Introduzione

INTRODUZIONE

Quest’anno la Rassegna del Massimario propone una ricognizione della giurisprudenza penale attraverso una trattazione unitaria delle decisioni pronunciate dalle Sezioni unite e dalle Sezioni semplici, nel tentativo di offrire un quadro degli itinerari interpretativi di legittimità che rimarchi l’appartenenza alla Corte di Cassazione, nella sua interezza, della funzione nomofilattica.

Infatti, se è vero che il numero esorbitante dei ricorsi e dei conseguenti contrasti che inevitabilmente insorgono all’interno della Corte di cassazione, esaltano e rendono sempre più prezioso il ruolo delle Sezioni unite in vista di una sintesi dell’interpretazione giurisprudenziale che assicuri il valore del precedente attraverso l’autorevolezza della decisione, tuttavia non può negarsi che alla formazione del diritto vivente contribuiscano in maniera significativa le Sezioni semplici, che si trovano giornalmente a dover interpretare una realtà in continua e talvolta frenetica mutazione, assicurando un’evoluzione equilibrata del diritto volta a superare ora la fissità di soluzioni legislativamente predeterminate ora l’inattualità delle risposte giudiziarie.

Nella Rassegna si è reso necessario operare delle scelte e in questa attività preliminare di selezione sono state individuate, quasi naturalmente, quelle pronunce attraverso cui la Cassazione si propone, anche, come la “Corte dei diritti”.

Le decisioni sono suddivise in tre parti. La prima riguarda la materia del diritto penale sostanziale e propone un’esposizione della giurisprudenza riferita sia alla parte generale del codice, in cui, ad esempio, sono riportate le decisioni sulla problematica della successione delle leggi nel tempo, sia, soprattutto, alla parte speciale, in cui tra

l’altro si è fatto riferimento alle sentenze intervenute dopo la riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, di cui alla legge n. 190 del 2012.

La seconda parte è dedicata al processo, con particolare attenzione alle soluzioni con cui la giurisprudenza ha recepito alcune decisioni delle Corti europee, ad esempio in relazione al problema della reformatio in pejus; inoltre, una attenta riflessione viene riservata alla materia cautelare e a quella delle impugnazioni.

Nell’ultima parte sono stati presi in considerazione alcuni settori della legislazione penale complementare, individuando quelli che più di altri impegnano le Sezioni della Corte – anche dal punto di vista quantitativo - e che hanno una indubbia rilevanza sul piano sociale ed economico, come la disciplina penale degli stupefacenti, il diritto dell’immigrazione, i reati fallimentari; inoltre, è sembrato opportuno inserire in questa parte anche l’intera materia della criminalità organizzata, con riferimento anche agli aspetti processuali ad essa direttamente collegati.

Il risultato è una esposizione in cui sono evidenziate le decisioni rispetto alle quali il giudice di legittimità ha finito per consolidare la sua funzione di sintesi dell’interpretazione della legge, favorendo l’obiettivo della prevedibilità del dictum, dando luogo ad un diritto giurisprudenziale in cui la soluzione, anche quando fortemente innovativa, non travalica il principio di legalità penale.

Nella materia del diritto sostanziale si deve sottolineare l’importanza che riveste oggi nella giurisprudenza della Corte il principio di offensività e il suo rilievo in una fase storica in cui il diritto penale della “società del rischio” si caratterizza sempre più per la presenza dei reati di pericolo astratto, che presuppongono un’estensione delle

forme di tutela anticipata; nel diritto processuale l’attenzione della giurisprudenza di legittimità si è concentrata tanto sull’esigenza di garantire il principio della ragionevole durata del processo, quanto sulla valorizzazione della garanzia del contraddittorio, spinta anche dalle pressioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.

E’ una Cassazione bifronte quella che emerge dalla radiografia del Massimario, impegnata a svolgere fino in fondo, tra mille difficoltà, la funzione di Corte Suprema, ma attenta anche alla “giustizia” della soluzione del caso concreto, attraverso un’opera ermeneutica moderna, inserita in un continuo processo di adattamento del diritto alla realtà, che la colloca al centro di un sistema complesso di fonti multilivello, lontano anni luce da un modello di giurisdizione che si limita a dichiarare la voluntas legis secondo una visione giuspositivistica, che ormai appare superata anche negli ambienti penalistici, tradizionalmente più legati alla tradizione illuministica.

Peraltro, la valorizzazione del momento interpretativo risulta oggi ancor più in evidenza per effetto di quello che è stato definito, efficacemente, come il moderno “labirinto” entro cui il giudice, anche quello di legittimità, è costretto a muoversi: il sistema penale è sempre più spesso esposto alle sollecitazioni provenienti dalle fonti sovranazionali e dagli effetti del “dialogo delle Corti”, sollecitazioni rispetto alle quali la Corte di cassazione assume un ruolo attivo, sviluppando le sollecitazioni provenienti dal sistema complesso di pluralismo normativo e offrendone applicazioni razionali, come dimostrano le decisioni che hanno seguito alcuni interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo, ad esempio in materia di successione di leggi ovvero di riqualificazione giuridica del fatto, di cui si dà conto nella Rassegna.

Resta da dire che l’analisi delle decisioni della Corte di cassazione messe a disposizione della comunità dei giuristi è frutto di un lavoro collettivo a cui tutti i magistrati dell’Ufficio del Massimario, nella sua rinnovata composizione, hanno partecipato, in uno sforzo comune, teso, da un lato, ad indicare alcuni dei percorsi interpretativi della giurisprudenza di legittimità e, dall’altro, a metterne in luce le ricadute sul sistema penale.

Infine, questa è anche l’occasione per ringraziare i colleghi Gastone Andreazza, Sergio Beltrani, Gaetano De Amicis e Luca Pistorelli che lasciano il Massimario dopo una lunga e apprezzata collaborazione, durante la quale hanno avuto modo di dimostrare la loro profonda competenza e serietà professionale, costantemente accompagnata da una appassionata dedizione all’Ufficio, di cui sono stati autentici punti di riferimento.

 

Roma, 20 gennaio 2014

Giuseppe Maria Berruti - Giorgio Fidelbo

PARTE PRIMA LE DECISIONI IN MATERIA DI DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

Sommario

0 Premessa.

0. Premessa.

E' oggettivamente difficile riuscire ad individuare un filo comune attraverso cui è possibile leggere le numerose e variegate decisioni della Cassazione nel corso del 2013 che, occupandosi della cd. parte sostanziale ed in particolare dei reati di parte speciale del codice, nel prosieguo saranno oggetto specifico di trattazione.

Già, però, questa affermazione giustifica una prima osservazione; è in significativo aumento il numero delle sentenze della Corte e delle relative massime che si sono occupate di questioni di diritto sostanziale, sia connesse alla parte generale e speciale del codice penale, sia ai numerosi reati previsti dalle purtroppo troppe norme di legislazione speciale.

In questo senso, è già possibile individuare un netto cambio di marcia rispetto ad un più recente passato che aveva visto una netta e decisa prevalenza dell'esame delle problematiche processuali e che aveva fatto pensare a qualcuno che, con il nuovo codice di rito, parte rilevante dell'esito dei processi si giocasse non più sull'esame e sull'individuazione degli esatti confini della norma incriminatrice, ma sui tantissimi aspetti problematici del rito medesimo, resi ancora più complessi da una legislatura alluvionale e spesso scarsamente coordinata.

Dimostrano in modo plastico questa inversione di tendenza le numerose ed importanti questioni di diritto sostanziale sottoposte alle Sezioni unite, di cui si farà pure cenno nel prosieguo ed il dibattito particolarmente vivace che si è sviluppato nella giurisprudenza di legittimità su numerose tematiche.

Valga da esempio quanto è accaduto fin da subito dopo l'entrata in vigore di una delle leggi più importanti degli ultimi anni, quella cd. anticorruzione, approvata soltanto nel novembre del 2012.

Le questioni affrontate e le sentenze sul punto emesse (con l'intervento a fine anno delle stesse sezioni Unite) sono, probabilmente, numericamente un caso senza precedenti per una legge così recente, che, però, aveva un'incidenza su uno dei settori più delicati dell'intervento repressivo e cioè quello dei reati contro la pubblica amministrazione.

Ma non minore è stato il dibattito che si è segnalato anche su tematiche per certi versi più tradizionali, come quella relativa ai rapporti fra il delitto di furto ed alcune circostanze aggravanti e attenuanti o quello che ha riguardato le fattispecie in tema di omessa corresponsione dell'assegno divorzile o della violazione degli obblighi di assistenza, questioni entrambe che hanno visto l'intervento dirimente delle Sezioni unite.

Volendo, poi, provare - con i limiti di cui si è già fatto cenno - ad individuare un trend unitario della giurisprudenza si può affermare con assoluta tranquillità che è parsa costante l'attenzione della nomofilachia, sia nella sua massima espressione delle sezioni unite sia in quella delle sezioni cd semplici, alla necessità di individuare gli esatti confini della punibilità, in ossequio a quelli che sono i principi cardine di uno stato democratico di diritto e cioè quelli di tassatività e determinatezza.

Solo, infatti, quello che sempre più spesso viene definito il diritto vivente - e cioè la lettura consolidata delle norme fornita dalla giurisprudenza, soprattutto di legittimità - è in grado di assicurare il rispetto vero di questi principi cardine, evitando, cioè, che il principio di legalità venga sostanzialmente "svuotato" da letture eccessivamente ampliative del precetto.

In questa medesima funzione, la bussola che ha orientato la Corte nella interpretazione delle norme incriminatrici è sembrata sempre più ancorata al principio di concreta offensività, nella prospettiva della gerarchia di valori che promana non solo più dalla Carta Costituzionale, ma anche dalle convenzioni internazionali, da considerarsi, in virtù dell'art. 117 cost., norme sovraordinate alle leggi ordinarie e come tali criteri determinanti per orientare l'attività ermeneutica in un senso o in un altro.

Nell'esame delle tante questioni di seguito trattate, si può anticipare che l'offensività è certamente una delle parole più usate e quel principio è stato il criterio che ha consentito di sbrogliare molte questioni ermeneutiche che la mera lettura della norma, anche in chiave sistematica, aveva reso poco agevole.

  • diritto penale

CAPITOLO I

LA SUCCESSIONE DELLE LEGGI PENALI NEL TEMPO

Sommario

1 Un filo comune nelle decisioni della Corte: il rispetto del principio di cui all'art. 25 Cost. - 2 Le pronunce delle Sezioni unite. - 3 Le pronunce delle Sezioni semplici sui profili di carattere generale della disciplina della successione di leggi nel tempo. - 4 Le pronunce delle Sezioni semplici sull'applicazione a singole fattispecie della disciplina della successione di leggi nel tempo.

1. Un filo comune nelle decisioni della Corte: il rispetto del principio di cui all'art. 25 Cost.

Nel corso del 2013, la tematica della successione delle leggi penali nel tempo è stata oggetto di una pluralità di pronunce della Corte di Cassazione, su numerosi aspetti del fenomeno.

La materia, innanzitutto, è stata interessata da quattro decisioni delle Sezioni Unite che hanno affrontato il problema con riferimento alla confisca per equivalente, al diritto penale tributario, ed all'applicazione della legge 'intermedia' più favorevole in relazione alla sentenza della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo n. 10249/03 del 17 settembre 2009, nel caso Scoppola contro Italia.

La giurisprudenza delle Sezioni semplici, poi, ha esaminato sia profili di carattere generale, sia problemi applicativi relativi a singole fattispecie.

Per quanto attiene al primo aspetto, sono da registrare le sentenze che hanno analizzato i temi della rilevabilità della "abolitio criminis" in sede esecutiva, degli effetti delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale incidenti sulla determinazione della pena, della successione di leggi temporanee ed eccezionali, dell'applicabilità dell'art. 2 cod. pen. anche alle disposizioni relative all'esecuzione penale; vanno segnalate, inoltre, le decisioni che hanno concorso ad ulteriormente precisare i limiti di operatività della legge 'intermedia' più favorevole in relazione alla citata sentenza della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nel caso Scoppola contro Italia.

Con riferimento all'applicazione della disciplina generale a singole fattispecie, poi, vengono in rilievo le sentenze che hanno trattato la questione avendo riguardo ai reati contro la Pubblica Amministrazione interessati dalla riforma introdotta con la legge 6 novembre 2012, n. 190, al reato di pedopornografia come modificato dalla legge 1 ottobre 2012, di esecuzione della Convenzione di Lanzarote, e alle sanzioni relative al reato di guida sotto l'influenza di alcool.

Un quadro, quindi, particolarmente variegato capace però di dimostrare la partecipare attenzione della Corte al rispetto dell'art. 2 del cod. pen., norma quest'ultima direttamente collegata al principio basilare di cui all'art. 25 Cost.

2. Le pronunce delle Sezioni unite.

Iniziando l'esame dalle sentenze della Sezioni unite, di esse si farà menzione utilizzando un ordine cronologico.

La prima di esse, in questa prospettiva, è Sez. Un, 31 gennaio 2013 - dep. 23 aprile 2013, n. 18374, Adami, Rv. 255037, che si è occupata dell'applicazione della disciplina dell'art. 2 cod. pen. alla confisca cd per equivalente in tema di reati tributari e di quelli aventi carattere di transnazionalità.

La pronuncia, in particolare, ha affermato - in linea con quanto già evidenziato dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza delle Sezioni semplici - che l'istituto della confisca per equivalente ha natura eminentemente sanzionatoria e che, pertanto, ad essa non si estende la regola della retroattività prevista dall'art. 200 cod. pen. per le misure di sicurezza, con la conseguenza che la misura ablatoria può essere adottata solo con riferimento ai reati commessi dopo l'entrata in vigore della legge che la prevede in relazione ad essi. Nella fattispecie sottoposta all'esame della Corte, si è ritenuto utilizzabile lo strumento di repressione patrimoniale anche con riferimento a reati tributari commessi in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge n. 244 del 2007, e però successiva all'entrata in vigore della legge n. 146 del 2006, se aggravati, a norma dell'art. 4 di quest'ultima legge, per essere stati perpetrati con il contributo di un gruppo criminale 'transnazionale'.

Sez. Un., 28 marzo 2013, dep. 12 settembre 2013, n. 37424, Romano, Rv. 255758 e Sez. Un., 28 marzo 2013, dep. 12 settembre 2013, n. 37425, Favellato, Rv. 255760 si sono invece occupate della successione delle leggi nel tempo con riferimento a fattispecie di diritto penale tributario.

Precisamente, la sentenza Romano, ha affermato che il reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, introdotto dall'art. 35, comma 7, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 - che punisce il mancato adempimento dell'obbligazione tributaria entro la scadenza del termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta dell'anno successivo - è applicabile anche all'omissione dei versamenti riguardanti l'anno 2005.

A fondamento di tale conclusione, la pronuncia ha innanzitutto rappresentato che l'illecito penale di cui all'art. 35, comma 7, d.l. n. 223 del 2006 (che ha introdotto l'art. 10 ter nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), rispetto al già vigente illecito amministrativo di cui all'art. 13, comma 1, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, non ha determinato la "sostituzione di un regime sanzionatorio ad un altro" e, quindi, un fenomeno di "successione di norme sanzionatorie", ma si è posta in rapporto di "progressione": la fattispecie penale, si rileva, pur se collocabile "nell'ambito dello stesso fenomeno omissivo", è però "ancorata a presupposti fattuali e temporali nuovi e diversi", sicché la diversità di elementi costitutivi consente "la concorrente applicazione di entrambi gli illeciti", senza violazione del principio del "ne bis in idem". Muovendo da questa osservazione, ed evidenziando perciò che "la condotta penalmente rilevante non è l'omissione del versamento periodico nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento dell'IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale nel maggiore termine stabilito per il versamento dell'acconto IVA relativo al periodo d'imposta dell'anno successivo", e cioè entro il 27 dicembre 2006, si è aggiunto che la determinazione di non adempiere gli obblighi tributari in questione, "che dà luogo alla commissione del reato, si colloca … in un'epoca ampiamente successiva alla introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, alla quale non può pertanto, attribuirsi un effetto retroattivo".

La sentenza Favellato, a sua volta, ha rilevato che il reato di omesso versamento di ritenute certificate, introdotto dall'art. 1, comma 414, legge 30 dicembre 2004, n. 311, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, che punisce il mancato adempimento dell'obbligazione tributaria entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta relativo all'esercizio precedente, è applicabile anche all'omissione dei versamenti riguardanti l'anno 2004.

Le argomentazioni di questa decisione sono analoghe a quelle della precedente.

Anche questa pronuncia, infatti, ha posto a base del suo assunto la premessa secondo cui l'illecito penale di cui all'art. 1, comma 414, legge n. 311 del 2004 (che ha introdotto l'art. 10 bis nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), rispetto al già vigente illecito amministrativo di cui all'art. 13, comma 1, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, non ha determinato la "sostituzione di un regime sanzionatorio ad un altro" e, quindi, un fenomeno di "successione di norme sanzionatorie", ma si pone in rapporto di "progressione": anche in questo caso, si osserva, la previsione incriminatrice arricchisce la fattispecie costituente illecito amministrativo di elementi essenziali ulteriori e di "decisivi segmenti comportamentali … che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell'illecito amministrativo", sì da escludere che la concorrente applicazione di entrambe le sanzioni costituisca violazione del divieto del "ne bis in idem". In ragione di ciò, siccome quindi "la condotta penalmente rilevante non è l'omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento delle ritenute certificate nel maggior termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell'anno precedente", e cioè il 30 settembre o il 31 ottobre 2005, la risoluzione di non adempiere gli obblighi tributari in questione, "che dà luogo alla commissione del reato, si colloca … in un'epoca ampiamente successiva alla introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, alla quale non può pertanto, attribuirsi un effetto retroattivo".

La sentenza Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano (la cui motivazione non è stata ancora depositata e della quale si conosce, quindi, la sola informazione provvisoria), ha esaminato e risolto affermativamente la questione dell'applicazione, in sede di esecuzione, della legge 'intermedia' più favorevole in relazione ai condannati che - pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479 (la quale prevedeva per tale rito la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione di anni trenta) - sono stati giudicati dopo l'entrata in vigore del d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (il quale dispone retroattivamente la sostituzione della pena dell'ergastolo, nel caso sia da irrogare anche l'isolamento diurno, con quella dell'ergastolo), ed hanno subito l'applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio. La pronuncia segue la sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 2013, che, investita con ordinanza delle Sez. Un., 19 aprile 2012 (dep. 10 settembre 2012), n. 34472, Ercolano (Rv. 252934), emessa in relazione al medesimo ricorso, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 7, comma 1, del d.l. n. 341 del 2000 in riferimento all'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo come norma interposta ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione.

3. Le pronunce delle Sezioni semplici sui profili di carattere generale della disciplina della successione di leggi nel tempo.

La giurisprudenza delle Sezioni semplici ha analizzato diversi aspetti afferenti alla disciplina generale del fenomeno della successione di leggi penali nel tempo.

Il tema della abolitio criminis dopo il passaggio in giudicato della condanna è stato trattato dalla sentenza Sez. I, 10 gennaio 2013 - dep. 5 febbraio 2013, n. 5751, Sejdic, Rv. 254529.

Questa decisione, in linea con un risalente orientamento (cfr. Sez. I, 29 ottobre 1993, dep. 2 dicembre 1993, n. 11081, Papa, Rv. 197551), ha affermato che la disposizione contenuta nell'art. 673 cod. proc. pen. "dà attuazione al principio stabilito dall'art. 2 c.p.", e che detto principio - secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali - "si applica non solo in caso di abrogazione espressa della norma incriminatrice, ma anche in caso di abrogazione tacita". Ha poi rilevato che l'abrogazione tacita ricorre tanto se vi sia incompatibilità delle nuove disposizioni con quelle precedenti, quanto se la nuova legge provveda a regolare l'intera materia disciplinata da quella anteriore. La pronuncia, quindi, in attuazione del principio enunciato, ha disposto la revoca della sentenza irrevocabile di condanna nei confronti di uno straniero irregolare sul territorio dello Stato che non aveva ottemperato all'ordine di esibire un documento di identità, rilevando che tale condotta non costituisce più reato dopo le modifiche introdotte all'art. 6, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, dalla legge 15 luglio 2009, n. 94.

L'aspetto della nozione di "legge penale" rilevante a norma dell'art. 2 cod. pen., è stato esaminato dalle sentenze Sez. I, 5 febbraio 2013, dep.12 marzo 2013, n. 11580, Schirato, Rv. 255310 e Sez. VI, 25 gennaio 2013, dep. 23 luglio 2013, n. 31957, Cordaro, Rv. 255598.

Sez. I, Schirato, ha affermato, in linea con un risalente e non contrastato orientamento (cfr., in particolare, Sez. unite, 30 maggio 2006, dep. 17 luglio 2006, n. 24561, Aloi, Rv. 233976), che le regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo non si applicano alle disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, giacché queste attengono all'esecuzione e non all'irrogazione della pena e sono perciò sottoposte al principio "tempus regit actum".

Sez. VI, Cordaro, invece, ha approfondito il tema dell'operatività della disciplina prevista dall'art. 2 cod. pen. alle obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato, muovendo dall'analisi della peculiare fattispecie della vittima di concussione per induzione a norma dell'art. 317 cod. pen. ante legge n. 190 del 2012. La sentenza è giunta ad accogliere la soluzione negativa, e ritenuto invece applicabili in materia i principi generali fissati dall'art. 11 disp. prel. cod. civ., osservando, in particolare, che l'art. 2 cod. pen. "disciplina espressamente la sola cessazione dell'esecuzione e degli effetti penali della condanna", e che una diversa interpretazione produrrebbe retroattivamente non solo effetti favorevoli per l'imputato, ma anche effetti sfavorevoli per il danneggiato.

Sez. VI, 16 maggio 2013, dep. 22 maggio 2013, n. 21982, Ingordini, Rv. 255674, e Sez. I, 23 aprile 2013, dep. 2 luglio 2013, n. 28468, Facchineri (Rv. 256118), e l'ordinanza Sez. I, 20 novembre 2013, Gatto, (la cui motivazione non è stata ancora depositata) affrontano, poi, il problema degli effetti delle decisioni della Corte costituzionale che dichiarano l'illegittimità di disposizioni incidenti sulla determinazione della pena.

In particolare, Sez. VI, Ingordini, ha ribadito il recente orientamento (così Sez. I, 25 maggio 2012, dep. 9 luglio 2012, n. 26899, Harizi, Rv. 253084) secondo cui gli effetti della declaratoria di incostituzionalità di una norma penale - e, precisamente, a norma dell'art. 30 comma 4 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'inapplicabilità della stessa pur in presenza di giudicato - operano anche quando la pronuncia riguardi "una qualunque parte della condanna", e quindi incida solo su una "porzione di pena". Facendo applicazione di questo principio, la Corte ha ritenuto di poter rilevare di ufficio, pur decidendo su un ricorso inammissibile, la nullità di una sentenza che aveva giudicato prevalente l'attenuante della lieve entità in materia di stupefacenti, prevista dall'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva reiterata, in applicazione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte poi dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 251 del 2012, e ne ha disposto l'annullamento con rinvio per consentire al giudice di merito di procedere ad un nuovo giudizio di bilanciamento.

Sez. I, Facchineri, a sua volta, pur dichiarando di condividere il principio appena indicato, ha osservato che un limite alla sua applicazione sussiste quando è necessario un nuovo apprezzamento discrezionale delle risultanze processuali. Di conseguenza, la Corte ha escluso che sia possibile applicare ad un condannato per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione la diminuente del fatto di lieve entità prevista dall'art. 311 cod. pen., invocata per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 630 cod. pen. nella parte in cui non contempla l'ipotesi del riconoscimento dell'attenuante in questione ove ne ricorrano i presupposti: detta circostanza, infatti, postula accertamenti sia sulla struttura del fatto, sia sull'entità della riduzione di pena da disporre.

L'ordinanza Sez. I, Gatto, infine, ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite sollevando il problema degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale diversa da quella incriminatrice in presenza di giudicato, e dell'eventuale obbligo di rideterminare la pena "in executivis". Segnatamente, la questione è stata posta proprio con riferimento all'art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 251 del 2012.

Anche quest'anno, il profilo dei limiti di operatività della legge 'intermedia' più favorevole in relazione alla sentenza della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nel caso Scoppola contro Italia, ha costituito materia di approfondimento nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, e non solo nella citata Sez. U, Ercolano.

In particolare, Sez. I, 4 dicembre 2012, dep. 25 gennaio 2013, n. 4075, Amato, Rv. 254212; Sez. I, 4 dicembre 2012, dep. 15 maggio 2013, n. 20933, Gallina, Rv. 255388, e Sez. I, 17 maggio 2013, dep. 3 giugno 2013, n. 23931, Lombardi, Rv. 256257, nel consolidare e precisare un recente orientamento (inaugurato da Sez. I, 11 gennaio 2012, dep. 9 febbraio 2012, n. 5134, Gelsomino, Rv. 251857), hanno ribadito il principio secondo cui il condannato alla pena dell'ergastolo all'esito di giudizio abbreviato in tanto può ottenere in sede esecutiva la riduzione della pena - e, quindi, l'applicazione della reclusione di anni trenta - in quanto abbia chiesto e sia stato ammesso al rito abbreviato nella vigenza dell'art. 442, comma 3, cod. proc. pen. come modificato dalla sola (più favorevole) legge 16 dicembre 1999, n. 479, ma prima dell'entrata in vigore del d.l. 24 novembre 2000, n. 341.

Sez. I, 30 gennaio 2013, dep. 14 marzo 2013, n. 11994, Di Pauli, Rv. 255448, ancora, ha affrontato il problema della successione di leggi penali temporanee o eccezionali, affermando, in linea con un principio già enunciato (cfr., da ultimo, Sez. I, 28 maggio 2008, dep. 28 luglio 2008, n. 31420, Madonna, Rv. 240672), che la deroga alla retroattività della legge più favorevole, fissata per queste disposizioni dall'art. 2, quinto comma, cod. pen., non opera se le diverse previsioni sono entrambe temporanee o eccezionali. Di conseguenza, nel giudizio relativo alla responsabilità di un ufficiale dell'esercito italiano con riguardo all'attentato di Al Nassiriya del 12 novembre 2003, la Corte ha ritenuto che sono applicabili le disposizioni del codice penale militare di pace anche ai reati militari commessi in epoca antecedente alla data di entrata in vigore della legge 4 agosto 2006, n. 247, e, quindi, consumati sotto l'imperio della più severa disciplina del codice militare di guerra, in quanto si tratta di norme parimenti temporanee o eccezionali.

4. Le pronunce delle Sezioni semplici sull'applicazione a singole fattispecie della disciplina della successione di leggi nel tempo.

Diverse figure di reato sono state interessate da pronunce della giurisprudenza di legittimità relative all'applicazione della disciplina prevista dall'art. 2 cod. pen.

Una pluralità di interventi ha riguardato la materia dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, in ragione delle modifiche introdotte dalla legge 6 novembre 2012, n. 190.

Riservandosi di ritornare più diffusamente in argomento più avanti, Sez. VI, 11 febbraio 2013, dep. 12 marzo 2013, n. 11792, Castelluzzo, Rv. 254438); Sez. VI, 7 maggio 2013, dep. 21 maggio 2013, n. 21701, Ancona, Rv. 255075 e Sez. VI, 25 gennaio 2013, dep. 23 luglio 2013, n. 31957, Cordaro, Rv. 255598, hanno esaminato specificamente il tema dei rapporti tra il previgente testo dell'art. 317 cod. pen., quello introdotto dall'art. 1, comma 75, della legge n. 190 del 2012 e quello del nuovo art. 319 quater cod. pen.

Tutte queste decisioni hanno concordemente affermato che il rapporto tra le indicate fattispecie deve collocarsi all'interno del fenomeno di successione di leggi penali nel tempo disciplinato dal quarto comma dell'art. 2 cod. pen.. In particolare, a fondamento di tale conclusione, si è osservato: che l'intervento legislativo si è limitato ad un diverso apprezzamento della gravità delle condotte, ma non ad una radicale rivalutazione delle stesse in termini di rilevanza o irrilevanza penale; che la 'nuova' previsione dell'incriminazione della vittima dell'induzione risponde "ad autonome e diverse ragioni della discrezionalità legislativa", che attengono al comportamento dell'indotto, ma "che nulla operano sul piano della permanente rilevanza penale della condotta di chi 'induce'"; che "la fattispecie …, con riferimento alla posizione del pubblico funzionario, resta immutata nei suoi elementi strutturali".

Sez. VI, 24 gennaio 2013, dep. 25 febbraio 2013, n. 9079, Di Nardo, Rv. 254162, invece, si è interessata del problema della continuità normativa tra il previgente art. 319 cod. pen., relativo alla cd. 'corruzione propria', ed i 'nuovi' artt. 318 e 319 cod. pen., come modificati dall'art.1, comma 75, della legge n. 190 del 2012. La stessa ha rilevato che, con riferimento a singole fattispecie, potrebbe non essere agevole individuare se il 'vecchio' art. 319 cod. pen. trovi continuità nel 'nuovo' art. 318 cod. pen., relativo all'esercizio della funzione, o, invece, nel 'nuovo' art. 319 cod. pen., rubricato "corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio". Ha però osservato che, "essendo del tutto pacifica la assoluta continuità normativa nella sanzionabilità del comportamento per il quale si procede, l'essere lo stesso corrispondente alle ipotesi di cui all'articolo 319 cod. pen. o a quelle di cui all'articolo 318 cod. pen novellato è del tutti irrilevante atteso che tale ultima disposizione prevede la stessa pena di cui all'art. 319 cod. pen." previgente.

La sentenza Sez. VI, 11 febbraio 2013, dep. 12 marzo 2013, n. 11792, Castelluzzo, Rv. 254438, ancora, ha anche analizzato la questione dei rapporti tra il vecchio ed il nuovo testo dei commi 1 e 3 dell'art. 322 cod. pen., in tema di istigazione alla corruzione. La pronuncia ha affermato che la modifica normativa "risponde esclusivamente all'esigenza di adeguare le due fattispecie incriminatrici della istigazione alla corruzione alla nuova figura criminosa della corruzione per l'esercizio delle funzioni" e che quindi essa "ha comportato un ampliamento, e non un restringimento del penalmente rilevante". Di conseguenza, vi è continuità normativa tra 'vecchio' e 'nuovo' art. 322 cod. pen., "fatto salvo il divieto di applicazione retroattiva delle nuove norme, ex art. 2 comma 4 cod. pen., nella parte in cui risultano ampliata la portata operativa della nuova fattispecie di corruzione di cui al predetto art. 318 (che assorbe la 'vecchia' ipotesi della corruzione impropria) ed incrementata la relativa cornice sanzionatoria".

Un altro settore che ha registrato diversi interventi della giurisprudenza di legittimità è quello relativo ai reati di guida sotto l'influenza dell'alcool sotto il profilo dell'ambito di operatività della disciplina della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.

Consolidato è l'orientamento secondo cui la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, introdotta dall'art. 33, comma 1, lett. d), della legge 29 luglio 2010, n. 120, può essere disposta anche per reati commessi in epoca antecedente all'entrata in vigore della disposizione che la prevede, secondo quanto stabilisce l'art. 2 cod. pen. Le diverse pronunce hanno, però, offerto precisazioni su specifici profili di applicazione della disciplina.

Sez. III, 7 novembre 2012, dep. 14 maggio 2013, n. 20726, Cinciripini, Rv. 254997 ha affermato che la sanzione in esame è in concreto istituto più favorevole rispetto al beneficio della sospensione condizionale della pena, sia per la durata della misura, sia per i criteri di ragguaglio, sia per le conseguenze sulla sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida.

Sez. IV, 12 dicembre 2012, dep. 4 febbraio 2013, n. 5509, Crotta, Rv. 254666, Sez. IV, 17 gennaio 2013, dep. 19 febbraio 2013, n. 7961, Capece, Rv. 255103, Sez. I, 10 aprile 2013, dep. 9 maggio 2013, n. 20025, Dal Santo, Rv. 255056 e Sez. IV, 28 maggio 2013, dep. 13 settembre 2013, n. 37742, Silvestri, Rv. 256208, hanno invece osservato che, se è vero che l'istituto della sanzione del lavoro di pubblica utilità costituisce "disposizione di favore per il reo", la disciplina prevista dalla legge n. 120 del 2010 può essere applicata solo se più favorevole nel suo complesso rispetto a quella previgente, essendo inammissibile l'attuazione di una "tertia lex". Il che, da un lato, impedisce l'operatività del nuovo regime e quindi anche della nuova misura sostitutiva, con riferimento all'ipotesi di guida sotto l'influenza dell'alcool prevista dall'art. 186, comma 2, lett. c), del codice della strada (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro), per la quale è stata innalzata la pena detentiva minima irrogabile (cfr. specificamente: Sez. IV, Crotta; Sez. IV, Capece; Sez. I, Dal Santo); dall'altro, non esplica incidenza preclusiva nell'ipotesi di guida sotto l'influenza dell'alcool prevista dall'art. 186, comma 2, lett. c), del codice della strada (tasso alcolemico compreso tra 0,8 e 1,5 grammi per litro), per la quale è rimasta immutata la sanzione detentiva minima.

Inoltre, la sentenza Sez. I, Dal Santo, ha aggiunto che, in linea generale, la sanzione del lavoro di pubblica utilità è soggetta alla disciplina fissata dall'art. 2, quarto comma, cod. pen., e, quindi, in ogni caso, non può trovare applicazione quando sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Un significativo arresto della giurisprudenza della Corte ha riguardato il delitto di pornografia minorile previsto dall'art. 600 ter cod. pen. a seguito della modifica introdotta dall'art. 4, comma 1, lett. l), della legge 1 ottobre 2012, n. 172, di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa approvata a Lanzarote.

Precisamente, Sez. III, 9 gennaio 2013, dep. 6 febbraio 2013, n. 5874, Liberati, Rv. 254420, ha evidenziato il verificarsi di un fenomeno di successione di disposizioni penali a norma dell'art. 2, quarto comma, cod. pen. in relazione alla nozione di "materiale pornografico minorile". Per questo, infatti, secondo la previgente disciplina, interpretata anche alla luce dell'art. 1 della Decisione Quadro 2004/68/GAI del 2 dicembre 2003, deve intendersi solo quel materiale che "ritragga o rappresenti visivamente un minore degli anni diciotto implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, quale può essere anche la semplice esibizione lasciva dei genitali o della regione pubica"; secondo la nuova disciplina introdotta dalla legge n. 172 del 2012, invece, è "materiale pornografico minorile" anche la sola rappresentazione degli organi sessuali, sia pure per scopi sessuali, non essendo più necessaria l'esibizione lasciva degli stessi.

  • circostanza aggravante
  • concorso nel reato

CAPITOLO II

LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO

Sommario

1 Il reato continuato e le circostanze aggravanti. - 2 La continuazione: le Sezioni unite sui criteri di determinazione della violazione più grave. - 2.1 Gli altri profili problematici trattati dalle sezioni semplici. - 3 Circostanze e concorso di persone nel reato.

1. Il reato continuato e le circostanze aggravanti.

Nel presente capitolo saranno trattati solo alcuni degli aspetti relativi alle modalità manifestazione del reato; in particolare, si indicheranno gli arresti giurisprudenziali sulla tematica della continuazione e quelli relativi ad un particolare aspetto connesso all'applicazione delle circostanze aggravanti.

Sul primo punto, nel corso dell'anno trascorso sono state numerose le pronunce della Corte che si sono occupate della continuazione, con riferimento sia alla sua applicazione nel giudizio di cognizione che nella fase esecutiva.

Sono intervenute, in particolare, le Sezioni unite su di un passaggio della norma dell'art. 81 cod. pen. su cui era sembrato essersi formata una posizione indiscussa e sul quale, invece, nell'ultimo periodo erano riemersi non pochi dubbi e cioè il criterio per identificare il reato più grave.

Degli altri arresti si farà cenno solo con riferimento a quelle decisioni delle sezioni semplici che hanno consolidato trend giurisprudenziali o hanno evidenziato persistenze di situazioni di contrasto.

Sulla seconda tematica, invece, ci si limiterà a menzionare una decisione che è intervenuta su di una questione di notevole importanza e su cui ad oggi la posizione della giurisprudenza sembrava diversamente orientata, quello delle modalità di comunicazione ai concorrenti delle circostanze del reato.

2. La continuazione: le Sezioni unite sui criteri di determinazione della violazione più grave.

La ragione per la quale era stato richiesto l'intervento delle Sezioni unite riguardava, come si è già accennato, il criterio di individuazione del reato più grave, in particolare se bisognasse tener conto, ai fini del computo della pena, della gravità ritenuta in concreto dal giudice o della determinazione astratta compiuta in astratto dal legislatore.

L'orientamento dominante - in continuità con l'insegnamento di Sez. Un. 27 marzo 1992. dep. 30 aprile 1992, n. 4901, Cardarilli, Rv 191128, Sez. Un. 12 ottobre 1993 - dep. 25 gennaio 1994, n. 748, Cassata, Rv 195805, e Sez. un. 26 novembre 1997 - dep. 3 febbraio 1998, n. 15, Vernelli, Rv 209485 - si era attestato sul principio per il quale "ai fini della individuazione della violazione più grave da prendere come base per il calcolo delle pene, occorre riferirsi alle valutazioni astratte compiute dal legislatore, ossia occorre aver riguardo alla pena prevista dalla legge per ciascun reato, di tal che la violazione più grave va individuata in quella punita dalla legge più severamente".

