giudice amministrativo sia chiamato a definire questioni di diritto soggettivo in sede di giurisdizione esclusiva e non anche qualora, innanzi allo stesso, sia impugnato un provvedimento incidente su interessi legittimi, in quanto, in tale ultima ipotesi, il giudice ordinario può disapplicare il provvedimento amministrativo nell'ambito del giudizio a tutela di diritti soggettivi.

Come chiarito da Sez. 6-1, ord., n. 21794 (Rv. 627782), rel. Bisogni, la sospensione necessaria del processo può essere disposta, a norma dell'art. 295 cod. proc. civ., quando la decisione del medesimo dipenda dall'esito di altra causa, nel senso che questo abbia portata pregiudiziale in senso stretto, e cioè vincolante, con effetto di giudicato, all'interno della causa pregiudicata, ovvero che una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo, o comunque elemento fondante della fattispecie di altra situazione sostanziale, sicché occorra garantire uniformità di giudicati, essendo la decisione del processo principale idonea a definire, in tutto o in parte, il thema decidendum del processo pregiudicato. L'ambito di applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ. è, tuttavia, segnato dalla contemporanea pendenza in primo grado della causa pregiudicante e di quella pregiudicata, sicché cessa quante volte sulla causa pregiudicante sia intervenuta una sentenza: orientamento confermato da Sez. 6-3, n. 21505 (Rv. 628096), est. Barreca, la quale, in linea con l'intervento delle Sezioni unite del 2012, ha affermato che, salvi i casi in cui la sospensione necessaria del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica sino al passaggio in giudicato della sentenza della causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell'art. 337 cod. proc. civ. e non anche dell'art. 295 cod. proc. civ.

Numerosi sono stati i casi in cui si è verificata la sussistenza o meno del rapporto di pregiudizialità necessaria. Più precisamente il rapporto di pregiudizialità giuridica, necessario ai fini dell'art. 295 cod. proc. civ., è stato escluso:

da Sez. Un., n. 1521 (Rv. 624794), est. Piccinini, tra concordato preventivo e fallimento, i cui rapporti si atteggiano piuttosto in termini di consequenzialità eventuale del fallimento, all'esito negativo della pronuncia di concordato, ed in termini di assorbimento dei vizi del provvedimento di rigetto in motivi di impugnazione del successivo fallimento, stante l'avvenuta espunzione dal testo dell'art. 160 legge fall., come riformulato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, dell'inciso che prevedeva la possibilità per l'imprenditore di proporre il concordato preventivo "fino a che il suo fallimento non è dichiarato", ed il conseguente superamento del principio di prevenzione che correlava le due procedure, posponendo quella di fallimento al previo esaurimento della soluzione concordata della crisi dell'impresa, non desumibile aliunde in via interpretativa;

da Sez. 2, n. 1739 (Rv. 624976), est. Carrato, tra due processi di divisione, pendenti (in tutto o in parte) tra gli stessi eredi o condomini, ma riguardanti masse oggettivamente diverse, in quanto appartenenti a comunioni fondate su distinte situazioni giuridiche;

da Sez. 1, ord., n. 4946 (Rv. 625946), rel. De Chiara, fra il giudizio vertente sulla validità dell'atto sanato (nella specie, deliberazione di aumento del capitale sociale) e il giudizio relativo alla validità dell'atto sanante (nella specie, deliberazione sostitutiva ex art. 2377, comma ottavo, cod. civ.), dal momento che il primo non ha ad oggetto un antecedente logico rispetto al secondo, ma è semmai quest'ultimo un antecedente logico del primo giudizio;

da Sez. 3, n. 9714 (Rv. 625988), est. Scrima, tra una controversia relativa ad uno sfratto per finita locazione ed un'altra attinente all'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di compravendita stipulato tra locatore e conduttore, in quanto, attesa la natura costitutiva della sentenza che dispone il trasferimento coattivo, destinata a produrre effetti solo alla data del passaggio in giudicato della relativa pronuncia, permangono, nelle more del giudizio ex art. 2932 cod. civ., gli obblighi derivanti dal contratto di locazione;

da Sez. 6-2, ord., n. 8345 (Rv. 625581), rel. Giusti, tra l'azione di riduzione esperita dal legittimario pretermesso e la domanda di condanna proposta dall'erede testamentario universale nei confronti del primo al fine di ottenere la restituzione di beni facenti parte dell'asse ereditario, in quanto le disposizioni lesive della legittima conservano la loro efficacia fino all'eventuale accoglimento della domanda di riduzione e non si può, pertanto, verificare alcun contrasto di giudicati tra le distinte cause;

da Sez. 3, n. 11573 (Rv. 626411), est. Carluccio, e Sez. 1, n. 17257 (Rv. 627499), est. Acierno, tra la controversia avente ad oggetto l'accertamento del credito ed il giudizio promosso ex art. 2901 cod. civ., in quanto anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare l'insorgere della qualità di creditore che abilita all'esperimento dell'azione revocatoria, per cui, da un lato, la definizione del giudizio sull'accertamento del credito non costituisce l'indispensabile antecedente logico-giuridico della pronuncia sulla esperita revocatoria e, dall'altro lato, non vi è alcun rischio di un conflitto di giudicati tra la sentenza che, a tutela dell'allegato credito litigioso, accertato solo incidenter tantum, dichiari inefficace l'atto di disposizione e la sentenza negativa sull'esistenza del credito.

Occorre, inoltre, ricordare Sez. 6-1, ord., n. 9608 (Rv. 626309), rel. Campanile, secondo cui non si può disporre la sospensione, ai sensi dell'art. 1243, secondo comma, cod. civ., che presuppone l'accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la compensazione giudiziale è invocata, in attesa dell'accertamento di un credito in altro giudizio, così come non può invocarsi la sospensione contemplata, in via generale, dagli artt. 295 o 337, secondo comma, cod. proc. civ., in considerazione della prevalenza della disciplina speciale.

Pur negando l'applicabilità dell'art. 295 cod. proc. civ., hanno ravvisato i presupposti della sospensione facoltativa ex art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., ai sensi del quale quando l'autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale processo è impugnato:

Sez. 6-3, ord. n. 13035 (Rv. 626359), rel. Barreca, qualora penda, in sede di legittimità, il giudizio sulla usucapione di alcuni immobili, e contemporaneamente, sia in corso, in primo grado e tra le stesse parti, un altro procedimento sulla detenzione senza titolo ed occupazione abusiva dei medesimi cespiti;

Sez. 6-3, ord. n. 375 (Rv. 624612), rel. Giacalone, qualora penda in sede di legittimità il giudizio sulla risoluzione di un contratto di locazione e, contemporaneamente, penda in primo grado un altro giudizio sulla nullità e sostituzione ex lege del medesimo contratto.

Ad ogni modo, anche ove fosse stato erroneamente ravvisato il rapporto di pregiudizialità tra due cause e disposta la sospensione necessaria, come evidenziato da Sez. Un., n. 7932 (Rv. 625633), est. Vivaldi, la decisione del processo ritenuto pregiudicante con sentenza passata in giudicato determina la sopravvenuta carenza di interesse delle parti in ordine alla decisione sulla questione relativa alla sospensione e, quindi, la cessazione della materia del contendere relativamente al regolamento di competenza proposto per contestare la sussistenza dei presupposti dell'art. 295 cod. proc. civ.

Per mera completezza va ricordato, quanto al potere di sospensione, riconducibile all'organizzazione e gestione del processo, che, secondo Sez. 6-1, ord., n. 16198 (Rv. 626868), rel. Salmè, nel quadro della disciplina di cui all'art. 42 cod. proc. civ. – come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 – non vi è più spazio per una discrezionale e non sindacabile facoltà di sospensione del processo esercitata dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale, derivandone, così, l'impugnabilità, ai sensi del citato art. 42 cod. proc. civ., di ogni provvedimento di sospensione del processo, quale che ne sia la motivazione, e la conseguente fondatezza del ricorso ogni qualvolta non si sia in presenza di un caso di sospensione espressamente prevista dalla legge o rientrante nell'ipotesi prevista dall'art. 34: in particolare è stata esclusa la possibilità di sospendere il giudizio in relazione alla pendenza di questione di costituzionalità sollevata in altro processo, dovendosi, in caso di rilevanza della questione, investire la Corte costituzionale e successivamente procedere alla sospensione del giudizio. Tuttavia, Sez. 1 n. 7580 (Rv. 625706), est. Bernabai, ha ritenuto che, in caso di avvenuta, sia pure illegittima, sospensione per la pendenza di un giudizio di legittimità costituzionale sulla disciplina applicabile nella causa a seguito di questione sollevata da altro giudice, il termine per la riassunzione decorre dalla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale sulla Gazzetta ufficiale – che integra un idoneo sistema di pubblicità legale per la conoscenza delle sorti del processo costituzionale – e non dalla notificazione operata dalla parte interessata alle controparti a fini sollecitatori, dovendosi ritenere, da un lato, che la sospensione così effettuata vada ricondotta all'art. 296 cod. proc. civ., con necessità di provvedere agli adempimenti per la prosecuzione del processo nei modi e termini previsti dall'art. 297 cod. proc. civ., e, dall'altro, che un meccanismo di riassunzione rimesso alla mera volontà delle parti non sia compatibile con il principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., in quanto suscettibile di provocare una quiescenza sine die del processo.

Come rilevato da Sez. 2, n. 3718 (Rv. 624941), est. Bertuzzi, conformemente ad un più risalente orientamento, durante la sospensione del processo, secondo l'art. 298, primo comma, cod. proc. civ., non possono essere compiuti atti del procedimento, con la conseguenza che è inefficace, in quanto funzionalmente inidonea a provocare la riattivazione del processo, nonché causa di nullità per derivazione di tutti gli eventuali atti successivi, l'istanza di riassunzione proposta prima della cessazione della causa di sospensione, ovvero prima del passaggio in giudicato della sentenza che abbia definito la controversia pregiudiziale, senza che rilevi, al fine del superamento di detta sanzione, il sopravvenuto venir meno della medesima causa. Tuttavia va ricordato che, secondo Sez. Un., ord. n. 21109 (Rv. 627417), rel. Chiarini, lo stato di sospensione del processo (nella specie, per effetto di rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea di una questione interpretativa di norme comunitarie) non preclude la proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, perché non esclude la pendenza del giudizio e, mentre impedisce il compimento di atti propri di quest'ultimo, non è di ostacolo al promovimento di un'autonoma fase processuale diretta alla verifica del potere giurisdizionale del giudice adìto.

Con riguardo ad altra vicenda, che può determinare uno stallo del processo, e, cioè, l'interruzione, gli interventi riscontrati riguardano l'individuazione del dies a quo nel termine per la riassunzione di cui all'art. 305 cod. proc. civ., abbreviato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, per i processi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore, a tre mesi: così Sez. 3, n. 773 (Rv. 625137), est. D'Alessandro, in caso di morte o perdita della capacità processuale della parte costituita, dichiarata in udienza o notificata alle altre parti dal suo procuratore, che produce, ai sensi dell'art. 300, comma secondo, cod. proc. civ., l'effetto automatico dell'interruzione dal momento di tale dichiarazione o notificazione, ha escluso rilevanza, ai fini del decorso del termine, al momento in cui il provvedimento dichiarativo dell'interruzione sia adottato o conosciuto, attribuendone esclusivamente al momento della dichiarazione o della notificazione dell'evento alle altre parti, mentre Sez. L, n. 5650 (Rv. 625604), est. Pagetta, in caso di interruzione di diritto del processo, determinata dall'apertura del fallimento, ai sensi dell'art. 43, comma terzo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, aggiunto dall'art. 41 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5,ha individuato il dies a quo al fine del decorso del termine per la riassunzione non nella mera conoscenza, da parte del curatore fallimentare, della dichiarazione di fallimento, ma nella conoscenza "legale" dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare, da acquisirsi per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento che determina l'interruzione del processo, assistita da fede privilegiata.

Sez. 6-1, ord. 21869 (Rv. 627694), rel. Bernabai, ha confermato l'orientamento consolidato secondo cui la riassunzione di un processo interrotto è tempestiva ed integralmente perfezionata quando il corrispondente ricorso, recante gli elementi sufficienti ad individuare il giudizio che si intende far proseguire, sia stato depositato in cancelleria nel termine previsto dall'art. 305 cod. proc. civ. sicché, ove la relativa notifica, unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, sia viziata o inesistente, o comunque non sia stata correttamente compiuta per erronea od incerta individuazione del suo destinatario, il giudice deve ordinarne la rinnovazione, fissandone il nuovo termine, e non può dichiarare l'estinzione del processo.

Configura, invece, una vicenda estintiva del processo civile il trasferimento dell'azione civile nel processo penale, regolato dall'art. 75 cod. proc. pen. vicenda riconducibile, secondo Sez. Un., n. 8353, (Rv. 625739), est. D'Alessandro, al fenomeno della litispendenza, e non a quello disciplinato dall'art. 306 cod. proc. civ., in quanto prevista al fine di evitare contrasti di giudicati, con la conseguenza che è rilevabile anche d'ufficio, ma può essere dichiarata solo se, nel momento in cui il giudice civile provvede in tal senso, persista la situazione di litispendenza e non vi sia stata pronuncia sull'azione civile in sede penale. Come ribadito da Sez. 6-3, n. 17608 (Rv. 627664), est. Vivaldi, però, l'art. 75, comma 3, cod. proc. pen. non trova applicazione se il danneggiato agisca in sede civile non solo contro l'imputato, ma anche contro altri coobbligati al risarcimento (nella specie, trattandosi di danni da sinistro stradale, proprietario del veicolo investitore e società assicuratrice dello stesso).

  • giudizio
  • giurisdizione civile
  • testimonianza
  • consulenza e perizia
  • prova

CAPITOLO XXVII

LE PROVE

(di Luciano Ciafardini )

Sommario

1 Onere della prova e principio di non contestazione. - 2 Il notorio. - 3 I fatti negativi. - 4 Il principio di acquisizione probatoria e disponibilità delle prove. - 5 Prove raccolte in altri giudizi. - 6 La prova documentale. - 6.1 L'ingresso della prova documentale nel giudizio. - 6.2 L'atto pubblico. - 6.3 Il valore probatorio delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà. - 6.4 La scrittura privata. - 6.5 Le scritture contabili. - 7 Disconoscimento, verificazione e querela di falso. - 7.1 Il disconoscimento di conformità all'originale. - 7.2 La querela di falso. - 7.3 Il disconoscimento della scrittura privata. - 8 La prova testimoniale. - 8.1 L'incapacità a testimoniare. - 8.1.a Regime processuale. - 8.1.b Casistica. - 8.2 Le limitazioni all'ammissibilità della prova testimoniale. - 8.3 La testimonianza de relato. - 8.4 La decadenza dalla prova testimoniale ammessa. - 8.5 Le sommarie informazioni assunte in fase cautelare. - 9 La prova per presunzioni. - 9.1 Profili generali. - 9.2 Casistica più rilevante. - 10 La confessione. - 10.1 Profili generali dell'istituto. - 10.2 Casistica. - 11 L'interrogatorio formale. - 12 Il giuramento. - 13 L'ordine di esibizione. - 14 La richiesta di informazioni alla P.A. - 15 La consulenza tecnica. - 15.1 La consulenza tecnica di ufficio. Profili generali. - 15.2 La consulenza tecnica di ufficio. Il regime delle nullità. - 15.3 La consulenza tecnica di parte. - 16 La prova delegata. - 17 Rogatorie all'estero. - 18 Il rendimento dei conti.

1. Onere della prova e principio di non contestazione.

La legge 18 giugno 2009, n. 69, nel riformulare l'art. 115 cod. proc. civ., ha conferito veste normativa al principio di non contestazione, autorizzando il giudice a porre a fondamento della decisione anche «i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita», superando così quelle opinioni dottrinarie e giurisprudenziali per le quali non poteva considerarsi sussistente, nell'ordinamento processuale, un onere di contestazione specifica di ogni fatto dedotto ex adverso, escludendosi dunque conseguenze sul piano probatorio in caso di mancata confutazione, in mancanza di esplicita ammissione e in assenza di incompatibilità logica tra la difesa approntata e il disconoscimento dei fatti addotti dalla controparte.

Con la novella del 2009, dunque, viene conferita dignità normativa alla tesi, già emersa nella giurisprudenza più evoluta, secondo cui il fatto non contestato (o pacifico) non abbisogna di prova, secondo le regole di riparto del relativo onere dettate dall'art. 2967 cod. civ., e ciò sia per il sistema delle preclusioni, il quale comporta per le parti l'onere di collaborare al fine di circoscrivere la materia controversa, e sia per il principio di economia, che deve informare il processo, alla stregua dell'art. 111 Cost. (Sez.3, n. 8213, Rv. 625786, est. Carleo).

Si è tuttavia chiarito che l'onere di contestazione – la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova – sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per i fatti ad essa ignoti (Sez. 3, n. 3576, Rv. 625006, est. Amatucci).

Del principio di non contestazione constano alcune interessanti applicazioni della giurisprudenza di legittimità nel corso del 2013.

In un caso (Sez.3, n. 15658, Rv. 626904, est. Armano), si è chiarito che anche in materia di mediazione la non contestazione del convenuto costituisce un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente (nella specie si trattava della iscrizione del mediatore nel relativo albo professionale, fatto che era stato contestato – al fine di far valere la nullità del contratto e paralizzare la pretesa del mediatore al pagamento della provvigione ex art. 6 della legge 2 febbraio 1989, n. 39 – soltanto nella comparsa conclusionale d'appello, con conseguente esonero del giudice da qualsiasi verifica probatoria in ordine alla fondatezza dell'eccezione così tardivamente proposta).

In altra occasione (Sez.3, n. 13206, Rv. 626773, est. Cirillo) si è affermato che l'operatività del principio di non contestazione delle risultanze di un documento prodotto da una delle parti del giudizio presuppone un requisito minimo, costituito dalla necessità che del documento stesso sia pacifica l'esistenza dal punto di vista giuridico (nel caso di specie, essendo state prodotte in giudizio fotocopie incomplete, prive di sottoscrizione, di polizze assicurative, delle quali risultava pertanto impossibile verificare la validità, si è escluso che tale produzione documentale fosse idonea a consentire l'operatività del principio di non contestazione).

È appena il caso di ricordare, in questa sede, che, come ricordato da Sez.3, n. 14860 (Rv. 626849), est. Frasca, la disciplina della contumacia ex artt. 290 ss. cod. proc. civ. non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall'onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell'art. 116, primo comma, cod. proc. civ., per trarne argomenti di prova in danno del contumace.Per altre considerazioni in merito al principio, cfr. cap. XXVI, § 2.

2. Il notorio.

Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio) ex art. 115, secondo comma, cod. proc. civ., attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo.

La Corte ha avuto occasione di riaffermare che il fatto notorio, che dispensa le parti dal fornire la prova, deve essere inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito nella comune esperienza, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, non quale evento o situazione soltanto probabile (Sez.2, n. 16881, Rv. 627086,est. Bertuzzi).

Le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, infatti, derogando al principio dispositivo ed a quello del contraddittorio e dando luogo a prove non fornite dalle parti e relative a fatti da esse non vagliati e controllati, deve essere inteso in senso rigoroso, esulando dal relativo ambito l'evento o la situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice (la cd. scienza privata). Conseguentemente, per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo (Sez.6-5, ord., n. 2808, Rv. 625457,rel. Di Blasi). Sul notorio, cfr. pure il cap. XXV, § 6.4.

3. I fatti negativi.

Ponendosi nel solco ermeneutico secondo cui il brocardo negativa non sunt probanda deve essere interpretato in conformità alla generale regola del riparto dell'onus probandi ex art. 2697 cod. civ. – nel senso che il carattere negativo dei fatti da provare non inverte il relativo onere ma impone di fornire la prova degli stessi in via indiretta, in modo da rispettare sia il principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova, riconducibile all'art. 24 Cost., sia il divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio – Sez.3, n. 14854 (Rv. 626686), est. Giacalone, e Sez. 3, n. 7265 (Rv. 625582), est. Ambrosio, hanno avuto modo di ribadire che l'onere della prova gravante su chi agisce o resiste in giudizio non subisce deroghe nemmeno quando abbia ad oggetto fatti negativi e tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.

4. Il principio di acquisizione probatoria e disponibilità delle prove.

Il principio generale di riparto dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 cod. civ. deve essere contemperato con il principio di acquisizione probatoria, che comporta l'impossibilità per le parti di disporre degli effetti delle prove ormai assunte, le quali possono giovare o nuocere all'una o all'altra parte indipendentemente da chi le abbia dedotte, sempre che non siano state ammesse in violazione di norme di legge.

Secondo Sez. L, n. 21909 (Rv. 627711), est. Tria, il principio di acquisizione processuale trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo, con la conseguenza che anche il principio dispositivo delle prove – in forza del quale ogni parte è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione del medesimo – va inteso in modo differente, traducendosi nel dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito – da qualunque parte processuale provenga – con una valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle norme riguardanti l'acquisizione della prova.

La medesima sentenza ha altresì ribadito (Rv. 627710) che il principio di acquisizione probatoria trova riscontro in disposizioni del codice di rito, quale l'art. 245, secondo comma, cod. proc. civ., secondo cui«la rinuncia fatta da una parte all'audizione dei testimoni da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente», sicché, nel rito del lavoro, in assenza di siffatta rinuncia, il giudice, anche in appello, non può non escutere i testi non nuovi ma già ammessi nel giudizio di primo grado su istanza di una parte (e per i quali non siano intervenute decadenze) di cui sia stata richiesta l'audizione dalla controparte, senza che assuma rilievo che quest'ultima sia stata dichiarata decaduta dalla propria prova testimoniale.

5. Prove raccolte in altri giudizi.

Nutrito si presenta il gruppo di sentenze che si sono occupate della valenza da assegnare alle prove raccolte inaltri giudizi, in particolare in quello penale, rispetto al quale si è anche indagata l'efficacia probatoria di quella peculiare modalità definitoria costituita dall'applicazione della pena su richiesta (cd. "patteggiamento"), disciplinata dagli artt. 444 e ss. cod. proc. pen.

In termini generali,e con riferimento alle prove acquisite in altri giudizi civili, secondo Sez. 3, n. 11555 (Rv. 626416), est. Carluccio, il giudice di merito può utilizzare per la formazione del proprio convincimento anche le prove raccolte in un diverso processo tra le parti o altre parti, sempre che siano acquisite al giudizio della cui cognizione è investito, sicché non è deducibile in sede di legittimità la violazione del contraddittorio rispetto al processo di provenienza, per farne ridondare la nullità nel processo di approdo, senza dedurre vizi del contraddittorio in quest'ultimo processo, poiché a rilevare è l'effettiva esplicazione del contraddittorio nel processo nel quale la prova viene utilizzata.

Con riferimento alle prove acquisite nel processo penale, Sez. L, n. 2168 (Rv. 624889), est. Blasutto, ha affermato il principio per cui il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale (nella specie si trattava di dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali), e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.

La sentenza penale di applicazione della pena ai sensi degli artt. 444 e 445 cod. proc. pen. – pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile – contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare (Sez.3, n. 9456, Rv. 625807, est. Amatucci).

Si richiede, tuttavia, come chiarito da Sez. 5, n. 6918 (Rv. 625847), est. Valitutti, sebbene con riferimento al processo tributario, ma con affermazione di principio di carattere generale, che il giudice sottoponga tali prove ad una propria ed autonoma valutazione.

Nel confermare un indirizzo che può definirsi consolidato, Sez. 3, n. 15112 (Rv. 626948), est. De Stefano, in applicazione del principio di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, ha ribadito che il giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in cosa giudicata e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del contenuto del materiale probatorio, ovvero ricavando tali elementi e circostanze dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico, escludendosi, peraltro, l'esistenza di un vero e proprio obbligo per il giudice civile – in presenza di un giudicato penale – di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale.

In applicazione dei su esposti principî ad una controversia avente ad oggetto l'impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata nei confronti di un avvocato, Sez. Un., n. 21591 (Rv. 627453), est. Mammone, ha affermato che la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce un importante elemento di prova per il giudice, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione, sicché la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice disciplinare dall'onere della prova.

6. La prova documentale.

6.1. L'ingresso della prova documentale nel giudizio.

Sez. 2, n. 7466 (Rv. 625638), est. Manna, ha ricordato che le prove precostituite, al cui genus vanno ascritti appunto i documenti, entrano nel giudizio attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un'operazione di semplice logica giuridica, essendo tali attività contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio, che vi presiedono, senza che abbia rilievo una valutazione in termini di utilizzabilità, categoria propria del rito penale ed ignota al processo civile.

6.2. L'atto pubblico.

Ai sensi dell'art. 2699 cod. civ. l'atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato.

È opinione del tutto consolidata, e ribadita da Sez. 1, n. 11012 (Rv. 626337), est. Campanile, che l'efficacia probatoria privilegiata dell'atto pubblico è limitata al piano estrinseco, ossia ai fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle dichiarazioni, senza implicare l'intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all'effettiva intenzione delle parti.

In applicazione di tale principio ad un campo, quello del procedimento di opposizione ad ordinanza ingiunzione relativa al pagamento di una sanzione amministrativa, in cui si registra un alto tasso di conflittualità, Sez. 2, n. 3705 (Rv. 624937), est. Petitti, ha specificato che sono ammesse la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto, inerenti alla violazione, che non siano attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto alle quali l'atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile contraddittorietà oggettiva, mentre sono riservati al giudizio di querela di falso, nel quale non sussistono limiti di prova e che è diretto anche a verificare la correttezza dell'operato del pubblico ufficiale, la proposizione e l'esame di ogni questione concernente l'alterazione nel verbale della realtà degli accadimenti e dell'effettivo svolgersi dei fatti, pur quando si deducano errori od omissioni di natura percettiva da parte dello stesso pubblico ufficiale.

Il disposto dell'art.2700 cod. civ. non preclude l'indagine su circostanze o fatti che nello stesso atto non risultino né positivamente, né negativamente acquisiti (Sez. 2, n. 25811, Rv. 628304, est. Migliucci: nella specie, la Corte ha escluso che l'inesistenza di una tettoia potesse ritenersi provata per il sol fatto della omessa menzione della stessa in un verbale, con cui la polizia municipale aveva proceduto all'accertamento di un abuso edilizio e dalla sua sommaria descrizione, rimanendo, per contro, la valutazione di tale circostanza oggetto di libero apprezzamento da parte del giudice).

Sempre sul piano casistico, Sez.1, n. 19021 (Rv. 627372), est. Dogliotti, ha statuito che, in tema di notificazioni, la relata di notifica non fa fede fino a querela di falso circa l'attestazione che il luogo di notifica corrisponda a quello di residenza del destinatario.

Per Sez. L, n. 18163 (Rv. 627289), est. Pagetta, il carattere complesso (pubblicistico e privatistico) della figura giuridica del comandante di nave comporta che il valore di atto pubblico del giornale nautico va limitato, in conformità dell'art. 2699 cod. civ. a quanto annotato dal capitano nell'adempimento delle funzioni pubbliche di cui è investito ai sensi dell'art. 296 cod. nav., mentre alle annotazioni relative alla condotta della nave e agli eventi del viaggio va riconosciuta efficacia di scrittura privata ai sensi dell'art. 2702 cod. civ., che non vincola il giudice sulla valutazione dei fatti attestati.

6.3. Il valore probatorio delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà.

Ai sensi dell'art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, la cui falsità è penalmente sanzionata, è una dichiarazione di parte, resa fuori dal processo, su fatti rilevanti per la decisione del processo stesso, di cui, tuttavia, può essere considerata certa solo la provenienza, stante la certificazione della sua autografia.

Con l'ordinanza interlocutoria n. 10371, la Sez. 6-2, rel. Petitti,ha rilevato un contrasto relativamente alla questione della idoneità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà a provare la qualità di erede di chi tale qualità spenda come parte in giudizio, rimettendo, pertanto, gli atti alle Sezioni unite per la risoluzione della questione.

Secondo una impostazione interpretativa, nel processo civile la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà (inizialmente prevista dall'art. 4 della legge 15 del 1968 ed ora dall'art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000) e le dichiarazioni sostitutive di certificazioni (ex art. 46 del d.P.R. n. 445 del 2000), sebbene abbiano efficacia certificativa nei confronti della P.A. e in determinate attività e procedure amministrative, non hanno valore probatorio neanche indiziario, in quanto caratterizzato dal principio dell'onere della prova, tenuto conto che la parte non può derivare da proprie dichiarazioni elementi di prova a proprio favore e che solo la non contestazione o l'ammissione di controparte possono esonerare dall'onus probandi (Sez.L, n. 17358 del 2010, Rv. 614650; Sez.2, n. 6132 del 2008, Rv. 602267).

Altro indirizzo conferisce invece all'atto notorio valore indiziario. In particolare, con riferimento alla qualità di erede, tale efficacia probatoria, purnon dando luogo ad un presunzione legale, sia pure juris tantum, circa la spettanza delle indicate qualità, integrerebbe un mero indizio, che deve essere comprovato da altri elementi di giudizio (Sez.6-2, ord., n. 29830 del 2011, Rv. 620775).

Secondo altra opzione ermeneutica, va invece riconosciuto valore probatorio pieno all'autocertificazione, sicché, in tema di successioni mortis causa, la qualità di erede può essere provata, in sede processuale, anche mediante produzione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (Sez.3, n. 15803 del 2009, Rv. 608973).

6.4. La scrittura privata.

La giurisprudenza in tema di scritture private si è concentrata soprattutto sull'essenzialità del requisito della sottoscrizione, evidenziando che scritture prive della sottoscrizione non possono rientrare nel novero delle scritture private aventi valore giuridico formale e produrre, quindi, effetti sostanziali e probatori, neppure quando non ne sia stata impugnata la provenienza dalla parte cui vengono opposte. Ne consegue che la parte, contro la quale esse siano state prodotte, non ha l'onere di disconoscerne l'autenticità ai sensi dell'art. 215 cod. proc. civ., norma che si riferisce al solo riconoscimento della sottoscrizione, questa essendo, ai sensi dell'art. 2702 cod. civ., il solo elemento grafico in virtù del quale – salvi i casi diversamente regolati (artt. 2705, 2707, 2708 e 2709 cod. civ.) – la scrittura diviene riferibile al soggetto dal quale proviene e può produrre effetti a suo carico (Sez.6-2, ord., n. 3730, Rv. 625155, rel. Carrato).

Quanto alla sottoscrizione apposta non in calce al documento, bensì a margine dello stesso, essa fa presumere, in mancanza di prova contraria, l'espressione di una volontà di adesione della parte, che il giudice dovrà, se occorre, interpretare per stabilirne la portata ed i limiti in relazione alla fattispecie concreta (Sez. 2, n. 16256, Rv. 627032, est. Matera).

Quanto alle regole, fissate dall'art. 2704 cod. civ., in ordine all'accertamento della data della scrittura privata nei confronti dei terzi – che la dottrina ricostruisce in termini di fictio iuris, facendosi riferimento non al momento di formazione della scrittura ma ad un momento diverso e successivo – le Sezioni unite (Sez. Un., n. 4213, Rv. 625117, est. Piccininni) hanno avuto modo di comporre il contrasto che era insorto in ordine all'applicabilità o meno della norma al curatore fallimentare, dovendosi preliminarmente sciogliere il nodo concernente l'identificazione della sua qualità nel rapporto controverso – se in termini di parte (con conseguente applicabilità del disposto di cui all'art. 2702 cod. civ.) o di terzo – risolvendolo nel senso che, ai fini della delibazione della domanda di ammissione al passivo del fallimento proposta dal creditore, il curatore è da considerare terzo rispetto al rapporto giuridico posto a base della pretesa creditoria fatta valere con l'istanza di ammissione, conseguendone l'applicabilità della disposizione contenuta nell'art. 2704 cod. civ. e la necessità della certezza della data nelle scritture allegate come prova del credito.

6.5. Le scritture contabili.

L'art. 2710 cod. civ. conferisce efficacia probatoria tra imprenditori, per i rapporti inerenti all'esercizio dell'impresa, ai libri regolarmente tenuti.

Con l'importante sentenza già innanzi citata, le Sezioni unite – nell'affrontare la questione attinente ai limiti entro i quali il regime probatorio concernente le scritture contabili, astrattamente applicabile nei confronti di un imprenditore, possa poi trovare attuazione, ove sia successivamente intervenuto il suo fallimento, anche nei confronti del curatore – hanno definitivamente avvalorato l'indirizzo secondo cui la norma non trova applicazione nei confronti del curatore del fallimento il quale agisca non in via di successione di un rapporto precedentemente facente capo al fallito, ma nella sua funzione di gestione del patrimonio del medesimo, non potendo egli, in tale sua veste, essere annoverato tra i soggetti considerati dalla norma in questione, operante soltanto tra imprenditori che assumano la qualità di controparti nei rapporti d'impresa (Sez. Un., n. 4213, Rv. 625117, est. Piccininni).

Del tutto coerentemente rispetto a tale principio, dunque, Sez. 1, n. 11017 (Rv. 626190), est. Di Virgilio, ha escluso l'applicabilità dell'art. 2710 cod. civ. con riguardo al curatore del fallimento, il quale, agendo in revocatoria nella sua funzione di gestione del patrimonio del fallito, assume, rispetto ai rapporti tra quest'ultimo ed il creditore, la qualità di terzo; Sez. 1, n. 7285 (Rv. 626044), est. Ferro, ha concluso per l'applicabilità della norma nel caso in cui una delle parti sia stata dichiarata fallita (o insolvente), ove si tratti di provare un rapporto obbligatorio sorto anteriormente alla dichiarazione di fallimento e nel quale l'organo concorsuale sia subentrato, riguardando le prove, anche in tal caso, un rapporto sorto tra imprenditori e proseguito con le medesime regole.

Sez. 1, n. 321 (Rv. 625331), est. Scaldaferri, ha, d'altro canto, specificato che nel caso in cui il curatore fallimentare agisca quale avente causa dell'imprenditore fallito, esercitando un diritto rinvenuto nel suo patrimonio, non vi è ostacolo all'applicazione dell'art. 2709 cod. civ. – secondo cui i libri e le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l'imprenditore – essendo egli subentrato nella medesima posizione processuale e sostanziale di quest'ultimo.

Sez. 3, n. 6547 (Rv. 625359), est. Ambrosio, ha avuto occasione di affermare che il bilancio di una società di capitali regolarmente approvato, al pari dei libri e delle scritture contabili dell'impresa soggetta a registrazione, fa prova, ai sensi dell'art. 2709 cod. civ., in ordine ai debiti della società medesima, il cui apprezzamento è affidato alla libera valutazione del giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento acquisito agli atti di causa.

7. Disconoscimento, verificazione e querela di falso.

7.1. Il disconoscimento di conformità all'originale.

Ai sensi dell'art. 2719 cod. civ., le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l'originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta.

La valutazione della corrispondenza di una copia all'originale è subordinata alla produzione di quest'ultimo o alla dimostrazione della sua perdita incolpevole e tale principio non può trovare eccezioni laddove il negozio, che si ponga come falsamente rappresentato dalla copia prodotta, debba assumere la forma scritta ad substantiam, pervenendosi, altrimenti, alla sostanziale vanificazione dell'imposizione di tale forma [Sez. 2, n. 21114 (Rv. 627828), est. Bianchini, che ha escluso, nel caso di specie, la possibilità di valorizzare la testimonianza del notaio che predispose l'originale].

Sez.1, n. 14416 (Rv. 626517), est. Cristiano, conformandosi a Sez.2, n.28096 del 2009 (Rv. 610586), ha statuito che l'onere di disconoscere la conformità tra l'originale di una scrittura e la copia fotostatica della stessa prodotta in giudizio, pur non implicando necessariamente l'uso di formule sacramentali, va assolto mediante una dichiarazione di chiaro e specifico contenuto che consenta di desumere da essa in modo inequivoco gli estremi della negazione della genuinità della copia, senza che possano considerarsi sufficienti, ai fini del ridimensionamento dell'efficacia probatoria, contestazioni generiche o onnicomprensive, tali da costituire null'altro che formule di mero stile.

Tuttavia, ai fini della specificità del disconoscimento della conformità con gli originali delle copie di scritture depositate dalla controparte, il riferimento operato a tutti quelli prodotti con l'atto introduttivo è sufficiente sia dal punto di vista dell'individuazione dei documenti contestati, risultando inutile la ripetizione del loro elenco, sia dal punto di vista del contenuto della contestazione stessa [Sez. 61, ord., n. 20166 (Rv. 627806), rel. De Chiara].

7.2. La querela di falso.

La querela di falso può essere proposta sia in via principale sia in via incidentale (introducendo in un processo pendente una sorta di subprocedimento incidentale di accertamento della falsità di un documento prodotto da una delle parti a fini di prova) e, in entrambi i casi, lo scopo perseguito è quello di privare il documento dell'efficacia probatoria qualificata che gli è attribuita dalla legge.

Circa le modalità di proposizione della querela di falso, Sez. 6-1, ord., n. 16674 (Rv. 627065), rel. Acierno, ha affermato che la sottoscrizione dell'atto ad opera della parte personalmente o a mezzo di procuratore speciale costituisce un requisito d'ammissibilità, che non può ritenersi soddisfatto dalla procura rilasciata al difensore per il giudizio nel quale è stato prodotto il documento di cui si vuole far dichiarare, incidentalmente, la falsità.

Diversa è la soluzione in caso di proposizione della querela invia principale, potendo tale atto essere sottoscritto anche dal solo difensore munito di procura speciale ad litem,rilasciata in calce o a margine dell'atto, perché in astratto quella procura é già idonea a conferirne il relativo potere, mentre, in concreto, la volontà della parte di proporre la domanda prevista dall'art. 221 cod. proc. civ. trova univoca espressione nel conferimento della medesima procura, quando la citazione sia diretta esclusivamente alla proposizione della querela in via principale (Sez. 2, n. 21941, Rv. 628298, est. Manna).

Sez. 6-2, ord., n. 18069 (Rv. 627309), rel. D'Ascola, ha poi precisato che la querela di falso in via incidentale non può essere proposta nella comparsa conclusionale, scritto riservato alla sola illustrazione delle difese.

Al fine dell'osservanza delle norme che prevedono l'intervento obbligatorio del P.M. nel procedimento per querela di falso a tutela di interessi generali per la pubblica fede, ai sensi dell'art. 221, terzo comma, cod. proc. civ., non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nelle udienze, né la formulazione di conclusioni, essendo sufficiente che il P.M., mediante l'invio degli atti, sia informato del giudizio e posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna [Sez. 6-1, ord., n. 22567 (Rv. 627925), rel. Acierno].

Dal punto di vista della casistica, Sez. 3, n. 2637 (Rv. 625411), est. Lanzillo, ha ammesso la proponibilità della querela di falso avverso una sentenza, purché attenga a ciò di cui la sentenza stessa fa fede quale atto pubblico, cioè alla provenienza del documento dall'organo che l'ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento (data, sottoscrizione, composizione del collegio giudicante, ecc.) e di ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza.

Secondo Sez. 2, n. 6534 (Rv. 625755), est. D'Ascola, dedotta in giudizio dal creditore la falsità materiale di una quietanza, sul presupposto che il debitore – successivamente alla sottoscrizione da parte del creditore, non disconosciuta – abbia apposto la dicitura "a saldo di ogni avere", è onere del sottoscrittore proporre querela di falso per fornire la prova dell'avvenuta contraffazione del documento ed interrompere il collegamento, quanto alla provenienza, tra dichiarazione e sottoscrizione.

Infine, Sez. 1, n. 21600 (Rv. 628047), est. Mercolino, ha consolidato l'orientamento secondo cui, nel caso di sottoscrizione di documento in bianco, colui che contesta il contenuto della scrittura è tenuto a proporre la querela di falso soltanto se assume che il riempimento sia avvenuto absque pactis, in quanto in tale ipotesi il documento esce dalla sfera di controllo del sottoscrittore completo e definitivo, sicché l'interpolazione del testo investe il modo di essere oggettivo dell'atto, tanto da realizzare una vera e propria falsità materiale, che esclude la provenienza del documento dal sottoscrittore; qualora, invece, il sottoscrittore, che si riconosce come tale, si dolga del riempimento della scrittura in modo difforme da quanto pattuito, egli ha l'onere di provare la sua eccezione di abusivo riempimento contra pacta e, quindi, di inadempimento del mandato ad scribendum in ragione della non corrispondenza tra il dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare, giacché attraverso il patto di riempimento il sottoscrittore medesimo fa preventivamente proprio il risultato espressivo prodotto dalla formula che sarà adottata dal riempitore.

7.3. Il disconoscimento della scrittura privata.

Significative differenze in ordine alla funzione, agli oneri probatori ed agli effetti, si riscontrano tra l'ipotesi prevista dall'art. 221 cod. proc. civ., che onera la parte istante della querela di falso, e quella governata dall'art. 214 (e ss.) cod. proc. civ., che pone invece a carico della parte contro cui è prodotta una scrittura di contestare l'autenticità della sottoscrizione con un tempestivo e specifico atto di disconoscimento ed a controparte l'onere di proporre l'istanza di verificazione delle scritture disconosciute. Basti pensare che la pronuncia sulla querela di falso è destinata a spiegare effetti erga omnes, rimuovendo del tutto il documento che risulti non genuino, laddove la pronuncia sull'istanza di verificazione di un documento disconosciuto produce effetti circoscritti alla singola controversia.

Stante la sostanziale diversità dei rimedi,Sez.6-2, ord., n. 13975 (Rv. 626465), rel. Giusti, conformandosi a Sez. 1, n. 27515 del 2008 (Rv. 605636), ha precisato che, nel caso in cui sia stata proposta in via principale querela di falso, non è consentito in corso di causa – nella specie, nell'atto integrativo presentato a norma dell'art. 164, comma quinto cod. proc. civ. – avanzare un'istanza di disconoscimento della scrittura, poiché la nuova domanda, ontologicamente distinta dalla prima, introducendo elementi costitutivi ed oneri per le parti ben diversi da quelli che integrano quella originariamente formulata, realizzerebbe una inammissibile mutatio libelli.

Quanto ai tempi e ai modi di esercizio del disconoscimento, l'art. 215 cod. proc. prevede che esso va essere effettuato nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. Sez. 2, n. 26641, in corso di massimazione, est. Migliucci, ha affermato che i due termini (prima udienza e prima risposta) non sono alternativamente rimessi alla volontà della parte, che ha l'onere del tempestivo disconoscimento, ma operano nel senso che il sopraggiungere del primo evita che possa successivamente essere fatto il disconoscimento entro il secondo termine. Nel caso affrontato, la prima risposta, successiva al deposito degli originali, era quella contenente le deduzioni da formulare nei termini di cui all'art. 184 cod. proc. civ., nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 35 del 2005, conv. in legge n. 80 del 2005, sicché, inserendo il disconoscimento una fase incidentale nel subprocedimento concernente le acquisizioni probatorie, nei medesimi termini la controparte era tenuta a formulare, con la prova contraria, l'eventuale istanza di verificazione della scrittura disconosciuta.

Il giudice della causa nel cui ambito sia stata prodotta una scrittura privata che venga disconosciuta dall'interessato, è funzionalmente competente per il procedimento conseguente all'istanza di verificazione della stessa scrittura, che sia stata proposta in via incidentale.

L'art. 220 cod. proc. civ. impone la decisione del collegio sull'istanza di verificazione, poiché si tratta di norma che disciplina il procedimento davanti al tribunale e pertanto regola le modalità con cui vanno esercitati i poteri decisori in quella sede, specificando che detti poteri spettano non all'istruttore, ma al collegio.

Secondo Sez. 6-3, n. 23433 (in corso di massimazione), est.Lanzillo, la competenza a decidere sull'istanza va però desunta non dall'art. 220, ma dal primo comma dell'art. 216 cod. proc. civ., laddove sottende che la decisione deve essere emessa dallo stesso giudice che è investito della causa in cui è stata chiesta la verificazione.

Ne consegue che, quando l'incidente di verificazione sia sollevato davanti al tribunale in composizione monocratica o davanti al giudice di pace, la regola di competenza resta identica, in forza dei rinvii di cui agli art. 281-bis e 311 cod. proc. civ.

Pertanto il tribunale in composizione monocratica o il giudice di pace non possono rimettere la decisione sull'incidente al tribunale in composizione collegiale, invocando l'art. 220 cod. proc. civ., poiché tale norma non esprime una regola di competenza.

8. La prova testimoniale.

La testimonianza rientra nella categoria delle prove costituende perché, a differenza delle prove precostituite (come quella documentale), si forma dinanzi al giudice chiamato a decidere la controversia. Essa deve avere ad oggetto fatti obiettivi e non già apprezzamenti personali, nel senso che il testimone non deve dare un'interpretazione del tutto soggettiva o indiretta delle circostanze di fatto ed esprimere apprezzamenti tecnici o giuridici su di esso.

Sez. 6-3, ord., n. 19485 (Rv. 627866), rel. Segreto, ha ritenuto ammissibili capitoli aventi ad oggetto la concessione di un terreno "a titolo di mezzadria", non venendo in rilievo una qualificazione giuridica, atteso che il termine "mezzadria" è utilizzato, nella comune accezione, per indicare sinteticamente il complesso di rapporti tra le parti in relazione ad un determinato terreno, e dunque un fatto storico, non diversamente dai termini "vendita" o "acquisto".

Sez. 6-1, ord. n.22100 (Rv. 627948), rel. Ragonesi, in una controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno non patrimoniale per violazione delle norme sul trattamento dei dati personali dettate dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. codice della privacy), ha ritenuto ammissibile la prova di tale danno tramite testimoni, chiamati ad attestate uno stato di sofferenza fisica o psichica (nel caso di specie, dovuta alla comunicazione di dati relativi all'appartenenza sindacale del danneggiato).

Sez. 2, n. 26058, in corso di massimazione, est. Manna, ha affermato che la prova per testimoni deve essere dedotta indicando in maniera determinata, o comunque determinabile, gli elementi identificativi del teste da interrogare, potendosi, tuttavia, ravvisare un pregiudizio alla difesa e al contraddittorio soltanto allorché la designazione incompleta di tali elementi abbia provocato in concreto l'assunzione di un soggetto realmente diverso da quello previamente individuato.

La disciplina della testimonianza in sede civile prevede espressamente, all'art. 249 cod. proc. civ., il richiamo a specifiche norme del codice di procedura penale e dispone, al comma primo, che «Si applicano all'audizione dei testimoni le disposizioni degli articoli 200, 201 e 202 del codice di procedura penale relative alla facoltà d'astensione dei testimoni».

Ha osservato Sez. L, n. 24580, in corso di massimazione, est. Marotta, che nessun riferimento espresso vi è, dunque, alla disciplina di cui agli artt. 191 e 197 cod. proc. pen., né è previsto che il testimone nel processo civile possa essere esonerato dall'obbligo di deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale (ai sensi dell'art. 198, comma 2, cod. proc. pen.), restando rilevante solo l'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, a norma dell'art. 246 cod. proc. civ., che tuttavia non può essere invocata per eccepire l'inutilizzabilità di dichiarazioni che potrebbero configurare a carico del dichiarante, e sulla base di quanto da questi riferito, ipotesi penalmente rilevanti, salvo ovviamente un problema di attendibilità del teste.

8.1. L'incapacità a testimoniare.

La testimonianza si configura come una dichiarazione di scienza resa dinanzi al giudice, nel contraddittorio tra le parti, da un soggetto per definizione estraneo alla controversia.

Secondo un consolidato orientamento, cui Sez. 3, n. 2075 (Rv. 624950), est. Vincenti, ha dato continuità, nel disporre che «non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio», l'art. 246 cod. proc. civ. si riferisce ad un interesse giuridico, personale, concreto, che legittima l'azione o l'intervento in giudizio.

8.1.a. Regime processuale.

Sez. Un., n. 21670 (Rv. 627450), est. Petitti, ha definitivamente chiarito che la nullità della testimonianza resa da persona incapace, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ., essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'assunzione della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., e che qualora detta eccezione venga respinta, l'interessato ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi altrimenti ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.

Sulla stessa lunghezza d'onda la già citata Sez. 3, n. 2075 (Rv. 624951), est. Vincenti, che ha ribadito l'onere della parte interessa di eccepire l'incapacità a testimoniare nell'immediatezza dell'assunzione della prova, non trattandosi di nullità rilevabile d'ufficio, sicché essa non può essere denunciata, per la prima volta, in sede di legittimità.

8.1.b. Casistica.

Come sempre nutrita si presenta la casistica giurisprudenziale, che si inserisce perfettamente nel solco dei precedenti arresti.

Così Sez. 3, n. 2075 (Rv. 624950), est. Vincenti ha ribadito che il lavoratore dipendente di una parte in causa non è, per ciò solo, incapace di testimoniare, né può ritenersi, per questa sola ragione, scarsamente attendibile.

Per Sez. 2, n. 9188 (Rv. 625725), est. Bertuzzi, il socio di società di capitali non è incapace a testimoniare, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ., nel giudizio promosso dalla medesima società nei confronti del proprio amministratore e di un terzo per l'annullamento di un contratto che si assume stipulato dall'amministratore in conflitto di interessi con la società da lui rappresentata, vantando lo stesso socio un interesse di mero fatto in relazione all'attività negoziale imputabile alla società, tale da escluderne la legittimazione a partecipare a detto giudizio, ed essendo diversa l'intrapresa azione di annullamento dall'azione risarcitoria individuale, a norma dell'art. 2395 cod. civ., spettante al singolo socio direttamente danneggiato dalla condotta dell'amministratore.

Sez. 3, n. 3642 (Rv. 625334), est. Armano, conformandosi a Sez. 3, n. 16541 del 2012 (Rv. 623759), ha ancora una volta affermato che la vittima di un sinistro stradale è incapace ex art. 246 cod. proc. civ. a deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando né che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento, né che il relativo credito si sia prescritto.

Secondo Sez. 2, n. 4619 (Rv. 625287), est. Nuzzo, l'aver reso testimonianza in un precedente grado del giudizio non impedisce al testimone di assumere la rappresentanza di una parte nel grado successivo, in quanto, salva la valutazione circa l'attendibilità del testimone medesimo, la procura non conferisce a quest'ultimo la qualità di parte sostanziale del processo, ma solo quella di rappresentante processuale.

Sussiste, invece, l'incapacità ex art. 246 cod. proc. civ., neiconfronti del mandatario senza rappresentanza di una delle parti,allorché la deposizione testimoniale investa proprio il negozio giuridico dal medesimo posto in essere nella suddetta qualità (Sez. 3, n. 21106, in corso di massimazione, est. Armano).

8.2. Le limitazioni all'ammissibilità della prova testimoniale.

Il bilanciamento dell'ampia libertà di apprezzamento della prova testimoniale riconosciuta al giudice è costituito dalle limitazioni, dettate dagli artt. 2721-2726 cod. civ., all'ammissibilità della prova testimoniale, specie nel caso di contrasto con risultanze documentali, e in particolare nei casi in cui un contratto esiga la forma scritta, sia essa ad probationem sia essa ad substantiam.

L'inammissibilità della prova testimoniale, ai sensi degli artt. 2721 e ss., derivando non da ragioni di ordine pubblico processuale, quanto dall'esigenza di tutelare interessi di natura privata, non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata, prima dell'ammissione del mezzo istruttorio; qualora, peraltro, nonostante l'eccezione d'inammissibilità, la prova sia stata egualmente espletata, è onere della parte interessata eccepirne la nullità, nella prima istanza o difesa successiva all'atto, o alla notizia di esso, ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., l'una eccezione, quella d'inammissibilità, non dovendo essere confusa con l'altra, quella di nullità, né potendo ad essa sovrapporsi, perché la prima eccezione opera ex ante, per impedire un atto invalido, mentre la seconda agisce ex post, per evitare che i suoi effetti si consolidino [Sez. 2, n. 21443 (Rv. 627823), est. Manna]. Nella stessa pronuncia, la S.C. ha precisato che «valutabili in senso diacronico, detti interessi possono essere apprezzati in modo differente dalla medesima parte, la quale, valutata la prova, può ritenerne vantaggioso l'esito, che per il principio acquisitivo giova o nuoce indipendentemente da chi abbia dedotto il mezzo istruttorio».

Passando alla casistica, Sez. 2, n. 15709 (Rv. 627025), est. Bursese, ha ribadito che, in tema di prelazione immobiliare, poiché la denuntiatio deve essere fatta, a pena di nullità, in forma scritta, essa non può essere provata con testimoni.

Ancora, per Sez. L, n. 1824 (Rv. 624886), est. Arienzo, poiché la forma del contratto di agenzia, essendo prevista da una fonte negoziale, deve ritenersi prescritta ad probationem, in mancanza di essa, è valida l'esecuzione volontaria del contratto, la conferma di esso e la sua ricognizione volontaria, come pure la possibilità di ricorrere alla confessione ed al giuramento, dovendosi escludere unicamente la possibilità della prova testimoniale (salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento) e di quella per presunzioni.

Per Sez. 3, n. 7122 (Rv. 625743), est. D'Alessandro, inoltre, è ammissibile la prova per testimoni dell'avvenuta consegna, da parte dall'assicuratore all'assicurato, del documento contenente la manifestazione della volontà di recedere dal contratto, non ostandovi la circostanza che il contratto di assicurazione richieda la forma scritta ad probationem.

Per Sez. 3, n. 8118 (Rv. 625721), est. Barreca, rientra nella previsione dell'art. 2723 cod. civ. – che ammette la prova per testimoni, previa valutazione discrezionale del giudice, nell'ipotesi in cui si alleghi che, dopo la formazione del documento, sia stato stipulato un patto verbale aggiunto o contrario al contenuto di esso – la pattuizione verbale modificativa della durata del contratto risultante dal documento, qualora la proroga sia convenuta verbalmente mentre il rapporto sia ancora in vita.

Con maggiore elasticità sono sempre stati applicati, storicamente, i limiti di valore dettati dall'art. 2721 cod. civ., in relazione all'irrisorietà attuale della somma indicata dalla norma.

Così, per Sez. 6-3, ord., n. 14457 (Rv. 626705), rel. Lanzillo, non integra violazione del primo comma dell'art. 2721 cod. civ. l'ammissione di prova testimoniale, sebbene il valore dell'oggetto della lite ecceda il limite previsto da tale disposizione, allorché il giudice di merito ritenga verosimile la conclusione orale del contratto, avuto riguardo – ai sensi del secondo comma del medesimo articolo – alla sua natura (nella specie, contratto di mutuo per un importo inferiore a 2.000 euro) e alla qualità delle parti (nella specie, legate da vincolo di parentela).

Nel campo delle eccezioni dettate dall'art. 2724 cod. civ. alle limitazioni probatorie testimoniali, Sez. 1, n. 18554 (Rv. 627601), est. Didone, ha affermato che per la ricorrenza della condizione dell'impossibilità morale di procurarsi la prova scritta, di cui all'art. 2724, n. 2, cod. civ., non è sufficiente una situazione di astratta influenza, di autorità o di prestigio della persona dalla quale lo scritto dovrebbe essere preteso, né di vincolo di amicizia, di parentela o di affinità di quest'ultima nei confronti della parte interessata all'acquisizione della prova, occorrendo, altresì, ulteriori speciali e particolari circostanze confluenti e concorrenti a determinarla.

8.3. La testimonianza de relato.

In generale, in materia di prova testimoniale, la valutazione del giudice di merito in ordine all'attendibilità dei testimoni escussi si sottrae al controllo di legittimità allorché sia corredata da motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa vigente in materia (Sez. 3, n. 12988, Rv. 626694, est. Carleo).

La questione si complica in tema di rilevanza probatoria delle deposizioni di persone che hanno solo una conoscenza indiretta di un fatto controverso, dovendosi distinguere i testimoni de relato in generale da quelli de relato ex parte actoris.

I primi depongono su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, sicché, sebbene la rilevanza delle loro deposizioni si presenti attenuata perché indiretta, tuttavia possono contribuire alla formazione del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffraghino la credibilità.

I secondi, invece, depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto medesimo che ha proposto il giudizio, così che la rilevanza del loro assunto è generalmente nulla, in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte del giudizio e non sul fatto oggetto dell'accertamento, che costituisce il fondamento storico della pretesa.

Tuttavia un indirizzo giurisprudenziale riconosce una certa attitudine delle testimonianze de relato ex parte actoris a determinare il convincimento del giudice, sempre ove valutate in relazione a circostanze obiettive e soggettive o ad altre risultanze probatorie che ne suffraghino il contenuto (come ribadito da Sez. 2, n. 18352, Rv. 627364, est. Nuzzo), quando la testimonianza attenga a comportamenti intimi e riservati delle parti, insuscettibili di percezione diretta dai testimoni o di indagine tecnica.

In tale alveo si inserisce Sez. 1, n. 17773 (Rv. 627404), est. Acierno, secondo cui, in tema di azione di disconoscimento di paternità, le deposizioni testimoniali che riferiscono circostanze apprese de relato, anche ex parte actoris, sono idonee ad integrare, unitamente ad altri elementi di prova indiziari valutabili ex art. 116 cod. proc. civ., il quadro probatorio utilizzabile dal giudice del merito, essendo in gioco diritti personalissimi afferenti alla sfera intima e personale.

8.4. La decadenza dalla prova testimoniale ammessa.

Sez. 3, n. 13187 (Rv. 626789), est. D'Amico, ha statuito il principio secondo cui, qualora, una volta ammessa la prova testimoniale con l'indicazione delle persone da assumere e fissata l'udienza per la loro escussione, sopravvenga il decesso di uno dei testi ammessi e la parte deducente non abbia provveduto alla sua intimazione per l'udienza di assunzione, tale parte non incorre nella decadenza prevista dal primo comma dell'art. 104 disp. att. cod. proc. civ., dovendo piuttosto trovare applicazione analogica – rispetto a questa ipotesi non disciplinata dal codice di rito – la norma contemplata nel secondo comma di detta disposizione, che consente di ritenere giustificata l'omissione e legittima il giudice a fissare, con successiva ordinanza, una nuova udienza per l'assunzione degli ulteriori testi ammessi, siccome, anche in tal caso, si impone l'esigenza di evitare la decadenza determinata da un impedimento incolpevole.

Diversa si presenta, invece, l'ipotesi (scrutinata da Sez. 3, n. 1020, Rv. 625064, est. Carluccio) della mancata comparizione in udienza di testimoni ritualmente citati dalla parte interessata, qualora il giudice non abbia esercitato il potere di ordinare una nuova intimazione o di disporne l'accompagnamento coattivo, ai sensi dell'art. 255 cod. proc. civ., in quanto in tal caso l'onere di citare i testimoni all'udienza cui il giudice abbia rinviato per l'assunzione della prova grava sulla parte interessata, a pena di decadenza, ai sensi dell'art. 104 disp. att. cod. proc. civ., non potendo giovarsi la parte del mancato esercizio di poteri discrezionali attribuiti al giudice, stante la diversa ratio alla base, da un lato, dell'art. 104 (nonché degli artt. 208 e 250 cod. proc. civ.), fondata sul principio dispositivo del processo e sul rilievo del contraddittorio con la controparte, e, dall'altro, dell'art. 255 cod. proc. civ., fondata sul dovere di testimonianza e sugli strumenti attribuiti al giudice per assicurare lo svolgimento del processo

8.5. Le sommarie informazioni assunte in fase cautelare.

Sez. 2, n. 18865 (Rv. 627850), est. Bertuzzi, ha affrontato un problema di rilevante intesse teorico, con ricadute pratiche di non poco momento, concernente il rilievo probatorio da attribuire, nel giudizio a cognizione piena in cui si controverta sull'esistenza di un diritto contrattuale, alle sommarie informazioni assunte nella precedente fase cautelare, affermando il principio secondo il quale nel giudizio di merito le dichiarazioni rese dagli informatori nella fase cautelare ante causam, pur se assunte in contraddittorio e previo impegno di dire la verità, non hanno il valore probatorio delle deposizioni testimoniali, poiché, in questo tipo di causa, a differenza che nei procedimenti possessori e nunciatori, le dichiarazioni degli informatori non vertono unicamente su situazioni di fatto, ma anche sull'esistenza del contratto, il cui accertamento incontra, nel giudizio a cognizione piena, i limiti stabiliti dagli artt. 2721 ss. cod. civ.

La pronuncia si mostra consapevole della sussistenza di un orientamento di legittimità in base al quale la sentenza che definisce il giudizio a cognizione piena può basarsi esclusivamente sugli elementi raccolti in fase di cognizione sommaria (ne è espressione, ad es., Sez. 2, n. 1386 del 2009, Rv. 606226), con l'ulteriore precisazione che le dichiarazioni rese in tale fase dai cd. informatori, se assunte in contraddittorio tra le parti e sotto il vincolo dell'impegno di dire la verità di cui all'art. 251 cod. proc. civ., hanno il valore di vere e proprie deposizioni testimoniali (in tal senso, ad esempio, Sez. 2, n. 24705 del 2006, Rv. 593758).

Tuttavia tale indirizzo giurisprudenziale si è affermato con esclusivo riferimento ai procedimenti possessori, o a quelli di nunciazione, non già nell'ambito dei procedimenti cautelari, per la ragione evidente che in tali procedimenti l'oggetto dell'accertamento giudiziale rimane sostanzialmente identico sia nella fase sommaria che in quella di merito e, soprattutto, che le dichiarazioni degli informatori vertono in questo tipo di procedimenti unicamente su situazioni di fatto, non già sull'esistenza di atti costitutivi di diritti.

Si legge nella sentenza che «affatto diversa è la situazione che si riscontra nei giudizi in cui venga dedotto un diritto contrattuale ed il fatto oggetto di prova sia, per l'appunto, l'esistenza del titolo. In tale ipotesi, infatti, l'assunzione dei testimoni nel giudizio di merito, sia esso preceduto o meno da una fase cautelare, incontra i limiti stabiliti dagli artt. 2721 e seguenti cod. civ., limiti che non sussistono, invece, con riguardo ai fatti oggetto di accertamento nei procedimenti possessori. In tali casi la circostanza che nella fase cautelare ante causam siano stati sentiti gli informatori non dispensa la parte dal provare, nel giudizio di merito, il titolo contrattuale controverso né il giudice dal sottoporre l'istanza di prova testimoniale allo specifico vaglio di ammissibilità richiesto dalla legge. Questa conclusione appare coerente non solo con la già rilevata differenza di questi giudizi con quelli possessori, ma anche con la diversità sia dell'oggetto che della finalità della fase cautelare, limitata ad un accertamento sommario al fine di tutelare in via provvisoria, fino alla sentenza, l'asserito diritto, rispetto al giudizio di merito, in cui si chiede che il diritto venga giudizialmente affermato e quindi accertato in modo certo. La differenza non può non riflettersi anche sulle regole di acquisizione degli elementi rilevanti al fine del decidere, presupponendo l'accertamento a cognizione piena l'osservanza delle regole che disciplinano l'ammissione dei mezzi di prova».

Sennonché, a distanza di due mesi, è insorto, sul punto, un contrasto all'interno della medesima sezione, in quanto Sez. 2, n. 22778, (Rv. 627879), est. Goldoni, ha affermato l'opposto principio secondo cui le sommarie informazioni rese nel corso di un procedimento cautelare (nella specie, per sequestro giudiziario in materia contrattuale) possono essere equiparate, a tutti gli effetti, alle testimonianze, qualora gli informatori abbiano prestato l'impegno di rito e siano stati sentiti nel contraddittorio delle parti, non essendovi ragione per differenziare la valenza probatoria delle dichiarazioni rese sulle stesse circostanze, con l'assunzione dell'impegno di rito e con la garanzia del contraddittorio, per il solo fatto che il procedimento sia stato trattato con rito sommario, invece che con rito ordinario. Nella pronuncia si legge che i principî espressi dall'indirizzo giurisprudenziale sorto con riferimento ai procedimenti possessori, devono ritenersi applicabili a tutti i procedimenti cautelari.

9. La prova per presunzioni.

9.1. Profili generali.

È noto che le presunzioni semplici costituiscono una prova completa, alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento, nell'esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione.

Il rapporto di dipendenza tra il fatto noto e quello ignoto deve essere accertato con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo le regole di esperienza [Sez. 2, n. 22898 (Rv. 627886), est. Proto, che nella fattispecie esaminata ha escluso tali caratteri nell'inferenza secondo la quale il prelievo di danaro effettuato in prossimità di una scadenza contrattuale è imputabile al saldo del relativo debito].

Sez. 3, n. 12248 (Rv. 626396), est. De Stefano, aggiunge che il ricorso alla presunzione deve ritenersi consentito al giudice alla sola condizione che i fatti su cui essa si fonda siano stati allegati e possano ritenersi provati, potendo il giudice avvalersene, in presenza di tale evenienza, senza apposita sollecitazione delle parti e in difetto di contraddittorio tra le stesse.

Sez. 6-3, ord., n. 19486 (Rv. 627717), rel. Segreto, ha precisato che il divieto di cui al secondo comma dell'art. 2729 cod. civ. – che non consente il ricorso alle presunzioni nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni – investe solo le presunzioni semplici, non anche le presunzioni legali (nella specie veniva in rilievo la presunzione di sublocazione di cui all'art. 21 della legge 23 maggio 1950, n. 253).

Il divieto di doppia presunzione (cd. praesumptio de praesumpto) attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice conaltra presunzione semplice, ma non con altra presunzione legale Sez. 5, n. 17953, in corso di massimazione, est. Conti, secondo cui tale divieto non opera nel caso in cui l'Ufficio finanziario procede all'accertamento fiscale sulla base di proventi desumibili dalle indagini su conti correnti bancari compiute dalla Guardia di Finanza in danno del contribuente;laddove, peraltro, il riferimento ad un fattonoto – i dati raccolti dai conti correnti, che hanno consentito l'adozione del provvedimento impositivo –esclude in radice la configurabilità dello stesso schema della presunzione su presunzione, che postula necessariamente l'assenza di tale fatto).

9.2. Casistica più rilevante.

Si fa spesso ricorso alla prova presuntiva del profilo soggettivo in tema di azione revocatoria ordinaria.

Così, Sez. 3, n. 13447 (Rv. 626640), est. Lanzillo, ha giudicato logica e congrua la convinzione del giudice di merito che desuma l'intento di sottrarre il bene ai creditori dal rapporto di parentela esistente tra il disponente ed il terzo, laddove tale rapporto –che di per sé solo può essere più o meno significativo in relazione al contesto in cui si colloca – si caratterizzi per la coabitazione tra le medesime parti, riguardi parenti stretti (nella specie, di madre e figlia) e non risulti alcun altro motivo oggettivo idoneo a rendere ragione del trasferimento.

Anche in materia tributaria trova ampio spazio il procedimento inferenziale, se solo si considera la circostanza che l'accertamento tributario standardizzato mediante applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, sebbene la sua gravità, precisione e concordanza non sia ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasca solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente [Sez. 5, n. 11633 (Rv. 626925), est. Virgilio].

In tema di risarcimento danni per violazione del divieto di intese anticoncorrenziali, Sez. 1, n. 12551 (Rv. 626623), est. Lamorgese, ha statuito che l'assicurato che proponga azione risarcitoria, ai sensi dell'art. 33, secondo comma, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (cosiddetta legge antitrust), nei confronti dell'impresa di assicurazione che sia stata sottoposta a sanzione dall'Autorità garante per aver partecipato ad un'intesa anticoncorrenziale, ha solo l'onere di allegare la polizza assicurativa contratta e l'accertamento, in sede amministrativa, dell'intesa anticoncorrenziale, potendosi su queste circostanze fondare la presunzione dell'indebito aumento del premio per effetto del comportamento collusivo e della misura di tale aumento. Né in questo modo può considerarsi violato il brocardo praesumptum de praesumpto non admittitur, perché nel danno subìto dalla generalità degli assicurati per effetto dell'illecito antitrust, accertato sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, è infatti ricompreso, come suo essenziale componente, il danno subìto dai singoli assicurati, dovendosi ritenere che lo stesso, pur concettualmente distinguibile sul piano logico, non lo sia sul piano fattuale e, dunque, non richieda, per essere dimostrato, un'ulteriore presunzione.

Sez. 1, n. 22096 (Rv. 627769), est. Di Amato, in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, ha sposato l'orientamento – non incontroverso [in senso contrario si segnala, ad esempio, Sez. 2, n. 3042 del 2009 (Rv. 606636)] – secondo cui, nel caso in cui il creditore, del quale non sia in contestazione la qualità di imprenditore commerciale,deduca di aver subìto dal ritardo del debitore nell'adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all'indisponibilità del credito per effetto dell'inadempimento, dovendosi presumere, in base all'id quod plerumque accidit, che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi per il finanziamento dell'attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione.

Sez. 2, n. 21387 (Rv. 627909), est. Falaschi, in materia di possesso, ha ribadito che la buona fede costituisce oggetto di presunzione iuris tantum, che può essere superata anche attraverso presunzioni contrarie e semplici indizi.

Sez.2, n. 21391 (Rv. 627894), est. Carrato, ha statuito che il possesso delle quietanze, ancorché prive di intestazione ovvero intestate al de cuius o all'eredità, costituisce idonea prova presuntiva dei relativi pagamenti da parte del possessore, sempre che si riferiscano a debiti ereditari o all'assolvimento degli obblighi fiscali riconducibili alla successione ed il possessore si identifichi con uno degli eredi, salva l'allegazione di idonea prova contraria da parte dell'avente interesse.

10. La confessione.

10.1. Profili generali dell'istituto.

Le Sezioni unite, nel dirimere una controversia in tema di valore confessorio da riconoscere ad una dichiarazione scritta in ordine al protrarsi del possesso per il tempo utile ad usucapire, hanno avuto occasione di ribadire che una dichiarazione è qualificabile come confessione ove sussistano un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, ed un elemento oggettivo, che si ha qualora dall'ammissione del fatto obiettivo, il quale forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante e, al contempo, un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione [Sez. Un., n. 7381 (Rv. 625559), est. Amatucci].

L'efficacia probatoria della confessione postula che essa sia resa da persona capace di disporre del diritto cui i fatti confessati si riferiscono, ossia da persona che abbia la capacità e la legittimazione ad agire negozialmente riguardo al diritto.

In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 15538 (Rv. 626956), est. Matera, ha escluso il valore confessorio delle dichiarazioni rese dal mandatario del titolare del diritto medesimo. In senso analogo, Sez. 1, n. 25286, in corso di massimazione, est. Didone, ha escluso che le deduzioni del curatore fallimentare in un giudizio civile possano assumere valore confessorio, stante la sua qualità di terzo rispetto all'imprenditore fallito.

La Corte ha poi chiarito, nell'escludere la possibilità di sussumere le dichiarazioni rese dall'imputato nel dibattimento penale nel'alveo della confessione giudiziale nel giudizio civile, che quest'ultima ricorre, ai sensi dell'art. 228 cod. proc. civ., soltanto nei casi in cui sia spontanea o provocata in sede di interrogatorio formale, quindi all'interno del giudizio civile medesimo [Sez. 6-2, ord., n. 15464 (Rv. 626966), rel. Bertuzzi].

L'art. 2734 cod. civ. prevede che, quando alla dichiarazione confessoria si accompagni quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmarne l'efficacia o a modificarne o ad estinguerne gli effetti, le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità, se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte; diversamente detta efficacia probatoria è apprezzata dal giudice, secondo le circostanze del caso concreto. Sez. 6-2, ord., n. 16119 (Rv. 626900), rel. Manna, ha chiarito che l'applicabilità di tale norma presuppone l'unicità della fonte delle dichiarazioni, nel senso che come il fatto confessato, così anche i fatti o le circostanze aggiunte devono provenire dallo stesso soggetto confitente.

10.2. Casistica.

La Corte è tornata ad occuparsi della dichiarazione confessoria contenuta nel modulo di constatazione amichevole di incidente, resa dal responsabile del danno proprietario del veicolo assicurato, ribadendo che essa non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del solo confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice, dovendo trovare applicazione la norma di cui all'art. 2733, terzo comma, cod. civ., secondo la quale, in caso di litisconsorzio necessario – ricorrente nei giudizi in materia di responsabilità civile da circolazione di veicoli, in quanto gli stessi fatti che determinano la responsabilità e la condanna del danneggiante verso il danneggiato costituiscono la fonte dell'obbligazione risarcitoria dell'assicuratore – la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è, per l'appunto, liberamente apprezzata dal giudice [Sez. 3, n. 3567 (Rv. 625437), est. Giacalone].

Del resto, secondo Sez. 3, n. 15881 (Rv. 626890), est. Cirillo, ogni valutazione sulla portata confessoria del modulo di constatazione amichevole d'incidente deve ritenersi preclusa dall'esistenza di un'accertata incompatibilità oggettiva tra il fatto come descritto in tale documento e le conseguenze del sinistro come accertate in giudizio.

Interessante si presenta la decisione assunta da Sez. 2, n. 2721 (Rv. 625115), est. Manna, secondo cui le circostanze sfavorevoli all'attore, riportate nell'atto di citazione, in quanto atto di parte, sono necessariamente addotte con animus confitendi e costituiscono, quindi, confessione stragiudiziale nei confronti di colui al quale l'atto è notificato, sicché anche alle ammissioni contenute in un ricorso per decreto ingiuntivo deve essere riconosciuta la stessa valenza, poiché, sebbene rivolto al giudice, il ricorso è destinato e notificato alla parte debitrice.

11. L'interrogatorio formale.

Lo strumento processuale diretto a provocare la confessione giudiziale è appunto l'interrogatorio formale, che dunque può essere reso esclusivamente dal titolare del potere di disposizione del bene o del diritto controverso.

Sez. 1, n. 18079 (Rv. 627406), est. Acierno, ha ritenuto ammissibile l'interrogatorio formale deferito a persona che, come nell'ipotesi del legale rappresentante di un ente collettivo, possa non essere a conoscenza diretta delle circostanze a contenuto confessorio, in quanto, da un lato, l'assunzione dell'interrogatorio formale permette di acquisire sia la prova piena che un principio di prova, idoneo ad aprire la possibilità della prova testimoniale ai sensi dell'art. 2724, n. 1, cod. civ.; dall'altro, reputarne l'inammissibilità determinerebbe un regime derogatorio di favore per tutti i soggetti diversi dalla persona fisica, del tutto irragionevole anche sotto il profilo della compatibilità ai parametri degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Circa la concreta operatività della regola dettata dall'art. 232 cod. proc. civ., secondo cui se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, i fatti dedotti nell'interrogatorio possono essere ritenuti ammessi, Sez. 6-3, ord., n. 10099 (Rv. 626096), rel. Giacalone, nel ricondurre la previsione nell'ampia facoltà del giudice di merito di desumere argomenti di prova dal comportamento delle parti nel processo (a norma dell'art. 116 cod. proc. civ.), ha chiarito cheè necessario valutare ogni altro elemento probatorio, che non deve risultare ex se idoneo a fornire la prova del fatto contestato (poiché, in tal caso, sarebbe superflua ogni considerazione circa la mancata risposta all'interrogatorio), ma deve soltanto fornire elementi di giudizio integrativi, idonei a determinare il convincimento del giudice sui fatti dedotti nell'interrogatorio medesimo.

12. Il giuramento.

Sul versante concernente l'oggetto, il giuramento consiste in una dichiarazione di verità o di scienza, la quale, come si ricava dall'art. 2739, cod. civ., ha ad oggetto un fatto proprio della parte cui è deferito, ovvero un fatto comune ad entrambe le parti, nel qual caso esso è riferibile, ovvero ancora la conoscenza di un fatto altrui. Va dunque segnalata Sez. 2, n. 10184 (Rv. 626140), est. Manna, avendo ribadito che il giuramento, sia decisorio che suppletorio, non può vertere sull'esistenza o inesistenza di rapporti giuridici o di situazioni giuridiche, né può deferirsi per provocare l'espressione di apprezzamenti od opinioni, e, tantomeno, di valutazioni giuridiche, dovendo la sua formula avere ad oggetto circostanze determinate, che, quali fatti storici, siano stati percepiti dal giurante con i sensi o con l'intelligenza, sicché non può costituirne oggetto la qualità di amministratore di condominio, essa implicando l'accettazione della nomina, che è un atto negoziale e non un fatto storico.

13. L'ordine di esibizione.

La discrezionalità del potere officioso del giudice di ordinare alla parte o ad un terzo, ai sensi degli artt. 210 e 421 cod. proc. civ., l'esibizione di un documento sufficientemente individuato, non potendo sopperire all'inerzia delle parti nel dedurre i mezzi istruttori, rimane subordinata alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 e 94 disp. att. cod. proc. civ. e deve essere supportata da un'idonea motivazione.

Nell'ambito di questa cornice di principî generali, Sez. 2, n. 14656 (Rv. 626589), est. Proto, ha escluso la possibilità di ordinare, ai sensi dell'art. 210 cod. proc. civ., l'esibizione in giudizio delle cartelle cliniche relative ai ricoveri ospedalieri di una persona defunta, su istanza degli eredi di questa ed allo scopo di provarne l'incapacità d'intendere e di volere al momento in cui era stata fatta una donazione, trattandosi di documenti relativi ai dati personali della persona deceduta, di cui gli interessati possono di loro iniziativa acquisire copia, ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, senza alcuna indispensabilità, pertanto, dell'esercizio del potere del giudice.

14. La richiesta di informazioni alla P.A.

Anche in ordine al potere giudiziale di richiedere d'ufficio alla pubblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti (in possesso della stessa p.a.) che è necessario acquisire al processo, si è posto il problema del rapporto con il diritto di accesso agli atti della p.a. spettante ai privati.

L'esercizio della facoltà prevista dall'art. 213 cod. proc. civ., infatti, non è sostitutivo dell'onere probatorio incombente alla parte, con la conseguenza che può essere attivato soltanto quando sia necessario acquisire informazioni relative ad atti o documenti della P.A. che la parte sia impossibilitata a fornire.

Così Sez. 3, n. 6101 (Rv. 625551), est. Carleo, ha escluso tale possibilità nel caso del verbale di polizia relativo alle modalità di un incidente stradale, che ciascun interessato può direttamente acquisire dai competenti organi, a norma dell'art. 11, quarto comma, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (codice della strada).

15. La consulenza tecnica.

Numerose sono state, nell'ultimo anno, le pronunce rese in materia di consulenza tecnica, sia di ufficio che di parte.

15.1. La consulenza tecnica di ufficio. Profili generali.

È opinione consolidata che la consulenza tecnica di ufficio, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perché volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), quando il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche.

In applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 28669 (in corso di massimazione), est. Nazzicone, in tema di responsabilità degli amministratori di società, ha affermato che, se la consulenza non può essere utilizzata al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, quando però l'accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l'ausilio di speciali cognizioni tecniche è consentito al c.t.u. anche di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti (come, nella specie, su particolari operazioni finanziarie poste in essere dalla società).

Sez. 3, n. 4792 (Rv. 625766), est. Carluccio, ha affermato che, per l'accertamento della responsabilità medico-chirurgica, attesa l'innegabilità delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie non solo alla comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, la consulenza tecnica presenta carattere "percipiente", sicché il giudice può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati, ma anche quello di accertare i fatti medesimi, ponendosi pertanto la consulenza, in relazione a tale aspetto, come fonte oggettiva di prova.

Sempre in tema di c.t.u. medica (questa volta in campo psichiatrico e con riferimento ad una patologia oggetto di accesa discussione in ambito scientifico, come la cd. sindrome da alienazione parentale), Sez. 1, n. 7041 (Rv. 625709), est. Campanile, ha avuto modo di precisare che il giudice di merito, nell'aderire alle conclusioni dell'accertamento peritale, non può, ove all'elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto – sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici – a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare.

Quanto alle modalità di proposizione delle censure alle risultanze della consulenza tecnica di ufficio, la Corte ha sostenuto che le osservazioni critiche alla consulenza tecnica d'ufficio non possono essere formulate in comparsa conclusionale – e, pertanto, se ivi contenute, non sono esaminabili dal giudice – perché in tal modo esse rimarrebbero sottratte al contraddittorio e al dibattito processuale [Sez. 2, n. 7335 (Rv. 626059), est. Matera, cui è conforme Sez. 1, n. 16611 (Rv. 627050), est. Salvago].

In linea più generale, Sez. L, n. 18410 (Rv. 627725), est. Tria, ha affermato che il giudice di merito, ove intenda disporre una nuova consulenza tecnica d'ufficio, è tenuto a motivare adeguatamente – in base ad idonei elementi istruttori o cognizioni proprie, eventualmente integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza – le ragioni che lo conducono ad ignorare o sminuire i dati risultanti dalla relazione del c.t.u. già in atti, rispondendo tale esigenza a ragioni di economia processuale e dei costi del giudizio, oltre al rispetto del canone della ragionevole durata del processo, per la cui valutazione si tiene conto anche dei tempi necessari per l'espletamento della consulenza tecnica d'ufficio, che non possono risultare sprecati.

Per converso, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova consulenza d'ufficio,atteso che il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri istituzionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia (Sez. 3, n. 17693, in corso di massimazione, est. Scrima).

In ogni caso, lo svolgimento di una prima consulenza non preclude l'affidamento di un'ulteriore indagine a professionista qualificato nella materia al fine di fornire al giudice un ulteriore mezzo volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti. Tuttavia, qualora il giudice intenda uniformasi alle risultanze della seconda consulenza tecnica di ufficio, non può limitarsi a un'adesione acritica ad esse, ma deve giustificare l apropria preferenza, specificando la ragione per la quale ritiene di discostarsi dalle conclusioni del primo consulente, salvo che queste abbiano formato oggetto di esame critico nell'ambito della nuova relazione peritale, con considerazioni non specificamente contestaste dalle parti (Sez. L, 19572, Rv. 628271, est. Tria).

15.2. La consulenza tecnica di ufficio. Il regime delle nullità.

In tre occasioni la Corte ha avuto modo di affermare che la nullità della consulenza tecnica di ufficio ha carattere relativo e deve, pertanto, essere fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanata, per tale intendendosi anche l'udienza di mero rinvio della causa disposto dal giudice per consentire ai difensori l'esame della relazione, poiché la denuncia di detto inadempimento formale non richiede la conoscenza del contenuto dell'elaborato del consulente.

Si trattava, in un caso, della nullità dovuta all'allargamento dell'indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente [Sez. 3, n. 2251 (Rv. 624974), est. Ambrosio]; in un altro caso del vizio derivante dalla mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali o attinente alla loro partecipazione alla prosecuzione delle operazioni stesse [Sez. 2, n. 1744 (Rv. 624965), est. Carrato]; nel terzo caso della mancata esplicitazione dei gravi motivi previsti dall'art. 196 cod. proc. civ. per disporre la sostituzione del consulente tecnico d'ufficio già nominato [Sez. 6-2, ord., n. 21149 (Rv. 628079), rel. Manna].

15.3. La consulenza tecnica di parte.

È stato autorevolmente ribadito da Sez. Un., n. 13902 (Rv. 626469), est. Goldoni, che la consulenza tecnica di parte costituisce una semplice allegazione difensiva a contenuto tecnico, priva di autonomo valore probatorio.

Essa dunque può essere prodotta sia da sola che nel contesto delle difese scritte della parte e, nel giudizio di appello celebrato con il rito ordinario, anche dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni [Sez.2, n. 259 (Rv. 624510), est. Felicetti].

Qualora dalla consulenza di parte si deducano elementi a favore della controparte, l'atto non assume valore confessorio,poiché la confessione è atto di parte e il fatto confessato deve costituire l'oggetto della dichiarazione, non il risultato della inferenza logica di elementi descrittivi contenuti nella relazione (Se. 2, n. 21827, Rv. 628297, est. Bianchini).

16. La prova delegata.

Secondo Sez. 6-1, n. 4448 (Rv. 625903), rel. San Giorgio, il termine fissato dal giudice istruttore per l'assunzione dei mezzi di prova fuori della circoscrizione del tribunale ha carattere ordinatorio, sicché la relativa istanza di proroga deve essere presentata, ex art. 154 cod. proc. civ., prima della scadenza del termine stesso, il cui inutile decorso comporta la decadenza della parte dal diritto di far assumere la prova delegata, e non soltanto dal diritto di far assumere, per delega, la prova medesima.

17. Rogatorie all'estero.

In tema di assunzione all'estero della prova civile, Sez. 6-1, n. 17301 (Rv. 627391), est. Bisogni, ha precisato che spetta all'autorità giudiziaria dello Stato richiedente, alla stregua della Convenzione dell'Aja del 18 marzo 1970, il potere di rivolgersi con commissione rogatoria all'autorità competente di un altro Stato contraente per richiedergli il compimento di un atto istruttorio; il carattere officioso che caratterizza l'intero subprocedimento esclude la possibilità di una comminatoria di decadenza della parte dalla prova, non espletata nel termine originariamente fissato dall'ordinanza che abbia disposto la rogatoria internazionale.

Sez. 6-1, n. 17299 (Rv. 627389), est. Bisogni, ha aggiunto che la mancata informazione delle parti circa il tempo ed il luogo dell'assunzione della prova non contrasta con l'ordine pubblico interno, sempre che l'autorità che abbia disposto la rogatoria non abbia avanzato, su istanza di una di esse, un'espressa domanda di informazione al riguardo, dal momento che il concetto di ordine pubblico interno concerne i principî inviolabili posti a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, non anche le modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie, dovendosi escludere, peraltro, atteso l'impulso officioso caratterizzante tutto il subprocedimento di commissione rogatoria, la possibilità di comminatorie di decadenza per il mancato espletamento dell'attività istruttoria demandata dal giudice italiano all'autorità giudiziaria straniera.

18. Il rendimento dei conti.

Sez. 1, n. 25302, in corso di massimazione, est. Scaldaferri, ha ribadito il principio per cui la inosservanza dell'ordine del giudice in ordine al rendimento del conto non comporta a carico del convenuto l'inversione dell'onere della prova, che resta pur sempre a carico dell'attore che si assume creditore, potendo al più il giudice, nel suo prudente apprezzamento, trarre da tale inosservanza un argomento di prova a norma dell'art. 116, comma secondo, cod. proc. civ.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XXVIII

LE IMPUGNAZIONI

(di Cristiano Valle )

Sommario

1 Appello. - 2 Cassazione. - 3 Overruling. - 4 Procedimento.

1. Appello.

Ribadendo il proprio orientamento sul carattere di impugnazione (oramai) vincolata dell'appello, Sez. Un. n. 3033, (Rv. 625141), est. Piccialli, ha confermato che l'appellante ha comunque veste sostanziale di attore rispetto al giudizio di appello, con la conseguenza che su di lui ricade l'onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, indipendentemente da quale sia stata la sua posizione processuale di attore o di convenuto nel giudizio di primo grado e, quindi, se del caso producendo in appello – dopo averne estratto copia in forza dell'art. 76 disp. att. cod. proc. civ. – documenti prodotti dalla controparte in primo grado e non depositati da questa in appello.

Con riferimento all'interesse a impugnare, Sez. 3 (Rv. 626379), est. Vincenti, ha affermato che in assenza di prova di un concreto pregiudizio subìto dal ricorrente, sussiste difetto di interesse all'impugnazione in relazione alla censura con cui si faccia valere l'apposizione, ai sensi dell'art. 133 cod. proc. civ., di una data di pubblicazione della sentenza diversa da (e precedente a) quella di deliberazione della stessa.

Sez. 2 (Rv. 625370), est. Barreca, ha riaffermato il principio in forza del quale la cassazione della sentenza di secondo grado non fa rivivere l'efficacia di quello di primo grado, indipendentemente dal fatto che essa fosse stata confermata o riformata in appello, in quanto l'appello è mezzo di impugnazione destinato a concludersi con una sentenza che si sostituisce a quella di primo grado – purché pronunci sul merito del rapporto controverso – e ciò ad ogni effetto, anche ai fini esecutivi.

Sez. 2, n. 9367 (Rv. 625724), est. Mazzacane, ha specificato, così confermando orientamento già enunciato, che il giudizio divisorio non è del tutto compatibile con le scansioni e le preclusioni che disciplinano il processo in generale, intraprendendo i singoli condividenti le loro strategie difensive anche all'esito delle richieste e dei comportamenti assunti dalle altre parti con riferimento al progetto di divisione ed acquisendo rilievo gli eventuali sopravvenuti atti negoziali traslativi, che modifichino il numero e l'entità delle quote; a tanto consegue il diritto delle parti del giudizio divisorio di mutare, anche in sede di appello, le proprie conclusioni e richiedere per la prima volta l'attribuzione, per intero o congiunta, del compendio immobiliare, integrando tale istanza una mera modalità di attuazione della divisione. In applicazione dell'art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., e richiamando orientamento risalente, secondo cui al procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo si applicano, anche in grado di appello, le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adìto, e quindi la riduzione dei termini di costituzione in fase di gravame pur se in primo grado non ci si sia avvalsi della relativa facoltà, Sez. 2, n. 26252 (in corso di massimazione), est. Bursese, ha cassato la sentenza impugnata dichiarando improcedibile l'appello a ragione della costituzione dell'appellante nel termine ordinario anziché in quello dimidiato.

Con l'ordinanza interlocutoria n. 10531 (Rv. 626194), rel. D'Ascola, le Sez. Un. hanno dato continuità all'orientamento secondo il quale il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis: si rinvia, al riguardo, al cap. XXV, § 6.2.

Secondo Sez. Un., n. 11830 (Rv. 626186), est. Vivaldi, in controversia rimessa ad esse per altra questione, è inammissibile, in relazione al divieto di introdurre nuove eccezioni nel giudizio di appello, di cui all'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., il motivo di impugnazione con cui l'intimato di sfratto per morosità deduca il proprio difetto della qualità di conduttore a seguito di cessione d'azienda e contestuale cessione del contratto di locazione dell'immobile, senza che tale profilo attinente alla legittimazione passiva sostanziale fosse stato in precedenza contestato in primo grado, trattandosi di eccezione che presuppone l'accertamento in sede di gravame di un fatto impeditivo del tutto nuovo, in violazione del sistema delle preclusioni.

Sez. Un., n. 22848 (Rv. 627461), est. Cappabianca, ha definitivamente chiarito che in forza dell'art. 130 disp. att. cod. proc. civ., il procedimento di appello avverso la sentenza di rigetto del reclamo avverso la dichiarazione di estinzione del processo, ai sensi dell'art. 308, comma secondo, cod. proc. civ., è retto sin dall'instaurazione dal rito camerale e quindi deve essere proposto con ricorso da depositarsi in cancelleria entro i termini perentori di cui agli artt. 325 e 327 cod. proc. civ. e (stessa sentenza, Rv. 627462) nel caso in cui sia stato proposto con citazione è suscettibile di sanatoria, in via di conversione in forza dell'art. 156 cod. proc. civ., purché nel termine previsto dalla legge l'atto sia non solo notificato alla controparte ma anche depositato nella cancelleria del giudice.

Ugualmente con riferimento al rito, Sez. 6-1, ord. n. 22190 (Rv. 628122), rel. Acierno, ha affermato la piena utilizzabilità del modello di decisione di cui al'art. 281-sexies cod. proc. civ., a seguito di trattazione orale, dinanzi alla corte di appello, come confermato dall'art. 352 cod. proc. civ. nella nuova formulazione, introdotta dalla legge 12 novembre 2011, n. 183 (con riferimento a fattispecie concreta alla quale l'art. 352 cod. proc. civ. novellato risultava non applicabile ratione temporis).

La stessa Sez. 6-1, ord. n. 11465 (Rv. 626619), rel. Acierno, ha individuato quale giudice del reclamo avverso l'ordinanza conclusiva del procedimento sommario la corte di appello ed ha chiarito che l'art. 704-quater cod. proc. civ. disciplina un mezzo di impugnazione avente natura di appello e non di reclamo cautelare, la cui mancata proposizione comporta il passaggio in giudicato dell'ordinanza (che chiude il procedimento sommario) e configura un procedimento con pienezza di cognizione (come dinanzi al tribunale) e di istruttoria (a differenza di quanto avviene in primo grado, nel quale l'istruttoria è semplificata), analogo a quello disciplinato dall'art. 345 cod. proc. civ.

Con riferimento al rito ordinario in appello, Sez. Un., n. 9407 (Rv. 625811), est. Amoroso, ha escluso che l'art. 342 cod. proc. civ. – nel testo applicabile ratione temporis di cui all'art. 50 della legge 26 novembre 1990, n. 353 e prima delle modifiche di cui all'art. 54, comma 1, lett. a) del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134 – preveda che l'atto di appello contenga anche lo specifico avvertimento, di cui all'art. 163, comma terzo, cod. proc. civ., che la costituzione oltre i termini di legge implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 cod. proc. civ., in quanto queste ultime si riferiscono al solo regime delle decadenze nel giudizio di primo grado e non è possibile, in mancanza di un'espressa previsione di legge, estendere la prescrizione di tale avvertimento alle decadenze che in appello comporta la mancata tempestiva costituzione della parte appellata.

2. Cassazione.

Con pronuncia a Sez. Un. la Corte ha risolto il contrasto relativo al quesito se, in ipotesi di omessa pronuncia addebitabile al giudice di merito, l'erronea deduzione del relativo error in procedendo per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., prospettata come vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., comporti ex se l'inammissibilità del ricorso affermando, con sentenza n. 17931 (Rv. 627268), est. Piccialli, che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell'art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all'art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge.

Le Sez. Un., con sentenza n. 24148 (Rv. 627789), est. Massera, hanno – in fattispecie concernente responsabilità disciplinare di magistrato – affermato che nel caso in cui la sentenza pronunciata dal giudice di rinvio formi nuovamente oggetto di ricorso per cassazione il collegio della corte può essere composto anche da magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la pronuncia di annullamento, in quanto ciò non costituisce alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità del giudice. In materia di revocazione Sez. 2, n. 16861 (Rv. 627092), est. Carrato, ha escluso che configuri ipotesi di nullità deducibile con l'impugnazione il fatto che lo stesso giudice che ebbe a pronunciare la sentenza oggetto della domanda di revocazione componga il collegio chiamato a decidere sulla stessa, in quando trattasi di incompatibilità che può dar luogo al potere di ricusazione che la parte interessata ha l'onere di far valere in caso di astensione del giudice nelle forme e nei termini di cui al'art. 52 cod. proc. civ.

Con sentenza n. 14503 (Rv. 626629), est. Vivaldi, le Sez. Un. hanno affermato che l'art. 373 cod. proc. civ. è applicabile anche nei confronti delle sentenze di condanna della Corte dei conti (e in generale dei giudici speciali) salvo che sia diversamente stabilito da specifiche disposizioni e nulla prevedendo al riguardo l'art. 111 Cost. sul ricorso per cassazione avverso le decisioni della Corte dei conti e del Consiglio di Stato. La stessa sentenza (Rv. 626628) ha escluso che in sede di legittimità sia ammissibile la tutela cautelare innominata ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ., poiché il provvedimento in cui essa sfocerebbe, strumentale e provvisorio, in quanto diretto ad evitare che la futura decisione del giudice possa essere pregiudicata dal tempo necessario per ottenerla, è destinato a perdere efficacia a seguito della decisione nel giudizio di merito, nella quale rimane assorbito, in tal modo esaurendosi la sua funzione.

In materia di impugnazione del lodo arbitrale, Sez. Un., n. 16887 (Rv. 626915), est. Rordorf, ha individuato quale giudice competente la corte d'appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato, in base al disposto dell'art. 828 cod. proc. civ., in quanto unica disposizione diretta all'individuazione del giudice al quale spetta giudicare su detta impugnazione, escludendosi in tal modo che la giurisdizione possa spettare al Consiglio di Stato, con la conseguenza di radicare in capo al giudice ordinario, qualora accolga l'impugnazione, il potere dovere – salva contraria volontà di tutte le parti – di decidere nel merito, ai sensi dell'art. 830, comma secondo, cod. proc. civ. non rilevando che la controversia, qualora non fosse stata devoluta in arbitri, sarebbe stata ricompresa nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La stessa sentenza (Rv. 626914) ha precisato, avuto riguardo a requisiti del ricorso per cassazione, che la verifica dell'osservanza dell'art. 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., deve essere effettuata con riferimento ad ogni motivo d'impugnazione e la mancata specifica indicazione – ed allegazione – dei documenti su cui esso si fonda può comportarne la declaratoria d'inammissibilità solo quando si tratti di censure rispetto alle quali specifici atti o documenti fungano da fondamento, ossia quando senza l'esame di quell'atto o di quel documenti sarebbe preclusa la comprensione del motivo di doglianza e degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si fonda nonché la stessa valutazione della sua decisività, con la conseguenza che ove detta situazione sia propria di uno o soltanto di alcuni motivi il ricorso non potrà essere dichiarato integralmente inammissibile.

Con tre distinte sentenze (n. 1717, Rv. 624696, est. Macioce, n. 16310, Rv. 626753, est. Forte e n. 20073, Rv. 627355, est. Massera) le Sez. Un. hanno ribadito che non possono essere impugnate per cassazione le sentenze d'appello che non definiscono, neppure parzialmente, il giudizio di merito, sia che la sentenza d'appello abbia affermato la giurisdizione del giudice italiano rispetto a quello straniero e il tribunale abbia declinato la giurisdizione in favore del giudice straniero (n. 1717, Rv. 624696), sia che la sentenza d'appello abbia rimesso le parti dinanzi al tribunale per la prosecuzione del giudizio sulle domande non ancora vagliate (n. 16310, Rv. 626753), sia che la pronuncia d'appello abbia affermato la giurisdizione del giudice ordinario, negata, invece dal primo giudice (n. 20073, Rv. 627355), in applicazione del disposto dell'art. 360, comma terzo, cod. proc. civ., come modificato dall'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

In tema di giudicato esterno, Sez. 3 (Rv. 627590), est. Cirillo, ha ribadito che la parte che lo eccepisce deve provare il passaggio in giudicato della sentenza resa in altro giudizio, non soltanto producendo la sentenza stessa, ma anche corredandola della idonea certificazione ai sensi dell'art. 124 disp. att. cod. proc. civ., dalla quale risulti che la parte non è più soggetta a impugnazione dovendosi escludere che la mancata contestazione di controparte sull'affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, né che sia onere della controparte medesima dimostrare l'impugnabilità della sentenza.

Sez. 1, n. 28663 (in corso di massimazione), est. Nazzicone, ha affermato, aderendo all'orientamento maggioritario andato delineandosi nella Corte, che anche in caso di omessa motivazione può farsi ricorso all'art. 384 cod. proc. civ. sulla correzione della motivazione erronea, trovando ciò fondamento nell'economia processuale, nel principio di ragionevole durata del processo e nella funzione nomofilattica del giudice di legittimità.

3. Overruling.

Nel corso del 2013 la giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato i caratteri ed i profili dell'overruling: Sez. 2, n. 1370 (Rv. 624978) est. Proto, ha escluso che sia qualificabile tale l'orientamento giurisprudenziale, consolidatosi a seguito di Sez. Un., n. 8203 del 2005 – secondo cui, nei giudizi instaurati dopo il 30 aprile 1995, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, il terzo comma dell'art. 345 cod. proc. civ. va interpretato nel senso che esso fissa il principio dell'inammissibilità di mezzi di prova nuovi (cioè non richiesti in precedenza) e, quindi, anche delle produzioni documentali – in quanto preceduto da decisioni dello stesso segno, con conseguente inapplicabilità della regola per la quale mantiene validità l'atto processuale compiuto secondo le forme e i termini previsti dal diritto vivente al momento del suo compimento in caso di successivo mutamento giurisprudenziale relativo a quelle forme ed a quei termini.

Sulla stessa linea Sez. 6-1, n. 20172 (Rv. 627515), est. De Chiara, secondo la quale in ipotesi di conto corrente bancario stipulato anteriormente al 22 aprile 2000, l'esclusione del diritto della banca ad operare qualsiasi capitalizzazione degli interessi a debito del correntista, in seguito alla dichiarazione di nullità della relativa pattuizione, secondo quanto precisato da Sez. Un., n. 24418 del 2010, non integra alcuna ipotesi di overruling a tutela dell'affidamento incolpevole della banca stessa, trattandosi di mutamento di giurisprudenza riguardante norme di carattere sostanziale e non processuale.

4. Procedimento.

Solo alcuni cenni si dedicano alla materia, per ragioni di brevità, mentre altri profili, comuni in generale al ricorso per cassazione, sono trattati al cap. XXIX, § 4, sul processo di lavoro ed al cap. XXXIV, § 15, in tema di processo tributario.

In tema di ricorso incidentale, la sentenza delle Sez. Un., n. 7381 (Rv. 625558), est. Amatucci, ha precisato che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito (quale, nella specie, improponibilità dell'appello, comunque rigettato, in relazione all'intervenuta rinuncia preventiva all'impugnazione, disattesa nella sentenza gravata sul presupposto della nullità di detta rinuncia) ha natura di ricorso condizionato all'accoglimento del ricorso principale, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, sicché, laddove le medesime questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte solo in presenza dell'attualità dell'interesse, ovvero unicamente nell'ipotesi della fondatezza del ricorso principale.

In ordine alla delibazione di ammissibilità o inammissibilità dell'impugnazione, Sez. 1, n. 219 (Rv. 624639), est. Scaldaferri, ha affermato che la valutazione compiuta dal giudice della sezione apposita di cui all'art. 376 cod. proc. civ. nel trasmettere il ricorso alla sezione semplice, in ordine alla non ricorrenza nella specie delle condizioni per dichiarare inammissibile il ricorso, preclude, stante il disposto dell'art. 380-bis, comma quarto, cod. proc. civ., alla sezione semplice l'adozione, a sua volta, del rito camerale, essendo imposta la trattazione in pubblica udienza; tuttavia, in difetto di norma specifica, non è ragionevole interpretare la disciplina nel senso che tale precedente valutazione sull'ammissibilità del ricorso limiti o vincoli la piena delibazione in sede di pubblica udienza, che, pertanto, deve estendersi a tutte le questioni che il ricorso stesso pone.

Sez. 6-2, n. 26696 (in corso di massimazione), est. Giusti, ha dichiarato inammissibile il controricorso per cassazione notificato non all'indirizzo di posta elettronica certificata indicato in ricorso, ma presso la cancelleria della corte di cassazione, sull'erroneo presupposto che il ricorrente fosse domiciliato presso la corte stessa.

Con ordinanza interlocutoria n. 26278, rel. Petitti (in corso di massimazione) le Sez. Un., risolvendo contrasto, hanno affermato il seguente principio di diritto: «L'ordinanza con la quale la Corte di cassazione disponga, in udienza pubblica o in sede di adunanza camerale, la rinnovazione della notificazione del ricorso o l'integrazione del contraddittorio, quando sia emessa in assenza delle parti costituite, rappresentate dai rispettivi difensori, deve essere comunicata a cura della cancelleria».

Con ordinanza interlocutoria n. 18577, rel. Giusti, la Sez. 6-2 ha rimesso gli atti al Primo Presidente – prospettando questione di massima di particolare importanza – affinché valuti la rimessione alle Sez. Un. della questione relativa all'impugnabilità con regolamento di competenza dell'ordinanza (nella specie del giudice monocratico) che, respingendo l'eccezione, affermi la propria competenza, quando il provvedimento non sia preceduto dal previo invito alla precisazione delle conclusioni.

Con riferimento al procedimento di notificazione, Sez. 2, (Rv. 626509), est. Giusti, ha escluso l'operatività della sanzione di nullità in relazione alla notificazione dell'impugnazione eseguita presso l'avvocato domiciliatario il quale, successivamente alla data di deliberazione della sentenza di primo grado, sia stato cancellato dall'albo per effetto dell'irrogazione di sanzione disciplinare non opera allorché lo stesso difensore abbia tenuto, nonostante tale evento ed in violazione dei principî di buona fede, lealtà e correttezza, un comportamento obiettivamente decettivo, idoneo a creare una situazione di apparenza di persistente titolarità dello ius postulandi, continuando a curare all'esterno in qualità di avvocato la pratica del proprio assistito per ottenere l'esecuzione della sentenza, in maniera da giustificare l'affidamento incolpevole della controparte circa la sua perdurante legittimazione, dovendosi comunque evitare ogni impiego abusivo o deviato degli strumenti processuali. (Nell'enunciare il principio, la S.C. ha evidenziato, con riguardo alla fattispecie concreta, la verosimile consapevolezza della parte "rappresentata" circa l'abuso posto in essere dal suo, ormai ex, avvocato).

Nel caso di decesso dell'unico difensore, Sez. 1, n. 21608 (Rv. 627660) est. Scaldaferri ha escluso che si determini l'interruzione del processo, dovendo la Corte differire l'udienza di discussione ed disponendo la comunicazione alla parte personalmente per consentirle di nominare un nuovo difensore, purché l'attestazione dell'evento morte risulti da attestazione fidefaciente dell'ufficiale giudiziario che abbia tentato di notificare l'avviso di udienze e che sia mancato alla parte un tempo ragionevole per provvedere ala nomina di un nuovo difensore (nel caso di specie non si è concesso alla parte di nominare un nuovo difensore essendo il decesso del precedente avvenuto un anno e nove mesi prima dell'udienza).

L'ordinanza interlocutoria della Sez. 1, n. 12060 (Rv. 62626), rel. A.P. Lamorgese ha rimesso alla Corte Costituzionale questione in materia elettorale – sulla quale la Corte si è recentissimamente pronunciata – affermando che le leggi elettorali, benché rientranti nella categoria di quelle costituzionali necessarie, non sono escluse dal sindacato di costituzionalità, in quanto la materia dei sistemi elettorali deve essere comunque concepita come coerente con il principio costituzionale di uguaglianza e con il vincolo costituzionale per il legislatore di rispettare i parametri del voto personale, uguale, libero e diretto.