A queste conclusioni, sia pure con diverse sfumature erano giunte Sez. I, 27 maggio 2004 - dep. 10 giugno 2004, n. 26308, Micale, Rv 229007; Sez. IV, 27 gennaio 2009 - dep. 17 febbraio 2009, n. 6853, Maciocco, rv 242866; Sez. II, 6 novembre 2009- dep. 14 dicembre 2009, n. 47447, Sall, Rv 246431; Sez. V, 11 febbraio 2010, - dep. 30 marzo 2010, n. 12473, Salviani, Rv 246558; Sez. VI, 14 luglio 2010 - dep. 23 settembre 2010, n. 34382, Azizi Aslan, Rv 248247; Sez. III, 26 ottobre 2010 - dep. 23 marzo 2010, n. 11087, S., Rv 246468; Sez. V, 20 gennaio 2012. dep. 11 aprile 2012,, n. 13573, Santoni, Rv 253299.

In termini diversi, pure di recente, si erano pronunciate Sez. III, 24 marzo 2009 - dep. 12 maggio 2009, n. 19978, Angioni, Rv 243723, la quale aveva affermato che "l'individuazione della violazione più grave ai fini di computo della pena deve essere effettuata in concreto e non già con riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore" e, successivamente, Sez. V, 9 febbraio 2010 - dep. 1 aprile 2010, n. 12765, Scuderi, Rv 246895 e Sez. VI, 6 marzo 2012 - dep. 22 giugno 2012, n. 25120, Cicala, Rv 252613.

Per completare il quadro giurisprudenziale precedente all'intervento ultimo delle Sezioni unite, va ricordato come la giurisprudenza dominante aveva anche affermato, sempre con riferimento al criterio della 'gravità in astratto', la rilevanza, ai fini della individuazione della gravità della violazione, delle circostanze eventualmente esistenti, per ciascuna violazione e del giudizio di comparazione fra le stesse, ex art. 69 cod. pen. (così, Sez. I, 15 giugno 2010 - dep. 1 luglio 2010, n. 24838, Di Benedetto, Rv 248047, Sez. IV, 9 ottobre 2007- dep. 20 dicembre 2007, n. 47144, Ferrentino, Rv 238352 e Sez. VI, 12 dicembre 2002 - dep. 14 gennaio 2003, n. 1318, Bombasaro rv 223343), ricollegandosi in questo senso anche Sez. Un. 27 novembre 2008 - dep. 23 gennaio 2009, n. 3286, Chiodi, Rv 241755, che espressamente in motivazione avevano ritenuto che "i reati uniti dal vincolo della continuazione, con riferimento alle circostanze attenuanti ed aggravanti, conservano la loro autonomia e si considerano come reati distinti", con la conseguenza che ogni circostanza deve essere valutata in relazione ad ogni singolo reato e "incide … sulla individuazione del reato più grave; sulla determinazione della pena-base, nel caso in cui la sussistenza della circostanza riguardi la violazione ritenuta più grave; sulla determinazione del quantum dei rispettivi aumenti di pena, in caso di circostanza inerente ad uno ovvero a più tra gli altri reati posti in continuazione".

Sez. un. 28 febbraio 2013 - dep. 13 giugno 2013, n. 25939, Ciabotti, Rv 255347 hanno ribadito l'orientamento dominante affermando che "in tema di reato continuato, la violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e all'eventuale giudizio di comparazione fra di esse".

Altro principio pure affermato dalla sentenza (Rv. 255348) è quello per cui la pena irrogata non può essere inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati satellite, principio che era già contenuto nelle precedenti statuizioni delle sezioni unite già citate (in particolare sent. Cardarilli, Varnelli) nonché dalla Corte costituzionale (sent. n. 11 del 1997) e sul quale si era allineata la giurisprudenza successiva (v. da ultimo sez. III, 14 aprile 2011 - dep. 19 maggio 2011, n. 19737, Bessi, Rv 250335; Sez. III, 28 gennaio 2010 - dep. 9 marzo 2010, n. 9261, Del Prete, Rv 246236.

A sostegno delle proprie conclusioni, le Sezioni unite rilevano preliminarmente che, nel sistema codicistico, la distinzione tra delitti e contravvenzioni è poggiata sulla ritenuta maggiore gravità dei fatti illeciti considerati quali delitti, sicché nel concorso tra delitti e contravvenzioni, violazione più grave deve essere considerata quella costituente delitto, e ciò anche nel caso in cui la contravvenzione sia punita edittalmente con una pena che, riguardata sotto il profilo della conversione, risulti di maggior quantità rispetto a quella prevista per il delitto; il discorso quantitativo, infatti, può servire come criterio integratore solo allorquando si tratti di pene di egual specie, al fine di decidere la maggiore gravità dell'una o dell'altra violazione.

Il generale trattamento sfavorevole dei delitti rispetto alle contravvenzioni trova riscontro in numerosi istituti dell'ordinamento penale (sospensione condizionale della pena, prescrizione, conversione ex art. 102 della legge n. 689 del 1981), i quali costituiscono indici del fatto che, nella valutazione legislativa, i delitti sono ritenuti una violazione sempre qualitativamente più grave della contravvenzione.

Quanto alla questione specifica di cui sono state investite, precisano che l'individuazione della violazione più grave operata in astratto "si giustifica alla luce dei principi enunciati dagli art. 101, comma 2, e 3 Cost.", giacché "qualora si attribuisse rilievo alla decisione adottata in concreto dal giudice … si invaderebbe uno spazio riservato alla competenza esclusiva del legislatore, al quale soltanto spetta stabilire se una condotta contraria alla legge debba essere qualificata più o meno grave di un'altra e configurare come delitto anziché come contravvenzione una determinata condotta contra ius".

"..la determinazione giudiziale caso per caso della violazione più grave in concreto potrebbe [invece] essere foriera delle soluzioni più disparate con conseguente possibile lesione dell'affidamento in una parità di trattamento di situazioni analoghe".

D'altra parte, anche sul piano dell'interpretazione letterale, "deve essere attribuita una particolare 'valenza' all'espressione 'violazione' contenuta nell'art. 81 cod. pen.", la quale si connota "concettualmente in maniera distinta ed autonoma rispetto alla nozione di pena", e che, sul piano dell'interpretazione sistematica, l'approdo ermeneutico in base al quale la valutazione di gravità può essere operata solo in astratto "è quella maggiormente coerente con le scelte effettuate dal legislatore in ambito processuale", in cui in tema di competenza per materia, di competenza per connessione ed in materia di applicazione di misure cautelari si ha riguardo alla pena comminata in astratto.

Ne deriva, quindi, che "in tema di determinazione della pena, ai sensi dell'art. 81 cod. pen., deve aversi riguardo alla violazione considerata più grave in astratto e non in concreto, sicché allorché occorra individuare il reato più grave, deve farsi riferimento alla pena edittale, ovvero alla gravità 'astratta' dei reati per i quali è intervenuta condanna, dandosi rilievo esclusivo alla pena prevista dalla legge per ciascun reato, senza che possano venire in rilievo anche gli indici di determinazione della pena di cui all'art. 133 cod. pen. che possono contribuire alla determinazione di quella da infliggere in concreto".

E' interessante segnalare come secondo le sezioni unite la nozione di violazione più grave "ha una valenza complessa che … implica la valutazione delle sue concrete modalità di manifestazione", in quanto, "nel sistema del codice penale … per sanzione edittale deve intendersi la pena prevista in astratto con riferimento al reato contestato e ritenuto (in concreto) in sentenza, tenendo conto, cioè, delle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata, salvo che specifiche e tassative disposizioni escludano, a determinati effetti, la rilevanza delle circostanze o di taluna di esse".

Pertanto, "una volta riconosciuta la sussistenza di circostanze attenuanti ed effettuato il giudizio di bilanciamento di esse rispetto alle aggravanti, l'individuazione in astratto della pena edittale non può prescindere dal risultato finale di tale giudizio, dovendosi calcolare nel minimo l'effetto di riduzione per le attenuanti e nel massimo l'aumento per le circostanze aggravanti".

2.1. Gli altri profili problematici trattati dalle sezioni semplici.

Di alcune delle questioni affrontate dalle sezioni semplici è necessario dare in questa sede quantomeno menzione, atteso che esse affrontano temi che sono di interesse per il quotidiano lavoro dei giudici di merito e perché, come si accennava già poco sopra, o affrontano percorsi mai arati, o consolidano una posizione giurisprudenziale o, infine, rinfocolano contrasti esistenti.

Così, Sez. I, 31 gennaio 2013 - dep. 19 settembre 2013, n. 38719, Z, Rv. 256761 si occupa di un aspetto che non sembra mai stato, almeno ex professo, preso in considerazione dalla giurisprudenza; ritiene, in particolare, che il giudice può applicare il capoverso dell' art. 81 anche quando sia già stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna nei confronti dell'imputato per fatto meno grave di quello sottoposto al suo giudizio ed in tal caso deve determinare la pena complessiva sulla base di quella da infliggersi per il reato più grave sottoposto al giudizio ancora in corso ed applicare ad essa l'aumento per il reato meno grave già giudicato.

Contribuiscono, invece, a consolidare il diritto vivente giurisprudenziale, Sez. V, 2 luglio 2013 - dep. 10 ottobre 2013, n. 41881, Marrella, Rv. 256712, sul tema dei rapporti fra continuazione e recidiva (secondo cui "non esiste incompatibilità tra gli istituti della recidiva e della continuazione, potendo quest'ultima essere riconosciuta anche tra un reato già oggetto di condanna irrevocabile ed un altro commesso successivamente alla formazione di detto giudicato) Sez. I, 2 luglio 2013 - dep. 27 agosto 2013, n. 35639, Piras, Rv. 256308 sul nesso fra dolo di impeto e continuazione (secondo cui "il dolo d'impeto o l'occasionalità di una delle condotte sono incompatibili con il riconoscimento della continuazione con altri episodi delittuosi), Sez. I, 19 aprile 2013 - dep. 20 maggio 2013, n. 21361, Cuni Berzi, Rv. 256103, sul momento in cui va applicato l'aumento per la continuazione e la riduzione per il rito abbreviato (secondo cui "nel giudizio abbreviato l'aumento di pena per la continuazione va effettuato prima della diminuzione ex art. 442 cod. proc. pen.")

Rimette in discussione, invece, una posizione maggioritaria che sembrava ormai avviata verso un sostanziale consolidamento, Sez. I, 28 maggio 2013, dep. 20 giugno 2013, n. 27198, Margherito, Rv. 256616.

Essa, infatti, giunge alla conclusione per cui "in tema di reato continuato il giudice, nel determinare la pena complessiva, non solo deve individuare il reato più grave, stabilendo la pena base applicabile per tale reato, ma deve anche calcolare l'aumento di pena per la continuazione in modo distinto per i singoli reati satellite anziché unitariamente" riprendendo, in questo senso, quanto detto da ultimo da Sez. III, 16 dicembre 2008 - dep. 29 gennaio 2009, n. 4209, Pandolfi, Rv. 242873, laddove, invece, l'orientamento dominante aveva più volte ribadito che "In tema di reato continuato, ai fini della determinazione della pena complessiva, l'aumento per continuazione operato sul reato più grave (e quindi sulla pena base) può essere determinato anche in termini cumulativi, senza che sia necessario indicare specificamente l'aumento di pena correlato a ciascun reato satellite, non previsto dalla vigente normativa " (ex plurimis, Sez. V, 13 gennaio 2011 - dep. 24 febbraio 2011, n. 7164, De felice, Rv. 249710).

3. Circostanze e concorso di persone nel reato.

Sullo specifico argomento è intervenuta Sez. II, 19 febbraio 2013- dep. 23 maggio 2013, n. 22136, Nisi, Rv. 255728.

La sentenza ha proposto un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 118 cod. pen. per la quale si comunicano ai concorrenti, sempre che questi ne fossero consapevoli, le sole aggravanti soggettive che, oltre a non essere "inerenti alla persona del colpevole" a norma dell'art. 70, secondo comma, cod. pen., abbiano in qualche modo agevolato la realizzazione del reato.

Sulla base del principio, la Corte, in particolare, ha escluso l'estensione a un concorrente della circostanza prevista dall'art. 61 n. 6 cod. pen. (commissione del reato durante il tempo della latitanza) inerente ad altro concorrente, in quanto la stessa si era rivelata assolutamente improduttiva di effetti agevolativi in ordine alla realizzazione del reato concorsuale.

La pronuncia propugna il superamento dell'orientamento prevalente che, in base a un'applicazione letterale del combinato disposto della formula dell'art. 118 c.p. ("circostanze inerenti alla persona del colpevole") e della disposizione definitoria dell'art. 70, comma 2, c.p. ("le circostanze inerenti alla persona del colpevole riguardano la imputabilità e la recidiva"), giungeva ad affermare l'estensione a tutti i concorrenti delle circostanze soggettive relative alle "condizioni o qualità personali del colpevole", subordinandola alla sola condizione, prevista dall'art. 59, comma 2, cod. pen., ovvero che esse fossero conosciute o siano state ignorate per colpa.

Detto orientamento - inaugurato dalla sentenza Sez. VI, 10 marzo 1993 - dep. 20 maggio 1993, n. 5218, Ferrara, Rv. 194019 - era stato di recente riaffermato nelle decisioni: Sez. VI, 25 settembre 2012 - dep. 24 ottobre 2012, n. 41514, Adamo, Rv. 253807, in tema di commissione del fatto ad opera del partecipe all'associazione di tipo mafioso; Sez. V, 19 settembre 2012 - dep. 29 novembre 2012, n. 46340, Adler, Rv. 253640 in tema di sequestro di persona commesso da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni.

La sentenza Nisi - aderendo a una voce dissonante affiorata nella sentenza Sez. III, 18 ottobre 2011 - dep. 9 febbraio 2012, n. 5029, Ventura, Rv. 252086 - ripensa il significato del quadro normativo, alla luce dell'evoluzione determinatasi con la riforma dell'art. 118 cod. pen. attuata dalla legge n. 19 del 1990.

Il "vecchio" testo della disposizione estendeva a tutti i compartecipi le circostanze soggettive non inerenti alla persona del colpevole (ovvero diverse dall'imputabilità e dalla recidiva), senza richiedere che le stesse fossero conosciute o conoscibili ("sebbene non conosciute" recitava quella formula), ma esigendo che le stesse avessero contribuito ad agevolare l'esecuzione del reato.

La riforma del 1990, oltre a personalizzare il rimprovero circostanziale (con la riforma dell'art. 59 cod. pen.), si prefiggeva lo scopo di superare "il macchinoso sistema precedente, incentrato sulla distinzione fra circostanze oggettive e soggettive" (II Commissione permanente Giustizia, seduta del 2 febbraio 1989, Resoconto n. 263, 16) e non certamente quello di ampliare l'estendibilità delle circostanze ai concorrenti nel reato.

Recependo il contributo di autorevoli voci della dottrina, la Corte ha evidenziato gli effetti irragionevoli cui potrebbe dar luogo la combinazione meccanica del testo riformato dell'art. 118 con la restrittiva definizione dell'art. 70, secondo comma, cod. pen,, norma "esangue" perché chiaramente concepita un funzione della vecchia disciplina.

L'applicazione coerente di una tale lettura comporterebbe effetti irragionevoli, come l'estensione a tutti i concorrenti delle circostanze attenuanti generiche che siano ritenute sussistenti per uno solo di essi, sulla base di qualità o condizioni personali come le disagiate condizioni di vita; o l'applicazione a tutti i concorrenti delle aggravanti speciali di cui all'art. 112, nn. 2, 3 e 4 cod. pen. 1a cui ratio è invece specificamente volta a differenziare il trattamento sanzionatorio riservato ai concorrenti.

Considerate le intenzioni del legislatore storico, la Corte ha allora rilevato l'assenza di apprezzabili giustificazioni per un'interpretazione dell'art. 118 che comporti l'immotivata compressione della libertà personale (art. 13 Cost.), in evidente difetto di esigenze rieducative (art. 27, comma 3, Cost.), del concorrente nel reato attraverso l'assoggettamento a un aumento della durata della detenzione conseguente all'estensione, nei suoi confronti, di una circostanza aggravante strettamente inerente alla persona di un concorrente che non abbia agevolato la commissione del reato.

E ha praticato - attraverso la richiesta della proiezione agevolatrice dell'aggravante concernente le condizioni e/o le qualità personali del colpevole - l'aggancio della circostanza con la sfera soggettiva del concorrente cui essa non si riferisce, "potendo ritenersi che egli si sia rappresentato e abbia voluto l'agire concorsuale nella consapevolezza del fatto che la circostanza riferibile ad uno soltanto dei concorrenti abbia agevolato a beneficio di tutti la realizzazione del reato concorsuale oggetto di comune rappresentazione e volizione".

  • prescrizione della pena
  • carcerazione

CAPITOLO III - LE CONSEGUENZE SANZIONATORIE DEL REATO --- Sezione I

La pena

Sommario

1 Aspetti problematici connessi ai reati punibili con la pena dell'ergastolo. - 2 L'ergastolo e la sentenza della Corte Edu nel caso Scoppola c. Italia. - 3 La prescrizione dei delitti puniti con la pena dell'ergastolo.

1. Aspetti problematici connessi ai reati punibili con la pena dell'ergastolo.

Il tema del trattamento sanzionatorio dei reati commessi è stato affrontato in molte decisioni della Suprema Corte nel corso del 2013, sotto varie sfaccettature, preoccupandosi dei profili sia sostanziali che processuali.

In questa sede delle numerose questioni affrontate - non oggetto, in verità, di particolari novità - si ritiene di trattare in modo più diffuso soltanto due argomenti che appaiono oggettivamente particolarmente importanti e sui quali la giurisprudenza si è confrontata con più decisioni e con posizioni non sempre coincidenti.

Entrambi gli argomenti si confrontano con la pena più grave prevista nel nostro sistema, quella perpetua dell'ergastolo, sulla quale anche in dottrina e nel parlamento si discute, soprattutto sull'opportunità di abrogarla, perché da alcuni non ritenuta in linea con il principio costituzionale di cui all'art. 27 Cost.

La Corte, però, di questa pena si è occupata per due profili molto specifici.

Il primo attiene alla possibilità ed ai limiti entro i quali può essere concessa la diminuente prevista dall'art. 442 cod. proc. pen. a coloro che erano stati condannati all'ergastolo in un determinato momento storico (subito dopo l'entrata in vigore della 1. n. 479 del 1999) nel quale anche per il reati puniti con la pena perpetua era sempre consentita la riduzione processuale; è un argomento che, come si dirà più diffusamente, ha visto nel 2009 un deciso intervento della Corte Edu, al quale si è adeguata la giurisprudenza nazionale; è nell'anno trascorso ulteriori aspetti connessi all'applicazione della decisione internazionale sono stati affrontati e tendenzialmente definitivamente risolti.

L'altro riguarda l'applicabilità della prescrizione ai delitti di omicidio punibili con l'ergastolo, commessi prima dell'entrata in vigore della 1 n. 251 del 2005 (la cd legge "ex Cirielli") che ha sancito espressamente l'imprescrittibilità; è tema oggettivamente importante su cui, ad oggi, è presente ed irrisolto un contrasto nelle posizioni della giurisprudenza.

2. L'ergastolo e la sentenza della Corte Edu nel caso Scoppola c. Italia.

Come si accennava in premessa, la Cassazione nel 2013 ha arricchito il filone giurisprudenziale, scaturito dal principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite (Sez. un. 19 aprile 2012 - dep. 07 settembre 2012, n. 34233, Giannone, Rv. 252932), secondo cui, in caso di condanna all'esito del giudizio abbreviato, la pena da infliggere per i reati astrattamente punibili con l'ergastolo è quella prevista dalla legge vigente nel momento della richiesta di accesso al rito, sicché ove quest'ultima sia intervenuta nel vigore dell'art. 7 d.l. n. 341 del 2000, va applicata (ed eseguita) la sanzione prevista da tale norma.

Le Sezioni Unite avevano, infatti, chiarito che la legge intermedia più favorevole non potesse trovare applicazione quando la richiesta di accesso al rito speciale non fosse stata avanzata durante la vigenza di quest'ultima, ma soltanto successivamente, nel vigore della legge posteriore che modifica quella precedente.

Per chiarire il reale significato dell'arresto è necessario ricordare la questione di diritto per la quale il ricorso era stato assegnato alle Sezioni Unite; essa atteneva alla possibilità per giudice dell'esecuzione - in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia - di sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole.

Il caso processuale riguardava, in particolare, reati che, in quanto astrattamente punibili con la pena dell'ergastolo e dell'isolamento diurno ex art. 72 c.p., non potevano essere giudicati, all'epoca della loro consumazione (sino al 1 giugno 1999), con il rito abbreviato, considerato che tale possibilità, pur prevista originariamente dall'art. 442 c.p.p., comma 2, secondo periodo, era stata esclusa a seguito della declaratoria d'incostituzionalità - per eccesso di delega - di tale disposizione.

Successivamente era entrata in vigore - il 2 gennaio 2000 - la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1, lett. b), reintroduceva la possibilità del giudizio abbreviato per i reati punibili con l'ergastolo, stabilendo genericamente che, in caso di condanna, la pena perpetua (senza o con isolamento diurno) andava sostituita con quella temporanea di anni trenta di reclusione.

L'art. 7 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, però, nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica al secondo periodo dell'art. 442 c.p.p., comma 2, aveva stabilito che l'espressione "pena dell'ergastolo" ivi adoperata dovesse intendersi riferita esclusivamente all'ergastolo senza isolamento diurno ed, in tal modo, aveva inserito all'interno della stessa disposizione processuale un terzo periodo, secondo il quale "alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, in caso di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo".

Nel caso sottoposto alle Sezioni Unite, quest'ultima normativa era già entrata in vigore all'atto della celebrazione della udienza preliminare, sede nella quale l'imputato aveva avanzato richiesta di giudizio abbreviato; il giudice della udienza preliminare, nell'infliggere la pena dell'ergastolo, aveva dunque fatto applicazione del disposto di cui all'art.7 del d.l. n. 341 del 2000 (in vigore come detto non solo al momento della pronuncia, ma sin da quando l'interessato aveva avanzato richiesta di accesso al giudizio abbreviato): sicché le Sezioni Unite, nel reputare legittimo l'operato del giudice di merito, avevano osservato che il caso sottoposto alla loro attenzione era ben diverso da quello deciso con la sentenza della Corte EDU sopra citata, nel quale l'accesso al rito abbreviato era stato richiesto durante la vigenza della legge, più mite, n. 479 del 1999, con conseguente diritto dell'interessato all'applicazione e all'esecuzione, in forza dell'art. 7 CEDU, della pena più favorevole di trenta anni di reclusione in luogo dell'ergastolo con isolamento diurno, non potendo spiegare effetti la successiva modifica legislativa in senso più severo.

A seguito dell'intervento delle sezioni unite, già Sez. I, 4 dicembre 2012 - dep. 17 dicembre 2012, n. 49757, Aspa, Rv. 254524, ponendosi nel solco interpretativo tracciato, affermava che le decisioni della Corte EDU che evidenziano una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell'ambito del quale è intervenuta la pronuncia della predetta Corte internazionale, ma impongono un adeguamento concreto nel diritto interno nei soli casi che si trovino in una situazione identica a quella esaminata dalla CEDU.

L'operatività, quindi, della regola della retroattività della legge più favorevole, con specifico riferimento alla disciplina del giudizio abbreviato, non può essere ancorata, per individuare la disposizione che prevede la pena più mite, al mero dato formale delle diverse leggi succedutesi tra la data di commissione dei reati e la pronuncia della sentenza definitiva, ma presuppone la coordinazione di tale dato, di per sé neutro, con le modalità e con i tempi di accesso al rito, perché da essi direttamente deriva, in base alla legge vigente, il trattamento sanzionatorio da applicare; ne discende, di conseguenza logica inevitabile, la concreta inapplicabilità del principio affermato dalla sentenza CEDU nel caso Scoppola c. Italia a tutte quelle situazioni che non siano sovrapponibili, nei loro elementi essenziali aventi rilievo nello schema sopra illustrato, alla situazione valutata dall'anzidetta Corte sopranazionale.

In conclusione, la conversione della pena dell'ergastolo in quella di anni trenta è possibile, in sede esecutiva, solo ove il rito abbreviato sia stato chiesto e sia stato ammesso tra il 2 gennaio ed il 24 novembre 2000, e cioè nella vigenza della L. n. 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b, (che prevedeva che, in esito al rito speciale, all'ergastolo si sostituisse la pena di anni trenta di reclusione), mentre la decisione definitiva sia stata pronunciata dopo il 24 novembre 2000, con applicazione del D.L. n. 341 del 2000 (che ripristinava l'ergastolo senza isolamento diurno).

Interessante evidenziare come nel caso oggetto dell'esame da parte della Corte si è confermata la legittimità della decisione di rigetto dell'istanza di commutare la pena dell'ergastolo in quella di anni trenta di reclusione, avanzata in sede esecutiva dall'imputato che, pur avendo richiesto il rito abbreviato in primo grado, vi aveva successivamente rinunciato.

A conclusioni sostanzialmente identiche sono giunte tre pronunce della stessa prima sezione; in particolare, Sez. I, 4 dicembre 2012 - dep. 25 dicembre 2013, n. 4075, Amato, Rv. 254212 - con cui è stato respinto il ricorso contro il rigetto della istanza in executivis del condannato, in quanto la richiesta di abbreviato per delitto punito con la pena dell'ergastolo non era stata all'epoca accolta dal giudice di merito, essendo stata avanzata prima dell'entrata in vigore della L. 479 del 1999 e successivamente non riproposta; Sez. I, 4 dicembre 2012 - dep. 15 maggio 2013, n. 20933, Gallina, Rv. 255388, con cui è stato respinta la richiesta di riconoscimento della diminuente del rito in quanto il condannato non era mai stato ammesso al giudizio abbreviato, per avere presentato nel corso del giudizio di merito istanze di ammissione al giudizio abbreviato dichiarate inammissibili; Sez. I, 17 maggio 2013 - dep. 3 giugno 2013, n. 23931 Rv. 256257 - con la quale pure è stato rigettato il ricorso, osservando che la mancata ammissione al rito abbreviato (a suo tempo chiesto solo in sede di ricorso per cassazione e non ammesso), secondo le regole processuali del tempo, non toccate dalla pronuncia soprannazionale, ha consolidato il giudizio con rito ordinario: la natura sostanziale della diminuente premiale per il rito abbreviato, predicata dalla CEDU, non implica infatti la trasformazione della natura processuale di tutta la restante normativa concernente i presupposti, i termini e le modalità di accesso al rito in questione, rimessi alla scelta del legislatore nazionale, aspetti non immutati dalla giurisprudenza comunitaria; sicché difettano completamente, nel caso prospettato, i presupposti processuali per rendere concretamente operativi i principi espressi dalla CEDU.

Per completezza è necessario dar qui conto degli sviluppi successivi alla questione di costituzionalità sollevata dalle Sezioni Unite con l'ordinanza n. 34472 del 19 aprile 2012, dep. 10 settembre 2012, Ercolano, Rv. 252934.

In particolare, esse affermavano il principio secondo cui «il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e circoscriverne temporalmente, in contrasto con la sua "ratio" ispiratrice, l'area operativa, perché finirebbe in tal modo per disapplicarla, mentre l'autorità imperativa e generale della legge gli impone di adeguarvisi, il che delinea il confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale".

Di conseguenza dichiaravano rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli articoli 3 e 117, comma primo, della Costituzione - quest'ultimo in relazione all'articolo 7 della Convenzione EDU - "nella parte in cui le disposizioni interne operano retroattivamente, e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 - data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7 giugno 1923 - era entrato in vigore il citato decreto legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto", ritenendo impraticabile un'interpretazione della predetta normativa interna conforme all'articolo 7 Convenzione EDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo».

Con sentenza n. 210/2013 (camera di consiglio del 24/04/2013, decisione del 03/07/2013, depositata il 18/07/2013 e pubblicata sulla G.U. del 24/07/2013), la Consulta ha condiviso il dubbio di legittimità della Cassazione, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 7 comma 1 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n.4.

Alla luce della decisione della Consulta, le Sezioni Unite, 24 ottobre 2013, Ercolano (della quale non si conosce la motivazione ma la sola informazione provvisoria), hanno ritenuto che il giudice della esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU, può sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione della legge più favorevole.

3. La prescrizione dei delitti puniti con la pena dell'ergastolo.

Sulla prescrivibilità del delitto di omicidio aggravato commesso prima della modifica dell'art. 157 cod. pen. da parte della legge n. 251 del 2005, punito in astratto con la pena dell'ergastolo, ma in concreto oggetto di irrogazione di pena diversa per effetto di valutazione di equivalenza o subvalenza delle circostanze aggravanti con le riconosciute circostanze attenuanti - si è registrato nella giurisprudenza della Corte un contrasto interpretativo.

Sez. I, 7 febbraio 2013 - dep. 8 marzo 2013, n. 11047, Stasi, Rv. 254408, ha, infatti, escluso la prescrizione del delitto di omicidio aggravato, commesso prima dell'entrata in vigore della 1. n. 251 del 2005, per il quale erano state concesse le circostanze attenuanti equivalenti alle contestate aggravanti, pur essendo trascorsi, dalla data di commissione del fatto, più di ventiquattro anni dall'intervento del primo atto interruttivo.

La Corte, in particolare, ha osservato che la modifica apportata all'art. 157 c.p. dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6 ha reso esplicitamente imprescrittibili i reati puniti con la pena dell'ergastolo, ma che tale imprescrittibilità poteva ritenersi già riconosciuta dalla disposizione codicistica nel suo testo antecedente la novella.

La prevalente giurisprudenza formatasi, infatti, in base alla previgente formulazione letterale dell'art. 157 c.p. - che prevedeva l'applicabilità della prescrizione ai soli reati puniti con le pene della reclusione, dell'arresto, della multa e dell'ammenda - aveva ritenuto, con argomentazione a contrario, che solo i reati per i quali la legge stabiliva la pena dell'ergastolo, dovevano ritenersi imprescrittibili.

La nuova formulazione dell'art. 157 c.p., ponendosi in un rapporto di assoluta continuità con l'indicato orientamento giurisprudenziale, non ha fatto altro - secondo l'arresto citato - che recepire l'indicato principio di diritto nell'ordinamento positivo in occasione di una generale ridefinizione dell'istituto della prescrizione, anche allo scopo di dirimere ogni possibile controversia connessa alla problematica se, per l'affermazione dell'imprescrittibilità del reato, fosse appunto sufficiente l'astratta punibilità dello stesso con la pena dell'ergastolo ovvero l'applicazione effettiva delle circostanze aggravanti tale da comportare una condanna alla pena dell'ergastolo.

L'arresto che afferma l'imprescrittibilità dell'omicidio aggravato indipendentemente dall'applicazione concreta delle aggravanti si pone in linea con un'altra affermazione abbastanza recente della Corte (Sez. I, 22 ottobre 2009 - dep. 30 ottobre 2009, n. 41964, Pariante, Rv. 245080), secondo cui l'esclusione della prescrizione dei delitti per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, quantunque oggetto di formalizzazione con L. 5 dicembre 2005 n. 251 (modifiche al cod. pen. e alla L. 26 luglio 1975 n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), è antecedente ad essa, sicché il reato punito con detta pena commesso prima dell'entrata in vigore della citata legge è imprescrittibile pur senza una specifica disposizione in tal senso.

La tesi dell'imprescrittibilità dei reati puniti astrattamente con la pena dell'ergastolo risulta anche essere stata sostenuta in precedenti molto più datati; ci si riferisce in particolare a due decisioni che l'hanno affermata, sia pure in funzione di individuare per quali reati dovesse operare la sospensione dei termini processuali; in particolare a queste conclusioni sono giunte sia Sez. III, 16 dicembre 1966 - dep. 4 marzo 1967, n. 2856, Sciolpi, Rv. 103617 (secondo cui "… soltanto i reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo sono imprescrittibili…") sia Sez. IV, 7 febbraio 1969 - dep. 5 dicembre 1969, n. 341, Cerrato, Rv. 113403 (massimata negli stessi identici termini dell'ultima indicata).

Peraltro, in un arresto appena precedente a quello citato, è stato tuttavia affermato un principio diametralmente diverso e cioè che, prima della riforma della legge n. 251 del 2005, fossero imprescrittibili solo i reati per i quali effettivamente era stata irrogata, in sentenza, la pena dell'ergastolo.

In questo senso si è pronunciata Sez. I, 17 gennaio 2013 - dep. 27 febbraio 2013, O., n. 9391, Rv. 254407, secondo cui "Il delitto di omicidio aggravato, punibile in astratto con la pena dell'ergastolo, è imprescrittibile, anche se posto in essere da minore o se le circostanze aggravanti siano oggetto di comparazione con attenuanti, soltanto se commesso dopo la modifica dell'art. 157 cod. pen. da parte della 1. n. 251 del 2005".

In applicazione del principio, la Corte ha confermato la declaratoria di prescrizione del delitto di omicidio aggravato, commesso prima dell'entrata in vigore della 1. n. 251 del 2005, per il quale erano state concesse le circostanze attenuanti generiche e quella della minore età prevalenti sulle contestate aggravanti, per essere trascorsi, dalla data di commissione del fatto, quindici anni prima dell'intervento di atti interruttivi.

A sostegno di tale ultima affermazione la decisione ha richiamato un principio di diritto - esplicitamente affermato da Sez. VI, 9 gennaio 2003, dep. 12 giugno 2003, n. 25680, Piscicelli, Rv. 226420 - che, sia pure non riferito a reati punibili in astratto con l'ergastolo, aveva ritenuto che "il termine di prescrizione deve essere computato in riferimento alla specifica e concreta configurazione finale che del fatto il giudice abbia ritenuto in sentenza, avuto riguardo alla qualificazione giuridica ed agli elementi circostanziali, e ciò anche in relazione alle fasi processuali precedenti, dovendosi in base ad esso stabilire, nella verifica di eventuale estinzione del reato, l'efficacia dei fatti interruttivi o sospensivi di volta in volta intervenuti".

Nella pronuncia, la Corte, premettendo di condividere l'approdo interpretativo secondo cui anche prima della previsione espressa, introdotta con la novella normativa del 2005, i reati punibili con l'ergastolo erano imprescrittibili, afferma però che soltanto sulla base della legge precedente può tenersi conto delle circostanze attenuanti e del giudizio di comparazione, con possibilità pertanto che la conseguente diminuzione di pena abbia incidenza sulla determinazione del tempo di prescrizione; mentre invece l'attuale testo dell'art. 157 c.p. impedisce, ai fini del computo della prescrizione, che abbiano rilievo la diminuzione per le circostanze attenuanti e i risultati del giudizio di comparazione tra circostanze.

E' interessante, altresì, rimarcare che nell'arresto da ultimo citato, la Corte ha ritenuto che la minore età, ostativa all'irrogazione della pena dell'ergastolo secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 168 del 1994, va considerata una circostanza attenuante da cui altro non può derivare che la sostituzione della pena dell'ergastolo con la pena temporanea della reclusione nella misura massima di ventiquattro anni, secondo la previsione dell'art. 23 del codice penale.

In prospettiva, quindi, i reati commessi da minorenne dopo l'entrata in vigore della 1. n. 251 del 2006, punibili in astratto con l'ergastolo dovranno considerarsi imprescrittibili anche se la pena perpetua, in virtù dell'obbligatoria applicabilità della circostanza minore età, non sarà in concreta mai applicabili a chi non ha compiuto i diciotto anni.

  • confisca di beni
  • criminalità organizzata

Sezione II

La confisca

Sommario

1 La confisca: uno strumento moderno di lotta al crimine organizzato. - 2 La confisca senza condanna: lo stato dell'elaborazione della precedente giurisprudenza. - 3 La posizione assunta dalla Cassazione nel 2013.

1. La confisca: uno strumento moderno di lotta al crimine organizzato.

La confisca è uno strumento che sta assumendo sempre più un ruolo fondamentale nel contrasto alla criminalità, soprattutto di tipo organizzato.

E', infatti, affermazione generalmente condivisa, non solo in sede nazionale ma anche internazionale, quella secondo cui solo sottraendo i proventi delle attività delinquenziali sarà possibile arginare lo strapotere dei gruppi criminali organizzati.

E per tale ragione che si sta lavorando, quantomeno in sede europea, sia per consentire, allo stesso modo delle misure cautelari personali, un'ampia esecuzione delle confische in tutti i paesi dell'unione sia per imporre, come tendenzialmente obbligatoria nello spazio europeo, l'adozione di norme che consentono questa misura ablatoria ed in questa prospettiva è prossima l'adozione di un direttiva comunitaria proprio sulla questione de qua.

Per l'importanza del tema la confisca sarà oggetto di trattazione in più sezioni di questo lavoro; altrove ci si occuperà in particolare della misura ablatoria prevista in sede di prevenzione e dei rapporti fra quest'ultima e quella di cui all'art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992.

In questa sezione, invece, si farà menzione degli interventi giurisprudenziali riferiti ad un punto specifico, sul quale è in corso una significativa riflessione anche in sede dottrinaria e cioè sulla possibilità o meno di irrogare la misura patrimoniale anche in assenza di una sentenza di condanna, quando il reato si sia estinto soprattutto per prescrizione.

E' un argomento sul quale nel corso degli anni sono intervenute già due volte le sezioni unite senza riuscire a impedire, immediatamente dopo, il riemergere di posizioni diverse.

Anche nel corso del 2013, la giurisprudenza della Corte registra posizioni contrastanti che fanno pensare non lontana un'ulteriore pronuncia della forma più alta della nomofilachia.