In materia elettorale, la stessa Sez. 1, n. 21477 (Rv. 627560) est. Di Virgilio, ha affermato che nel caso di pronuncia resa in detta materia con sentenza, secondo il rito di cui agli artt. 82 ed 82/2 del decreto residente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, anziché con ordinanza di cui all'art. 702-ter cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all'art. 22 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, applicabile ratione temporis, in mancanza della comunicazione da parte della cancelleria o della notificazione ad opera della parte della pronuncia depositata, ove ne sia stato comunicato il solo dispositivo, deve ritenersi applicabile non il termine di impugnazione di cui all'art. 702-quater cod. proc. civ., bensì quello di cui all'art. 327 del medesimo codice.

Sez. 2, n. 9148 (Rv. 626010) est. Frasca, ha – richiamando l'art. 111 Costituzione in tema di "durata ragionevole" – affermato che investita una sezione civile della Corte di cassazione dell'esame di un ricorso da devolvere, invece, alla sezione lavoro della stessa Corte, la necessità di dare applicazione al detto principio costituzionale, unitamente alla constatazione dell'assoluta ininfluenza della circostanza sul piano delle regole processuali da osservare nel giudizio di legittimità, escludono la necessità di rimettere il ricorso al Primo Presidente della Suprema Corte.

Secondo Sez. 2, n. 22289 (Rv. 627820), est. Falaschi, il ricorso per cassazione che prospetti l'essersi erroneamente tenuto conto, nella sentenza impugnata, delle difese della parte appellata, costituitasi, pur in assenza di formale dichiarazione di contumacia, dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni, deve indicare lo specifico e concreto danno derivato al ricorrente dalla suddetta tardiva costituzione, non tutelando l'ordinamento il semplice interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantendo solo l'eliminazione del pregiudizio subìto dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo.

  • giurisdizione del lavoro

CAPITOLO XXIX

IL PROCESSO DEL LAVORO

(di Francesco Buffa )

Sommario

1 Questioni di giurisdizione. - 2 Il processo in primo grado. - 3 Il giudizio di appello. - 4 L'impugnazione per cassazione.

1. Questioni di giurisdizione.

Si segnalano preliminarmente alcune pronunce della Corte nell'anno che hanno risolto questioni di giurisdizione.

Con riferimento alla giurisdizione nei confronti dello straniero, Sez. Un., n. 7382 (Rv. 625594), est. Amoroso, ha affermato, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di Stati esteri, che, ai sensi della art. 43 della convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari, sussiste la giurisdizione italiana in relazione a controversie concernenti rapporti di lavoro alle dipendenze di ambasciate di stati esteri in Italia non soltanto quando si tratti di dipendenti con mansioni meramente ausiliarie, ma anche di dipendenti con funzioni consolari, ove la domanda sia indirizzata solo al conseguimento di spettanze retributive o comunque investa esclusivamente questioni patrimoniali, le quali non interferiscano con l'organizzazione dell'ufficio consolare. (Nella fattispecie, le Sezioni unite hanno affermato la giudirisdizione italiana in una controversia proposta da una addetta alla segreteria del Console del Marocco che aveva ad oggetto esclusivamentente pretese di natura patrimoniale per 13esima e 14esima mensilità, indennità sostitutiva di preavviso e TFR).

In materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative a procedure concorsuali nell'ambito del pubblico impiego privatizzato, in un contesto generale che tradizionalmente distingue le controversie che attengono alla procedura concorsuale (devolute al giudice amministrativo) e quelle che riguardano il diritto all'assunzione seguente all'approvazione della graduatoria concorsuale (attribuite al giudice ordinario), Sez. Un., ord. n. 10404 (Rv. 626070), rel. Nobile, ha affermato che la cognizione della domanda, avanzata dal candidato utilmente collocato nella graduatoria finale, riguardante la pretesa al riconoscimento del diritto allo "scorrimento" della graduatoria del concorso espletato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, facendosi valere, al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, il "diritto all'assunzione". Ove, invece, la pretesa al riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di diverse procedure (nella specie di conferimento di incarichi esterni e di mobilità esterna) per la copertura dei posti resisi vacanti, la contestazione investe l'esercizio del potere dell'Amministrazione, cui corrisponde una situazione di interesse legittimo e la cui tutela spetta al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 63, comma quarto, del d.P.R. n. 165 del 2001.

Interessante l'affermazione della giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie risarcitorie dei danni in materia concorsuale operata da Sez. Un., ord., n. 7380 (Rv. 625540), rel. Amoroso, secondo la quale l'azione risarcitoria, intrapresa dal candidato che assuma di essere stato danneggiato da condotte, già definitivamente accertate come penalmente rilevanti, tenute dai componenti di una commissione di concorso a professore universitario di prima fascia nello svolgimento della loro funzione, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, rinvenendosi il fondamento della corrispondente pretesa in comportamenti riferibili non alla P.A. od implicanti l'esercizio di un potere, bensì agli stessi personalmente.

Sempre sul tema della giurisdizione, si segnala Sez. Un., n. 7374 (Rv. 625714), est. Amatucci, secondo la quale spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite dei dipendenti, non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. (Fattispecie relativa ad ammanchi di cassa imputabili a dipendente di una società per azioni, interamente partecipata dal Comune, per conto del quale essa gestiva il servizio di riscossione degli incassi dei parcometri).

Da ultimo, va ricordato in argomento che in ogni caso, secondo i principî, ribaditi da Sez. L, n. 6966 (Rv. 625702), est. Venuti, allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la relativa sentenza sotto tale profilo, non è consentito al giudice della successiva fase impugnatoria rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione, trattandosi di questione ormai coperta dal giudicato implicito. (Nella specie la S.C., in applicazione dell'enunciato principio, pronunciando sul ricorso proposto avverso una sentenza con cui era stato dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Rete Ferroviaria s.p.a. su una domanda di riliquidazione del trattamento pensionistico in godimento, ha escluso la possibilità di rilevare la questione della spettanza della giurisdizione alla Corte dei conti).

2. Il processo in primo grado.

Tra le varie pronunce della Sezione Lavoro relative al processo di primo grado secondo il rito del lavoro, si segnala l'interessante sentenza n. 24580 del 2013, in materia di prova testimoniale, ove la Corte ha affermato che la testimonianza abbia ad oggetto fatti che espongano il dichiarante a responsabilità penale non si pone una questione di incapacità a deporre - configurabile solo quando il teste risulti portatore di un interesse personale a proporre l'azione o ad intervenire nel giudizio - né di esonero dall'obbligo di deporre, ma solo, in ipotesi, di attendibilità del teste.

Con riferimento, poi, alla sentenza resa a conclusione del giudizio di primo grado secondo il rito del lavoro, Sez. L, n. 21630, est. Bronzini, ha affermato, in materia di spese nelle controversie previdenziali e in quelle concernenti le prestazioni di assicurazione sociale il ricorrente al fine di ottenere l'esonero dal loro pagamento in caso di soccombenza deve assolvere l'onere di rendere, con il ricorso introduttivo del giudizio, l'autodichiarazione sulle proprie condizioni reddituali, inforzadeldispostodell'art.152 disp. att. cod. proc. civ. – come modificato dall'art. 42, comma 11, decreto legge 30 settembre 2003, n.269, conv. con mod. nella legge 24 novembre 2003, n. 326 –; detta dichiarazione esplica efficacia per l'intero corso del processo e sino all'esito definitivo del giudizio, senza necessità di reiterazione e con l'impegno dell'interessato di comunicare eventuali variazioni che comportino il venire meno delle condizioni dell'esonero. Ne consegue che, in caso di soccombenza, ove la dichiarazione non sia stata resa con il ricorso introduttivo del giudizio, le spese di lite non possono essere dichiarate irripetibili.

3. Il giudizio di appello.

Venendo al giudizio di appello, ha precisato Sez. L, n. 6978 (Rv. 625704), est. Amoroso, che il principio della necessaria specificità dei motivi di appello – previsto dall'art. 342, comma primo, cod. proc. civ., e, nel rito del lavoro, dall'art. 434, comma primo, cod. proc. civ., nella formulazione anteriore alla novella operata dall'art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134 – prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l'impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano anche indicate, oltre ai punti e ai capi formulati e seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell'impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure. E pertanto inammissibile l'atto di appello che, senza neppure menzionare per sintesi il contenuto della prima decisione, risulti totalmente avulso dalla censura di quanto affermato dal primo giudice e si limiti ad illustrare la tesi giuridica già esposta in primo grado.

Sez. L, n. 19828 (in corso di massimazione), est. Marotta, ha chiarito che la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, difettando di interesse al riguardo, non ha l'onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione «le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado», da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l'eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ. (Nella specie, la Corte ha escluso la necessità dell'appello incidentale da parte di chi si era visto rigettare l'eccezione di decadenza per tardività della domanda attorea comunque respinta per altre ragioni).

Due sentenze hanno precisato la nozione di acquiescenza alla sentenza:

- per Sez. L, n. 698 (Rv. 624805), est. Bronzini, l'acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi dell'art. 329 cod. proc. civ. (e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all'impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge), consiste nell'accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest'ultimo caso, l'acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l'interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi, siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione. Ne consegue che la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole, anche quando la riserva d'impugnazione non venga dalla medesima a quest'ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 329 cod. proc. civ. e 49 d.lgs. n. 546 del 1992, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione;

- secondo Sez. L, n. 23529 (Rv. 628251), est. Fernandes, l'acquiescenza contemplata dall'art. 329 cod. proc. civ. opera come preclusione rispetto ad un'impugnazione non ancora proposta, mentre nell'ipotesi in cui la sentenza sia già stata impugnata é possibile avvalersi soltanto di un'espressa rinunzia all'impugnazione stessa, da compiersi nelle forme e con le modalità prescritte dalla legge.

In tema di notifica dell'appello, Sez. L, n. 19818(in corso di massimazione), est. Pagetta, ha ricordato che l'inosservanza del termine a comparire non è configurabile come vizio di forma o di contenuto dell'atto introduttivo, atteso che, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, essa si verifica quando l'impugnazione è stata già proposta mediante il deposito del ricorso in cancelleria, sicché tale inosservanza non comporta la nullità dello stesso atto di appello, bensì quella della sua notificazione, sanabile ex tunc per effetto di spontanea costituzione dell'appellato o di rinnovazione, disposta dal giudice ex art. 291 cod. proc. civ.

Con riferimento, poi, al termine di dieci giorni entro il quale l'appellante, ai sensi dell'art. 435, secondo comma, cod. proc. civ., deve notificare all'appellato il ricorso, tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l'impugnazione, e il decreto di fissazione dell'udienza di discussione, la Corte ha affermato che tale termine non ha carattere perentorio e che la sua inosservanza non produce quindi alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell'appellato, sempre che sia rispettato il termine che ai sensi del medesimo art. 435, commi terzo e quarto, cod. proc. civ., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell'udienza di discussione (Sez. L, n. 19818, in corso di massimazione, est. Pagetta). Per converso, nel procedimento di lavoro in grado d'appello, il termine che il giudice, qualora constati la nullità della notifica del ricorso e del decreto di fissazione d'udienza, deve assegnare all'appellante per rinnovare la notifica ha carattere perentorio, sicché, ove esso non sia osservato, l'appello diviene inammissibile, anche se l'appellato, per effetto della rinnovata notifica, si è costituito in giudizio (Sez. L, n. 8125, Rv. 625679, est. Mammone).

Meritano di essere ricordate alcune pronunce rese dalla Sezione Lavoro che hanno esaminato il problema della individuazione del soggetto legittimato a stare in giudizio in primo grado e della sua legittimazione a ricevere l'impugnazione. Sez. L, n. 12730 (Rv. 626482), est. Ianniello, ha precisato che, nei procedimenti giurisdizionali concernenti l'invalidità civile, la cecità civile, il sordomutismo, l'handicap e la disabilità ai fini del collocamento obbligatorio al lavoro, qualora la difesa del Ministero dell'economia e delle finanze, nel giudizio di primo grado, sia stata assunta da un funzionario della stessa Amministrazione ovvero, in base ad eventuale convenzione, da un avvocato dell'I.N.P.S. (come consentito dall'art. 42 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. in legge 24 novembre 2003, n. 326), la notifica della sentenza, come quella della successiva impugnazione (quest'ultima con esclusione del caso in cui la difesa personale o con propri dipendenti sia limitata al giudizio di primo grado) vanno effettuate nei confronti dei funzionari o avvocati incaricati della difesa, a norma dell'art. 330 cod. proc. civ. Secondo Sez. L, n. 19821 (in corso di massimazione), est. Venuti, allorché l'amministrazione statale sia costituita in giudizio avvalendosi di un proprio funzionario, secondo la previsione di cui all'art.417-biscod. proc. civ., la notifica della sentenza di primo grado ai fini del decorso del termine di impugnazione va effettuata allo stesso dipendente; la citata norma, infatti, va interpretata nel senso che essa attribuisce al dipendente di cui l'amministrazione si sia avvalsa tutte le capacità connesse alla qualità di difensore in tale giudizio, ivi compresa quella di ricevere la notificazione della sentenza, ancorché tale atto si collochi necessariamente in un momento successivo alla conclusione del giudizio stesso.

Quanto ai diritti dell'appellante, ha evidenziato poi Sez. L, n. 18627 (Rv. 628348-628349), est. Bandini, che nelle controversie soggette al rito del lavoro l'appellante in via principale non ha un diritto soggettivo al deposito di note scritte al fine di contro dedurre alle difese dell'appellato e di cui alla memoria difensiva – prevista dall'art. 436 cod. proc. civ. –, e ciò neppure nel caso in cui sia proposto appello incidentale, potendo contare soltanto sulle proprie difese orali in sede di udienza di discussione della causa; al processo di appello si applica in ogni caso –in forza del rinvio operato dall'art. 437, comma quattro, cod.proc.civ. – l'art. 429, comma secondo, cod. proc. civ., che attribuisce al giudice il potere discrezionale di autorizzare le parti al deposito di note scritte per la decisione della causa.

Sugli oneri gravanti sull'appellante in caso di contumacia dell'appellato, sulla scia di Sez. Un., n. 28498 del 2005 (Rv. 586371), e Sez. Un., n. 3033 (Rv. 625141), est. Piccialli, la sentenza Sez. L, n. 1462 (Rv. 625045), est. Manna, ha affermato che l'appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, atteso che l'appello non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all'altro esame della causa, ma una revisio fondata sulla denunzia di specifici "vizi" di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata. Ne consegue che è onere dell'appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, produrre, o ripristinare in appello se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali egli basa il proprio gravame, o comunque attivarsi perché questi documenti possano essere sottoposti all'esame del giudice di appello, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ., di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti, ovvero richiedendo al giudice che ordini, ai sensi dell'art. 210 cod. proc. civ., all'appellato non costituito l'esibizione dei documenti già contenuti nella produzione ritirata, senza che osti, a tal fine, il divieto di cui all'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., trattandosi di prove già acquisite agli atti di causa e non di nuove prove. Nello stesso senso, più di recente, Sez. L, n. 25732 (in corso di massimazione, est. Bronzini, ed altre pubblicate nello stesso giorno.

Con riferimento ai vizi del grado precedente di giudizio secondo il rito del lavoro, con riferimento all'atto introduttivo del giudizio, Sez. L, n. 12923 (Rv. 626671), est. Manna, ha precisato che la mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda è causa di nullità del ricorso introduttivo, che, ove non rilevata dal giudice di primo grado, è soggetta alla regola generale della conversione in motivi di impugnazione ex art. 161, primo comma, cod. proc. civ., con onere del convenuto di impugnare la decisione anche con riguardo alla pronuncia, implicita, sulla validità dell'atto. Diverso discorso va fatto con riferimento all'ipotesi in cui il vizio riguardi il termine a difesa, essendosi affermato da Sez. L, n. 18168 (Rv. 627294), est. Marotta, che nelle controversie soggette al rito del lavoro, il giudice di appello che rilevi la nullità dell'introduzione del giudizio, determinata dall'inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall'art. 415, quinto comma, cod. proc. civ., non può limitarsi a dichiarare la nullità e a rimettere la causa al giudice di primo grado (non ricorrendo in detta ipotesi né la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, né alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dagli artt. 353 e 354, primo comma, cod. proc. civ.), ma deve trattenere la causa e, previa ammissione dell'appellante ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito.

Ha sottolineato poi, in linea generale, Sez. L, n. 2420 (Rv. 625002), est. Filabozzi, che nel rito del lavoro, il potere di rilevazione, anche d'ufficio, delle eccezioni in senso lato può essere esercitato dal giudice d'appello solo sulla base di elementi probatori ritualmente e tempestivamente allegati agli atti. (Nella specie, nell'ambito di una controversia in materia di sanzioni amministrative, il ricorrente aveva tempestivamente opposto la prescrizione della pretesa sanzionatoria, mentre la Direzione Provinciale del Lavoro si era limitata a depositare copia del verbale di accertamento notificato alla controparte - da cui si poteva evincere l'effetto interruttivo - solamente nel giudizio d'appello; la S.C., in applicazione del principio di cui alla massima, ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto inammissibile la suddetta produzione).

Il principio secondo cui il processo d'appello deve svolgersi nei confronti di tutti i contraddittori del giudizio di primo grado non implica necessariamente il vizio della sentenza, essendosi precisato (Sez. L, n. 9080 Rv. 626144, est. Bandini) che nel processo con pluralità di parti relativo a cause scindibili, l'omessa integrazione del contraddittorio delle altre parti del giudizio di primo grado, ai sensi dell'art. 331 cod. proc. civ., non importa nullità della sentenza, essendo la fattispecie regolata dall'art. 332 cod. proc. civ. Ne consegue che, nel caso in cui il giudice di appello abbia omesso di disporre la notificazione dell'impugnazione alle parti non costituite, la sentenza di appello può essere cassata in sede di legittimità soltanto se al momento della decisione della Suprema Corte non siano ancora decorsi, per la parte pretermessa, i termini per l'appello, mentre in caso contrario la violazione resta priva di effetti.

Sempre con riferimento al processo con pluralità di parti, sez. L, n. 21196 (Rv. 628371), est. Arienzo, ha affermato che nel caso di proposizione di una domanda di condanna, invia alternativa, nei confronti di più soggetti, una volta annullata in appello la condanna di primo grado resa contro uno solo dei convenuti –il quale resta così assolto dalla pretesa – e dichiarato inammissibile, perché tardivo, l'appello incidentale dell'originario attore, non sopravvive alcun interesse a ricorrere per cassazione in capo all'altro convenuto, non toccato da alcuna pronuncia sfavorevole.

Sul tema, va ricordata poi Sez. L, n. 16930 (Rv. 627053), est. Manna, secondo la quale l'interventore adesivo non ha un'autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l'impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell'intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico), sicché la sua impugnazione è inammissibile. (Nella specie, un dirigente scolastico aveva impugnato, in tale sua qualità, la sentenza di primo grado che dichiarava l'antisindacalità del suo comportamento e, in appello, aveva altresì proposto, in proprio, intervento adesivo all'impugnazione; la S.C., premesso che lo stesso intervento adesivo in appello non poteva ritenersi consentito attesa, tra l'altro, l'irrilevanza di un parallelo contenzioso personale tra le parti in quanto insuscettibile di subire effetti giuridici dall'esito del processo per comportamento antisindacale, in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione).

Con riguardo alla sentenza di appello, Sez. L, n. 18627 (Rv. 628348-628349), est. Bandini, ha affermato che in materia di controversie soggette al rito del lavoro l'art. 429, comma primo, cod. proc. civ., come modificato dall'art. 53, comma secondo, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni nellalegge6agosto2008, n. 133 – applicabile alle controversie instaurate in primo grado successivamente al 25 giugno 2008 –, che prevede che il giudice all'udienza di discussione decide la causa e procede alla lettura del dispositivo e, salvo che fissi un termine non superore a sessanta giorni, delle ragioni in fatto e diritto della decisione, non è richiamato dall'art. 437, comma quarto, cod. proc. civ., e pertanto non si applica al giudizio di appello, alla cui udienza di discussione il giudice, in forza dell'art. 437, comma primo, cod. proc. civ., deve dare lettura del solo dispositivo.

In tema di motivazione della sentenza d'appello, per Sez. L, 21630, non incorre nel vizio di carenza di motivazione la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni e i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d'ufficio di cui dichiari di condividere il merito; pertanto, per infirmare, sotto il profilo dell'insufficienza argomentativa, tale motivazione è necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d'ufficio già dinanzi al giudice a quo, la loro rilevanza ai fini della decisione e l'omesso esame in sede di decisione; al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell'elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella mera prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità.

4. L'impugnazione per cassazione.

Venendo all'impugnazione in cassazione, è meritevole di segnalazione la sentenza Sez. L, n. 24189(in corso di massimazione), est. Venuti, che ha ribadito che costituisce vizio di motivazione su un punto decisivo della controversa la mancata considerazione – da parte del giudice di merito – di una determinata circostanza in ordine alla soluzione giuridica della controversia; ne consegue che la prospettazione del detto vizio comporta per la parte impugnante non la sollecitazione della Cassazione ad un riesame delle risultanze di merito della causa bensì la necessità di evidenziare l'esistenza di un rapporto di causalità tra la circostanza trascurata dal giudice di merito e la soluzione data alla controversia dalla sentenza impugnata in modo tale da dimostrare che se la circostanza su cui cade il vizio fosse stata considerata la soluzione della controversia sarebbe stata diversa. Ha poi precisato Sez. L, sentenza n. 24092(in corso di massimazione), est. Venuti, che costituisce fatto (o punto) decisivo ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa. Ne consegue che la mancata valutazione di elementi probatori costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo soltanto se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, secondo un giudizio di certezza e non di mera probabilità, la valenza probatoria delle altre circostanze sulle quali il convincimento del giudice di merito è fondato (nello stesso senso, anche Sez. L, n. 25608, in corso di massimazione, est. Venuti).

In precedenza, Sez. L, n. 3668 (Rv. 625092), est. Tria, ha puntualizzato la nozione di punto decisivo della controversia, di cui al n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., evidenziando sotto un primo aspetto che essa si correla al fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all'individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto. Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, asserisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile sol per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile sol perché su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 dell'art. 360 si risolverebbe nell'investire la Corte di Cassazione del controllo sic et sempliciter dell'iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito.

L'impugnazione in cassazione va fatta entro il termine di legge, breve o lungo a seconda dei casi, occorrendo a tal fine che l'atto pervenga al destinatario: a tal fine, va ricordato che, a seguito delle decisioni della Corte costituzionale n. 477 del 2002, nn. 28 e 97 del 2004 e 154 del 2005, circa il principio della scissione fra il momento del perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario, la giurisprudenza ha affermato che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, con la conseguenza che, ove tempestiva, quella consegna evita alla parte la decadenza correlata all'inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica andava effettuata e consente alla medesima parte notificante, una volta conosciuto il motivo dell'esito negativo della notificazione per causa indipendente dalla sua volontà, di procedere legittimamente, in un tempo ragionevole, alla sua rinnovazione nei confronti dell'avente diritto anche oltre il suddetto termine previsto per la proposizione dell'atto processuale, ovvero nell'ulteriore termine appositamente concesso dal giudice per detta rinnovazione. Se poi la notifica dell'atto di impugnazione, tempestivamente consegnato all'ufficiale giudiziario, non si perfeziona per cause non imputabili al notificante, questi non incorre in alcuna decadenza ove provveda con sollecita diligenza (da valutarsi secondo un principio di ragionevolezza) a rinnovare la notificazione, a nulla rilevando che quest'ultima si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame.

Interessante sull'argomento anche Sez. L, n. 24346 (in corso di massimazione), est. Mancino, che ha opportunamente precisato che la distinzione dei momenti di perfezionamento della notifica per il notificante e il destinatario dell'atto, risultante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, trova applicazione solo quando dall'intempestivo esito del procedimento notificatorio, per la parte di questo sottratta alla disponibilità del notificante, potrebbero derivare conseguenze negative per il notificante, quale la decadenza conseguente al tardivo compimento di attività riferibile all'ufficiale giudiziario, non anche quando la norma preveda che un termine debba decorrere o un altro adempimento debba essere compiuto dal tempo dell'avvenuta notificazione, come per il deposito del ricorso per cassazione e del controricorso, dovendo essa in tal caso intendersi per entrambe le parti perfezionata, come si ricava dal tenore testuale dell'articolo 369 cod. proc. civ., al momento della ricezione dell'atto da parte del destinatario, contro cui l'impugnazione è rivolta.

In ordine alle modalità di redazione del ricorso, si è ribadito da Sez. L, n. 23174(in corso di massimazione), est. Maisano, che la prescrizione contenuta nell'art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., secondo la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d'inammissibilità, l'esposizione sommaria dei fatti di causa, non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, né accenni all'oggetto della pretesa, limitandosi ad allegare, mediante "spillatura" al ricorso, l'intero ricorso di primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l'individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell'oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura. Nella stessa linea, anche Sez. L, n. 22792(in corso di massimazione), est. Maisano, secondo la quale il ricorso per cassazione in cui l'esposizione dei fatti processuali che precedono i motivi del ricorso ed il ricorso medesimo si limitino a richiamare – anche attraverso la loro allegazione o mediante la mera riproduzione – tutti indistintamente gli atti dei precedenti gradi del processo, ivi compresi quelli formatisi nel suo corso come i verbali d'udienza, è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, non rispondendo al requisito della specificità che deve caratterizzare ogni impugnazione ed ogni suo motivo.

Quanto al deposito di atti da parte del ricorrente in cassazione, Sez. L, n. 19831, est. Arienzo, ha ritenuto che l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall'art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, «gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda» è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., ferma, in ogni caso, l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi.

Con riguardo ai contratti collettivi, l'esenzione dall'onere di depositare il contratto collettivo del settore pubblico su cui il ricorso si fonda deve intendersi limitata ai contratti nazionali, con esclusione di quelli integrativi, atteso che questi ultimi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell'amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al comparto, e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui all'art. 47, ottavo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001. Ne consegue che operano gli ordinari criteri di autosufficienza del ricorso, il quale risulta inammissibile ove il ricorrente non riporti il contenuto della normativa collettiva integrativa di cui censuri l'illogica o contraddittoria interpretazione (Sez. L, n. 23177 Rv. 628406, est. Venuti).

Resta peraltro affermato, da Sez. L, n. 7390 (Rv. 626082), est. Marotta, e Sez. L, n. 9070 (Rv. 626141), est. Venuti, che è riservata al giudice di merito l'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, in ragione della loro efficacia limitata, ed essa non è censurabile in cassazione se non per violazione delle norme di legge sull'interpretazione dei contratti o per vizi di motivazione. Si pone nella stessa linea anche Sez. L, n. 9054 (Rv. 626803), est. Pagetta, secondo la quale, in tema di interpretazione dei contratti collettivi di lavoro, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata, ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti cod. civ. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principî in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità.

Interessante, con riferimento alle conseguenze della cassazione della sentenza di appello, quanto affermato da Sez. L, n. 16934 (Rv. 627071), est. Bandini, secondo la quale, nell'ipotesi di esecuzione fondata su titolo esecutivo costituito da una sentenza di primo grado, la riforma in appello di tale sentenza determina il venir meno del titolo esecutivo, atteso che l'appello ha carattere sostitutivo e pertanto la sentenza di secondo grado è destinata a prendere il posto della sentenza di primo grado; tuttavia, nell'ipotesi in cui la sentenza d'appello sia a sua volta cessata con rinvio, non si ha una reviviscenza della sentenza di primo grado, posto che la sentenza del giudice di rinvio non si sostituisce ad altra precedente pronuncia, riformandola o modificandola, ma statuisce direttamente sulle domande delle parti, con la conseguenza che non sarà mai più possibile procedere in executivis sulla base della sentenza di primo grado (riformata della sentenza d'appello cassata con rinvio), potendo una nuova esecuzione fondarsi soltanto, eventualmente, sulla sentenza del giudice di rinvio.

Da ultimo, in tema di giudicato, nell'anno la Corte ha ricordato (Sez. L, n. 6788 Rv. 625694, est. Blasutto) che il giudicato, oltre ad avere una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, loro eredi e aventi causa, è dotato anche di un'efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel processo o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza reciproca che l'efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con la prima sentenza. (Nella specie la S.C., in un giudizio di opposizione all'esecuzione proposto dal datore di lavoro avverso il precetto notificatogli dal lavoratore, ha escluso l'efficacia riflessa della sentenza passata, in giudicato, con la quale era stata accolta analoga opposizione all'esecuzione, proposta dal datore di lavoro e per identici motivi avverso un precetto notificatogli in forza del medesimo titolo esecutivo, ma da altro lavoratore).

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CAPITOLO XXX

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Luca Varrone )

Sommario

1 Introduzione. - 2 I rimedi avverso gli atti del giudice istruttore nel procedimento di vendita per scioglimento della comunione. - 3 Caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente. - 4 Pignoramento ed espropriazione forzata immobiliare. - 5 Opposizione all'esecuzione. - 6 Opposizione agli atti esecutivi. - 7 Il titolo esecutivo giudiziale. - 8 Altri profili processuali dei giudizi di opposizione.

1. Introduzione.

Si ritiene di segnalare, in primo luogo, le pronunce delle Sezioni unite che hanno risolto contrasti interpretativi esaminati nell'anno in rassegna, e, quindi, di seguire l'ordine sistematico del codice di procedura partendo dal pignoramento, per poi passare al giudizio di opposizione all'esecuzione e a quello di opposizione agli atti esecutivi. Infine, si è scelto di dedicare un paragrafo ciascuno alle sentenze aventi oggetto procedure di esecuzione forzata fondate su titoli giudiziali e a quelle con profili strettamente processuali, in considerazione della specificità dei problemi posti.

2. I rimedi avverso gli atti del giudice istruttore nel procedimento di vendita per scioglimento della comunione.

Sez. Un., n. 18185 (Rv. 627249), est. D'Ascola, ha composto il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità in tema di scioglimento della comunione, circa l'individuazione del regime di impugnazione degli atti del giudice istruttore (o del delegato alle operazioni di vendita) relativi al procedimento di vendita, cioè se sia quello dettato dagli artt. 617 e 591-ter cod. proc. civ. o quello ricavabile dal sistema delle impugnazioni del giudizio divisionale.

Nell'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite veniva ricostruita l'evoluzione normativa dell'art. 788 cod. proc. civ., il quale in origine prevedeva esclusivamente la possibilità di vendita con incanto, pur delegabile al notaio. La legge 3 agosto 1998, n. 302 aveva introdotto gli artt. 591-bis e 591-ter cod. proc. civ., ma soprattutto aveva disposto, nell'art. 788 cod. proc. civ., il rinvio agli art. 576 e seguenti cod. proc. civ. (ora art. 569), cioè a norme del processo esecutivo. Con le riforme successive (in particolare, legge 28 dicembre 2005, n. 263 e d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito con modificazioni dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51) si è sempre più accentuata l'attrazione del procedimento di divisione nell'orbita della disciplina del processo esecutivo, poiché nel primo comma dell'art. 788 cod. proc. civ. il richiamo è ora all'art. 569 e nel secondo e terzo comma si stabilisce che la vendita si svolge, davanti all'istruttore o al professionista delegato, con applicazione degli artt. 570 ss., cioè attraverso le forme della vendita forzata.

Questa evoluzione ha spinto verso l'interpretazione secondo la quale è applicabile tutto l'impianto del processo esecutivo e quindi anche la parte relativa ai «rimedi esperibili relativamente alla regolarità dei singoli atti, specificamente ai rimedi dell'art. 591 ter cod. proc. civ. ed al rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi».

Di tale provvedimento si dà conto al cap. XXXI, § 6, in tema di procedimenti speciali, cui dunque si rinvia.

3. Caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente.

Le Sez. Un., n. 61 del 2014 (in attesa di massimazione), est. Spirito, risolvendo la questione di massima di particolare importanza rimessa dall'ordinanza interlocutoria n. 2240 del 2013, rel. De Stefano, hanno enunciato il seguente principio di diritto: «Nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell'esecuzione sull'impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva. Tuttavia, occorre distinguere: a) se l'azione si sia arrestata prima o dopo l'intervento, perché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile; b) se il difetto del titolo posto a fondamento dell'azione esecutiva del creditore procedente sia originario o sopravvenuto, posto che solo il primo impedisce che l'azione esecutiva prosegua anche da parte degli interventori titolati, mentre il secondo consente l'estensione in loro favore di tutti gli atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità».

4. Pignoramento ed espropriazione forzata immobiliare.

In materia di pignoramento presso terzi, Sez. 3, n. 14529 (Rv. 626704), est. Barreca, in deroga al principio generale secondo cui i pignoramenti a carico degli enti locali si eseguono con atto notificato al solo tesoriere dell'ente, ha ritenuto pignorabili le somme giacenti nelle apposite contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale a favore dello stesso Comune, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 30 marzo 1990, n. 76, nel caso in cui un titolo esecutivo giudiziale rechi la condanna di un Comune competente ad erogare i contributi previsti dalla legge 14 maggio 1981, n. 219, per interventi a sostegno della ricostruzione nei territori della Campania e della Basilicata colpiti dal sisma del 1980.

La sentenza Sez. 3, n. 8936 (Rv. 626019), est. Barreca, ha enunciato il principio secondo il quale il terzo che, in pendenza dell'esecuzione forzata e dopo la trascrizione del pignoramento immobiliare, abbia acquistato a titolo particolare il bene pignorato, soggiace alla disposizione di cui all'art. 2913 cod. civ., il quale, sancendo l'inefficacia verso il creditore procedente ed i creditori intervenuti delle alienazioni del bene staggito successive al pignoramento, impedisce che egli succeda nella posizione di soggetto passivo dell'esecuzione in corso, e, quindi, che sia legittimato a proporre opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615, secondo comma, cod. proc. civ.

Costituisce, invece, opposizione di terzo ex art. 619 cod. proc. civ e non opposizione agli atti esecutivi a norma dell'art. 617 cod. proc. civ., l'azione del terzo che, dopo aver acquistato a titolo particolare l'immobile pignorato, in pendenza dell'esecuzione forzata e dopo la trascrizione del pignoramento, fa valere l'invalidità del pignoramento, come atto iniziale e fondamentale del processo esecutivo, al fine dell'accertamento che il suo acquisto, benché trascritto dopo la trascrizione del pignoramento immobiliare sia efficace e opponibile nei confronti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti e valga quindi a sottrarre all'esecuzione del bene pignorato e non in quello dell'opposizione agli atti esecutivi (Sez. 3, n. 22807, in corso di massimazione, est. Vincenti).

In tema di esecuzione forzata su beni indivisi si segnalano due pronunce. La prima - Sez. 6-3, n. 6809 (Rv. 625394), est. Amendola - ha ritenuto che, mentre è consentita l'espropriazione dell'intera quota delle cose comuni spettante ad uno dei comproprietari, limitatamente a tutti i beni di una determinata specie (immobili, mobili o crediti), non è ammissibile l'espropriazione forzata della quota di un singolo bene indiviso, quando la massa in comune comprenda più cose della stessa specie, atteso che, potendosi assegnare al debitore, in sede di divisione, una parte di altro bene compreso nella medesima massa, il pignoramento rischierebbe di non conseguire i suoi effetti, per inesistenza, nel patrimonio del debitore, dell'oggetto dell'esecuzione.

La seconda - Sez. 3, n. 5384 (Rv. 625752), est. Barreca - in materia di esecuzione per rilascio ha affermato che il decreto che trasferisca all'aggiudicatario una quota di comproprietà dell'immobile espropriato e condanni il debitore esecutato al rilascio può essere eseguito coattivamente nelle forme dell'esecuzione forzata per rilascio anche nei confronti del terzo avente un legittimo titolo di detenzione, a condizione che l'ufficiale giudiziario - secondo quanto disposto dell'art. 608, secondo comma, ultimo inciso, cod. proc. civ. - ingiunga a tale codetentore qualificato di riconoscere il compossessore. Per contro, non può essere eseguito coattivamente il rilascio dell'intero immobile legittimamente detenuto dal terzo, sicché va accolta l'opposizione proposta avverso l'esecuzione per rilascio finalizzata all'immissione nel possesso dell'intero immobile in capo al creditore che ne sia soltanto comproprietario.

In tema di espropriazione forzata immobiliare devono essere segnalate altre tre pronunce. In una - Sez. 3, n. 6576 (Rv. 625390), est. De Stefano - si è ritenuto che è valido, anche se genericamente riferito alla proprietà del bene, il pignoramento che intenda sottoporre ad esecuzione un immobile costruito, oggetto di sola proprietà superficiaria in capo al debitore, sebbene si tratti di alloggio di edilizia popolare ed economica, ove il residuo patrimonio del medesimo debitore sia insufficiente ai fini del soddisfacimento delle ragioni dei creditori (principio pronunciato ai sensi dell'art. 363, terzo comma, cod. proc. civ.). Nell'altra - Sez. 6-3, n. 5934 (Rv. 625481), est. Barreca - si è stabilito che la revoca dell'aggiudicazione ex art. 487 cod. proc. civ. opera con efficacia ex tunc, travolgendo ab initio il subprocedimento di vendita (dall'avviso di vendita fino al provvedimento di aggiudicazione) e comportando il venir meno dell'obbligazione di pagare il prezzo nel termine sancito dall'ordinanza di cui all'art. 569, terzo comma, del medesimo codice, con conseguente irrilevanza, di tutte le vicende connesse all'adempimento di detta obbligazione. La terza, Sez. 3, n. 790 (Rv. 624705), est. Ambrosio, ha chiarito che, qualora all'aggiudicazione provvisoria segua un'offerta in aumento ex art. 584 cod. proc. civ. (nella specie di un sesto, attesa la formulazione di detta norma nel testo anteriore alla modifica apportata dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80) - peraltro da sola inidonea a determinare la caducazione dell'aggiudicazione provvisoria, tale effetto invece ricollegandosi all'apertura della gara disposta dal giudice dell'esecuzione - con successiva assegnazione definitiva ad altro soggetto, l'inadempimento di quest'ultimo comporta, ex art. 587 del medesimo codice, la decadenza dell'aggiudicazione e la disposizione di un nuovo incanto, senza che possa rivivere la precedente aggiudicazione provvisoria.

Di rilievo, infine, è la sentenza Sez. 3, n. 3656 (Rv. 625222), est. Barreca, con la quale da un lato si è affermato che il creditore pignorante, che intenda far valere nel processo già instaurato un ulteriore credito nei confronti del medesimo debitore, può intervenire nell'esecuzione ai sensi degli artt. 499 ss. cod. proc. civ., purché in possesso dei generali requisiti occorrenti ai fini della relativa legittimazione e dall'altro che, l'intimazione ad adempiere l'obbligazione pecuniaria risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di dieci giorni, ai sensi dell'art. 480, primo comma, cod. proc. civ., deve riferirsi ad un debito già scaduto o comunque esigibile alla data di notificazione del precetto, risultando lo stesso precetto soltanto in tal caso idoneo a consentire, nel termine di novanta giorni, previsto dall'art. 481 cod. proc. civ., il regolare inizio del processo per espropriazione col pignoramento.

5. Opposizione all'esecuzione.

La prima pronuncia di rilievo - Sez. 3, n. 6102 (Rv. 625371), est. D'Amico - riguarda la distinzione tra opposizione all'esecuzione e l'opposizione agli atti esecutivi, in occasione della quale si è stabilito che la contestazione dell'intimato concernente le spese indicate in precetto (asseritamente non dovute perché non conformi alle tariffe professionali in vigore), investe il diritto sostanziale del creditore all'adempimento dell'obbligazione, sicché, ponendo in discussione quel diritto per come compiutamente riportato nel precetto, deve qualificarsi come opposizione all'esecuzione, e non agli atti esecutivi.

Sui rapporti tra l'opposizione all'esecuzione e l'opposizione in sede di distribuzione ex art. 512 cod. proc. civ., Sez. 3, n. 15654 (Rv. 626906), est. Frasca, ha chiarito che l'opposizione in sede di distribuzione e quella proposta ai sensi dell'art. 615 cod. proc. civ. si pongono in un rapporto di successione cronologica, con conseguente esclusione della loro concorrenza (essendo l'una esperibile sino a che non si giunga alla fase della distribuzione, l'altra, invece, a partire da tale momento). Ne consegue che fino a quando l'opposizione ex art. 615 cod. prc. civ. risulti ancora sub iudice, e fino al momento in cui la procedura esecutiva pervenga alla fase della distribuzione, i fatti con essa proposti non possono essere dedotti - tanto nella disciplina previgente al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80, quanto in quella da esso introdotta - con l'opposizione di cui all'art. 512 cod. proc. civ., né essere valutati automaticamente dal giudice dell'esecuzione.

Con Sez. 3, n. 14048 (Rv. 626699), est. De Stefano, si è qualificata come opposizione all'esecuzione l'azione proposta da un Comune avverso la procedura di espropriazione intentata presso terzi diversi dal suo tesoriere, in violazione del divieto stabilito dall'art. 159, comma 1, della legge 18 agosto 2000, n. 267, in quanto ciò che viene in contestazione è la stessa pignorabilità dei beni aggrediti.

Meritevole di segnalazione Sez. 3, n. 2970 (Rv. 625292), est. Barreca, che ha stabilito che l'onere della prova dei presupposti di applicabilità dell'art. 170 cod. civ. grava sulla parte che intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, sicché - in caso di opposizione proposta dal debitore ai sensi dell'art. 615 cod. proc. civ. avverso l'esecuzione avente ad oggetto tali beni - spetta al debitore opponente dimostrare non soltanto la regolare costituzione del fondo patrimoniale e la sua opponibilità nei confronti del creditore, ma anche che il debito per cui si procede venne contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia, allegando e provando quali siano i titoli dai quali le obbligazioni siano sorte ed il contesto nell'ambito del quale vennero contratte, al fine di consentire al giudice di pervenire - anche in via presuntiva - all'esclusione della loro riconducibilità ai bisogni della famiglia.

6. Opposizione agli atti esecutivi.

Tra le pronunce della Suprema Corte intervenute, nell'anno in rassegna, in tema di opposizione agli atti esecutivi, merita di essere rimarcata Sez. 3, n. 18761 (Rv. 627504), est. Barreca, con la quale si è confermata l'interpretazione secondo la quale nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi si ha mutatio libelli quando si avanzi un motivo di contestazione della regolarità formale di un atto del processo esecutivo diverso da quello posto a fondamento dell'atto introduttivo dell'opposizione, facendo così valere una causa petendi fondata su un vizio dell'atto non prospettato prima, con l'effetto di porre un nuovo tema d'indagine e di ampliare i termini della controversia. Ne consegue, pertanto, che il motivo di opposizione agli atti esecutivi proposto nel corso del processo è inammissibile, a prescindere dal fatto che attenga ad un vizio dello stesso atto opposto e che comporti identico petitum di annullamento (o revoca o modifica) del medesimo atto, irrilevante essendo, altresì, la presenza - nel ricorso ex art. 617 cod. proc. civ. - di una riserva «di ulteriormente sviluppare i motivi», la quale non può legittimare la proposizione di motivi nuovi.

Sicuramente degna di menzione è Sez. 6-3, n. 13281 (Rv. 626642), est. Ambrosio, che ha ritenuto che colui che, agendo ex art. 617 cod. proc. civ., mostri di aver avuto conoscenza dell'atto impugnato, ancorché non ritualmente comunicatogli, o prima che gli venga comunicato un atto del procedimento successivo idoneo a fargli acquisire necessariamente conoscenza (o il dovere di conoscenza) degli atti precedenti, fra cui quello non comunicato, deve indicare nell'atto di opposizione quando abbia avuto effettiva conoscenza dell'atto nullo, dandone altresì dimostrazione (sempreché la relativa prova non sia evincibile dai documenti prodotti dalla controparte o, comunque, acquisiti al processo).

Con altra pronuncia in tema di atti impugnabili con il giudizio di opposizione agli atti esecutivi - Sez. 3, n. 2968 (Rv. 625428), est. Barreca - si è detto che può costituire oggetto di opposizione agli atti esecutivi soltanto l'atto del processo esecutivo, viziato nelle forme o nei presupposti, che abbia incidenza dannosa nella sfera degli interessati, tale che sia attualmente configurabile un interesse reale alla rimozione dei suoi effetti. È pertanto, inammissibile l'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. - per carenza di interesse ad impugnare - allorché investa provvedimenti del giudice dell'esecuzione che abbiano finalità di mero governo del processo, come è tipicamente quello di rinvio dell'udienza, salvo che detti provvedimenti non siano abnormi, e cioè rechino statuizioni non coerenti con la funzione riconosciuta ad un determinato atto dall'ordinamento, e pregiudizievoli per le parti. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha escluso la ricorrenza delle condizioni legittimanti l'opposizione, in quanto il rinvio dell'udienza venne contenuto in un breve arco temporale e motivato dal giudice con la necessità di acquisire documentazione rilevante ai fini della definizione del processo esecutivo).

Di rilievo Sez. 3, n. 19305 (Rv. 627714), est. Amendola, che ha ritenuto che in tema di purgazione dalle ipoteche, qualora uno dei creditori eserciti il diritto, previsto dall'art. 2891 cod. civ., di far vendere il bene ipotecato richiedendone l'espropriazione, il procedimento di volontaria giurisdizione attivato dall'acquirente evolve in processo esecutivo, tanto è vero che, ai sensi dell'art. 795 cod. proc. civ., il giudice al quale l'istanza è proposta, verificate le condizioni stabilite dalla legge per l'ammissibilità della richiesta, deve disporre con decreto che si proceda a norma degli artt. 567 e ss. cod. proc. civ. Ne deriva che il provvedimento del tribunale, positivo o negativo che sia, è già un provvedimento del giudice dell'esecuzione, soggetto al rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi e quindi privo dell'attitudine alla definitività, derivandone l'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione.

Inoltre, si è stabilito con altra pronuncia - Sez. 6-3, n. 13038 (Rv. 626357), est. Barreca - che il vizio di notificazione del precetto rileva se di gravità tale da determinare l'inesistenza della notificazione, ovvero l'impossibilità di raggiungere il suo scopo tipico, lasciando a disposizione del debitore un termine per adempiere inferiore a quello minimo di dieci giorni sancito dall'artt. 480 cod. proc. civ. sicché, ove tale notificazione sia eseguita da un ufficiale giudiziario territorialmente incompetente la conseguente nullità, non impedendo il perseguimento delle finalità del precetto, è sanata dall'avvenuta proposizione, da parte dell'intimato, dell'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ.

Non riscontrandosi precedenti specifici (da ultimo n. 2588 del 1994, Rv. 485782), è utile in questa sede segnalare Sez. 3, n. 12115 (Rv. 626398), est. Vincenti, la quale ha affermato che qualora l'opponente non abbia dedotto, con l'opposizione agli atti esecutivi, quale vizio dell'ordinanza relativa alla sospensione dell'esecuzione, che essa non era stata adottata dal giudice dell'esecuzione, non è deducibile in cassazione un vizio di attività processuale da parte del giudice dell'opposizione nel non aver verificato di ufficio se l'ordinanza fosse o no immune da vizi di questo tipo in quanto non costituendo il giudizio di opposizione agli atti esecutivi una fase del processo esecutivo, al giudice della cognizione non spetta il potere di accertare di ufficio l'esistenza di vizi dell'atto, ma solo quello di conoscere dei vizi dedotti dalle parti con l'opposizione.

Sempre in tema di giudizio di opposizione agli atti esecutivi un cenno, meritano, infine, altre due pronunce, la prima Sez. 6-3, n. 1012 (Rv. 625032), est. Barreca, con la quale si è stabilito che l'atto che introduce il giudizio di merito sull'opposizione, ai sensi dell'art. 618, comma secondo, cod. proc. civ., deve contenere motivi di opposizione coincidenti con quelli proposti col ricorso introduttivo della fase dinanzi al giudice dell'esecuzione, ma è in facoltà dell'opponente - ove abbia, col ricorso davanti al giudice dell'esecuzione, proposto più di un motivo di opposizione - rinunciare ad uno o più degli originari motivi, riproponendo nell'atto introduttivo del giudizio di merito sull'opposizione soltanto uno o taluno di questi. In tale eventualità, il giudizio di merito sarà limitato soltanto ai motivi di opposizione agli atti esecutivi così riproposti, e la seconda, Sez. 3, n. 2968 (Rv. 625428), est. Barreca, la quale ha affermato che può costituire oggetto di opposizione agli atti esecutivi soltanto l'atto del processo esecutivo, viziato nelle forme o nei presupposti, che abbia incidenza dannosa nella sfera degli interessati, tale che sia attualmente configurabile un interesse reale alla rimozione dei suoi effetti. È pertanto, inammissibile l'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. - per carenza di interesse ad impugnare - allorché investa provvedimenti del giudice dell'esecuzione che abbiano finalità di mero governo del processo, come è tipicamente quello di rinvio dell'udienza, salvo che detti provvedimenti non siano abnormi, e cioè rechino statuizioni non coerenti con la funzione riconosciuta ad un determinato atto dall'ordinamento, e pregiudizievoli per le parti.

7. Il titolo esecutivo giudiziale.

Con riferimento all'esecuzione forzata fondata su titoli esecutivi giudiziali si contano numerose pronunce, tra le quali merita di essere segnalata Sez. L, n. 16934 (Rv. 627071), est. Bandini, che afferma il principio secondo il quale nell'ipotesi di esecuzione fondata su titolo esecutivo costituito da una sentenza di primo grado, la riforma in appello di tale sentenza determina il venir meno del titolo esecutivo, atteso che l'appello ha carattere sostitutivo e, pertanto, la sentenza di secondo grado è destinata a prendere il posto della sentenza di primo grado. Inoltre si è precisato che, nell'ipotesi di cassazione con rinvio della sentenza d'appello, non si ha una reviviscenza della sentenza di primo grado, posto che la sentenza del giudice di rinvio non si sostituisce ad altra precedente pronuncia, riformandola o modificandola, ma statuisce direttamente sulle domande delle parti, con la conseguenza che non sarà mai più possibile procedere in executivis sulla base della sentenza di primo grado (riformata della sentenza d'appello cassata con rinvio), potendo una nuova esecuzione fondarsi soltanto, eventualmente, sulla sentenza del giudice di rinvio. Da segnalare che i precedenti in materia sono contrastanti: conformi, nell'anno in esame, Sez. 3 n. 2955 (Rv. 625370), est. Barreca e n. 6113 (Rv. 625464), est. Uccella; difforme, Sez. 3, n. 3074 (Rv. 625367-625368), est. Frasca.

Quest'ultima decisione ha affermato, invero, che la cassazione con rinvio della sentenza di appello confermativa di quella di primo grado costituente titolo esecutivo, ove l'esecuzione abbia avuto inizio sulla base della decisione del giudice di prime cure e sia proseguita con atti successivi alla pronuncia della sentenza di appello poi cassata, determina - a norma dell'art. 336, secondo comma, cod. proc. civ. - la caducazione soltanto di tali atti successivi, mentre restano fermi quelli pregressi, potendo riprendere l'esecuzione dall'ultimo di essi, salvo che, ai sensi dell'art. 283 cod. proc. civ., il giudice del rinvio sospenda l'esecutività della sentenza di primo grado, delibando le ragioni della disposta cassazione.

In senso conforme, in particolare, Sez. 3, n. 2955 (Rv. 625370), est. Barreca, la quale, in estrema sintesi, stabilisce che l'appello costituisce un mezzo di impugnazione che, attuando il principio del doppio grado di giudizio, si conclude con una sentenza destinata a sostituirsi a quella di primo grado - purché investa il merito del rapporto controverso - ad ogni effetto e, dunque, anche a quelli esecutivi, sicché la cassazione della sentenza di secondo grado non fa rivivere l'efficacia di quella di primo grado, indipendentemente dal fatto che la stessa fosse stata confermata o riformata in appello.

Sul punto, Sez. 3, n. 9161 (Rv. 625824), est. Barreca, ha anche precisato che l'effetto sostitutivo della sentenza d'appello, la quale confermi integralmente o riformi parzialmente la decisione di primo grado, comporta che, ove l'esecuzione non sia ancora iniziata, essa dovrà intraprendersi sulla base della pronuncia di secondo grado, mentre, se l'esecuzione sia già stata promossa in virtù del primo titolo esecutivo, la stessa proseguirà sulla base delle statuizioni ivi contenute che abbiano trovato conferma in sede di impugnazione.

Con Sez. 3, n. 14048 (Rv. 626698), est. De Stefano, si è stabilito che in caso di titolo esecutivo giudiziale provvisorio, la sospensione della sua esecutività - come nell'ipotesi di cui all'art. 283 cod. proc. civ. ad opera del giudice dell'impugnazione - non comporta la sopravvenuta illegittimità degli atti esecutivi nel frattempo compiuti, ma impone la sospensione, ai sensi dell'art. 623 cod. proc. civ., del processo esecutivo iniziato sulla base di detto titolo.

Sui limiti del giudizio di opposizione all'esecuzione fondata su sentenza passata in giudicato si è detto - Sez. L, n. 13811 (Rv. 626724), est. Mammone - che il giudice può compiere nei confronti della sentenza esecutiva ex art. 431 cod. proc. civ., posta alla base della promossa esecuzione, ed al pari della sentenza passata in giudicato, solo una attività interpretativa, volta ad individuarne l'esatto contenuto e la portata precettiva sulla base del dispositivo e della motivazione, con esclusione di ogni riferimento ad elementi esterni, e tale interpretazione è incensurabile in sede di legittimità ove non risultino violati i criteri giuridici che regolano l'estensione e i limiti del provvedimento esaminato e se il procedimento interpretativo seguito dai giudici del merito sia immune da vizi logici.

Con riguardo ai vizi del titolo esecutivo giudiziale si è affermato - Sez. 3, n. 8576 (Rv. 625875), est. De Stefano - che un titolo esecutivo giudiziale che, nel dispositivo, si limiti a condannare al pagamento di accessori «dal dì del dovuto», senza altra specificazione e senza espressa o implicita menzione di tale decorrenza nel corpo della motivazione, in quanto tautologico ed irrimediabilmente illegittimo per indeterminabilità dell'oggetto, viene meno alla sua funzione di identificazione compiuta e fruibile - cioè specifica e determinata, ovvero almeno idoneamente determinabile - dell'esatta ragione del beneficiario della condanna e dell'oggetto di questa.

Deve essere segnalata Sez. L, n. 3667 (Rv. 625093), est. Mancino, secondo cui il titolo esecutivo giudiziale (nella specie, decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo perché non opposto) copre i fatti estintivi (o modificativi o impeditivi) del credito intervenuti anteriormente alla formazione del titolo e non può essere rimesso in discussione dinanzi al giudice dell'esecuzione ed a quello dell'opposizione per fatti anteriori alla sua definitività, in virtù dell'intrinseca riserva di ogni questione di merito al giudice naturale della causa, per cui, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell'esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l'efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo solo controllare la persistente validità di quest'ultimo ed attribuire rilevanza ai fatti posteriori alla sua formazione.

Da ultimo si richiama Sez. 3, n. 19595 (Rv. 627518), est. De Stefano, sui rapporti tra decreto ingiuntivo opposto e sentenza di rigetto dell'opposizione con la quale si è ritenuto che qualora sia integralmente respinta l'opposizione avverso un decreto ingiuntivo non esecutivo, con sentenza che non pronunci sulla sua esecutività, il titolo fondante l'esecuzione non è quest'ultima, bensì, quanto a sorte capitale, accessori e spese da quello recati, il decreto stesso, la cui esecutorietà è collegata, appunto, alla sentenza, in forza della quale viene sancita indirettamente, con attitudine al giudicato successivo, la piena sussistenza del diritto azionato, nell'esatta misura e negli specifici modi in cui esso è stato posto in azione nel titolo, costituendo, invece, la sentenza titolo esecutivo solo per le eventuali, ulteriori voci di condanna in essa contenute. Per ulteriori profili relativi ai rapporti fra procedimento monitorio ed esecuzione, si rinvia al cap. XXXI, § 1.

8. Altri profili processuali dei giudizi di opposizione.

Si segnalano Sez. 3, n. 19498 (Rv. 627585), est. Carluccio, e Sez. 6-3, n. 13281 (Rv. 626642), est. Ambrosio, entrambe già menzionate in tema di raggiungimento dello scopo dell'atto, onde si rinvia ad altra sede (cap. XXV, § 9.1).

In tema di termini processuali nel processo esecutivo si riscontrano diverse pronunce. In particolare, sull'applicabilità della sospensione feriale dei termini con riguardo al termine di efficacia del pignoramento, di cui all'art. 497 cod. proc. civ., si è ritenuto - Sez. 3, n. 18652 (Rv. 627432), est. Barreca - che non possa ricondursi all'espressione «cause civili relative ai procedimenti di opposizione all'esecuzione», per le quali, ai sensi dell'art. 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, richiamato dall'art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, non si applica la sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, pertanto in tal caso tale sospensione opera.

Per Sez. 3, n. 6107 (Rv. 625360), est. De Stefano, la sospensione dei termini processuali nei giudizi di opposizione all'esecuzione non opera con riferimento al termine per proporre il ricorso incidentale nel giudizio di cassazione, di cui all'art. 371, secondo comma, cod. proc. civ., sussistendo anche riguardo ad esso le esigenze di sollecita trattazione giustificate dalla particolare natura dell'oggetto della controversia.

Sempre con riferimento ai termini processuali si è chiarito inoltre - Sez. 3, n. 11565 (Rv. 626371), est. D'Alessandro - che nella procedura esecutiva per espropriazione immobiliare il termine stabilito dall'art. 566 cod. proc. civ. per gli interventi tardivi dei creditori iscritti e privilegiati è unico per tutti i creditori, essendo costituito dall'udienza in cui, avvisate le parti dell'avvenuto deposito del progetto di distribuzione, il giudice dell'esecuzione è messo in condizione di dichiarare, in assenza di contestazioni, l'esecutività del progetto; deve, pertanto, escludersi che il suddetto termine possa decorrere, per ciascun creditore, dal momento in cui ha ricevuto l'avviso suddetto.

Con riferimento al termine per proporre opposizione all'esecuzione da parte del terzo che pretenda di avere la proprietà dei beni pignorati Sez. 3, n. 8205 (Rv. 625957), est. Uccella, ha ritenuto che la fase della vendita forzata inizia dopo l'ordinanza che ne stabilisce le modalità e la data, per concludersi con il provvedimento di trasferimento coattivo del bene che segue l'aggiudicazione. Pertanto, il termine finale per proporre l'opposizione all'esecuzione da parte del terzo che pretenda di avere la proprietà dei beni pignorati è costituito non dal momento in cui si dispone la vendita o l'assegnazione (secondo il tenore letterale dell'art. 619, primo comma, cod. proc. civ.), bensì da quello in cui, con la realizzazione di tali atti, giunge a compimento l'intero iter espropriativo, onde l'opposizione è ammessa anche dopo l'aggiudicazione dell'immobile, fino a quando non sia intervenuto il decreto di trasferimento, rispetto al quale gli atti precedenti assumono funzione meramente preparatoria. Sul punto non si riscontrano precedenti.

Infine deve segnalarsi che il diritto all'equa riparazione, riconosciuto dall'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89 è stato ritenuto configurabile da Sez. 6-2, n. 16028 (Rv. 627014), est. Carrato, anche in relazione al processo di esecuzione forzata ed a favore di tutte le parti del processo medesimo. Ne consegue che è legittimato a chiedere l'indennizzo anche il creditore interventore, senza che possa avere rilevanza ostativa la circostanza che lo stesso creditore, a distanza di un apprezzabile periodo dal suo intervento, abbia deciso di rinunciare alla pretesa esecutiva.

  • procedimento giudiziario
  • ingiunzione

CAPITOLO XXXI

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 Il procedimento d'ingiunzione. - 2 Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. - 3 I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. - 4 Il procedimento sommario di cognizione. - 5 I procedimenti camerali. - 6 Gli altri procedimenti speciali.

1. Il procedimento d'ingiunzione.

Nel corso del 2013 la Suprema Corte ha reso interessanti statuizioni riguardanti i procedimenti speciali di cui al libro quarto del codice di procedura civile. Al fine di consentirne un adeguato apprezzamento, quindi, si procede ad una loro trattazione distinta con riferimento a ciascuna delle tipologie procedimentali disciplinate dal menzionato libro del codice di rito.

Con riguardo al procedimento monitorio, occorre doverosamente premettere che il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nell'apportare alcune variazioni al codice di procedura civile, è intervenuto [cfr. art. 78, primo comma, lett. a) e b)] anche sugli articoli 645 e 648 di quest'ultimo.

In particolare, alla prima di tali disposizioni è stato aggiunto un ulteriore periodo al secondo comma, prevedendosi che «l'anticipazione di cui all'articolo 163 bis, terzo comma, deve essere disposta fissando l'udienza per la comparizione delle parti non oltre trenta giorni dalla scadenza del termine minimo a comparire»; l'art. 648, primo comma, cod. proc. civ., invece, dopo il suddetto intervento riformatore, sancisce che «il giudice istruttore, se l'opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione, può concedere, provvedendo in prima udienza, con ordinanza non impugnabile, l'esecuzione provvisoria del decreto, qualora non sia già stata concessa a norma dell'art. 642. Il giudice concede l'esecuzione provvisoria parziale del decreto ingiuntivo opposto limitatamente alle somme non contestate, salvo che l'opposizione sia proposta per vizi procedurali».

Le riportate modifiche, applicabili, alla stregua di quanto desumibile dall'art. 78, secondo comma, del menzionato decreto, ai procedimenti instaurati, a norma dell'art. 643, ultimo comma, cod. proc. civ., successivamente alla sua data di entrata in vigore, e cioè dal 22 giugno 2013, mirano, evidentemente, ad ottenere una maggiore speditezza nell'accertamento giudiziale dei crediti, obbiettivo che si cerca di perseguire tramite una calendarizzazione più stringente della fase di opposizione nell'auspicio di evitare prassi dilatorie spesso in uso presso i tribunali: in buona sostanza, dal loro combinato disposto, il nuovo processo di opposizione dovrebbe garantire al creditore di avere una più celere risposta in ordine alla soddisfazione della sua pretesa.

Solo il tempo, però, chiarirà se la loro concreta incidenza nella pratica sarà proprio quella sperata dal legislatore.

Ciò posto, e venendo all'esame delle statuizioni maggiormente rilevanti che hanno interessato il procedimento d'ingiunzione nella sua duplice fase, monitoria e di opposizione, merita di essere immediatamente segnalata Sez. Un., n. 21675 (Rv. 627418), est. Travaglino, la quale ha sancito che, nel regime della legge 13 giugno 1942, n. 794 (ivi applicabile ratione temporis), l'opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dall'avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile deve proporsi con atto di citazione, sicché, qualora l'opponente abbia introdotto il corrispondente giudizio con ricorso, la sanatoria del vizio procedurale - operante quando, con la regolare instaurazione del contraddittorio, conseguente alla costituzione della controparte in assenza di eccezione alcuna, sia stato raggiunto lo scopo dell'atto, in virtù del principio di conversione degli atti processuali nulli di cui all'art. 156 cod. proc. civ. - sussiste alla condizione che il ricorso venga notificato nel termine indicato nel decreto, analogamente a come si sarebbe dovuto procedere con la citazione.

Così statuendo, le Sezioni unite, dopo aver premesso che oggetto del suo esame sarebbe stato il contenuto delle disposizioni di cui agli artt. 28, 29 e 30 della legge 13 giugno 1942, n. 794, dettate in tema di Onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile, nel testo vigente fino all'intervento normativo di cui all'art. 16 del d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150 (inapplicabile, come si è detto, alla fattispecie decisa), hanno inteso, da un lato, confermare l'orientamento tradizionale espresso fin da Sez. 2, n. 1283 del 16 febbraio 1999 (Rv. 523268); dall'altro, ribadire la costante opinione dei giudici di legittimità secondo cui la sanatoria di un'opposizione a decreto ingiuntivo erroneamente proposta con ricorso (anziché con atto di citazione) è ammissibile qualora quest'ultimo venga notificato nel termine indicato nel decreto, analogamente a come si sarebbe dovuto procedere con la citazione, non mancando, peraltro, di evidenziare come soluzioni sostanzialmente speculari sono state fornite dalla medesima giurisprudenza nelle fattispecie riguardanti: a) l'opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro e previdenza, nonché per crediti relativi a rapporti in ordine ai quali è prevista la cognizione nelle forme del rito del lavoro (quali quelli locatizi), laddove essa sia erroneamente proposta con citazione anziché con il ricorso ivi necessario; b) l'impugnazione (appello) proposta con atto avente forma diversa (ricorso o citazione) rispetto a quella (citazione o ricorso) imposta; c) le opposizioni avverso provvedimenti giudiziari.

È opportuno, inoltre, rimarcare che, con la medesima pronuncia, si è altresì chiarito che il diverso principio affermato da Sez. Un., n. 8491 del 2011 (Rv. 616563) - secondo cui, in tema di condominio negli edifici, le impugnazioni delle delibere dell'assemblea, in applicazione della regola generale dettata dall'art. 163 cod. proc. civ., vanno proposte con citazione, non disciplinandone l'art. 1137 cod. civ. la forma, potendo comunque ritenersi valide quelle proposte impropriamente con ricorso, sempreché l'atto risulti depositato in cancelleria entro il termine stabilito dall'art. 1137 citato - ragionevolmente ispirato, sul piano funzionale, alla luce dei principî del giusto processo e dell'affidamento in buona fede su prassi interpretative consolidate, dall'intento di evitare conseguenze pregiudizievoli, sotto il profilo delle preclusioni processuali, alle impugnazioni proposte con ricorso, non possa trovare alcuna, più generale applicazione al di fuori del territorio delle delibere condominiali, apparendo affatto indubitabile che, per valutare la tempestività di una impugnazione da proporsi con atto di citazione, occorra fare riferimento alla data di notifica dell'atto e non a quella del suo deposito nella cancelleria del giudice ad quem, di talché la forma del ricorso mai potrebbe considerarsi, in quanto tale, idonea al raggiungimento dello scopo dell'atto di citazione, in assenza di uno degli elementi essenziali a detto fine, quale la vocatio in ius.

Interessanti si rivelano, poi, investendo il problema dei rapporti tra il decreto ingiuntivo e la sentenza che decide sulla opposizione ad esso, ai fini della individuazione, in concreto, del titolo da utilizzarsi dal creditore per l'esecuzione, Sez. 3, n. 20052 (Rv. 627655), est. Barreca, a tenore della quale se il giudizio ex art. 645 cod. proc. civ. si concluda con una sentenza di parziale accoglimento, recante tuttavia un'autonoma condanna dell'opponente-debitore al pagamento, in favore dell'opposto-creditore, di una somma inferiore a quella oggetto di ingiunzione, il titolo esecutivo è costituito, pur in mancanza di una revoca espressa del decreto ingiuntivo, esclusivamente dalla sentenza di condanna, che costituisce dunque il titolo da notificare, ai sensi dell'art. 479 cod. proc. civ., risultando inapplicabile la norma dell'art. 654 cod. proc. civ. al precetto intimato prima di procedere all'esecuzione forzata; Sez. 3, n. 19595 (Rv. 627518), est. De Stefano, che ha sancito che qualora sia integralmente respinta l'opposizione avverso un decreto ingiuntivo non esecutivo, con sentenza che non pronunci sulla sua esecutività, il titolo fondante l'esecuzione non è quest'ultima, bensì, quanto a sorte capitale, accessori e spese da quello recati, il decreto stesso, la cui esecutorietà è collegata, appunto, alla sentenza, in forza della quale viene sancita indirettamente, con attitudine al giudicato successivo, la piena sussistenza del diritto azionato, nell'esatta misura e negli specifici modi in cui esso è stato posto in azione nel titolo, costituendo, invece, la sentenza titolo esecutivo solo per le eventuali, ulteriori voci di condanna in essa contenute; Sez. 3, n. 5381 (Rv. 625378), est. De Stefano, secondo cui, promossa una procedura esecutiva sulla base di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, in pendenza del giudizio di opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. il titolo esecutivo resta - fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza che rigetti la proposta opposizione - il provvedimento monitorio, sicché è in relazione ad esso che deve individuarsi l'eventuale sopravvenienza di un fatto estintivo dell'obbligazione; e Sez. 3, n. 21840 (Rv. 628155), est. Barreca, la quale ha ritenuto che, in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, anche nel caso di sentenza non definitiva di accoglimento parziale dell'opposizione e di revoca del decreto, con prosecuzione del giudizio ai fini dell'accertamento dell'entità del credito oggetto della domanda contenuta nel ricorso monitorio, consegue, ai sensi dell'art. 653, comma secondo, cod. proc. civ., la conservazione degli atti di esecuzione già compiuti in forza dell'originaria esecutività del decreto (atti nei quali rientra anche l'ipoteca iscritta ai sensi dell'art. 655 cod. proc. civ.), nei limiti della somma o della quantità ridotta, quali risulteranno dalla sentenza definitiva.

Opportune precisazioni, quanto al rispetto del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, possono, invece, desumersi da Sez. 2, n. 7220 (Rv. 625530), est. Nuzzo, che ha ritenuto affetta dal vizio di ultrapetizione, ex art. 112 cod. proc. civ., la decisione resa all'esito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la quale - revocato parzialmente il provvedimento monitorio - ordini, in assenza di apposita domanda, la restituzione della somma versata in eccedenza in forza di esso, ritenuta la restituzione "necessaria conseguenza" della revoca parziale, atteso, invece, che la domanda di restituzione di una parte della somma compresa nel decreto ingiuntivo presenta una propria autonomia rispetto alla richiesta, sia pur implicita, di revoca parziale del decreto stesso, da rapportarsi alle ragioni su cui l'ingiunto ha fondato i motivi di opposizione, e da Sez. 2, n. 22281 (Rv. 627819), est. Nuzzo, che ha affermato che laddove, con il ricorso monitorio, siano stati richiesti gli interessi sulla sorte capitale, la sentenza che, all'esito della successiva opposizione ex art. 645 cod. proc. civ., introduttiva di un ordinario giudizio di cognizione nel quale il giudice deve accertare la fondatezza delle pretese fatte valere dal ricorrente opposto e delle eccezioni e difese dell'opponente, revochi il decreto ingiuntivo, condannando quest'ultimo al pagamento di una somma minore di quella originariamente portata dal decreto stesso, deve pronunciare anche sulla domanda relativa agli interessi, con riferimento al diverso importo oggetto di condanna, pur in difetto di una specifica riproposizione, da parte del creditore, della relativa domanda.

Quanto, poi, alla necessità della prova scritta del credito azionato in via monitoria, sembra utile menzionare Sez. 2, n. 20843 (Rv. 627638), est. Parziale, la quale ha chiarito che, al fine di ottenere l'emissione del decreto ingiuntivo in tema di contratti con prestazioni corrispettive, l'istante non è tenuto a fornire la duplice completa dimostrazione dell'esistenza dell'obbligazione di cui invoca il soddisfacimento e dell'avvenuto adempimento dell'obbligazione propria, cui l'esigibilità dell'altra sia subordinata, essendo sufficiente la prova del primo degli indicati effetti, cui si accompagni l'offerta di elementi indiziari in ordine al secondo, e Sez. 1, n. 17603 (Rv. 627318), est. Di Virgilio, secondo cui la documentazione prodotta con il ricorso per ingiunzione è destinata, per effetto dell'opposizione al decreto e della trasformazione in giudizio di cognizione ordinaria, ad entrare nel fascicolo del ricorrente, restando a carico della parte opposta l'onere di costituirsi in giudizio depositando il fascicolo contenente i documenti offerti in comunicazione, conseguendone, così, che, in difetto di tale produzione, questi ultimi non entrano a fare parte del fascicolo d'ufficio e il giudice non può tenerne conto.

Degna di nota risulta, inoltre, Sez. 3, n. 8282 (Rv. 626031), est. D'Amico, perché, sostanzialmente dando continuità all'insegnamento di Sez. Un., 26128 del 2010 (Rv. 615487), ha statuito che la domanda di arricchimento senza causa è inammissibile, ove proposta dall'opposto nel giudizio incardinato ai sensi dell'art. 645 cod. proc. civ. avverso il decreto ingiuntivo dallo stesso conseguito per il pagamento di prestazioni professionali, non potendo egli far valere in tale sede domande nuove rispetto a quella di adempimento contrattuale posta alla base della richiesta di provvedimento monitorio, salvo quelle conseguenti alla domande ed alle eccezioni in senso stretto proposte dall'opponente, determinanti un ampliamento dell'originario thema decidendum fissato dal ricorso ex art. 633 cod. proc. civ. Laddove, Sez. 1, n. 14910 (Rv. 626881), est. Cultrera, in tema di opposizione tardiva ex art. 650 cod. proc. civ., ha precisato che tale rimedio comprende, nell'ipotesi della irregolarità della notificazione, tutti i vizi che la inficiano e, quindi, anche la notificazione del decreto ingiuntivo oltre i termini di legge, che, ai sensi dell'art. 644 cod. proc. civ., comporta l'inefficacia del provvedimento, senza tuttavia escludere la qualificabilità del ricorso per ingiunzione come domanda giudiziale; su di essa, pertanto, si costituisce il rapporto processuale, sebbene per iniziativa della parte convenuta, che eccepisce l'inefficacia e si difende al contempo nel merito, ed è, in conseguenza, compito del giudice adìto provvedere in sede contenziosa ordinaria, sia sull'eccezione che sulla fondatezza della pretesa azionata nel procedimento monitorio.

Si segnalano, poi, Sez. 2, n. 26252 (Rv. 628296), est. Bursese, la quale ha affermato che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, la riduzione del termine di costituzione, agli effetti dell'art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., si applica anche in grado di appello; Sez. 6-1, ord. n. 7976 (Rv. 625871), rel. Dogliotti, secondo cui solo il provvedimento con cui il giudice accoglie l'istanza diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia del decreto ingiuntivo, ai sensi dell'art. 188 disp. att. cod. proc. civ., ha carattere definitivo, atteso che, viceversa, in caso di rigetto, la parte può sempre chiedere nei modi ordinari la dichiarazione di inefficacia dell'ingiunzione; e, per la sua interferenza con la disciplina delle procedure concorsuali, Sez. 1, n. 3401 (Rv. 625147), est. Di Amato, che, ribadendo un orientamento da tempo consolidatosi nella giurisprudenza della Suprema Corte, ha chiarito che, in tema di formazione dello stato passivo, ed alla stregua di quanto sancito dagli artt. 52 e 95 legge fall., ove sopravvenuta la dichiarazione di fallimento del debitore ingiunto nelle more del giudizio, da lui proposto, di opposizione a decreto ingiuntivo, detto decreto, in quanto privo della indispensabile natura di "sentenza impugnabile" esplicitamente richiesta dall'art. 95, terzo comma, legge fall., norma di carattere eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica, deve considerarsi inopponibile al fallimento, per cui il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori previa domanda di ammissione al passivo. In tale pronuncia, peraltro, si è opportunamente specificato che una siffatta disciplina non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., attesa la evidente diversità tra decreto ingiuntivo opposto e sentenza impugnabile, poiché solo nella seconda l'accertamento è avvenuto nel contraddittorio delle parti, e che, inoltre, la soggezione al concorso formale non comprime la possibilità di difesa del creditore opposto, mentre l'eccezione in favore del creditore che abbia ottenuto una sentenza impugnabile si giustifica con esigenze di economia processuale, ferma restando, comunque, la soggezione al concorso sostanziale.

Meritevoli di menzione, infine, anche solo per la peculiarità delle corrispondenti fattispecie, appaiono: Sez. 2, n. 15699 (Rv. 626980), est. Falaschi, la quale ha sostenuto che qualora la parte ricorrente si sia costituita, in sede di procedimento monitorio, a mezzo di due procuratori con uguali poteri di rappresentanza (nella specie, esercenti presso il medesimo studio), deve ritenersi che essa sia rappresentata da entrambi, con procura disgiunta, sicché la notificazione dell'atto di opposizione può essere fatta all'uno o all'altro di essi, aventi pieni poteri di rappresentanza processuale, anche ai fini della domiciliazione; Sez. 2, n. 14444 (Rv. 626584), est. Giusti, per la quale, in caso di dubbio, dovuto ad omonimia, sulla diversa identità tra il soggetto nei cui confronti sia stata domandata e pronunciata ingiunzione di pagamento ed il soggetto destinatario della notificazione del relativo decreto, quest'ultimo è legittimato a proporre opposizione tardiva ai sensi dell'art. 650 cod. proc. civ., comprendendo l'accertamento da compiere in tale ipotesi il fatto costitutivo del credito, sotto il profilo dell'individuazione delle parti del rapporto obbligatorio; Sez. 6-2, ord. n. 8950 (Rv. 625727), rel. Giusti, e Sez. 6-2 ord. 25892 (in corso di massimazione), rel. Giusti, entrambe rese in ambito di regolamento di competenza: in particolare, la prima ha sancito l'inammissibilità dell'istanza di regolamento di competenza con la quale l'opposto deduca che il giudice, anziché ordinare la cancellazione dal ruolo della causa di opposizione a decreto ingiuntivo, per avere egli aderito all'eccezione di incompetenza territoriale proposta dall'opponente, abbia accolto con sentenza l'eccezione medesima, condannandolo alle spese del giudizio, giacché l'indicata questione non riguarda la competenza, ovvero l'attribuzione della controversia alla potestas decidendi dell'uno o dell'altro giudice, mentre la seconda ha ritenuto inammissibile un regolamento di competenza sollevato, di ufficio, dal tribunale, innanzi al quale il giudice di pace adìto con l'opposizione ad un decreto ingiuntivo aveva rimesso la causa per ragioni di connessione, lamentando il solo mancato annullamento, da parte di quest'ultimo, del menzionato decreto e non anche la declaratoria di incompetenza, per motivi di connessione, dal medesimo resa; e Sez. 3, n. 4780 (Rv. 625315), est. Frasca, a tenore della quale l'inesistenza della procura alle liti relativa al ricorso per decreto ingiuntivo (nella specie, conferita da società estintasi per incorporazione) comporta l'invalidità non solo della fase monitoria e dell'ingiunzione, ma anche della domanda agli effetti della cognizione piena con il rito ordinario in sede di giudizio di opposizione, allorché l'opposto non abbia prodotto in quest'ultimo una nuova valida procura nella comparsa di risposta, con la conseguenza che il giudice deve definire l'opposizione con una pronuncia di mero rito dichiarativa del difetto del presupposto processuale del ministero del difensore.

2. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto.

Tra le pronunce, numericamente non elevate, della Suprema Corte specificamente intervenute nell'anno in tema di procedimento per convalida di licenza o sfratto, merita senz'altro di essere rimarcata Sez. 3, n. 12247 (Rv. 626372), est. De Stefano, che, nel sottolineare la peculiarità del caso concreto (giacché, negata dall'intimato la morosità, avendo egli eccepito l'avvenuto pagamento dei canoni, l'intimante aveva imputato detti pagamenti ad un diverso rapporto di sublocazione, relativo ad immobile contiguo a quello per cui era causa), si è richiamata a quell'orientamento secondo cui nel procedimento di convalida di (licenza o) sfratto l'opposizione dell'intimato dà luogo alla trasformazione del processo in ordinario giudizio di cognizione di primo grado (cfr. Sez. 3, n. 3696 del 2012, Rv. 621626; Sez. 3, n. 13963 del 2005, Rv. 582519), soggetto per di più allo speciale rito di cui all'art. 447 bis cod. proc. civ., ma a far tempo dalla pronuncia dell'ordinanza sull'istanza ex art. 665 cod. proc. civ.; con la conseguenza che, non essendo previsti - tanto meno a pena di inammissibilità - gli specifici contenuti degli atti introduttivi della fase di merito anche per quelli della fase sommaria, il thema decidendum risulta cristallizzato soltanto con la combinazione degli atti introduttivi della fase sommaria e delle memorie, appunto, integrative di cui all'art. 426 cod. proc. civ., mentre l'attore originario è, in queste ultime, in grado di emendare le sue domande (cfr. Sez. 3, n. 16335 del 2008, Rv. 603890) o anche di modificarle, soprattutto se in evidente dipendenza dalle difese di controparte.

Orbene, quest'ultima affermazione, ipotizzando la possibilità di una modifica della domanda iniziale, includendovi una domanda di pagamento fondata su di una causa petendi concorrente e legata a quella originaria da ragioni di connessione soggettiva e, parzialmente, oggettiva - sebbene conforme ad un certo indirizzo seguito della giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 8336 del 2004, Rv. 572539 e n. 12121 del 2006, Rv. 590115) - appare, però, in contrasto con quanto affermato, in altre occasioni, dalla Suprema Corte. Invero, limitando qui l'indagine alle pronunce che hanno affrontato il problema dell'allargamento del thema decidendum, nel rito locatizio scaturente dall'opposizione all'intimazione dello sfratto, su iniziativa dell'intimante (e non dell'intimato), vanno segnalate Sez. 3, n. 8411 del 2003 (Rv. 563613), e Sez. 3, n. 23908 del 2006, (Rv. 592623).

In particolare, secondo la prima, nel rito delle locazioni, così come novellato dalla legge n. 353 del 1990, che ne «ha disciplinato il procedimento secondo il rito speciale del lavoro, per il combinato disposto degli artt. 667 e 426 cod. proc. civ., una volta che il pretore [oggi Tribunale in composizione monocratica, n.d.r.] ha pronunciato (o negato) i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 cod. proc. civ., il giudizio, che è unico ed inizia con l'esercizio da parte del locatore di un'azione di condanna nella forma speciale della citazione per la convalida, prosegue dinanzi al pretore [oggi Tribunale in composizione monocratica, n.d.r.] con la facoltà per le parti di depositare memorie integrative, che non possono contenere domande nuove, a pena di inammissibilità rilevabile anche d'ufficio dal giudice, non sanata neppure dall'accettazione del contraddittorio sul punto, col solo limite della formazione del giudicato».

Del pari, la seconda esclude - sebbene non in termini assoluti - la possibilità di formulare domande nuove attraverso le memorie ex art. 426 cod. proc. civ. Si ribadisce, infatti, che nel rito locatizio - essendo esso modellato sulla falsariga del rito del lavoro - «non solo non è consentita la proposizione di alcuna domanda nuova, ma non è permessa neanche la formulazione di una emendatio (quale, nella specie, quella relativa alla domanda di pagamento dei canoni scaduti in corso di causa avanzata dopo la conversione del rito disposta ai sensi dell'art. 667 cod. proc. civ., una volta scaduti, però, i termini utili fissati con l'ordinanza di cui all'art. 426 dello stesso codice), se non nelle forme e nei termini previsti, come si desume dall'art. 420, comma primo, cod. proc. civ., secondo il quale le parti possono modificare le domande solo se ricorrono gravi motivi e previa autorizzazione del giudice». Su tale presupposto, pertanto, si reputa «inammissibile qualsiasi modificazione della domanda che non sia stata operata - con riferimento al giudizio locatizio a cognizione piena conseguente al superamento della fase speciale del procedimento per convalida - ai sensi dell'art. 426 cod. proc. civ., attraverso l'integrazione dell'atto introduttivo, nel termine perentorio fissato dal giudice, e che non sia stata autorizzata a norma del citato art. 420 cod. proc. civ., all'udienza di discussione".

Sicuramente degne di menzione, poi, sono anche Sez. 3, n. 12994 (Rv. 626739), est. De Stefano, che ha chiarito come solo quando nel giudizio di convalida di sfratto per morosità sia stato proposto ricorso per l'ingiunzione di pagamento di canoni scaduti il provvedimento destinato a concluderlo può assumere l'efficacia di cosa giudicata, non soltanto circa l'esistenza e validità del rapporto corrente inter partes e sulla misura del canone preteso, ma anche circa l'inesistenza di tutti i fatti impeditivi o estintivi, anche non dedotti, ma deducibili nel giudizio d'opposizione, come l'insussistenza, totale o parziale, del credito azionato in sede monitoria dal locatore, per effetto di controcrediti del conduttore per somme indebitamente corrisposte a titolo di maggiorazioni contra legem del canone, e Sez. 3, n. 21153 (Rv. 627960), est. Scrima, che ha ribadito che in caso di domanda giudiziale di risoluzione del contratto di locazione per scadenza del termine legale, l'eventuale errore nella indicazione della data di scadenza del contratto, in cui sia incorso il locatore, non comporta la reiezione della domanda, né configura una caso di extra o ultrapetizione la rettifica operata dal giudice al riguardo, allorché sia la legge a determinare termini e scadenza del contratto, essendo, infatti, la causa petendi dell'azione di licenza per finita locazione costituita dalla risoluzione del contratto alla scadenza naturale, che è onere del giudice accertare in base alla normativa (alternativamente contrattuale o legale) che disciplina il rapporto, ed a prescindere dalle indicazioni (eventualmente erronee) delle parti.

3. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza.

Tra le decisioni pronunciate dalla Suprema Corte, nell'anno 2013, con riferimento ai procedimenti cautelari, ne vanno immediatamente rimarcate alcune, rese a Sezioni unite, aventi tutte sostanziale comune denominatore la riaffermata natura non decisoria, oltre che meramente provvisoria, dei provvedimenti emessi all'esito di questi ultimi.

In particolare, Sez. Un., n. 21677 (Rv. 627414), est. Mammone, ha ribadito che il provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo (al pari di quello emesso dal giudice ordinario) non assume carattere decisorio e non incide in via definitiva sulle posizioni soggettive dedotte in giudizio, essendo destinato a perdere efficacia per effetto della sentenza definitiva di merito, sicché esso, pur quando coinvolge posizioni di diritto soggettivo, non statuisce su di esse con la forza dell'atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità di giudicato, neppure sul punto della giurisdizione.

Sez. Un., ord. n. 18189 (Rv. 627257), rel. San Giorgio, invece, ha ritenuto inammissibile, nell'ambito dei procedimenti cautelari, la proposizione del regolamento di competenza, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza - inidonei, in quella sede, ad instaurare la procedura di regolamento, in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata - sia perché l'eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall'art. 47 cod. proc. civ., sarebbe priva del requisito della definitività, atteso il peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi.

In tale occasione, è stato giudicato inammissibile, ove qualificato come regolamento di competenza, il ricorso proposto avverso alcune ordinanze cautelari con cui l'adìto giudice civile aveva ritenuto inammissibili le domande con le quali l'istante aveva invocato l'adozione di provvedimenti necessari a consentirgli di difendersi personalmente in un giudizio penale pendente a suo carico dopo che analoga pretesa era stata disattesa dal giudice di quest'ultimo.

Sez. Un., n. 14503 (Rv. 626628), est. Vivaldi, già menzionata nel cap. XXVIII in tema di giudizio di cassazione, ha, infine, sancito la inammissibilità della tutela cautelare ex art. 700 cod. proc. civ. nel giudizio di legittimità, poiché il relativo provvedimento, strumentale e provvisorio, in quanto diretto ad evitare che la futura pronuncia del giudice possa rimanere pregiudicata dal tempo necessario per ottenerla, è destinato a perdere efficacia a seguito della decisione resa nel giudizio di merito, nella quale rimane assorbito, così esaurendo la sua funzione.

Degne di nota, attenendo alla disciplina generale del procedimento cautelare, sono poi Sez. 3, n. 13183 (Rv. 626810), est. Chiarini, la quale ha precisato che l'art. 669 septies, terzo comma, cod. proc. civ., che prevede (nel testo vigente anteriormente alle modifiche apportate dall'art. 50 della legge 18 giugno 2009, n. 69) l'opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. avverso la condanna alle spese, in quanto norma generale, deve essere interpretato in via estensiva, con conseguente applicazione anche alla statuizione sulle spese contenuta, per errore o altro motivo, in un provvedimento di rigetto o accoglimento della domanda cautelare in corso di causa, sia esso reso dal giudice di prima fase o in sede di reclamo, con conseguente inammissibilità dell'opposizione all'esecuzione proposta, e Sez. 3, n. 22751 (in corso di massimazione), est. Scrima, la quale ha chiarito che qualora il procedimento cautelare ante causam si concluda con un'ordinanza che dichiari cessata la materia del contendere, in tale provvedimento non va fissato il termine perentorio per l'inizio del giudizio di merito, né si applica comunque il termine a tal fine previsto dall'art. 669 octies cod. proc. civ., sicché, ove il giudice comunque provveda a fissarlo, lo stesso deve ritenersi tamquam non esset.

Si segnala, inoltre, Sez. 6-2, ord. n. 22778 (Rv. 627879), rel. Proto, a tenore della quale le sommarie informazioni rese nel corso di un procedimento cautelare (nella specie, per sequestro giudiziario in materia contrattuale) possono essere equiparate, a tutti gli effetti, alle testimonianze, qualora gli informatori abbiano prestato l'impegno di rito e siano stati sentiti nel contraddittorio delle parti, non essendovi ragione per differenziare la valenza probatoria delle dichiarazioni rese sulle stesse circostanze, con l'assunzione dell'impegno di rito e con la garanzia del contraddittorio, per il solo fatto che il procedimento sia stato trattato con rito sommario, in luogo che con rito ordinario: la conclusione ivi adottata appare in sostanza opposta a quella di Sez. 2, n. 18865 (Rv. 627850), est. Bertuzzi, anch'essa, peraltro, intervenuta in materia contrattuale.

Merita, altresì, di essere rimarcata, attesa la specificità della relativa disciplina, Sez. 1, n. 14992 (Rv. 626990), est. Campanile, che ha precisato come in tema di azione civile contro la discriminazione, l'art. 44 del T.U. sull'immigrazione (d.lgs. 26 luglio 1998, n. 286) prevede un procedimento cautelare cui si applicano, in forza dell'art. 669-quaterdecies cod. proc. civ., le norme sul procedimento cautelare uniforme regolato dal Capo III del Titolo I del Libro IV, in quanto compatibili, trovando applicazione, in particolare, l'art. 669-octies cod. proc. civ. sul facoltativo inizio della fase di merito. Ne consegue che, non essendo il decreto adottato dalla corte d'appello, in sede di reclamo avverso l'ordinanza assunta a seguito di ricorso ex art. 44 citato, qualificabile come provvedimento definitivo con carattere decisorio, è inammissibile contro di esso il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., né questo può essere convertito in regolamento preventivo di giurisdizione.

Riferite alla disciplina del sequestro giudiziario, ma non per questo meno interessanti, soprattutto se tiene conto dell'esiguità di precedenti recenti su fattispecie analoghe, sono, da un lato, Sez. 2, n. 8906 (Rv. 625731), est. Carrato, la quale ha affermato che la declaratoria di inefficacia del sequestro giudiziario, pronunciata d'ufficio dal giudice allorché sia dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale lo stesso era stato concesso, non incorre nel vizio di ultrapetizione, in quanto meramente ricognitiva di un effetto derivante ex lege, ai sensi dell'art. 669-novies, terzo comma, cod. proc. civ., non avendo rilievo che la misura sia stata già eseguita o che l'inefficacia non sia stata espressamente richiesta dalla parte interessata; e, dall'altro, Sez. L, n. 8483 (Rv. 625914), est. Stile, a tenore della quale il custode di beni sottoposti a sequestro giudiziario, in quanto rappresentante di ufficio, nella sua qualità di ausiliario del giudice, di un patrimonio separato, costituente centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi, risponde direttamente degli atti compiuti in siffatta veste, quand'anche in esecuzione di provvedimenti del giudice ai sensi dell'art. 676 cod. proc. civ., e, pertanto, è legittimato a stare in giudizio, attivamente e passivamente, limitatamente alle azioni relative a tali rapporti, attinenti alla custodia ed amministrazione dei beni sequestrati.

Una segnalazione va fatta anche, attesa la peculiarità della fattispecie, per Sez. 6-1, n. 20326 (Rv. 627513), est. Acierno, in ordine alla valutazione della tempestività, ex art. 669-octies, terzo comma, cod. proc. civ., dell'instaurato giudizio di merito susseguente all'ottenimento di un sequestro conservativo: di essa si è discorso al cap. XXV, § 7.1.

Per la sostanziale novità della questione trattata, afferente il procedimento di nomina del sequestratario per l'ipotesi di cui al combinato disposto degli artt. 1216, secondo comma, cod. civ., e 79 disp. att. cod. civ., nonché per l'ivi risolto problema di diritto intertemporale, si sottolinea, poi, Sez. 3, n. 15669 (Rv. 626860), est. Frasca, secondo cui, costituendo il sequestro ex art. 79 disp. att. cod. civ. una species del sequestro liberatorio di cui all'art. 687 cod. proc. civ., ed applicandosi a quest'ultimo - nella vigenza della disciplina di cui agli artt. 669-bis e ss. cod. proc. civ., nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 - il regime proprio del procedimento cautelare uniforme, il rigetto del ricorso proposto ai sensi del predetto art. 79 disp. att. cod. civ., mentre era suscettibile di reclamo ex art. 669-terdecies cod. proc. civ., risultava, invece, impugnabile con la sola opposizione di cui all'art. 645 del medesimo codice (in virtù del richiamo contenuto nell'art. 669-septies) nel caso in cui la contestazione investisse la sola statuizione sulle spese, tale rimedio essendo esperibile anche nei confronti del provvedimento emesso in sede di reclamo, allorché lo stesso avesse statuito solo sulle spese, dichiarando, per il resto, cessata la materia del contendere.

È utile qui rimarcare che, in tale occasione, si è avuto modo di chiarire che il procedimento diretto alla nomina del sequestratario e, quindi, a porre sotto sequestro l'immobile, era ed è oggetto di una norma espressa nelle disposizioni di attuazione del codice civile, l'art. 79 di esse, che regola la competenza, attribuendola al presidente del tribunale del luogo in cui si trova l'immobile (primo comma), prevede alcune modalità del procedimento, stabilendo che sia sentito il creditore, dispone che si provveda con decreto e che contro di esso sia ammesso il reclamo dinanzi alla corte d'appello (secondo comma), individua alcune modalità di esecuzione del sequestro (terzo comma).

Il procedimento, considerato nel suo profilo funzionale, aveva, ed ha tuttora, natura cautelare, in quanto strumentale ad assicurare riparo contro un pregiudizio che la tutela della situazione giuridica di chi debba liberarsi dall'obbligo di riconsegna dell'immobile potrebbe subire durante il tempo occorrente per agire in via di azione ordinaria.

Infatti, la realizzazione con l'agile procedimento di sequestro della liberazione del debitore dall'obbligo di riconsegna la cui esecuzione non sia stata possibile per il difetto di cooperazione del creditore, nonostante l'intimazione di riceverla cui allude il primo comma dell'art. 1216 cod. civ., ha una tipica funzione cautelare, essendo diretta sì a realizzare durante la pendenza della lite insorta con il creditore sulla giustificazione della riconsegna gli effetti di questa e, quindi, ad anticipare in via provvisoria gli effetti che sarebbero riconosciuti all'esito della tutela di merito, ma anche a determinare la cessazione della situazione custodiale del debitore rispetto all'immobile che deve riconsegnare e, quindi, a metterlo al riparo degli oneri e dei possibili pregiudizi che comporterebbe la sua protrazione nonostante il venir meno della ragione che la giustificava.

Questa seconda finalità ha certamente natura tipicamente cautelare, sia pure sulla base di una valutazione tipica del legislatore, che si correla proprio al carattere oneroso della protrazione del godimento e, quindi, dell'obbligo custodiale, e, dunque, rende in re ipsa il periculum in mora nel ritardo della riconsegna, così sovrapponendosi al profilo meramente anticipatorio che altrimenti giustificherebbe un inquadramento della misura in quelle meramente anticipatorie e non in quelle cautelari.

Lo si osserva ancorché alla funzione cautelare notoriamente non sia estranea la possibilità di realizzare la cautela anche in via anticipatoria, purché, però, ricorra il periculum in mora con riferimento alla possibilità che, in difetto di tale anticipazione, la tutela finale possa realizzarsi.

Questo carattere di misura cautelare e non solo anticipatoria del sequestro di cui al secondo comma dell'art. 1216 cod. civ. trova l'eco, del resto, nella circostanza che il legislatore della codificazione del 1940-42 inserì proprio nell'ambito della disciplina delle misure cautelari di cui al capo III del Titolo I del Libro IV del cod. proc. civ. e particolarmente in quella della misura cautelare del sequestro, una norma, l'art. 687 cod. proc. civ., che, sotto la rubrica «Casi speciali di sequestro» disciplina una fattispecie, quella del c.d. sequestro liberatorio, che ricomprese certamente, pur nell'ambito di una più ampia previsione - dato che riferisce l'oggetto del sequestro anche alle somme e genericamente alle cose e, dunque, non ai soli immobili - la fattispecie dell'art. 1216, secondo comma, cod. civ., come è sempre stato pacifico sia in dottrina che in giurisprudenza.

L'inserimento del sequestro di cui al secondo comma dell'art. 1216 cod. civ. nell'ambito della figura del c.d. sequestro liberatorio di cui all'art. 687 cod. proc. civ. determinò la conseguenza che la disciplina procedimentale dettata dal codice per le altre due figure di sequestro, ritenuta utilizzabile per quella della menzionata fattispecie di cui all'art. 687 cod. proc. civ., divenne a sua volta applicabile, salvo, evidentemente, che per i profili espressamente disciplinati dall'art. 79 già citato e con l'oggettivo limite della ipotetica ed eventuale sussistenza di una incompatibilità di taluni specifici aspetti, al sequestro di cui alla norma civilistica.

La discussione della dottrina ed il dibattito giurisprudenziale sull'art. 687 cod. proc. civ. d'altro canto, si concentrò sulla possibilità di allargarne l'ambito al di là della vocazione meramente liberatoria, cioè con riferimento all'ipotesi di assicurazione di un'esigenza di liberazione pure al (preteso) debitore che avesse contestato l'esistenza del suo obbligo. Ma non si dubitò mai che all'ipotesi della liberazione dovesse riconoscersi natura cautelare, laddove a quest'altra si mise in dubbio che le si potesse riconoscere.

Va peraltro sottolineato che, con riguardo al medesimo procedimento, Sez. 1, n. 21886, Rv. 627731, est. Scaldaferri, ha precisato che è inammissibile il reclamo ex art. 79, secondo comma, disp. att. cod. civ., previsto per la sola nomina del custode sequestratario di cui all'art. 1216 cod. civ., avverso il provvedimento di liquidazione del compenso di quest'ultimo, la cui disciplina è, invece, sancita dagli artt. 168 e 170 (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore all'entrata in vigore del d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150) del d.P.R. 30 maggio 2002.

Si sono, invece, occupate dei procedimenti nunciatori Sez. 2, n. 950 (Rv. 624970), est. Parziale, precisando che l'art. 691 cod. proc. civ., in tema di inosservanza del provvedimento del giudice, riguarda la sola disciplina dei procedimenti di denuncia di nuova opera e di danno temuto, e non è pertanto applicabile in ipotesi di mancata esecuzione di un'ordinanza di reintegrazione nel possesso, richiamandosi, per i procedimenti possessori, le norme di cui agli artt. 669-bis e segg. cod. proc. civ. nei limiti della compatibilità, e Sez. 2, n. 15710 (Rv. 626983), est. Carrato, ribadendo che la legittimazione passiva all'azione di denuncia di nuova opera, ex art. 1171 cod. civ., spetta, nella prima fase cautelare, all'esecutore materiale dell'opera ed al committente, mentre nella seconda fase spetta, ove si fondi su ragioni petitorie, al proprietario od al titolare di altro diritto reale, non essendo quindi estensibile a terzi legati da vincolo contrattuale con questi ultimi.

Lo scopo specifico di questa trattazione impone, infine, di ricordare, nell'ambito dei procedimenti di istruzione preventiva, Sez. 6-3, ord., n. 5698 (Rv. 625381), rel. Ambrosio, la quale ha sottolineato che non costituisce sentenza, ai fini ed agli effetti di cui all'art. 111, settimo comma, Cost., il provvedimento di rigetto dell'istanza di consulenza tecnica preventiva con finalità conciliativa, il quale non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi, non pregiudica il diritto alla prova (anche in considerazione dell'assenza del presupposto dell'urgenza, estraneo all'art. 696-bis cod. proc. civ.), né tantomeno la possibilità della conciliazione, essendo, inoltre, ridiscutibile - anche quanto alle spese - nell'eventuale giudizio di merito, e Sez. 3, n. 23575 (in corso di massimazione), est. Carleo, secondo cui lo sconfinamento dai limiti dell'accertamento tecnico preventivo - così come risultanti dal testo dell'art. 696 cod. proc. civ. anteriore alle modifiche apportate dall'art. 2, terzo comma, lettera e-bis, del d. l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 - dà luogo ad una inutilizzabilità soltanto relativa dell'accertamento, sicché, ove non sia concretamente configurabile alcuna violazione del principio del contraddittorio, per avere le parti effettivamente partecipato all'accertamento tecnico anche nei punti esorbitanti dall'incarico, ovvero allorché la relazione del consulente sia stata ritualmente acquisita agli atti senza opposizione delle parti stesse, si realizza la sanatoria di detta esorbitanza, con conseguente utilizzabilità dell'accertamento. La medesima pronuncia ha altresì aggiunto che, una volta che sia stata ritualmente acquisita al giudizio, con conseguente sanatoria della nullità in cui sia incorso il consulente per aver sconfinato dai limiti meramente descrittivi fissati dalla legge in quella sede, la relazione di accertamento tecnico preventivo può essere liberamente apprezzata dal giudice di merito in ogni sua parte e, quindi, anche in relazione alla causa del danno.

4. Il procedimento sommario di cognizione.

Nel corso del 2013 si è registrato un ulteriore significativo intervento della giurisprudenza di legittimità avente ad oggetto il procedimento sommario di cognizione, costituente, come è noto, una delle più importanti novità caratterizzanti la riforma di cui alla legge 18 giugno 2009, n. 69 - il cui art. 51 ha aggiunto l'ulteriore capo III bis, composto dagli artt. 702-bis, 702-ter e 720-quater, al titolo primo del libro quarto del codice di procedura civile - e che, in estrema sintesi, consiste in un modello procedimentale dalla disciplina piuttosto scarna, che il giudice può in certa misura forgiare a propria discrezione all'evidente scopo di consentire una maggiore immediatezza della decisione evitando la divisione in fasi che contraddistingue il processo di cognizione ordinario.

Questi, in altri termini, fatto salvo l'imprescindibile principio del contraddittorio, ha la possibilità di definire la causa in qualsivoglia momento, così compensandosi la mancanza di preclusioni legali relative alla proposizione di eccezioni in senso lato (quelle, cioè, rilevabili di ufficio), nonché alla richiesta di prove costituende ed alla produzione di documenti, conseguendone, così, che la sommarietà del rito in esame deve essere intesa come mera semplificazione di ogni fase del processo successiva a quella introduttiva, l'unica disciplinata direttamente dall'art. 702-bis c.p.c.

Tanto premesso, Sez. 6-1, ord. n. 11465 (Rv. 626619), rel. Acierno, ha chiarito che l'art. 704-quater cod. proc. civ. disciplina un mezzo di impugnazione che ha natura di appello (e non di reclamo cautelare), la cui mancata proposizione comporta il passaggio in giudicato dell'ordinanza emessa ex art. 702-bis cod. proc. civ., prefigurando un procedimento con pienezza sia di cognizione (come in primo grado) che di istruttoria (a differenza del primo grado, ove è semplificata), analogo a quello disciplinato dall'art. 345, secondo comma, cod. proc. civ., da ciò derivandone, quindi, che tale impugnazione va proposta alla corte d'appello e non al tribunale in sede collegiale.

La peculiare finalità di questa rassegna rende inoltre opportuna la segnalazione di Sez. 1, n. 21477 (Rv. 627560), est. Di Virgilio, peraltro già menzionata ante, ai capp. XXV, § 6.5 e XXVIII, § 4, in tema di pronuncia resa in materia elettorale e del termine per la sua impugnazione.

5. I procedimenti camerali.

È noto che la giurisdizione camerale, sorta come un'attività di amministrazione del diritto affidata ad organi giurisdizionali, caratterizzata, sotto il profilo strutturale, dalla revocabilità e dalla modificabilità dei relativi provvedimenti e, sotto quello funzionale, dal non incidere su diritti, si è trasformata, soprattutto negli ultimi venti anni, per le scelte compiute dal legislatore, in un contenitore neutro che può assicurare, da un lato, la speditezza e la concentrazione del procedimento, ed essere, dall'altro, rispettosa dei limiti imposti all'incidenza della forma procedimentale dalla natura della controversia che, laddove relativa a diritti o status, gode di apposite garanzie costituzionali.

L'aver ipotizzato il procedimento camerale come un contenitore in cui possono trovare spazio sia i provvedimenti di volontaria giurisdizione sia i provvedimenti di natura contenziosa, ciascuno con le proprie peculiari ed innegabili caratteristiche, sia strutturali che funzionali, ha comportato, spesso in carenza di produzione normativa, il superamento degli innegabili conflitti tra profili formali, o procedimentali, e profili sostanziali connessi all'oggetto della controversia, sicchè il rito camerale si è progressivamente ammantato di forme tipiche del giudizio ordinario disegnando un nuovo tipo di processo a contenuto oggettivo.

Questa breve digressione si è resa necessaria per giustificare la ragione per la quale verranno di seguito riportate decisioni della Suprema Corte che, pur riguardando fattispecie di varia natura, sono però tutte caratterizzate dall'essere avvenuta la loro trattazione nelle forme del rito camerale.

Fermo quanto precede, va subito segnalata Sez. Un., n. 22848 (Rv. 627461-627462), est. Cappabianca, intervenuta sulla questione, ritenuta di massima di particolare importanza, afferente la natura dell'atto di impugnazione della sentenza di rigetto del reclamo avverso la declaratoria di estinzione del giudizio pronunciata dal giudice istruttore, nonché di quella, ad essa correlata, concernente il se, ove la soluzione fosse nel senso della necessaria adozione della forma del ricorso, per la tempestività del gravame dovesse farsi riferimento alla data della notifica del ricorso ovvero a quella del deposito.