2. La confisca senza condanna: lo stato dell'elaborazione della precedente giurisprudenza.

Nell'ordinamento penale vi è un solo caso in cui il legislatore consente espressamente l'esercizio di poteri ablativi anche in caso di proscioglimento dell'imputato; è quello della confisca delle cose c.d. assolutamente vietate, prevista dall'art. 240, c. 2, n. 2, c.p., ossia, le cose la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione o l'alienazione delle quali costituisce reato.

In tutte le altre ipotesi, invece, il legislatore parrebbe subordinare l'operatività della confisca alla pronuncia di una sentenza di condanna a carico dell'imputato.

Una parte minoritaria della giurisprudenza, però, aveva ritenuto, già in passato, di poter ammettere la confisca con una sentenza di proscioglimento sia pure solo a seguito della declaratoria di estinzione del reato, essenzialmente in base a due argomenti; l'art. 210 comma 1 c.p. secondo cui l'estinzione del reato impedisce l'applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l'esecuzione, è norma non applicabile alla confisca in virtù dell'art. 236, comma 2, c.p., dal che deriverebbe che la misura patrimoniale, a differenza delle altre misure di sicurezza, sarebbe irrogabile anche in presenza di una fattispecie estintiva del reato; l'art. 240, comma 2, c.p. contiene, con riferimento alla confisca obbligatoria del prezzo del reato e delle cose c.d. assolutamente vietate, l'espressione è sempre ordinata la confisca, locuzione che imporrebbe al giudice di applicare la misura ablativa indipendentemente dalla presenza o meno della sentenza di condanna, a differenza di quanto accade per la confisca facoltativa ex art. 240, c. 1, c.p. per la cui applicazione è esplicitamente richiesta la condanna.

La tesi largamente maggioritaria, invece, escludeva carattere decisivo agli argomenti letterali indicati, in quanto il testo dell'art. 240 c.p. - e cioè proprio della norma che detta le condizioni di applicabilità della confisca - espressamente richiede la condanna, quanto meno in relazione all'ipotesi facoltativa ex art. 240, comma 1, c.p..

Questa opzione fu sposata da Sez. un., 25 marzo 1993 - dep. 23 aprile 1993, n. 5, Carlea, Rv. 193119-193120; oggetto della decisione fu, in quell'occasione, la speciale ipotesi di confisca obbligatoria in materia di gioco d'azzardo prevista dall'art. 722 c.p.; l'identità tra la formula contenuta in quella norma (è sempre ordinata la confisca del denaro esposto e degli strumenti impiegati nel gioco) e quella di cui all'art. 240, c. 2, c.p. consentiva agevolmente estendere il principio di diritto enunciato all'intera materia della confisca di cui all'art. 240 c.p.

In motivazione, le Sezioni Unite avevano, altresì, sottolineato l'intrinseca razionalità della soluzione adottata, evidenziando come - per poter disporre la confisca nel caso di estinzione del reato - il giudice dovrebbe svolgere degli accertamenti in genere incompatibili con i limiti cognitivi imposti dalla particolare fase processuale nella quale viene dichiarata l'estinzione del reato; non è casuale, in questo senso, che l'unica ipotesi di confisca ammessa in caso di estinzione del reato sia quella dell'art. 240, comma 2, n. 2, c.p. perché "focalizzata soprattutto sulle caratteristiche delle cose da confiscare, le quali in genere non richiedono accertamenti anomali rispetto all'obbligo dell'immediata declaratoria di estinzione del reato".

Malgrado, l'intervento della forma più alta di nomofilachia il contrasto non venne del tutto superato, tanto che a distanza di quindici anni è stata necessaria un'ulteriore pronuncia; ci si riferisce, in particolare, a Sez. un., 10 luglio 2008 - dep. 15 ottobre 2008-, n. 38834, De Maio, Rv. 240565.

L'ipotesi scrutinata concerneva la confiscabilità di alcuni beni costituenti prezzo del reato ex art. 240, comma 2, n. 1, c.p. e rispetto ad essa le Sezioni Unite confermarono l'orientamento maggioritario, riprendendo integralmente le motivazioni contenute nella sentenza Carlea; affrontando specificamente l'argomento relativo alla portata dell'inciso "anche se non è stata pronunciata condanna", contenuto nel'art. 240 comma 2 c.p., chiarirono, sul punto, che se il legislatore avesse voluto riferire l'inciso suddetto ad entrambi i numeri del comma, l'avrebbe inserito all'inizio del capoverso.

Se, tuttavia, le Sezioni Unite nel 1993 si erano premurate non solo di dimostrare la cogenza di tale conclusione alla luce del principio di legalità, ma si erano altresì sforzate di mostrare la sua intrinseca logicità alla luce dei limiti cognitivi connaturati alla particolare situazione processuale che il giudice incontra allorché ravvisi la sussistenza di una delle cause di non punibilità, la nuova pronuncia del 2008 andò oltre; ricordò che l'attuale codice di rito prevede ampi poteri di accertamento in capo al giudice che rilevi la sussistenza di una causa estintiva del reato, come ad esempio avviene ai sensi dell'art. 576 c.p.p ovvero dell'art. 425 comma 4 c.p.p., ed aggiunse che nell'ordinamento penale esistono ipotesi di confisca nelle quali si ammette l'applicabilità anche in assenza di condanna, quali quella per il reato di lottizzazione abusiva (art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001) e per i reati di contrabbando (art. 301 D.P.R. 43/1973).

Quest'ampia digressione servì alla Corte per segnalare al legislatore una lacuna di effettività, alla quale sarebbe stato opportuno porre rimedio.

Questi riferimenti ai poteri cognitivi del giudice, nonostante l'intervenuta estinzione del reato, hanno rappresentato l'argomento a cui una parte minoritaria della giurisprudenza successiva si è appellata per porsi in difformità; a solo a titolo esemplificativo è opportuno citate due arresti quasi coevi a quello delle Sezioni Unite.

In particolare, Sez. I, 4 dicembre 2008 - dep. 21 gennaio 2009, n. 2453, Squillante, Rv. 243027, dovendo decidere della legittimità di un'ordinanza emessa dal g.i.p., quale giudice dell'esecuzione, che aveva archiviato per prescrizione un'ipotesi di corruzione ma disposto la confisca di alcune somme ritenute prezzo del delitto non annullò senza rinvio la decisione ma, segnalando al g.i.p. le sempre più numerose ipotesi in cui la legge riconosce al giudice ampi poteri di accertamento del fatto di reato, annullò con rinvio richiedendo di motivare diversamente il proprio convincimento; Sez. II, 25 maggio 2010 - dep. 24 agosto 2010, n. 32273, Pastore, Rv. 248409, occupandosi di un'ipotesi di confisca obbligatoria ex art. art. 12-sexies del d.l. 306/1992 nei confronti di un soggetto condannato in primo grado ma prosciolto in appello per prescrizione, affermò che in tutti i casi di confisca c.d. obbligatoria, al giudice che accerti il reato e il rapporto di derivazione che lega la cosa oggetto di confisca al reato stesso, va riconosciuto il potere/dovere di procedere a confisca, anche in caso di estinzione del reato; ciò che rileva, quindi, è che sia accertato il presupposto della misura ablatoria, cioè la sussistenza del fatto di reato.

3. La posizione assunta dalla Cassazione nel 2013.

Si è già sopra accennato come i diversi orientamenti formatisi nel tempo si sono manifestati anche nel corso del 2013.

La tesi maggioritaria, in linea con le affermazioni delle sezioni unite poco sopra riferite, si è esplicitata in due occasioni ed in entrambi i casi ha, però, riguardato l'ipotesi della confisca cd per equivalente.

Sia Sez. VI, 25 gennaio 2013 - dep. 17 maggio 2013, n. 21192, Barla, Rv. 255367 che Sez. VI, 6 dicembre 2012 - dep. 29 aprile 2013, n. 18799, Attianese, Rv. 255164 hanno, infatti, ritenuto non applicabile la misura in esame con la dichiarazione di estinzione.

La seconda delle due decisioni citate ha precisato, in particolare, che "l'estinzione del reato preclude la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto, potendo la stessa applicarsi, al pari delle sanzioni penali, solo a seguito dell'accertamento della responsabilità dell'autore del reato".

Il ragionamento utilizzato a sostegno della conclusione parte dalla considerazione secondo cui la confisca c.d. per equivalente, diversamente dall'istituto tradizionale disciplinato dall'art. 240 c.p., trovi il suo fondamento nel vantaggio tratto dal reato e prescinda dalla pericolosità derivante dalla res, in quanto non è commisurata né alla colpevolezza dell'autore del reato, né alla gravità della condotta, avendo essa come obiettivo quello di impedire al colpevole di garantirsi le utilità ottenute attraverso la sua condotta criminosa.

Nonostante la definizione codicistica, l'effettiva ratio della confisca per equivalente consiste in un ampliamento oggettivo delle cose confiscabili per finalità prevalentemente sanzionatore; in particolare, "..scopo di questo istituto è quello di superare le angustie della confisca "tradizionale", rispetto alla quale si pone in un rapporto di alternatività-sussidiarietà, per la sua attitudine a costituire un rimedio alle difficoltà di apprensione dei beni coinvolti nella vicenda criminale, cioè a supplire agli ostacoli connessi alla individuazione del bene in cui si incorpora il profitto e di consentire la confisca anche nel caso in cui l'apprensione del prezzo o del profitto derivante dal reato non sia più possibile in conseguenza dell'avvenuta cessione a terzi oppure a causa di forme di occultamento o, semplicemente, perché i beni sono stati consumati".

Essa ha, quindi, natura sanzionatoria e ciò impedisce che possa essere disposta in relazione al prezzo o al profitto derivante da un reato estinto per prescrizione, essendo, invece, indispensabile che sia preceduta da una sentenza di condanna e dovendosi escludere l'applicazione del regime sulle misure di sicurezza patrimoniale previsto dagli artt. 200, 210 e 236 c.p.

Due arresti, invece, sono giunti ad ammettere la confisca anche in assenza di una sentenza di condanna.

Sez. VI, 11 ottobre 2012 - dep. 7 marzo 2013, n. 10887, Alfiero, Rv. 254785 ha ammesso la confisca in presenza di una dichiarazione di non doversi procedere, giustificata dall'esistenza di un precedente giudicato, in particolare, affermando che "La confisca prevista dall'art. 12 sexies D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, può essere disposta dal giudice della cognizione anche quando lo stesso emetta nei confronti dell'imputato sentenza di non doversi procedere per precedente giudicato di affermazione della responsabilità penale, laddove essa trovi comunque fondamento in una sentenza di condanna. (Fattispecie relativa ad imputato per il reato previsto dall'art. 416 bis cod. pen. già condannato in altro processo per il medesimo reato)".

Sez. VI, 25 dicembre 2013 - dep. 23 luglio 2013, n. 31957, Cordaro, Rv. 255595, invece, ha ritenuto che "L'estinzione del reato per prescrizione non preclude la confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo, nei casi in cui vi sia comunque stato un accertamento incidentale, equivalente a quello contenuto in una sentenza di condanna, della responsabilità dell'imputato e del nesso pertinenziale fra oggetto della confisca e reato".

Nella specie, la Corte è partita proprio dall'affermazione contenuta nella decisione delle Sezioni Unite del 2008 ed evidenziato come "un attento esame della stessa ratio decidendi di tale pronuncia, avuto riguardo anche agli apporti successivi della giurisprudenza di legittimità sul tema controverso" consenta di ritenere che la "condanna" cui si riferisce l'art. 240 c.p. "funge da presupposto quale termine evocativo proprio di quell'accertamento che ontologicamente giustifica, sul piano normativo, la sottrazione definitiva del bene, in quanto proveniente dal reato"; "ciò che viene posto a fulcro della disciplina codicistica, non è il rinvio ad un concetto di condanna evocativo della categoria del giudicato formale, ma - più concretamente - il richiamo ad un termine che intende esprimere un valore di equivalenza rispetto all'accertamento definitivo del reato, della responsabilità e del nesso di pertinenzialità che i beni oggetto di confisca devono presentare rispetto al reato stesso: a prescindere, evidentemente, dalla formula con la quale il giudizio viene ad essere formalmente definito"

La confisca, quindi, in questa prospettiva, può essere disposta sui beni costituenti il prezzo di una corruzione anche nel caso in cui il reato sia dichiarato prescritto, a condizione, però, che sia stato celebrato un giudizio in cui sia compiuto un accertamento della responsabilità penale; diversamente la confisca sarebbe preclusa quando la prescrizione maturi prima dell'esercizio dell'azione penale, ovvero quando l'estinzione sia dichiarata in sede di udienza preliminare ovvero, ancora, nel corso del dibattimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.

E' utile anche ricordare come la giurisprudenza di legittimità ha ribadito la possibilità di procedere a confisca per il reato di lottizzazione abusiva anche se quest'ultimo è stato dichiarato estinto per prescrizione; lo ha fatto Sez. III, 4 febbraio 2013 - dep. 15 aprile 2013 n. 10066, Volpe, Rv. 255112, il cui principio di diritto risulta così massimato "La confisca dei terreni può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato (nella specie, della prescrizione), purchè sia accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell'ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, e che verifichi l'esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l'aspetto dell'imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta legittima la confisca dei terreni nonostante la prescrizione del reato, all'esito dell'accertamento della rimproverabilità della condotta degli imputati e della illegittimità della concessione edilizia rilasciata in zona di inedificabilità assoluta).

La Corte in particolare ha affermato che la norma prevista dall'art. 44 D.P.R. 380/2001 lascerebbe "inequivocabilmente intendere non essere necessaria una sentenza di condanna quale presupposto della confisca (si veda del resto, in proposito, la significativa differenza di formulazione rispetto all'art. 31 del citato D.P.R. in tema di demolizione del manufatto abusivo, ove espressamente si menziona la "sentenza di condanna"), ma unicamente l'intervenuto effettivo accertamento della sussistenza di una condotta di lottizzazione".

La decisione che già sembrava porsi in tensione con le affermazioni contenute nella sentenza della Corte Edu del 20 gennaio 2009, nel caso sud Fondi c/Italia sembrerebbe essere contraddetta anche dall'ulteriore e più recente sentenza emessa sempre dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo il 29 dicembre 2013, Varvara c. Italia, con cui si è ritenuto che l'applicazione della confisca urbanistica nelle ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato costituisce una violazione del principio di legalità sancito dall'art. 7 Cedn.

La Corte, in particolare, dopo aver ribadito che il proprio orientamento secondo cui la confisca c.d. urbanistica è una "pena" ai sensi dell'art. 7 della Convenzione, ha osservato che l'art. 7 Cedu non si limita a richiedere la necessità di una base legale per i reati e per le pene, ma implica altresì l'illegittimità dell'applicazione di sanzioni penali per fatti commessi da altri o comunque che non sia fondata su di un giudizio di colpevolezza.

Per completezza, infine, è opportuno fare cenno anche alla tematica della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e mancata condanna per il reato presupposto (D.lgs. n. 231 del 2001).

Sull'argomento si era posta la questione della possibilità da parte del giudice di accertare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche anche nel caso in cui non si pronunci una sentenza di condanna per il reato presupposto.

Sullo specifico tema è, in particolare, intervenuta Sez. VI, 25 gennaio 2013 - dep. 17 maggio 2013 n. 21192, Barla, Rv. 255369, che ha stabilito il principio così massimato: "In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell'art. 8, comma primo, lett. b) D.Lgs. n. 231 del 2001, deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato".

Non diversamente, Sez. V, 4 aprile 2013 - dep. 9 maggio 2013, n. 20060, Citibank N.A., Rv. 255414-5 secondo cui l'intervenuta prescrizione del reato presupposto successivamente alla contestazione all'ente dell'illecito non ne determina l'estinzione per il medesimo motivo, giacché il relativo termine, una volta esercitata l'azione, non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della persona giuridica.

In particolare, nella occasione la Corte ha ritenuto che all'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo, non consegue automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi dell'art. 8 del D.Lgs. n. 231 del 2001, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato.

  • corruzione
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO IV - DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMNISTRAZIONE --- Sezione I

Le modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012

Sommario

1 L'importanza della legge n. 190 del 2012 nel contrasto alla corruzione. - 2 La continuità normativa fra le fattispecie di concussione ed indebita induzione. - 3 Il criterio distintivo fra concussione ed indebita induzione. - 4 L'individuazione del momento consumativo del delitto di indebita induzione. - 5 Il confine fra induzione indebita e corruzione. - 6 Le prime pronunce in tema di corruzione per l'esercizio delle funzioni e di traffico di influenze.

1. L'importanza della legge n. 190 del 2012 nel contrasto alla corruzione.

La legge 6 novembre 2012, n. 190 contenente "disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella Pubblica amministrazione" è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale del 13 novembre del 2012 ed è entrata, quindi, in vigore il successivo 28 novembre.

Contiene oltre che una disciplina innovativa in tema di prevenzione in chiave amministrativa del fenomeno corruttivo anche numerose novità sul versante penalistico; accanto, infatti, all'aumento dei limiti edittali minimi e massimi di alcuni reati (si v. a titolo esemplificativo l'aumento delle pena nel minimo e nel massimo della corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio o l'aumento della pena solo nel massimo per l'abuso di ufficio) ha introdotto alcune novità particolarmente significative; in particolare è intervenuto sulla fattispecie di concussione, sdoppiandola in due; ha riformulato la norma dell'art. 318 cod. pen. che oggi non punisce più la corruzione per atto di ufficio ma quella per l'esercizio delle funzioni; ha introdotto ex novo l'ipotesi delittuosa del traffico di influenze, inserendo un nuovo articolo nel capo II del titolo II (Dei delitti contro la pubblica amministrazione), dedicato specificamente ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione subito dopo la norma sul millantato credito.

Su queste nuove disposizioni è già intervenuta in più occasioni la Cassazione che, pur chiamata a risolvere problemi di diritto intertemporale, ha anche fornito alcune indicazioni particolarmente significative sulle novità legislative.

In particolare, sono state numerose le pronunce in materia di concussione che hanno dato luogo, fra l'altro, ad un contrasto di posizioni nella giurisprudenza della sezione competente per materia (la Sesta sezione) ed hanno reso necessario l'intervento delle Sezioni unite. Di questa decisione ad oggi è nota soltanto l'informazione provvisoria, non essendo stata ancora depositata la motivazione. Numericamente minori, ma non meno importanti, appaiono gli arresti della Corte sulle altre innovazioni introdotte dalla legge.

2. La continuità normativa fra le fattispecie di concussione ed indebita induzione.

La più importante delle novità della legge n. 190 del 2012 è certamente quella in materia di concussione.

Dall'unica norma dell'art. 317 c.p. sono, infatti, gemmate due fattispecie.

L'articolo ante riforma rubricato "concussione" puniva "il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o promettere indebitamente a lui o a un terzo denaro o altra utilità".

L'attuale art. 317 c. p. che mantiene la dizione di "concussione", punisce, invece, con una pena maggiore nel minimo di quella precedente (oggi da "sei a dodici anni di reclusione"; ieri da "quattro a dodici anni di reclusione") "il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità".

La condotta di induzione, invece, è finita nell'art. 319-quater, primo comma, c.p. la cui rubrica recita "induzione indebita a dare o promettere utilità"; sanziona, con una pena inferiore sia rispetto all'attuale che alla pregressa concussione (la reclusione da "tre ad otto anni") "il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità".

Già ad una rapidissima lettura risulta evidente come, nel confronto delle disposizioni precedenti ed attuali, non si è proceduto ad una scissione pura e semplice; nell'attuale concussione è "scomparso" il riferimento, quale possibile soggetto attivo del reato, all'incaricato di pubblico servizio; nella nuova ipotesi di induzione è "apparsa" la punibilità di quella che, fino al 28 novembre 2012, era soltanto la parte offesa del delitto.

La prima questione che le innovazioni legislative hanno posto alla giurisprudenza ha riguardato i rapporti fra la norma precedente e le due disposizioni ex novo introdotte.

Delle pronunce in questione si è già fatto cenno sopra trattando del tema della successione delle leggi nel tempo, ma è opportuno ritornare in questa sede sull'argomento con maggiori dettagli.

In premessa si può affermare che la risposta ad oggi fornita dalla Cassazione è nel senso che nessuna decriminalizzazione si è verificata; le due nuove fattispecie si pongono in rapporto di continuità con la pregressa.

In particolare, Sez. VI, 25 febbraio 2013 - dep. 21 marzo 2013, n. 13407, Piccinno, Rv. 254446 ha ritenuto che un'attività di tipo costrittivo per farsi dare o promettere denaro o altra utilità, posta in essere da un incaricato di pubblico servizio, seppure espunta dal nuovo art. 317 c.p., sarà anche in futuro penalmente rilevante; non più come concussione ma come estorsione (aggravata ex art. 61, n. 9 dall'abuso di qualità), essendo quest'ultima norma generale rispetto alla prima e, quindi, idonea a riassorbire quei comportamenti in passato sanzionati ex art. 317 c.p.

Anche i fatti ascrivibili all'incaricato di pubblico servizio commessi prima del 28 novembre 2012, quindi, resteranno sanzionabili, anche se è necessario segnalare che il giudice, nell' individuare quale norma in concreto risulterà applicabile, non potrà non tener conto della non perfetta coincidenza delle due fattispecie. La concussione si consuma, infatti, con la mera promessa dell'utilità; l'estorsione richiede, invece, che l'ingiusto profitto sia conseguito. Le pene edittali, inoltre, sono diverse; il delitto di cui all'art. 629 cod. pen., rispetto alla pregressa ipotesi di concussione, ha una pena più bassa nel massimo, ma maggiore nel minimo; rispetto all'attuale, è punita meno gravemente nel minimo e nel massimo, anche se la pena dell'estorsione diventa superiore se scattano l'aggravante ordinaria dell'art. 61, n. 9 c.p. o quella speciale di cui all'art. 628 c.p., e, quindi, anche se il reato venga commesso da più persone riunite.

Alla medesima conclusione in termini di continuità fra le fattispecie, la Suprema Corte è giunta anche con riferimento a quella condotte induttive per le quali era stato ritenuto applicabile il delitto di cui dell'art. 317; esse resterebbero ancora punibili ai sensi dell'art. 319-quater.

La novità, rappresentata dall'essere oggi punito anche l'indotto - nei cui confronti, quindi, quella del comma 2 dell'art. 319-quater è una nuova ipotesi di incriminazione - non può condurre, infatti, all'opposta conclusione; il comportamento sanzionato nei confronti del pubblico agente resta, oggi come ieri, identico: cioè, sempre l'attività di induzione; e del resto la struttura del reato anche in passato era già naturalisticamente plurisoggettiva, anche se la sanzione penale colpiva solo l'appartenente alla Pubblica Amministrazione (così, Sez. VI, 3 dicembre 2012 - dep. 22 gennaio 2013, n. 3251, Roscia, Rv. n. 253935; in termini, Sez. VI, 11 febbraio 2013- dep. 15 marzo 2013, n. 12388, Sarno, Rv. n. 254441 e Sez. VI, 11 febbraio 2013 - dep. 12 marzo 2013, n. 11792, Castelluzzo, Rv. 254437)

La Corte ha anche opportunamente precisato che il rapporto successorio fra le due norme (quella pregressa di cui all'art. 317 e quella attuale di cui all'art. 319-quater) è da ritenersi regolato esclusivamente dall'art. 2, comma 4 cod. pen. (così, Sez. VI, 7 maggio 2013 - dep. 21 maggio 2013, n. 21701, Ancona, Rv. n. 255075) e che non vi è alcuna ipotesi di decriminalizzazione (Sez. VI, 23 maggio 2013 - dep. 9 luglio 2013, n. 29338, Pisano, Rv. n. 255615).

Una volta esclusa l'abolitio criminis, per i pregressi fatti di induzione, per i quali non sia intervenuta sentenza passata in giudicato, il condannato ha diritto a beneficiare sia del trattamento più favorevole ex art. 2, comma 4, cod. pen., sia sul fronte sanzionatorio che su quello dei termini di prescrizione.

La Cassazione potrà procedere direttamente alla riqualificazione del fatto così come già accertato nei gradi di merito e, di conseguenza, ritenere sussistente, in presenza di una precedente condanna per concussione ante riforma, la fattispecie di cui all'art. 319 quater cod. pen.. Qualora ciò accada, se non deve dichiarare la prescrizione del reato, rinvierà al giudice del merito per la rideterminazione della pena, senza che decorrano ulteriori termini di prescrizione (Sez. VI, 8 marzo 2013 - dep. 1 luglio 2013, n. 28412, Nogherotto, Rv 255608).

In due occasioni, però, la Corte ha ritenuto essergli preclusa questa possibilità di riqualificazione del fatto; in particolare quando l'inquadramento della condotta, sotto il profilo della costrizione oppure sotto quello dell'induzione, sia stato effettuato esplicitamente dal giudice di merito ed esso non sia stato contestato con i motivi di ricorso (Sez. VI, 8 febbraio 2013 - dep. 3 giugno 2013, n. 23954, Breccia, Rv. 255370; Sez. VI, 25 gennaio 2013 - dep. 23 luglio 2013, n. 31957, Cordaro, Rv. 255597).

3. Il criterio distintivo fra concussione ed indebita induzione.

L'aspetto maggiormente problematico della novella attiene all'individuazione dell'esatto criterio distintivo della "costrizione" rispetto all'"induzione", termini questi ultimi attraverso cui il legislatore ha descritto le condotte rispettivamente dei delitti di cui agli artt. 317 e 319-quater c.p..

Si tratta, in verità, di un aspetto già controverso nella vigenza dell'art. 317 anteriforma, ma la questione aveva avuto un impatto pratico molto limitato, atteso che le due condotte erano costruite come alternative e punite allo stesso modo nell'ambito dell'unica fattispecie incriminatrice

Con le modifiche della legge n. 190 del 2012, l'importanza di distinguerle diventa oggettivamente rilevante, non solo perché rende diversamente punibile la condotta del pubblico agente ma perché può comportare la sanzionabilità anche di chi abbia accettato di pagare o promettere denaro o altra utilità.

Nella giurisprudenza della Cassazione sono emersi tre diversi orientamenti.

Un primo ritiene che - essendo nate le due nuove fattispecie delittuose per un mero sdoppiamento dell'unica previgente - bisogna continuare ad utilizzare i criteri che la giurisprudenza di legittimità aveva proposto per distinguere la costrizione e l'induzione nell'ambito dell'unica figura di concussione.

Sarebbe, quindi, l'intensità della pressione psichica prevaricatrice ad indicare l'esatto confine fra le due condotte; l'induzione sarebbe caratterizzata da una più blanda o tenue attività del pubblico agente e cioè da suggestione, persuasione o forme di pressione morale, tali da non condizionare gravemente la libertà di determinazione dell'indotto, il quale sarebbe oggi punibile - se, consapevole della illiceità della pretesa, abbia dato o promesso l'utilità al funzionario pubblico - perché, conservando un ampio margine di libertà, potrebbe scegliere di respingere la richiesta; nella costrizione, invece, l'attività di pressione verrebbe effettuata con modalità più marcatamente minacciose, tali da provocare uno stato di timore in cui quella libertà di autodeterminazione, pur non eliminata, finirebbe per essere di fatto compressa, tanto da poter raffigurare il destinatario della indebita pretesa come una vittima, e come tale non punibile.

Tre sarebbero gli argomenti a sostegno dell'indicata conclusione; in particolare, la "voluntas legis" (utilizzando le identiche parole della pregressa fattispecie per individuare l'elemento oggettivo delle nuove, il legislatore non può non avere tenuto conto di quale era la lettura delle stesse proposta dal "diritto vivente"); il mantenimento di una sostanziale identità della struttura della fattispecie (anche in passato la concussione induttiva era naturalisticamente plurisoggettiva, richiedendo la "collaborazione" di un soggetto - l'autore della promessa o della dazione - che prima era stato considerato vittima, oggi, per una diversa valutazione del legislatore, "complice"); l'irrilevanza del cd. "slittamento" sistematico verso la corruzione (la scelta del legislatore di inserire la nuova fattispecie subito dopo i reati di corruzione si spiega solo in ragione di una previsione di pena più contenuta per il reato dell'art. 319 quater; il nuovo reato resta, però, diverso strutturalmente dalle fattispecie corruttive e molto simile alla pregressa ed attuale concussione, per l'identità di un elemento costitutivo e cioè l'abuso dei poteri e della qualità) (Sez. VI, 18 dicembre 2012 - dep. 21gennaio 2013, n. 3093, Aurati, Rv. 253947; Sez. VI, 4 dicembre 2012- dep. 21 febbraio 2013, n. 8695, Nardi, Rv. 254114; Sez. VI,11 gennaio 2013 - dep. 8 aprile 2013, n. 16154, Pierri, Rv. 254539; Sez. VI, 11 gennaio 2013 - dep. 15 aprile 2013, n. 17285, Vaccaro, Rv. 254621; Sez. VI, 11 gennaio 2013 - dep. 30 aprile 2013, n. 18968, Rv. 255072; Sez. VI, 11 febbraio 2013 - dep. 15marzo 2013, n. 12388, Sarno, Rv. 254441; Sez. VI, 25 gennaio 2013, dep. 17 maggio 2013, n. 21192, Barla, Rv. 255366; Sez. VI, 8 marzo 2013 - dep. 1luglio 2013, n. 28412, Nogherotto, Rv. 255607; Sez. VI, 12 giugno 2013 - dep. 1 luglio 2013, n. 28431, Cappello, Rv. 255614).

Un secondo orientamento ritiene che la costrizione, elemento materiale della concussione, sussista quando il pubblico agente utilizzi la sola violenza morale (in quanto quella fisica dovrebbe considerarsi esclusa, perché eccede in maniera così vistosa i poteri dell'agente) e cioè quando minacci, in modo implicito o esplicito, un male ingiusto alla vittima, prospettandogli una possibile lesione patrimoniale o non patrimoniale; l'induzione, azione tipica del reato di cui all'art. 319 quater cod. pen., sarebbe, invece, definibile "per sottrazione"; in essa non vi rientrerebbe, quindi, la minaccia, ma forme diverse di pressione, poste in essere dal pubblico agente prospettando al suo interlocutore l'alternativa fra il sottostare alla sua richiesta di dare o promettere o il subire conseguenze per lui si sfavorevoli, ma derivanti dall'applicazione della legge.

L'esclusione dall'induzione di ogni forma di minaccia giustificherebbe sia il minor grave trattamento sanzionatorio rispetto alla concussione, sia la punizione di chi accetta di pagare, ricevendone anche un suo tornaconto.

Per giungere a conclusione, si parte da una premessa - è vero che i due verbi in passato erano già stati utilizzati per indicare le condotte alternative della concussione, ma la previsione di un'identica punizione non aveva stimolato la ricerca di un preciso criterio distintivo ed aveva portato semplicisticamente quasi a considerarli un'endiadi e cioè come se nella norma fosse stato scritto "costringendo induceva"; solo con la scissione operata nel 2012 è necessario tratteggiare un confine netto - e si sviluppano, poi, tre passaggi argomentativi.

Il primo di essi è di natura linguistico-letterale: costringere è un verbo che riesce a descrivere l'azione; indurre, invece, fa riferimento più all'effetto, alla conseguenza che non al mezzo utilizzato per ottenerla (lo dimostra la lettura sistematica di varie norme del codice penale in cui la parola induzione viene utilizzata come "evento", tanto da essere associata ad altre - come violenza, inganno etc. - che indicano, invece, la modalità dell'azione); questa considerazione ne impone, quindi, una lettura residuale rispetto al più chiaro concetto di costrizione; se quest'ultimo implica l'uso della minaccia intesa come prospettiva di un male ingiusto, l'induzione deve essere una non minaccia, e tale può essere la prospettazione all'interlocutore sì di un danno, ma che per non essere minaccioso (e cioè ingiusto) deve consistere in un conseguenza che, pur negativa, derivi dall'applicazione della legge.

Il dato letterale trova conferma nella struttura della fattispecie; l'induzione indebita, così come la concussione, richiede un momento di prevaricazione da parte del pubblico agente, costituito dall'abuso di qualità e di poteri; se la prevaricazione nella concussione si struttura nella minaccia di un danno ingiusto, nell'induzione non può che manifestarsi con il prospettare un danno de iure, conseguente l'applicazione della norma. La costruzione proposta, infine, riesce a dare un significato razionale alla scelta legislativa sia di punire più gravemente chi costringe rispetto a chi induce, sia di sanzionare colui che da o promette l'utilità (Sez. VI, 3 dicembre 2012 - dep. 22 gennaio 2013, n. 3251, Roscia, Rv. 253938; Sez. VI, 3 dicembre 2012 - dep. 15 febbraio 2013, n. 7495, Gori, Rv. 254021; Sez. VI, 14 gennaio 2013, - dep. 17 aprile 2013, n. 17593, Marino, Rv. 254622: Sez. VI, 15 febbraio 2013- dep. 18 aprile 2013, n. 17943, Sammatrice, Rv. 254730; Sez. VI, 27 marzo 2013 - dep. 17 giugno 2013, A.r.p.a., n. 26285, Rv. 255371; Sez. VI, 23 maggio 2013 - dep. 9 luglio 2013, n. 29338, Pisano, Rv. 255616)

In questo stesso filone si ascrivono anche decisioni che aggiungono un ulteriore argomento ermeneutico, di carattere sistematico; con l'esclusione della punibilità della concussione per l'incaricato di pubblico servizio, i fatti costrittivi eventualmente posti in essere da un soggetto che rivesta tale qualifica diventano punibili in base alla norma "generale" dell'estorsione; e siccome quest'ultima punisce qualsivoglia forma di minaccia - sia essa esplicita o implicita, pressante o blanda - per evitare irrazionalità sul piano punitivo - e soprattutto per evitare il paradosso di un pubblico ufficiale che per una minaccia blanda risponderebbe ex art. 319 quater laddove per l'incaricato di pubblico servizio sarebbe configurabile la più grave ipotesi di estorsione - deve concludersi che ogni ipotesi di minaccia, anche se posta da pubblico ufficiale, rientri nel concetto di costrizione punito dall'art. 317 (a questo argomento fanno, in particolare riferimento, Sez. VI, 25 febbraio 2013 - dep. 21 marzo 2013, n. 13047, Piccino, Rv. 254466; Sez. VI, 26 febbraio 2013 - dep. 12 aprile 2013, n. 16566, Caboni, Rv. 254624).

Un terzo filone giurisprudenziale, infine, definibile intermedio parte dalle premesse formulate dal primo degli appena indicati indirizzi ma finisce per proporre una soluzione interpretativa che si avvicina a quella formulata dal secondo orientamento; in particolare, l'induzione sussisterebbe in presenza di una pressione psichica esercitata dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio che si caratterizza, a differenza della costrizione, per la conservazione, da parte del destinatario di essa, di un significativo margine di autodeterminazione o perché la pretesa gli è stata rivolta con un'aggressione più tenue e/o in maniera solo suggestiva, ovvero perché egli è interessato a soddisfare la pretesa del pubblico ufficiale, per conseguire un indebito beneficio.

Questa tesi, pur partendo dalla considerazione secondo cui deve ritenersi necessario partire dal criterio distintivo tracciato dalla giurisprudenza nella vigenza del precedente art. 317, evidenzia, però, come esso aveva dato luogo a difficoltà interpretative, soprattutto per comprendere in quale delle due situazioni ci si trovasse in una serie di "casi limite", come quando la pretesa fosse stata fatta valere con modalità subdole e larvate, ma fosse in concreto idonea a cagionare una vera e propria costrizione implicita.

Questi innegabili problemi giustificherebbero oggi la necessità di individuare un correttivo alla tesi tradizionale che tenga conto anche della novità costituita dalla punizione dell'indotto.

Il "correttivo" andrebbe individuato nel tipo di vantaggio che il destinatario della pretesa persegue; se questi accetta di subire l'imposizione solo per evitare un danno (certat de damno vitando), è evidentemente costretto; va, invece, considerato indotto se decide di promettere o pagare l'utilità perché il pubblico agente formula la richiesta ponendola come condizione per il mancato compimento di un atto doveroso ma dannoso per il destinatario o come condizione per il compimento di un atto discrezionale con effetti favorevoli per l'interessato (certat de lucro captando). La diversità oggettiva di situazione giustificherebbe, sul piano della razionalità, anche la punizione di colui che, pur subendo una pressione, lo fa per un vantaggio.

La conclusione prospettata troverebbe un appiglio anche nella collocazione dell'art. 319 quater subito dopo quelli sulla corruzione; l'indotto come la vittima della concussione subisce un'iniziativa prevaricatrice, ma come il corruttore risponde della sua condotta perché avrebbe potuto resistere, sia in quanto la pressione posta in essere nei suoi confronti è stata di blanda intensità della pressione o sia evitando di ottenere l'indebito vantaggio (Sez. VI, 11 febbraio 2013 - dep. 12 marzo 2013, n. 11794, Melfi, Rv. 254440; Sez. VI, 8 maggio 2013 - dep. 13 maggio 2013), n. 20428, Milanesi, Rv. 255076; Sez. VI, 25 febbraio 2013 - dep. 14 marzo 2013, n. 11944, De Gregorio, Rv. 254446; Sez. VI, 5 aprile 2013 - dep. 22 maggio 2013, n. 21975, Viscanti Rv. 255325; Sez. III, 8 maggio 2013 - dep. 19 giugno 2013, n. 26616, M., Rv. 255620).

Con ordinanza, Sez. VI 9 maggio 2013 - dep. 13 maggio 2013, n. 20430, Maldera è stata rimessa alle Sezioni Unite, sul presupposto dell'esistenza di un contrasto di giurisprudenza, la questione così esplicitamente indicata: "Quali siano i presupposti di applicabilità degli art. 317 e 319 quater cod. pen. (come rispettivamente sostituito ed introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, contenente "disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della legalità nella pubblica amministrazione) e quali gli elementi di distinzione delle relative fattispecie incriminatrici."