In particolare, le Sezioni unite - richiamato il dettato normativo di cui agli artt. 308 e 630 cod. proc. civ., nonché 130 disp. att. cod. proc. civ., e rilevata, quanto alla prima delle descritte questioni, l'assenza di specifici decisivi precedenti giurisprudenziali - hanno inteso privilegiare la soluzione secondo cui l'appello avverso la sentenza reiettiva del reclamo contro la declaratoria di estinzione pronunciata dal giudice istruttore deve seguire, fin dalla sua proposizione (e non semplicemente nella sua fase decisoria), il rito camerale, dovendo, pertanto, essere introdotta con ricorso, e non con citazione: tanto ricavandolo, oltre che da un'esegesi della letterale formulazione dell'art. 130 disp. att. cod. proc. civ., dall'orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità con riferimento all'interpretazione della previsione, analoga a detta norma, contenuta nell'art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, evidenziando, peraltro, che la soluzione accolta si rivela come maggiormente idonea ad assicurare anche esigenze di celerità processuale, e ciò almeno in rapporto alla circostanza che, alla stregua dell'art. 354, secondo comma, cod. proc. civ., nel caso di riforma della sentenza che ha pronunciato sull'estinzione del processo a norma e nelle forme di cui all'art. 308 cod. proc. civ. (e solo, dunque, in presenza di tale duplice requisito), il giudice di appello è tenuto (anziché a deciderla nel merito) a rimettere la causa al primo giudice, sicchè è ragionevole che il possibile aggravio di tempi processuali determinati dalla previsione della (di per sé eccezionale) regressione in primo grado sia compensato dall'adozione di un procedimento di gravame retto da forme più snelle e veloci.

Quanto, poi, all'ulteriore correlato quesito afferente il se per la valutazione della tempestività della impugnazione della suddetta sentenza, ove erroneamente proposta con citazione in luogo che con il prescritto ricorso, debba farsi riferimento alla data della sua notifica ovvero a quella del suo deposito, le Sezioni unite hanno altresì chiarito, confermando, peraltro, un orientamento pressoché consolidato della giurisprudenza di legittimità, che il vizio di un siffatto atto introduttivo di quel gravame è suscettibile di sanatoria, in via di conversione ex art. 156 cod. proc. civ., a condizione che, nel termine previsto dalla legge, la citazione sia stata non solo notificata alla controparte, ma anche depositata nella cancelleria del giudice, precisando, ancora, anche mediante richiamo ad argomentazioni del tutto analoghe a quelle contenute in Sez. Un., n. 21675 (Rv. 627418), est. Travaglino, che la diversa soluzione accolta in Sez. Un. n. 8491 del 14 aprile 2011, rv. 616563, non può trovare alcuna, più generale applicazione al di fuori del territorio delle delibere condominiali da essa affrontato.

Ancora in tema di conseguenze derivanti dall'instaurazione di una controversia con un rito non corrispondente a quella per essa prescritto, Sez. 1, n. 13639 (Rv. 626634), est. Cristiano, ha ricordato che quando la legge imponga l'introduzione del giudizio con citazione, anziché con ricorso, ed il rito ordinario, l'adozione del rito camerale non induce alcuna nullità, per il principio della conversione degli atti nulli che abbiano raggiunto il loro scopo, quando non ne sia derivato un concreto pregiudizio per alcuna delle parti, relativamente al rispetto del contraddittorio, all'acquisizione delle prove e, più in generale, a quanto possa avere impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nel giudizio ordinario, precisando, altresì, che tale principio opera anche in relazione agli atti introduttivi del giudizio di secondo grado, a condizione che l'atto nullo possegga i requisiti di sostanza e forma del diverso atto processuale che avrebbe dovuto essere utilizzato: in tale occasione, è stato cassato il provvedimento impugnato che, ritenendo nella specie - regolata dall'art. 183 legge fall., nel testo anteriore alla riforma di cui al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 - esperibile l'appello, in luogo del proposto reclamo, avverso il decreto del tribunale reiettivo della domanda di omologazione del concordato preventivo proposta dalla ricorrente, aveva perciò solo ritenuto inammissibile il suddetto reclamo.

Degna di nota è, poi, Sez. 1, n. 19583 (Rv. 627728), est. Giancola, che - applicando anche al rito camerale il principio generalmente sancito da Sez. Un., ord. n. 4773 del 2012 (Rv. 621382) - ha chiarito che il rinvio dell'udienza di discussione della causa per grave impedimento del difensore, ai sensi dell'art. 115 disp. att. cod. proc. civ., presuppone, anche nel procedimento camerale contenzioso, l'impossibilità di sostituzione dello stesso, prospettandosi, altrimenti, soltanto una carenza organizzativa del professionista incaricato, irrilevante ai fini di tale differimento, conseguendone la legittimità del diniego del rinvio allorquando la parte sia rappresentata all'udienza di discussione, in sostituzione del dominus impedito a presenziarvi, da altro difensore delegato, il quale giustifichi la richiesta di differimento con la concomitanza di diverso impegno professionale del collega, senza, però, provarne l'esistenza e l'anteriorità rispetto alla controversia da discutere, così precludendo di ricondurre l'istanza in esame ad una causa legittima piuttosto che a mera strategia difensiva.

Da rimarcare sono, altresì, pervenendo a soluzioni apparentemente contrastanti, Sez. 1, n. 17202 (Rv. 627066), est. Giancola, resa in tema di procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, la quale - sostanzialmente ribadendo l'orientamento già espresso da Sez. 1, n. 27086 del 2011 (Rv. 620750), con riferimento al giudizio di appello in materia di separazione personale dei coniugi, che aveva ulteriormente precisato che l'ivi sancita improcedibilità non era esclusa dalla mancata comunicazione a cura della cancelleria del decreto di fissazione d'udienza, atteso che, nei procedimenti camerali, il giudice è tenuto solo al deposito del decreto, ma non anche a disporne la relativa comunicazione, incombendo sul ricorrente l'obbligo di attivarsi per prendere cognizione dell'esito del proprio ricorso - ha affermato che nei procedimenti di impugnazione che si svolgono con rito camerale, l'omessa notificazione del ricorso nel termine assegnato nel decreto di fissazione d'udienza determina l'improcedibilità dell'appello, in quanto, pur trattandosi di un termine ordinatorio ex art. 154 cod. proc. civ., si determina la decadenza dell'attività processuale cui è finalizzato, in mancanza d'istanza di proroga prima della scadenza, e Sez. 1, n. 25211 (in corso di massimazione), est. Campanile (la quale, in tema di modifica delle condizioni sancite in sentenza di divorzio, ha cassato l'impugnato decreto della corte di appello che aveva ritenuto improcedibile, per carenza di notificazione del relativo ricorso con il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, non essendosi attivato il difensore dell'istante per venire a conoscenza di quest'ultimo e notificarlo benché emesso diversi mesi prima dell'udienza ivi fissata), che ha condiviso l'insegnamento secondo cui in tema di procedimento di impugnazione con rito camerale, il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio e la notifica oltre il termine, senza preventiva presentazione dell'istanza di proroga, non può rivestire alcun effetto preclusivo, sicché l'inutile decorso del termine fissato per la notifica implica soltanto, nell'ipotesi di mancata costituzione dell'appellato, la necessità di fissare un nuovo termine, mentre, nell'ipotesi di avvenuta sua costituzione, non impedisce la regolare instaurazione del contraddittorio.

Secondo Sez. 1, n. 18978 (Rv. 627493), est. Piccininni, poi, in tema di adozione internazionale, il provvedimento camerale con cui la corte di appello decide sul reclamo avverso il decreto del tribunale per i minorenni, in tema di accertamento della sussistenza dei requisiti di idoneità all'adozione di minori stranieri, a norma dell'art. 30 della legge 5 aprile 1984, n. 183, non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo, il quale, anche nel caso in cui abbia rigettato l'istanza (peraltro sempre riproponibile), non incide su diritti né su status dei richiedenti, e neppure risolve un conflitto tra contrapposti interessi, limitandosi a concludere un procedimento di volontaria giurisdizione, volto alla tutela dell'unico interesse preso in considerazione dalla legge, che è quello del minore.

Meritevoli di menzione appaiono, inoltre, Sez. 6-1, ord. n. 11463 (Rv. 626260), rel. Didone, a tenore della quale la pronuncia sulla competenza contenuta in un provvedimento camerale privo di decisorietà e definitività non è impugnabile con il regolamento di competenza ad istanza di parte, atteso che l'affermazione o la negazione della competenza è preliminare e strumentale alla decisione di merito e non ha una sua natura specifica, diversa da quest'ultima, tale da giustificare un diverso regime di impugnazione e da rendere ipotizzabile un interesse all'individuazione definitiva ed incontestabile del giudice chiamato ad emettere un provvedimento privo di decisorietà e definitività, nonché Sez. 1, n. 11218 (Rv. 626261), est. San Giorgio, la quale ha chiarito che il decreto pronunciato dalla corte d'appello in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale in materia di modifica delle condizioni della separazione personale concernenti l'affidamento dei figli ed il rapporto con essi, ovvero la revisione delle condizioni inerenti ai rapporti patrimoniali fra i coniugi ed il mantenimento della prole ha carattere decisorio e definitivo ed è, pertanto, ricorribile in cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.

Certamente interessante risulta anche, attesa la peculiarità della concreta fattispecie affrontata, Sez. 1, n. 21896 (Rv. 627697), est. Di Virgilio, che, in tema di procedimento prefallimentare, ha ritenuto valida la notificazione del decreto di convocazione e del ricorso per l'udienza ex art. 15 legge fall. al cittadino italiano residente all'estero eseguita presso la sede della sua impresa individuale, come risultante dalla visura camerale, situata in Italia, ove ritenuta dal giudice del merito quale domicilio della parte sulla base di accertamento di fatto che, se adeguatamente motivato, è sottratto al controllo di legittimità.

In particolare, si è giunti all'affermazione del riportato principio disattendendosi le argomentazioni del ricorrente, un cittadino italiano residente in Austria, che aveva negato la ritualità della notifica del piego contenente la sua convocazione in sede prefallimentare perchè: a) effettuata presso la sede della impresa (in Italia), non equivalente a domicilio dell'imprenditore in assenza della prova di una vera e propria corrispondente elezione, e stante la sua residenza all'estero; b) eseguita presso il suo (presunto) "domicilio", senza il rispetto dell'ordine tassativo dei luoghi indicati dall'art. 139 cod. proc. civ., essendo nota la sua residenza.

La Suprema Corte ha premesso che, ai fini dell'applicazione dell'art. 139 cit., non può valere la residenza del notificando all'estero dal momento che la norma disciplina la notificazione da eseguirsi in Italia, sicché tale elemento di "estraneità" non consente l'applicazione diretta della stessa.

Ciò posto, ha osservato che, nell'interpretazione del menzionato articolo e nel sistema delle notificazioni, è pacifico che le risultanze anagrafiche rivestono un valore presuntivo in relazione all'abituale effettiva dimora, che è accertabile con ogni mezzo di prova, rilevando, altresì, che l'art. 142 cod. proc. civ. prevede la notificazione all'estero solo nel caso nel caso in cui la parte non abbia residenza, dimora o domicilio nello Stato.

La combinazione sistematica delle due norme citate ed il rispetto del principio di effettività della notifica hanno, pertanto, indotto i giudici di legittimità a ritenere corretta, nella specie, la valorizzazione del domicilio del notificando in Italia, costituendo esso quel collegamento rilevante di quest'ultimo con il luogo, sito in Italia, idoneo a far ritenere valida la notificazione ivi eseguita.

6. Gli altri procedimenti speciali.

Va premesso che il decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nell'apportare alcune variazioni al codice di procedura civile, ha introdotto (cfr. art. 76) nel libro IV, titolo quinto, disciplinante il procedimento di scioglimento delle comunioni, il nuovo art. 791 bis, rubricato Divisione a domanda congiunta.

È di tutta evidenza che anche tale nuovo istituto, attraverso il quale il legislatore intende perseguire l'obbiettivo di agevolare la divisione dei patrimoni comuni e, quindi, la messa in commercio di beni che potrebbero rimanere a immobilizzati a causa delle lungaggini del processo ordinario, si inserisce in un quadro complessivo tendente alla rapida definizione delle controversie civili.

Si tratta, in estrema sintesi, di una possibile variante del procedimento di divisione giudiziale, cioè di quel procedimento che si attiva quando i comproprietari non concordino sul punto di dividere la comproprietà tra essi esistente oppure sulle sue modalità di attuazione.

La divisione a domanda congiunta, dunque, rappresenta una procedura più semplificata rispetto alla divisione giudiziale ordinaria, in quanto essa presuppone che non sussista controversia sul diritto alla divisione, né sulle quote dei comproprietari, né su altre questioni pregiudiziali: in questo caso, in sostanza, non ci sono questioni giuridiche da risolvere e si tratta di passare senz'altro alla formazione dei lotti destinati a essere assegnati, in titolarità esclusiva, a ciascun condividente.

La celerità del procedimento in esame dovrebbe essere garantita dal suo svolgimento in camera di consiglio ex art. 737 ss. cod. proc. civ.

Ciò posto, e venendo all'esame delle statuizioni maggiormente rilevanti che hanno interessato gli altri procedimenti speciali diversi da quelli di cui si è finora detto nei precedenti paragrafi, deve essere immediatamente segnalata Sez. Un., n. 18185 (Rv. 627248), est. D'Ascola, resa in tema di scioglimento di comunioni, che ha sancito che, in un siffatto giudizio, gli atti del giudice istruttore relativi al procedimento di vendita sono soggetti al rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi di cui agli artt. 617 e 618 cod. proc. civ., dovendo escludersi l'esperibilità di un'autonoma azione di nullità avverso il decreto di trasferimento conclusivo del procedimento di vendita.

Invero, la finalità del procedimento di vendita dei beni immobili non è diversa nel giudizio divisorio o nel procedimento esecutivo e le scelte legislative degli ultimi lustri, con l'esplicito rinvio, contenuto nell'art. 788 cod. proc. civ., a norme del processo esecutivo, sono la manifestazione di un richiamo ad esse che va inteso come sistematico; sicché non avrebbe senso scandire il procedimento di vendita con i passi del processo esecutivo e sovrapporgli un apparato rimediale del tutto diverso, privo di quell'efficacia e di quella celerità che deriva sia dalla tipologia delle opposizioni, sia dal meccanismo della sanatoria processuale.

Tale decisione è stata sollecitata dall'ordinanza interlocutoria n. 12419 del 18 luglio 2012, con cui la Terza Sezione civile aveva ravvisato la necessità della rimessione alle Sezioni unite della questione di massima, ritenuta di particolare importanza, così specificata: a) se il rinvio che l'art. 788 cod. proc. civ., fa alle norme sulla vendita nel processo per espropriazione immobiliare debba essere interpretato in senso letterale ovvero sistematico; in particolare, se il regime di impugnazione degli atti del giudice istruttore relativi al procedimento di vendita o del delegato alle operazioni di vendita sia quello dettato dagli artt. 617 e 591-ter cod. proc. civ. o quello ricavabile dal sistema delle impugnazioni del giudizio divisionale; b) se sia poi applicabile alla vendita di beni comuni l'art. 2929 cod. civ. e con quali conseguenze; in particolare, se l'accertamento dell'inesistenza dei presupposti per procedere alla vendita, sopravvenuto all'aggiudicazione ed al trasferimento della proprietà del bene al terzo acquirente, prevalga - ed a quali condizioni - sul diritto di quest'ultimo.

Nella vicenda sottoposta all'attenzione dei giudici di legittimità, la sentenza del tribunale era intervenuta a dirimere la controversia sulla vendita di bene indiviso dopo che le relative operazioni si erano concluse, e la peculiarità del caso concreto discendeva dal fatto che risultava rigettata la reiterata istanza di attribuzione dei condividenti con due ordinanze, senza che fossero mai state sospese le operazioni di vendita, e quindi al di fuori dello schema tipico dell'art. 788 cod. proc. civ.

L'impugnata sentenza aveva risolto la controversia sulla vendita, affermando che la stessa non avrebbe potuto avere luogo, dovendo prevalere la richiesta di attribuzione ex art. 720 cod. civ.

La questione che si poneva all'attenzione delle Sezioni unite era, dunque, quella dei rapporti tra il provvedimento che, ritenuta la necessità della vendita ai sensi dell'art. 788 cod. proc. civ., la dispone e quello che ne fissa le modalità; nonché dei rapporti tra l'uno e/o l'altro ed i successivi atti del procedimento di vendita.

Il primo riferimento è a Sez. 2, n. 1575 del 1999 (Rv. 523581), orientata nel senso che il provvedimento con il quale il giudice dispone la vendita all'incanto, ai sensi dell'art. 788 cod. proc. civ., per sciogliere la comunione, non è atto né del procedimento di vendita, né del processo di esecuzione, ma da un lato fissa le modalità dell'incanto, dall'altro consente il prosieguo della divisione, sì che, mentre per la prima parte è impugnabile ex art. art. 617 cod. proc. civ., per l'altra parte non è invece ammissibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Costituzione, trattandosi di provvedimento privo di contenuto decisorio.

Analogamente, Sez. 2, n. 1572 del 12 febbraio 2000 (Rv. 533772), secondo cui, qualora nel procedimento di scioglimento della comunione sorga una controversia sulla necessità di vendita degli immobili, la relativa decisione compete a norma dell'art. 788 cod. proc. civ. al collegio, con la conseguenza che ove la vendita sia stata disposta con ordinanza del giudice istruttore (disattendendo l'istanza di acquisizione in proprietà dell'immobile in comunione, salvo conguaglio), anziché con sentenza da parte del collegio, tale provvedimento, contro cui non è dato né reclamo immediato al collegio né il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi, è impugnabile con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., avendo esso, malgrado la forma assunta, contenuto decisorio e non essendo altrimenti impugnabile.

Le Sezioni unite, con la riportata sentenza n. 18185, sulla base altresì dell'evoluzione normativa che ha riguardato l'art. 788 cod. proc. civ., si sono chieste quale sia il meccanismo dei rimedi quanto agli atti del giudice istruttore o del professionista delegato relativi al procedimento di vendita; e, in particolare, se essi siano soggetti alla procedura ex artt. 617 e 618 cod. proc. civ.

Si è allora condivisa l'opinione secondo cui tutto il sistema del processo esecutivo debba essere applicabile in materia, e quindi anche le norme relative ai rimedi esperibili relativamente alla regolarità dei singoli atti, specificamente ai rimedi dell'art. 591 ter cod. proc. civ., ed al rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi.

Ciò anche perché la finalità del procedimento di vendita dei beni immobili non è diversa nel giudizio divisorio o nel processo esecutivo: sicché non avrebbe senso scandire il procedimento di vendita con le sequenze del processo esecutivo, sovrapponendogli però uno strumentario rimediale del tutto diverso, privo di quell'efficacia e di quella celerità che deriva sia dalla tipologia di opposizioni, sia dal meccanismo della sanatoria processuale.

Nel caso del provvedimento impugnato, le Sezioni unite hanno evidenziato la sussistenza di un'ipotesi patologica di ordinanza resa nonostante fosse sorta, a causa dell'istanza di attribuzione, controversia sulla necessità della vendita.

Il ricorso deciso, tuttavia, investiva l'accoglimento dell'opposizione agli atti esecutivi, che riguardava sia vizi formali fatti valere con il ricorso ex art. 591-ter cod. proc. civ., rigettato e non "coltivato" con la necessaria opposizione agli atti esecutivi, sia altri vizi inerenti a fasi ormai superate del procedimento e non fatte valere con il medesimo rimedio.

La pronuncia di cassazione pone in luce, tra l'altro, come il tribunale avrebbe, piuttosto, dovuto sancire l'inammissibilità della denuncia dei vizi formali e di tutte le ragioni di opposizione precluse dall'applicabilità al procedimento di divisione dell'apparato di rimedi proprio del processo esecutivo; valutare, quindi, se la questione del diritto di attribuzione non costituisse una di quelle situazioni invalidanti suscettibili di rilievo nel corso ulteriore del processo, e quindi contro il decreto di trasferimento, ancora nelle forme dell'opposizione agli atti esecutivi; verificare, infine, se la causa di attribuzione non fosse pregiudiziale rispetto a quella di opposizione a decreto di trasferimento.

Sempre con riguardo al procedimento di scioglimento della comunione, vanno ancora segnalate Sez. 2, n. 22435 (Rv. 627765), est. Bursese, che, dopo aver affermato che il giudice istruttore, alla stregua di quanto sancito dall'art. 789, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., può procedere all'estrazione a sorte dei lotti solo quando le contestazioni al progetto di divisione da lui predisposto siano state risolte con sentenza passata in giudicato, ha precisato che, tuttavia, l'ordinanza di sorteggio erroneamente resa in difetto di tale condizione, non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento di natura istruttoria, di per sé revocabile e privo del necessario carattere della decisorietà, e Sez. 2, n. 14654 (Rv. 626701), est. Falaschi, secondo cui la qualità di litisconsorti necessari di tutti i condomini rispetto alla domanda di scioglimento della comunione, agli effetti dell'art. 784 cod. proc. civ., permane in ogni grado del processo, indipendentemente dall'attività e dal comportamento di ciascuna parte, sicchè, qualora, in fase di appello, l'appellante non abbia provveduto alla citazione di uno o più comunisti, il giudice di secondo grado deve ordinare l'integrazione del contraddittorio in forza dell'art. 331 cod. proc. civ., ancorché in primo grado il giudice abbia accertato la proprietà esclusiva per intervenuta usucapione di alcuni beni di cui si richiedeva la divisione.

Meritano, infine, di essere rimarcate alcune decisioni concernenti la liquidazione delle spese della c.t.u. ed il procedimento di opposizione al relativo provvedimento.

In particolare, Sez. 2, n. 23169 (in corso di massimazione), est. Giusti, premettendo che l'art. 11 della legge 8 luglio 1980, n. 319 - che, nel disciplinare l'opposizione al decreto di liquidazione del compenso al consulente tecnico, prevedeva la competenza del tribunale o della corte d'appello «alla quale appartiene il giudice o presso cui esercita le sue funzioni il pubblico ministero ovvero nel cui circondario ha sede il pretore che ha emesso il decreto» - è stato abrogato dall'art. 299 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ha sottolineato che l'art. 170 dell'appena menzionato d.P.R., ivi applicabile ratione temporis, disciplina diversamente il reclamo avverso il decreto di pagamento emesso a favore del consulente tecnico del magistrato, abilitando l'interessato a proporre opposizione al presidente dell'ufficio giudiziario competente: sicchè, laddove il decreto di liquidazione sia stato emesso dal giudice di pace, la stessa va rivolta al coordinatore dell'ufficio del giudice di pace competente.

Sez. 3, n. 25179 (in corso di massimazione), est. Lanzillo, ha sancito che, se il principio fondamentale è quello per cui le parti sono solidalmente responsabili di tale pagamento anche dopo che la controversia in relazione alla quale il consulente ha prestato la sua opera sia stata decisa con sentenza passata in giudicato, indipendentemente dalla ripartizione in sentenza dell'onere delle spese processuali, non v'è alcuna ragione di escludere una tale responsabilità solidale a fronte di una sentenza non passata in giudicato, ma che tuttavia contenga un comando diverso da quello di cui al decreto di liquidazione delle spese.

Il decreto di liquidazione di cui all'art. 11 legge n. 319 del 1980 (nella specie applicabile ratione temporis) ha e conserva efficacia esecutiva nei confronti della parte ivi indicata come obbligata e - finché la controversia non sia risolta con sentenza passata in giudicato, che provveda definitivamente anche in ordine alle spese - ha l'effetto di obbligare il c.t.u. a proporre preventivamente la sua domanda nei confronti della parte ivi indicata come provvisoriamente obbligata al pagamento e solo nel caso di sua inadempienza può agire nei confronti dell'altra, in forza della responsabilità solidale che, in linea di principio, grava su tutte le parti del processo per il pagamento delle spese di c.t.u. e che perdura anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo, anche indipendentemente dalla definitiva ripartizione fra le parti dell'onere delle spese, non configgendo, peraltro, i principî sopra indicati con la regola per cui la parte vittoriosa non può essere condannata al pagamento delle spese.

Resta fermo, infatti, il diritto della parte vittoriosa che abbia pagato le spese di c.t.u. di rivalersi nei confronti del soccombente, conformemente alla pronuncia giudiziale sulle spese.

La responsabilità solidale, invero, non influisce sulla titolarità del debito e sulla misura in cui ogni singolo debitore è tenuto ad adempiere, sulla base dei rapporti interni con i condebitori; solo esclude che l'onere dell'insolvenza di alcuno di essi venga a gravare sul creditore.

Infine, merita menzione, in tema di opposizione avverso il decreto di liquidazione di c.t.u., Sez. 6-2, ord. n. 24672 (in corso di massimazione), rel. Bianchini, che ha ritenuto illegittima la decisione di rinviare alla definizione del giudizio di merito la liquidazione delle spese processuali afferenti il menzionato subprocedimento ex art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, chiarendo, in proposito, che è proprio la suscettibilità a stabilizzare la statuizione della quantificazione del compenso all'ausiliare che dimostra la tendenziale definitività del provvedimento e quindi, la necessità che nel suo ambito si ripartisca l'onere delle spese relative.

Ed altrettanto dicasi, anche in ragione della peculiarità della concreta fattispecie, Sez. 6-2, ord. n. 25127 (in corso di massimazione), rel. Proto, pronunciata su di un ricorso proposto avverso l'ordinanza che aveva accolto un'opposizione proposta da un consulente del Pubblico Ministero contro un decreto del Procuratore della Repubblica che, revocati precedenti decreti di liquidazione resi in favore del primo, aveva riliquidato gli onorari dovutigli invitandolo a restituire quanto già corrispostogli in eccedenza.

La Corte, nel respingere la proposta impugnazione, ha osservato, tra l'altro: che il provvedimento di liquidazione del compenso per l'ausiliare del giudice ha natura giurisdizionale e, come tale, non può essere revocato d'ufficio dal medesimo giudice che lo ha emesso; che il Pubblico Ministero, come anche il Procuratore Generale, hanno la possibilità di impugnare il provvedimento di liquidazione suddetto, ma non di revocarlo anche implicitamente mediante un secondo decreto sostitutivo del primo; che, una volta emesso il decreto, il medesimo ufficio non può, quindi, pretendere di emetterne un secondo e, a questi fini, è del tutto irrilevante l'organizzazione gerarchica dell'ufficio del P.M. che rileva solo all'interno dell'ufficio stesso ma non nei confronti dei terzi per i quali può rilevare solo il provvedimento emesso dall'ufficio ed è a tal fine indifferente la persona fisica che lo ha emesso e la posizione gerarchica da essa rivestita.

  • codice della strada
  • ingiunzione

CAPITOLO XXXII

I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 Procedimento e poteri del giudice. - 2 Codice della Strada. - 3 Sanzioni in materia finanziaria, doganale e di igiene della produzione e vendita di sostanze alimentari.

1. Procedimento e poteri del giudice.

Tra le decisioni della Suprema Corte, intervenute nell'anno 2013, in tema di giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, vanno immediatamente segnalate alcune pronunce che ne hanno affrontato aspetti procedimentali o relativi ai poteri ivi riconosciuti all'organo giudicante.

In particolare, Sez. 6-2, ord. n. 25080 (in corso di massimazione), rel. Bianchini, dando continuità all'orientamento già espresso da Sez. 2, n. 14279 del 2007 (Rv. 597909), ha ribadito che nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa ex art. 23 della legge n. 689 del 1981, le previsioni del secondo e del quarto comma di tale norma, laddove rispettivamente stabiliscono che il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti debba essere notificato dalla cancelleria, unitamente al ricorso introduttivo, all'opponente ed all'autorità che ha emesso l'ordinanza impugnata, e che tali parti possono stare in giudizio personalmente, potendo l'autorità opposta avvalersi di funzionari appositamente delegati allorquando detta autorità sia un'Amministrazione dello Stato, comportano una deroga al primo comma dell'art. 11, comma primo, del r.d. n. 1611 del 1933 sull'obbligatoria notifica degli atti introduttivi di giudizio contro le amministrazioni erariali all'Avvocatura dello Stato ed inoltre, allorquando l'autorità opposta sia rimasta contumace ovvero si sia costituita personalmente (o tramite funzionario delegato), anche una deroga al secondo comma del suddetto art. 11, che prevede la notificazione degli altri atti giudiziari e delle sentenze sempre presso la stessa Avvocatura, precisando, altresì che detto principio non subisce deroghe nel caso di giudizio di impugnazione.

Sez. 2, n. 75 (Rv. 624682), est. Migliucci, ha altresì precisato che il disposto dell'art. 22, quinto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 - secondo cui le notificazioni possono essere eseguite, nei casi ivi previsti, mediante deposito in cancelleria - si applica solo nei confronti del ricorrente e non anche dell'autorità opposta, per la quale restano operanti le regole generali (art. 170, comma terzo, cod. proc. civ.), né va richiesta alla P.A. la dichiarazione o elezione di domicilio, prevista dall'art. 22, quinto comma citato, tenuto conto che, ai sensi del successivo art. 23, il ricorso e il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione sono comunicati all'autorità che ha emesso il provvedimento opposto, alla quale è ordinato il deposito dei documenti ivi indicati.

Sez. 6-2, ord. n. 5237 (Rv. 625517), rel. Piccialli, invece, ha ritenuto abnorme e, quindi, impugnabile per cassazione, ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost., il provvedimento qualificato come ordinanza, che abbia dichiarato inammissibile l'opposizione per genericità dei motivi, trattandosi di provvedimento emesso al di fuori di alcuna previsione normativa, in ipotesi neppure astrattamente riconducibile ai moduli processuali previsti dalle norme sul giudizio di opposizione e, tuttavia, incidente su posizioni di diritto soggettivo e idoneo, per il suo carattere di decisorietà, al passaggio in giudicato.

Sez. 6-2, ord. n. 26173 (in corso di massimazione), rel. Petitti, infine, ha ritenuto correttamente utilizzato il procedimento di cui all'art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, al fine di far valere una circostanza estintiva (nella specie l'intervenuta prescrizione) di una sanzione amministrativa, inflitta con l'impugnata ordinanza ingiunzione, maturata prima ancora che il provvedimento giungesse a conoscenza della destinataria.

Alla stregua, poi, di Sez. 2, n. 22637 (Rv. 627881), est. Bursese, il giudice dell'opposizione ex art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, non ha il potere di annullare d'ufficio il provvedimento impugnato, per ragioni diverse da quelle indicate nell'atto di opposizione, salve le ipotesi di inesistenza del provvedimento medesimo, le quali ricorrono, tuttavia, solo nel caso di carenza assoluta di potere, quando, cioè, non è dato cogliere alcun collegamento tra l'atto e le attribuzioni del soggetto che lo ha emesso.

Meritevole di menzione è, altresì, Sez. 2, n. 3705 (Rv. 624937), est. Petitti, secondo cui - in continuità con l'indirizzo già espresso da Sez. Un. n. 17355 del 24 luglio 2009, Rv. 609190 - nel procedimento di opposizione ad ordinanza ingiunzione relativa al pagamento di una sanzione amministrativa, sono ammesse la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto, inerenti alla violazione, che non siano attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto alle quali l'atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile contraddittorietà oggettiva, mentre sono riservati al giudizio di querela di falso, nel quale non sussistono limiti di prova e che è diretto anche a verificare la correttezza dell'operato del pubblico ufficiale, la proposizione e l'esame di ogni questione concernente l'alterazione nel verbale della realtà degli accadimenti e dell'effettivo svolgersi dei fatti, pur quando si deducano errori od omissioni di natura percettiva da parte dello stesso pubblico ufficiale.

La peculiarità della vicenda concreta va ravvisata nel fatto che la sentenza di merito, nella specie cassata dalla Suprema Corte, aveva, in relazione alla contestazione del mancato possesso dei documenti di un natante, dato credito alla testimonianza resa in corso di causa secondo cui trattavasi di imbarcazione non in navigazione, così trascurando la valenza probatoria privilegiata del verbale di accertamento, in cui risultava il contrario al momento del controllo operato dagli agenti accertatori.

Va inoltre rimarcata Sez. 2, n. 1742 (Rv. 624968), est. Proto, a tenore della quale il giudice ordinario, nel giudizio di opposizione avverso ordinanza ingiunzione irrogativa di sanzione pecuniaria amministrativa, può sindacare sotto il profilo della legittimità, al fine della sua eventuale disapplicazione, il provvedimento cosiddetto presupposto, e cioè quello integrativo della norma la cui violazione è stata posta a fondamento di detta sanzione, dovendo, però, tale sindacato, anche sotto il profilo dell'eccesso di potere, restare circoscritto alla sua legittimità.

Traendo spunto dalla fattispecie ivi esaminata, riguardante la pretesa mancata motivazione, da parte del giudice di merito, in ordine alla sussistenza di un vizio di eccesso di potere da parte dei verbalizzanti, in quanto asseritamente animati dall'intento di infliggere al contravventore la decurtazione del maggior numero possibile di punti dalla patente di guida tuttavia, la menzionata pronuncia ha altresì opportunamente precisato che il verbale di contestazione della violazione di norme del codice della strada costituisce non un atto discrezionale, ma un accertamento, il quale è sottoposto al controllo giurisdizionale soltanto al fine di stabilire se sussistono le condotte attestate (sia nella loro materialità, sia nella loro riconducibilità ad una norma che le sanziona), a prescindere da ogni discrezionalità rispetto alla quale possa ammissibilmente configurarsi un'eccezione di sviamento di potere.

Da ultimo, sono parimenti degne di menzione, riguardando i poteri del giudice, rispettivamente, di qualificazione della domanda e di controllo sulla quantificazione della sanzione, Sez. 6-3, ord. n. 14496 (Rv. 626692), rel. Barreca, secondo cui l'opposizione proposta avverso una cartella esattoriale emessa ai fini della riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni del codice della strada, quando basata su vizi di notificazione dell'atto presupposto costituito dal verbale di contestazione dell'infrazione stradale, del quale l'opponente lamenti di essere venuto a conoscenza solo in occasione della notificazione della cartella esattoriale, presenta natura di opposizione ex art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e Sez. 5, n. 9255 (Rv. 626333), est. Perrino, per la quale, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo ed un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l'entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi.

Quest'ultima pronuncia ha chiarito, peraltro, che il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, né la Corte di cassazione può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta.

2. Codice della Strada.

Tra le statuizioni aventi ad oggetto i giudizi concernenti opposizioni ad ordinanza ingiunzione specificamente afferenti sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, vanno segnalate alcune pronunce che hanno affrontato temi sempre d'attualità in subiecta materia, investendone gli oneri collegati alla contestazione della contravvenzione, la individuazione dell'Autorità legittimata a resistervi, ed il termine per la sua proposizione.

In particolare, Sez. 6-2, ord. n. 26171 (in corso di massimazione), rel. Petitti, osservando, preliminarmente, che la legge 24 novembre 1981, n. 689, all'art. 2 (applicabile anche in tema di violazioni al C.d.S. ex art. 194 C.d.S.), dispone che non può essere assoggettato a sanzione amministrativa chi, al momento del fatto, non aveva compiuto gli anni diciotto, rispondendo in tal caso, della violazione chi era tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non avere potuto impedire il fatto, e che l'art. 14 della stessa legge prescrive che la violazione deve essere contestata immediatamente al trasgressore ove possibile, mentre, se non è avvenuta la contestazione immediata, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati entro novanta giorni, che in materia di infrazione al codice della strada diventano centocinquanta a norma dell'art. 201 C.d.S. (nel testo ratione temporis applicabile), ha tratto la conclusione che il combinato disposto delle due norme impone di rilevare che, nel caso in cui la violazione amministrativa sia avvenuta ad opera di un minore degli anni diciotto, questi non può essere assoggettato a sanzione amministrativa, mentre debbono esserlo i soggetti tenuti alla sorveglianza su di lui, i quali rispondono a titolo personale e diretto per la trasgressione della norma violata, avendo omesso la sorveglianza alla quale erano tenuti. Ne consegue che in caso di violazione commessa da minore, fermo l'obbligo della redazione immediata del relativo verbale di accertamento, la contestazione della violazione deve avvenire nei confronti dei soggetti tenuti alla sorveglianza del minore, «con la redazione di apposito verbale di contestazione nel loro confronti, nel quale deve essere enunciato il rapporto intercorrente con il minore che ne imponeva la sorveglianza al momento del fatto e la specifica attribuzione ad essi della responsabilità per l'illecito amministrativo».

Sez. 6-2, ord. n. 18072 (Rv. 627311), rel. D'Ascola, ha, poi, chiarito che l'opponente all'ordinanza-ingiunzione ha l'onere di contestare, in modo specifico e tempestivo, sin dal ricorso in opposizione, l'esistenza del provvedimento sindacale che conferisce all'agente ispettivo il potere di accertamento ex art. 17, comma 133, della legge 15 maggio 1997, n. 127, sorgendo solo da tale contestazione l'onere dell'amministrazione di provare la rituale investitura dell'agente accertatore.

Sez. 6-2, ord. n. 8344, Rv. 625580, rel. Giusti, invece, ha avuto modo di precisare che, nel giudizio di opposizione avverso l'ordinanza ingiunzione prefettizia per infrazione accertata dalla polizia municipale, legittimata passiva, a norma dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, è unicamente l'autorità amministrativa che ha irrogato la sanzione, ovvero il Prefetto, sicché è inammissibile l'impugnazione proposta in tale giudizio dal Comune, per difetto di legittimazione dello stesso, rilevando soltanto sul piano della rappresentanza processuale la circostanza che l'autorità prefettizia si sia costituita nel giudizio di opposizione mediante funzionari comunali appositamente delegati.

Sez. 6-2, ord. n. 14562 (Rv. 626592), rel. Bianchini, infine, ha affermato che l'art. 204, secondo comma, del codice della strada, come modificato dal d.l. 27 giugno 2003, n. 151, convertito nella legge 1° agosto 2003, n. 214, stabilendo che l'ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria deve essere notificata entro centocinquanta giorni dalla sua adozione, grava il prefetto del rispetto di un termine che, seppur non dichiarato espressamente perentorio dalla legge, riveste carattere sollecitatorio, ponendo un requisito di legittimità dell'attività sanzionatoria in materia.

3. Sanzioni in materia finanziaria, doganale e di igiene della produzione e vendita di sostanze alimentari.

Un cenno, meritano, infine, in considerazione della peculiarità delle materie che ne costituiscono, rispettivamente, l'oggetto, e della esiguità di precedenti nelle medesime materie: a) Sez. 2, n. 2736 (Rv. 625070), est. Giusti, resa in tema di opposizione a sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, secondo la quale, ai sensi dell'art. 195 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, qualora il giudice, accolto un primo motivo, attinente ad un vizio formale del decreto (per inosservanza delle norme sul procedimento sanzionatorio), anziché adottare la tecnica dell'assorbimento, abbia comunque esaminato e riconosciuto fondato altresì un secondo motivo, di carattere sostanziale, fatto valere dall'opponente (attinente alla non riconducibilità della vicenda alla fattispecie contestata), si è di fronte non ad una mera argomentazione ad abundantiam, proveniente da giudice ormai privo di potestas iudicandi, quanto alla manifestazione di separate ragioni del decidere che risolvono distinti punti della regiudicanda, sicché ciascuna di esse deve essere impugnata, pena l'inammissibilità del gravame per difetto di interesse, restando altrimenti la decisione fondata in modo autonomo sulla ragione non censurata; b) Sez. Un. n. 7936 (Rv. 625634), est. Massera, pronunciata in materia doganale, a tenore della quale la controversia relativa all'opposizione all'ordinanza ingiunzione emessa dall'Agenzia delle Dogane per violazione del divieto di eseguire costruzioni ed altre opere non autorizzate in prossimità della linea doganale e nel mare territoriale, di cui all'art. 19 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, esula dalla giurisdizione del giudice tributario ed appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che abbia rilievo la mera attribuzione del potere sanzionatorio ad un ufficio finanziario, vertendosi in tema di rispetto di distanze legalmente predeterminate e comportando detta violazione, in ipotesi di accertata sussistenza di un rilevante pericolo per gli interessi erariali, la demolizione del manufatto; c) Sez. 6-2, ord. n. 2977 (Rv. 625181), rel. Giusti, in materia di igiene della produzione e vendita di sostanze alimentari, per la quale, ai sensi dell'art. 22-bis, secondo comma, lett. e), della legge 24 novembre 1981, n. 689, la competenza per materia a decidere sull'opposizione avverso l'ordinanza ingiunzione per violazione dell'obbligo previsto dall'art. 4 del d.P.R. 14 gennaio 1997, n. 54, e sanzionato dall'art. 17 della legge 30 aprile 1962, n. 283, appartiene al tribunale, in quanto la norma - imponendo che il latte crudo di vacca destinato al consumo umano sia accompagnato, durante il trasporto, da un documento recante, tra l'altro, l'identificazione dell'azienda di produzione - concerne la materia dell'igiene degli alimenti, con finalità di tutela della genuinità e dell'integrità del prodotto nella fase dell'immissione sul mercato.

  • fallimento

CAPITOLO XXXIII

PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI

(di Massimo Ferro )

Sommario

1 Il concordato preventivo. - 2 Il coordinamento tra concordato preventivo e dichiarazione di fallimento. - 3 L'insolvenza transnazionale. - 4 L'istruttoria prefallimentare. - 5 I limiti di impugnazione e le preclusioni nei giudizi di ammissione allo stato passivo.

1. Il concordato preventivo.

La nuova gerarchia organizzativa delle procedure concorsuali, ispirate dalla riforma del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 e con i successivi interventi fino alla legge 9 agosto 2013, n. 98, ad un esplicito favor di adeguatezza verso modelli adattati alla crisi d'impresa meglio e prima superabile medianti progetti ristrutturativi del passivo (oltre che di risanamento aziendale ovvero liquidazioni a controllo giudiziale), induce a conferire rilievo innanzitutto al concordato preventivo e, per esso, al leading case di Sez. Un., n. 1521 (Rv. 624796), est. Piccininni. Affrontando il tema dell'ambito dei poteri giurisdizionali diretti in materia di controllo sulla fondamentale condizione di accesso alla procedura, la fattibilità del piano di cui all'art. 161 legge fall., concorrentemente attestata con una relazione del professionista di nomina del debitore, si è così statuito che «il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità ... non restando questo escluso dall'attestazione ... mentre rimane riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti. Il menzionato controllo di legittimità si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo, e si attua verificandosene l'effettiva realizzabilità della causa concreta: quest'ultima, peraltro, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell'imprenditore, da un lato, e all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro.». Il principio - fissato per dirimere una questione di massima di particolare importanza - ha rinvenuto ulteriori puntualizzazioni, come per il concordato preventivo con cessione di beni, anche per il quale il controllo di legittimità consiste nella «verifica dell'idoneità della documentazione a fornire elementi di giudizio ai creditori circa la convenienza della proposta» [Sez. 1, n. 11014 (Rv. 626421), est. Mercolino].

Ancora in corso d'anno, la Corte ha posto l'accento sulle verifiche di spettanza dell'autorità giurisdizionale, dovendo la disamina del tribunale assumere ad oggetto l'idoneità della documentazione prodotta (per completezza e regolarità) a corrispondere alla funzione che le è propria, «consistente nel fornire elementi di giudizio ai creditori, sia accertando la fattibilità giuridica della proposta, sia, infine, valutando l'effettiva idoneità di quest'ultima ad assicurare il soddisfacimento della causa della procedura». In tale ambito rientrano altresì la correttezza e la coerenza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del formulato giudizio di fattibilità; l'eventuale impossibilità giuridica di dare esecuzione, sia pure parziale, alla proposta di concordato; l'eventuale inidoneità della proposta, se emergente in prima approssimazione, a soddisfare in qualche misura i diversi crediti rappresentati. Così, per Sez. 1, n. 13083 (Rv. 626689), est. Di Amato, «resta, invece, riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito di detto giudizio, che ha ad oggetto la fattibilità del piano e la sua convenienza economica.». La distinzione tra fattibilità giuridica e fattibilità economica, per effetto dei citati arresti [confermati ulteriormente da Sez. 1, n. 21901 (Rv. 627746), est. Cristiano], ha consentito in breve tempo di costruire un catalogo operazionale meno incerto in ordine ai ruoli di controllo rispettivamente assegnati al giudice ovvero ai creditori, permettendo ad uno dei più controversi istituti della riforma di rinvenire un punto fermo: il giudice controlla solo la legittimità del giudizio di fattibilità della proposta concordataria, esclusivamente i creditori esprimono la valutazione sulla probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti.

Approfondendo i termini della dialettica contrappositiva fra controllo giudiziale e diritto alla celere stabilizzazione degli effetti protettivi della domanda di concordato ordinario [tale definibile per distinzione rispetto all'istituto varato con l'art. 33, comma 1, lett. b), n. 4), del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, il concordato con riserva del novellato art. 161, sesto comma, legge fall.], Sez. 1, n. 21901 (Rv. 627747), est. Cristiano, ha riconosciuto che la mancata formulazione da parte del giudice, nel corso dell'udienza camerale, di osservazioni critiche in ordine alla proposta, non è di ostacolo a che il debitore richieda un termine per integrarla, così anticipando eventuali contestazioni su profili di inammissibilità che potrebbero palesarsi in sede decisoria, mentre a sua volta l'art. 162, primo comma, legge fall. attribuisce al giudice un potere discrezionale di concessione del termine stesso, il cui omesso esercizio non necessita di motivazione, né è censurabile in sede di legittimità.

Consolidato dunque l'indirizzo che restringe il controllo officioso sulla fattibilità economica del concordato, perciò riservata la verifica di completezza e correttezza dei dati informativi forniti dal debitore ai creditori, ai fini della consapevole espressione del voto, al solo riscontro della sussistenza o meno di una assoluta e manifesta inattitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, la S.C. ha permesso di dettagliare ulteriormente il rinvio alla realizzazione della citata causa concreta: essa va individuata caso per caso, tenuto conto delle specifiche modalità di superamento della crisi, esigendo una sia pur minimale soddisfazione dei creditori in tempo ragionevole e con il limite inferiore della manifesta irrealizzabilità del piano stesso. Nella vicenda, peraltro, ad un creditore privilegiato quanto all'IVA di rivalsa, ai sensi dell'art. 2758 cod. civ., è stato riconosciuto dal giudice di legittimità [per la prima volta con chiarezza, dopo il d.lgs. n. 169 del 2007 e sulla scia di Sez. 1, n. 12064 (Rv. 626522), est. Scaldaferri, relativa a fattispecie anteriore] che l'incapienza del credito non impedisce che questo debba essere soddisfatto integralmente, con non ammissione al voto, per tale parte, del creditore, essendo così ribadito che il privilegio è una qualità del credito assegnata dalla legge in base alla sua causa. Nella vicenda, mancava infatti un patto concordatario per la limitazione del soddisfacimento dei privilegiati alla sola misura di capienza liquidatoria ex art. 160, terzo comma, legge fall. (per questa ragione la S.C. ha riconosciuto a tale creditore, erroneamente qualificato come chirografo e in fatto non votante, piena legittimazione all'opposizione ex art. 180 legge fall.) [Sez. 1, n. 24970, in corso di massimazione, est. De Chiara]. Altro scenario si dà ovviamente allorché il tribunale sia sollecitato ad una valutazione d'ufficio del merito della proposta di concordato: «tale potere appartiene ai creditori, così che solo in caso di dissidio tra i medesimi in ordine alla fattibilità, denunciabile attraverso l'opposizione all'omologazione, il tribunale, preposto per sua natura alla soluzione dei conflitti, può intervenire risolvendo il contrasto con una valutazione di merito in esito ad un giudizio, quale è quello di omologazione, in cui le parti contrapposte possono esercitare appieno il loro diritto di difesa» [Sez. 1, n. 22083 (Rv. 628215), est. De Chiara].

Con riguardo alle vicende anomale collegate ai provvedimenti di diniego, è stato ribadito, con chiarezza anche per gli istituti riformati, che il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto dichiarativo dell'inammissibilità della proposta di concordato preventivo è ammissibile purché a tale provvedimento non abbia fatto seguito la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore [Sez. 1, n. 21901 (Rv. 627745), est. Cristiano], convertendosi in generale i vizi della procedura cd. minore in cause di tipizzata doglianza da esprimere di necessità avverso i provvedimenti introduttivi o confermativi del fallimento e pur tuttavia essendo sufficiente che siano spiegate critiche avverso il primo, bastando l'impugnazione in sé avverso la sentenza di fallimento, che si voglia caducare come effetto dell'accoglimento delle invalidità delle pronunce attinenti al concordato [Sez. 1, n. 22083 (Rv. 628212), est. De Chiara]. Così, l'unitario reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, che consegua al diniego di omologazione del concordato e avverso il contestuale decreto di diniego dell'omologazione, va proposto nel termine di trenta giorni, decorrenti per il debitore dalla notificazione della sentenza, e non in quello più breve di dieci giorni, «in quanto il reclamo cui fa riferimento l'art. 183, secondo comma legge fall. è quello previsto dall'art. 18 della medesima legge, e non può reputarsi che il termine muti a seconda che la sentenza sia o meno pronunciata all'esito del decreto di diniego dell'omologazione del concordato, non residuando dunque alcuno spazio per l'applicazione della disciplina generale dei procedimenti camerali, prevista dal codice di procedura civile» [Sez. 1, n. 21606 (Rv. 627663), est. De Chiara].

2. Il coordinamento tra concordato preventivo e dichiarazione di fallimento.

L'istituzione di un'immediata protezione patrimoniale a favore del debitore, che si limiti alla proposizione della domanda - ai sensi dell'art. 161, sesto comma, legge fall. - senza piano, proposta e documenti, giustifica l'attenzione verso la giurisprudenza di legittimità ove essa definisce le relazioni tra le istanze di fallimento pendenti o sopravvenute al ricorso per concordato e quest'ultimo, specie se declinato nella forma cd. semplificata o con riserva [da parte del giudice di fissare un termine per completare la domanda stessa, con accresciuti poteri di controllo dopo l'art. 82, comma 1, lett. a) e b), del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, conv., con mod., dalla legge 9 agosto 2013, n. 98]. Ancora la cit. Sez. Un., n. 1521 del 2013 ha invero precisato, e sia pur su una fattispecie anteriore al decreto legge n. 83 del 2012, che ha novellato una prima volta il comma 6 dell'art. 161 legge fall., che l'avvenuta espunzione dal testo dell'art. 160 (che prevedeva la possibilità per l'imprenditore di proporre il concordato preventivo "fino a che il suo fallimento non è dichiarato"), ha determinato «il superamento del principio di prevenzione che correlava le due procedure, posponendo la pronuncia di fallimento al previo esaurimento della soluzione concordata della crisi dell'impresa, senza peraltro che lo stesso, alla stregua dei principi generali vigenti in materia, possa oggi desumersi in via interpretativa. Ne deriva che, non ricorrendo un'ipotesi di pregiudizialità necessaria, il rapporto tra concordato preventivo e fallimento si atteggia come un fenomeno di consequenzialità (eventuale del fallimento, all'esito negativo della pronuncia di concordato) e di assorbimento (dei vizi del provvedimento di rigetto in motivi di impugnazione del successivo fallimento) che determina una mera esigenza di coordinamento fra i due procedimenti».

La conferma dell'attualità della questione - particolarmente sentita nelle prassi dei giudici di merito, essendo i concordati preventivi spesso presentati a ridosso di istruttorie prefallimentari già avviate e prossime alla definizione decisoria - si rinviene peraltro in un successivo arresto, a regolazione proprio di un caso già relativo al concordato con riserva: per Sez. 6-1, ord., n. 14684 (Rv. 626732), rel. Cristiano, l'art. 42 cod. proc. civ., secondo il quale i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ. possono essere impugnati soltanto con l'istanza di regolamento di competenza, non è suscettibile di interpretazione analogica e, pertanto, non trova applicazione nei casi di sospensione impropria. Per i giudici, la conseguenza è che «l'ordinanza di sospensione del procedimento per la dichiarazione di fallimento, adottata ai sensi degli artt. 161, nono comma, e 168 legge fall. a seguito dell'ammissione del fallendo al concordato preventivo, non è impugnabile con il regolamento di competenza, trattandosi di atto finalizzato ad assicurare solo il coordinamento tra procedure, strettamente connesse ma con presupposti ed esiti divergenti, tra le quali non v'è rapporto di pregiudizialità».

La tradizionale interferenza tra le due procedure è alla base dell'aggiornata puntualizzazione degli atti di frode che, se compiuti dal debitore una volta ammesso al concordato, possono giustificarne la dichiarazione di fallimento, in un subprocedimento accelerato e nel quale ruolo propulsivo (legittimazione all'iniziativa) e presupposti (atti e condotte ex art. 173 legge fall.) sono stati nuovamente messi a fuoco.

Per Sez. 1, n. 23387, est. Di Amato, i presupposti non risiedono più nei meri atti in frode ai creditori di cui all'art. 64 legge fall. ovvero in comportamenti volontari idonei a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento dei creditori stessi, esigendosi invece che la condotta sia stata volta ad occultare situazioni di fatto capaci di influire sul processo decisionale di questi ultimi. Occorre cioè che, se conosciute, tali circostanze avrebbero probabilmente indotto i creditori a mutare il proprio giudizio (dunque negativo sulla proposta) e sempre che il loro accertamento sia riferibile al commissario giudiziale, perché prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. Tale attitudine decettiva deve perciò ricorrere anche per gli "altri atti di frode", residualmente previsti - oltre quelli nominati - dalla norma e da scoprire. Questa condotta ingannevole va peraltro apprezzata solo avendo riguardo alla proposta di concordato ed ai relativi allegati, senza riferimento generale a tutte le scritture contabili, divenute estranee ai documenti con cui il debitore illustra la proposta, né rientrando più esse - secondo questa prima pronuncia sul tema - in un dovere di deposito. Altra vicenda attiene invece all'annotazione sulle scritture del decreto di ammissione, adempimento sopravvissuto, al pari della doverosa messa a disposizione di esse a favore del commissario giudiziale perché egli proceda a verifiche e accertamenti di competenza. Rientrano dunque come oggetto di controllo i fatti esposti nella domanda, negli allegati, nel piano e nell'attestazione, mentre i fatti che non risultano da tali documenti saranno l'obiettivo dell'accertamento, come accade per le scritture contabili, senza che il silenzio del debitore su fatti e circostanze sia reso irrilevante dalla citata annotazione.

3. L'insolvenza transnazionale.

La relazione tra i due istituti concorsuali ha impegnato spesso anche le Sezioni unite, sia con riguardo a fattispecie ricadenti nella zona operativa del Regolamento comunitario 29 maggio 2000, n. 1346, sia per casi esterni al territorio europeo. Più in generale, a dettatura della gerarchia delle impugnazioni, è stato affermato che, una volta proposti con il medesimo atto «il ricorso per cassazione ed il regolamento di giurisdizione avverso le statuizioni contenute nel decreto del tribunale che, affermata la propria giurisdizione, rispettivamente, dichiari inammissibile la domanda di concordato preventivo formulata da una società con sede trasferita all'estero e, contestualmente, disponga il prosieguo del procedimento prefallimentare, è inammissibile il primo, qualora sia stato pronunciato il fallimento di detta società, perché le eventuali doglianze riguardanti la decisione reiettiva dell'istanza concordataria possono trovare spazio solo nell'ambito del reclamo, innanzi alla corte di appello, contro la sentenza dichiarativa di fallimento; e parimenti lo è il secondo, stante la valenza di vera e propria pronuncia sulla giurisdizione da attribuirsi alla corrispondente affermazione contenuta nel suddetto decreto, atteso che il menzionato regolamento è consentito solo nel caso in cui il giudizio di merito sia pendente e prima che in esso sia stata emessa una qualsiasi decisione, anche soltanto riferita alla giurisdizione» [Sez. Un., n. 23217 (Rv. 627735), est. Rordorf]. Parimenti, è stata giudicata inopponibile al creditore che abbia chiesto il fallimento di una società la deliberazione di trasferimento all'estero della sede di quest'ultima, iscritta nel registro delle imprese successivamente alla proposizione dell'istanza, con conseguenti sua insensibilità rispetto al corso della procedura, alla stregua dell'art. 5 cod. proc. civ. e sussistenza della giurisdizione italiana [Sez. Un., n. 15872 (Rv. 626754), est. Piccininni].

La comune interpretazione cd. reale della nozione di center of main interest dell'art. 3 del Regolamento n. 1346 del 2000, quale sede effettiva del debitore societario, ha rinvenuto una sua conferma nell'ambito della situazione elusiva più critica (e ricorrente) e cioè in presenza di cancellazione di una società dal registro delle imprese italiano: qualora essa sia avvenuta come conseguenza di un trasferimento all'estero accertato siccome fittizio, non ne discende il venir meno della giurisdizione del giudice italiano, e neanche si determina, come effetto della cancellazione, il decorso del termine di cui all'art. 10 legge fall., poiché il fatto che non sia preventivamente intervenuto, ai sensi dell'art. 2191 cod. civ., alcun provvedimento di segno opposto alla predetta cancellazione, non impedisce l'applicazione del principio per cui per poter fornire la prova contraria alle risultanze della pubblicità legale relative alla sede dell'impresa non occorre ottenere prima dal giudice del registro una pronuncia che ripristini, anche sotto il profilo formale, la corrispondenza tra la realtà effettiva e quella risultante dal registro [così Sez. Un., n. 9414 (Rv. 625784), est. Rordorf].

La tesi è così penetrata anche nella giurisprudenza relativa al procedimento per la dichiarazione di fallimento, esercitando una diretta influenza sulle regole probatorie: pur riconosciuto che non grava sulla società debitrice la dimostrazione che il centro effettivo dei propri interessi coincida con l'ubicazione della sua sede legale, al giudice non è precluso, ai sensi dell'art. 116, secondo comma, cod. proc. civ. ed al fine di vincere la presunzione di corrispondenza tra sede effettiva e sede legale, desumere argomenti di prova dal contegno delle parti nel processo. Consolidando il principio, attinente a risultanze istruttorie tra le quali l'irreperibilità all'estero della società e presso la sede al momento della notifica del ricorso di fallimento, nella vicenda la localizzazione dei beni unicamente in Italia ed ivi la residenza del legale rappresentante hanno indotto la Corte a valorizzare negativamente la mancata offerta di prova contraria da parte del soggetto pur prossimo alle circostanze eventualmente contraddittorie con la citata presunzione di fittizietà [Sez. Un., n. 5945 (Rv. 625477), est. Rordorf].

4. L'istruttoria prefallimentare.

Ancora le S.U., n. 9409 (Rv. 626429), est. Piccininni, hanno composto un contrasto relativo ai limiti dell'iniziativa del Pubblico Ministero cui sia stata segnalata l'insolvenza dallo stesso giudice civile già investito di altra, autonoma ed altrimenti definita istruttoria prefallimentare, regolando l'interpretazione dell'art. 7 legge fall. - allorché dispone che l'insolvenza deve essere segnalata al Pubblico Ministero «dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile» - nel senso peraltro già espresso dalle più recenti pronunce del 2012 di Sez. 1, n. 9857 (Rv. 622854) e Sez. 1, n. 9858 (Rv. 622933). E così quando il procedimento per la dichiarazione di fallimento non si concluda con una decisione nel merito, il tribunale fallimentare può disporre la trasmissione degli atti al P.M., affinché quest'organo valuti se esercitare o meno l'iniziativa di richiedere il fallimento, poiché in caso di effettivo dispiego di essa comunque non sussiste, ex art. 111 Cost., alcuna violazione del principio di terzietà del giudice, ove a questi sia ripresentata la richiesta e per il solo fatto che sia chiamato una seconda volta a decidere sul fallimento dell'imprenditore, anche se per effetto di iniziativa conseguente alla segnalazione originaria da parte del medesimo magistrato, che resta atto neutro, privo di contenuto decisorio ed assunto con valutazione prima facie.

Una rilevante indicazione chiarificatrice ha riguardato il tradizionale tema del raccordo tra pienezza del contraddittorio e celerità nella definizione del procedimento, confermandosi il ruolo centrale che, per il processo camerale, assume la progressiva sedimentazione dei precedenti di legittimità. Così, la declinazione del diritto alla difesa è stata intesa in senso assoluto, quanto alla prima conoscenza dell'istanza di fallimento: la notificazione al debitore del ricorso e del decreto di convocazione all'udienza è la regola anche quando il debitore, rendendosi irreperibile, si sia sottratto volontariamente o per colpevole negligenza al procedimento, restando la notificazione un adempimento indefettibile. Rilevando la mancanza di aperture nell'art. 15 legge fall. per un diverso bilanciamento dei contrapposti interessi, sostiene Sez. 1, n. 22218 (Rv. 628145), est. De Chiara, che non ostano a tale rigore le eventuali ragioni dell'urgenza legata al rischio di consolidamento di atti pregiudizievoli o alla scadenza del termine di cui all'art. 10 legge fall.

Un'attenzione al versante di efficienza della citata impronta si rinviene tuttavia in altro, più recente, arresto, che pone esplicitamente un dovere della parte debitrice di condotta diligente ed al contempo riattualizza l'interesse pubblicistico con l'impiego modulare del tempo istruttorio. Invero, la valutazione da parte del presidente del tribunale della sussistenza di particolari ragioni d'urgenza, ai fini dell'abbreviazione dei termini a comparire di cui all'art. 15 legge fall., può anche prescindere da un'apposita istanza del creditore, senza che un'iniziativa dell'organo giudiziale contraddica il divieto dell'azione officiosa: si tratta di «interpretazione ... coerente con l'interesse, di natura pubblicistica, ad un'ordinata gestione dell'insolvenza dell'impresa, secondo le regole della concorsualità». E parimenti, per la stessa pronuncia, anche dopo la riforma il fallendo ha l'onere di seguire lo sviluppo della procedura, così assumendo ogni difesa, a tutela dei propri diritti, allorché sia depositata un'ulteriore istanza, che non gli va perciò di necessità notificata, salva la possibilità di contrastare tale principio invocando l'omessa allegazione tempestiva di circostanze che avrebbero paralizzato l'istanza ulteriore e diversa da quella già notificatagli [Sez. 1, n. 24968, est. Cristiano; lo stesso rigore è anche in Sez. 6-1, ord., n. 22060 (Rv. 627763), rel. Ragonesi].

La menzionata fermezza appare però attenuata quanto al profilo, disegnato dalla riforma di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, della scomparsa dell'iniziativa d'ufficio: affinché il giudice possa pronunciarsi nel merito è ribadita le necessità che la domanda proposta dal soggetto a tanto legittimato sia mantenuta ferma, cioè non rinunciata, per tutta la durata del procedimento stesso, derivandone, quindi, che «la desistenza dell'unico creditore istante intervenuta anteriormente alla pubblicazione della sentenza di fallimento, pur se depositata solo in sede di reclamo avverso quest'ultima, determina la carenza di legittimazione di quel creditore e la conseguente revoca della menzionata sentenza» [Sez. 1, n. 21478 (Rv. 627559), est. Di Virgilio]. E la medesima tendenza alla semplificazione istruttoria si rinviene nell'indirizzo per cui il tribunale, cui la corte di appello abbia rimesso, ai sensi dell'art. 22, quarto comma, legge fall., gli atti per la dichiarazione di fallimento (così accogliendo il reclamo avverso il decreto di rigetto dell'istanza), deve accertare i fatti, segnalati anche dal debitore ed incidenti sui presupposti della sua fallibilità, successivi al decreto, tuttavia dovendosi ritenere il giudice, in loro mancanza, vincolato alla decisione della corte, inderogabilmente deputata a conoscere tutti gli elementi, preesistenti o sopravvenuti, rilevanti per la verifica dei menzionati presupposti medio tempore intervenuti anteriormente alla sua pronuncia. Solo in tale prima ipotesi, quindi, il tribunale, verificata la persistenza dell'iniziativa del creditore o del P.M., deve statuire rispettando lo schema procedimentale di cui all'art. 15 legge fall., al fine di consentire l'effettivo dispiegarsi del diritto di difesa delle parti, «ritenendo in ogni altro caso superflua l'ulteriore audizione del debitore, già posto in grado di contraddire nel procedimento di reclamo e nel corso dell'istruttoria prefallimentare» [Sez. 6-1, ord., n. 15862 (Rv. 626974), rel. Cultrera].

La teorica del coordinamento tra procedure, sopra inquadrata a proposito della relazione con il concordato preventivo, è invece nettamente ribadita con riguardo all'istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all'art. 182-bis legge fall.: per esso, l'istanza di sospensione del debitore, inoltrata al tribunale con riguardo alla domanda di omologazione dell'accordo in itinere, produce l'effetto del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari in senso stretto, ma non si estende al procedimento per la dichiarazione di fallimento, equivalendo altrimenti tale lettura ad un'inammissibile sospensione ovvero al ripristino, de facto, della opposta teorica della pregiudizialità. Per Sez. 1, n. 24969, est. De Chiara, l'istruttoria prefallimentare non ha infatti natura esecutiva o cautelare, bensì di cognizione piena.

5. I limiti di impugnazione e le preclusioni nei giudizi di ammissione allo stato passivo.

Tra le rilevanti conseguenze indirette connesse all'ammissione al passivo, è stato precisato che il curatore fallimentare non può agire in revocatoria per far dichiarare inopponibile alla massa l'intervenuta risoluzione di diritto di un contratto di leasing relativo ad un macchinario allorquando, in sede di accertamento del passivo, sia stata già definitivamente accolta la domanda di rivendica del bene oggetto del menzionato contratto avanzata dal terzo acquirente: non essendosi opposto in tale sede alla restituzione, il curatore ha oramai riconosciuto la validità dell'atto d'acquisto del rivendicante e non può dunque recuperare il bene con l'effetto utile della citata azione, in quanto simile risultato non sarebbe raggiungibile senza la modificazione dello stato passivo, preclusa dal giudicato endofallimentare, il quale copre sia il dedotto che il deducibile [Sez. 1, n. 20222 (Rv. 627804), est. Cristiano].

Più in generale, affrontando il tema della sospensione dei termini durante il periodo feriale, Sez. 6-1, ord., n. 16494 (Rv. 627209), rel. Didone, ha statuito che non si sottraggono al disposto dell'art. 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e degli artt. 1 e 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, le controversie aventi ad oggetto l'ammissione al passivo, ma con l'eccezione relativa ai crediti di lavoro, che vanno però trattate con il rito fallimentare, così consolidando un indirizzo affermato anche anteriormente alla riforma.

Di rilevante effetto pratico, nella prospettiva di una minore durata delle procedure concorsuali, appare la fissazione del principio per cui il riacquisto della capacità processuale del fallito determinato dalla chiusura (o dalla revoca) del fallimento provoca l'interruzione dei processi in cui sia parte il curatore della procedura: il giudizio ex art. 98 legge fall. può dunque essere riassunto nei confronti del debitore tornato in bonis, o da lui proseguito, al fine di giungere all'accertamento giudiziale sull'esistenza, o meno, del credito di cui si era chiesta l'insinuazione, dovendosi ritenere irrilevante - per Sez. 6-1, ord., n. 13337 (Rv. 626654), rel. De Chiara - la circostanza che le conclusioni del creditore continuino ad essere formulate in termini di ammissione al passivo, piuttosto che di condanna al pagamento dell'invocato credito, «atteso che la domanda di insinuazione, inserendosi in un processo esecutivo concorsuale e tendendo all'accertamento del credito in funzione esecutiva mediante la sua collocazione sul ricavato dell'attivo fallimentare, ricomprende quella di condanna richiesta nel giudizio ordinario». Parimenti, un evidente raccordo con l'evoluzione assunta dalla giurisprudenza in materia di esecuzione forzata, si rinviene nell'arresto per cui, anche nel fallimento e con riguardo all'insinuazione al passivo di crediti derivanti da un unico rapporto di lavoro subordinato, il principio di infrazionabilità del credito determina l'inammissibilità della domanda a propria volta frazionata. La regola vale solamente nel caso in cui il rapporto si sia concluso, con conseguente definizione delle rispettive posizioni di debito e credito, ed il creditore abbia dichiarato, nonostante l'unitaria contezza delle proprie spettanze, di voler agire soltanto per una parte di esse, dovendosi, invece, ritenere ammissibili una pluralità di domande, ove il creditore non abbia effettuato, senza essere in colpa, una considerazione unitaria di distinte voci di credito, ciascuna con autonomi elementi costitutivi, sia pure nella cornice di un unitario rapporto, restando esclusa, in tal caso, una connotazione di abusività della condotta [così Sez. 1, n. 9317 (Rv. 626225), est. Di Amato].

Di significativa portata di orientamento è poi l'arresto con cui Sez. 1, n. 11026 (Rv. 626391), est. Di Amato, ha statuito che nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento il creditore, il cui credito sia stato escluso o ridotto nel progetto del curatore, può proporre le eccezioni e depositare i documenti ritenuti rilevanti ancorché non abbia presentato alcuna preventiva osservazione ex art. 95, secondo comma, legge fall., dovendosi escludere che il mancato esercizio di tale facoltà comporti il prodursi di preclusioni, attesa la non equiparabilità del suddetto giudizio a quello d'appello, con conseguente inapplicabilità dell'art. 345 cod. proc. civ.

Circa l'istruzione probatoria, è stata ribadita l'opzione - già formatasi prima della riforma ed a chiarimento di dedotti contrasti in sede di legittimità - per cui la mancanza di data certa nelle scritture prodotte dal creditore, che proponga istanza di ammissione al passivo, si configura come fatto impeditivo all'accoglimento della domanda ed oggetto di eccezione in senso lato, in quanto tale rilevabile anche d'ufficio dal giudice: nell'eventualità, diviene necessario «disporre la relativa comunicazione alle parti per eventuali osservazioni e richieste e [si] subordina la decisione nel merito all'effettuazione di detto adempimento» [Sez. Un., n. 4213 (Rv. 625119), est. Piccininni]. È stato invero osservato, come fatto del tutto incontestabile, che il curatore, il quale non è un successore del fallito, non ha preso parte al rapporto giuridico posto a base della pretesa creditoria fatta valere in sede di ammissione, ed è dunque da considerare terzo rispetto ad esso: questa la ragione per la quale, nella verifica dei crediti ed ai fini della determinazione della data di scritture private, trova piena applicazione l'art. 2704, primo comma, cod. civ.

A propria volta, la medesima pronuncia di Sez. Un. n. 4213, nei confronti del curatore che agisca non in via di successione di un rapporto precedentemente facente capo al fallito, ma nella sua funzione di gestione del patrimonio del medesimo, ha chiarito che non trova applicazione l'art. 2710 cod. civ. (che conferisce efficacia probatoria tra imprenditori, per i rapporti inerenti all'esercizio dell'impresa, ai libri regolarmente tenuti), non potendo l'organo concorsuale, in quella veste, essere annoverato tra i soggetti considerati dalla norma, che opera soltanto tra imprenditori che assumano la qualità di controparti nei rapporti d'impresa.

  • giurisdizione tributaria

CAPITOLO XXXIV

IL DIRITTO TRIBUTARIO PROCESSUALE

(di Giuseppe Dongiacomo )

Sommario

1 La giurisdizione tributaria. - 2 La difesa tecnica. - 3 La rappresentanza processuale dell'Agenzia delle Entrate. - 4 Gli atti impugnabili. - 5 Il ricorso introduttivo. - 5.1 L'oggetto. - 5.2 La notificazione. - 5.3 La nullità dell'atto introduttivo. - 6 La legittimazione passiva. - 7 Il litisconsorzio necessario. - 8 L'intervento del terzo e la domanda riconvenzionale. - 9 Le prove utilizzabili. - 10 I poteri del giudice. - 11 La sospensione del processo. - 12 La decisione. - 12.1 L'annullamento dell'atto impugnato. - 12.2 La cessazione della materia del contendere. - 12.3 La motivazione della sentenza. - 12.4 Effetti sul coobbligato solidale. - 13 L'impugnazione. - 13.1 Il termine. - 13.2 L'oggetto. - 13.3 L'art. 161 cod. proc. civ. - 13.4 L'impugnazione incidentale. - 14 Il giudizio di appello. - 14.1 L'oggetto. - 14.2 Le sentenze impugnate. - 14.3 La notificazione dell'atto introduttivo. - 14.4 Le prove. - 15 Il ricorso per cassazione. - 15.1 L'eccezione di giurisdizione. - 15.2 I motivi. - 16 Il giudizio di rinvio. - 16.1 La riassunzione. - 16.2 I poteri del giudice. - 16.3 La definizione della lite. - 17 La revocazione.

1. La giurisdizione tributaria.

Anche nel 2013 la Cassazione si è occupata di definire la natura e l'ambito della giurisdizione tributaria.

In tale prospettiva, si è affermato che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie nelle quali si impugni il diniego di rimborso avente ad oggetto i maggiori oneri sostenuti dall'impresa (nella specie, depositario autorizzato) a fronte dello sconto concesso obbligatoriamente ai sensi dell'art. 8 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 ai consumatori finali sul prezzo del carburante da riscaldamento; infatti, il beneficio previsto dal richiamato art. 8 non è assimilabile ad uno sconto sul prezzo di cessione del gasolio utilizzato per il riscaldamento ed il fornitore non può ritenersi delegato all'erogazione di una sovvenzione economica dello Stato; inoltre, con la progressiva rideterminazione in aumento delle aliquote delle accise armonizzate sugli olii minerali la predetta legge ha inteso provvedere all'esigenza - specificamente tributaria - di realizzare un'equa ripartizione del tributo tra le varie categorie sociali e lavorative interessate ai consumi dei prodotti inquinanti, attribuendo, quindi, diritti patrimoniali che, incidendo sul rapporto d'imposta, ove oggetto di contestazione, devono essere fatti valere avanti al giudice tributario ai sensi dell'art. 19, comma 1, lett. h), d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Sez. 5, n. 11172, Rv. 626776, est. Olivieri).

2. La difesa tecnica.

Il conferimento dell'incarico di assistenza tecnica nel processo tributario è oggetto di una disciplina - ai sensi dell'art. 12, comma terzo, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 - che ripete quella dettata per il giudizio civile dall'art. 83 cod. proc. civ., potendo, pertanto, avvenire mediante atto pubblico o scrittura privata ovvero con dichiarazione apposta in calce o a margine di un atto del processo, nel qual caso la sottoscrizione autografa è autenticata dallo stesso incaricato, che esercita una potestà certificativa analoga a quella notarile, sebbene limitata a tale atto, conferendo ad esso efficacia probatoria privilegiata ex art. 2702 cod. civ., quanto alla provenienza ed alla data (Sez. 5, n. 6912, Rv. 625529, est. Olivieri).

La sentenza n. 20929 del 13/09/2013 (Rv. 628189), est. Olivieri, ha, poi, ribadito l'obbligo del giudice tributario di fissare al contribuente, che ne sia privo, un termine per la nomina di un difensore - previsto per le controversie di valore eccedente Euro 2.582, 28, dall'art. 12, comma cinque, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come interpretato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 189 del 2000 e n. 202 del 2002 e con l'ordinanza n. 158 del 2003 - precisando, però, che tale obbligo sussiste solo nell'ipotesi in cui la parte sia "ab initio" sfornita di assistenza tecnica, e non riguarda il giudizio di secondo grado, come si desume sia dall'esplicito riferimento, nella citata giurisprudenza costituzionale, al solo giudizio di prime cure, sia dal tenore letterale dell'art. 12 citato, che si riferisce espressamente alla proposizione delle controversie, e non alla prosecuzione dei giudizi. Ne consegue che, quando la parte si sia munita di assistenza tecnica nel giudizio di primo grado a seguito di ottemperanza all'ordine emesso dal giudice e proponga appello personalmente, l'impugnazione deve essere dichiarata inammissibile, non dovendo l'ordine essere reiterato, attesa la riferibilità di quello già impartito all'intero giudizio.

3. La rappresentanza processuale dell'Agenzia delle Entrate.

A fronte della rappresentanza legale dell'Agenzia delle Entrate in capo al suo direttore generale e del difetto di personalità giuridica delle rispettive articolazioni territoriali, non occorre necessariamente indicare nel ricorso per cassazione il nome della persona fisica preposta a tale carica, essendo individuato in modo incontrovertibile, per la circostanza sopradetta, ai sensi degli artt. 67 e 68 del d.lgs. n. 300 del 1999, quale unico rappresentante ed autorizzato ex lege a stare in giudizio davanti alla corte di cassazione (Sez. 5, n. 5875, Rv. 625908, est. Bruschetta).

4. Gli atti impugnabili.

Con la sentenza n. 4145 (Rv. 625103), est. Botta, la Corte ha ribadito che il giudizio davanti alle commissioni tributarie riguarda esclusivamente il controllo della legittimità, formale e sostanziale, di uno degli specifici atti impositivi elencati nell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (e, prima, nell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636), con indagine sul rapporto tributario limitata al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere con gli atti medesimi.

Per il resto, la Corte ha affermato che l'estratto di ruolo, che è atto interno all'Amministrazione, non può essere oggetto di autonoma impugnazione, ma deve essere impugnato unitamente all'atto impositivo, notificato di regola con la cartella, in difetto non sussistendo interesse concreto e attuale ex art. 100 cod. proc. civ., ad instaurare una lite tributaria, che non ammette azioni di accertamento negativo del tributo (Sez. 5, n. 6610, Rv. 625889, est. Bruschetta).

Il ricorso, peraltro, può essere proposto da più soggetti e nei confronti di più atti.

La Corte, infatti, con la sentenza n. 4490 (Rv. 625446), est. Crucitti, ha ritenuto che, nel processo tributario, non prevedendo il d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, alcuna disposizione in ordine al cumulo dei ricorsi, e rinviando il suo art. 1, secondo comma, alle norme del codice di procedura civile per quanto da esso non disposto e nei limiti della compatibilità, deve ritenersi applicabile l'art. 103 cod. proc. civ., in tema di litisconsorzio facoltativo, conseguendone l'ammissibilità della proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se in relazione a distinte cartelle di pagamento, ove abbia ad oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa (in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto ammissibile un ricorso collettivo e cumulativo, avverso differenti atti impositivi emessi a carico di distinti proprietari di immobili aventi caratteristiche diverse).

Tuttavia, la trattazione e la decisione congiunta dei giudizi di impugnazione di due distinti avvisi di accertamento, come nel caso in cui uno sia stato proposto da una società di capitali ed avente ad oggetto il versamento delle ritenute d'acconto sui dividendi distribuiti ai soci, e l'altro dai singoli soci ed avente ad oggetto l'imposta sui dividendi, non incide sull'autonomia di tali giudizi, con la conseguenza che il passaggio in giudicato del capo di sentenza relativo all'obbligazione tributaria della società non riverbera alcun effetto su quella dei singoli soci (Sez. 5, n. 426, Rv. 625087, est. Cigna).

5. Il ricorso introduttivo.

5.1. L'oggetto.

L'impugnazione di avvisi di accertamento e di atti di contestazione relativi ad imposte dirette ed IVA, sul presupposto dell'eccepita nullità dei provvedimenti impositivi per violazione dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 (per essere stati emessi prima del decorso dei 60 giorni ivi stabiliti), costituisce contestazione dell'an della pretesa, comprendente dunque per implicito anche quella in ordine al quantum della medesima (Sez. 5, n. 2894, Rv. 625781, est. Terrusi).

5.2. La notificazione.

La notifica a mezzo servizio postale non si esaurisce con la spedizione dell'atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario, e l'avviso di ricevimento prescritto dall'art. 149 cod. proc. civ. e dalle disposizioni della legge 20 novembre 1982, n. 890, è il solo documento idoneo a dimostrare sia l'intervenuta consegna che la data di essa e l'identità e l'idoneità della persona a mani della quale è stata eseguita.

Ne consegue che, anche nel processo tributario, qualora tale mezzo sia stato adottato per la notifica del ricorso, la mancata produzione dell'avviso di ricevimento comporta, non la mera nullità, ma la insussistenza della conoscibilità legale dell'atto cui tende la notificazione (della quale, pertanto, non può essere disposta la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ.), nonché l'inammissibilità del ricorso medesimo, non potendosi accertare l'effettiva e valida costituzione del contraddittorio, in caso di mancata costituzione in giudizio della controparte, anche se risulti provata la tempestività della proposizione dell'impugnazione (Sez. 5, n. 8717, Rv. 626427, est. Perrino).

Quanto alle modalità della notificazione, l'art. 16, comma quarto, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel concedere all'ufficio o all'ente locale la facoltà di provvedere «alle notificazioni anche a mezzo del messo comunale o di messo autorizzato dall'amministrazione finanziaria», equiparata la figura del messo notificatore autorizzato a quella del messo comunale, il quale, nello svolgimento dell'incarico di notificazione svolge una funzione indipendente rispetto a quella dell'amministrazione di appartenenza, restando pertanto ad esso applicabili i principî generali con riferimento al momento di perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario (nella specie, si è ritenuto che non può ricadere sull'Amministrazione finanziaria l'errore di indirizzo compiuto dal messo notificatore autorizzato) (Sez. 5, n. 4517, Rv. 626388, est. Sambito).

L'ordinanza n. 2262 del 31/01/2013 (Rv. 625082), est. Manna, ha, infine, ribadito il principio per cui in tema di notifiche a mezzo posta, il d.lgs. 22 luglio 1999, n. 261, pur liberalizzando i servizi postali in attuazione della direttiva 97/67/CE, all'art. 4, comma quinto, ha continuato a riservare in via esclusiva, per esigenze di ordine pubblico, al fornitore del servizio universale (l'Ente Poste), gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie. Ne consegue che, in tali procedure, la consegna e la spedizione mediante raccomandata, affidata ad un servizio di posta privata, non sono assistite dalla funzione probatoria che l'art. 1 del citato d.lgs. n. 261 del 1999 ricollega alla nozione di "invii raccomandati" e devono, pertanto, considerarsi inesistenti.

5.3. La nullità dell'atto introduttivo.

Di particolare interesse è l'ordinanza n. 384 (Rv. 624698), est. Virgilio, per cui, in difetto di una specifica regolamentazione, anche nel processo tributario trova applicazione l'art. 164, primo e secondo comma, cod. proc. civ. (nel testo, applicabile ratione temporis, sostituito dalla legge n. 353 del 1990), che prevede, in caso di mancata costituzione del convenuto, l'obbligo del giudice di ordinare di ufficio la rinnovazione dell'atto introduttivo nullo, con efficacia ex tunc, come nel caso esaminato, nel quale, a fronte di un appello proposto nei confronti di una società dichiarata fallita nel corso del termine di impugnazione, mediante atto notificato presso il procuratore domiciliatario della medesima società in bonis anziché nei confronti del curatore fallimentare, la Corte ha ritenuto che si configurasse non già una nullità della notificazione bensì la nullità dell'atto introduttivo per errata identificazione del soggetto destinatario della vocatio in ius.

6. La legittimazione passiva.

Il Centro di servizio delle imposte dirette e indirette di Pescara, il quale procede alla revoca totale o parziale dei crediti d'imposta, dopo aver comunicato al contribuente l'avvio del relativo procedimento, ai sensi dell'art. 7 del d.m. n. 311 del 1998, resta privo di legittimazione nel processo in relazione ad atti ad esso ascrivibili, spettando essa all'ufficio delle entrate: infatti, l'art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992 prevede che, in ipotesi di ricorso avverso il diniego di rimborso di somme erroneamente versate dal contribuente, ovvero il diniego di agevolazioni, è parte del processo, se l'ufficio è un Centro di servizio, l'Ufficio delle entrate del Ministero al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso (Sez. 5, n. 3342, Rv. 625262, est. Chindemi).

7. Il litisconsorzio necessario.

La Corte ha escluso, con la sentenza Sez. 5, n. 426 (Rv. 625086), est. Cigna, che nel giudizio di impugnazione dell'avviso di accertamento emesso nei confronti di una società di capitali, avente ad oggetto il recupero delle somme da questa riscosse a titolo di ritenuta d'acconto, ma non versate all'erario, i soci siano litisconsorti necessari.

8. L'intervento del terzo e la domanda riconvenzionale.

La sentenza n. 20803 del 11/09/2013 (Rv. 628190), est. Iofrida, ha ritenuto che nel processo tributario, ai sensi dell'art. 14, comma terzo, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, possono intervenire volontariamente o essere chiamati in giudizio solo i soggetti che, insieme al ricorrente, siano destinatari dell'atto impugnato o siano parti nel rapporto controverso.(Nell'enunciare il principio, la S.C. ha ritenuto ammissibile l'intervento volontario adesivo dipendente della Regione Lazio nel giudizio di secondo grado, in quanto interessata perché destinataria dell'intero gettito dell'IRAP). La possibilità di proporre l'intervento adesivo dipendente nel processo tributario è stata riconosciuta, con la sentenza Sez. 5, n. 9567 (Rv. 626736), est. Perrino, in favore del soggetto potenzialmente inciso dal tributo, perché possibile destinatario di rivalsa per traslazione a suo carico dell'imposta cui altri sia tenuto e che trovi la propria determinazione nel corso del giudizio, limitandosi a chiedere l'accoglimento della domanda già proposta dal contribuente, senza ampliare in alcun modo il thema decidendum con autonomi motivi di ricorso.

L'inammissibilità della domanda riconvenzionale è stata, invece, affermata da Sez. 5, n. 4145 (Rv. 625103), est. Botta, per la quale il giudizio davanti alle commissioni tributarie riguarda esclusivamente il controllo della legittimità, formale e sostanziale, di uno degli specifici atti impositivi elencati nell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (e, prima, nell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636), con indagine sul rapporto tributario limitata al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere con gli atti medesimi, con la conseguenza che è incompatibile con la struttura del processo - atteso il suo carattere impugnatorio - della domanda riconvenzionale da chiunque proposta. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato l'impugnata sentenza che, nell'ambito di un giudizio promosso dal contribuente per impugnare un accertamento in rettifica per maggiori imposte IRPEG ed IRAP, aveva negato ingresso alla domanda riconvenzionale di rimborso di maggiori crediti IRAP).

9. Le prove utilizzabili.

La Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 6918 (Rv. 625847), est. Valitutti, già richiamata al § 5 del capitolo sulle prove in generale, ha osservato che, nel processo tributario, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell'obbligazione tributaria le prove assunte in un diverso processo e anche in sede penale, pure se questo è destinato a concludersi con una pronuncia non opponibile alle parti del giudizio civile, purché tali prove vengano dal giudice tributario sottoposte ad una propria ed autonoma valutazione.

In particolare, un atto legittimamente assunto in sede penale - nella specie, sommarie informazioni testimoniali della Guardia di Finanza ed intercettazioni telefoniche - e trasmesso all'amministrazione tributaria entra a far parte, a pieno titolo, del materiale probatorio che il giudice tributario di merito deve valutare, così come previsto dall'art. 63 del d.P.R. n. 633 del 1972; tale norma, infatti, non contrasta né con il principio di segretezza delle comunicazioni di cui all'art. 15 Cost., perché le intercettazioni che hanno permesso il reperimento dell'atto sono autorizzate da un giudice, né con il diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., perché, se è vero che il difensore non partecipa alla formazione della prova, è anche vero che nel processo tributario l'atto acquisito ha un minor valore probatorio rispetto a quello riconosciutogli nel processo penale (Sez. 5, n. 2916, Rv. 625254, est. Perrino).

La Corte ha, poi, ritenuto, che il divieto di prova testimoniale posto dall'art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 si riferisce alla prova testimoniale quale prova da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l'impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell'amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (Sez. 5, n. 8369, Rv. 626308, est. Crucitti).

Anche la presunzione può essere utilizzata dal giudice tributario, sia pur con i relativi limiti. La sentenza Sez. 5, n. 2895 (Rv. 625439), est. Terrusi, ha ritenuto, infatti, che lo schema logico della presunzione semplice offre all'interprete uno strumento di accertamento dei fatti che può anche presentare qualche margine di opinabilità, stante che, quando anche quest'ultimo margine è escluso per la rigidità della previsione deduttiva, si ha il diverso fenomeno della presunzione legale (fattispecie relativa alla presunzione di cessione delle rimanenze non inventariate).

In caso di querela di falso, il giudice tributario è tenuto, ai sensi dell'art. 39 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, a sospendere il giudizio fino al passaggio in giudicato della decisione in ordine alla querela stessa (o fino a quando non si sia altrimenti definito il relativo giudizio), trattandosi di accertamento pregiudiziale riservato ad altra giurisdizione, e di cui egli non può conoscere neppure incidenter tantum; tuttavia, in caso di presentazione di detta querela, anche nel processo tributario il relativo giudice non deve semplicemente prenderne atto e sospendere il giudizio, ma è tenuto a verificare la pertinenza di tale iniziativa processuale in relazione al documento impugnato e la sua rilevanza ai fini della decisione (Sez. 5, n. 8046 Rv. 626256, est. Conti).

10. I poteri del giudice.

La decadenza, essendo prevista in favore dell'amministrazione finanziaria ed attenendo a situazione non disponibile, può essere rilevata d'ufficio, purché emerga dagli elementi comunque acquisiti agli atti del giudizio, ed è, quindi, sottratta al regime delle eccezioni nuove (fattispecie relativa ad istanza di rimborso Irpef, ai sensi dell'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, presentata oltre il termine di diciotto mesi) (Sez. 5, n. 5862, Rv. 626413, est. Terrusi).

11. La sospensione del processo.

Con la sentenza n. 4924 (Rv. 625233), est. Chindemi, la Corte ha ritenuto che, nel contenzioso tributario - in cui non opera automaticamente l'efficacia vincolante del giudicato penale ai sensi dell'art. 654 cod. proc. pen., vigendo invece le limitazioni probatorie sancite dall'art. 7, quarto comma, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e potendo ivi valere anche le presunzioni, inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna - la sentenza penale costituisce semplice indizio od elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati sulla base delle prove raccolte nel relativo giudizio e non rappresenta un accertamento preliminare necessario. Pertanto, non può disporsi, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ. ed ancorché coincidano i fatti esaminati in sede penale e quelli che fondano l'accertamento, la sospensione del processo tributario in attesa della definitività della predetta sentenza, come peraltro sancito dall'art. 20 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

12. La decisione.

12.1. L'annullamento dell'atto impugnato.

Di notevole interesse è la sentenza n. 6918 (Rv. 625849), est. Valitutti, per la quale, nel processo tributario - che non è annoverabile tra quelli di "impugnazione-annullamento", ma tra quelli di "impugnazione-merito", in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell'atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell'accertamento dell'ufficio - ove il giudice tributario ritenga invalido l'avviso di accertamento non per motivi formali (ossia per vizi di forma talmente gravi da impedire l'identificazione dei presupposti impositivi e precludere l'esame del merito del rapporto tributario), ma di carattere sostanziale, lo stesso giudice non può limitarsi ad annullare l'atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte.

12.2. La cessazione della materia del contendere.

La Corte ha ribadito la possibilità che il processo tributario sia definito con la declaratoria della cessazione della materia del contendere, come nel caso, esaminato dalla sentenza Sez. 5, n. 8989 (Rv. 626428), est. Chindemi, in cui, in tema di imposta di registro, sia emesso un nuovo avviso di liquidazione con il quale il competente Ufficio del registro modifichi in aumento il precedente avviso, integrando una pretesa tributaria nuova rispetto a quella originaria, in sostituzione di quello precedente, con caducazione d'ufficio di quest'ultimo, con conseguente cessazione della materia del contendere nel giudizio avente ad oggetto il relativo rapporto sostanziale, venendo meno l'interesse ad una decisione relativa ad un atto, il primo avviso, sulla cui base non possono più essere avanzate pretese tributarie di alcun genere, dovendosi avere riguardo unicamente al nuovo avviso che lo ha sostituito.

12.3. La motivazione della sentenza.

La Corte ha avuto modo di occuparsi della motivazione per relationem di una sentenza, evidenziando che la stessa è, in linea di principio, ammissibile ma deve permettere un agevole reperimento della sentenza citata mediante riproduzione dei suoi contenuti, oggetto di autonoma valutazione critica, così da consentire la verifica di compatibilità logico-giuridica del richiamo operato. Pertanto, quando il rinvio ad una sentenza di merito di commissione tributaria, relativa ad un altro processo, avvenga con la sola indicazione del numero della sentenza e dell'anno, ma senza indicazione della sezione, tale rinvio deve considerarsi illegittimo, perché le sentenze di merito non sempre sono facilmente reperibili ed, inoltre, la relativa numerazione viene effettuata per ciascuna sezione e non per commissione, né la parte può essere obbligata a ricerche di documenti extraprocessuali (sentenza n. 3340, Rv. 625260, est. Chindemi).

12.4. Effetti sul coobbligato solidale.

La sentenza n. 9577 (Rv. 626369), est. Chindemi, ha ritenuto che la facoltà per il coobbligato destinatario di un atto impositivo di avvalersi della sentenza favorevole emessa in un giudizio promosso da altro coobligato, secondo la regola generale stabilità dall'art. 1306 cod. civ., presuppone che detta decisione sia divenuta definitiva. Nel caso in cui, pertanto, l'obbligato solidale non abbia a propria volta promosso un giudizio già conclusosi (in modo a lui sfavorevole) con una decisione avente autonoma efficacia nei suoi confronti, ma si sia limitato ad invocare una pronuncia favorevole a favore del coobligato solidale, non ancora passata in giudicato, il processo va sospeso o riunito, ove pendente nella stessa fase, grado e davanti al medesimo giudice, in forza del principio dell'unitarietà dell'accertamento, dovendosi consentire al condebitore solidale di opporre al creditore la eventuale sentenza definitiva favorevole, non fondata su ragioni personali, intervenuta tra questi ed altro condebitore.

13. L'impugnazione.

13.1. Il termine.

La sentenza n. 17236 (Rv. 627273), est. Terrusi, ha affermato che il contumace decade dal diritto di impugnazione per l'inutile decorso del termine annuale di cui al primo comma dell'art. 327 cod. proc. civ. quando si accerti, anche d'ufficio, in ragione della natura pubblicistica della decadenza, che, nonostante la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, egli abbia avuto comunque conoscenza del processo, ed il termine sia decorso non già dalla data di pubblicazione della sentenza, bensì dal giorno della detta presa di conoscenza, se successiva alla sentenza medesima (nella specie, la notifica dell'avviso di liquidazione con ingiunzione di pagamento di somma dovuta in base alla sentenza).

La sentenza n. 6269 (Rv. 625458), est. Botta, ha ritenuto che, quando il termine per proporre appello avverso sentenza della Commissione tributaria provinciale venga a scadere durante un periodo di irregolare funzionamento degli uffici finanziari, ai sensi dell'art. 1 della legge 25 ottobre 1985, n. 592, lo stesso è da intendersi prorogato fino al decimo giorno successivo alla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto di accertamento della durata complessiva di detto periodo, di cui all'art. 3 della medesima legge n. 592 del 1985.

13.2. L'oggetto.

La Corte ha ritenuto che l'ordinanza - resa nell'ambito dell'incidente cautelare disciplinato dall'art. 47 del d.lgs. n. 546 del 1992 - che dichiara ammissibile il condono, con conseguente estinzione parziale della controversia, ha contenuto sostanziale di sentenza (pur se la legge prevede che la pronuncia sia adottata con ordinanza revocabile), comportando la definizione del giudizio, ed è soggetta ai mezzi di impugnazione propri delle sentenze; pertanto, nel caso in cui il giudice tributario di primo grado dichiari l'estinzione con ordinanza, avendo tale provvedimento contenuto decisorio, lo stesso deve essere autonomamente impugnato nei termini di legge (sentenza n. 2913, Rv. 625259, est. Crucitti).

13.3. L'art. 161 cod. proc. civ.

Anche nel contenzioso tributario trova applicazione, ma solo nell'ambito del medesimo processo (e delle diverse fasi di impugnazione), l'art. 161 cod. proc. civ., per cui è consentito dedurre errori, nullità, illegittimità o irregolarità in esso verificatesi, per cui, ove tali deduzioni intervengano in un diverso processo, il giudice adìto non ha il potere, neanche in via incindentale, di rilevare, dichiarare e/o correggere gli eventuali errori o le nullità ed illegittimità dell'altro processo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse della parte alla relativa proposizione.

Ne consegue che il giudice tributario non può estendere il suo potere di cognizione incidentale fino ad involgere anche la giuridica esistenza e la sorte processuale del titolo giudiziale posto a fondamento della pretesa tributaria e divenuto inoppugnabile, non potendosi rimuovere provvedimenti processuali divenuti definitivi, perchè ritenuti errati o abnormi, in quanto trattasi di situazioni deducibili o nel giudizio preordinato alla formazione del titolo stesso, o con i mezzi di impugnazione straordinaria o, in casi eccezionali, mediante autonoma azione di accertamento negativo (actio nullitatis) (Sez. 5, n. 1083, Rv. 625303, est.Virgilio).

13.4. L'impugnazione incidentale.

Nel processo tributario l'impugnazione incidentale, purché tempestivamente proposta, non è legata alle sorti di quella principale, di cui non costituisce il necessario contrapposto, ma ha una propria autonomia che la rende indipendente dalle sorti della prima; pertanto, anche se l'impugnazione proposta dal contribuente viene dichiarata inammissibile, l'impugnazione incidentale dell'ufficio, che sia stata tempestivamente proposta, non è travolta e deve essere esaminata nel merito dalla commissione tributaria regionale investita dal gravame (sentenza n. 465, Rv. 625001, est. Cirillo).

14. Il giudizio di appello.

14.1. L'oggetto.

La Corte è intervenuta più volte a precisare l'oggetto del giudizio di appello.

Con la sentenza n. 8398 (Rv. 625934), est. Olivieri, ha ritenuto che la proposizione della mera "eccezione di inesistenza" della notifica (nella specie, dell'avviso di accertamento costituente il presupposto della cartella impugnata) non può far ritenere acquisito al thema decidendum l'esame di qualsiasi vizio di invalidità del procedimento notificatorio, non ravvisandosi una relazione di continenza tra l'inesistenza ed i vizi di nullità di tale procedimento, altrimenti derivandone un'inammissibile scissione tra il tipo di invalidità denunciato con la formulata eccezione di merito e la specifica deduzione dei fatti sui quali essa si fonda, il cui onere di allegazione ricade esclusivamente sulla parte qualora si facciano valere eccezioni in senso stretto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato l'inammissibilità della deduzione, per la prima volta in appello, di asseriti vizi di nullità della notifica del suddetto atto presupposto, benché quest'ultimo fosse stato in primo grado prodotto, unitamente al suo avviso di ricevimento pervenuto alla destinataria, dall'Agenzia fiscale a fronte dell'originaria eccezione di sua omessa notifica sollevata dalla ricorrente).

La sentenza Sez. 5, n. 7702 (Rv. 626218), est. Meloni, ha ritenuto che l'art. 56 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 cod. proc. civ., all'appellato e non all'appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l'onere dell'espressa riproposizione riguarda, nonostante l'impiego della generica espressione "non accolte", non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato (ad esempio, perché ritenute assorbite), non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, la terza via - riproposizione/rinuncia - rappresentata dagli artt. 56 del citato d.lgs. e 346 del codice di rito, rispetto all'unica alternativa possibile dell'impugnazione - principale o incidentale - o dell'acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno.

14.2. Le sentenze impugnate.

Con la sentenza n. 8075 (Rv. 626125), est. Sambito, la Corte ha affermato che il ricorso cumulativo contro una pluralità di sentenze emesse in materia tributaria, anche se formalmente distinte perché relative a differenti annualità, è ammissibile quando la soluzione, per tutte, dipenda da identiche questioni di diritto comuni a varie cause, in modo da dare vita ad un giudicato rilevante per tutte le controversie oggetto del ricorso. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile l'unico appello avverso più sentenze emesse dalla commissione tributaria provinciale, tenuto conto della sovrapponibilità delle questioni dedotte per le diverse annualità d'imposta e dell'affermata illegittimità del ricorso all'accertamento induttivo per l'assenza del relativo identico presupposto).

14.3. La notificazione dell'atto introduttivo.

La notificazione dell'atto di appello avverso la decisione della commissione tributaria provinciale può essere effettuata al difensore al domicilio inizialmente indicato per il giudizio, mediante consegna a persona dichiaratasi abilitata a riceverlo quale collaboratore, a nulla rilevando che il difensore destinatario abbia nel frattempo comunicato la variazione dello studio, attestando la relata di notifica la conservazione di una relazione, tale da autorizzare la presunzione che il difensore medesimo sia stato informato del contenuto dell'atto notificato: il rilevato vizio non attiene, invero, ad un profilo di insussistenza, bensì solo di nullità della notificazione che, ai sensi dell'art. 38 del d.lgs. n. 546 del 1992, permette di stabilire l'inammissibilità dell'impugnazione tardivamente proposta solo se l'impugnante prova che detta nullità gli ha impedito la materiale conoscenza dell'atto (Sez. 5, n. 2907, Rv. 625747, est. Cirillo).

14.4. Le prove.

La sentenza n. 7714 (Rv. 626219), est. Valitutti, ha ritenuto che, alla luce del principio di specialità espresso dall'art. 1, comma secondo, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 - in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest'ultima - non trova applicazione la preclusione alla produzione documentale di cui all'art. 345, comma terzo, cod. proc. civ., potendo le parti provvedervi anche per documenti preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado; né il documento contenente la dichiarazione di un terzo (nella specie, del portalettere che attesta di aver notificato gli avvisi di accertamento) è escluso come fonte di prova, non ostandovi il divieto di prova testimoniale di cui all'art. 7, comma quarto, del d.lgs. n. 546 cit., trattandosi di fonte di prova documentale, diversa da quella testimoniale sia in sé (in quanto res cartacea), sia per il diverso regime processuale (circoscritto al rispetto del principio del contraddittorio per la sua produzione).

15. Il ricorso per cassazione.

15.1. L'eccezione di giurisdizione.

Sez. 5, n. 17056 (Rv. 627042), est. Chindemi, ha ritenuto che, in sede di legittimità, non è ammissibile l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta dalla Agenzia delle Entrate che, soccombente nel merito in primo grado, abbia appellato la sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 329, secondo comma, cod. proc. civ. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile l'eccezione, sollevata sul presupposto della declaratoria di illegittimità costituzionale, disposta con sentenza della Corte cost. n. 130 del 2008, dell'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come sostituito dall'art. 12, comma secondo, della legge 23 dicembre 2001, n. 448, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria tutte le controversie relative alle sanzioni irrogate dagli uffici finanziari, anche quando conseguano a violazione di disposizioni non aventi natura fiscale).

15.2. I motivi.

La sentenza Sez. 5, n. 9536 (Rv. 626383), est. Caracciolo, ha ribadito la vigenza, anche nel giudizio tributario, del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall'art. 366 cod. proc. civ., per cui, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento (nella specie, risultante per relationem ad un processo verbale di constatazione), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti testualmente i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento.

La deduzione, in sede di legittimità, con la quale il ricorrente indichi quali siano le norme da applicare, ratione temporis alla fattispecie, non implicando la stessa nuovi accertamenti in fatto non compiuti dal giudice di merito, non integra prospettazione di una nuova questione, come tale inammissibile anche ai sensi dell'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Sez. 5, n. 17957, Rv. 627577, est. Iofrida).

Quanto al contenuto, la sentenza n. 5884 (Rv. 625550), est. Chindemi, ha ritenuto che, in tema di ricorso per cassazione (nella specie, avverso sentenza resa dalla Commissione tributaria regionale in grado di appello), è inammissibile il motivo con cui si denunci sotto il profilo dell' "error in procedendo" (art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.) e della violazione di legge (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), e non sotto quello del difetto di motivazione (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), la declaratoria di illegittimità di un avviso di accertamento per la rettifica del valore di avviamento di un'azienda ceduta, in rapporto ad un successivo avviso di accertamento sintetico emesso nei confronti del medesimo contribuente, trattandosi di censura che si risolve non nella mancata applicazione della normativa di riferimento o nella omessa applicazione di una norma processuale o nell'omesso esame di una domanda, quanto unicamente nell'asserita illogicità e contraddittorietà della motivazione.

16. Il giudizio di rinvio.

16.1. La riassunzione.

Con la sentenza Sez. 5, n. 16689 (Rv. 627058), est. Cigna, la Corte ha affermato che, a norma dell'art. 392 cod. proc. civ., alla riassunzione della causa avanti al giudice di rinvio può provvedere disgiuntamente ciascuna delle parti, configurandosi essa non come atto di impugnazione, ma come attività di impulso processuale, che coinvolge gli stessi soggetti che sono stati parte nel giudizio di legittimità; ne consegue che, ove nessuna delle parti si sia attivata per la riassunzione, il processo si estingue, determinando, con riguardo al giudizio tributario, la definitività dell'avviso di accertamento, che ne costituiva l'oggetto.

16.2. I poteri del giudice.

Nel giudizio di rinvio, i limiti dei poteri attribuiti al giudice sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l'una e per l'altra ragione: nella prima ipotesi, infatti, il giudice di rinvio è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell'art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l'accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, trattandosi di preclusione processuale che opera su tutte le questioni costituenti il presupposto logico ed inderogabile della pronuncia di cassazione, prospettate dalle parti o rilevate d'ufficio (Sez. 5, n. 8381, Rv. 626569, est. Terrusi).

16.3. La definizione della lite.

Nelle liti fiscali a seguito di rinvio, la individuazione della parte soccombente agli effetti della determinazione dell'aliquota del valore della lite da pagare per la definizione della stessa ai sensi dell'art. 16, comma primo, lett. b), nn. 1) e 2) della legge 27 dicembre 2002, n. 289, deve essere fatta sulla base dell'ultima sentenza resa sul merito, pur se la stessa sia stata annullata dalla Corte di cassazione per vizi determinanti la nullità della sentenza o del procedimento, atteso che, ai sensi dell'art. 393 cod. proc. civ., al quale si conforma l'art. 63 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, deve ritenersi che la sentenza di appello sostituisca sempre ed irreversibilmente la sentenza di primo grado, la quale non è mai soggetta a riviviscenza, senza possibilità di distinguere tra sentenza di appello cassata per vizi di cui ai nn. 3 e 5 dell'art. 360 cod. proc. civ. e sentenza di appello cassata per vizio di cui al n. 4 della medesima norma del codice di rito (Sez. 5, n. 17677, Rv. 627276, est. Crucitti).