Si è già accennato che sulla questione sono intervenute le Sezioni unite con una decisione assunta nella camera di consiglio del 24 ottobre 2013, della quale non è ancora stata pubblicata la motivazione ma resa nota una sola informazione provvisoria.

Sulla scorta della lettura di quest'ultima, la fattispecie d'induzione indebita di cui all'art. 319-quater c.p. dovrebbe essere caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, tale da lasciare al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniugherebbe, altresì, con il perseguimento di un suo indebito vantaggio; nella concussione, invece, si sarebbe in presenza di una condotta del pubblico ufficiale idonea a limitare radicalmente la libertà di autodeterminazione del destinatario.

È oggettivamente difficile comprendere sulla sola scorta della indicata notizia per quale delle tre tesi ha optato la Suprema nomofilachia; se i riferimenti alla pressione non irresistibile come elemento caratterizzante l'induzione ed alla condotta che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del privato come azione tipica della concussione farebbero sembrare che si sia optato per la prima tesi, la menzione, invece, del perseguimento da parte del privato di un indebito vantaggio, farebbe intendere un'apertura verso la seconda o persino la terza degli orientamenti giurisprudenziali. Solo la lettura integrale della motivazione farà comprendere davvero verso quale strada si è incamminata la giurisprudenza su questa delicata novità introdotta dalla Legge n. 190 del 2012.

4. L'individuazione del momento consumativo del delitto di indebita induzione.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è anche occupata di individuare il momento in cui il reato di indebita induzione può considerarsi perfetto.

Coerente, in particolare, con l'idea che la nuova fattispecie sia nata per gemmazione/scissione di quella concussiva, i Supremi giudici hanno mutuato dai precedenti approdi i riferimenti per individuarlo.

Il reato sarà perfetto, quindi, quando la richiesta del pubblico agente sia stata accolta anche con la sola promessa da parte dell'indotto, nessun rilievo dovendosi riconoscere alla circostanza che, subito dopo la promessa, il privato si rivolga alla polizia perché la consegna dell'utilità avvenga sotto il controllo di essa o la promessa sia stata fatta, ab origine, con la riserva mentale di non volere poi effettuare la dazione (Sez. VI, 25 febbraio 2013, dep. 21marzo 2013, n.13047, Piccinno, Rv. 254467; Sez. VI, 11 gennaio 2013, dep. 8 aprile 2013, n. 16154, Pierri, Rv. 254541).

Va per completezza anche ricordato come - pur non essendo state ancora scrutinate fattispecie di indebita induzione, commesse dopo il 28 novembre 2012 - in un obiter dictum la Corte ha già avviato la riflessione su un problema ermeneutico di sicuro impatto per il prossimo futuro, e cioè quello della punibilità dell'indotto che prometta l'utilità al funzionario pubblico, ma ciò faccia o con l'intenzione fin dal primo momento di non adempiere e di avvertire la polizia o cambi opinione subito dopo avere aderito all'illecita proposta e decida di allertare le forze dell'ordine; secondo questa decisione, nei confronti dell'indotto [non si può escludere].. "in prospettiva il ricorso agli istituti della desistenza o del recesso attivo i quali potrebbero operare non soltanto nell'ipotesi di tentativo, ma anche là dove alla promessa, che di per sé sola perfeziona il reato, faccia seguito la dazione e prima che tale evento si verifichi" (così, Sez. VI, 11 gennaio 2013 - dep. 8 aprile 2013, n. 16154, Pierri).

5. Il confine fra induzione indebita e corruzione.

In questo breve periodo dall'entrata in vigore della legge n. 190, la Corte si è già pronunciata sulla differenza fra la fattispecie induttiva e quelle sia dell'istigazione (per sollecitazione) alla corruzione sia della corruzione consumata.

La conclusione raggiunta da tutte le pronunce della Corte sembrerebbe essere tendenzialmente identica a prescindere dall'opzione per uno o altro dei tre orientamenti, poco sopra descritti, in tema di individuazione del significato dell'induzione.

Ciò che caratterizza le fattispecie corruttive - sia nella forma consumata che in quella di tentativo/istigazione - è un rapporto paritario fra le parti; nel reato di nuovo conio, invece, resta ontologicamente necessaria una situazione di prevaricazione, posta in essere dal pubblico agente (Sez. VI, 3 dicembre 2012 - dep. 22 gennaio 2013, n. 3251, Roscia, Rv. 253937; Sez. VI, 11 febbraio 2013 - dep. 2 aprile 2013 n. 14992, Magi, Rv. 255603).

E questa distinzione - almeno in termini astratti - resta salda anche quando l'azione del funzionario si caratterizzi come una "sollecitazione, accompagnata dalla prospettazione di poter evitare un pregiudizio derivante dall'applicazione della legge"; il discrimen sarà sempre rappresentato da un comportamento pregresso di abuso di potere o di funzioni, presente nell'indebita induzione; assente nell'istigazione alla corruzione (Sez. VI, 11 gennaio 2013 - dep. 8 aprile 2013, n. 16154, Pierri, Rv. 254540).

In un unico arresto, la Corte ha ritenuto, invece, di poter individuare una differenza strutturale più profonda fra il delitto di cui all'art. 319 quater (sia nella forma tentata che consumata) e le fattispecie corruttive; il primo, in particolare, non delineerebbe un'unica fattispecie di "reato contratto" (come avviene per la corruzione) ma due diversi delitti, uno del pubblico agente, l'altro dell'indotto che si differenziano sia sul piano concreto che su quello ideale (Sez. VI, 11 gennaio 2013, dep. 15 aprile 2013, n. 17285 Vaccaro, Rv. 254621).

Per completezza è utile ricordare che in una delle pronunce edite, la Corte sembra anche avere escluso che le ipotesi nelle quali non vi sia stata una pressione diretta del pubblico agente nei confronti del privato, ma una pressione cd ambientale - situazione che in passato qualcuno aveva ricondotto all'ipotesi della cd concussione ambientale - possano oggi automaticamente confluire nella fattispecie di indebita induzione; nell'ipotesi scrutinata dai Supremi giudici si è, infatti, significativamente qualificato come corruzione il comportamento di cittadini stranieri che, a conoscenza di una sorta di "prassi" di pagare agenti di polizia per ottenere il permesso di soggiorno, si erano rivolti ad un faccendiere che, a loro volta, li aveva messi in contatto con dei poliziotti addetti al disbrigo delle pratiche di soggiorno, a cui avevano pagato del denaro per ottenere il permesso medesimo (Sez. VI, 25 febbraio 2013 - dep. 14 marzo 2013, n. 11946, Cappelli, Rv. 255323).

6. Le prime pronunce in tema di corruzione per l'esercizio delle funzioni e di traffico di influenze.

Le altre questioni di cui la Corte si è occupata hanno riguardato le nuove fattispecie di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p. e di traffico di influenze di cui all'art. 346-bis c.p.

Il nuovo art. 318 c.p., come si è già accennato, ha completamente riformulato quello che in passato era rubricato "corruzione per atto d'ufficio"; oggi la condotta punibile è quella del pubblico ufficiale che "per l'esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri" indebitamente riceve per sé o per altri denaro o altra utilità.

In base al pur rinovellato testo dell'art. 320 c.p. per l'identica azione risponde anche l'incaricato di pubblico servizio, senza che sia necessario che esso sia anche un pubblico impiegato.

L'incriminazione, quindi, sgancia l'attività corruttiva dall'individuazione di un singolo atto da compiersi da parte del pubblico ufficiale; essa, però, finisce per punire nell'unica norma non solo quelle attività di compravendita delle funzioni ma anche quelle in cui la promessa del medesimo appartenente alla pubblica amministrazione riguardi un atto non contrario ai doveri d'ufficio.

In questo senso, si è già espressa la Cassazione secondo cui "il nuovo testo dell'art. 318 c.p., così come integralmente riscritto dall'art. 1, comma 75 della Legge n. 190 del 2012, non ha proceduto ad alcuna "abolitio criminis", neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione ed ha, invece, determinato un'estensione dell'area di punibilità, configurando una fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del "munus" pubblico, sganciata da una logica di formale sinallagma" (Sez. VI, 11 gennaio 2013 - dep. 3 maggio 2013, n. 19189, Abruzzese, Rv. 255073).

Quanto, invece, ai rapporti tra la nuova disposizione incriminatrice e quella dell'art. 319 c.p. che continua a punire la corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio - e nella quale in passato la giurisprudenza con un'interpretazione estensiva aveva ritenuto di poter far confluire molte delle ipotesi di "messa a disposizione" della funzione - la giurisprudenza, ad oggi, si è limitata ad affermare l'insussistenza di qualsivoglia interesse del condannato ad accertare se il fatto già qualificato come corruzione propria, ai sensi dell'art. 319 c.p., possa oggi essere ricondotto nella nuova fattispecie di corruzione per l'esercizio delle funzioni, di cui all'art. 318 c.p., atteso che tale ultima disposizione prevede la stessa pena di cui all'art. 319 c.p., vigente al momento della commissione del fatto (Sez. VI, 24 gennaio 2013 - dep.12 marzo 2013, n. 9079, Castelluzzo, Rv. n. 254162).

La neo fattispecie delittuosa di cui all'art. 346-bis c.p. - contenuta, fra l'altro, nel capo II del titolo II, riferito ai delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione - punisce il traffico di influenze ed in particolare chi, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di pubblico servizio, si fa dare o promettere indebitamente denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico agente ovvero per remunerarlo in relazione ad un atto contrario ai doveri d'ufficio o per omettere o ritardare un atto dell'ufficio.

Per tale condotta è prevista la pena della reclusione da uno a tre anni, pena che, in base al capoverso della norma citata, è applicabile anche a chi da o promette denaro o altra utilità.

Quella punita è in pratica una condotta prodromica ad una eventuale di tipo corruttivo, tipica dei c.d. faccendieri, cioè di coloro che promettono di essere in grado di "dirigere" il comportamento dei pubblici ufficiali; per tale ragione la norma viene inserita subito dopo quella del millantato credito, rispetto alla quale vi è un rapporto caratterizzato, almeno in parte, da specialità.

La Corte si è occupata della norma, in primo luogo, con una pronuncia con cui ha ribadito la natura propedeutica dei comportamenti sanzionati rispetto a quelli di tipo corruttivo, escludendo, quindi, essa possa essere ipotizzata nei casi in cui sia già stato accertato un rapporto, partitario o alterato, fra il pubblico ufficiale ed il soggetto privato (Sez. VI, 11 febbraio 2013 - dep. 12 marzo 2013 n. 11808, Colosimo, Rv. n. 254442).

In un'occasione successiva, ha indicato la differenza rispetto al millantato credito; mentre in base all'art. 346 c.p. il millantatore deve limitarsi ad indicare il pubblico ufficiale come soggetto suscettibile di essere avvicinato, in quella di nuovo conio deve rappresentare il pubblico agente come persona disponibile ad essere corrotto (Sez. VI, 15 febbraio 2013 - dep. 18 aprile 2013 n. 17941, Anfuso, Rv. n. 254729).

Infine ha delineato la differenza, dal punto di vista strutturale, dalle fattispecie di corruzione in base alla connotazione causale del prezzo che nel delitto di cui all'art. 346 bis cod. pen. è finalizzato a retribuire soltanto l'opera di mediazione e non potendo, quindi, neppure in parte, essere destinato all'agente pubblico (Sez. VI, 27 giugno 2013 - dep. 11 luglio 2013, n. 29789, Angeleri, Rv. 255618).

In una sentenza si è trattato della fattispecie di istigazione alla corruzione, di cui all'art. 322 c.p., pure modificata dalla Legge n. 190 del 2012; se ne è affermata la continuità normativa con le previgenti disposizioni contenute nella norma, evidenziandosi, però, come la nuova sia più ampia della precedente, perché punisce anche comportamenti che hanno assunto rilevanza penale a seguito dell'introduzione della fattispecie di corruzione per l'esercizio delle funzioni, di cui all'art. 318 c.p. (Sez. VI, 11 febbraio 2013 - dep. 12 marzo 2013, Castelluzzo, Rv. 254438).

  • abuso di potere
  • corruzione
  • pubblica amministrazione

Sezione II

Gli altri reati contro la pubblica amministrazione

Sommario

1 Il peculato. - 1.1 La pronuncia delle Sezioni unite sull'uso indebito del telefono di servizio. - 1.2 Le pronunce delle Sezioni semplici sull'uso indebito di altri beni della p.a. - 2 L'abuso di ufficio: la "violazione di legge o di regolamento" e le norme della Costituzione. - 2.1 L'accertamento della "doppia ingiustizia" e del dolo intenzionale. - 3 L'istigazione alla corruzione in atti giudiziari: la posizione delle sezioni semplici. - 3.1 L'intervento delle Sezioni unite.

1. Il peculato.

Com'è noto, la questione della rilevanza penale da attribuire alle condotte di uso indebito dei beni strumentali della Pubblica Amministrazione, da parte dei pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio aventi la disponibilità dei beni medesimi, è stata spesso oggetto di differenti ricostruzioni in dottrina ed in giurisprudenza: essendo in particolare controversa la riconducibilità di tali condotte alle figure di peculato previste nei commi primo e secondo dell'art. 314 cod. pen., ovvero ad altre fattispecie incriminatrici previste dal codice (abuso d'ufficio, truffa aggravata).

Un significativo sviluppo del dibattito, nel corso del 2013, si è avuto con il deposito di una sentenza delle Sezioni unite riguardante l'utilizzo a fini privati del telefono cellulare posseduto per ragioni di servizio, che sarà oggetto del paragrafo seguente.

I principi espressi dalle Sezioni unite sono stati richiamati da due successive pronunce delle Sezioni semplici, chiamate ad occuparsi di questioni "affini" altrettanto dibattute, quali l'uso improprio del computer (ed in particolare del collegamento internet) e dell'autovettura di servizio: di tali sentenze si darà conto nell'ultima parte della presente sezione.

Si segnala infine che, sempre in tema di peculato, ulteriori interessanti pronunce delle Sezioni semplici saranno richiamate nella sezione dedicata al problema della individuazione delle qualifiche soggettive di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. in particolari fattispecie (gestione di contributi ad opera del Presidente di un gruppo consiliare regionale; appropriazioni di danaro e valori ad opera di dipendenti di società concessionarie di pubblici servizi, ecc.).

1.1. La pronuncia delle Sezioni unite sull'uso indebito del telefono di servizio.

Come si è accennato in premessa, sulla questione sono intervenute Sez. Un, 20 dicembre 2012 - dep. 2 maggio 2013, n. 19054, Vattani, Rv. 255037, le quali - aderendo ad un orientamento ormai risalente e minoritario - hanno ricondotto nell'alveo del peculato d'uso di cui all'art. 314, comma secondo, cod. pen., l'utilizzo per fini personali dell'utenza telefonica assegnata al pubblico ufficiale per ragioni di ufficio.

La sentenza ha anzitutto disatteso sia l'indirizzo maggioritario secondo cui tale condotta costituisce peculato c.d. comune ai sensi dell'art. 314, comma primo, cod. pen. (indirizzo tendente a valorizzare non già la temporanea fruizione dell'apparecchio telefonico, ma l'appropriazione, necessariamente definitiva, delle energie occorrenti per le conversazioni), sia l'ulteriore opzione interpretativa prospettata nell'ordinanza di rimessione, volta a ritenere sussistente la truffa aggravata ai sensi dell'art. 640, comma secondo, n.1), cod. pen., quanto meno nelle ipotesi in cui la mancata segnalazione delle telefonate personali sia riconducibile ad una dichiarazione non veritiera dell'utente.

Sul punto, si è in particolare osservato, rispettivamente, che le energie necessarie per le conversazioni "non possono essere tecnicamente oggetto di appropriazione, in quanto non sono oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell'utente del telefono. E questo perché non preesistono all'uso dell'apparecchio, ma sono prodotte proprio dalla sua attivazione". Per altro verso, la pronuncia delle Sezioni unite ha ritenuto non configurabile la truffa aggravata, dal momento che l'indebito vantaggio, conseguito dal funzionario già al momento della telefonata per fini privati, non postula l'induzione in errore di alcun soggetto; né può assumere rilievo l'eventuale silenzio mantenuto in seguito dal funzionario infedele sulle proprie telefonate personali (ovvero su una condotta delittuosa ormai già consumata).

Poste tali premesse, la sentenza ha quindi ritenuto configurabile la fattispecie di cui all'art. 314, comma secondo, cod. pen., valorizzando il temporaneo abuso del possesso dell'apparecchio telefonico, distratto dalla destinazione pubblicistica e piegato a fini personali per il tempo della indebita chiamata, e, al termine di quest'ultima, ricondotto alla destinazione originaria. In tale ottica ricostruttiva, imperniata sulla temporanea violazione del titolo del possesso del bene, la sentenza delle Sezioni unite ha quindi ritenuto non essenziale, per la sussistenza del reato, che la "res" venga fisicamente sottratta alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione: ben potendo ritenersi che, con il ripristino della destinazione a fini istituzionali dell'apparecchio, dopo la telefonata, la cosa sia stata "immediatamente restituita" ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 314, comma secondo, cod. pen.

Estremamente significativo, anche da un punto di vista sistematico, è il richiamo delle Sezioni unite alla necessità di attribuire rilevanza penale ai soli fatti realmente offensivi, cioè ai fatti produttivi di "un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi", ovvero di "una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio" (secondo lo schema della "plurioffensività alternativa" del delitto di peculato accolta dalla prevalente giurisprudenza).

In tale prospettiva, si è ulteriormente precisato che anche condotte prive di conseguenze economiche per la P.A. - quali ad es. le chiamate abusive su utenze regolate da contratti "tutto incluso" - possono rilevare penalmente come peculato d'uso, se risultano in concreto pregiudizievoli per la funzionalità dell'ufficio (una puntuale applicazione di tali principi si rinviene in una sentenza della Terza Sezione, in tema di uso abusivo dell'autovettura di servizio, che sarà richiamata nel paragrafo seguente).

Nella valutazione dell'offensività - secondo le Sezioni unite - deve aversi riguardo alle singole condotte realizzate, "salvo che le stesse, per l'unitario contesto spaziotemporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile". E' un passaggio su cui la dottrina ha rilevato che tale ricostruzione - di matrice esclusivamente giurisprudenziale, e dai contorni non perfettamente definiti - sembra presentare problemi di compatibilità con l'istituto della continuazione, e può determinare esiti alquanto differenziati nella valutazione della concreta lesività delle condotte (e quindi della sussistenza del reato), a seconda appunto che si ritenga o meno che la loro commissione sia avvenuta in un contesto spazio-temporale unitario.

In tale quadro ricostruttivo, la sentenza ha, infine, ritenuto assorbita l'ulteriore questione prospettata nell'ordinanza di rimessione, relativa alla configurabilità del reato di abuso di ufficio: e ciò per "il carattere residuale e non concorrente" di tale figura rispetto al peculato d'uso, punito in modo identico ma contraddistinto dall'elemento specializzante dell'appropriazione temporanea di una "res". La questione, secondo i primi commentatori, potrebbe in futuro essere oggetto di ripensamenti, alla luce sia dell'inasprimento sanzionatorio introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 per l'abuso d'ufficio (attualmente punito con la reclusione da uno a quattro anni, e quindi con pena edittale massima più elevata), sia dell'entrata in vigore del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici emanato con d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, il quale, all'art. 11, comma 3, prevede l'obbligo per i dipendenti di utilizzare il materiale e le attrezzature, nonché i servizi telematici e telefonici di cui si dispone per ragioni di ufficio, nel rispetto dei vincoli posti dall'amministrazione (disposizione che ben potrebbe costituire una "violazione di regolamento" ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 323 cod. pen.).

1.2. Le pronunce delle Sezioni semplici sull'uso indebito di altri beni della p.a.

I principi espressi dalla sentenza Vattani sono stati esplicitamente richiamati, dalla Sesta e dalla Terza Sezione, in due pronunce emesse in fattispecie affini a quella fin qui esaminata: l'uso improprio della connessione internet e dell'autovettura, che si trovino nella disponibilità del pubblico funzionario per ragioni di servizio.

In particolare, da un lato, la sentenza Sez. VI, 2 luglio 2013 - dep. 8 agosto 2013, n. 34524, Amato, Rv. 255810, ha ritenuto che anche l'abusivo utilizzo della connessione internet per fini privati attraverso il computer dell'ufficio configuri il delitto di peculato d'uso, qualora la condotta produca un danno apprezzabile al patrimonio ovvero una concreta lesione alla funzionalità dell'ufficio (su tali basi è stata derubricata l'originaria imputazione di peculato comune). L'applicazione dei principi fissati dalle Sezioni unite, anche per ciò che riguarda il necessario accertamento della concreta offensività dell'abusiva connessione, potrebbe quindi determinare il superamento del contrasto giurisprudenziale insorto tra la tesi favorevole a ravvisare il peculato comune (sostenuta ad es. da Sez. VI, 15 aprile 2008-dep. 21 maggio 2008, n. 20326, D'Alfonso, non mass.) e quella volta a configurare il reato di abuso d'ufficio (su cui v. Sez. VI, 9 aprile 2008 - dep. 29 luglio 2008, n. 31688, Cannalire, Rv. 240692; nello stesso senso v. anche Sez. VI, 19 ottobre 2010 - dep. 25 novembre 2010, n. 41709, Ermini, Rv. 248798, secondo cui deve escludersi la sussistenza del reato qualora l'accesso ad internet sia stato regolato da un contratto "a costo fisso").

D'altro lato, la sentenza Sez. III, 8 maggio 2013 - dep. 19 giugno 2013, n. 26616, M., Rv. 255619, ha ricondotto nell'alveo dell'art. 314, comma secondo, cod. pen. 1'utilizzo a fini privati dell'autovettura di servizio da parte del pubblico funzionario (nella specie, un appartenente alla forze di polizia che, allontanatosi con l'auto dal percorso stabilito per il controllo di obiettivi sensibili, aveva raggiunto altra zona e - all'interno della vettura - aveva consumato un rapporto sessuale con una prostituta integrante il reato di cui all'art. 609 bis cod. pen.). Con un esplicito richiamo ai principi espressi dalle Sezioni unite e qui più volte richiamati, la sentenza ha evidenziato che, nonostante il modesto rilievo del danno economico subito (alla luce dei pochi chilometri percorsi), vi era stato un grave ed inequivocabile pregiudizio per l'ordinaria funzionalità del servizio, avuto riguardo ai rischi connessi al momentaneo abbandono dei compiti cui la vettura era destinata, ed all'utilizzo di quest'ultima per le finalità predette. Anche la fattispecie dell'uso indebito dell'autovettura di servizio è stata finora oggetto di contrastanti indirizzi giurisprudenziali, essendo stata sostenuta - oltre alla tesi del peculato d'uso - anche quella del peculato comune (v. in tal senso Sez. VI, 15 marzo 2012- dep. 30 maggio 2012, n. 20922. C., non mass.) e dell'abuso d'ufficio (v. Sez. VI, 4 aprile 2012- dep. 23 maggio 2012, n. 19547, D'Alessandro, Rv. 252868).

Si segnala, infine, tra le pronunce anteriori al deposito di quella delle Sezioni unite, Sez. VI, 21 marzo 2013 - dep. 10 aprile 2013, n. 16381, Apruzzese, Rv. 254709, che ha ritenuto sussistente il peculato comune - e non l'abuso d'ufficio originariamente contestato - nella condotta del vigile urbano che, fuori dall'orario di servizio, aveva temporaneamente ma ripetutamente ceduto la radiotrasmittente in dotazione, utilizzabile per comunicare con la centrale operativa, al titolare di un'impresa di soccorso stradale, onde consentirgli di venire immediatamente a conoscenza degli incidenti e di lucrare sul recupero dei mezzi coinvolti.

2. L'abuso di ufficio: la "violazione di legge o di regolamento" e le norme della Costituzione.

Sul delitto di abuso di ufficio, oggetto di un intervento modificativo da parte della legge n. 190 del 2012 nella sola parte relativa alla pena nel suo massimo edittale, nel corso del 2013 sono intervenuti alcuni arresti che hanno ulteriormente consolidato il trend giurisprudenziale sia come debba intendersi la violazione di legge o di regolamento sia su altri aspetti sia dell'elemento oggettivo (quale il requisito della doppia ingiustizia) che di quello soggettivo (la natura intenzionale del dolo. Di esse si farà qui di seguito cenno.

In primo luogo, appare meritevole di menzione Sez. VI, 30 gennaio 2013 - dep. 15 marzo 2013, n. 12370, Baccherini, Rv. 256003, in tema di assegnazione di procedure fallimentari a giudice diverso da quello individuato dalle disposizioni tabellari, dai criteri di distribuzione interna e dalle prassi interne all'ufficio giudiziario.

La sentenza ha, in particolare, affermato che il requisito della "violazione di legge o di regolamento" di cui all'art. 323 cod. pen. può consistere anche nella inosservanza del principio di imparzialità di cui all'art. 111, comma secondo, Cost., espressione del più generale principio previsto dall'art. 97, comma primo, della stessa Carta, che impone ad ogni pubblico funzionario il divieto di usare il proprio potere per compiere trattamenti di favore (in senso analogo, v., ex plurimis, Sez. VI, 20 gennaio 2009- dep. 4 marzo 2009, n. 9862, Rigoldi, Rv. 243532).

Essa, quindi, aderisce all'orientamento, ormai largamente maggioritario, secondo cui al principio costituzionale di imparzialità dell'azione del pubblico funzionario, di cui all'art. 97 Cost., può e deve attribuirsi carattere immediatamente precettivo, "per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione" (così, da ultimo, Sez. VI, 22 giugno 2013 - dep. 6 agosto 2013, n. 34086, Bessone, Rv. 257036; in senso analogo, v. anche Sez. VI, 14 giugno 2012 - dep. 22 ottobre 2012, n. 41215, Artibani, Rv. 253804; contra, invece, Sez. VI, 18 febbraio 2009 - dep. 25 marzo 2009, n. 13097, Di Campo, Rv. 243577, secondo cui l'inserimento dell'art. 97 tra le norme di legge rilevanti ex art. 323 cod. pen. determinerebbe un'eccessiva dilatazione della portata applicativa della norma incriminatrice, ed un'incidenza negativa sul principio di precisione di cui all'art. 25 Cost.).

E' peraltro interessante notare che, nel ricondurre la "violazione di legge" agli artt. 97 e 111 della Costituzione, la sentenza Baccherini ha seguito un percorso ricostruttivo diverso da quello di una recente pronuncia delle Sezioni unite, anch'essa relativa ad una fattispecie di abuso della funzione giurisdizionale. Si è infatti affermato, in quella sede (Sez. un. 29 settembre 2011 - dep. 10 gennaio 2012, n. 155, Rossi, Rv. 251498) che il requisito della violazione di legge di cui all'art. 323 cod. pen. sussiste non solo quando la condotta del pubblico ufficiale contrasti con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la condotta risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per cui il potere è attribuito: in tali casi di c.d. sviamento, la violazione di legge è integrata appunto dal fatto che il potere non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione (sullo sviamento della funzione come "violazione di legge" rilevante ex art. 323 cod. pen., v. tra le altre Sez. VI, 18 ottobre 2012 - dep. 12 novembre 2012, n. 43789, Contiguglia, Rv. 254124, e, da ultimo, Sez. VI, 22 giugno 2013, n. 34086, cit., non massimata sul punto).

A tale ultimo proposito, peraltro, è stato sottolineato (Sez. VI, 9 gennaio 2013 - dep. 6 febbraio 2013, n. 5895, Verdini, Rv. 254892) che l'abuso d'ufficio può configurarsi solo se sia stato esercitato (per scopi privati) proprio il potere connesso e funzionale alla qualifica soggettiva dell'agente: potere che, con riferimento al parlamentare, si estrinseca nei soli "atti tipici del mandato parlamentare (presentazione di disegni di legge, interpellanze ed interrogazioni, relazioni, dichiarazioni)", ecc., e "con l'esclusione di quelle attività che, pur latamente connesse con l'esercizio di tali funzioni, ne sono tuttavia estranee, quale l'attività politica extraparlamentare esplicata all'interno dei partiti". Su tali basi, è stato escluso il reato in una fattispecie in cui il parlamentare si era attivato per "raccomandare" un consorzio di imprese per i lavori di ricostruzione post-sismica in Abruzzo (in senso analogo v. anche Sez. VI, 8 marzo 2012 - dep. 4 ottobre 2012, n. 38762, D'Alfonso, Rv. 253371, la quale ha escluso che la "segnalazione" o raccomandazione" possa considerarsi "atto d'ufficio", trattandosi di condotta commessa "in occasione" dell'ufficio).

2.1. L'accertamento della "doppia ingiustizia" e del dolo intenzionale.

Nel ribadire un consolidato orientamento secondo cui il delitto di abuso d'ufficio è integrato dalla c.d. "doppia ingiustizia" (riferita sia alla condotta posta in violazione di legge o di regolamento o dell'obbligo di astensione, sia all'evento di danno o di vantaggio patrimoniale non spettante in base al diritto oggettivo), Sez. VI, 14 dicembre 2012 - dep. 14 gennaio 2013, n. 1733, Amato, Rv. 254208, ha posto in evidenza la reciproca autonomia di tali elementi costitutivi e la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, "non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta".

Con riferimento all'ingiusto vantaggio patrimoniale, la già citata sentenza Baccherini ha affermato che l'evento sussiste non solo quando l'abuso sia volto a procurare beni materiali, ma anche quando sia diretto a creare un accrescimento della situazione giuridica soggettiva a favore del soggetto nel cui interesse è stato esercitato il potere (nella specie, con la nomina di un giudice delegato di comodo, erano stati garantiti ad alcuni soggetti, legati alla società fallita, "spazi di gestione della procedura consoni all'interesse della debitrice fallita aventi un chiaro risvolto patrimoniale se si considera la finalità della procedura concorsuale"). Non viene quindi accolta, dalla sentenza in esame, una concezione strettamente "economica" del vantaggio patrimoniale (fatta propria ad es. dalla sentenza Sez. VI, 5 febbraio 2008 - dep. 17 giugno 2008, n. 24663, Ceglie, Rv. 240522, secondo cui tale requisito è "rappresentato dalla determinazione di un effettivo e concreto incremento economico del patrimonio del beneficiato quale conseguenza diretta della condotta abusiva").

L'importanza di procedere con analogo rigore metodologico anche nell'accertamento dell'elemento soggettivo del reato è stata sottolineata da Sez. VI, 25 gennaio 2013 - dep. 17 maggio 2013, n. 21192, Barla, Rv. 255368, la quale, dopo aver richiamato le connotazioni articolate e complesse che assume il dolo nel reato in esame (generico quanto alla condotta posta in essere in violazione di norme di legge o di regolamento o dell'obbligo di astensione; intenzionale quanto al vantaggio patrimoniale o al danno ingiusti), ha chiarito che la prova dell'intenzionalità non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure" tenuto dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici idonei ad evidenziare l'effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento (quali ad es. la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale del provvedimento, i rapporti personali tra l'agente ed i soggetti favoriti o danneggiati).

In senso analogo v. anche Sez. III, 26 febbraio 2013 - dep. 22 marzo 2013, n. 13735, Fabrizio, Rv. 254856, la quale ha peraltro evidenziato che intenzionalità non significa esclusività del fine: ciò che impone di stabilire - nelle ipotesi in cui uno scopo privato emerga e "si affianchi" alla finalità pubblicistica formalmente esternata nel provvedimento - quale sia stata "la finalità prevalente ed essenziale che ha mosso l'agente ed in quale misura un fine abbia avuto la prevalenza sull'altro", in modo da ritenere integrata la fattispecie criminosa solo "qualora resti accertato che la finalità pubblica rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta illecita".

3. L'istigazione alla corruzione in atti giudiziari: la posizione delle sezioni semplici.

Una delle questioni più controverse riferibili al delitto di istigazione alla corruzione di cui all'art. 322 cod. pen. riguarda la sua configurabilità rispetto alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari.

La norma del codice penale da ultimo citata - anche nel testo modificato dalla legge n. 190 del 2012 su altri aspetti - non richiama, infatti, espressamente il fatto corruttivo di cui all'art. 319 ter cod. pen., fattispecie quest'ultima che - secondo la giurisprudenza ormai consolidata (da ultimo, Cass. sez. VI, 27 gennaio 2012 - dep. 19 giugno 2012, n. 24349, Falci, Rv. 253096) - non si caratterizza come una mera aggravante della corruzione per atto contrario o conforme ai doveri di ufficio, ma come una fattispecie autonoma di reato.

La dottrina dominante è dell'opinione che anche rispetto alla corruzione in atti giudiziari sia configurabile l'ipotesi di cui all'art. 322 cod. pen.. A questa conclusione è giunta attraverso tre differenti percorsi argomentativi; ritenendo implicito il richiamo, in quanto i fatti-base di corruzione, citati dall'art. 322, trovano una disciplina nel concorso degli art. 318, 319 e 319 ter; utilizzando un ragionamento di tipo transitivo e cioè l'art. 322 fa rinvio agli art. 318 e 319, a loro volta esplicitamente richiamati dall'art. 319 ter; evidenziando l'ampio raggio d'azione delle fattispecie di corruzione delineate dai più volte citati art. 318 e 319, idoneo a ricomprendere anche il delitto di cui all'art. 319 ter.

La proposta interpretazione ha il pregio di evitare incongruenze sistematiche - anche sul piano sanzionatorio - qualora si ritenesse applicabile l'art. 56 cod. pen. alla sola ipotesi di corruzione in atti giudiziari.

La giurisprudenza, invece, era sembrata orientarsi per una posizione diversa e cioè per ritenere che l'istigazione mediante offerta o promessa dovesse essere punibile in base al combinato disposto degli artt. 56, 319 ter cod. pen.

In questo senso si era pronunciata in passato Cass. sez. VI, 6 febbraio 2007 - dep. 24 marzo 2077, n. 12409, Sghinolfi, rv. 236830 e di recente Sez. VI, 25 febbraio 2013 - dep. 21 marzo 2013, n. 13048, Ferrieri Caputi, Rv. 255604

3.1. L'intervento delle Sezioni unite.

Sulla questione si è pronunciata, sia pure solo con un passaggio contenuto in motivazione, un'ordinanza delle Sezioni unite intervenuta nel 2013.

In particolare alla Suprema istanza nomofilattica era stata sottoposta la questione su quale dovesse essere il reato configurabile nel caso di offerta o promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del p.m. al fine di influire sul contenuto della consulenza, qualora il consulente tecnico medesimo non fosse stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza

Sez. Un. 27 giugno 2013 - dep. 23 ottobre 2013, n. 43384, Guidi, Rv. 256408 ha affermato che il fatto in esame dovesse essere qualificato in termini di istigazione alla corruzione ex art. 322 cod. pen. ed ha contestualmente dichiarato "non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 322, comma secondo, cod. pen. (istigazione alla corruzione propria) in riferimento all'art. 3 Cost. sotto il duplice profilo della disparità di trattamento di situazioni analoghe e della irragionevolezza, nella parte in cui prevede che l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero, per il compimento di una falsa consulenza, è punita con una pena superiore a quella del reato di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all'art. 373 cod. pen., per il caso di analoga condotta nei confronti del perito".

Nella motivazione della sentenza, la Corte affronta in premessa anche il tema se la promessa o l'offerta ad un soggetto "processuale" dovesse essere punibile ai sensi dell'art. 322 o degli artt. 56, 319 ter cod. pen. e dichiara di propendere per la prima possibilità, in quanto "in mancanza di accordo di corruttivo, la condotta dell'istigatore diretta ad un soggetto che non l'accoglie, non può che essere ricondotta alla fattispecie di cui all'art. 322 cod. pen. (la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli art. 318 e 319 cod. pen., si attaglia anche a quella di cui all'art. 319 ter cod. pen., posto che quest'ultimo articolo richiama <i fatti indicati negli articoli 318 e 319>)…."

  • pubblico ufficiale
  • servizio pubblico
  • pubblica amministrazione
  • ente pubblico

Sezione III

Statuto penale della pubblica amministrazione

Sommario

1 L'attribuzione delle qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio. - 2 La giurisprudenza in tema di qualifiche soggettive: l'irrilevanza dei termini del rapporto fra soggetto ed ente. - 3 Casistica. - 4 Le pronunce sull'individuazione dell'ente pubblico ai fini penali.

1. L'attribuzione delle qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio.

Il problema dell'attribuzione delle qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio viene costantemente affrontato e risolto, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, ricorrendo ad un criterio "funzionaleoggettivo" imperniato sul tenore testuale delle disposizioni del codice penale: in particolare, l'attività svolta da un soggetto deve ritenersi pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen., se disciplinata da norme di diritto pubblico o atti autoritativi: restando irrilevante la forma giuridica dell'ente, l'eventuale sua costituzione secondo le norme del diritto pubblico, la tipologia di rapporto di lavoro con l'ente stesso (tra le tante, v. ad es. Sez. VI, 21 febbraio 2003- dep. 11 marzo 2003, n. 11417, Sannia, Rv. 224050).

Di seguito, verranno peraltro richiamate - oltre a decisioni che appaiono significative per la particolarità del contesto in cui si è fatta applicazione dei predetti principi - alcune sentenze che sembrano registrare qualche diversità di approccio nel concreto utilizzo del criterio "funzionale-oggettivo", soprattutto per ciò che riguarda l'attività svolta da personale di enti concessionari di servizi pubblici.

Altrettanto consolidato, fino ad epoca assai recente, è apparso l'indirizzo volto ad utilizzare invece un criterio "formale-soggettivo" per risolvere la diversa (ma connessa) questione dell'individuazione, ai fini penali, degli indici identificativi di un "ente pubblico".

Invero, nell'interpretazione dell'art. 640, comma secondo cod. pen., 1), cod. pen., si è costantemente affermata l'inconfigurabilità dell'aggravante qualora la persona offesa sia una società per azioni: restando irrilevante - salvo che, come accennato, per l'attribuzione delle qualifiche soggettive di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. - sia l'eventuale svolgimento di attività qualificabile come pubblico servizio, sia la partecipazione pubblica nella titolarità delle azioni, sia il fatto che la forma societaria sia stata assunta a seguito di trasformazione di un ente pubblico economico (v. ad es. v. ad es. Sez. VI, 5 febbraio 2009 - dep. 25 febbraio 2009, n. 8392, Dalla Libera, Rv. 243667; Sez. V, 5 aprile 2005 - dep. 19 ottobre 2005, n. 38071, Maggiore, Rv. 23073).

Si avrà peraltro modo di evidenziare, che tale indirizzo è stato messo in discussione da una pronuncia (seguita da ben due rimessioni della questione alle Sezioni unite) emessa in tema di società a partecipazione mista, secondo cui anche il problema dell'individuazione dell'"ente pubblico" deve essere affrontato ricorrendo ad un criterio "funzionale-oggettivo", incentrato essenzialmente sulla normativa regolatrice dell'attività svolta da un ente (anche in forma societaria); criterio in questo caso desumibile dalla nozione, di matrice comunitaria, di "organismo di diritto pubblico" di cui all'art. 3, comma 26, del Codice degli appalti.

Si accennerà anche alla rilevanza sul piano sistematico di tale dibattito (tuttora pienamente in corso, non avendo le Sezioni unite potuto esaminare la questione per motivi formali), per la possibilità - prospettata in dottrina - di positive ricadute anche per ciò che riguarda il superamento di alcune incertezze interpretative talora riscontrabili nell'attribuzione, al personale di società concessionarie di pubblici servizi, delle qualifiche di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen.

2. La giurisprudenza in tema di qualifiche soggettive: l'irrilevanza dei termini del rapporto fra soggetto ed ente.

Come si è accennato poco sopra, la necessità di aver riguardo alla disciplina regolatrice dell'attività svolta dall'agente, al fine di eventualmente ricondurla nell'alveo della "pubblica funzione" (art. 357 cod. pen.) o del "pubblico servizio" (art. 358 cod. pen.), ha indotto la giurisprudenza a ritenere priva di rilievo, ai predetti fini, la tipologia e la regolamentazione del rapporto intercorrente tra il soggetto e l'ente cui l'attività di quest'ultimo sia riferibile.

Una plastica applicazione di tale principio può riscontrarsi in recenti pronunce della Sesta sezione. Si segnala, da un lato, la sentenza Sez. VI, 22 giugno 2013 - dep. 6 agosto 2013, n. 34086, Bessone, Rv. 2157035 secondo cui "la qualifica di incaricato di pubblico servizio va riconosciuta a colui che, di fatto, svolgendo attività diverse da quelle inerenti alle mansioni istituzionalmente affidategli, sia effettivamente investito di una pubblica funzione, purchè a tale esercizio di funzioni pubbliche si accompagni, quanto meno, l'acquiescenza o la tolleranza o il consenso, anche tacito, della pubblica amministrazione" (su tali basi, la qualifica di cui all'art. 358 cod. pen. è stata riconosciuta al dipendente di un'azienda ospedaliera incaricato, da uno dei membri della commissione esaminatrice di un concorso per l'ammissione ad un corso di laurea "a numero chiuso", della predisposizione delle domande da inserire nell'elenco dei quiz per i candidati).

Il medesimo principio sembra raggiungere la sua massima portata applicativa con Sez. VI, 10 aprile 2013 - dep. 20 settembre 2013, n. 39010, Baglivo, Rv. 256595, secondo cui il pubblico interesse sotteso alle norme di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. "può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il pubblico ufficiale esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica, sempre che il reato dallo stesso commesso si riconnetta all'ufficio già prestato" (Fattispecie relativa a concussione commessa da un ex dirigente di una ASL che, per le sue relazioni, era in condizione di continuare ad incidere indebitamente sui procedimenti amministrativi di pertinenza dell'ente presso il quale aveva prestato servizio).

3. Casistica.

I principi giurisprudenziali poco sopra indicati sono stati, nel corso del 2013, calati su alcune figure soggettive i cui profili pubblicistici potevano apparire quantomeno dubbi, quali il presidente di un gruppo consiliare regionale, il rappresentante in assemblea societaria dell'ente pubblico controllante, il presidente di un consorzio gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti, i dipendenti delle società concessionarie di pubblici servizi.

Con riferimento alla prima figura, Sez. VI, 1 dicembre 2012 - dep. 28 dicembre 2012, n. 49976, F., Rv. 254033 emessa, in fase cautelare personale, in relazione ad un'ipotesi di peculato continuato l'appropriazione di finanziamenti erogati in base ad una legge regionale e destinati al gruppo consiliare regionale, ha confermato la riconducibilità delle appropriazioni al delitto di cui all'art. 314 cod. pen., evidenziando anzitutto che il presidente del gruppo riveste la qualifica di pubblico ufficiale per la diretta incidenza delle sue attribuzioni, anche quale membro della conferenza dei presidenti dei vari gruppi, sulla funzione legislativa regionale (ad es. nella calendarizzazione dei lavori dell'assemblea, nell'indicazione dei componenti le commissioni in seno al consiglio regionale, ecc.). Ha poi chiarito che, proprio grazie a tale qualifica di pubblico ufficiale, era stato possibile per il presidente gestire in via diretta le erogazioni previste, in favore del gruppo, dalla legge regionale (la quale tra l'altro lo obbligava a redigere una relazione annuale sull'impiego dei fondi): di tali somme "altrui", pertanto, egli si era appropriato avendone la disponibilità giuridica "per ragioni del suo ufficio", ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 314 cod. pen. (risultando irrilevante, in tale ottica ricostruttiva, la dibattuta questione della natura pubblica o privata dei gruppi consiliari regionali).

Sez. VI, 25 gennaio 2013 - dep. 13 maggio 2013, n. 20414, Poma, Rv. 255854, invece, è intervenuta con riferimento ad un'ipotesi di concussione contestata ad un assessore provinciale delegato a partecipare all'assemblea di una società per azioni di cui la Provincia era azionista di maggioranza (concussione contestata per le minacce di non approvare il bilancio rivolte agli amministratori, per costringerli alle dimissioni e poi nominare altri dirigenti sensibili alla linea politica della nuova maggioranza in seno alla Provincia) ed ha escluso che l'assessore avesse partecipato all'assemblea in qualità di pubblico ufficiale, evidenziando la natura prettamente privatistica sia dei poteri attribuiti dal codice civile al socio-azionista di maggioranza, sia dell'eventuale abuso dei poteri medesimi da parte del soggetto delegato a rappresentare il socio in assemblea.

Sez. VI, 25 febbraio 2013 - dep. 2 agosto 2013, n. 33549, Turino, Rv. 256125, occupandosi del presidente del consorzio (avente natura di ente pubblico economico) gestore dello smaltimento di rifiuti, ha affermato che non può essere considerato pubblico ufficiale, né incaricato di pubblico servizio, quando opera nell'ambito di rapporti commerciali di natura esclusivamente privatistica. In particolare, ha ritenuto di dover nettamente distinguere l'attività di smaltimento dei rifiuti urbani (riconosciuta come pubblico servizio dal d.P.R. n. 915 del 1982 all'epoca vigente, per la quale tutti gli operatori del locale agglomerato industriale erano obbligati a rivolgersi al consorzio), e l'attività di smaltimento delle "acque di falda" (svolta dal consorzio in regime di libera concorrenza con altri impianti di smaltimento, ed attraverso moduli operativi esclusivamente privatistici), ed ha concluso appunto per l'inconfigurabilità, in tale seconda ipotesi, delle qualifiche soggettive di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. (e quindi per l'insussistenza del reato di concussione contestato).

Su una figura soggettiva non molto diversa si è pronunciata Sez. VI, 6 febbraio 2013 - dep. 4 aprile 2013, n. 15723, Scaglione, Rv. 256006, relativamente ad una fattispecie di corruzione continuata contestata ad un imputato sia per le attività svolte quale presidente di un consorzio di comuni istituito per il coordinamento delle attività di smaltimento dei rifiuti urbani, sia per quelle poste in essere nella qualità di legale rappresentante di due società per azioni controllate dal consorzio (società operanti, con strumenti privatistici, nel settore della combustione dei rifiuti per la produzione di energia elettrica, e quindi al di fuori del ciclo di raccolta). In questo caso, la Corte ha per un verso ritenuto indubitabile la qualifica di pubblico ufficiale per gli atti compiuti quale presidente dell'ente pubblico consortile, e, per altro verso, ha valutato l'attività svolta come "servizio di sicura rilevanza pubblica anche nei collaterali aspetti di incenerimento dei rifiuti e di derivata produzione di energia elettrica", conferendo al ricorrente la qualifica "quanto meno" di incaricato di pubblico servizio.

Quanto, infine ai dipendenti delle società concessionarie di servizi pubblici, sono numerosi gli arresti intervenuti; innanzitutto merita menzione Sez. VI, 20 novembre 2012 - dep. 27 novembre 2012, n. 46245, D'Auria, Rv. 253505, la quale ha escluso che, tra i dipendenti di Poste Italiane s.p.a., la qualifica di incaricato di pubblico servizio possa essere attribuita al "ripartitore", ovvero all'addetto allo smistamento della corrispondenza, trattandosi di soggetto titolare di semplici mansioni d'ordine (cfr. art. 358, comma secondo, cod. pen.) "prive di qualsivoglia carattere di discrezionalità e di autonomia decisionale" e di conseguenza ha ritenuto non configurabile la fattispecie di peculato per l'appropriazione di alcuni assegni prelevati dalla corrispondenza smistata, aggiungendo che l'assenza di compiti anche solo certificativi impone di tener distinta la figura del ripartitore da quelle di altre categorie di addetti al servizio postale, qualificate invece dalla giurisprudenza come incaricati di pubblico servizio (quale ad es. il "portalettere", su cui v. da ultimo Sez. VI, 21 maggio 2013 - dep. 26 agosto 2013, n. 35512, Raimondo, Rv. 256329). In tal modo la Corte ha sottolineato - con un'espressa presa di distanze dal precedente orientamento (v. Sez. VI, 9 luglio 1998 - dep. 25 settembre 1998, n. 10138, Volpi, Rv. 211571) - la necessità di verificare la natura delle mansioni concretamente svolte dall'agente, non potendo attribuirsi la qualifica di cui all'art. 358 cod. pen. sulla sola base dalla rilevanza pubblica della funzione di raccolta e distribuzione della corrispondenza.

Proprio l'esistenza dei poteri certificativi di cui si è detto ha indotto un'altra decisione, anch'essa in tema di peculato (Sez. VI, 11 giugno 2013 - dep. 13 giugno 2013, n. 26098, Caldaroni, Rv. 255789), a riconoscere la qualifica di incaricato di pubblico servizio anche al dipendente di un'impresa subappaltatrice del servizio di consegna pacchi per conto di Poste Italiane S.p.A.

Sempre con riferimento alle caratteristiche delle mansioni concretamente svolte, appare utile richiamare due sentenze emesse il 18 novembre 2013 dalla Sesta sezione - la cui motivazione non è stata ancora depositate ma che sono state rese note dal Servizio Novità della Corte - che hanno ritenuto configurabile il peculato nell'appropriazione delle somme di danaro riscosse dagli utenti posta in essere da dipendenti di società concessionarie dei servizi di trasporto pubblico e di parcheggio, attribuendo a questi ultimi la qualifica di cui all'art. 358 cod. pen.

Sotto altro profilo - quello della necessità, più volte ricordata, che il pubblico servizio sia disciplinato da norme pubblicistiche e atti autoritativi, ai sensi degli artt. 358, comma secondo, e 357, comma secondo, cod. pen. - appare utile ricordare Sez. VI, 2 dicembre 2012 - dep. 14 febbraio 2013, n. 7370, De Antoniis, Rv. 254686, concernente il delitto di cui all'art. 326 cod. pen. contestato a due dipendenti di altrettante società, titolari della gestione dei servizi telefonici, per aver divulgato i nomi dei titolari di alcune utenze mobili; la corte ha osservato "che quello legato alle comunicazioni mantiene i connotati propri del servizio di pubblico interesse", e "che i dipendenti di un ente o di una società concessionaria, anche in via non esclusiva, di un servizio di interesse pubblico, vanno considerati incaricati di un pubblico servizio, in quanto concorrono allo svolgimento dell'attività ad esso connessa, a nulla rilevando la natura pubblica o privata dell'ente o dell'imprenditore al quale questa attività sia riferibile".

La sentenza sembra dunque ancorare la qualifica di cui all'art. 358 cod. pen. al mero svolgimento, da parte dell'ente o società di appartenenza dell'agente, di una "funzione comunque colorata da interessi pubblici", senza soffermarsi sul fatto che quest'ultima deve essere disciplinata da norme di diritto pubblico, come invece espressamente indicato dall'orientamento consolidatosi a partire dalla sentenza Sez. un. 13 luglio 1998 - dep. 24 settembre 1998, n. 10086, Citaristi, Rv. 211190, e da ultimo ribadito dalla sentenza Sez. VI, 27 novembre 2012 - dep. 20 dicembre 2012, n. 49759, Zabatta, Rv. 254201, secondo cui "i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, quando l'attività della società medesima sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche, pur se con gli strumenti privatistici".

E' interessante notare che anche la sentenza De Antoniis (non diversamente da quelle concernenti il servizio postale sopra richiamate) evidenzia la necessità di escludere, dal novero degli incaricati di pubblico servizio, i dipendenti delle società di telefonia addetti a mansioni d'ordine: ritenendo peraltro dirimente, nel caso concreto, il solo fatto che gli imputati - indipendentemente dagli specifici compiti assegnati nell'ambito dell'organizzazione societaria - avessero la possibilità di accedere ai nominativi dei titolari delle utenze mobili ("…. e questo basta per escludere che le mansioni espletate nella specie fossero meramente materiali o solo d'ordine").

4. Le pronunce sull'individuazione dell'ente pubblico ai fini penali.

Il criterio c.d. oggettivo-funzionale costituisce, come da ultimo evidenziato, tuttora un punto fermo, per la giurisprudenza della Corte di cassazione, nell'attribuzione delle qualifiche di pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio.

È del resto significativo che tale criterio sia stato espressamente richiamato anche dalle pronunce che, affrontando il diverso problema - su cui ora ci si soffermerà - dell'individuazione dell'"ente pubblico" rilevante ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 640, comma secondo, n. 1), cod. pen., hanno ripetutamente affermato la necessità di utilizzare - a tali diversi fini - un criterio "soggettivo-funzionale", imperniato cioè sulla titolarità formale dell'ente: tra le tante, v. Sez. II, 29 settembre 2009 - dep. 28 ottobre 2009, n. 41498, Bilardello, Rv. 244943, la quale ha escluso la configurabilità dell'aggravante in relazione ad una società per azioni incaricata del servizio di raccolta, smaltimento e gestione dei rifiuti, "in quanto la natura pubblica del servizio prestato e delle funzioni svolte assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen.". Identico impianto argomentativo è stato ripetutamente utilizzato anche nelle ipotesi di trasformazione di enti pubblici economici in società per azioni concessionarie di servizi pubblici servizi (v. ad es. la sentenza Sez. II, 11 febbraio 2003- dep. 24 febbraio 2003, n. 8797, Catalfano, Rv. 223664, che ha escluso la configurabilità dell'aggravante di cui al capoverso dell'art. 640 cod. pen. dopo la trasformazione dell'ente pubblico Poste Italiane in società per azioni, essendo irrilevante - se non ai diversi fini delle qualifiche soggettive dei dipendenti - la natura eventualmente pubblica del servizio prestato).

Occorre tuttavia dar conto - in estrema sintesi - di un dibattito sviluppatosi dopo la sentenza (Sez. II, 21 settembre 2012- dep. 30 ottobre 2012, n. 42408, Caltagirone Bellavista, Rv. 254038) che, in un'ipotesi di truffa in danno di una società per azioni a partecipazione pubblico-privata titolare della concessione per la costruzione e lo sfruttamento di un'opera pubblica, si è discostata da tale consolidata interpretazione "formale" ed ha ritenuto configurabile l'aggravante accedendo ad una nozione "sostanziale" di pubblica amministrazione, anche sulla scorta delle disposizioni introdotte nell'ordinamento in attuazione di alcune direttive comunitarie (come interpretate dalla Corte di Giustizia).

In particolare, muovendo dalla elaborazione dei principi comunitari contenuta in alcune pronunce della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato, e dando conto degli ulteriori contributi offerti dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, la sentenza ha ritenuto "ormai non più attuale" l'impostazione imperniata sul mero dato formale, evidenziando il carattere "neutro" della forma societaria nell'indagine relativa all'identificazione della natura pubblica di un ente, e la necessità di far riferimento - anche ai fini penalistici qui in esame - alla nozione di "organismo di diritto pubblico" elaborata in sede comunitaria e trasfusa nell'art. 3, comma 26, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici). In tale prospettiva, assume quindi rilevanza, per la configurabilità dell'aggravante, qualsiasi organismo "anche in forma societaria" connotato cumulativamente dai seguenti requisiti: a) sia istituito per soddisfare esigenze di interesse generale e aventi carattere non industriale o commerciale b) sia dotato di personalità giuridica; c) sia finanziato dallo Stato, da enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, ovvero sia soggetto al controllo di gestione di questi ultimi, ovvero abbia organi di amministrazione, direzione o vigilanza nominati dalla mano pubblica in misura superiore alla metà dei membri. Tale ricostruzione, ad avviso della sentenza, non si presta ad obiezioni in punto di indeterminatezza della fattispecie aggravata, avendo anzi l'art. 3 fornito "indicazioni attente al dato sostanziale, che, certamente, è quello che sta alla base della "ratio" di aggravamento della pena nel reato di truffa".

L'evidente rilievo di tale arresto, anche quanto alle sue potenziali ricadute sistematiche, ha determinato l'emissione di ben due ordinanze di rimessione alle Sezioni unite che, peraltro, non hanno potuto affrontare nel merito la questione. Infatti, la prima ordinanza del 15 marzo 2013 (nella quale, tra l'altro, era stata evidenziata proprio la necessità di un approdo rispettoso dei principi di tassatività e determinatezza della norma penale sostanziale) è stata restituita alla Sezione rimettente per un vizio formale del ricorso, mentre il giudizio devoluto con la seconda ordinanza è stato definito dalle Sezioni unite, all'udienza del 24 ottobre 2013, con una declaratoria di inammissibilità del ricorso, senza che la Corte, come emerge dall'informazione provvisoria, si sia pronunciata sulla questione.

La prospettiva ermeneutica della sentenza Bellavista Caltagirone sembra essere condivisa da altre decisioni della Suprema Corte.

In questo senso, Sez. V, 2 luglio 2013 - dep. 25 settembre 2013, n. 39837, Cavaliere in corso di massimazione ha ritenuto di superare l'orientamento tradizionale, osservando tra l'altro che quest'ultimo "sembra tuttavia non tener conto, privilegiando l'aspetto formale rispetto a quello contenutistico-sostanziale, della "ratio" dell'aggravante, formulata in epoca anteriore alla normazione sulle privatizzazioni. Tale "ratio" è ravvisabile nell'esigenza di maggior tutela del patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, che non viene meno solo perché un ente a partecipazione pubblica esercente un servizio pubblico, che mette quindi in gioco risorse della collettività, è strutturato nelle forme del diritto privato, inidonee ad influire sull'aspetto funzionale della gestione di un servizio pubblico o di pubblico interesse, nella specie tra l'altro di primaria importanza (la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani in numerosi comuni della Campania)". Su tali basi, e con un espresso richiamo agli approdi interpretativi della sentenza Bellavista Caltagirone, è stata riconosciuta la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 640, comma secondo, cod. pen., dovendosi attribuire la qualifica di "organismo di diritto pubblico" alla ECO4 s.p.a., società a prevalente partecipazione pubblica (consorzio di comuni del casertano, titolare del 51%) svolgente in regime di monopolio il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

A conclusioni non dissimili sembra essere giunta anche Sez. VI, 29 gennaio 2013- dep. 16 aprile 2013, n. 17343, Maroni, Rv. 256241, relativa ad una fattispecie di malversazione di cui all'art. 316-bis cod. pen., che ha chiarito che "l'ente pubblico erogatore dei fondi distratti dalla loro destinazione si identifica con l'organismo pubblico di cui al D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163" (in applicazione di tali principi, la sentenza ha ritenuto "organismo di diritto pubblico", rilevante ai fini del delitto di malversazione, la società per azioni Sviluppo Italia); in un recente passato in termini anche - anche quanto alla qualifica conferita alla Investimenti Italia s.p.a. - Sez. VI, 3 giugno 2010 (dep. 18 novembre 2010), n. 40830, Marani (Rv. 248786).

Queste due ultime pronunce hanno ritenuto di poter individuare un "ente pubblico", ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 316-bis cod. pen., in altrettante società a partecipazione mista rispondenti ai requisiti dell'"organismo di diritto pubblico" di cui al citato art. 3 del D.Lgs. n. 163 del 2006.

L'evoluzione interpretativa sia pure collegata ad una fattispecie diversa da quella della truffa aggravata, rende possibile una nuova rimessione alle Sezioni unite della questione relativa alla qualificazione giuridica, agli effetti penali, delle società a partecipazione mista concessionarie di servizi pubblici, eventualità questa resa probabile anche dalla considerazione che, nel ben diverso settore della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (in cui l'ente viene in rilievo non come persona offesa, ma come soggetto passibile delle sanzioni di cui al D.Lgs. N. 231 del 2001), il problema delle società a partecipazione mista - e, in particolare, della loro assoggettabilità alla predetta disciplina - sembra esser stato affrontato e risolto non tanto su basi meramente formali, quanto piuttosto in una prospettiva attenta, anzitutto, all'attività in concreto esercitata.

A questa conclusione in particolare era giunta Sez. II, 9 luglio 2010 - dep. 21 luglio 2010, n. 28699, Vielmo, Rv. 247669, la quale ha escluso la possibilità di ricondurre tra gli "enti pubblici non economici" (esonerati dalla disciplina ex art. 1, comma terzo, D.Lgs. n. 231 del 2001) un ospedale specializzato operante in forma di società a prevalente partecipazione pubblica: conclusioni raggiunte non già attribuendo "sic et simpliciter" natura privata all'ente in base alla sua conformazione societaria, bensì evidenziando che un ente pubblico, per essere esonerato dalla disciplina in questione, non deve svolgere attività economica (condizione insussistente nella fattispecie in esame, per lo scopo di lucro connaturato alla veste societaria). In tale prospettiva, la sentenza ha ritenuto assorbita "ogni altra considerazione sull'effettiva natura delle società miste" (pur dando atto che la natura privatistica di società consimili era stata affermata dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione).

  • parentela
  • protezione della famiglia
  • responsabilità parentale
  • divorzio

CAPITOLO V

LA TUTELA PENALE DEI RAPPORTI FAMILIARI

Sommario

1 I rapporti familiari penalmente tutelabili nella lettura della giurisprudenza di legittimità. - 2 La sentenza delle Sezioni unite sull'omessa corresponsione dell'assegno di divorzio. - 3 La violazione degli obblighi di assistenza familiare. - 4 L'abuso dei mezzi di correzione e disciplina. - 5 I maltrattamenti in famiglia. - 6 I comportamenti persecutori in ambito "parafamiliare": il mobbing. - 7 Maltrattamenti e abbandono di persone minori o incapaci. - 8 Sottrazione di persone incapaci: la sottrazione del minore da parte di uno dei genitori.

1. I rapporti familiari penalmente tutelabili nella lettura della giurisprudenza di legittimità.

La tematica della tutela penale dei rapporti familiari ha visto nel corso del 2013 numerose decisioni su quasi tutti i reati che tradizionalmente vengono considerati rientrare in tale tipologia.

Alcune delle pronunce della Corte si sono poste in termini di decisa novità rispetto all'orientamento precedente, altre hanno confermato o meglio precisato il diritto vivente fino a quel momento formatosi.

In una prospettiva di decisa novità si sono mosse, ad esempio, le Sezioni unite con una decisione che ha modificato una posizione che sembrava consolidata in ordine alla pena applicabile per la fattispecie delittuosa extracodicistica dell'omessa corresponsione dell'assegno divorzile.

Questa sentenza, però, è particolarmente importante perché oltre a ribadire l'importanza di una lettura delle norme - soprattutto quelle caratterizzate da tecniche legislative non particolarmente raffinate - che sia rispettosa dei principi di legalità, tassatività e del favor rei, ha incidentalmente indicato l'ambito di applicazione della norma forse più importante ed applicata del capo IV del titolo XI del codice riguardante i rapporti familiari, e cioè la violazione degli obblighi di assistenza.

Le Sezioni unite, infatti, hanno chiarito con precisione cosa debba intendersi per "obblighi di assistenza" e per "mezzi di sussistenza", fornendo alla giurisprudenza futura un'indicazione dirimente, anche in assenza di un vero contrasto sul punto, di quali debbano essere i comportamenti penalmente rilevanti.

Ma anche la giurisprudenza delle sezioni semplici ha fornito delle risposte molto significative su alcune tematiche da tempo oggetto di dibattito in dottrina ed in giurisprudenza; in particolare quando i rapporti familiari di fatto, anche dopo le modifiche introdotte nella norma dalla legge n. 172 del 2012 di ratifica della Convenzione di Lanzarote, possano giustificare l'applicazione della disposizione in tema di maltrattamenti in famiglia.

E soprattutto, in ciò confermando il trend giurisprudenziale precedente, quando (ed entro quali limiti) la norma sui maltrattamenti in famiglia potesse applicarsi ai rapporti di lavoro e quindi diventare la disposizione incriminatrice delle condotte di mobbing.

Arresti significativi si segnalano anche in tema di sottrazione di minori, dove la Corte patrocina una lettura in linea con il principio di offensività; non basta trattenere un figlio contro la volontà dell'altro genitore; è necessario, invece, perché sussista il reato che venga impedito l'esercizio da parte dell'altro coniuge della potestà genitoriale.

2. La sentenza delle Sezioni unite sull'omessa corresponsione dell'assegno di divorzio.

La sesta Sezione della Corte, rilevando la potenziale insorgenza di un contrasto interpretativo, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione concernente l'applicabilità, quoad poenam, del comma primo ovvero del comma secondo dell'art. 570 cod. pen., all'ipotesi di violazione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile di cui all'art. 12 sexies della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio).

I giudici rimettenti hanno evidenziato come la Corte di cassazione aveva più volte affermato che il generico rinvio, quoad poenam, all'art. 570 cod. pen., operato dall'art. 12 sexies, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 21, legge 6 marzo 1987, n. 74, dovesse intendersi riferito alle pene previste dal comma secondo e non a quelle indicate nel primo comma della disposizione codicistica, avendo ad oggetto il citato art. 12 sexies la violazione di un obbligo di natura economica e non di assistenza morale che la rende contenutisticamente più simile a quella del capoverso della disposizione codicistica (fra le altre, Sezione VI, 7 dicembre 2006 - dep. 15 maggio 2007 - n. 18450, Masin, Rv. 236415; Sezione 6, 24 giugno 2009 - dep. 13 luglio 2009 - n. 28557, P.G. in proc. P., Rv. 244805)

Secondo il Collegio rimettente, tuttavia, era possibile rinvenire nella giurisprudenza della Corte pronunzie che adottassero una impostazione parzialmente divergente da tale orientamento pur se con riferimento al diverso profilo della procedibilità (Sez. VI, 2 marzo 2004 - dep. 7 maggio 2004, n. 21673, Cappellari, Rv. 229636) e che, quindi, ritenessero applicabile la pena prevista dal comma primo dell'art. 570 cod. pen.

Questa ultima impostazione, seppur minoritaria, appariva per molti aspetti più convincente, soprattutto perché maggiormente rispettosa del principio di legalità ed imponeva, di conseguenza, il ricorso alla Suprema Nomofilachia.

Risolvendo il potenziale contrasto, Sez. Un. 31 gennaio 2013 - dep. 31 maggio 2013, n. 23866, S., Rv. 255269 hanno aderito alla prospettazione ritenuta preferibile nell'ordinanza di rimessione ed affermato il principio così massimato:" Nel reato di omessa corresponsione dell'assegno divorzile previsto dall'art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74, il generico rinvio, "quoad poenam", all'art. 570 cod. pen., deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo di quest'ultima disposizione".

Per giungere alla citata conclusione, il Supremo Collegio evidenzia, in primo luogo, l'autonomia della parte precettiva della fattispecie delineata dall'art. 12 sexies della 1. n. 898 cit. rispetto all'art. 570 cod. pen., norma quest'ultima richiamata solo quoad poenam.

La disposizione della legge speciale, infatti, incrimina un comportamento diverso ed autonomo da quello della norma del codice penale ("Al coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione dell'assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 della presente legge …"), delineando un'ipotesi di delitto omissivo proprio di carattere formale, in cui il soggetto attivo è individuato in chi è tenuto alla prestazione dell'assegno e la condotta nel mero inadempimento dell'obbligo.

Questa considerazione di per sé smentisce l'argomento principale sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria a favore dell'opzione secondo cui la pena del capoverso dell'art. 570 cod. pen. sarebbe stata applicabile per ragioni di affinità contenutistica.

In mancanza, invece, di sicuri elementi testuali orientativi scaturenti dalla norma incriminatrice prevista dalla legge speciale, il rinvio deve intendersi più opportunamente riferito - in sintonia con il rapporto di proporzione e con il criterio di stretta necessità della sanzione penale - all'art. 570 c.p., comma 1, che costituisce l'opzione più favorevole all'imputato.

A favore di questa conclusione milita anche un'ulteriore considerazione; all'epoca in cui era stata approvata la riforma della legge sul divorzio e quindi introdotta la nuova norma penale "il diritto vivente" sembrava essersi consolidato in una lettura diversa da quella ormai divenuta oggi prevalente, e cioènel senso che l'art. 570 c.p. delineasse una fattispecie semplice nel comma 1 e due circostanze aggravanti nel capoverso.

Del resto, anche a voler sostenere la tesi dell'attinenza contenutistica fra le fattispecie, si giungerebbe sempre alla conclusione di ritenere applicabile la pena prevista dal comma 1 dell'art. 570 cod. pen.

L'esatta interpretazione di questo comma fa rientrare negli obblighi di assistenza, inerenti alla qualità di coniuge, anche quelli di natura materiale concernenti il rispetto e l'appagamento delle esigenze economicamente valutabili dell'altro coniuge (aiuto nel lavoro, nello studio, nella malattia, etc.) e la corresponsione dei mezzi economici necessari per condurre il tenore di vita goduto dalla famiglia; tali obblighi, pur attenuati, permangono anche in caso di separazione personale dei coniugi.

Anche con riferimento ai figli, pur a seguito di separazione personale tra i coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza.

Conseguentemente, l'obbligo di assistere l'altro coniuge e i figli ha un contenuto materiale che va ben al di là dell'obbligo di non far mancare al coniuge e ai figli i mezzi di sussistenza, ossia ciò che è indispensabile per farli vivere e, pertanto, "La violazione dei doveri di assistenza materiale di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del cod. civ. integra, ricorrendo tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie, il reato previsto e punito dall'art. 570, comma primo, cod. pen." (principio così massimato in Rv. 255271)

D'altro canto, poi, l'esatta interpretazione del comma secondo dell'art. 570 cod. pen. impone di considerare l'azione di far mancare i mezzi di sussistenza in termini molto più restrittivi di quelli che risultano puniti dalla disposizione della legge speciale ("La condotta sanzionata dall'art. 570, comma secondo, cod. pen. presuppone uno stato di bisogno, nel senso che l'omessa assistenza deve avere l'effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, che comprendono quanto è necessario per la sopravvivenza, situazione che non si identifica né con l'obbligo di mantenimento né con quello alimentare, aventi una portata più ampia"; così, Rv. 255272)

E' proprio l'ambito circoscritto della nozione dei mezzi di sussistenza (che implica l'esistenza dello stato di bisogno nel soggetto passivo) rispetto a quella di mantenimento (che dallo stato di bisogno prescinde) a impedire di considerare la violazione formale dell'obbligo di corrispondere l'assegno divorzile (oggi anche quello di separazione a seguito della L. n. 54 del 2006) affine alla condotta di danno quale delineata dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2.

Dalla mancanza d'identità contenutistica tra la fattispecie penale prevista dal codice e quella prevista dalla legge di riforma del divorzio (a cui fa rinvio la L. n. 54 del 2006, in tema di obblighi economici del coniuge separato) deriva l'impossibilità di ritenere che il rinvio quoad poenam operato dalla L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, possa riferirsi all'art. 570 c.p., comma 2.

La raggiunta conclusione non comporta alcuna sostanziale attenuazione della tutela repressiva, posto che, essendo rimessa al giudice la scelta della pena da infliggere in concreto, i casi gravi possono essere puniti con la pena detentiva.

Le Sezioni unite nella parte finale della decisione affrontano un'ulteriore questione, quella, cioè, della procedibilità a querela o di ufficio della fattispecie penale punita dalla legge n. 898 del 1970 ed affermano il principio così massimato: "Il reato di omessa corresponsione dell'assegno divorzile è procedibile d'ufficio e non a querela della persona offesa, in quanto il rinvio contenuto nell'art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 all'art. 570 cod. pen. si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità". (Rv. 255270)

Evidenziano in motivazione come il rinvio previsto dal legislatore si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non anche all'art. 570 cod.pen., comma 3, il quale, in deroga al principio generale, prevede la procedibilità "a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti di minori, dal n. 2 del precedente comma".

3. La violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Si è già accennato in premessa e lo si è evidenziato nel paragrafo precedente come le Sezioni unite nel trattare della questione sottoposta al loro esame abbiano, incidentalmente, dovuto chiarire il significato degli "obblighi di assistenza" e dei "mezzi di sussistenza", che individuano gli obblighi di "facere", la cui inosservanza è punita, come reati omissivi, Dai commi 1 e 2 dell'art. 570 cod. pen.

Nella giurisprudenza delle sezioni semplici due altre questioni affrontate, relativamente alla norma del codice penale da ultimo citata, meritano di essere qui segnalate.

La prima riguarda il tema della capacità economica dell'obbligato che, come è noto, viene considerato come un presupposto indispensabile per poter l'obbligato essere punito nel caso in cui siano stati fatti mancare i mezzi di sussistenza (fra le tante, Sezione VI, 4 febbraio 2011 - dep. 7 marzo 2013 - n. 8912, K., Rv. 249639; Sezione VI, 21 marzo 1996 - dep. 4 giugno 1996 - n. 5525, Pulga, Rv. 204875).

Sulla scorta di una giurisprudenza sostanzialmente consolidata, Sezione VI, 29 gennaio 2013 - dep. 14 febbraio 2013, n. 7372, S. Rv. 254515, pur ribadendo il principio secondo cui incombe sull'interessato l'onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l'impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione e non basti in questo senso allegare il proprio stato di disoccupazione, ha tuttavia aperto ad una posizione meno formalistica e che tenga conto effettivamente, al di là del comportamento dell'obbligato, della sua capacità economica di adempiere.

In particolare ha censurato, nel caso di specie, la decisione del giudice di merito che aveva affermato che l'accertato inadempimento dovesse ritenersi comunque sussistente per non aver il ricorrente mai, neppure in minima parte, destinato l'indennità di disoccupazione al versamento di quanto dovuto per garantire i mezzi di sussistenza al figlio minore. Questa conclusione avrebbe presupposto, infatti, a monte, l'accertamento della dimensione quantitativa della indennità in termini tali da consentire al ricorrente di destinarne effettivamente, quantomeno una parte, all'adempimento dell'obbligazione volta a garantire i mezzi di sussistenza al figlio minore senza per questo mettere in gioco gli elementi minimi del proprio sostentamento.

Il secondo aspetto di interesse ha riguardato L'omessa prestazione dei mezzi di sussistenza ai figli inabili al lavoro.

La questione che si è posta all'esame della Corte riguarda il grado di invalidità rilevante in relazione all'obbligo di adempimento che grava sul genitore in relazione ai figli maggiorenni.

Sez. VI, 13 febbraio 2013 - dep. 30 maggio 2013, n. 23581, L.P., Rv. 256258, ha ribadito che integra il reato di cui all'art. 570 c.p., comma 2, n. 2 la mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza ai figli di "età minore" ovvero maggiorenni "inabili al lavoro", confermando, altresì, che l'obbligo, penalmente sanzionato, di prestare i mezzi di sussistenza ha dunque un contenuto soggettivamente e oggettivamente più ristretto di quello delle obbligazioni previste dalla legge civile.

Il genitore separato, infatti, è obbligato ex art. 155 quinquies c.c. a concorrere al mantenimento del figlio anche dopo il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo; obbligo che perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio abbia raggiunto l'indipendenza economica. Per i figli maggiorenni, portatori handicap grave, il secondo comma del citato art. 155 quinquies prevede l'applicazione delle disposizione stabilite in favore dei figli minori.

Osserva la Corte che poiché la lettera della norma fornisce "la cornice" per l'interpretazione del precetto penale, è all'interno di essa che va ricercato il significato della disposizione, talché la "inabilità al lavoro" dei figli maggiorenni è condizione imprescindibile per la configurabilità del reato previsto dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2".