17. La revocazione.

La sentenza n. 11613 (Rv. 627184), est. Greco, ha ritenuto che, a norma dell'art. 64 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la revocazione ai sensi dell'art. 395, n. 4, cod. proc. civ. è ammessa solo nei confronti delle sentenze che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili e non sono state impugnate, con la conseguenza che non è ammissibile l'istanza di revocazione avente ad oggetto il decreto con cui il presidente della commissione tributaria dichiara l'estinzione del giudizio, sulla base dell'attestazione della regolarità della dichiarazione di definizione, prevista dall'art. 16, ottavo comma, legge 27 dicembre 2002, n. 289 e non reclamata ai sensi dell'art. 28 del d.lgs. n. 546 del 1992, così determinandosi una situazione di incontrovertibilià assimilabile al giudicato.

  • giurisdizione civile
  • procedura disciplinare

CAPITOLO XXXV

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Stefano Giaime Guizzi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Magistrati. - 2.1 Questioni di legittimità costituzionale. - 2.2 Le singole fattispecie di illecito disciplinare: a) il ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. - 2.3 (Segue) b) le fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006 (ed i loro rapporti). - 2.4 (Segue) c) le altre fattispecie di illecito disciplinare. - 2.5 L'esimente di cui all'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006. - 2.6 Questioni processuali. In particolare, l'applicazione della misura cautelare del trasferimento d'ufficio. - 2.7 (Segue) altre questioni processuali. - 3 Avvocati: questioni di legittimità costituzionale. - 3.1 Profili di diritto sostanziale. - 3.2 Questioni processuali. - 4 Notai.

1. Premessa.

Come già in occasione della rassegna redatta nell'anno 2012, si procederà - per ognuna delle tipologie di soggetti sopra indicati - dapprima all'esame delle questioni di diritto sostanziale, concernenti i rispettivi regimi di responsabilità disciplinare, per poi illustrare le questioni di natura processuale che hanno riguardato i procedimenti relativi a ciascuna categoria.

2. Magistrati.

Numerose sono state, anche nell'anno 2013, le decisioni concernenti i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati ordinari, pronunce alle quali deve, tuttavia, aggiungersi anche l'importante arresto - adottato nel mese di novembre dalle Sezioni unite della Suprema Corte - relativo il sistema della responsabilità disciplinare delineato, per la magistratura militare, dal decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66. Poiché, come si dirà, tale decisione ha fugato un duplice dubbio che era stato avanzato in ordine alla costituzionalità di un aspetto di tale normativa, appare opportuno prendere le mosse - nella presente disamina - proprio da quelle sentenze con cui il Giudice di legittimità è stato chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità, sotto vari profili, del sistema della responsabilità disciplinare dei magistrati (ordinari, come speciali) rispetto al dettato della Costituzione.

2.1. Questioni di legittimità costituzionale.

In relazione alla disciplina prevista per la responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, la Suprema Corte - Sez. Un., n. 1768 (Rv. 624839), est. Petitti - ha, innanzitutto, dichiarato manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'art. 2, comma 1, lett. q), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 (che, come noto, configura quale fattispecie di illecito disciplinare «il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni»), norma della cui conformità alla Costituzione si dubitava nell'interpretazione, datane dalle Sezioni unite della Corte di cassazione e dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, secondo cui il ritardo nel deposito di un provvedimento deve presumersi ingiustificato - salvo prova contraria dell'incolpato - in caso di superamento della soglia di un anno, come desunta sulla scorta della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo relativa al principio - art. 6, paragrafo 1, della Convenzione - della durata ragionevole del processo. In particolare, la citata sentenza ha escluso che ricorra la violazione del principio di colpevolezza, evidenziando come la lesione del diritto delle parti alla ragionevole durata del processo renda ingiustificabile il ritardo superiore ad un anno nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali e manifesti, di per sé, una colpa del magistrato, «quantomeno in relazione all'incapacità di organizzare in modo idoneo il proprio lavoro».

Altra declaratoria di manifesta infondatezza ha riguardato la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., della normativa di cui al citato d.lgs. n. 109 del 2006 in combinato disposto con l'art. 379 cod. proc. civ., nella parte in cui - prevedendo per la fase di impugnazione del giudizio disciplinare l'applicazione delle norme del codice di procedura civile e, tra esse, quella secondo cui il P.G. presso la Corte di Cassazione prende la parola per ultimo nell'udienza pubblica di discussione - non assicurerebbe parità di trattamento tra l'incolpato ed il P.G., non consentendo al primo ed al suo difensore di conoscere le posizioni assunte dal titolare dell'azione disciplinare. La Suprema Corte ha, per contro, affermato - Sez. Un., n. 5942 (Rv. 625533), est. Piccialli - che il potere del P.G. di esporre oralmente le sue conclusioni motivate, dopo che l'avvocato dell'incolpato ha svolto le proprie difese, non preclude, nel quadro della generale disciplina del ricorso per cassazione, il pieno dispiegarsi del diritto di difesa nel contraddittorio di tutte le parti, tenuto conto, per un verso, che in quella sede le funzioni di imparziale tutore della legge esplicate dal P.G. risultano preminenti rispetto a quelle, già svolte in sede di merito, di promotore del procedimento disciplinare, nonché, per altro verso, del fatto che la scelta in favore del modulo procedimentale penale, in quanto più adeguato allo svolgimento del giudizio disciplinare, si giustifica in relazione alla sola fase di merito e non di legittimità, nella quale il giudizio si svolge essenzialmente sugli atti già acquisiti e le posizioni delle parti - l'incolpato ed il Ministero della giustizia - sono affidate ai rispettivi difensori, spettando, oltretutto, a quello dell'incolpato di interloquire comunque per ultimo, in virtù della facoltà, spettantegli ai sensi del quarto comma dell'art. 379 cod. proc. civ., di replicare «con brevi osservazioni scritte».

Con altra decisione, invece, il giudice di legittimità - Sez. Un., n. 5941 (Rv. 625523), est. Piccialli - ha ritenuto inammisibile analoga questione di costituzionalità (questa volta sollevata con riferimento al solo art. 24 Cost.), motivando tale esito in ragione del ritenuto difetto di rilevanza della stessa nel giudizio a quo. E ciò, proprio sul presupposto che la difesa dell'incolpato fosse stata, nel presente caso, dispensata dall'esercizio della facoltà di cui all'art. 379, quarto comma, cod. proc. civ., avendo il P.G. concluso per l'accoglimento del ricorso proposto dal medesimo incolpato.

Infine, come sopra si notava, altra questione di legittimità costituzionale è quella che ha interessato il procedimento disciplinare a carico dei magistrati militari, essendosi dubitato della conformità a Costituzione dell'art. 60 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui non prevede che i componenti elettivi del Consiglio della Magistratura Militare - competente per lo svolgimento di detto procedimento - siano in numero tale da costituire la maggioranza di tale organo.

Il dubbio di costituzionalità, avanzato in primo luogo in relazione agli artt. 3, 104 e 108 Cost., è stato fugato dalla Corte di Cassazione - Sez. Un., n. 26033 (Rv. 628167), est. Bucciante - in base al rilievo che la Costituzione non impone che le garanzie di indipendenza da assicurare al giudici delle giurisdizioni speciali «siano identiche o corrispondenti a quelle stabilite per i magistrati ordinari, quanto alla composizione dei relativi organi di garanzia e in particolare relativamente al rapporto tra il numero dei membri togati elettivi e quello degli altri componenti». Sul punto, peraltro, sono state espressamente richiamate le affermazioni compiute dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 16 del 2011, pronuncia che - nel dichiarare inammissibile, per indeterminatezza del petitum, una questione di legittimità costituzionale sollevata in ordine alla disciplina relativa alla composizione dell'organo di governo autonomo della magistratura contabile - aveva comunque affermato che, se degli organi di garanzia di ogni magistratura «debbono necessariamente far parte sia componenti eletti dai giudici delle singole magistrature, sia componenti esterni di nomina parlamentare» (e ciò al fine di assicurare l'osservanza del principio dell'indipendenza sancito, per le magistrature speciali, dall'art. 108 Cost.), nondimeno «nel rispetto del principio costituzionale di cui sopra, il rapporto numerico tra membri togati e membri laici, di nomina parlamentare, può essere variamente fissato dal legislatore». Su tali basi, pertanto, la Corte di Cassazione ha concluso che «la composizione del Consiglio della magistratura militare, stabilita in cinque membri, dei quali due togati elettivi, non comporta lesioni dell'indipendenza dei giudici militari, poiché degli altri componenti uno soltanto è di provenienza politica e due sono magistrati, anche se chiamati a far parte di diritto dell'organo».

In secondo luogo, la pronuncia delle Sezioni unite qui in esame - (Rv. 628168) - ha dichiarato la manifesta infondatezza della stessa questione, sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in ragione della asserita violazione della raccomandazione emessa il 17 novembre 2010 dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con cui si è prescritto che negli organi di autogoverno delle magistrature «almeno la metà dei membri» siano «giudici scelti da parte dei loro colleghi di tutti i livelli del sistema giudiziario e nel rispetto del pluralismo all'interno del sistema giudiziario». Sul punto, la Suprema Corte ha ritenuto «sufficiente rilevare che la tipologia dell'atto esclude che abbia carattere normativo vincolante e che quindi la sua inosservanza - secondo i principî enunciati dalla giurisprudenza inaugurata dalla Corte costituzionale con le sentenze 24 ottobre 2010 [recte: 2007] n. 348 e 349 - possa costituire ragione di illegittimità derivata, per il mancato rispetto del principio di adeguamento dell'ordinamento interno agli obblighi internazionali, sancito dall'art. 117 Cost.».

2.2. Le singole fattispecie di illecito disciplinare: a) il ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni.

Le pronunce della Corte che hanno interessato la presente fattispecie, in relazione all'ipotesi specifica di ritardo nel deposito di provvedimenti giurisdizionali, si collocano per lo più nel solco di un indirizzo ermeneutico consolidato.

Esse, difatti, ora hanno ribadito - Sez. Un., n. 8360 (Rv. 625777), est. Forte - il principio già enunciato da Sez. Un., n. 18697 del 2011 (Rv. 618628), e da Sez. Un., n. 6490 del 2012 (Rv. 622238), secondo cui il superamento del termine annuale (desunto dalle indicazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di durata del giudizio di legittimità) fa presumere - salvo la prova, da parte dell'incolpato, di circostanze assolutamente eccezionali che giustifichino l'inottemperanza del precetto sui termini di deposito - il carattere ingiustificato del ritardo, non potendo ritenersi necessario per la stesura ed il connesso deposito di qualunque provvedimento un tempo superiore a quello occorrente per la celebrazione del processo di cassazione che comprende, con gli adempimenti procedurali e lo studio del caso, anche l'ascolto della difesa; ora hanno, invece, confermato - Sez. Un., n. 1768 (Rv. 624838), est. Petitti - che ai fini dell'integrazione dell'illecito de quo, non rileva più, come in passato, la scarsa laboriosità o la negligenza del magistrato, bensì il dato obiettivo della lesione del diritto delle parti alla durata ragionevole del processo, di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. e all'art. 6, par. 1, CEDU, non potendo l'accertata laboriosità del magistrato risolversi in un ostacolo al buon funzionamento del servizio giustizia. Una conclusione, questa, ribadita - Sez. Un., n. 12108 (Rv. 626496), est. Piccialli - anche con riferimento alla eventuale sussistenza di ragioni personali estranee all'ambiente di lavoro, le quali al più lasciano aperte, ove il magistrato non sia in grado di svolgere il proprio lavoro in condizioni di apprezzabile serenità ed efficienza, le vie consentite dall'ordinamento giudiziario per potersi assentare temporaneamente dal servizio, quali congedi straordinari e aspettative per motivi familiari, non giustificando, invece, di per sé il ritardo nel deposito dei provvedimenti.

Enuncia, invece, un principio nuovo - correlato, peraltro, alla specificità del caso deciso - Sez. Un., n. 20814 (Rv. 627333), est. D'Ascola, che, nell'annullare con rinvio una sentenza di condanna pronunciata dalla Sezione Disciplinare del C.S.M. a carico di un magistrato che aveva invocato, a giustificazione del ritardo nel deposito di provvedimenti giurisdizionali, la circostanza che lo stesso sarebbe dipeso dall'astensione obbligatoria e facoltativa per maternità, ha rilevato come la sentenza impugnata avesse omesso di dare adeguato rilievo alla normativa primaria e secondaria posta a tutela della lavoratrice madre (legge 10 aprile 1991, n. 195, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, e circolari consiliari del 10 aprile 1996, 6 marzo 1998 e del 4 dicembre 2000), e, dunque, di verificare se l'organizzazione del lavoro giudiziario, attuata presso l'ufficio di appartenenza del magistrato, fosse stata rispettosa di tale apparato normativo e se i ritardi non fossero stati, invece, correlati ad essa.

Completa, infine, il quadro della giurisprudenza relativa alla sempre alla fattispecie qui in esame, quella decisione - Sez. Un., n. 1769 (Rv. 624837), est. Petitti - che ha affermato come la cosiddetta archiviazione predisciplinare, adottata dal P.G. della Cassazione per un segmento di ritardo nel deposito di provvedimenti, non impedisca che del medesimo segmento possa tenersi conto ai fini del successivo esercizio dell'azione disciplinare, giacché la permanenza del ritardo evidenzia che la disposta archiviazione non ha introdotto alcuna cesura nella condotta omissiva disciplinarmente rilevante. In particolare, secondo la Corte, «la circostanza che un segmento di una condotta protrattasi nel tempo sia stato ritenuto inidoneo a giustificare l'esercizio dell'azione disciplinare non comporta che di quel ritardo, ove si protragga nel tempo, non possa più tenersi conto ai fini della configurazione della fattispecie di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q)».

2.3. (Segue) b) le fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006 (ed i loro rapporti).

Nel segno di una prevalente continuità è stata la giurisprudenza della Corte in merito alla natura (di illecito di "evento") della fattispecie di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, norma che - come noto - sanziona l'inosservanza dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, nonché di rispetto della dignità della persona, imposti al magistrato dall'art. 1 del medesimo decreto legislativo.

In particolare, in linea con quanto già affermato in passato - Sez. Un., n. 3669 del 2011 (Rv. 616656) - si è ribadito - Sez. Un., n. 9691 (Rv. 625977), est. Piccialli - che, ai fini della sussistenza dell'illecito de quo, è necessaria la verificazione di un evento, costituito da un «ingiusto danno» o da un «indebito vantaggio» per una delle parti di un procedimento giudiziario, non essendo sufficiente la sola condotta del magistrato consistente nella violazione dei doveri di cui al precedente art. 1. In applicazione di tale principio, pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che la condotta omissiva di un P.M. - consistita nel non avere coltivato adeguatamente un'indagine per omicidio colposo da responsabilità professionale, in un procedimento iscritto a carico di ignoti - non fosse di per sé sufficiente a giustificarne l'affermazione di responsabilità ai sensi della predetta norma, come invece ritenuto dal giudice disciplinare sul presupposto che gli eventi di «indebito vantaggio» per gli indagati - peraltro, non identificati - e di «ingiusto danno» per le persone offese dal reato sussistessero in re ipsa. In particolare, l'annullamento con rinvio della sentenza di condanna che era stata pronunciata dal giudice disciplinare, è stata motivata in base al rilievo dell'assenza, nella decisione impugnata, di ogni valutazione in ordine tanto alle alternative possibilità per le persone offese dal reato di conseguire in sede civile il soddisfacimento delle proprie pretese risarcitorie, quanto delle ragionevoli e concrete possibilità che il trascurato procedimento penale potesse pervenire, ove coltivato, all'affermazione della penale responsabilità del professionista.

Di notevole importanza, invece, la precisazione compiuta dalla Corte di cassazione - Sez. Un., n. 5943 (Rv. 625494), est. Ceccherini, nonché n. 9691 (Rv. 625976), est. Piccialli - proprio sulla scorta della riconosciuta natura di illecito di "evento" della fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 109 del 2006, quanto ai suoi rapporti con la fattispecie di cui alla successiva lett. g) del medesimo comma 1. Infatti, nel rilevare che le due disposizioni appena richiamate sanzionano, l'una, la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio e rispetto della dignità della persona che arrechi ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti, e l'altra, invece, la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, il giudice di legittimità ha affermato che esse non sono tra loro in rapporto di specialità, potendo sussistere tanto gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile che non arrecano danno ingiusto o indebito vantaggio ad una delle parti, ma che comunque compromettono il bene giuridico (l'immagine del magistrato) a tutela del quale è diretta la previsione di ogni illecito disciplinare di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, quanto, simmetricamente, violazioni dei doveri imposti al magistrato che non si traducono in gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile ma che arrecano, tuttavia, ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. Da tale premessa è stata, pertanto, tratta la conclusione secondo cui ricorre un'ipotesi di concorso formale di illeciti disciplinari, tutti astrattamente sanzionabili, quando un'unica condotta del magistrato ricada nella sfera di applicazione di entrambe le norme.

La natura, viceversa, di illecito di mera condotta, propria della fattispecie di cui alla lett. g) del comma 1 dell'art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006, ha portato la Suprema Corte - Sez. Un., n. 5941 (Rv. 625525), est. Piccialli - a precisare che la menzione, nel capo di incolpazione, delle conseguenze dannose prodotte dal comportamento trasgressivo del magistrato incolpato non è strettamente necessaria, valendo soltanto a connotarne ulteriormente la gravità, potendo, al più, essere apprezzata anche al fine di escludere l'applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all'art. 3-bis del medesimo decreto legislativo.

Sempre in relazione alla presente fattispecie, deve segnalarsi quell'arresto - Sez. Un., n. 7379 (rv. 625555), est. Amoroso - con cui il giudice di legittimità - nel riprendere un principio già affermato da Sez. Un., n. 538 del 2000 (Rv. 539145) - ha ribadito che l'illecito de quo risulta astrattamente configurabile «anche con riguardo all'attività interpretativa e applicativa delle norme di diritto», sebbene limitatamente all'ipotesi in cui «tale attività riveli scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, idonee a riverberarsi negativamente sulla credibilità del magistrato o sul prestigio dell'ordine giudiziario», dovendo, per contro, escludersi (come riconosciuto nel caso concreto oggetto della citata decisione) «la censurabilità dell'attività interpretativa del magistrato allorché pervenga a soluzioni non implausibili ancorché criticabili come non fondate».

Da segnalare, infine, sono le due sentenze con cui la Suprema Corte, nel confermare le decisioni della Sezione Disciplinare del C.S.M., ha ravvisato gli estremi dell'illecito in esame, rispettivamente, nel comportamento di un P.M. che aveva richiesto il rinvio a giudizio di taluni imputati pur essendo consapevole dell'intervenuta prescrizione dei reati contestati - Sez. Un., n. 5941 del 2013 (Rv. 625524), est. Piccialli, ove si precisa come il rappresentante della pubblica accusa avesse l'obbligo, e non la semplice facoltà, di chiedere l'emissione del provvedimento di archiviazione, sulla base di un principio generale regolatore del processo penale che esige l'immediata declaratoria delle evidenti ragioni di proscioglimento, ancorché per motivi di estinzione del reato - nonché nella condotta del giudice che, su conforme parere del P.M., non aveva osservato i termini di durata della custodia cautelare previsti dalla legge, ritenendo che il contegno di entrambi i magistrati, in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del soggetto trattenuto in carcere oltre i limiti legali, costituisca grave violazione di legge; così Sez. Un., n. 18191 (Rv. 627547), est. Forte. La sentenza da ultimo citata, peraltro, pur facendo salva - in astratto - la possibilità di applicare, in questi casi, un'esimente connessa a circostanze di fatto o a provvedimenti che giustifichino la mancata liberazione (purché, però, si tratti di cause eccezionali, ovvero già determinate per legge), ne ha escluso - in concreto - la ricorrenza, ritenendo che tanto le circostanze relative alla capacità e laboriosità dimostrate dai magistrati incolpati nelle loro altre attività giudiziarie, quanto il fatto obiettivo dell'omessa trascrizione, nel registro generale, dello stato di detenzione della persona indagata potessero assumere rilievo come cause eccezionali, potenzialmente apprezzabili come esimenti della responsabilità disciplinare, limitandone la rilevanza, soltanto sul piano della commisurazione del trattamento sanzionatorio inflitto ai due magistrati.

2.4. (Segue) c) le altre fattispecie di illecito disciplinare.

Delle pronunce della Corte relative alle altre fattispecie di illecito disciplinare deve essere menzionata, in primo luogo, quella che ha interessato - Sez. Un., 17553 (Rv. 627220), est. Piccininni - l'ipotesi di cui alla lett. h) del comma 1 dell'art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006. Essa, infatti, ha chiarito che la sussistenza di esiti pregiudizievoli per la parte, riconducibile all'adozione del provvedimento, è irrilevante ai fini della configurabilità, dell'illecito de quo, non essendo un tale effetto contemplato dalla norma incriminatrice, la quale postula invece la negativa incidenza sulla fiducia delle parti nei confronti del giudice e sul prestigio dell'ordine giudiziario nel suo complesso, concretamente ricollegabile all'inescusabilità dell'errore inficiante il provvedimento.

Di rilievo è, poi, la pronuncia - Sez. Un., n. 20570 (Rv. 627332), est. Amatucci - che ha ritenuto integrato l'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. n. 109 del 2006, dal comportamento di un magistrato che abbia omesso di motivare, anche solo in forma succinta (come richiesto dall'art. 134, primo comma, cod. proc. civ.), un'ordinanza di ingiunzione di pagamento di somme non contestate emessa a norma dell'art. 423, secondo comma, cod. proc. civ., privando così le parti della possibilità di cogliere la ragione di fondo che sorregge il provvedimento giurisdizionale, destinato a risolversi nell'espressione di un immotivato comando.

In merito all'art. 2, comma 1, lett. n), del d.lgs. n. 109 del 2006, deve, innanzitutto, segnalarsi l'affermazione di carattere generale compiuta dalla Suprema Corte - Sez. Un., n. 7383 (Rv. 625556), est. Amoroso - secondo cui l'illecito de quo presuppone che l'inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni sul servizio giudiziario adottate dagli organi competenti si presenti «grave» o «reiterata», sicché risulta affetta dal vizio di cui all'art. 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ. la decisione con cui la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura - esclusa la sussistenza della reiterazione dell'inosservanza - abbia omesso un'espressa e formale valutazione in ordine al requisito della sua «gravità», allorché la stessa non sia neppure indirettamente ricavabile, in modo univoco, dalla mera narrazione dei fatti accertati contenuta nella sentenza. Sempre in relazione alla medesima fattispecie di illecito disciplinare, inoltre, è stato escluso - Sez. Un., n. 9410 (Rv. 626048), est. Piccininni - che la stessa possa essere integrata dal contegno assunto dal dirigente di un ufficio giudiziario e consistente nel dare immediata attuazione ad un provvedimento di variazione tabellare, nel quale, oltretutto, sia stato espressamente richiamato il disposto dell'art. 7 bis, secondo comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (norma che prevede l'immediata esecutività dei provvedimenti in via d'urgenza concernenti le tabelle, salve le successive determinazioni degli organi competenti a decidere in via definitiva), non essendo, pertanto, ravvisabile alcuna violazione di legge nel comportamento così tenuto. Del pari, si è negato - Sez. Un., n. 9410 (Rv. 626049), est. Piccininni - che la ritardata trasmissione al competente Consiglio giudiziario di un provvedimento di variazione tabellare, adottato dal dirigente di un ufficio giudiziario in via d'urgenza ai sensi del già citato art. 7-bis, secondo comma, del r.d. n. 12 del 1941, possa comportare responsabilità disciplinare del medesimo in base al citato all'art. 2, comma 1, lett. n), trattandosi di un incombente per il quale non è prescritto alcun termine di legge e che grava, comunque, sul personale amministrativo, della cui condotta il dirigente può essere, quindi, ritenuto responsabile solo per culpa in vigilando, previo accertamento dei relativi presupposti.

Di notevole importanza, quanto all'illecito di cui all'art. 2, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 109 del 2006, è l'affermazione compiuta dalla Corte di cassazione - Sez. Un., n. 5942 (Rv. 625535), est. Piccialli - secondo cui l'illecito de quo (consistente nella «consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge») non richiede - sotto il profilo soggettivo - uno specifico intento trasgressivo, tantomeno finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti, essendo sufficiente la consapevolezza nell'agente di quelle situazioni di fatto, in presenza delle quali l'ordinamento esige, al fine della tutela dell'immagine del singolo magistrato e dell'ordine di appartenenza nel suo complesso, che lo stesso non compia un determinato atto, versando in una situazione tale da ingenerare, se non il rischio, quantomeno il sospetto di parzialità di chi lo compie. Ne consegue che ad integrare l'elemento psicologico dell'illecito non è necessaria la "coscienza dell'antigiuridicità" del comportamento integrante la violazione del precetto, ma è sufficiente la conoscenza di quelle circostanze di fatto in presenza delle quali, in considerazione della ricorrenza dell'interesse proprio o di un proprio congiunto, sussista l'obbligo di astensione, nonché l'adozione, cosciente e volontaria, dell'atto medesimo, pur versandosi in quella situazione.

In ordine all'ipotesi di cui all'art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, deve essere, innanzitutto, segnalata quella decisione con cui la Suprema Corte - Sez. Un., 7042 (Rv. 625506), est. Petitti - ha interpretato la portata di tale norma come idonea a ricomprendere anche comportamenti "extrafunzionali" del magistrato. Si assume, infatti, che essa, nel dare rilievo come illecito disciplinare ai «comportamenti abitualmente e gravemente scorretti» tenuti nei confronti, tra i diversi soggetti menzionati, anche «di altri magistrati», deve essere interpretata nel senso che tali comportamenti non debbono necessariamente essere frutto dell'esercizio delle funzioni attribuite al magistrato, potendo riferirsi anche ai rapporti personali tra colleghi all'interno dell'ufficio, atteso che la formulazione normativa appare prescindere del tutto dalla funzionalità della scorrettezza. Su tali basi, in particolare, è stato rigettato il ricorso avverso la condanna inflitta a carico di un magistrato autore di condotte, a danno di una collega, integranti gli estremi del reato di «atti persecutori» ex art. 612-bis cod. pen. Da segnalare è, altresì, quella pronuncia del giudice di legittimità - Sez. Un., n. 20588 (Rv. 627419), est. Cappabianca - che ha riconosciuto la ricorrenza dell'illecito in esame anche nel caso in cui un magistrato, contravvenendo ai doveri di correttezza, equilibrio e rispetto della persona, individuati dall'art. 1 del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006 quali precondizioni essenziali di un corretto esercizio della giurisdizione, si abbandoni, in udienza, a comportamenti indicativi di scarso controllo della propria impulsività e di aggressività verbale, assumendo così un contegno che, per essere tenuto in pubblico e davanti ad estranei all'ordine giudiziario, assume, anche per il pregiudizio arrecato all'immagine di una giurisdizione esercitata in termini di equilibrio e terzietà, quel carattere di oggettiva gravità richiesto per la sussistenza dell'illecito in esame. In applicazione di tale principio, pertanto, la citata decisione ha affermato la responsabilità disciplinare, ai sensi della predetta disposizione, di un P.M. che - nel corso di un procedimento a carico di prevenuto arrestato in flagranza di reato - aveva criticato platealmente i provvedimenti del giudice, mantenendo un atteggiamento di contestazione verso il medesimo, nonostante il suo invito a rimandare alla fine dell'udienza ogni discussione. Infine, per concludere sull'illecito qui in esame, di ancora maggiore rilievo è quella la sentenza - Sez. Un., n. 17777 (Rv. 627556), est. Chiarini - che ha confermato la legittimità della decisione con cui la Sezione Disciplinare del C.S.M. aveva irrogato la sanzione della perdita dell'anzianità a carico di un magistrato resosi responsabile di comportamenti riconducibili alla previsione di cui all'art. 660 cod. pen., sul presupposto che la severità del trattamento sanzionatorio fosse giustificata dalle modalità con cui era stato perpetrato il reato contravvenzionale suddetto, nonché dalla qualità della persona offesa e dai motivi per i quali il giudice penale aveva denegato il riconoscimento delle circostanze attenuante generiche. Di particolare importanza è, poi, l'affermazione - contenuta nella citata sentenza della Suprema Corte - secondo cui non ostava a tale esito (ovvero, all'irrogazione della sanzione della perdita dell'anzianità) la previsione di cui all'art. 12, comma 2, lettera c), del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006, in base al quale - al magistrato che ponga in essere i comportamenti previsti dall'articolo 3, comma 1, lettera b), dello stesso decreto legislativo (e cioè, che abbia subìto condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni) - si applica la sanzione non inferiore alla perdita dell'anzianità. Si è, infatti, precisato che tale norma non ha altra funzione se non quella di fissare il minimo edittale stabilito per i comportamenti suddetti, senza invece precludere l'applicazione della medesima sanzione della perdita dell'anzianità anche in presenza di altre fattispecie di illecito disciplinare, tra cui, appunto, quella di cui all'art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006.

Da segnalare, conclusivamente, l'importante decisione della Corte - Sez. Un., n. 27493 (in corso di massimazione), est. Giusti - relativa alla previsione di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, norma che - in relazione al disposto di cui all'art. 16, primo comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 - sanziona, tra l'altro, l'esercizio da parte del magistrato di «qualsiasi libera professione». La Corte ha affermato, in particolare, che l'illecito de quo deve ritenersi integrato anche dall'organizzazione individuale, in forma continuativa, di un'attività di gestione di corsi a pagamento di preparazione a concorsi o esami per l'accesso a professioni del settore giuridico, essendo irrilevante che l'attività didattica non abbia riprodotto, per complessità, una struttura imprenditoriale e che ad essa non si sia accompagnata la predisposizione di strutture capaci di dare all'attività di gestione dei corsi carattere di autonomia rispetto alla persona del docente magistrato e all'insegnamento da lui impartito.

2.5. L'esimente di cui all'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006.

Nel dare continuità al principio già enunciato in passato - cfr. Sez. Un., n. 6327 del 2012 (Rv. 622237) - ed in forza del quale la previsione di cui all'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, nello stabilire che l'illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza, è applicabile, sia per il tenore letterale della disposizione e sia per la sua collocazione sistematica, a tutte le ipotesi di illecito previste negli artt. 2 e 3 del medesimo decreto legislativo, la Suprema Corte ha compiuto, nell'anno 2013, due importanti puntualizzazioni.

Per un verso, infatti, si è ritenuto - Sez. Un., 11343 (Rv. 626437), est. Massera - che l'esimente de qua sia, evidentemente, ipotizzabile anche in relazione all'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lettera b), norma che sanziona l'omessa comunicazione, da parte del magistrato, di taluna delle situazioni di incompatibilità previste dagli artt. 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario. In forza di tale premessa, la sentenza da ultimo citata ha, pertanto, confermato la decisione della Sezione Disciplinare del C.S.M. di applicare la norma suddetta in relazione al comportamento di un magistrato che aveva omesso di reiterare la comunicazione relativa all'esistenza di una situazione di incompatibilità con il proprio figlio, esercente la professione legale nel medesimo distretto presso il quale l'incolpato aveva assunto un incarico semidirettivo, dando rilievo alla duplice circostanza della prossimità temporale tra la dichiarazione di incompatibilità in precedenza inviata dal magistrato e l'assunzione del predetto incarico semidirettivo, nonché della sporadicità, nel periodo in contestazione, dell'esercizio della attività professionale da parte del familiare.

Per altro verso, poi, si è precisato - Sez. Un., n. 7934 (Rv 625660), est. Rordorf - che la valutazione in ordine all'applicabilità dell'istituto in esame (destinato ad operare allorché la fattispecie tipica risulti essere stata realizzata, ma il fatto, per particolari circostanze anche non riferibili all'incolpato, non risulti in concreto capace di ledere il bene giuridico tutelato) costituisce compito esclusivo della Sezione Disciplinare del C.S.M., soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico, chiarendo, altresì, che un'esplicita motivazione non risulta, del resto, neppure necessaria quando l'incolpato abbia omesso di sollecitarla.

Sempre in relazione all'istituto qui in esame, è stato, inoltre, affermato - Sez. Un., n. 17779 (Rv. 627553), est. Petitti - che la Sezione Disciplinare del C.S.M., sebbene vincolata, in sede di giudizio di rinvio, al rispetto del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, in relazione ai punti decisivi non congruamente valutati dalla precedente sentenza oggetto di annullamento, non potendo, pertanto, rimetterne in discussione il carattere di decisività, conserva, invece, il potere di procedere ad una nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quegli altri la cui acquisizione si renda necessaria proprio in relazione alle direttive espresse dalla sentenza di annullamento. Qualora, dunque, tale valutazione - proprio in applicazione del principio di diritto enunciato dal giudice di legittimità - sia destinata ad investire la sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 3bis del d.lgs. n. 109 del 2006, il giudice del rinvio ben può pervenire ad una conclusione negativa, esaminando tutte le circostanze risultanti dagli atti ritualmente acquisiti al fascicolo procedimentale, dando rilievo ad elementi di fatto ulteriori, rispetto a quelli indicati, invece, nella sentenza di annullamento, come astrattamente idonei a connotare il fatto in termini di non rilevante gravità.

La medesima decisione - Sez. Un., n. 17779 (Rv. 627554), est. Petitti - ha, infine, escluso che ricorra la violazione del principio della necessaria corrispondenza tra il fatto oggetto di incolpazione e quello ritenuto in sentenza allorchè la decisione della Sezione Disciplinare del C.S.M. (nella specie, adottata all'esito di giudizio di rinvio) escluda la ricorrenza dell'esimente de qua sulla base della valutazione di elementi di fatto non necessariamente contenuti nella contestazione elevata a carico del magistrato, ma comunque ritualmente acquisiti al fascicolo del procedimento disciplinare.

2.6. Questioni processuali. In particolare, l'applicazione della misura cautelare del trasferimento d'ufficio.

Le considerazioni da ultimo svolte spostano l'attenzione su temi più propriamente processuali, sui quali occorre pertanto soffermarsi.

Le pronunce adottate, in materia, della Suprema Corte verranno illustrate in base ad un ordine che cercherà di ricalcare la scansione del procedimento, sicché verranno inizialmente esaminate quelle relative all'applicazione della misura cautelare del trasferimento d'ufficio.

Al riguardo, deve essere innanzitutto segnalata quella pronuncia con cui la Suprema Corte ha affermato che - una volta respinta dal giudice amministrativo, in via definitiva, la domanda di sospensione dell'efficacia del provvedimento del Ministro della giustizia di anticipato possesso di un magistrato presso l'ufficio ove lo stesso sia stato trasferito cautelarmente, in forza di ordinanza resa dalla Sezione disciplinare del C.S.M avente efficacia irretrattabile (per avere le Sezioni unite della Cassazione sia respinto il ricorso proposto dal magistrato interessato avverso di essa, sia affermato, in accoglimento di un ricorso per regolamento preventivo esperito dall'organo di autogoverno e dal Ministero della giustizia, la propria giurisdizione esclusiva in relazione a provvedimenti siffatti) - è inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'ulteriore ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto nell'ambito del medesimo procedimento giudiziario dal C.S.M. e dal Ministero della giustizia, essendosi tale procedimento già concluso con provvedimento integralmente favorevole per i proponenti; cfr. Sez. Un., n. 17553 (Rv. 627220), est. Piccininni.

Circa, poi, la natura del trasferimento d'ufficio, è stato chiarito - Sez. Un., n. 5972 (Rv. 625537), est. Piccialli - come esso non integri una sanzione comminata a titolo definitivo, bensì, appunto, una misura cautelare, in quanto tale dotata di efficacia provvisoria e destinata ad operare fino alla definizione del giudizio di merito, sicché la norma che la prevede (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006) non pone alcuna necessaria correlazione tra la misura de qua e la sanzione disciplinare di cui l'incolpato risulti astrattamente passibile (salva la condizione che la sanzione irrogabile risulti però diversa sia dall'ammonimento che dalla rimozione). Non configurando, pertanto, il trasferimento d'ufficio una sorta di espiazione anticipata della sanzione disciplinare, non sussiste necessità alcuna di una loro corrispondenza. Su tali basi, pertanto, la Suprema Corte ha escluso che integri un "demansionamento" del magistrato incolpato la decisione adottata - in sede cautelare - dal giudice disciplinare, allorché esso, pur optando per la misura del trasferimento ad altra sede con conservazione delle precedenti funzioni, abbia privato temporaneamente l'incolpato, presso il nuovo ufficio, dell'esercizio delle funzioni direttive o semidirettive precedentemente espletate.

In merito, invece, alla condizioni per l'applicazione della misura de qua, si è ritenuto - Sez. Un., n. 5942 (Rv. 625536), est. Piccialli - che essa presuppone la duplice circostanza, da un lato, che l'incolpato fosse a conoscenza o condividesse il consolidato orientamento della giurisprudenziale secondo cui, ai fini disciplinari, l'obbligo generale di astensione si configura prescindendo dall'applicazione dell'art. 52 cod. proc. pen., basandosi invece sulla disciplina sostanziale di cui all'art. 323 cod. pen., nonché, dall'altro, che taluno degli atti in relazione al quale è stato ravvisato il dovere di astenersi si presentasse di mera natura organizzativa e non strettamente giurisdizionale. In particolare, in relazione a tale secondo profilo, le esigenze di distacco, correttezza e imparzialità che devono assistere, soprattutto in termini di immagine, l'esercizio di tutte le funzioni giudiziarie "lato sensu" intese, comportano che il magistrato debba restare estraneo al compimento di atti destinati ad incidere, direttamente o indirettamente, sull'andamento e la conduzione del procedimento.

Quanto, infine, al procedimento che mette capo all'adozione di detta misura cautelare, la Suprema Corte - Sez. Un., n. 5942 (Rv. 625534), est. Piccialli - ha affermato che il generale richiamo alle norme del codice di procedura penale - con il solo limite della compatibilità - operato dall'art. 18, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006 deve essere inteso nel senso che alla decisione cautelare resa dalla sezione disciplinare del C.S.M. non si applica il principio dell'immediatezza, sancito dall'art. 525 cod. proc. pen., atteso che lo svolgimento con rito camerale, ai sensi dell'art. 13 del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006, di tale fase eventuale ed incidentale del procedimento comporta che alla stessa debba applicarsi l'art. 127 cod. proc. pen., a norma del quale «il giudice provvede con ordinanza comunicata o notificata senza ritardo», non prevedendo pertanto come necessaria la lettura in udienza del provvedimento adottato o del relativo dispositivo.

2.7. (Segue) altre questioni processuali.

Passando ad esaminare altri aspetti - oltre quello appena illustrato - relativi al procedimento disciplinare, occorre prendere le mosse da un'importante puntualizzazione operata dalla Suprema Corte in ordine al regime giuridico ad esso applicabile. Difatti, è stato chiarito - Sez. Un., n. 1771 (624898), est. Segreto - che i richiami al codice di procedura penale, contenuti (per l'attività di indagine) nell'art. 16, comma 2, e (per la discussione dibattimentale) nell'art. 18, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006, vanno interpretati restrittivamente e solo in quanto compatibili, dovendo per il resto ritenersi applicabile la disciplina dettata dal codice di procedura civile, restando, così, inutilizzabili, in particolare, le norme del codice di procedura penale afferenti la fase anteriore all'apertura del dibattimento.

È stato, inoltre, affermato - Sez. Un., n. 1793 (Rv. 624864), est. Petitti - che il termine di un anno per l'esercizio della facoltà del Ministro di promuovere l'azione disciplinare, che ha luogo mediante la richiesta di indagini al P.G. presso la Corte di cassazione, ha una sua autonomia e non coincide con il termine entro il quale quest'ultimo deve promuovere l'azione, visto che lo stesso art. 15 del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede che questo possa decorrere anche dalla segnalazione del Ministro della Giustizia.

Sempre in ordine alla fase anteriore al dibattimento, si è esclusa - Sez. Un., n. 3271 (Rv. 625433), est. Botta - l'esistenza di un obbligo di comunicazione all'incolpato relativamente allo svolgimento delle indagini preliminari, essendo le stesse finalizzate all'acquisizione di una più completa e precisa cognizione dei fatti, unicamente in funzione delle valutazioni di competenza del P.G. circa l'esercizio dell'azione disciplinare. Inoltre, in base ad una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata dell'art. 17 del d.lgs. n. 109 del 2006 si è ritenuto - Sez. Un., n. 1771 (Rv. 624897), est. Segreto - che la comunicazione all'incolpato dell'avvenuto deposito del fascicolo delle indagini effettuate dal P.G. e delle sue richieste conclusive, con facoltà per il primo di prenderne visione ed estrarne copia ai fini della presentazione di una memoria difensiva, sia idonea ad assicurare i diritti di contraddittorio e di difesa di cui agli artt. 24 e 111 Cost., così escludendosi la necessità di comunicazione all'incolpato anche della data dell'udienza camerale per la decisione sulla richiesta di non luogo a procedere. Difatti, dalla constatazione della peculiare configurazione "monofasica" del giudizio disciplinare a carico dei magistrati (visto che la disamina delle risultanze accusatorie offerte dal P.G. presso la Corte di Cassazione è affidata sempre allo stesso organo giudicante, sebbene possa svolgersi in momenti successivi), si è tratta la conclusione che il provvedimento con cui la Sezione Disciplinare del C.S.M., all'esito della predetta udienza camerale, rigetti la richiesta di non luogo a procedere, con conseguente obbligo per il P.G. di formulare l'incolpazione, ha natura solo interlocutoria, rimettendo all'udienza pubblica la definitiva decisione, sicché è a quest'ultima udienza che viene differito l'esercizio del diritto dell'incolpato alla difesa e al contraddittorio.

Quanto, invece, alle risultanze probatorie che possono essere poste alla base della decisione in ordine alla responsabilità disciplinare del magistrato incolpato, in continuità con il principio già enunciato da Sez. Un., n. 15314 del 2010 (Rv. 613973), è stato confermato - Sez. Un., n. 3271 (Rv. 625434), est. Botta - che le intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 cod. proc. pen., norma quest'ultima riferibile al solo procedimento penale deputato all'accertamento delle responsabilità penali dell'imputato o dell'indagato sicché si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all'acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità. In secondo luogo, si è affermato - Sez. Un., n. 7371 (Rv. 625595), est. Petitti, che ha enunciato, al riguardo, un principio sinora inedito - che il potere della Sezione Disciplinare del C.S.M. di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall'art. 507 cod. proc. pen., applicabile al giudizio disciplinare in virtù del rinvio di cui all'art. 18 del d.lgs. n. 109 del 2006, può essere esercitato anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto, chiarendo altresì che ove il giudice disciplinare non si avvalga di tale potere ha uno specifico obbligo di motivazione in ordine al mancato esercizio dello stesso, in difetto della quale la decisione adottata risulta affetta da nullità.

In merito, infine, all'impugnazione della pronuncia adottata all'esito della fase di merito del giudizio disciplinare, la Corte ha, innanzitutto, affermato - Sez. Un., n. 7934 (Rv. 625659), est. Rordorf - che la previsione enunciata dall'art. 585, comma 3, cod. proc. pen. (secondo cui, quando la decorrenza del termine per proporre impugnazione è diversa per l'imputato e per il suo difensore, opera per entrambi il termine che scade per ultimo) trova applicazione anche nel caso in cui l'ultimo destinatario della comunicazione dell'avvenuto deposito della sentenza sia un difensore non abilitato a proporre l'impugnazione, quale è tipicamente, rispetto al ricorso per cassazione, il magistrato che abbia assistito un collega. L'applicazione di tale norma, infatti, è stata ritenuta giustificata dal fatto che la funzione difensiva esercita in precedenza si proietta pure nel periodo successivo alla pronuncia della sentenza, fino quando non venga nominato altro difensore abilitato a proporre l'impugnazione. Inoltre, si è escluso - Sez. Un., n. 1770 (Rv. 624836), est. Segreto - che con l'impugnazione il ricorrente possa lamentare la diversa valutazione riservata ad altro magistrato, incolpato della stessa infrazione, atteso che la contraddittorietà della motivazione, per essere rilevante ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., deve emergere dalla medesima sentenza e non dal raffronto tra vari provvedimenti, seppure dello stesso giudice, ed atteso, inoltre, che il ricorso avverso le pronunce disciplinari del C.S.M. non può introdurre un sindacato sui poteri discrezionali dell'organo, mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, avendo tali pronunce natura giurisdizionale e non amministrativa.

3. Avvocati: questioni di legittimità costituzionale.

Anche in relazione alla normativa concernente il procedimento disciplinare a carico degli avvocati sono stati avanzati dubbi di costituzionalità, peraltro, fugati dalla Corte di cassazione. In particolare, sul presupposto che i giudizi disciplinari dinanzi al Consiglio nazionale forense hanno natura giurisdizionale, in quanto si svolgono dinanzi ad un giudice speciale istituito dall'art. 21 del d.lgs.lt. 23 novembre 1944, n. 382 (e tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione), era stata ipotizzata l'illegittimità costituzionale della previsione normativa contenuta nella legge 25 novembre 2003, n. 339, secondo cui il predetto C.N.F., nella sua funzione di indirizzo e di coordinamento dei vari Consigli dell'ordine territoriali, sollecita gli stessi all'adozione di provvedimenti di cancellazione dall'albo per incompatibilità. Il dubbio relativo alla violazione degli artt. 24 e 111 Cost., sotto il profilo del difetto di terzietà del medesimo organismo allorché assuma, successivamente, la veste di giudice disciplinare, è stato tuttavia fugato, essendosi osservato - Sez. Un., n. 11833 (Rv. 626349), est. Mazzacane - come le norme che disciplinano, rispettivamente, la nomina dei componenti del C.N.F., nonché lo stesso procedimento di disciplina dei professionisti iscritti al relativo ordine, assicurino, per il metodo elettivo della prima e per le sufficienti garanzie difensive proprie del secondo, il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, sicché le relative questioni di legittimità costituzionale sono state dichiarate manifestamente infondate.

3.1. Profili di diritto sostanziale.

Sul piano della disciplina di natura sostanziale deve segnalarsi, in primo luogo (per la sua valenza di carattere generale), quell'arresto - Sez. Un., n. 15120 (Rv. 626758), est. Ceccherini - con cui il giudice di legittimità, nel ribadire la natura amministrativa delle sanzioni disciplinari a carico degli avvocati, ha ritenuto che, in difetto di diversa espressa previsione di legge, il canone penalistico dell'applicazione retroattiva della norma più favorevole non possa, per esse, trovare applicazione, onde il fatto illecito risulta sempre soggetto alla sanzione vigente nel momento in cui il medesimo è stato commesso. Su tali basi, pertanto, è stato respinto il ricorso per cassazione proposto verso una sentenza con cui il C.N.F. aveva comminato - ad un avvocato che aveva richiesto, in sede penale, l'applicazione della sanzione di un anno e dieci mesi di reclusione e di euro centoquaranta di multa per i delitti di cui agli artt. 476, 479 e 482 cod. pen. - la sanzione disciplinare della cancellazione dall'albo vigente al momento del fatto, sebbene la stessa fosse stata successivamente sostituita da quella della radiazione, per effetto della legge 31 dicembre 2012, n. 247.

Da segnalare è, inoltre, l'affermazione secondo cui - Sez. Un., n. 15873 (Rv. 626862), est. Forte - il codice deontologico forense non ha carattere normativo, essendo costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono dati per attuare i valori caratterizzanti la propria professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa, con la conseguenza che la violazione di detto codice rileva in sede giurisdizionale solo quando si colleghi all'incompetenza, all'eccesso di potere o alla violazione di legge, cioè ad una delle ragioni per le quali l'art. 56, terzo comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle Sezioni unite della Corte di cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce.

Quanto, poi, alle pronunce adottate dal giudice di legittimità in merito alle diverse fattispecie di illecito disciplinare ipotizzabili in capo agli esercenti la professione forense, particolarmente importanti appaiono quelle decisioni che hanno confermato la legittimità delle sanzioni comminate in relazione all'uso, da parte di un legale, di espressioni offensive in danno delle controparti. In particolare, si è ritenuto - Sez. Un., 17776 (Rv. 627555), est. Chiarini - responsabile dell'illecito disciplinare previsto dall'art. 53 del codice deontologico forense l'avvocato che sottoscriva un atto - nella specie, di opposizione alla richiesta di archiviazione di un procedimento penale, ex art. 410 cod. proc. pen. - contenente espressioni offensive nei confronti del P.M., irrilevante essendo la circostanza che l'atto sia stato sottoscritto anche da altro difensore, giacché la sottoscrizione di un atto processuale è sufficiente ad individuarne la paternità e la provenienza. Del pari, si è ritenuta integrata - Sez. Un., n. 15873 (Rv. 626863), est. Forte - la violazione dell'obbligo (previsto dall'art. 5 del codice deontologico forense) di decoro, probità, dignità, fedeltà nei confronti non solo del difeso, ma anche della controparte, nel comportamento di un avvocato, il quale, oltre a richiedere la esecutorietà di un decreto ingiuntivo che sapeva non eseguibile (non essendo l'ingiunzione assistita da efficacia esecutiva ex art. 647 cod. proc. civ. ed essendo stata, inoltre, proposta opposizione ex art. 645 cod. proc. civ., circostanza di cui egli era a conoscenza, in quanto destinatario della notificazione di tale atto nella qualità di difensore dell'opposto), aveva anche rivolto all'indirizzo del legale di controparte espressioni offensive (nella specie, definendo la sua attività professionale «grossolana, grottesca, frutto di ignoranza giuridica e di cura superficiale delle questioni trattate» e tacciando, altresì, il collega di «arroganza e malafede»).

Importante è anche la puntualizzazione compiuta in relazione all'attività professionale di natura stragiudiziale che l'avvocato si trovi a svolgere nell'interesse del proprio assistito. Si è, infatti, chiarito - Sez. Un., n. 9529 (Rv. 626326), est. San Giorgio - che se la stessa non è ammessa, di regola, al patrocinio a spese dello Stato (ai sensi dell'art. 85 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115), in quanto esplicantesi fuori del processo, sicché il relativo compenso si pone a carico del cliente, nondimeno, allorché detta attività venga espletata in vista di una successiva azione giudiziaria, essa è ricompresa nell'azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato ed il professionista non può chiederne il compenso al cliente, incorrendo altrimenti in responsabilità disciplinare.

Di rilievo è, altresì, l'affermazione di Sez. Un., n. 27996 (in corso di massimazione), est. Piccialli, secondo cui anche il tentativo di compiere un atto professionale scorretto, in quanto lesivo dell'immagine dell'avvocato, costituisce di per sé scorrettezza, come tale disciplinarmente rilevante; affermazione compiuta in fattispecie in cui l'avvocato aveva diffuso un invito, rivolto a giovani avvocati non abilitati al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, a rivolgersi al suo studio per tale attività.

Infine, dando continuità al principio già enunciato da Sez. Un., n. 19705 del 2012 (Rv. 624133), è stato ribadito - Sez. Un., n. 10304 (Rv. 626384), est. Botta - che la pubblicità informativa, quando leda il decoro e la dignità professionale, costituisce illecito disciplinare, ai sensi dell'art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, poiché l'abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero-professionali, stabilita dall'art. 2 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella l. 4 agosto 2006, n. 248, non preclude all'organo professionale di sanzionare le modalità ed il contenuto del messaggio pubblicitario, quando non conforme a correttezza, in linea con quanto stabilito dagli artt. 17, 17 bis e 19 del codice deontologico forense, e tanto più che l'art. 4, comma 2, del d.P.R. 3 agosto 2012, n. 137 statuisce che la pubblicità informativa deve essere «funzionale all'oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l'obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria». In applicazione di tale principio, si è ritenuto integrare una forma di «pubblicità occulta» della propria attività professionale, come tale non consentita, l'intervista ad un legale, pubblicata sul supplemento mensile di un quotidiano, che per caratteristiche intrinseche quali il tipo di pubblicazione, il titolo dell'articolo, la forma e il contenuto, non consentiva al lettore di percepire con immediatezza di trovarsi al cospetto di un'informazione pubblicitaria.