"Inabile al lavoro" deve, in questo senso, ritenersi la persona che abbia una "totale e permanente inabilità lavorativa" secondo quanto previsto dalla L. n. 118 del 1971, ex artt. 2 e 12, mentre la persona cui sia riscontrata una "invalidità" che comporti una riduzione permanente della "capacità lavorativa" inferiore o pari al 74% non può essere annoverata tra gli "inabili al lavoro" (L. n. 118 del 1971, artt. 2 e 13 e D.Lgs. n. 509 del 1988, art. 9.) e, pertanto, la violazione dell'obbligo di corrispondere al figlio maggiorenne un eventuale assegno di mantenimento integra un illecito civile.

4. L'abuso dei mezzi di correzione e disciplina.

La giurisprudenza si è occupata della fattispecie delittuosa di cui all'art. 571 cod. pen. con riferimento, soprattutto, alle condotte degli insegnanti, consistenti in comportamenti non violenti.

La giurisprudenza anche di recente aveva optato per un'interpretazione del paradigma di "abuso sul minore" da intendersi come esteso non solo alle condotte dannose sul piano fisico, ma anche a quelle pregiudizievoli sul piano psicologico, essendo correlato allo sviluppo anche sociale della persona, destinataria dell'azione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia.

In particolare, con riferimento alla singolare condotta di costrizione di un alunno, consistita nell'imporgli di scrivere 100 volte sul quaderno "sono un deficiente", la Corte aveva di recente affermato che "Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell'insegnante che umilii, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall'ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell'altrui personalità (Sez. VI, 14 giugno 2012-10 settembre 2012, n., 34492, V., Rv. 253654).

Il principio risulta sviluppato e precisato da Sez. VI, 12 febbraio 2013 - dep. il 12 marzo 2013, n. 11795, P.C., Rv. 255320, secondo cui nell'interazione fra alunno ed insegnante, di carattere pedagogico e sociale, va recisamente escluso l'uso della violenza per una duplice considerazione: da un lato, per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità delle persone, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più come in passato semplice oggetto di protezione; dall'altro, perché non può perseguirsi quale meta educativa, un risultato armonico di sviluppo della personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che contraddice tali finalità.

La peculiarità della fattispecie contestata all'insegnante era che si trattava di una manifestazione accentuata di affettuosità, nella specie costituita da "baci sulle labbra" ed "abbracci intensi".

La Corte, pur censurando l'inopportunità del comportamento, ha concluso nel senso che esso non integrasse il reato in esame, in quanto, per le concrete modalità non violente e tipicamente affettuose, deve essere considerato come espressione di "piccolo eccesso o mancanza di misura nel relazionarsi educatore-bambino" e non come abuso in ambito scolare o materno.

La valutazione, quindi, approfondita del comportamento complessivo del docente, oggetto dell'incriminazione, ed i rischi di conseguenze sul minore del medesimo sono gli elementi di cui il giudice deve tener conto per giungere a punire comportamenti oggettivamente non violenti.

5. I maltrattamenti in famiglia.

Degli arresti giurisprudenziali intervenuti nel 2013 è opportuno riportarne in questa sede quello che si è occupato della delicata tematica dell'applicabilità della norma incriminatrice di cui all'art. 572 cod. pen alla famiglia di fatto.

E' sostanzialmente consolidato l'orientamento della Suprema Corte secondo cui l'art. 572 c.p., nel perseguire la condotta di colui che "maltratta una persona della famiglia", considera famiglia non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto tendenzialmente stabile fondato su legami di reciproca assistenza e protezione. (cfr., ex plurimis, Sezione VI, 24 gennaio 2007 - dep. 31 maggio 2007, n. 21329, Gatto, Rv 236757).

In questo filone si pone Sezione VI, 7 maggio 2013 - dep. 27 maggio 2013, n. 22915, I, Rv. 255628, che però si contraddistingue per alcune precisazioni di particolare rilievo.

Nella sentenza si legge, infatti, che se nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi la cessazione della convivenza non fa venir meno gli obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza materiale e morale nascenti dal matrimonio, questo stesso principio non è automaticamente esportabile alla famiglia di fatto.

In questo caso, infatti, la cessazione della convivenza rende manifesta l'avvenuta estinzione dell'affectio che reggeva quella unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto.

Sul punto, afferma testualmente la Corte che "in difetto di convivenza, il rapporto familiare di fatto che costituisce il presupposto del reato contestato, va desunto dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza".

A sostegno di questa conclusione contribuisce anche il legislatore con la novella 1 ottobre 2012 n. 172 di ratifica della cd convenzione di Lanzarote che ha parzialmente riformato l'art. 572 c.p..

Cambiando la rubrica da "maltrattamenti in famiglia" in "maltrattamenti contro familiari e conviventi" ha precisato che soggetto passivo del reato non è soltanto "una persona della famiglia", ma "una persona della famiglia o comunque convivente" con ciò collegando l'applicazione della norma all'esistenza di un rapporto comunque qualificabile in termini di effettiva convivenza..

Interessante in questa prospettiva, anche per meglio comprendere la novità del principio di diritto, è l'esame della vicenda sottostante.

La Corte, in particolare, ha accolto il ricorso di un soggetto condannato alla pena di mesi otto di reclusione per maltrattamenti, osservando come l'asserito rapporto di reciproca assistenza era contraddetto da alcune circostanze inequivoche: innanzitutto dal fatto che la relazione sentimentale, durata secondo il giudice d'appello per un periodo di sei anni, sarebbe cominciata con una convivenza di qualche mese presso la casa dei genitori dell'imputato e sarebbe poi proseguita con una frequentazione saltuaria e intermittente, posto che la vittima, ogni volta che si allontanava da casa per incontrare l'imputato, vi faceva ritorno coperta di lividi per le percosse ricevute ed inoltre dal fatto che la nascita dei tre figli sarebbe parsa una conseguenza non voluta della relazione piuttosto che l'effetto di un progetto mirato a generare, allevare ed educare la prole, posto che, del primo figlio, a causa dell'incuria dei genitori, era stato dichiarato lo stato di adottabilità e, della sorte degli altri, non si aveva notizia alcuna.

6. I comportamenti persecutori in ambito "parafamiliare": il mobbing.

La giurisprudenza, in modo ormai consolidato, ha considerato che il peculiare atteggiarsi dei comportamenti persecutori realizzati ai danni di un lavoratore dipendente e finalizzati alla sua emarginazione (c.d. "mobbing") possono assumere rilievo nell'ambito della tutela penale della famiglia e giungere ad integrare gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia, qualora, il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura "para-familiare". (ex plurimis, Sezione VI, 6 febbraio 2009 - dep. 26 giugno 2009- n. 26594, P., Rv. 244457).

L'inserimento di tale figura criminosa tra i delitti contro l'assistenza familiare del resto si pone in linea con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla "famiglia", quale società intermedia destinata alla formazione e all'affermazione della personalità dei suoi componenti, e pertanto, in tale prospettiva ermeneutica vanno inseriti soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare

Sulla questione è tornata Sez. VI, 28 marzo 2013 - dep. 3 luglio 2013, n. 28603, S., Rv. 255976 che ha affrontato il caso dei comportamenti persecutori posti in essere nell'ambito di una struttura complessa come quella di un istituto di credito, di rilevo ed importanza nazionale; in particolare si trattava di condotte realizzate nei confronti del funzionario di una filiale dal direttore della stessa.

La Corte - pur considerando tale situazione di fatto astrattamente riconducibile alla nozione di "mobbing", sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, denominata come "straining" - ha escluso la riconducibilità all'ipotesi criminosa di cui all'art. 572 cod. pen. in quanto la posizione lavorativa del ricorrente era appunto inquadrata all'interno di una realtà aziendale complessa, la cui articolata organizzazione - anche attraverso la previsione di "quadri intermedi" - non implicava certo l'instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il dipendente, che appare in grado di determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare.

Se, infatti, è vero che l'art. 572 c.p. ha "allargato" l'ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endofamiliare, è pur vero, d'altra parte, che la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare ed espressamente indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli, sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione.

E questa impostazione non è di certo mutata a seguito della recente interpolazione del testo normativo, di cui si è fatto già cenno poco sopra, da parte della legge n. 172 del 2012, che novellando la rubrica dell'art. 572 cod. pen, ora denominata "Maltrattamenti contro familiari e conviventi", ed aggiungendo i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato, ha lasciato, però, inalterate sia la natura (abituale) e la struttura del reato di maltrattamenti (prima "in famiglia o verso fanciulli", ora "contro familiari e conviventi").

7. Maltrattamenti e abbandono di persone minori o incapaci.

Il peculiare atteggiarsi delle condotte configurabili quali fattispecie di maltrattamenti in famiglia ha posto di recente la delicata questione del concorso formale del delitto previsto e punito dall'art. 572 cod. pen. con il reato di abbandono di persone minori o incapaci, di cui all'art. 591 cod. pen, alla luce della diversità del bene oggetto di tutela.

Il tema, mai affrontato expressis verbis in passato, è trattato da Sez. VI, 6 dicembre 2012 - dep. 8 marzo 2013, n. 10994, T., Rv. 255174.

Secondo la Corte, in particolare, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 591 cod. pen., il necessario "abbandono" è integrato da qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o per l'incolumità del soggetto passivo.

Il delitto di maltrattamenti è, invece, integrato dalla sottoposizione dei soggetti tutelati ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo: è, pertanto, necessario che la condotta sia abituale e si estrinsechi in una pluralità di atti.

Le due fattispecie incriminatrici, in quanto poste a tutela di beni diversi ed integrate da condotte oggettivamente differenti concorrono fra loro, senza che sia configurabile alcun rapporto di specialità né tantomeno quelli cd di consunzione o assorbimento.

8. Sottrazione di persone incapaci: la sottrazione del minore da parte di uno dei genitori.

Il reato previsto dall'art. 574 cod. pen. punisce la condotta del genitore che, contro la volontà dell'altro, sottragga il figlio per un periodo di tempo rilevante, impedendo l'esercizio della potestà genitoriale e allontanando il minore dall'ambiente d'abituale dimora.

Su questa fattispecie è intervenuta Sez. VI, 19 febbraio 2013- dep. 27 maggio 2013, I., n. 22911 Rv. 255621 che ha fornito della disposizione in chiave di necessaria e concreta offensività.

La fattispecie criminosa postula, infatti, non una mera sottrazione ma un vero impedimento per l'esercizio delle diverse manifestazioni della potestà del genitore, talché soltanto qualora la condotta posta in essere da uno dei coniugi conduca ad una globale sottrazione del minore alla vigilanza del coniuge affidatario, così da impedirgli non solo la funzione educativa ed i poteri insiti nell'affidamento, ma da rendergli impossibile quell'ufficio che gli è stato conferito dall'ordinamento nell'interesse del minore e della società, potrà ritenersi integrato il reato di cui all'art. 574 c.p..

Nel caso scrutinato, l'imputato era stato ritenuto responsabile dai giudici di merito del reato in esame, per aver prelevato la figlia al rientro da una gita scolastica e averla trattenuta con sè per due settimane, senza autorizzazione ed anzi contro la volontà del proprio coniuge separato, a cui la minore era stata affidata con provvedimento dell'autorità giudiziaria elvetica.

La Corte ha, invece, annullato con rinvio la sentenza di condanna osservando, in primo luogo, che la responsabilità dell'imputato era stata affermata con esclusivo riferimento alla circostanza che la minore era stata "trattenuta" per circa due settimane dal padre presso la sua abitazione, nonostante fosse stata affidata alla madre, ma omettendo ogni accertamento in ordine alla circostanza se tale condotta fosse stata di effettivo ostacolo sull'esercizio della potestà genitoriale da parte della madre.

In particolare, non risultava accertato se il trattenimento della minore avesse causato una radicale interruzione del rapporto della madre con la figlia, impedendo l'esercizio della potestà ovvero se - come aveva assunto il ricorrente - si fosse verificata soltanto un'inosservanza del provvedimento giudiziario in ordine ai tempi del diritto di visita riconosciuto al padre.

Visto che era da considerarsi pacifico che la genitrice conoscesse la residenza del marito presso cui si trovava la minore e che quest'ultima, durante il periodo in contestazione, avesse incontrato ogni giorno la mamma, con la quale si era anche intrattenuta quotidianamente a parlare.

Tale circostanza addirittura escluderebbe in radice la sottrazione, e, comunque, ogni ipotesi di ostacolo all'esercizio della potestà genitoriale, dal momento che la minore non è mai stata allontanata dalla vigilanza della madre.

Interessante nell'esame della decisione è anche un riferimento all'elemento soggettivo del reato e come quest'ultimo si atteggia differentemente nell'ipotesi in esame e nel reato di cui all'art. 388 cod. pen..

Siccome i fatti di sottrazione si erano svolti a ridosso dell'emanazione dei provvedimenti con cui era stato disposto l'affidamento della minore alla madre, l'accertamento in ordine all'elemento soggettivo, da effettuarsi in sede di merito, avrebbe consentito di verificare se la condotta posta in essere dall'imputato fosse diretta ad impedire l'esercizio della potestà genitoriale all'affidatario ovvero mirasse soltanto ad eludere il provvedimento giudiziario, con diverse e significative conseguenze anche in ordine alla qualificazione giuridica del fatto.

  • prostituzione
  • libertà sessuale
  • violenza sessuale

CAPITOLO VI

DELITTI CONTRO LA LIBERTA' SESSUALE

Sommario

1 Le tematiche affrontate. - 2 Induzione alla prostituzione minorile e atti sessuali retribuiti con minorenne: l'intervento delle Sezioni unite. - 3 L'attenuante dei "casi di minore gravità" nei reati sessuali.

1. Le tematiche affrontate.

Fra le numerose questioni affrontate nel corso dell'anno dalla giurisprudenza su una tematica così delicata e di notevole impatto sociale, di seguito di essa si tratteranno soltanto due aspetti, e cioè l'individuazione di quale debba essere il rapporto fra le disposizione di cui ai commi primo e secondo dell'art. 600 bis cod. pen. che si occupano della fattispecie delittuosa della prostituzione minorile e dell'ambito di applicabilità dell'attenuante di cui al comma terzo dell'art. 609 bis ed al comma quarto dell'art. 609 quater cod. pen.

Sul primo punto sono, infatti, intervenute le Sezioni unite con una decisione della quale non si conosce ancora la motivazione ma solo l'informazione provvisoria; già sulla scorta di quest'ultima è possibile, però, comprendere come la Suprema nomofilachia abbia scelto una posizione diversa da quella che sembrava ormai dominante nella giurisprudenza di legittimità.

Sul secondo punto accanto ad alcune pronunce che hanno ulteriormente chiarito in presenza di quali presupposti potrà farsi applicazione dell'attenuante speciale, si menzionerà l'ordinanza con cui la III sezione ha sollevato eccezione di legittimità costituzionale proprio in ordine alla disposizione di cui al secondo capoverso dell'art. 609 bis cod. pen.

2. Induzione alla prostituzione minorile e atti sessuali retribuiti con minorenne: l'intervento delle Sezioni unite.

La Sezione terza, con ordinanza n. 1805 del 24 luglio 2013, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione «se il concetto di induzione alla prostituzione minorile sia integrato dalla sola condotta di promessa o dazione o altra utilità posta in essere nei confronti di persona minore di età convinta così a compiere una o più volte atti sessuali esclusivamente con il soggetto agente».

Nell'ordinanza, il Collegio dopo una breve ricognizione delle posizioni giurisprudenziali in materia di "induzione alla prostituzione", formatesi sotto l'egida della 1. n. 75 del 1958 e dopo aver ricordato come l'induzione in quel contesto normativo fosse sempre stata intesa come un'attività finalizzata a convincere una persona a prostituirsi, lasciando pur sempre ad essa un margine di scelta, aveva rimarcato come l'utilizzo di tale concetto nella fattispecie di prostituzione minorile di cui all'art.600 bis cod. pen. (introdotto dall'art. 2 della legge 3 agosto 1998, n. 269 e poi modificato prima con legge 6 febbraio 2006, n. 38 ed, infine, con l'art.4 della legge 1 ottobre 2012, n.172) aveva generato uno scostamento della giurisprudenza di legittimità rispetto alle linee interpretative maturate con riguardo alla citata legge n. 75 del 1958.

Se, infatti, nel caso di maggiorenne, la mera proposta con la quale si prospetti la partecipazione ad incontri sessuali a pagamento con il proponente non viene considerata condotta induttiva se non accompagnata da comportamenti ulteriori, sotto forma di pressioni fisiche e psicologiche che, superando le resistenze di ordine morale (o di altra natura) che trattengono la persona dall'attività di prostituzione, incidono sulla libertà fisica e/o psichica della persona che viene spinta a prostituirsi, nell'ipotesi di vittima minorenne, invece, la giurisprudenza aveva ritenuto che la condotta induttiva potesse consistere nella semplice dazione di denaro che persuada il minore a consentire agli atti sessuali, non essendo peraltro necessario che la persona sia "non iniziata e non dedita alla vendita del proprio corpo" ( ex plurimis, Sez. III, 14 aprile 2010 - dep. 14 maggio 2010, n. 18315 R.S., Rv. 247163), con la conseguenza che anche gli atti sessuali a pagamento con minore, posti in essere in unica occasione con il solo autore del reato, possono integrare la fattispecie di induzione alla prostituzione (così, Sez. III, 19 maggio 2010 - dep. 9 luglio 2010 n. 26216, P.M. in proc. A., Rv. 247696, sia pure con la precisazione tuttavia della necessità che la dazione del corrispettivo sia accompagnata da una opera di convincimento finalizzata a vincerne la resistenza).

Il collegio remittente, alla luce della indicata posizione giurisprudenziale, aveva altresì sottolineto come l'attuale formulazione dell'art.600 bis cod. pen. - per effetto delle ultime modificazioni dalla legge n.172 del 2012 - palesasse una ancora più marcata differenziazione fra la più grave ipotesi di cui al primo comma (fattispecie destinata a punire coloro che avviano i minori all'attività di prostituzione, li trattengono in tale attività e ne traggono vantaggio) e quella di cui al capoverso (funzionale alla punizione di coloro che si limitano a compiere atti sessuali a pagamento con soggetti minorenni, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano o meno già dediti ad attività di mercimonio sessuale del proprio corpo).

Di qui la necessità di un intervento dirimente che - a fronte di un concetto di "prostituzione" riferito a soggetti maggiorenni che si collega tradizionalmente alla messa a disposizione del proprio corpo in cambio di denaro o altra utilità nei confronti di un numero almeno tendenzialmente indiscriminato di persone - possa chiarire - mediante una corretta lettura dei termini "prostituzione" e "induzione" - se le esigenze di tutela dei minori possano giustificare un approccio differenziato, tale da condurre al punto di ritenere che il concetto giuridico di "prostituzione minorile" sia integrato anche nella ipotesi che la relazione sessuale dietro compenso sia limitata ad un unico adulto in assenza di intermediari e/o sfruttatori e, successivamente, che l'attività di "induzione" nei confronti del/della minorenne possa essere configurata anche nella sola condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, così da convincere la vittima a compiere una o più volte atti sessuali esclusivamente con il soggetto agente.

Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla questione il 19 dicembre 2013 e, come si accennava, di questa sentenza ad oggi non è ancora nota la motivazione, ma la sola informazione provvisoria dalla quale si apprende che la Corte ha ritenuto che la sola condotta di promessa o dazione o altra utilità posta in essere nei confronti di persona minore di età convinta così a compiere una o più volte atti sessuali esclusivamente con il soggetto agente integrasse la fattispecie meno grave di cui al comma secondo dell'art. 600 bis cod. pen., con la conseguenza che la più grave di cui al comma 1 del medesimo articolo sia riservata all'ipotesi in cui il minore venga effettivamente avviato ad un'attività di tipo prostituivo, non solo collegata al rapporto con chi paga.

3. L'attenuante dei "casi di minore gravità" nei reati sessuali.

Sempre in tema di reati contro la libertà sessuale, alcune pronunce delle sezioni semplici hanno affrontato il problema particolarmente delicato della perimetrazione della circostanza attenuante prevista dal comma 3 dell'art. 609 bis e dal comma 4 dell'art.609 quater del codice penale.

E' noto che la "ristrutturazione" dei reati in materia sessuale effettuata dal legislatore del 1996 ha reso necessaria una previsione attenuata per i casi che risultano di minore gravità, donde la necessità della individuazione, in linea generale, dei parametri mediante i quali accertare la ricorrenza di tali casi.

Posto ovvio riguardo alla disposizione di cui all'art. 133 c.p., una dizione letterale della attenuante speciale in materia sessuale formulata con l'espressione "fatto di minore gravità" non avrebbe lasciato spazio a differenti opzioni giurisprudenziali, con un obbligatorio riferimento al solo primo comma della noma appena citata; invece, il riferimento operato dal legislatore ai "casi" e non ai "fatti" ha condotto nel recente passato la giurisprudenza di legittimità verso due approdi interpretativi che, partendo dal comune presupposto costituito dall'ancoraggio a criteri normativi certi quali appunto quelli contemplati dall'art.133 cod. pen., si dividono poi sulla necessità di valorizzare (anche) gli elementi soggettivi indicata dal comma secondo della norma appena citata.

Per un primo orientamento (ex plurimis, Sez. III, 24 marzo 2000 - dep. 16 maggio 2000, n. 5646, Improta Rv. 216569; Sez. III, 3 ottobre 2006 - dep. 21 novembre 2006, n. 38112, Magni, Rv. 235031) la stessa formulazione lessicale del disposto del comma terzo dell'art. 609 bis. c.p. - prevedendo la diminuente per i "fatti" di minore gravità - consentirebbe l'esaltazione di tutti quegli elementi fattuali e personali, oggettivi e soggettivi, "idonei ad assegnare al fatto una minore carica di disvalore".

Più specificamente, si sostiene che la diminuente di cui al comma terzo dell'art. 609 bis c.p. si deve considerare applicabile in tutte quelle fattispecie in cui, con riguardo ai mezzi, alle modalità, esecutive ed alle circostanze dell'azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave, anche in relazione all'età della stessa", affermandosi, però, anche la necessità di una valutazione globale del fatto, non limitata alle sole componenti oggettive del reato, ma estesa a quelle soggettive, ivi compreso il rapporto interpersonale, ed a tutti gli elementi menzionati dall'art.133 del codice penale.

Vengono così valorizzati da un lato la materialità dei fatti, ritenuti intrusivi in maniera rilevante nella sfera sessuale della persona offesa, dall'altro la particolare intensità dell'elemento soggettivo del responsabile, così come la incidenza del fatto sul profilo psichico della persona offesa e sul corretto sviluppo della personalità della stessa (così, Sez. III, 5 luglio 2006 - dep. 5 ottobre 2006, n 33479, Greggio, Rv. 234788).

Più recentemente, in senso diverso (Sez. III, 15 giugno 2010 - dep. 14 luglio 2010, n. 27272, P., Rv. 247931; Sez. III, 26 ottobre 2011 - dep. 7 dicembre 2011, n. 45692, B., Rv. 251611) ha ritenuto che gli elementi soggettivi di cui all'art. 133, comma secondo, cod. pen., non rilevano ai fini della configurabilità dell'ipotesi di minore gravità del reato di violenza sessuale, non rispondendo la mitigazione della pena all'esigenza di adeguamento alla colpevolezza del reo e alle circostanze attinenti alla sua persona ma alla minore lesività del fatto, da rapportare al grado di violazione del bene giuridico della libertà sessuale della vittima.

Peraltro, un semplice esame delle fattispecie nelle quali è stato escluso che si trattasse di casi di minore gravità permette però di evidenziare come il "dato oggettivo" appaia spesso predominante, a dimostrazione che l'opzione giuridica di fondo, riferibilità o meno all'intero contenuto dell'art. 133 c.p., sfumi e non sostenga compiutamente la motivazione del caso specifico: ne costituiscono testimonianza i recenti casi nei quali la Cassazione si è preoccupata di ribadire che in tema di violenza sessuale le ipotesi di minore gravità devono ravvisarsi in tutte quelle fattispecie in cui - avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell'azione - sia possibile ritenere che la libertà sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave.

Alla stregua di tale criterio, la Corte ha dunque ritenuto legittima l'esclusione della attenuante non solo per le tipologie degli atti sessuali sia, di per sé, particolarmente invasiva - così Sez. IV, 12 aprile 2013 - dep. 26 aprile 2013, n.18662, A., Rv. 255930 per il caso di rapporti orali che avevano provocato alla persona offesa sensazioni molto dolorose - ma anche nella ipotesi di contatto fisico tra l'autore del reato e la vittima, giudicata non determinante ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante.

Infatti, secondo Sez. III, 26 marzo 2013 - dep. 2 maggio 2013, n. 19033, L., Rv. 255295 per l'applicazione dell'attenuante in questione, non è sufficiente la mancanza di congiunzione carnale tra l'autore dei reato e la vittima e la circostanza di una eventuale comunicazione a distanza, per via telematica, senza alcun contatto fisico tra autore del reato e soggetto passivo non assume, di per sé, rilievo determinante, ma deve essere valutata unitamente agli altri elementi che la richiamata giurisprudenza individua tra quelli da considerare; occorre infatti avere riguardo alle modalità di svolgimento dei fatti, per verificare se siano connotate da particolare insistenza ed invasività.

Alla luce di tale bussola interpretativa, il mezzo telematico, utilizzato per realizzare il reato non può essere, di per sé solo, ritenuto scarsamente intrusivo: le comunicazioni mediante "chat" o "social network", rendono infatti particolarmente agevole l'approccio anche con soggetti con i quali il contatto diretto o attraverso altri mezzi di comunicazione sarebbe senz'altro più difficoltoso, non essendo necessario disporre, ai fini di tale contatto, di dati personali (identità, indirizzo, numero telefonico etc.) e potendosi raggiungere l'interlocutore anche attraverso una semplice ricerca o l'utilizzazione dei sistemi utilizzati dalle singole piattaforme per mettere in contatto tra loro gli utenti. Rilievo non minore assume, inoltre, la velocità delle comunicazioni e la possibilità, alla portata di tutti, di inviare fotografie e riprese video, anche contestualmente alla loro realizzazione, attraverso dispositivi portatili.

Sez. III, 21 novembre 2012 - dep. 18 aprile 2013, n. 17699, C., Rv. 255488 ha, inoltre, ribadito l'impossibilità di ravvisare l'ipotesi di minore gravità prevista dall'ultimo comma dell'art.609 bis cod. pen. quando risulta commesso il reato di violenza sessuale di gruppo, trattandosi di attenuante specifica relativa alla sola violenza sessuale individuale.

Per concludere, non può non darsi conto di Sez. III, 26 settembre 2013, n. 2858, con la quale è stato dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 69 comma 4 cod. pen., nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all'art.609 bis comma 3 stesso codice possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva prevista dall'art. 99 comma 4 cod. pen., con riferimento agli artt.3 e 27 comma 3 della Costituzione.

Il Collegio, in particolare, ha preliminarmente ribadito come la praticabilità di un'opzione ermeneutica nel senso dell'avvenuta reintroduzione legislativa di rigidi meccanismi presuntivi in tema di recidiva sia stata esclusa dalla prevalente giurisprudenza di legittimità fin dalle prime pronunce in argomento, nonché dalle decisioni della Corte costituzionale ed ha evidenziato che il giudice costituzionale, pur non potendo rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, può verificare che la discrezionalità del potere legislativo abbia rispettato il limite della ragionevolezza ed il principio di proporzionalità tra offesa e sanzione.

Per tale ragione il divieto di prevalenza, previsto dall'art. 69, comma quarto, c. p., della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, di cui all'art. 609 bis c. p., sulla recidiva ex art. 99, comma quarto, c. p., potrebbe apparire in contrasto con il principio di uguaglianza, nonché di ragionevolezza e proporzionalità della pena, di cui agli artt. 3 e 27 Costituzione.

Nella ordinanza di rimessione, la Corte sembrerebbe abbracciare, con riferimento ai parametri identificati della attenuante, un approccio parzialmente diverso rispetto ai due orientamenti sopra evidenziati, privilegiando una lettura della norma incentrata sulla ratio della previsione attenuatrice; essa deve essere funzionale a consentire che sia applicata una sanzione proporzionata rispetto ai fatti più lievi; per concederla bisogna fare riferimento alla materialità del fatto e a tutte le modalità che hanno caratterizzato la condotta criminosa, come il grado di coartazione esercitato sulla vittima (che costituiscono gli elementi di cui al n. 1 del comma primo dell'art. 133 c.p.), nonché al danno arrecato alla parte lesa, in considerazione a volte dell'età della stessa, in altre delle condizioni psichiche della persona offesa o ancora alle caratteristiche psicologiche valutate in relazione all'età; andranno, quindi, utilizzati i soli elementi indicati dal comma primo dell'art. 133 cod. pen., senza che vengano in rilievo gli ulteriori elementi di cui al comma secondo dello stesso articolo, la cui utilizzazione viene riferita alla sola commisurazione complessiva della pena.

  • trasporti aerei e spaziali
  • professione sanitaria
  • circolazione stradale
  • delitto contro la persona

CAPITOLO VII

DELITTI CONTRO LA VITA E L'INCOLUMITÀ INDIVIDUALE

Sommario

1 L'esame delle fattispecie colpose. - 2 L'attività medico chirurgica. - 3 Il trasporto aereo. - 4 La circolazione stradale. - 5 Le posizioni di garanzia.

1. L'esame delle fattispecie colpose.

I delitti contro la vita e l'incolumità individuale costituiscono, per il loro rilievo ontologico nonché per la funzione che assolvono, lo specchio più fedele dell'evoluzione - non solo giuridica - di ogni società civile.

Il livello, infatti, di protezione riconosciuto alla vita ed all'incolumità dell'individuo riflette la scala valoriale adottata dalla comunità associata e, al contempo, ne traccia il percorso, proiettando in avanti gli obiettivi da raggiungere.

Nell'esame della giurisprudenza della Corte di Cassazione ad essi relativa per l'anno 2013, è parso opportuno riservare l'attenzione principale alle fattispecie colpose sulle quali si assiste ad una continua evoluzione applicativa e su cui si concentrano oggettivamente le questioni giuridiche più interessanti e significative ed, in questa prospettiva, saranno oggetto di breve trattazione gli arresti concernenti il settore dell'attività medico-chirurgica - in ragione dei molteplici aspetti che vengono in rilievo nella cura della salute della persona nonché della rilevante riforma che lo ha interessato ad opera dell'art. 3 del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, conv. in legge 8 novembre 2012, n. 189 - e poi quello del trasporto aereo e della circolazione stradale.

Non poteva mancare, infine, un cenno ad una tematica che pure da tempo è oggetto di un proficuo dibattito anche dottrinario e che riguarda le cd posizioni di garanzia e cioè quelle situazioni che consentono di ritenere punibili, eventualmente a titolo concorsuale, quei comportamenti di omissione antidoverosa; il tema si interseca necessariamente con quello degli infortuni sul lavoro su cui più di ogni altro la giurisprudenza negli ultimi anni si è esercitata e per tale ragione anche in quella sede sarà oggetto di brevi indicazione.

Per la sua importanza, per la portata delle sue ricadute è opportuno citare già da subito una decisione che si è occupato di un argomento "caldo" anche nei lavori parlamentari, quello della prescrizione dei reati di omicidio colposo; Sez. IV 17 aprile 2013 - dep. 3 giugno 2013, n. 23944, Corrado, Rv 255462, ha, in particolare, affermato che il raddoppio dei termini prescrizionali, previsto dall'art. 157, comma 6 cod. pen., si applica soltanto alle ipotesi di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale o sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro escludendo, quindi, che esso sia applicabile al concorso formale fra omicidi colposi.

A sostegno della conclusione, il giudice di legittimità ha evidenziando che l'ipotesi dell'omicidio plurimo in concorso formale non integra un aggravante del reato di all'art. 589 cod. pen. e non ha, di conseguenza, alcuna autonoma valenza ai fini prescrizionali; diversamente opinando, la più severa disciplina dettata dal sesto comma dell'art. 157 cod. pen. risulterebbe applicabile anche al reato di omicidio colposo non aggravato, ex art. 589 primo comma, con riferimento a quella sola ipotesi in cui il legislatore ha inteso mitigare il trattamento sanzionatorio e comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il soggetto chiamato a rispondere di omicidio non aggravato, che abbia contestualmente provocato la morte di più persone (ovvero lesioni in danno di una o più persone), per il quale opererebbe il raddoppio dei termini, rispetto ad un soggetto che si renda responsabile di più omicidi colposi non aggravati, ma in tempi diversi, per il quale non scatterebbe l'allungamento del termine prescrizionale, pure a fronte della più grave violazione dei beni giuridicamente protetti, determinata dalla reiterazione delle condotte criminose.

2. L'attività medico chirurgica.

Si è già accennato poco sopra come in questo sia intervenuta un'importante modifica legislativa da parte del recente d.l. n. 158 del 2012, sulla cui lettura immediatamente si è dovuta confrontare la giurisprudenza di legittimità atteso che, trattandosi di normativa più favorevole, essa era applicabile anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore.

L'art. 3, in particolare, del decreto legge cita prevede che l'esercente una professione sanitaria, che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida ed a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non possa essere chiamato a rispondere penalmente per colpa lieve.

Si tratta di novità evidentemente di non poco rilievo, atteso che, per un verso, viene introdotta per la prima volta nell'ambito della disciplina penale dell'imputazione soggettiva la distinzione tra colpa lieve e colpa grave e, per altro verso, risultano valorizzate le linee guida e le virtuose pratiche terapeutiche, purché corroborate dal sapere scientifico.

Sull'argomento sono già intervenute due sentenze, quasi coeve, che hanno tracciato la strada della futura elaborazione giurisprudenziale.

La prima è Sez. IV, 29 gennaio 2013 - dep. 9 aprile 2013, n. 16273, Cantore, Rv 255105, con cui la Corte affronta ex professo il tema dell'incidenza della citata nuova legge sui processi in corso, fornendo gli elementi ermeneutici per distinguere la colpa lieve dalla colpa grave e chiarendo, altresì, la funzione assolta dalle linee guida e dai protocolli.

Evidenzia, in particolare, che le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l'esercente le professioni sanitarie ma non danno luogo a norme propriamente cautelari, di talché non configurano ipotesi di colpa specifica, in ragione sia della loro varietà e del loro diverso grado di qualificazione sia per la loro natura di strumenti di indirizzo e di orientamento, privi della prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica.

Le linee guida accreditate, a differenza dei protocolli e delle "cheklist", non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti, che vanno applicati in concreto senza automatismi ma rapportandole alle specificità di ciascun caso clinico; esse operano come direttiva scientifica per l'esercente le professioni sanitarie e la loro osservanza costituisce scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti; tale disciplina trova il suo naturale terreno d'elezione nell'ambito dell'imperizia.

Con riguardo alla distinzione tra colpa lieve e colpa grave, la Corte ha escluso che quest'ultima possa considerarsi un'esimente ovvero una causa di esclusione della colpevolezza ed ha sottolineato che il legislatore non ha definito la "colpa grave" e la "colpa lieve" né ha tratteggiato la linea di confine tra esse, lasciando tale oneroso compito all'interprete.

In questa prospettiva osserva che un primo parametro valutativo attinente al profilo oggettivo della diligenza va individuato nella misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si sarebbe dovuti attenere.

Ad esso si accompagna, poi, una gradualità della colpa sotto il profilo soggettivo, che riguarda l'agente in concreto e che consente di determinare la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell'agente: quanto più risulta inadeguato il comportamento del soggetto all'osservanza della regola e quanto maggiore è fondato l'affidamento dei terzi, tanto maggiore sarà il grado della colpa.

Ulteriori elementi di rilievo sul piano soggettivo sono individuati nella motivazione della condotta nonché nella consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa e, quindi, nella previsione dell'evento.

Occorre, quindi, procedere alla ponderazione comparativa degli indicati fattori, secondo un criterio di equivalenza o di prevalenza non dissimile a quello che viene compiuto in tema di concorso di circostanze; nell'ambito di tale giudizio, ispirato al canone del rimprovero personale, speciale attenzione deve essere posta alla peculiarità del caso concreto, dovendosi considerare i tratti della specifica vicenda, valutando la complessità, l'oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data nonché la situazione fattuale nella quale il terapeuta si è trovato ad operare.

In chiusura del suo ragionamento la Corte ha osservato che la novella legislativa in esame ha determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie e, segnatamente degli artt. 589 e 590 cod. pen.; la restrizione della portata delle incriminazioni de quibus ha avuto luogo attraverso due passaggi: l'individuazione di un'area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida e l'attribuzione di rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell'attuazione in concreto delle direttive scientifiche.

In altri termini, nell'indicata sfera fattuale, la regola d'imputazione soggettiva è ora quella della sola colpa grave mentre la colpa lieve è penalmente irrilevante con conseguente parziale effetto abrogativo ex art. 2 cod. pen.

Sez. IV, 24 gennaio 2013 - dep. 11 marzo 2013, n. 11493, Pagano, Rv 254756, afferma, invece, che la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve, opera soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia, ma non si estende, quindi, agli errori diagnostici connotati da negligenza o imprudenza.

Interessante è anche un passaggio della motivazione con cui si evidenzia che le linee guida, per avere rilevanza nell'accertamento della responsabilità del medico, devono indicare standard diagnostico- terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e non devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese. Se è vero, infatti, che anche le aziende sanitarie devono ispirare il proprio agire anche al contenimento dei costi ed al miglioramento dei conti - a maggior ragione in un contesto di difficoltà economica - è altresì vero che tali scelte non possono in alcun modo interferire con la cura del paziente. Nella pronuncia è chiaramente affermato che l'efficienza del bilancio può e deve essere perseguita sempre garantendo il miglior livello di cura, al fine di assicurare il quale il sanitario ha il dovere di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente.

La giurisprudenza si è occupata anche di altri aspetti connessi alla responsabilità colposa conseguente all'attività medico chirurgica.

Sez. IV, 19 aprile 2013 - dep. 20 giugno 2013, n. 26966, Benincasa, Rv 255463, in particolare, ha affrontato la tematica dell'attività svolta collegialmente con riferimento ad una vicenda con non poche peculiarità.

Ha, nello specifico, affermato che il medico, il quale compie insieme al direttore del reparto attività sanitaria e risulta pienamente al corrente delle condizioni cliniche del paziente, non può pretendere di essere sollevato da responsabilità ove ometta di differenziare la propria posizione, rendendo palesi i motivi che lo inducono a dissentire dalla decisione eventualmente presa dal direttore.

Tenuto, infatti, conto degli interessi primari da salvaguardare e delle qualificate e specifiche competenze professionali dei protagonisti, il medico ha il dovere primario di assicurare, sulla base della miglior scienza di settore, le cure più adeguate al paziente, obbligo al quale non può venir meno a causa di una male interpretato dovere di subordinazione gerarchica.

Dell'argomento analogo della responsabilità a titolo di cooperazione colposa si è fatta carico Sez. IV 24 aprile 2013 - dep. 17 maggio 2013, n. 21220, Cutroneo, Rv 255626, che ha riconosciuto in capo al direttore responsabile di un centro sanitario privato la responsabilità, ex art. 113 cod. pen., per il delitto di lesioni colpose realizzato in danno di un paziente curato esclusivamente da un collaboratore dello studio sfornito di titolo abilitante allo svolgimento dell'attività.

In capo al direttore responsabile del studio medico, per la peculiarità della sua funzione posta a tutela di un bene primario qual è la salute, si è ritenuto esistente'obbligo di verificare non solo i titoli formali dei suoi collaboratori, curando che in relazione ai detti titoli essi svolgano l'attività per cui essi risultano abilitati, ma l'ulteriore concorrente obbligo di accertare in concreto che, al formale possesso delle abilitazioni di legge, corrisponda un accettabile standard di "conoscenze e manualità minimali", conformi alla disciplina e alla scienza medica in concreto praticate.

Da tale affermazione si è fatto derivare che, sussistendo la prova del mancato adempimento dei suddetti obblighi di verifica dei titoli abilitanti, il direttore debba essere chiamato a rispondere non solo del concorso nel reato di cui all'art. 348 cod. pen. ma anche degli illeciti prevedibili secondo l'id quod plerumque accidit e derivati dalla mancata professionalità del collaboratore la cui competenza formale e sostanziale non sia stata convenientemente verificata.

Infine, Sez. IV 21 dicembre 2012 - dep. 29 gennaio 2013, n. 4541, Falasco, Rv 254668, ha trattato del contenuto del dovere di informazione incombente sul sanitario nel campo della chirurgia estetica, cui è finitima quella maxillo-facciale, caratterizzato, in via ordinaria, dall'assenza dell'urgenza e dalla finalità di migliorare l'aspetto fisico del paziente in funzione della sua vita di relazione.

Si è precisato, in particolare, che il sanitario è tenuto ad un dovere particolare di informazione che va oltre la semplice enumerazione e prospettazione dei rischi, delle modalità e delle possibili scelte, giacché la valutazione dei miglioramenti estetici deve estendersi ad un giudizio globale sulla persona come questa risulterà dopo l'intervento e non può, quindi, limitarsi ai soli effetti dati dalla riuscita dell'intervento medesimo.

Pertanto, il consenso informato, anche se corretto e adeguato e corrisposto dalla reale ed integrale comprensione del paziente in ordine alle possibili evoluzioni dell'intervento, non vale ad escludere la responsabilità colposa del medico, che abbia operato negligentemente o imperitamente, per le lesioni gravissime riportate dalla vittima.

Nell'ipotesi scrutinata la Corte ha ritenuto che il sanitario, rilevata l'estrema aleatorietà dell'esito dell'intervento da lui effettuato, non solo avrebbe dovuto sconsigliarlo ma, addirittura, rifiutarsi di eseguirlo, indipendentemente dall'inserimento di tale intervento in un più generale disegno concordato con altri specialisti.

3. Il trasporto aereo.

Il tema della responsabilità colposa per la morte o le lesioni conseguenti all'attività trasporto aereo e, conseguentemente, quello strettamente connesso della cooperazione colposa è stato affrontato da Sez. IV, 19 marzo 2013 - dep. 14 giugno 2013, n. 26239, Gharby, Rv 255696.

Con riguardo alla disciplina dettata dall'art. 113 cod. pen., sono enunciati i seguenti principi: 1) nell'ambito delle attività nelle quali la gestione del rischio è affidata a più soggetti, ancorché in ruoli diversi (gestione collettiva del rischio), perché possa aversi cooperazione colposa è necessario ma anche sufficiente che alla violazione della regola cautelare (che può dar luogo anche a condotta atipica, avendo l'art. 113 cod. pen. funzione incriminatrice) si accompagni la consapevolezza della valenza sinergica del proprio comportamento; 2) in presenza dei due requisiti appena menzionati, si prospetta un'ulteriore regola cautelare di condotta, individuata in un particolare dovere di "interazione prudente", aggiuntiva rispetto alle regole di diligenza che contengono lo svolgimento dell'attività specifica entro i limiti del rischio consentito.

Calando queste indicazione alla tematica specifica, la Corte ha evidenziato che il rango dei beni esposti a pericolo, considerata unitamente alla gravità del danno potenziale, è all'origine di una normativa internazionale ricca di prescrizioni cautelari - tale da fare del trasporto aereo un'attività ipernormata - nella quale tutte le disposizioni sono strumentali al perseguimento dell'obiettivo della massima riduzione del rischio, al cui raggiungimento sono improntate le attività, anche diacroniche, di tutti gli operatori del settore.

Ne consegue, innanzitutto, che ciascun garante è tenuto non solo ad assolvere gli obblighi che direttamente gli incombono ma anche a soddisfare quella pretesa di interazione prudente derivante dalle esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio; ed inoltre che il principio di affidamento sul comportamento osservante degli ulteriori obbligati recede rispetto all'obbligo di tener conto delle condotte altrui.

Per tali motivi si esclude che l'articolazione gerarchica dei diversi ruoli abbia quale effetto la concentrazione degli obblighi in capo alla sola figura apicale, nella specie il comandante del velivolo; nella relazione tra il pilota di comando ed il copilota, e più in generale tra i membri dell'equipaggio, i doveri facenti capi ai subordinati assumono un contenuto aggiuntivo, consistente - in presenza di una ravvisata omissione da parte del superiore gerarchico - nell'obbligo di attivarsi, nei limiti fattuali che caratterizzano la specifica posizione.

4. La circolazione stradale.

Delle questioni connesse alla circolazione stradale in questa sede si farà menzione degli arresti giurisprudenziali che si sono occupati di quei comportamenti di terzi idonei ad escludere la responsabilità colposa dei conducenti ed, in particolare, del principio dell'affidamento e dei possibili profili di responsabilità per comportamento negligente del pedone.

Con riferimento al primo punto, Sez. IV, 11 dicembre 2012 - dep. 29 gennaio 2013, n. 4518, Mannolo, Rv 254664 ha riconosciuto, in premessa, operante anche nell'ambito della circolazione stradale il principio dell'affidamento, rilevando che una soluzione contraria non solo sarebbe irrealistica ma condurrebbe a risultati non conformi al principio di personalità della responsabilità, prescrivendo obblighi talvolta inesigibili.

Nel definire, però, la concreta portata del principio, ha osservato che i contesti fattuali possibili sono assolutamente indeterminati, di talché non è realistico che l'affidamento possa concorrere a definire i modelli di agenti, le sfere di rischio e di responsabilità in modo categoriale, come invece accade nel ben più definito contesto del lavoro in equipe e nell'ambito della sicurezza del lavoro.

La peculiarità della circolazione stradale impone, invece, un'indagine accurata sulla prevedibilità ed evitabilità dell'evento in concreto, secondo una ponderazione non meramente ipotetica o congetturale ma fondata su emergenze concrete e risolutive onde evitare che l'apprezzamento sulla colpa sia affidato all'imponderabile soggettivismo del giudicante.

Con riferimento al secondo, Sez. IV 20 febbraio 2013 - dep. 7 marzo 2013, n. 10635, Calarco, Rv 255288 e Sez. IV 2 luglio 2013 - dep. 31 luglio 2013, n. 33207, Corigliano, Rv 255995 hanno chiarito come in caso di omicidio colposo il conducente del veicolo possa andare esente dalla responsabilità del decesso del pedone quando la condotta di quest'ultimo si configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista e non prevedibile, da sola sufficiente a produrre l'evento.

Al guidatore, secondo il generale principio di cautela che informa la circolazione stradale, spetta, infatti: a) ispezionare la strada lungo la quale si procede o che si sta per impegnare; b) mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizione del traffico e della strada; c) prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada.

Non è, quindi, sufficiente per esonerare dalla responsabilità il conducente l'accertamento di un comportamento colposo da pare del pedone ma occorre altresì che egli, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, si sia trovato nell'oggettiva impossibilità di notare la vittima e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile.

5. Le posizioni di garanzia.

Quanto alle posizioni di garanzia, di seguito si riporta la casistica elaborata nel corso dell'anno dalla giurisprudenza di legittimità che consentirà di individuare ulteriormente quali siano i parametri in presenza dei quali l'omissione diventa punibile ex art. 40, comma secondo, cod. pen.

Sez. IV, 29 gennaio 2013 - dep. 19 febbraio 2013, n. 7967, Fichera, Rv 254431, ritenendo che con riferimento all'attività medico chirurgica, la posizione di garanzia è qualificabile sia in termini di c.d. di protezione - che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrità - si in termini di c.d. di controllo - che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto - l'ha riconosciuta in capo al ginecologo curante una donna, anche se quest'ultima venga ricoverata in casa di cura dove egli non svolge attività, allorquando il medesimo si sia recato in visita presso la struttura sanitaria ed abbia preso diretta cognizione del quadro clinico della gestante.

L'accesso del medico alla clinica e la presa di contatto tra il sanitario e la paziente sono elementi che valgono a qualificare il medico quale garante, rispetto alla integrità della donna partoriente e del nascituro; conseguentemente la sottovalutazione dei dati emergenti dal quadro clinico assume immediata rilevanza rispetto all'inosservanza degli obblighi impeditivi che ex art 40, comma 2, cod. pen. in riferimento all'art. 589 stesso codice.

La posizione di garanzia, infatti, può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, pure non scritta, e addirittura trarre origine da una situazione di fatto, cioè da un atto di volontaria determinazione, che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento.

Sez. IV, 20 dicembre 2012 - dep. 11 marzo 2013, n. 11453, Zambito Marsala, Rv 255423, ha ritenuto la concorrente responsabilità del direttore del cantiere, dell'amministratore delle società appaltatrice dei lavori nonché del Capo dell'ufficio tecnico comunale - quale titolare di una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza delle strade - per il decesso e le lesioni riportate a seguito di un incidente stradale verificatosi lungo una strada interessata da lavori ancora in corso, rilevando che quando l'area di cantiere risulta adibita al traffico e, quindi, utilizzata ai fini della circolazione, la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. sussiste sia a carico dell'appaltatore che dell'ente.

Quest'ultimo risulta investito della posizione di garanzia derivante dalla proprietà della strada e dalla destinazione di essa al pubblico uso (ex art. 14 Cod. strada), che comporta il dovere di far si che quell'uso si svolga senza pericolo per gli utenti; la parallela posizione di garanzia a carico dell'appaltatore è, del pari, riconducibile al codice della strada (art. 21) ed è strumentale a tutelare l'incolumità dei terzi utenti della strada, vittime potenziali delle conseguenze di una situazione di pericolo, non debitamente gestita.

Sez. IV, 10 gennaio 2013 - dep. 24 giugno 2013, n. 27591, Santacroce, Rv 255452, ha riconosciuto la responsabilità del titolare di un'azienda per il decesso di un terzo, rimasto vittima di un incidente all'interno dell'azienda a causa di opere di trasformazione dello stato originario dei luoghi, peraltro realizzate abusivamente.

Al proprietario dell'azienda andava riconosciuto il ruolo di garante ed a lui spettava, indipendentemente dall'abusività dei lavori eseguiti, di fornire precise direttive al personale dipendente affinché fossero adottate tutte le cautele resesi necessarie per effetto delle opere venute in essere, anche al fine di rendere edotti i terzi delle possibili situazioni di rischio.

Sez. IV, 16 maggio 2013 - dep. 21 agosto 2013, n. 35296, Ciaffone, Rv. 256341 ha ritenuto il proprietario di un immobile, adibito ad abitazione, responsabile per omicidio colposo in relazione al decesso dell'inquilino, caduto da un balcone non adeguatamente protetto.

Il proprietario, in particolare, in veste di locatore è tenuto, ex art. 1575 cod. civ., a consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione e, quindi, dovendo adempiere con diligenza la relativa prestazione, deve eseguire, prima della consegna, i necessari accertamenti, la cui omissione è ragione di colpa.

La previsione del codice civile trova la propria ratio nella impossibilità giuridica del conduttore di intervenire su elementi strutturali del bene, con la conseguenza che il soggetto titolare di poteri dispositivi vien ad assumere una posizione di controllo e pertanto di garanzia dalla quale derivano obblighi la cui violazione assume rilievo giuridico fino a renderlo responsabile di un evento letale che non sarebbe avvenuto se il bene fosse stato consegnato in buono stato di manutenzione.

  • stampa
  • diffamazione

CAPITOLO VIII

I REATI CONTRO L'ONORE

Sommario

1 La diffamazione a mezzo stampa. - 2 Il controllo delle fonti. - 3 Il diritto di cronaca. - 4 Il diritto di critica.

1. La diffamazione a mezzo stampa.

Dei numerosi arresti giurisprudenziali che hanno riguardato i reati a tutela dell'onore, si è ritenuto in questa sede di privilegiare quelli che si sono occupati specificamente della fattispecie di diffamazione a mezzo a stampa.

Si tratta di un tema su cui, tranne forse un arresto in materia di scriminante del diritto di cronaca connessa ad un'intervista, non sembrano essere intervenute decisioni particolarmente innovative ma essersi sostanzialmente consolidato un trend che, però, è opportuno riportare quantomeno con riferimento agli aspetti da sempre di maggiore interesse, quali il controllo delle fonti, il diritto di cronaca ed il diritto di critica.

Sulla materia ferve, infatti, soprattutto, in sede parlamentare un serrato dibattito sull'opportunità di modificare la normativa attuale, con l'obiettivo prioritario quantomeno di evitare che i giornalisti possano essere condannati a pene detentive.

Allo stato sembrerebbe che un ddl sia in uno stadio avanzato di discussione e potrebbe anche essere in tempi non lunghissimi approvato; si tratta della proposta del 13 maggio 2013, a firma del deputato Costa dal titolo "Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale e al codice di procedura penale, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante", approvata dalla Camera il 17 ottobre 2013 e trasmessa al Senato il successivo 18 ottobre 2013.

2. Il controllo delle fonti.

Sul tema del controllo delle fonti la posizione da sempre della giurisprudenza è stata nel senso che il diritto di cronaca può consentire di mandare esente da responsabilità un giornalista solo se costui ha svolto un controllo diligente ed approfondito sulle fonti delle da cui provengono le notizie da lui pubblicate.

Il principio è stato ribadito negli arresti intervenuti nell'anno trascorso, che meritano di essere qui menzionati anche per la peculiarità delle vicende sottostanti.

Sez. V, 11 gennaio 2013 - dep. 8 marzo 2013, n. 10964, Allam, Rv. 255434 ha, in particolare, affermato il principio per il quale "l'imputato che invochi il diritto di cronaca ha l'onere di provare la verità della notizia riportata, che non può soddisfare facendo riferimento ad una fonte anonima, confidenziale o non controllabile" ed ha, nell'ipotesi scrutinata, escluso l'applicabilità dell'esimente del diritto di cronaca nei confronti di un giornalista che aveva dichiarato di avere attinto la notizia da fonte dei servizi segreti mentre il funzionario del Sisde, comparso in udienza, aveva opposto il segreto di Stato.

In motivazione, la Corte premette che il segreto di Stato è preordinato a garantire la tutela di interessi squisitamente pubblici, correlati alla sicurezza, indipendenza e prestigio dello Stato, con la conseguenza che se i fatti coperti da detto segreto non sono rivelabili all'autorità giudiziaria non possono essere rivelati neanche al giornalista. A quest'ultimo è di certo consentita, nei confronti del giudice e del P.M., la opposizione del solo segreto professionale, ma "tale opposizione semplicemente lo legittima a non rivelare la fonte della notizia di cui egli sia venuto in possesso, ma non garantisce certamente la rispondenza al vero della notizia stessa"; "se tale fonte è un infedele funzionario dello Stato, il giornalista … può tutelarlo … opponendo il segreto professionale, non di Stato, ma, così facendo, assume il rischio derivante dalla impossibilità di provare la notizia che ha diffuso".

Conclusivamente: "se si fa questione di verità della notizia, l'imputato deve poterla provare, ma il giudice deve poterla controllare". Pertanto, "non è sufficiente la parola del giornalista, né la generica indicazione della fonte" e "se la fonte è un documento, esso deve essere ostensibile, altrimenti il processo risulterebbe del tutto inutile". Quanto all'opposizione del segreto di Stato, " detto segreto e detta opposizione, per essere rilevanti, devono riguardare quella specifica notizia, non genericamente l'identità o, come nel caso in esame, addirittura l'esistenza della fonte".

Sullo stesso argomento si è pronunciata anche Sez. V, 16 gennaio 2013 - dep. 30 ottobre 2013, n. 44243 Mollo, n.m. che ha affermato, in continuità con la consolidata giurisprudenza, il principio per il quale " l'esercizio legittimo del diritto di cronaca e di critica, anche sotto il profilo putativo, non può essere disgiunto dell'uso legittimo delle fonti e l'uso può essere definito legittimo non solo quando la fonte sia lecita, ma anche quando il giornalista abbia offerto la prova del suo impegno nel controllare il fatto narrato; né sussiste l'esimente sotto il profilo putativo, allorché sia addotta l'impossibilità di realizzare questo controllo, a causa dell'inaccessibilità delle fonti di verifica", in quanto detta inaccessibilità "lungi dal comportare l'esonero dall'obbligo di controllo implica la non pubblicabilità della notizia incontrollabile".

Aggiunge la Corte che "il giornalista che intenda comunque pubblicare una notizia non certa, accetta il rischio che essa non corrisponda al vero e che l'antigiuridicità della condotta diffamatoria rimanga senza giustificazione"; "l'interesse pubblico a conoscere ha come esclusiva area operativa quella dei fatti veri" e che "con il narrare e … diffondere fatti non veri, non solo si lede un diritto fondamentale del singolo, ma si lede il diritto della collettività a un'informazione rispondente al vero". Né, al riguardo, può assumere valenza scriminante il ricorso alla forma dubitativa, considerato che "anche espressioni insinuanti od ambigue possono assumere rilievo penale quando per il modo con cui sono poste all'attenzione del lettore, fanno sorgere in quest'ultimo un atteggiarsi della mente favorevole a ritenere l'effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati".

Nella specie la Corte ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto la responsabilità di un giornalista per avere pubblicato un articolo in cui stigmatizzava la nomina della persona offesa a dirigente regionale, affermando, sia pure in forma dubitativa, che non aveva i requisiti, rilevando la falsità della notizia circa il superamento del concorso da dirigente in assenza dei requisiti richiesti.

3. Il diritto di cronaca.

Il tema principe in materia di diffamazione a mezzo stampa è da sempre quello del diritto di cronaca; si tratta di un diritto considerato di diretta derivazione costituzionale e che può rendere legittimo l'attività di pubblicazione anche di notizie che ledono l'onore di un soggetto ma solo a certe condizioni che da anni la giurisprudenza di legittimità ha individuato.

Nel 2013 ci sono state alcuni arresti sul punti di sicuro interesse.

Il primo è Sez. V, 19 febbraio 2013 - dep. 12 aprile 2013, n. 17051, Garau, Rv. 255094 secondo cui il principio per il quale "la scriminante del diritto di cronaca è configurabile anche quando oggetto di pubblicazione siano atti di un procedimento penale ancora coperti da segreto, giacché l'efficacia esimente dell'esercizio del suddetto diritto incontra i soli limiti della verità dei fatti divulgati, della loro rilevanza sociale e della continenza espressiva".

Nella specie un giornalista aveva pubblicato su un quotidiano un articolo nel quale si attribuiva ad un commercialista la qualità di indagato per truffa e falso ideologico in atto pubblico in relazione ad indennizzi indebitamente percepiti da pescatori locali per servitù militari e la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto sussistente la scriminante del diritto di critica, stante l'effettiva esistenza di una notizia di reato nei confronti del predetto commercialista, ancorché non seguita dall'instaurazione di un procedimento ed ancorché la conoscenza di tali atti da parte del giornalista, che non aveva voluto rivelarne la fonte, fosse frutto di violazione del segreto istruttorio.

Il divieto di pubblicazione di atti o notizie di un procedimento penale, quindi, secondo la Corte, non esclude l'operatività del diritto di critica che "garantito costituzionalmente attraverso il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero, incontra il solo limite della verità della notizia, della sua rilevanza sociale e della continenza espressiva", mentre, l'eventuale illiceità della fonte può rilevare sotto altri profili ed "il soggetto leso dalla pubblicazione di un atto processuale coperto dal segreto, può invocare l'esistenza del reato previsto dall'art. 684 cod. pen., ma non può contestare che la diffamazione sia scriminata dall'esercizio del diritto di cronaca, ove effettuato secondo le modalità ricordate".

Sullo stesso argomento a si segnala Sez. V, 4 dicembre 2012 - dep. 5 febbraio 2013, n. 5760, Goisis, Rv. 254970 secondo cui "non sussiste l'esimente del diritto di cronaca, nei confronti del direttore responsabile di un quotidiano nel quale sia pubblicato un articolo non firmato che affermi, contrariamente al vero, che nei confronti di un presidente dei revisori dei conti di una banca, si svolgano indagini per il reato di appropriazione indebita anziché per il delitto di ostacolo alle funzioni di vigilanza, ex art. 2638 cod. civ.", aggiungendo che "non è, infatti, irrilevante per la reputazione di un soggetto l'attribuzione di un fatto illecito diverso da quello su cui effettivamente si indaga".

Nell'ipotesi in esame, la Corte ha annullato la sentenza della Corte di appello che aveva ritenuto irrilevante il fatto che alla persona offesa fossero state addebitate dall'Autorità giudiziaria procedente altre e diverse condotte costituenti reato, ritenendo che, trattandosi di notizia oggettivamente non corrispondente al vero in quanto tale, "la reputazione della persona offesa, con riferimento alla sua condizione soggettiva, che costituisce, pur sempre, il bene giuridico protetto dal reato di diffamazione, [viene]… ugualmente vulnerata dall'attribuzione in capo ad un soggetto che operi nel mondo bancario, del reato di appropriazione indebita piuttosto che dal reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza bancaria".

La decisione certamente più innovativa in materia è, però, costituita da Sez. V, 11 aprile 2013 - dep. 2 luglio 2013, n. 28502, Fregni, Rv. 256935 con cui si è stabilito entro quale limite il giornalista può invocare la scriminante in parola in presenza di un intervista a lui rilasciata.

In passato sull'argomento erano intervenute Sez. Un., 30 maggio 2001 - dep. 16 ottobre 2001, n. 37140, Galiero Rv. 219651 che avevano indicato le coordinate entro le quali un giornalista poteva ritenersi non punibile per le dichiarazioni eventualmente diffamatorie assunte nel corso di un'intervista; in particolare esse avevano ritenuto che "..la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un'intervista, vi riporti, anche se "alla lettera", dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell'altrui reputazione, non è scriminata dall'esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite. Tuttavia, essa è da ritenere penalmente lecita, quando il fatto in sè dell'intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all'informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l'esercizio del diritto di cronaca, l'individuazione dei cui presupposti è riservata alla valutazione del giudice di merito che, se sorretta da adeguata e logica motivazione sfugge al sindacato di legittimità. "

L'interesse pubblico alla conoscenza dell'opinione dell'intervistato, quindi, poteva essere considerato espressione del diritto di cronaca e quindi fungere da scriminante.

Con la sentenza del 2013, la Corte prosegue l'elaborazione nell'elaborazione dei principi espressi dalla Suprema Nomofilachia e fa un'ulteriore passo avanti, riconoscendo un contenuto più ampio alla scriminante, giungendo a ritenere che "in tema di diffamazione a mezzo stampa e con riferimento ad un articolo avente la forma dell'intervista, l'esimente del diritto di cronaca può essere riconosciuta all'intervistatore non solo quando vi è l'interesse pubblico a rendere noto il pensiero dell'intervistato in relazione alla sua notorietà, ma anche quando sia il soggetto offeso dall'intervista a godere di ampia notorietà nel contesto ambientale in cui viene diffusa la notizia"

Nella specie, in particolare, si è ritenuta sussistente la scriminante del diritto di cronaca per un giornalista che aveva intervistato un soggetto che aveva riferito fatti e giudizi oggettivamente offensivi nei confronti di un presidente del comitato locale della croce rossa italiana, connessi alla gestione del medesimo ente.

La motivazione della sentenza esplicita la ragione di questo ulteriore passo in avanti verso un maggiore riconoscimento del diritto di cronaca evidenziando come "non è necessaria la posizione sovraordinata dell'intervistato rispetto a quella della persona offesa, sussistendo l'interesse pubblico all'informazione anche nel caso di posizione paritaria delle parti interessate, con la conseguenza che anche la notorietà della persona offesa, al pari di quella del dichiarante, si pone a fondamento del dirittodovere di informare l'opinione pubblica sul contenuto delle dichiarazioni offensive".

4. Il diritto di critica.

Un'altra delle "scriminanti" spesso invocate dai giornalisti in tema di diffamazione è quella del diritto di critica, ritenuto anch'esso diretta espressione del diritto costituzionale di cui all'art. 21.

Sull'argomento vi sono stati arresti della giurisprudenza che pur sostanzialmente ribadendo principi consolidati, è opportuno qui di seguito segnalare.

In particolare particolarmente interessante, anche per la vicenda sottostante è Sez. V, 5 luglio 2013 - dep. 20 settembre 2013, n. 38971, Ricci, N.M. la quale - premesso che l'esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione delle idee, sancito dall'art. 21 Cost., rende pienamente legittime anche forme di disputa polemica … pure … caratterizzate dall'uso di espressioni di dura disapprovazione o riprovazione e dall'asprezza dei toni usati, purché l'esercizio della critica non trasmodi in attacchi personali … e non sconfini nell'ingiuria, nella contumelia e nella lesione della reputazione dell'avversario in conformità alla consolidata giurisprudenza - afferma che, "in tema di diffamazione, i limiti sostanziali del diritto di critica e di quello di cronaca non sono coincidenti ma risultano, invece, differenziati, essendo i primi meno elevati dei secondi, con la precisazione che quanto più è eminente la posizione o la figura pubblica del soggetto, quanto più socialmente, storicamente o scientificamente rilevante è la materia del contendere, tanto più ampia deve essere la latitudine della critica".

La differenza concerne, pertanto, la valutazione di detti limiti, ovvero, il diritto di critica soggiace "in senso qualitativo" agli stessi limiti del diritto di cronaca, essendo necessario osservare i limiti del pubblico interesse, della verità dei fatti e della continenza delle espressioni adoperate, ma "in senso quantitativo tali limiti debbono essere valutati con maggiore elasticità".

Facendo applicazione di tali principi, la corte ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di appello che aveva assolto l'imputato dal reato di diffamazione, addebitatogli per avere diffuso, a mezzo di agenzie di stampa, un comunicato relativo alla trasmissione 'Striscia la notizia' nel quale si affermava che essa "si dimentica di denunciare i ciarlatani appartenenti alla sua parrocchia, pubblicizzati in ben duecento pagine di teletext di Mediaset", aggiungendo che "non è azzardato affermare che parte dei compensi degli autori e conduttori di 'Striscia la notizia' derivi dai compensi dei sedicenti maghi".

La Corte, in particolare, ha ritenuto logica e coerente, in punto di conformità al vero degli assunti diffamatori, la motivazione del giudice di merito - fondata sull'asserzione dello stesso imputato che aveva affermato "di avere controllato che, sino al momento del fatto, non risultavano effettuati da 'Striscia la notizia' analoghi servizi sul tema d'interesse" - nonché sul mancato superamento dei limiti della continenza, "posto che la correlazione tra le inserzioni pubblicitarie e i compendi degli autori della trasmissione non appare un attacco ad hominem, bensì espressione di … critica legittima anche se espressa in forme alquanto aspre, circa la scelta della diffusione di trasmissioni poste in essere dalla parte offesa".

A conclusioni non del tutto dissimili giunge anche Sez. I, 27 settembre 2013 - dep. 3 ottobre 2013, n. 40930, Graziadei NM, che ribadisce, in materia di diffamazione, il principio per il quale "la critica che si manifesti attraverso la esposizione di una personale interpretazione ha valore di esimente, nella ricorrenza degli altri requisiti, senza che possa pretendersi la verità oggettiva di quanto sostenuto, ma da tale requisito non può prescindersi, viceversa, quando - come nel caso di specie - un fatto obiettivo sia posto a fondamento della elaborazione critica". Nella specie, si è censurata la decisione di non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato, pronunciata dal Gup nei confronti di un giornalista che, in un articolo pubblicato su un quotidiano, aveva affermato che "il TG1 per supportare le balle del Banana al TG4 sulle intercettazioni ha sparato cifre a casaccio spacciandole per dati ufficiali del Ministero della Giustizia".

In qualche modo pure connessa al diritto di critica è Sez. V, 6 novembre 2012 - dep. 6 marzo 2013, n. 10393, Di Palo, Rv 255181, la quale ha ritenuto avere "contenuto diffamatorio l'attribuzione ad un soggetto della capacità di avere malefica influenza sulle vicende altrui, in quanto lesiva della reputazione dello stesso".

Nella specie un giornalista concessionario di un impianto di radiodiffusione e conduttore dell'emittente radiofonica, nel corso di una serie di trasmissioni aveva attribuito alla persona offesa la qualità di menagramo, soggetto del malaugurio o iettatore.

La Corte ha ritenuto che l'affermazione giornalistica fosse offensiva perché incideva sulla reputazione del soggetto indicato come iettatore; quest'ultimo, infatti, deve essere fatto rientrare tra quegli "appellativi screditanti, forieri di sospetto, di svilimento, di isolamento che, per quanto irrazionali, sono idonei a cagionare danni patrimoniali (per difficoltà nell'instaurazione e mantenimento dei rapporti di lavoro) e non patrimoniali (per rottura o incrinatura delle molteplici relazioni sociali)".

  • furto

CAPITOLO IX

I REATI CONTRO IL PATRIMONIO

Sommario

1 La lettura in termini di concreta offensività della fattispecie di furto. - 2 L'aggravante del mezzo fraudolento nel furto e la titolarità del diritto di querela. - 3 Furto tentato ed attenuante della speciale tenuità.

1. La lettura in termini di concreta offensività della fattispecie di furto.

Nel corso del 2013 sono intervenuti due importanti arresti delle Sezioni unite, entrambi sul delitto di furto e su aspetti che solo in apparenza possono essere considerati di minore rilevanza.

Un primo ha riguardato la configurabilità dell'aggravante del mezzo fraudolento nel furto di merce esposta in esercizi di vendita cd self service e della tematica, strettamente connessa, di chi - nei casi di procedibilità a querela di tali furti - dovesse essere considerato legittimato a proporre l'istanza di punizione.

Un secondo l'applicabilità dell'attenuante del danno lieve anche nei confronti delle fattispecie tentate.

Il fil rouge che unisce le due decisioni è chiaramente individuabile nel tentativo di fornire una lettura della disposizione incriminatrice in termini di concreta offensività, tenendo conto, altresì, della nuova la scala dei valori, diretta derivazione della Carta costituzionale.

Anticipando in questa sede quelle che sono state le conclusioni raggiunte - nel primo caso l'aggravante del mezzo fraudolento è stata considerata configurabile solo laddove l'agente abbia posto in essere una condotta particolarmente insidiosa, con la conseguenza che gran parte dei furti nei supermercati viene ascritta all'ipotesi del furto "semplice, procedibile a querela; nel secondo caso optando per la possibilità di applicare l'attenuante speciale anche al tentativo - la Corte ha scelto la strada di ancorare sia la punibilità sia la determinazione concreta della pena a quelli che sono davvero i danni al bene/valore patrimonio.

Così, soprattutto, con riferimento alla prima delle due questioni, la scelta di dare una lettura restrittiva di quelli che sono gli elementi costitutivi dell'aggravante di cui al n. 2 dell'art. 625 c.p. ed il conseguente riconoscimento del diritto di querela al titolare del singolo punto vendita consentono oggi di evitare che vangano attivati procedimenti penali per fatti di minore e/o scarsa offensività sul piano economico, favorendo, implicitamente, meccanismi alternativi di tipo restitutorio o risarcitorio in luogo della celebrazione del processo penale.

2. L'aggravante del mezzo fraudolento nel furto e la titolarità del diritto di querela.

La questione affrontata dalle Sezioni unite riguarda sia la configurabilità dell'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento, di cui all'art. 625, comma 1, n. 2), cod. pen., con particolare riferimento all'ipotesi in cui sia stata occultata in una borsa dell'imputato, o, eventualmente, sulla sua persona, merce prelevata dallo scaffale di un supermercato sia l'individuazione di chi debba essere considerato persona offesa del reato, ai fini della legittimazione alla proposizione della querela.

Nell'ordinanza di rimessione della IV sezione della Corte era stato evidenziato come su entrambi gli aspetti vi fossero posizioni divaricate nella giurisprudenza di legittimità, soprattutto con riferimento alla tematica dell'aggravante del mezzo fraudolento.

In estrema sintesi, vi erano, con riferimento a quest'ultima situazione, arresti che avevano sostanzialmente ritenuto configurabile l'aggravante in presenza di qualunque attività di occultamento del bene prelevato (quindi, anche, riponendolo soltanto in una borsa) ed altre che, invece, avevano considerato indispensabile la predisposizione di mezzi caratterizzati da particolare astuzia e scaltrezza.

Sulla questione della procedibilità, invece, si contrapponeva la tesi secondo cui la querela poteva essere presentata anche dal direttore o persino da un preposto del centro commerciale a cui era stata sottratta la merce a quella secondo cui l'unico legittimato era il legale rappresentante dell'ente proprietario del centro.

Con riferimento alla prima questione sottoposta al suo esame Sez. Un. 18 luglio 2013 - dep. 30 settembre 2013, n. 40354, Sciuscio, Rv. 255974, la Corte ha affermato il principio di diritto così massimato: "Nel reato di furto, l'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento delinea una condotta, posta in essere nel corso dell'azione delittuosa dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza, idonea, quindi, a sorprendere la contraria volontà del detentore e a vanificare le misure che questi ha apprestato a difesa dei beni di cui ha la disponibilità. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la configurabilità dell'aggravante nel caso di occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita "self-service")".

A questa conclusione è giunta dopo avere rimarcato come, dal punto di vista semantico, l'espressione "mezzo fraudolento" si prestasse, per sua vaghezza, ad interpretazioni oggettivamente diverse e come, invece, dovesse considerarsi necessaria una lettura rispettosa del principio di necessaria offensività, principio, quest'ultimo, ritenuto di diretta derivazione dalle norme costituzionali, soprattutto di cui agli art. 25 e 27.

In questa prospettiva, il legislatore è vincolato ad elevare a fattispecie delittuosa solo i fatti che siano concretamente offensivi di entità reali e l'interprete a preferire una lettura della disposizione incriminatrice - quest'ultima espressione riferendosi evidentemente ad ogni aspetto di essa comprese le aggravanti - che ne assicuri il rispetto del principio di derivazione costituzionale.

Riportando quest'affermazione generale al caso concreto ed in particolare al modo di intendere il concetto di frode che integra l'aggravante di cui all'art. 625, n. 2 cod. pen. diventa necessario punire quelle condotte che concretino l'aggressione del bene con marcata efficienza offensiva, proporzionata, cioè, allo speciale rigore sanzionatorio.

La frode, quindi, non può e non deve consistere in un qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento che non giustificherebbe l'inasprimento sanzionatorio previsto dalla fattispecie incriminatrice, ma deve richiedere un quid pluris, che, tenuto conto della parola utilizzata, non può che consistere in "un'astuta, ingegnosa e magari sofisticata predisposizione".

Ne deriva, di conseguenza,che il mero nascondimento nelle tasche, in borsa, sulla persona, di merce prelevata dai banchi di vendita costituisce un mero accorgimento, "banale ed ordinario in tale genere di illeciti", privo dei connotati di studiata, rimarchevole efficienza aggressiva che caratterizza l'aggravante.

Diversamente, nei casi proposti dalla prassi, è possibile individuare condotte che presentano i tratti di scaltrezza ed ingegnosità che connotano e delimitano la fattispecie. Per sottrarre l'argomentazione all'astrattezza la Corte si riferisce, allora esemplificativamente ai casi del doppio fondo o della panciera per occultare abilmente la merce, o di accorgimenti per schermare le placche antitaccheggio come utilizzazione di stratagemmi idonei ad integrare l'aggravante in questione.

Anche con riferimento alla questione della titolarità della querela, la lettura proposta dalle Sezioni unite impone di individuare con precisione quale sia il bene giuridico, che anche alla luce dell'evoluzione dei valori, sia tutelato dalla norma di parte speciale di cui all'art. 624 cod. pen..