3.2. Questioni processuali.

Nel ribadire i principî secondo cui la delibera di apertura del procedimento disciplinare - Sez. Un., n. 21591 (Rv. 627452), est. Mammone - costituisce idoneo atto di interruzione della prescrizione con effetti istantanei, ai sensi dell'art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, ed inoltre - Sez. Un., n. 22956 (Rv. 627744), est. Spirito - che l'eccezione di prescrizione dell'azione disciplinare può essere sollevata, per la prima volta, con il ricorso per cassazione avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, allorché il relativo esame non comporti indagini fattuali, la giurisprudenza di legittimità ha affermato - Sez. Un., n. 16884 (Rv. 627076), est. Vivaldi - che l'atto di avvio del procedimento disciplinare a carico di un avvocato, oltre a non essere impugnabile innanzi al C.N.F., non risulta neppure soggetto ad impugnazione innanzi al giudice amministrativo. Conclusione che si giustifica in ragione sia della natura di atto amministrativo endoprocedimentale, come tale privo di rilevanza esterna, propria dell'atto de quo, sia della necessità di salvaguardare il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, che, da un lato, vuole impugnabile innanzi al predetto C.N.F. unicamente il provvedimento emesso dal locale Consiglio dell'Ordine, nonché, dall'altro, assoggetta le decisioni di quest'ultimo al ricorso innanzi alle Sezioni unite della Corte di Cassazione.

Quanto, poi, alla partecipazione dell'incolpato al procedimento, l'affermazione secondo cui - Sez. Un., 7115 (Rv. 624766), est. Rordorf - egli ha diritto ad ottenere il rinvio dell'udienza in presenza di una situazione di legittimo impedimento, tale dovendosi, però, considerare solo un impedimento assoluto a comparire e non una qualsiasi situazione di difficoltà, è stata seguita dalla precisazione che l'impedimento non è configurabile - Sez. Un., n. 21591 (Rv. 627451), est. Mammone - in caso di mancata comparizione che si pretenda giustificata per la dichiarata partecipazione ad una astensione collettiva dalle udienze, essendo la comparizione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, per la discussione del ricorso, atto del professionista incolpato ricollegabile non all'esercizio dell'attività professionale, ma alla sua personale posizione quale soggetto sottoposto alla giurisdizione disciplinare.

In relazione, invece, alla decisione adottata all'esito del procedimento, il riconoscimento - Sez. Un., n. 21591 (Rv. 627453), est. Mammone - che la sentenza c.d. di "patteggiamento", intervenuta in sede penale, costituisce un importante elemento di prova per il giudice disciplinare, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione, è stata seguita dalla constatazione - Sez. Un., n. 22850 (Rv. 627922), est. D'Alessandro - che la sentenza comminatoria di una sanzione disciplinare a carico di un professionista, ove rechi l'erronea indicazione del suo nome di battesimo, non risulta affetta da nullità, ma da un semplice errore materiale, in difetto di indicazione - nella medesima decisione - delle generalità di altro avvocato, con il quale possa, dunque, crearsi confusione.

In merito, infine, ai rimedi esperibili avverso i provvedimenti con cui i locali Consigli dell'ordine abbiano comminato una sanzione disciplinare ai loro iscritti, deve, innanzitutto, menzionarsi quella pronuncia della Suprema Corte - Sez. Un., n. 15122 (Rv. 626811), est. Rordorf - che ha escluso l'applicabilità, al ricorso proposto innanzi al C.N.F., sia della previsione dettata dall'art. 342 cod. proc. civ. sull'atto di appello (in ragione della natura amministrativa e non giurisdizionale che connota la fase del procedimento di competenza dei locali Consigli dell'ordine), sia del principio della cosiddetta "autosufficienza" del mezzo di impugnazione, atteso che il presente ricorso - sebbene debba contenere l'enunciazione specifica dei motivi su cui si fonda, a norma dell'art. 59 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 - introduce un giudizio che non è limitato alla verifica della legittimità del provvedimento, bensì esteso anche al merito, sicché nulla impedisce al C.N.F. di prendere in esame, nella sua interezza, la documentazione prodotta nel corso del procedimento.

Quanto, poi, al ricorso per cassazione avverso la decisione del C.N.F., la Suprema Corte ha individuato - Sez. Un., n. 1716 (Rv. 624843), est. Rordorf - come contraddittori necessari, in quanto unici portatori dell'interesse a proporre impugnazione e a contrastare l'impugnazione proposta, il soggetto destinatario del provvedimento impugnato, il Consiglio dell'ordine locale che ha deciso in primo grado, in sede amministrativa, ed il P.M. presso la Corte di Cassazione, escludendo che tale qualità possa legittimamente riconoscersi al Consiglio Nazionale Forense, per la sua posizione di terzietà rispetto alla controversia, essendo l'organo che ha emesso la decisione impugnata; ne consegue che, ove il ricorso sia stato notificato al solo C.N.F., esso va dichiarato inammissibile e, in assenza di notifica ai soggetti legittimati, non può procedersi ad integrazione del contraddittorio.

4. Notai.

Il numero di decisioni, nel complesso piuttosto limitato, che hanno interessato il sistema della responsabilità disciplinare dei notai consente la trattazione unitaria delle stesse, sebbene distinguendo - come di consueto - le pronunce attinenti a profili di diritto sostanziale, da quelle, invece, relative a questioni processuali.

In merito alle prime deve, innanzitutto, menzionarsi quell'arresto della giurisprudenza di legittimità - Sez. Un., n. 9177 (Rv. 626103), est. D'Ascola - che ha escluso la possibilità di estendere all'ambito degli illeciti disciplinari dei notai quanto previsto, in tema di continuazione, in altri settori dell'ordinamento. Difatti, ai sensi dell'art. 135, quarto comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, al notaio che contravvenga, in occasione della formazione di uno stesso atto, più volte alla medesima disposizione, si applica una sola sanzione, determinata fino all'ammontare massimo previsto per tale infrazione tenendo conto del numero delle violazioni commesse, mentre regola analoga - in difetto di espressa previsione e, dunque, nel rispetto della discrezionalità del legislatore - non può operare in caso di plurime infrazioni identiche, allorché compiute in atti diversi.

Con due sentenze intervenute a breve distanza di tempo, la Suprema Corte ha preso posizione sulla persistente configurabilità della fattispecie di illecito disciplinare di cui all'art. 147, primo comma, lett. c), della già citata legge n. 89 del 1913. Un interrogativo, come noto, suscitato dall'introduzione dell'art. 2 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella l. 4 agosto 2006, n. 248 (in forza del quale è stata disposta, con riferimento alle attività libero-professionali e intellettuali, l'abrogazione della «obbligatorietà di tariffe fisse o minime»), nonché della sopravvenienza della disciplina in tema di concorrenza nei servizi professionali di cui agli artt. 9 e 12 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27). Il giudice di legittimità, dopo avere affermato - Sez. Un., n. 3715 (Rv. 624940), est. Giusti - che in base al citato ius superveniens il notaio, quand'anche sistematicamente, offra la propria prestazione per compensi più contenuti rispetto a quelli previsti dalla tariffa notarile, non pone in essere, per ciò solo, un comportamento di illecita concorrenza, ha, però, successivamente precisato - nel ribadire tale principio, Sez. Un., n. 9793 (Rv. 626155), est. D'ascola - che la tutela deontologica del decoro della professione nell'ipotesi di indiscriminate politiche di ribassi, sebbene non più affidata ad una rigida equiparazione dei corrispettivi, non priva, tuttavia, di rilevanza, sul piano disciplinare, i comportamenti concorrenzialmente scorretti o predatori, né le attività serialmente prestate di accaparramento della clientela, che incidano sulla qualità delle prestazioni rese.

Quanto, invece, all'illecito derivante dalla violazione del divieto di assistere ad uffici secondari nei giorni ed orari fissati per la sede principale, previsto nel Codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale del Notariato, la Suprema Corte - con ferimento ad una fattispecie soggetta, ratione temporis, all'applicazione dell'art. 26 della legge n. 89 del 1913, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 12 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27 - ha affermato il seguente principio di diritto. Essa, in particolare, ha ritenuto che ad escludere l'illecito in esame non possa rilevare l'accortezza che le ore di stipula presso gli uffici secondari non siano ricomprese nella fascia oraria espressamente vincolata, allorché l'incidenza percentuale degli atti più significativi compiuti fuori sede, rispetto all'attività complessiva svolta dal professionista (incidenza percentuale, nella specie, oscillante tra il 62 e il 71 per cento e peraltro non giustificata da specifiche esigenze della clientela), tenuto altresì conto delle incombenze e degli adempimenti che ruotano intorno alla stipula, denoti comunque l'inosservanza dell'obbligo, parimenti imposto al notaio, di assistere personalmente allo studio anche in giorni e per ore diversi da quelli stabiliti, dovendo la sede notarile costituire il centro effettivo del suo operato professionale; così Sez. Un., n. 9358 (Rv. 626105), est. D'Ascola.

È stata, poi, ravvisata un'ipotesi di responsabilità disciplinare - Sez. Un., n. 9197 (Rv. 626102), est. D'Ascola - in caso di violazione dell'art. 55 della legge n. 89 del 1913, n. 89 (in forza del quale la scrittura dell'atto, allorché il notaio non conosca la lingua straniera in cui si esprimono le parti, deve avvenire in lingua italiana con l'intervento dell'interprete, essendo, altresì, necessario che di fronte o in calce all'atto sia posta anche la traduzione, e che tanto l'originale quanto la traduzione rechino le necessarie distinte sottoscrizioni delle parti), essendo, in tal caso, il professionista punito con la sospensione a norma dell'art. 138 della medesima legge, restando invece soggette alla sola sanzione pecuniaria di cui al precedente art. 137 le violazioni relative alle sottoscrizioni imposte dal richiamato art. 51 della legge notarile.

Si è poi ritenuto, per concludere questa disamina dei profili sostanziali relativi alla responsabilità disciplinare dei notai, che integri illecito disciplinare - sanzionabile ai sensi dell'art. 147, primo comma, lett. a), della legge n. 89 del 1913, (come sostituito dall'art. 30 del d.lgs. 1° agosto 2006, n. 249), nonché dell'art. 1 dei Principî di deontologia professionale emanati dal Consiglio Nazionale del Notariato - la condotta del notaio che costituisca una società di capitali, di cui egli sia socio unico, volta a commercializzare una piattaforma informatica per la gestione delle surroghe relative agli atti di mutuo, così determinando una sovrapposizione ed un'interferenza tra l'attività notarile e quella commerciale; cfr. Sez. Un., n. 5270 (Rv. 625356), est. Segreto. Si sono, invece, ravvisati gli estremi - Sez. Un., n. 2220 (Rv. 625189), est. Giusti - dell'illecito di cui all'art. 28, primo comma, n. 1, della medesima legge sull'ordinamento del notariato, nel contegno del notaio che, rogando l'atto costitutivo di una società a responsabilità limitata, abbia inserito una clausola statutaria, la quale, nell'ambito dell'oggetto sociale, preveda la possibilità per la società di «concedere avalli, fideiussioni e garanzie di ogni genere» espressamente «nei confronti di chiunque, per obbligazioni di terzi anche non soci», contemplando, così, attività finanziarie svolte nei confronti del pubblico e, pertanto, rientranti nell'area della riserva di cui all'art. 106 del testo unico bancario, ciò che comporta la nullità di detta clausola per contrasto con norma imperativa.

Sul piano processuale, deve, invece, segnalarsi - in primo luogo - quella decisione della Suprema Corte - Sez. Un., n. 5270 (Rv. 625355), est. Segreto - secondo cui, ai fini dell'esercizio del potere di iniziativa attribuito, tra gli altri, al Presidente del Consiglio notarile del distretto di appartenenza del notaio, ai sensi dell'art. 153 della legge n. 89 del 1913 (come sostituito dall'art. 39 del d.lgs. n. 249 del 2006), il medesimo Consiglio, oltre ad avvalersi degli strumenti di indagine espressamente previsti dall'art. 93-bis della stessa legge n. 89 del 1913 (inserito dall'art. 10 del d.lgs. n. 249 del 2006), può altresì richiedere informazioni a soggetti privati, salva la necessità di valutarne accuratamente l'attendibilità, trattandosi di attività istruttoria preliminare, volta ad individuare il fatto oggetto dell'addebito, le norme che si assumono violate e a formulare le conclusioni, senza che si ponga l'esigenza di garanzie di difesa, operante, invece, nella fase amministrativa contenziosa conseguente al promovimento del procedimento. Si, inoltre, chiarito - Sez. Un., ord. n. 15273 (Rv. 626854), rel. Segreto - che quando il Consiglio notarile cui appartiene il notaio incolpato sia parte della fase giurisdizionale del procedimento, ciò che si verifica proprio quando il suo Presidente abbia richiesto l'apertura della fase amministrativa o sia intervenuto in essa (a norma, rispettivamente, degli artt. 153 e 156-bis, quinto comma, della legge n. 89 del 1913), trova applicazione anche nei suoi confronti il regime delle spese processuali regolato dagli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.

Infine, secondo quanto affermato da Sez. Un., n. 6487 (Rv. 625466), est. Segreto, la prescrizione dell'azione disciplinare nei confronti del notaio (che non è interrotta dalla contestazione delle infrazioni, né dalla pronuncia del Consiglio notarile o da quella dell'autorità giudiziaria) può essere rilevata d'ufficio anche in sede di legittimità: in tal caso, deve essere cassata senza rinvio l'eventuale sentenza di condanna pronunciata dal giudice di merito, senza nessuna possibilità per la Corte di cassazione di esaminare i motivi di ricorso.

  • giurisdizione arbitrale

CAPITOLO XXXVI

L'ARBITRATO

(di Francesca Picardi )

Sommario

1 Oggetto. - 2 Il procedimento. - 2.1 La disciplina applicabile. - 2.2 Il termine per l'instaurazione del procedimento. - 2.3 Nomina, revoca e compenso degli arbitri. - 2.4 La decisione. - 3 Impugnazione del lodo. - 3.1 Il giudizio di impugnazione. - 3.2 I motivi di impugnazione. - 3.3 Limiti all'impugnazione. - 4 Rapporti tra giustizia arbitrale e giustizia ordinaria o speciale. - 5 Arbitrato estero. - 6 Arbitrato internazionale. - 7 Arbitrato rituale ed irrituale.

1. Oggetto.

Il deferimento in arbitri di materie non compromettibili comporta la nullità della convenzione arbitrale e conseguentemente del lodo per assenza di potestas iudicandi in capo agli arbitri. Risulta, perciò, costante lo sforzo della giurisprudenza al fine di individuare i diritti e le materie suscettibili di decisione arbitrale, aspetto fondamentale al fine di verificare la validità della clausola compromissoria, che, in quanto contratto autonomo ad effetti processuali, prescinde da quella del contratto in cui si inserisce, come ribadito da Sez. 1, n. 18134 (Rv. 627447), est. Forte.

Nell'anno corrente sono intervenute le Sez. Un., n. 21585 (Rv. 627435), est. Petitti, che, relativamente alle concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche, anteriori alla legge 21 luglio 2000, n. 205, hanno escluso la possibilità di ricorrere all'arbitrato, sussistendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e non avendo portata retroattiva, in mancanza di una espressa previsione in tal senso, l'art. 6 della legge n. 205 del 2000, che stabilisce che le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto. Del resto tale disposizione, che non pone una norma sulla giurisdizione, ma disciplina una questione di merito, concernente validità ed efficacia del compromesso e della clausola compromissoria, non può avere effetti sananti della originaria invalidità della clausola stipulata, da valutarsi in base alle norme vigenti al momento del perfezionamento dell'atto.

Nella materia societaria, in cui il ricorso all'arbitrato continua ad essere disciplinato dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, nella restante parte abrogato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, Sez. 6-1, ord. n. 16265 (Rv. 626901), rel. Salmè, ha ritenuto attenere ai diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 cod. proc. civ., le impugnazione di deliberazioni assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabile anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell'art. 2479-ter cod. civ., quelle prese in assoluta mancanza di informazione. In virtù di tale principio si è, tuttavia, deciso che può essere deferita ad arbitri, in quanto suscettibile di transazione, la controversia che abbia ad oggetto l'interpretazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea di una società a responsabilità limitata, in cui si discuta esclusivamente se concerna le dimissioni del ricorrente dalla carica di amministratore delegato o anche da quella di componente del consiglio di amministrazione, non trattandosi di una ipotesi di assoluta mancanza di informazione.

Relativamente ai rapporti di locazione, di comodato e di affitto di azienda, salvo il divieto, ribadito da Sez. 3, n. 6284 (Rv. 625489), est. Chiarini, di compromettibilità in arbitri delle controversie relative alla determinazione del canone "equo" dall'art. 54 della legge 27 luglio 1978, n. 392, invece, è stata ammessa la generale facoltà di ricorrere all'arbitrato da Sez. 1, n. 19393 (Rv. 627565), est. Macioce. Si è, difatti, osservato che l'art. 447-bis, secondo comma, cod. proc. civ., riguarda la sola competenza per territorio del giudice del luogo dove è posto il bene, sancendo la nullità delle clausole in deroga ad essa, ma che non si occupa anche della clausola di compromissione in arbitri: a tale conclusione si perviene in base all'originaria formulazione della disposizione in esame, la quale, nello stabilire che «per le controversie relative ai rapporti di cui all'art. 8, secondo comma, n. 3 è competente il giudice del luogo ove si trova la cosa», chiaramente poneva un criterio di competenza territoriale, ancora oggi desumibile dal collegamento con l'art. 21, primo comma, cod. proc. civ.

In altre pronunce la giurisprudenza di legittimità si è, invece, occupata dall'interpretazione della clausola compromissoria. In particolare:

Sez. 6-1, ord. n. 22303 (Rv. 627951), rel. Campanile, ha precisato che la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società per azioni, che preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, include la controversia riguardante il recesso del socio dalla società;

Sez. 6-1, ord. n. 723 (Rv. 625405), rel. Mercolino, con riferimento alle cooperative edilizie aventi per oggetto sociale la costruzione di alloggi da assegnare ai soci, ha letto in modo estensivo la clausola compromissoria, che preveda il deferimento ad arbitri di qualsiasi controversia connessa all'interpretazione e all'esecuzione del contratto associativo, ritenendola comprensiva anche delle controversie relative al pagamento del prezzo per il trasferimento di un immobile cooperativo e, quindi, al distinto rapporto di scambio, in quanto il rapporto associativo è indirettamente finalizzato all'acquisto della proprietà dell'immobile;

Sez. 1, n. 23675 (Rv. 627976), est. Salvago, ha ricondotto alla clausola compromissoria concernente le controversie relative alla risoluzione di un contratto la domanda di risarcimento del danno derivante da lesione del diritto all'immagine ricollegabile non già alla violazione di doveri che incombono verso la generalità dei cittadini e che, quindi, sono sanzionati dall'art. 2043 cod. civ. (che, comunque, a seguito della novella del 2006, potrebbe essere oggetto di apposita convenzione arbitrale ex art. 808-bis cod. proc. civ.), bensì all'inadempimento di precise obbligazioni assunte con il predetto contratto;

Sez. 1, n. 1543 (Rv. 625114), est. Ferro, ha, invece, negato la riconducibilità alla clausola compromissoria contenuta nel contratto stipulato dal fallito, in cui sia subentrato il curatore, di una posizione giuridica che non si rinvenga nel patrimonio del fallito, ma presenti carattere autonomo, proprio della rappresentanza della massa, in quanto, in tale ipotesi, non si rinviene quella continuità di funzionamento del meccanismo negoziale presidiato dalla clausola compromissoria (nel caso di specie, i crediti azionati presupponevano l'inopponiblità alla massa di una serie di operazioni); a sostegno di tale conclusione si è osservato che, comportando il deferimento di una controversia al giudizio degli arbitri una deroga alla giurisdizione ordinaria, in caso di dubbio in ordine alla sua portata, si deve optare per un'interpretazione restrittiva.

2. Il procedimento.

2.1. La disciplina applicabile.

Relativamente al procedimento di arbitrato, come precisato da Sez. 6-1, ord. n. 21205 (Rv. 627936), rel. Acierno, con specifico riferimento all'attuale testo dell'art. 829 cod. proc. civ., la nuova disciplina, introdotta dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che tende a rimarcare il parallelismo tra l'arbitrato rituale e la giustizia ordinaria, è applicabile ove la domanda di arbitrato sia stata proposta successivamente alla data della sua entrata in vigore (2 marzo 2006), anche se in base a clausola stipulata in epoca anteriore, secondo quanto stabilisce l'art. 27, comma quarto. Più precisamente, mentre, in base al terzo comma del citato art. 27, le regole relative alla convenzione di arbitrato, contenute nell'art. 20 e sfociate nel nuovo testo degli articoli da 806 a 808-quinquies cod. proc. civ., si applicano agli accordi stipulati successivamente al 2 marzo 2006, la restante normativa, relativa, da un lato, alla instaurazione e allo svolgimento del procedimento e, dall'altro lato, alla pronuncia, alla efficacia ed alla impugnazione del lodo, contenuta negli artt. 21, 22, 23, 24 e 25 e sfociata negli articoli da 809 a 832 cod. proc. civ., si applica a tutte le domande di arbitrato proposte successivamente al 2 marzo 2006.

Resta, comunque, confermato, come ribadito da Sez. 1, n. 17099 (Rv. 627240), est. Di Virgilio, che il procedimento arbitrale è ispirato alla libertà delle forme e che gli arbitri non sono tenuti all'osservanza delle norme del codice di procedura civile relative al giudizio ordinario di cognizione, a meno che le parti non vi abbiano fatto esplicito richiamo nel conferimento dell'incarico arbitrale, salvo il rispetto delle norme di ordine pubblico, che fissano i principî cardine del processo, di rango costituzionale, quali il principio del contraddittorio, rafforzato dalla specifica previsione della lesione di tale principio come motivo di nullità del lodo, ai sensi dell'art. 829, primo comma, n. 9, cod. proc. civ.

Proprio in applicazione del principio di libertà delle forme, Sez. 1, n. 17099 (Rv. 627239), est. Di Virgilio, con riferimento alla disciplina anteriore alla novella del 2006, pur ritenendo la sola domanda cd. "qualificata", ovvero contenente i tre elementi (intenzione di promuovere il procedimento, formulazione della domanda - comprendente parti, causa petendi e petitum - e designazione dell'arbitro), idonea a produrre gli effetti di salvare l'efficacia del provvedimento cautelare ante causam, di interrompere la prescrizione e di determinare la trascrivibilità, ha ritenuto che l'atto di accesso, privo di uno o più di detti contenuti, sia, comunque, idoneo ad avviare il procedimento, ferma la necessità che gli arbitri assicurino nella prosecuzione il rispetto del principio del contraddittorio.

Sempre in materia di principio del contraddittorio, si è stabilito da Sez. 1, n. 28660 (in corso di massimazione), est. Nazzicone, che il relativo vizio non è di natura formale, ma esige la concreta violazione del diritto di difesa; nella fattispecie, si trattava di un "foglio conclusioni" prodotto dopo l'udienza di discussione innanzi agli arbitri, ad istanza congiunta delle parti (al riguardo, cfr. pure il cap. XXVI, § 2).

2.2. Il termine per l'instaurazione del procedimento.

Nel corso del corrente anno la giurisprudenza di legittimità si è più volte occupata del termine convenzionalmente previsto dalla clausola compromissoria per la promozione del procedimento arbitrale, di cui è stata affermata la natura perentoria da Sez. 1, n. 21468 (Rv. 627929), est. Di Palma, in considerazione della sua funzione, che è quella di segnare il discrimine temporale tra il ricorso alla giustizia arbitrale e l'esercizio del fondamentale diritto alla tutela giurisdizionale e, quindi, il limite di efficacia della deroga all'art. 102, primo comma, Cost.: pertanto, negarne la perentorietà vanificherebbe l'utilità del procedimento arbitrale, che sarebbe proponibile sine die, ed, al contempo, la possibilità di un tempestivo esercizio del diritto garantito a tutti dall'art. 24, primo comma, Cost. Del resto, già la precedente Sez. 2, n. 10599 (Rv. 626310), est. Matera, aveva precisato che la scadenza del termine fissato per l'instaurazione del procedimento arbitrale implica il venir meno del potere decisionale degli arbitri, con conseguente incompetenza degli stessi, ed il risorgere della competenza del giudice ordinario, avendo le parti manifestato, attraverso la fissazione del termine, la volontà di circoscrivere temporalmente la facoltà di sollecitare l'intervento arbitrale.

Relativamente alla individuazione del dies a quo rilevante ai fini del decorso del termine in esame, va menzionata Sez. 1, n. 21468 (Rv. 627930), est. Di Palma, secondo cui, nel caso in cui la clausola compromissoria faccia riferimento al provvedimento amministrativo conclusivo della previa fase di definizione amministrativa di eventuali controversie, è necessaria una manifestazione formale, notificata a mezzo di ufficiale giudiziario, proveniente dal legale rappresentante dell'ente o da un organo a ciò legittimato, che esprima la presa d'atto di una controversia e la volontà di risolverla e che ne contenga una decisione definitiva, non essendo, invece, sufficiente una missiva informale, consistente nella nota del dirigente degli affari legali del comune, che si limiti a rendere edotte le controparti del rigetto della richiesta formulata.

2.3. Nomina, revoca e compenso degli arbitri.

Per quanto concerne la nomina degli arbitri, l'art. 810 cod. proc. civ., che prevede, in caso di inerzia di una delle parti nella nomina del proprio arbitro, l'intervento, su istanza dell'altra parte, del presidente del tribunale, è stato applicato analogicamente da Sez. 1, n. 2189 (Rv. 625404), est. Di Amato, alla clausola compromissoria che rimetta ad un arbitro amichevole, nominato dall'autorità giudiziaria, su istanza della società, la decisione di qualunque controversia insorta tra i soci e la società, ricorrendo l'eadem ratio anche nell'ipotesi di nomina, da parte dell'autorità giudiziaria, dell'unico arbitro su istanza di una specifica parte, che non si attivi, malgrado il sollecito dell'altra parte. Si è, inoltre, esclusa la nullità, per inidoneità a garantire l'imparzialità degli arbitri, della clausola de qua, in quanto non attributiva del potere di nomina dell'arbitro in capo alla società, ma soltanto di quello di provocarne la nomina da parte dell'autorità giudiziaria.

Sez. 1, n. 25735 (in corso di massimazione), est. Di Palma, ha, invece, negato alle parti, nell'arbitrato rituale, il potere di revocare per giusta causa, ai sensi dell'art. 1723 cod. civ., il mandato agli arbitri, in considerazione dei rimedi di tipo diverso previsti dalla disciplina speciale, in particolare la sostituzione dell'arbitro, che omette o ritarda di compiere un atto relativo alle sue funzioni, o la ricusazione: rimedi più coerenti con la natura giurisdizionale dell'istituto, che è alternativo e fungibile rispetto alla giustizia ordinaria. Infine, per quanto concerne la posizione degli arbitri, va ricordato che, secondo Sez. 6-1, ord. n. 24072 (Rv. 628310), rel. Scaldaferri, il diritto di ricevere il pagamento dell'onorario sorge per il fatto di avere effettivamente espletato l'incarico e prescinde dalla validità ed efficacia del lodo, per cui non sussistono i presupposti della sospensione, ex art. 295 o 337 cod. proc. civ., del procedimento instaurato dall'arbitro per ottenere il residuo compenso, già liquidato, in attesa della definizione del giudizio di impugnazione del lodo, la cui eventuale nullità può giustificare solo un'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 813-ter cod. proc. civ. Ad ogni modo, ai sensi del penultimo comma dell'art. 813-ter cod. proc. civ., nei casi di responsabilità dell'arbitro il corrispettivo e il rimborso delle spese non gli sono dovuti o, in caso di nullità parziale del lodo, sono soggetti a riduzione.

2.4. La decisione.

Gli arbitri hanno l'obbligo di decidere su tutto il thema decidendum ad essi sottoposto e non oltre i limiti di esso, come si desume dalla precedente formulazione dell'art. 829, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., che sanzionava con la nullità il lodo arbitrale che ha pronunciato fuori dei limiti del compromesso o non ha pronunciato su alcuno degli oggetti del compromesso (nell'attuale disciplina occorre fare riferimento all'art. 829, comma primo, cod. proc. civ., nn. 4 e 12). Sez. 1, n. 7282 (Rv. 625852), est. Rodorf, ha sottolineato che la regola, sebbene letteralmente espressa, anteriormente alla novella del 2006, con riferimento al compromesso, vale anche riguardo alla clausola compromissoria, in cui il thema decidendum è quello specificato nella domanda posta agli arbitri, non già quello genericamente indicato nella clausola, fermo restando che la cognizione degli arbitri si estende (salvo eventuali ben precisi limiti legali) a qualsiasi aspetto della vicenda, che risulti rilevante ai fini di stabilire se e in qual misura la pretesa fatta valere da una parte sia fondata.

Va sottolineato che, come affermato da Sez. 1, n. 25735, (in corso di massimazione), est. Di Palma, in tema di arbitrato rituale, la potestas iudicandi degli arbitri, che si fonda sulla validità ed efficacia della convenzione di arbitrato, non si esaurisce con una pronuncia di mero rito, che non preclude, pertanto, la promozione di un nuovo procedimento, avente il medesimo oggetto: è stato, perciò, ritenuto valido il lodo decisorio, emesso da un diverso collegio arbitrale all'esito di un nuovo procedimento, dopo una prima pronuncia di non liquet per scadenza dei termini di cui all'art. 820 cod. proc. civ. A tale conclusione si è pervenuti in applicazione del principio generale, vigente nella giustizia arbitrale, come in quella ordinaria, in virtù del quale le parti hanno diritto ad ottenere una decisione di merito, ove ciò sia giuridicamente possibile. Del resto, proprio relativamente al termine per il deposito del lodo, Sez. 2, n. 10599 (Rv. 623310), est. Matera, ha escluso che dalla sua scadenza possa derivare automaticamente la competenza del giudice ordinario, in quanto, in tale modo, si consentirebbe alla parte di sottrarsi all'operatività della clausola compromissoria restando inerte e precludendo al collegio arbitrale la possibilità di decidere.

In tema di arbitrato societario, deve ricordarsi che, ai sensi dell'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003, anche se la clausola compromissoria autorizzi a decidere secondo equità, ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto e con lodo impugnabile, quando, ai fini della pronuncia, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari. Tale disposizione è stata interpetata estensivamente da Sez. 1, n. 28 (Rv. 625190), est. Salvago, così da comprendere non solo le delibere dell'assemblea dei soci, di cui all'art. 2377 cod. civ., ma anche le delibere del consiglio di amministrazione, di cui all'art. 2388 cod. civ., dal momento che entrambe le tipologie di delibere sono impugnabili dal socio davanti all'autorità giudiziaria, in assenza di clausola compromissoria.

3. Impugnazione del lodo.

3.1. Il giudizio di impugnazione.

L'impugnazione dei lodi arbitrali rituali deve essere sempre proposta dinanzi alla corte d'appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato, ai sensi dell'art. 828 cod. proc. civ., che costituisce l'unica disposizione diretta alla determinazione del giudice cui spetta giudicare su detta impugnazione. In applicazione di tale principio, Sez. Un.., n. 16887 (Rv. 629915), est. Rodorf, ha escluso la giurisdizione del Consiglio di Stato, che non può essere inteso come giudice dell'impugnazione del lodo arbitrale alternativo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ed ha ritenuto, in conseguenza di ciò, che il giudice ordinario, siccome giudice naturale dell'impugnazione del lodo, qualora accolga l'impugnazione, ha anche il potere-dovere, salvo contraria volontà di tutte le parti, di decidere nel merito, ai sensi dell'art. 830, secondo comma, cod. proc. civ., a nulla rilevando che la controversia sarebbe stata affidata, ove non fosse stata deferita in arbitri, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Il termine per l'impugnazione del lodo decorre dal giorno in cui è stata effettuata la notificazione a richiesta di parte, in quanto atto idoneo ad esprimere la volontà della parte di porre fine alla fase arbitrale e di fare decorrere i termini per l'impugnazione sia nei confronti del notificando che per la stessa parte notificante, escludendosi rilevanza ad una eventuale comunicazione integrale della cancelleria, anche se effettuata mediante ufficiale giudiziario: in questo senso si è espressa Sez. L, n. 19182 (Rv. 628336), est. Tria, che ha affermato, in un caso relativo ad arbitrato irrituale, la portata generale dell'art. 326 cod. proc. civ., sostenendone l'applicabilità non solo alle sentenze ma anche al lodo arbitrale, sia rituale sia irrituale.

Secondo Sez. 1, n. 12544 (Rv. 626515), est. Di Virgilio, nel giudizio di impugnazione del lodo dinanzi alla corte di appello, disciplinato dagli artt. 827 e ss. cod. proc. civ., non opera, né direttamente, né indirettamente, il regime stabilito dall'art. 183 cod. proc. civ., bensì il regime processuale proprio dell'appello, secondo cui le prove vanno chieste in sede di costituizone, a meno che non sia successiva la loro formazione o la produzione sia resa necessaria a ragione dello sviluppo del processo, in quanto nell'ordinamento processuale vige il principio secondo cui innanzi al giudice adìto con un mezzo di impugnazione si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti allo stesso, in quanto non derogate dalla specifica disciplina del mezzo d'impugnazione di cui si tratta. Tale soluzione è stata reputata conforme al dettato dell'art. 830, comma secondo, cod. proc. civ. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), che, con la locuzione "nuova istruzione", si riferisce ai mezzi di prova diversi da quelli del giudizio arbitrale, e non all'individuazione del momento preclusivo della loro deduzione.

Come noto, il giudizio in esame si suddivide in una fase rescindente, tesa all'eliminazione del lodo, ed in una eventuale fase rescissoria, tesa all'adozione di una nuova decisione. Mentre, secondo l'attuale formulazione dell'art. 830 cod. proc. civ., la fase rescissoria è una ipotesi residuale, nella disciplina dettata dalla legge 5 gennaio 1994, n. 25 il giudice dell'impugnazione era tenuto, salva diversa concorde volontà delle parti, ad esperire il giudizio rescissorio, per cui la sentenza di dichiarazione della nullità del lodo, non esaurendo la controversia tra le parti ma decidendo solo una questione pregiudiziale processuale, è stata qualificata come non definitiva da Sez. 1, n. 3063 (Rv. 625021), est. Bisogni. In proposito, inoltre, va menzionata Sez. 1, n. 14201 (Rv. 626466), est. Ceccherini, secondo cui l'error in procedendo del giudice, che abbia assunto una prova orale senza la preventiva declaratoria di nullità, parziale o totale, del lodo, non consente di attribuire alla corrispondente ordinanza ammissiva il valore di sentenza dichiarativa di una siffatta nullità, ma provoca soltanto la nullità dell'ordinanza medesima, da denunciarsi, peraltro, tempestivamente davanti allo stesso giudice.

La fase rescissoria presuppone la potestas iudicandi degli arbitri e, quindi, la validità ed efficacia della convenzione arbitrale, come sottolineato da Sez. 1, n. 20128 (Rv. 627741), secondo cui, in caso di nullità del lodo per violazione di norme inderogabili sulla composizione del collegio arbitrale, la corte di appello non può far seguire la fase rescissoria alla fase rescindente, in quanto la competenza, da parte del giudice dell'impugnazione, a conoscere del merito presuppone un lodo emesso da arbitri investiti effettivamente di potestas iudicandi. Al riguardo va osservato che, ad avviso di Sez. 1, n. 6208 (Rv. 625937), est. Mercolino, e di Sez. 1, n. 10729 (Rv. 626562), est. Macioce, il difetto di potestas iudicandi del collegio arbitrale (o della legitimatio ad causam delle parti, quale presupposto della potestas iudicandi degli arbitri) può essere rilevato di ufficio nel giudizio di impugnazione, anche in sede di legittimità, indipendentemente dalla sua precedente deduzione nella fase arbitrale, qualora derivi dalla nullità del compromesso o della clausola compromissoria, comportando, quindi, un vizio insanabile del lodo a norma dell'art. 829 cod. proc. civ. Le due pronunce si riferiscono al sistema anteriore alla riformulazione, avvenuta nel 2006, dell'art. 817 cod. proc. civ., che oggi stabilisce che la parte che non eccepisce, nella prima difesa successiva all'accettazione degli arbitri, l'incompetenza di questi per inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione d'arbitrato, non può per questo motivo impugnare il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrabile.

3.2. I motivi di impugnazione.

Il giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale, proponibile nei limiti di cui all'art. 829 cod. proc. civ., si caratterizza quale giudizio a critica vincolata, in cui vige, pertanto, la regola della specificità della formulazione dei motivi, attesa la sua natura rescindente e la necessità di consentire al giudice, ed alla controparte, di verificare se le contestazioni proposte corrispondano esattamente a quelle formulabili alla stregua della suddetta norma. Partendo da tale premessa, Sez. 1, n. 23675 (Rv. 627973), est. Salvago, ha precisato che in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza conclusiva di quel giudizio, il sindacato di legittimità, diretto a controllarne l'adeguata e corretta sua giustificazione in relazione ai motivi di impugnazione del lodo, va condotto soltanto attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione stessa, per cui le censure proposte non possono esaurirsi nel richiamo a principî di diritto, con invito a controllarne l'osservanza da parte degli arbitri e della corte territoriale, ma esigono un pertinente riferimento ai fatti ritenuti dagli arbitri, per rendere autosufficiente ed intellegibile la tesi per cui le conseguenze tratte da quei fatti violerebbero i principî medesimi, nonché l'esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principî di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito.

In merito ai motivi di impugnazione dinanzi alla corte di appello occorre distinguere tra lodo pronunciato secondo diritto e lodo pronunciato secondo equità.

Gli arbitri autorizzati a pronunciare secondo equità sono svincolati, nella formazione del loro convincimento, dalla rigorosa osservanza delle regole del diritto oggettivo, avendo facoltà di utilizzare criteri, principî e valutazioni di prudenza e opportunità che appaiano i più adatti ed equi, secondo la loro coscienza, per la risoluzione del caso concreto, per cui, ai sensi dell'art. 829, comma secondo, ultima parte, cod. proc. civ., il lodo di equità non può essere impugnato per violazione delle norme di diritto sostanziale, o, in generale, per errores in iudicando, che non si traducano nell'inosservanza di norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico, dettate a tutela di interessi generali, non derogabili dalla volontà delle parti, né suscettibili di formare oggetto di compromesso, come ribadito da Sez. 1, n. 16755 (Rv. 627043), est. Di Virgilio. Tuttavia, nella stessa pronuncia è stato confermato che è sempre ammissibile l'impugnazione per la mancata esposizione sommaria dei motivi, ossia per totale carenza di motivazione o per una motivazione che non consenta di comprendere la ratio della decisione e di apprezzare se l'iter logico seguito dagli arbitri, per addivenire alla soluzione adottata, sia percepibile e coerente, visto che l'art. 829, n. 5, cod. proc. civ. richiama l'art. 823, n. 5, dello stesso codice, il quale, nel disporre che il lodo deve contenere l'esposizione sommaria dei motivi, non distingue tra lodo pronunciato secondo diritto e quello pronunciato secondo equità. Ad ogni modo, Sez. 1 n. 23544 (Rv. 628290), est. Macioce, ha evidenziato che nel caso in cui le parti abbiano autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità, l'impugnazione del lodo arbitrale per inosservanza di regole di diritto resta inammissibile anche qualora gli arbitri abbiano in concreto applicato norme di legge, ritenendole corrispondenti alla soluzione equitativa della controversia, non risultando, per questo, trasformato l'arbitrato di equità in arbitrato di diritto.

Va, infine, ricordato che né in sede di giudizio dinanzi alla corte di appello, né in sede di giudizio di legittimità è possibile una nuova valutazione dei fatti e delle prove oggetto di esame da parte degli arbitri. A tale regola si collegano:

Sez. 1, n. 17097 (Rv. 627222), est. Forte, la quale ha escluso che possa essere contestata, nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo, la valutazione dei fatti dedotti dalle parti nel giudizio arbitrale e delle prove acquisite nel corso del procedimento, ammettendo, invece, l'impugnazione del lodo per nullità con riguardo all'errore di diritto concernente l'esistenza e gli effetti di un contratto;

Sez. 1, n. 18136 (Rv. 627400), est. Di Virgilio, che ha ritenuto inammissibile il motivo del ricorso per cassazione, formulato avverso la sentenza della corte territoriale ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., con il quale il ricorrente riproponga questioni di fatto già oggetto della decisione arbitrale, atteso che il controllo della Suprema Corte non può mai consistere nella rivalutazione dei fatti, neppure in via di verifica della adeguatezza e congruenza dell'iter argomentativo seguito dagli arbitri.

3.3. Limiti all'impugnazione.

Si sta consolidando l'orientamento che esclude il ricorso straordinario per cassazione avverso i provvedimenti concernenti il compenso degli arbitri. Sez. 1, n. 3069 (Rv. 625200), est. Di Virgilio, ha ritenuto inammissibile, anche nel regime previsto dall'art. 814 cod. proc. civ. nella nuova formulazione introdotta dall'art. 21 del d.lgs. n. 40 del 2006, tale mezzo di impugnazione avverso l'ordinanza resa dalla corte di appello in sede di reclamo contro il provvedimento del competente presidente del tribunale, relativa alla quantificazione del compenso, trattandosi di provvedimento adottato nell'ambito di una attività non giurisdizionale contenziosa ma sostanzialmente privatistica e, dunque, priva di natura decisoria ed attitudine al giudicato. Alla stessa conclusione è pervenuta anche Sez. 1, n. 23086 (Rv. 628176), est. Salvago, secondo cui l'ordinanza emessa dal presidente del tribunale, con la quale vengono determinati, in difetto di preventiva quantificazione contrattuale, le spese e l'onorario degli arbitri irrituali è insuscettibile di impugnazione con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost. dal momento che la decisione che conclude il procedimento è sfornita pure dell'attitudine a divenire "sentenza" ed il compenso dovuto agli arbitri irrituali si connota come debito ex mandato, per l'adempimento del quale è attivabile un ordinario giudizio di cognizione.

L'impugnazione per nullità del lodo è un rimedio esperibile solo ed esclusivamente in caso di arbitrato rituale, poiché nell'arbitrato irrituale le parti intendono affidare all'arbitro la soluzione di una controversia attraverso uno strumento strettamente negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibili alla loro volontà, impegnandosi considerare la decisione degli arbitri come espressione di tale personale volontà: così Sez. 1, n. 24552 (Rv. 628197), est. Salvago, ha ritenuto legittimamente esperibile la sola azione per eventuali vizi del negozio, da proporre con l'osservanza delle norme ordinarie sulla competenza e del doppio grado di giurisdizione, ancorché il provvedimento sia stato depositato e reso esecutivo ai sensi dell'art. 825 cod. proc. civ. In questo stesso senso Sez. 2, n. 25258 (oggetto di massimazione provvisoria), est. Giusti, ha affermato che il mezzo di impugnazione del lodo arbitrale deve essere individuato in base alla natura dell'atto concretamente posto in essere dagli arbitri e non dell'arbitrato come previsto dalle parti, per cui, se è stato pronunciato un lodo irrituale nonostante che alcune delle parti sostengano di avere, in realtà, pattuito una clausola per arbitrato rituale, il lodo medesimo deve essere impugnato, sia pure allo scopo di far valere il carattere rituale dello stesso, non innanzi alla corte di appello, a norma dell'art. 828 cod. proc. civ., ma in base alle norme ordinarie sulla competenza e con l'osservanza del doppio grado di giurisdizione, facendo valere i vizi di manifestazione della volontà negoziale.

Tali decisioni risultano coerenti con la precedente Sez. L, n. 19182 (Rv. 628335), est. Tria, la quale, riguardo all'arbitrato irrituale, ha precisato che il decreto del presidente del tribunale che abbia dichiarato esecutivo il lodo, non avendo i caratteri della decisorietà e della definitività, visto che non incide su diritti e può essere rimosso con i mezzi processuali apprestati dall'ordinamento, non ne preclude l'impugnazione, sempre esperibile salvo che, in forza del disposto dell'art. 412-quater, secondo comma, cod. proc. civ., nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dall'art. 31, comma 8, legge 4 novembre 2101, n. 183, le parti abbiano dichiarato per iscritto di accettare la decisione.

Delle limitazioni volontarie all'impugnabilità del lodo si è occupata Sez. 1, n. 12543 (Rv. 626516), est. Di Virgilio, precisando che, nel regime anteriore al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, in cui l'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa solo se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, le parti possono escludere tali motivi di impugnazione, con apposita dichiarazione di non impugnabilità, solamente nell'ipotesi regolata dall'art. 829, secondo comma, cod. proc. civ. e non anche per l'impugnazione prevista dall'art. 829, primo comma, nn. 1-9, cod. proc. civ.

4. Rapporti tra giustizia arbitrale e giustizia ordinaria o speciale.

Viene, ormai, pacificamente riconosciuta la natura giurisdizionale del procedimento di arbitrato rituale, sostitutivo del giudizio ordinario. Tale arresto è stato consacrato da Sez. Un., ord. n. 24153, (Rv. 627788), rel. Segreto, secondo cui l'attività degli arbitri rituali, alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza; sebbene la statuizione del collegio arbitrale, che pronunci sulla propria competenza, non sia impugnabile con il regolamento di competenza, secondo Sez. 6-1, ord. 19268 del 2012 (Rv. 624314), emergendo chiaramente dal tenore letterale dell'art. 819-ter cod. proc. civ. che il legislatore ne ha consentito l'utilizzo esclusivamente in ordine alla impugnazione della pronuncia del medesimo tenore resa da un giudice ordinario.

Sez. 1, ord. 3826 (Rv. 625311), rel. Mercolino, ha ribadito, conformemente a Sez. Un., ord. n. 19047 (Rv. 614353), rel. Salmè, che l'impugnabilità, ai sensi dell'art. art. 819-ter cod. proc. civ., con regolamento di competenza, necessario o facoltativo, della sentenza del giudice di merito, che afferma o nega la propria competenza rispetto a quella degli arbitri, è ammissibile soltanto in relazione a sentenze pronunciate con riferimento a procedimenti arbitrali iniziati successivamente alla data del 2 marzo 2006, disponendo in tal senso, con formulazione letterale inequivoca, la norma transitoria dettata dall'art. 27, comma 4, dell'anzidetto d.lgs. n. 40: deve, pertanto, escludersi che l'operatività della nuova disciplina possa ancorarsi a momenti diversi, quale quello dell'inizio del giudizio dinanzi al giudice ordinario nel quale si pone la questione di deferibilità agli arbitri della controversia ovvero quello della data di pubblicazione della sentenza del medesimo giudice che risolve la questione di competenza.

Come sottolineato dalle citate Sez. Un., ord. n. 24153 (Rv. 627788), rel. Segreto, dà luogo, invece, ad una questione di giurisdizione il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile.

Deve, peraltro, ricordarsi che la Corte Costituzionale, con sentenza del 16 luglio 2013, n. 223, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l'applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all'articolo 50 del codice di procedura civile.

Va, infine, menzionata Sez. 1, ord. 3826 (Rv. 625312), rel. Mercolino, secondo cui, in tema di arbitrato, il primo periodo dell'art. 819-ter, primo comma, cod. proc. civ., nel prevedere che la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice ordinario, implica, in riferimento all'ipotesi in cui sia stata proposta una pluralità di domande, da un lato che la sussistenza della competenza arbitrale deve essere verificata con specifico riguardo a ciascuna di esse, non potendosi devolvere agli arbitri (o al giudice ordinario) l'intera controversia in virtù del mero vincolo di connessione, dall'altro che l'eccezione d'incompetenza dev'essere sollevata con specifico riferimento alla domanda o alle domande per le quali è prospettabile la dedotta incompetenza.

5. Arbitrato estero.

Particolarmente significativo è il revirement di Sez. Un., ord. n. 24153 (Rv. 627788), rel. Segreto, che, in conseguenza dell'ormai riconosciuta funzione giurisdizionale dell'arbitrato rituale, sostitutivo della giustizia ordinaria, come si ricava sia dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e sia dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha ammesso che, proposta l'eccezione di arbitrato estero, sia esperibile il regolamento di giurisdizione: eccezione di rito e non di merito, rilevabile in qualsiasi stato e grado del processo a condizione che il convenuto non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana, e, dunque, a condizione che il convenuto ne abbia, nel suo primo atto difensivo, lamentato la carenza. È stato, quindi, superato il precedente orientamento delle Sez. Un., n. 10723 del 2002 (Riv. 556088), che escludeva il regolamento preventivo di giurisdizione rivolto a far valere la carenza di giurisdizione del giudice adìto, così come di ogni altro giudice della Repubblica italiana, a fronte della presenza di un compromesso, o di una clausola compromissoria, che prevedano il ricorso ad un arbitrato con sede all'estero. Tale orientamento si fondava su premesse, ormai, completamente superate e, cioè, sull'inquadramento della relativa questione nell'ambito delle problematiche di merito e non già di giurisdizione, derivante dalla qualificazione del lodo come atto di autonomia privata e dal mancato riconoscimento agli arbitri di funzioni giurisdizionali.

Nella stessa pronuncia delle Sez. Un., ord. n. 24153 (Rv. 627788), rel. Segreto, si è chiarito che, come si evince dalla convenzione di New York del 10 giugno 1958, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 19 gennaio 1968, n. 62, spetta al giudice adìto, in via assolutamente preliminare, senza efficacia di giudicato e sulla base della domanda della parte che invochi l'esistenza di una clausola arbitrale, verificarne la validità, l'operatività e l'applicabilità e, all'esito positivo, rimettere le parti dinanzi agli arbitri, mentre solo qualora egli ritenga, affermandola, la propria giurisdizione, la decisione sulla validità del patto avrà efficacia di giudicato.

6. Arbitrato internazionale.

Con riferimento all'arbitrato internazionale, previsto dall'art. 832 cod. proc. civ., nella formulazione anteriore alla riforma del 2006, ma oggi eliminato, Sez. 1, n. 22338 (Rv. 627924), est. Campanile, ha confermato che:

- l'arbitrato internazionale non può che essere rituale, nonostante la diversa qualificazione ad opera delle parti, in quanto il sistema delineato prevede unicamente una specifica figura di arbitrato rituale idonea a superare i confini domestici;

- ai fini della qualificazione di un arbitrato come internazionale, il criterio oggettivo della rilevanza, da valutare alla stregua della situazione esistente alla data del contratto o della clausola compromissoria e non dell'insorgenza della lite, esige che una parte significativa delle prestazioni nascenti dal rapporto, al quale la controversia si riferisce, debba essere eseguita all'estero, mentre esclude che siano internazionali gli arbitrati previsti per controversie relative a parti secondarie, accessorie o di poco conto delle prestazioni da eseguire all'estero o che sia necessaria la prevalenza di parte delle prestazioni da eseguire in altro Stato.

7. Arbitrato rituale ed irrituale.

Di fondamentale importanza al fine dell'individuazione della disciplina applicabile e soprattutto, come già visto, dell'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile è la delimitazione del confine tra i diversi istituti dell'arbitrato rituale ed irrituale, oggi facilitata alla luce dell'art. 808-ter, comma primo, cod. proc. civ., da cui si desume che, in mancanza di una manifestazione di volontà espressa e scritta, che preveda la definizione della controversia mediante determinazione contrattuale, si applica la disciplina dell'arbitrato rituale. La pattuizione dell'arbitrato irrituale determina, difatti, l'inapplicabilità di tutte le norme dettate per quello rituale, come sottolineato da Sez. 6-3, ord. n. 1158 (Rv. 625054), rel. Frasca, la quale ha escluso l'impugnazione con regolamento di competenza della decisione del giudice ordinario, che affermi o neghi l'esistenza o la validità di un arbitrato irrituale, e che, dunque, nel primo caso non pronunci sulla controversia dichiarando che deve avere luogo l'arbitrato irrituale e nel secondo dichiari, invece, che la decisione del giudice ordinario può avere luogo.

Nell'anno corrente si segnalano:

Sez. L, n. 19182 (Rv. 628337), est. Tria, che ha qualificato di natura irrituale, salva una diversa pattuizione espressa, le procedure arbitrali riguardanti controversie di lavoro privato - sia che siano previste dalla legge che dalla contrattazione collettiva o nelle clausole compromissorie inserite nello statuto e nei regolamenti federali delle Federazioni sportive - nonché quelle concernenti controversie in materia di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego contrattualizzato, a decorrere dalla vigenza dell'art. 59-bis del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 20 introdotto dall'art. 28, d.lgs. 21 marzo 1998, n. 80 (corrispondente all'art. 56, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), operante a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo di settore, facendone discendere l'impugnabilità ex art. 412, comma 2-quater, cod. proc. civ. (nella formulazione anteriore all'art. 31, comma 8, della l. 4 novembre 2010, n. 183) solo per vizi idonei ad inficiare la determinazione arbitrale per alterata o falsa percezione dei fatti o per inosservanza di disposizioni inderogabili di legge o contratti collettivi, in unico grado dinanzi al tribunale giudice del lavoro e l'inammissibilità dell'eventuale impugnazione proposta erroneamente alla corte di appello;

Sez. L, n. 21349 (in corso di massimazione), est. Berrino, che ha qualificato come rituale, in materia di pubblico impiego privatizzato, l'impugnativa di sanzione disciplinare innanzi al collegio arbitrale di disciplina, ai sensi dell'art. 59 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, come modificato dall'art. 27 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546 (oggi abrogato dal d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ma applicabile ratione temporis), con conseguente impugnabilità dinanzi alla corte di appello, nella cui circoscrizione ha sede l'arbitrato.