Sul punto il principio di diritto espresso da Sez. Un. 18 luglio 2013 - dep. 30 settembre 2013, n. 40354, Sciuscio, Rv. 255975 è stato così sintetizzato dall'Ufficio: "Il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento, ma anche nel possesso - inteso come relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità - che si configura anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si costituisce in modo clandestino o illecito, con la conseguenza che anche al titolare di tale posizione di fatto spetta la qualifica di persona offesa e, di conseguenza, la legittimazione a proporre querela. (In applicazione del principio, la Corte ha riconosciuto al responsabile di un supermercato la legittimazione a proporre querela)".

Il ragionamento della Corte parte dall'individuazione dell'elemento caratterizzante la fattispecie di furto; la spoliazione, sebbene non esprima il momento consumativo, che si compie con l'acquisizione di un autonomo possesso al di fuori della sfera di vigilanza della vittima, tratteggia il momento aggressivo, il culmine della trasgressione e del perturbamento socialmente e giuridicamente rilevante: esprime, cioè, l'archetipo della condotta di fattispecie.

In tale ottica, l'utilizzazione nel significato civilistico dei termini "detenzione" e "possesso" implicherebbe rilevanti vuoti di tutela e difficoltà nella definizione della linea di confine tra i diversi reati e particolarmente tra furto ed appropriazione indebita.

Tali termini vanno dunque modellati sulle esigenze dogmatiche del diritto penale; l'istanza di autonomia, unita all'indicata individuazione del nucleo aggressivo della fattispecie nella sottrazione al detentore, accredita il diffuso, condiviso indirizzo teorico che coglie l'interesse protetto in una qualificata relazione di fatto con il bene e, conseguentemente, designa come soggetto passivo del reato la persona che tale relazione intrattiene.

La relazione di fatto, quindi, tra l'uomo ed il bene è il valore che il reato aggredisce e la legge penale sanziona.

Questa soluzione interpretativa consente di definire con sufficiente chiarezza la linea di confine tra furto ed appropriazione indebita; la detenzione qualificata non rende ipotizzabile la sottrazione da parte dello stesso detentore che, invece, ben può rendersi protagonista di atti di appropriazione indebita.

L'indicata interpretazione della fattispecie attribuisce rilievo anche alla relazione possessoria non sorretta da base giuridica, clandestina o addirittura illecita, con la conseguenza che costituisce furto pure la sottrazione della refurtiva al ladro.

Tale soluzione trova tradizionale e razionale giustificazione nella considerazione che la spoliazione in danno del ladro, riguardata nell'ottica pubblicistica del diritto penale, non rende meno aggressiva e biasimevole la condotta e giustifica la reazione punitiva.

Per quel che qui maggiormente interessa, la qualificata relazione di fatto di cui si parla può assumere, secondo la Corte, diverse sfumature, che comprendono senz'altro il potere di custodire, gestire ed alienare il bene.

Essa, dunque, si attaglia senz'altro alla figura del responsabile dell'esercizio commerciale che, conseguentemente, vede vulnerati i propri poteri sul bene; ed è perciò persona offesa, legittimata alla proposizione della querela.

3. Furto tentato ed attenuante della speciale tenuità.

Le Sezioni unite hanno risolto il risalente contrasto di giurisprudenza sul tema della compatibilità del delitto tentato nei reati contro il patrimonio e la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità, accogliendo la soluzione favorevole all'applicazione di quest'ultima.

In particolare, Sez. Un. 28 marzo 2013 - dep. 28 giugno 2013, n. 28243, Zonni, Rv. 255528, hanno affermato che "Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità, di cui al n. 4 dell'art. 62 cod. pen, può applicarsi anche al delitto tentato, sempre che la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile con certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio ipotetico che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe stato causato alla persona offesa, se il delitto di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima" e, di conseguenza, hanno annullato la sentenza di merito che aveva escluso in radice la compatibilità dell'attenuante con un tentato furto avente ad oggetto le monete custodite nel cassetto di un distributore automatico di bevande.

In motivazione, la Corte ha, in premessa, ricordato come sin dall'entrata in vigore del codice penale sia la giurisprudenza che la dottrina si erano mostrate divise sulla questione ed ha rilevato come il problema della compatibilità tra il tentativo e le circostanze, in astratto, si pone tanto con riferimento a circostanze che si sarebbero realizzate se il reato fosse giunto a consumazione (è l'ipotesi del "delitto circostanziato tentato"), quanto con riferimento a circostanze che si sono compiutamente realizzate anche se il reato non è giunto a consumazione (è l'ipotesi del "delitto tentato circostanziato"), e che, però, lo stesso, in concreto, data l'ontologica verificazione delle circostanze nella seconda ipotesi, non può che essere circoscritto alla prima tipologia di vicende.

Ha, quindi, evidenziato che "la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possano essere presenti nel momento ideativo e volitivo del delitto, come modalità e/o finalità dell'azione che si intende compiere", e, quindi, possono contribuire "a caratterizzare il proposito criminoso", aggiungendo che le stesse circostanze, per assumere rilevanza, debbono manifestarsi attraverso "condotte significative, cui sia collegata una apprezzabile probabilità di successo (appunto: atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto)".

Da questa conclusione ha tratto un primo punto fermo: "il problema… si risolve, da un lato, nel vagliare la compatibilità logica e giuridica della circostanza (di quella circostanza) con il tentativo di delitto, dall'altro, in una mera questione di prova, vale a dire nella valutazione della compatibilità in concreto" e che "la soluzione, dunque, non può essere ricercata in linea meramente astratta e non può essere univoca", ma "dipende, da un lato, dalla tipologia della particolare aggravante in questione, dall'altro, dallo sviluppo dell'azione posta in essere dall'agente". Del resto - ha precisato - "non vi è ragione di non ammettere, in linea generale e salva, come si è detto, la verifica di compatibilità logico-giuridica, un doppio <meccanismo combinatorio> che veda agire sulla norma incriminatrice tanto l'art. 56, quanto gli artt. 61 e/o 62 cod. pen."; né questa conclusione è messa in forse dal fatto che le circostanze hanno rilievo solo in campo sanzionatorio: le stesse hanno ad oggetto una condotta che se talvolta, appunto, configura una circostanza, altre volte dà luogo ad una ipotesi autonoma di reato, oppure ad un elemento costitutivo di altri reati.

La tesi della compatibilità, del resto, non trova ostacolo neppure nel fatto che l'art. 59, terzo comma, cod. pen. esclude la rilevanza delle circostanze erroneamente ritenute sussistenti, perché, nel caso di delitto circostanziato tentato, "la circostanza non è supposta, ma voluta e […] riconoscibile sulla base di quel frammento di condotta effettivamente posto in essere" e neppure può negarsi la possibilità di verificare il collegamento di derivazione tra circostanza e condotta, poiché lo stesso è riscontrabile attraverso "una valutazione ipotetica", simile a quelle in materia di reato omissivo o, appunto, di delitto tentato.

L'applicabilità della circostanza attenuante prevista dall'art. 62, n. 4, cod. pen. in relazione al tentativo risponde, altresì, al principio costituzionale di eguaglianza, in quanto assicura una ponderazione della gravità dell'illecito proporzionata alla configurazione che il fatto e l'offesa avrebbero assunto nel caso in cui il delitto fosse stato portato a compimento, ed è coerente con la soluzione favorevole, costantemente accolta dalla giurisprudenza di legittimità, in ordine alla compatibilità dell'aggravante del danno patrimoniale gravità con il tentativo.

Sotto altro profilo l'esposta conclusione riceve "conferma testuale dalle modifiche (recenti e meno recenti) introdotte dal legislatore nel codice penale di rito ed in quello sostanziale"; innanzitutto, dalla disposizione dell'art. 380 cod. proc. pen., nel testo vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla 1. n. 94 del 2009, n. 94, la quale, secondo una "lettura coordinata dei vari commi", quantomeno ai fini dell'arresto obbligatorio in flagranza, impone di valutare anche la circostanza di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen. "sia con riferimento ai delitti consumati, sia ai delitti tentati"; poi dall'art. 2 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, che ha ampliato il testo originario dell'art. 62, n. 4, cod. pen., prefigurandone l'estensione anche ai delitti determinati da motivi di lucro, ed anche quando l'agente risulti "aver agito per conseguire […] un lucro di speciale tenuità", riferendosi, in tal modo, anche al tentativo dei medesimi delitti e ciò in quanto una differenziazione tra i delitti determinati da motivi di lucro e i delitti contro il patrimonio non solo sarebbe illogica, in quanto i secondi sono anch'essi generalmente ispirati da motivi di lucro, ma "introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento", produttiva di "conseguenze davvero paradossali, sia sul versante sostanziale, che su quello processuale".

L'inapplicabilità dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 4 cod. pen. al tentativo potrebbe, infine, determinare conseguenze paradossali; in particolare, un trattamento sanzionatorio più rigoroso del delitto tentato rispetto a quello consumato; l'esclusione dell'applicabilità delle misure clemenziali (l'art. 4 del d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, ad esempio, prevedeva l'applicabilità dell'amnistia anche per il furto pluriaggravato se attenuato dalla circostanza attenuante del danno di speciale tenuità); la previsione dell'arresto obbligatorio in flagranza per il tentato furto pur se il danno prevedibile fosse di speciale tenuità, e non anche, invece, per il furto consumato avente il medesimo oggetto.

PARTE SECONDA LE DECISIONI IN MATERIA PROCESSUALE

Sommario

0 Premessa

0. Premessa

Il maggior numero dei provvedimenti emessi dalla Corte di cassazione attiene a questioni processuali, conseguenza questa non solo della complessità e farraginosità delle procedure, che alimentano il contenzioso, ma anche della mancanza di meccanismi in grado di operare un'efficace selezione dei ricorsi che meriterebbero l'attenzione del giudice di legittimità.

Dinanzi a un numero davvero elevato di decisioni che hanno interessato pressoché tutti gli istituti del processo, la scelta su cosa inserire nella Rassegna si è ispirata ai criteri della novità e della rilevanza delle questioni trattate, ad eccezione delle sentenze delle Sezioni unite che sono state tutte oggetto di esame.

Nella parte dedicata ai soggetti del processo si segnalano una serie di decisioni che hanno affrontato un tema classico, come la riqualificazione giuridica del fatto, da un diverso angolo visuale, tenendo conto della giurisprudenza della Corte EDU e, in particolare, della sentenza Drassich c. Italia del 2007 che, come è noto, ha indicato prospettive innovative in ordine alla prevedibilità della riqualificazione e alla tutela del diritto di difesa.

Di particolare rilievo appaiono poi i filoni giurisprudenziali che si stanno confrontando sul delicato tema dell'astensione degli avvocati dalle udienze, anche in relazione alla natura ed alla portata applicativa del codice di autoregolamentazione adottato dagli organismi di categoria il 4 aprile 2007 in attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali: basti qui accennare al fatto che la questione è stata di recente rimessa alle Sezioni unite, che pure si erano incidentalmente pronunciate al riguardo nel maggio 2013.

Il tema della motivazione è trattato in maniera trasversale, verificando il tipo di controllo che il giudice di legittimità esercita sui diversi provvedimenti, siano decreti di sequestro, ordinanze cautelari ovvero sentenze ed è con riferimento a quest'ultima categoria di atti che la Corte di cassazione oggi impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità.

Nel capitolo dedicato alle prove, si è ritenuto di soffermare l'attenzione, anzitutto, su un aspetto che da sempre assume un centrale rilievo nella dinamica processuale, quale quello della chiamata in correità, oggetto di importanti decisioni anche delle Sezioni unite. Si è poi analizzata l'elaborazione giurisprudenziale su un particolare aspetto della patologia processuale, non privo di implicazioni anche di rilievo costituzionale: la distruzione del materiale probatorio illegalmente formato o comunque inutilizzabile.

Grande attenzione è stata prestata al tema delle cautele nel processo. Per quanto riguarda le misure cautelari personali occorre sottolineare una tendenza che non traspare direttamente dalla Rassegna e che attiene ad una accresciuta sensibilità dei giudici di legittimità nel controllo delle esigenze cautelari, da porre in relazione anche con gli interventi della Corte costituzionale che hanno eliminato una serie di automatismi presuntivi in materia di libertà personale.

Anche sul fronte delle misure cautelari reali si registrano, seppure allo stato nascente, alcuni nuovi indirizzi interpretativi che esigono maggiori garanzie nei presupposti applicativi dei sequestri; sotto altro profilo deve accennarsi al rilievo che oggi ha l'utilizzo del sequestro in materia tributaria, consentendo l'apprensione in via preventiva, in vista della futura confisca, dell'importo corrispondente all'imposta evasa.

Oltre ad un analizzare alcune interessanti pronunce in tema di archiviazione e ad offrire uno sguardo sulle soluzioni offerte dalla giurisprudenza in relazione a svariate questioni concernenti i procedimenti speciali (presupposti applicativi, poteri del giudice, criticità connesse al passaggio da un rito all'altro), la Rassegna si è soffermata sul tema delle impugnazioni, occupandosi di alcuni interventi delle Sezioni unite (tra l'altro, sul delicato tema del divieto di "reformatio in peius") e prendendo in esame una questione "classica", quale quella del "ne bis in idem", oggetto di contrasti giurisprudenziali quanto alla rilevabilità nel giudizio di cassazione.

Infine, nel capitolo finale dedicato alle problematiche connesse all'estradizione ed al m.a.e., si è dato conto - oltre che del contrasto sull'individuazione dell'autorità competente ad emettere il m.a.e., di recente risolto dalle Sezioni unite - di alcune pronunce su argomenti vari, apparse interessanti per l'oggettiva rilevanza delle tematiche trattate (basti qui accennare alle garanzie da assicurare alla prole della persona estradanda ed ai limiti all'estradizione in caso di condanna fondata su dichiarazioni predibattimentali).

Dall'esame della giurisprudenza, che si confronta con un complesso normativo processuale sempre più disgregato, emerge comunque una costante attenzione del giudice di legittimità al punto di vista espresso dalle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, in uno sforzo interpretativo di sintesi volto ad assicurare la tutela dei diritti fondamentali senza rinunciare al perseguimento dell'obiettivo dell'efficienza nel processo.

  • pubblico ministero
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO I

IL GIUDICE

Sommario

1 Questioni controverse in tema di competenza: la connessione come criterio originario e autonomo di attribuzione della competenza. - 1.1 La competenza per connessione e identità soggettiva degli autori dei reati. - 1.2 I "casi analoghi" di conflitto di competenza tra giudice e pubblico ministero: l'intervento delle Sezioni unite in tema di liquidazione dei compensi al consulente tecnico. - 1.3 Il problema della competenza ai fini dell'emissione del m.a.e. (rinvio). - 2 La qualificazione giuridica del fatto. - 2.1 Gli effetti delle decisioni della Corte EDU nella recente giurisprudenza sulla qualificazione giuridica del fatto. - 2.2 Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto nell'udienza preliminare. - 2.3 Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto all'esito del giudizio di primo grado. - 2.4 Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto all'esito del giudizio di appello. - 2.5 La qualificazione giuridica del fatto nel giudizio di legittimità. - 2.6 Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto nel giudizio cautelare e nel procedimento di prevenzione. - 2.7 La validità della contestazione "in fatto".

1. Questioni controverse in tema di competenza: la connessione come criterio originario e autonomo di attribuzione della competenza.

Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi su un tema particolarmente delicato, molto dibattuto anche in dottrina, relativo all'ambito della competenza per territorio derivante da connessione, con particolare riguardo alla questione se, in tal caso, lo spostamento derivante da connessione operi soltanto per i procedimenti che pendano nello stesso stato e grado.

In particolare, un primo orientamento riteneva che la connessione, pur costituendo un criterio originale ed autonomo di attribuzione della competenza, potesse operare solo a condizione che i procedimenti si trovassero nella medesima fase processuale.

A fondamento di tale orientamento vi erano soprattutto due assunti.

Si riteneva, sotto un primo profilo, che il principio, affermato sotto il vigore del codice di procedura penale del 1930, secondo il quale le norme sulla competenza per connessione sarebbero operanti soltanto tra procedimenti pendenti nella medesima fase processuale, sarebbe stato valido anche con riferimento alla normativa dettata dagli artt. 12 e segg. cod. proc. pen.

Sotto altro profilo, si evidenziava che, in base al principio della "perpetuatio jurisdictionis", lo spostamento della competenza territoriale per connessione non potesse operare quando il procedimento esercitante la "vis attractiva" fosse stato nella fase delle indagini preliminari mentre per l'altro fosse già avvenuta la devoluzione alla fase del giudizio, atteso che, diversamente, per il procedimento attratto si sarebbe determinata una inammissibile regressione alla fase predibattimentale (ex art. 23 c.p.p., come integrato dalla sentenza della Corte cost. n. 70 del 1996), e ciò in dipendenza da una diversa e ulteriore imputazione non ancora filtrata attraverso il vaglio giurisdizionale, e, quindi, non ancora definita ne' sotto l'aspetto del fatto, ne' sotto quello della sua qualificazione giuridica (cfr. Sez. I, 14 maggio 1998-dep. 6 giugno1998, n. 2739, Campigli, Rv. 210722).

Secondo altro orientamento la connessione tra reati avrebbe operato indipendentemente dalla pendenza dei relativi procedimenti nello stesso stato e grado, atteso che il vincolo tra reati, individuato dalla legge, avrebbe costituito un criterio originario ed autonomo di attribuzione di competenza.

In tale contesto le Sez. Un. 28 febbraio 2013-dep. 21 giugno 2013, n. 27343, Taricco, Rv. 255345, recependo il secondo degli orientamenti richiamati, hanno affermato il principio secondo cui le regole sulla competenza per connessione non sono subordinate alla pendenza dei procedimenti nello stesso stato e grado, essendo anche quello basato sulla connessione un criterio originario e autonomo di attribuzione della competenza.

Si è evidenziato come, diversamente dall'attuale sistema, sotto la vigenza del codice Rocco, l'art. 47 facesse riferimento agli "effetti della connessione sulla competenza", e come fosse consolidata la consapevolezza che "la competenza per connessione in realtà non fosse che una modificazione della competenza per materia e per territorio" e che si trattasse di uno strumento finalizzato a consentire la trattazione contemporanea dei processi connessi ad opera di un unico organo; proprio tale dato di presupposizione induceva a ritenere che la pendenza di più procedimenti nella stessa fase fosse una condizione necessaria per giungere al simultaneus processus attraverso la loro unificazione, e che, quindi, la connessione incidesse solo sulla opportunità di riunire o meno i sperati procedimenti.

Secondo le Sezioni Unite, invece, il codice vigente, intendendo escludere ogni discrezionalità nella individuazione del giudice competente, configura la connessione, al pari della competenza per materia e per territorio, come criterio originario di attribuzione della competenza, e non come criterio di modificazione della stessa.

Ne discende, per la sentenza in esame, che, mentre la connessione "è strumento attributivo in via originaria della competenza, operante nelle ipotesi tassativamente descritte dall'art. 12 cod. proc. pen.", "l'istituto della riunione, previsto nei casi indicati dall'art. 17 cod. proc. pen. (tra cui rientrano le ipotesi di connessione, nonché quelle dei reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre e del collegamento probatorio tra i vari reati), è invece destinato ad operare solo quando i processi sono già pendenti davanti allo stesso giudice, essendo criterio di mera organizzazione del lavoro giudiziario, subordinato alla condizione che la celebrazione cumulativa dei processi non ne pregiudichi la rapida definizione".

Da tale presupposto le Sezioni Unite fanno derivare il corollario per cui mentre la riunione, rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, attiene alla distribuzione interna dei processi ed all'economia dei giudizi (Sez. V, 9 giugno 2005 - dep. 14 luglio 2005, n. 26064, Colonna, Rv. 231915), può avere ad oggetto solo i processi e non anche i procedimenti (Sez. VI, 4 agosto 1992-dep. 28 agosto 1992, n. 3011, Viola, Rv. 191953), presuppone che i processi siano pendenti nello stesso stato e grado dinanzi al medesimo giudice e che non pregiudichi le esigenze di celerità nella definizione dei giudizi, la connessione, invece, attiene ai procedimenti e opera su un piano nettamente distinto, cioè, appunto, come criterio originario ed autonomo di determinazione del giudice competente e non come ipotesi di deroga ai generali criteri della competenza per territorio e per materia, mancando, peraltro, nell'art. 16 cod. proc. pen. qualsiasi riferimento alla necessità della pendenza dei procedimenti nello stesso stato e grado ed essendo stata tale omissione, come si desume dalla Relazione al codice, voluta dal legislatore.

Concludono le Sezioni unite affermando che, se è vero che i criteri di attribuzione della competenza riguardano sia la fase delle indagini che quella del giudizio, è pure vero che la competenza diviene definitiva soltanto con la fase del giudizio (sul punto, Sez. V, 29 settembre 2004 - dep. 24 novembre 2004, n. 45418, Iussu, Rv. 230413); da tale assunto consegue, secondo la sentenza, che, nel caso in cui prima della chiusura delle indagini preliminari sopravvenga una pronuncia di archiviazione relativamente ad alcuno dei fatti tra loro connessi, non sarebbe invocabile il principio della perpetuatio iurisdictionis per sostenere, anche con riguardo agli altri fatti, il permanere della competenza del giudice inizialmente individuato sulla base della connessione (in tal senso, v. anche, Sez. V, 12 febbraio 1999 - dep. 22 marzo 1999, n. 736, Rubino, Rv. 212879; Sez. I, 17 novembre 1997 - dep. 2 dicembre 1997, n. 6442, Caligini, Rv. 208946; Sez. I, 12 maggio 1997 - dep. 6 giugno 1997, n. 3308, Olivieri, Rv. 207757). Non diversamente, alle stesse conclusioni, deve pervenirsi nella ipotesi in cui il procedimento per il reato più grave, che esercita la vis attractiva, sia stato definito con sentenza passata in cosa giudicata (Sez. I, n. 12 giugno 1997 - dep. 16 luglio 1997, n. 4125, Di Biase, Rv. 208399).

Al di fuori di tali ipotesi, tuttavia, proprio in quanto criterio originario di attribuzione, il giudice individuato in ossequio alla connessione dei procedimenti è indifferente rispetto agli epiloghi processuali delle singole regiudicande in qualunque stato del processo, dovendo in siffatte situazioni essere rispettato il principio della perpetuatio iurisdictionis (Sez. VI, 12 dicembre 1996 - dep. 6 febbraio 1997, n. 1131, Cama, Rv. 206901; Sez. I, 8 luglio 1992 - dep. 12 settembre 1992, n. 3312, Maltese, Rv. 191755).

1.1. La competenza per connessione e identità soggettiva degli autori dei reati.

Sempre in tema di connessione si segnala Sez. I, 9 gennaio 2013 - dep. 21 febbraio 2013, n. 8526, Confl. Comp. in proc. Baruffo e altri, Rv. 254924, che è tornata a pronunciarsi sul tema delle condizioni cui è subordinata l'operatività della connessione c.d. oggettiva, ai sensi dell'art. 12 lett. b), cod. proc. pen., ribadendo il principio secondo cui essa è idonea a determinare lo spostamento della competenza soltanto quando l'identità del disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi; diversamente il vincolo della continuazione produce i suoi effetti solo sul piano sostanziale, ai fini della determinazione della pena ex art. 671 cod. proc. pen., atteso che l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria dei fatti in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale (in senso analogo, tra le altre, v. Sez. I, 20 dicembre 2012 - dep. 5 febbraio 2013, n. 5725, Settepani, Rv. 254808).

Il tema è collegato a quello dei limiti di operatività della connessione nel caso di reati avvinti ai sensi dell'art. 12 lett. c) c.p.p. che, diversamente da quanto previsto dalla lett. b) dello stesso articolo, non subordina espressamente la configurabilità della connessione alla condizione che i reati siano attributi alla stessa persona.

Sul tema, a fronte di un orientamento maggioritario, secondo cui per aversi la connessione di cui all'art. 12 c.p.p. lett. c) è necessario non solo che, in relazione ai reati per i quali si procede, gli uni siano stati commessi per eseguire gli altri, ma anche che il reato fine sia stato realizzato dalla stessa persona o dalle stesse persone che hanno commesso il reato mezzo (Sez. I, 27 maggio 2008 - dep. 11 giugno 2008, n. 23591, Confl. Comp. in proc. Avitabile e altri, Rv. 240205; Sez. IV, 10 marzo 2009 - dep. 6 luglio 2009, n. 27457, Ruiu, Rv. 244516), deve essere tuttavia segnalata Sez. III, 16 gennaio 2013 - dep. 20 marzo 2013, n. 12838, Erhan, rv. 257164), che, recependo altro indirizzo giurisprudenziale, ha affermato che ai fini della configurabilità della connessione teleologica prevista dall'art. 12 c.p.p., lett. c), non è richiesto che vi sia identità fra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo (in tal senso, Sez. VI, 23 settembre 2010 - dep. 15 ottobre 2010, n. 37014, Della Giovampaola e altri, Rv. 248746).

Tale orientamento, allo stato minoritario, trae spunto dalla evoluzione normativa dell'istituto.

Nella sua versione originaria, la norma in esame stabiliva che vi è connessione di procedimenti «se una persona è imputata di più reati, quando gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare altri» (cosiddetta connessione teleologica). La formula d'esordio («se una persona») non lasciava dubbi sul fatto che il nesso teleologico fosse idoneo a determinare spostamenti della competenza per materia o per territorio, nei termini delineati dagli artt. 15 e 16 cod. proc. pen., solo con riguardo a reati ascrivibili alla stessa o alle stesse persone. La disposizione è stata, peraltro, oggetto di due successive modifiche.

La prima è conseguita al decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367 (Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio 1992, n. 8. L'art. 1 di tale decreto, per un verso, ha soppresso l'esplicito riferimento all'identità dell'autore dei fatti in connessione, sostituendolo con una locuzione impersonale («se dei reati per cui si procede»); per altro verso, ha ampliato i legami tra reati rilevanti, aggiungendovi la cosiddetta connessione occasionale (reati commessi in occasione di altri) e ulteriori profili finalistici (la finalità di conseguimento, anche per «altri», del profitto, del prezzo, del prodotto o dell'impunità rispetto ad altri reati). A distanza di un decennio, è intervenuta la legge 1 marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'articolo 111 della Costituzione), il cui art. 1 ha espunto, in senso regressivo, il riferimento alla connessione occasionale e ai profili finalistici introdotti nel 1991, senza tuttavia ripristinare la formula evocativa dell'esigenza che i reati siano stati realizzati dalla stessa persona. La norma stabilisce, pertanto, attualmente che vi è connessione "se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri".

In sostanza, per quanto qui rileva, a partire dal 1991 la legge non richiede più, almeno a livello testuale, che l'autore del reato-mezzo corrisponda a quello del reato-fine.

Secondo l'impostazione in esame, la norma di cui all'art. 12, lett. c), cod. proc. pen., disponendo attualmente che vi è connessione di procedimenti quando dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri, individua un legame innanzitutto di tipo oggettivo: il riferimento normativo è, cioè, alla relazione oggettiva tra le diverse condotte di reato, che risultano collegate dal particolare legame della finalità di eseguire od occultare.

Le vicende dell'istituto e la correlazione con gli aspetti penali sostanziali attesterebbero, cioè, la natura innanzitutto oggettiva della relazione. Ciò che rileverebbe sarebbe il rapporto tra i reati prima di quello tra soggetti: da tale presupposto si fa discendere il corollario per cui non sarebbe necessario che gli autori dei due reati siano i medesimi.

Va peraltro segnalato, conclusivamente, che la Corte costituzionale, con sentenza 15 gennaio 2013, n. 21, ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., degli artt. 12, comma primo, lettera c), e 16, cod. proc. pen., nella parte in cui attribuiscono - se interpretati secondo l'indirizzo minoritario, accolto dal remittente - nel caso di connessione teleologica, la competenza per tutti i reati connessi e per tutti gli imputati al giudice del luogo di commissione del reato più grave, anche quando di quest'ultimo non siano chiamati a rispondere tutti gli imputati del reato meno grave. La Corte ha invero stigmatizzato un uso improprio dell'incidente di costituzionalità, derivante dalla mancata adesione all'indirizzo interpretativo prevalente (che richiede l'identità tra l'autore del reato mezzo e l'autore del reato fine per la configurabilità della connessione teleologica e del conseguente spostamento di competenza, e che non comporta i profili di incostituzionalità prospettati): e ciò in quanto "in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali".

1.2. I "casi analoghi" di conflitto di competenza tra giudice e pubblico ministero: l'intervento delle Sezioni unite in tema di liquidazione dei compensi al consulente tecnico.

Come anticipato in premessa, all'udienza del 28 novembre 2013 le Sezioni Unite hanno deciso la questione, oggetto di contrasto in giurisprudenza, "se sia ammissibile il conflitto negativo di competenza per caso analogo, ex art. 28 cod. proc. pen., tra p.m. e giudice in punto di competenza a provvedere sulla liquidazione dei compensi del consulente tecnico nominato dal p.m.".

Il conflitto negativo di competenza si configura nell'ipotesi in cui due giudici, con provvedimento esplicito, prendano o rifiutino di prendere cognizione del processo in modo da realizzare una situazione d'inerzia processuale e una alternativa non altrimenti risolvibile.

La normativa ha ricondotto l'istituto dei conflitti entro i confini di un rimedio eccezionale, per fronteggiare situazioni che patologicamente alterano i criteri di ordinaria ripartizione delle "regiudicande" in capo ai singoli organi di giurisdizione, con conseguente, possibile violazione dei principi della naturalità e precostituzione del giudice.

Secondo l'orientamento giurisprudenziale maggiormente restrittivo sarebbe esclusa l'ammissibilità del conflitto tra giudice e pubblico ministero, che è comunque una parte del processo e deve prestare ossequio, come ogni altra parte del procedimento, alle statuizioni del giudice, fatti salvi i mezzi d'impugnazione previsti dalla legge.

La possibilità di insorgenza dei conflitti è prevista unicamente tra giudici ordinari o tra giudici ordinari e giudici speciali, ed i casi analoghi vanno ricondotti unicamente ad organi della giurisdizione, per fronteggiare situazioni che patologicamente alterino i criteri di ordinaria ripartizione della potestà di giudicare, per cui il pubblico ministero può solo prendere atto della decisione del giudice ed adeguarvisi, a meno che il provvedimento del giudice non sia abnorme, vale a dire non previsto dall'ordinamento giuridico processuale e come tale impugnabile con ricorso per cassazione.

Questa linea interpretativa è stata in precedenza seguita anche dalle Sezioni Unite, che, per riportare nella fisiologia i rapporti tra soggetti processuali in materia di trasmissione per competenza da parte del giudice per le indagini preliminari al pubblico ministero della domanda dell'indagato volta ad ottenere l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ha fatto ricorso all'abnormità e non al conflitto negativo di competenza, escludendo che la situazione di stallo processuale determinatasi in conseguenza della declinatoria di competenza del giudice potesse risolversi mediante la procedura di conflitto (Sez. un., 25 febbraio 2004 - dep. 23 aprile 2004, n. 19289, P.M. in proc. Lustri, Rv. 227355).

Sebbene si è ritenuto che nel sistema processuale sia possibile concepire un conflitto negativo per casi analoghi solo tra organi giudiziari esplicanti attività giurisdizionale, in giurisprudenza non sono mancate isolate aperture verso una soluzione di segno contrario, specie nei casi in cui il pubblico ministero, al pari del giudice, si ponga quale autorità giudiziaria antagonista come organo o ufficio chiamato a prendere cognizione del medesimo affare e ad esercitare le stesse competenze nel rapporto processuale (come in materia di liquidazione delle spese di giustizia agli ausiliari del magistrato).

A titolo meramente esemplificativo, è stato ritenuto ammissibile il conflitto negativo per casi analoghi tra tribunale di sorveglianza e pubblico ministero in ordine alla sospensione dell'esecuzione della pena, nonché tra giudice e pubblico ministero per la liquidazione dei compensi al consulente tecnico, il che dimostrerebbe come i rapporti tra giudice e pubblico ministero, specie laddove l'organo requirente si ponga in posizione paritetica, abbiano tendenzialmente modificato gli ambiti oggettivi e soggettivi per applicazione dell'analogia nei casi di conflitto e per risolvere le situazioni di stasi processuale.

Le Sezioni unite, quindi, con sentenza resa all'udienza del 28 novembre 2013 (non ancora depositata), risolvendo il contrasto, hanno optato per la soluzione maggiormente restrittiva ed hanno stabilito che nei rapporti tra giudice e pubblico ministero non sia ammissibile un conflitto negativo di competenza, per cui in materia di spese di giustizia la liquidazione del compenso al consulente tecnico nominato durante le indagini preliminari appartiene al pubblico ministero.

1.3. Il problema della competenza ai fini dell'emissione del m.a.e. (rinvio).

La questione sarà diffusamente trattata nella parte della rassegna dedicata all'esame delle più significative pronunce concernenti la cooperazione europea in materia penale (v. capitolo IX).

2. La qualificazione giuridica del fatto.

Anche nel 2013, un rilevante numero di pronunce della Corte di Cassazione ha esaminato il tema della modifica della qualificazione giuridica del fatto operata dal giudice rispetto alla contestazione e alle decisioni emesse nelle precedenti fasi di giudizio.

La questione, che attiene principalmente ai poteri esercitabili di ufficio dal giudice, ma che presenta aspetti problematici anche in ordine alla riqualificazione su istanza di parte, è stata affrontata con riguardo all'udienza preliminare, al giudizio di primo grado, al giudizio di appello ed al giudizio di legittimità. Inoltre, non sono mancate decisioni relative ai procedimenti cautelari ed alle misure di prevenzione.

La disamina del tema, poi, richiede un riferimento alle pronunce che si sono occupate dell'argomento della validità della "contestazione in fatto", ossia della contestazione compiuta senza indicazione delle disposizioni di legge violate, riguardino queste la condotta integrante gli estremi della fattispecie di reato, o le sole circostanze aggravanti.

Peraltro, in considerazione dell'impulso che alle riflessioni in materia ha offerto la giurisprudenza sulla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sembra opportuno far precedere la trattazione da un sintetico richiamo dei più recenti arresti della Corte di Strasburgo.

2.1. Gli effetti delle decisioni della Corte EDU nella recente giurisprudenza sulla qualificazione giuridica del fatto.

Può senz'altro affermarsi, e si avrà modo di ribadirlo nel corso dell'esposizione, che un impulso decisivo all'evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di riqualificazione giuridica del fatto è stato determinato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e, in particolare, dalla sentenza Seconda Sezione, 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia.

Questa decisione, ricollegandosi a quella emessa dalla Grande Camera, 25 marzo 1999, Pélissier e Sassi c. Francia, ha evidenziato che, "in materia penale, una informazione precisa e completa delle accuse a carico di un imputato, e dunque la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe considerare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell'equità del processo", riconducibile all'art. 6, § 1 e 3 lett. a) e c), della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e che la situazione è comune anche alla materia civile, perché, pure in relazione a questa, "il giudice deve rispettare il principio del contraddittorio e dare alle parti la possibilità di conoscere e discutere tutte le questioni fondamentali per l'esito del procedimento, in particolare quando esso rigetta un ricorso per cassazione o pone fine a una causa sulla base di un motivo sollevato d'ufficio". Ha poi aggiunto che "il diritto di essere informato della natura e del motivo dell'accusa deve essere considerato alla luce del diritto dell'imputato di preparare la sua difesa" e che detto diritto deve essere assicurato anche "su questo punto in maniera concreta ed effettiva", fermo restando il potere del giudice di riqualificare il fatto di ufficio se ciò è previsto dal diritto nazionale. La decisione ha quindi esaminato la questione "se fosse sufficientemente prevedibile per il ricorrente che l'accusa inizialmente formulata nei suoi confronti fosse riqualificata", risolvendola negativamente nel caso di specie. Ha inoltre osservato che, se il ricorrente "avesse avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei suoi confronti", avrebbe ragionevolmente invocato "mezzi di difesa ... diversi da quelli scelti per contestare l'azione principale", e che la riqualificazione era rilevante in quanto aveva prodotto effetti negativi per l'imputato per aver evitato la pronuncia di una sentenza di prescrizione.

Nel corso del 2013, alcune decisioni della Corte EDU, nel ribadire puntualmente i principi e gli argomenti già esposti nelle citate sentenze Pélissier e Sassi c. Francia e Drassich c. Italia, hanno offerto significative precisazioni in ordine ai profili della 'sufficiente prevedibilità' della riqualificazione e della sufficiente tutela del diritto di difesa in ragione della possibilità di esperire mezzi di impugnazione. Si segnalano, in particolare, le sentenze della Corte EDU, Terza Sezione, 5 marzo 2013, Varela Geis c. Spagna e Corte EDU, Quarta Sezione, 8 ottobre 2013, Mulosmani c. Albania, entrambe in materia penale, nonché la sentenza Corte EDU, Quinta Sezione, 5 settembre 2013, Čepek c. Repubblica Ceca, relativa all'esercizio di poteri officiosi del giudice nel processo civile.

La sentenza Corte EDU, Varela Geis c. Spagna, ha riguardato una vicenda in cui il ricorrente era stato condannato in appello (con decisione dell'Audiencia Provincial impugnabile solo con rimedi straordinari) per un delitto - la divulgazione di idee o dottrine volte a giustificare atti di genocidio - che non era oggetto né della contestazione, né della condanna in primo grado, entrambe relative ai delitto di 'genocidio' per negazione dell'olocausto, e di istigazione alla discriminazione per motivi razziali. In particolare, la decisione ha ritenuto che fosse stato violato l'art. 6 della Convenzione EDU anche se una delle parti private aveva chiesto la conferma della condanna evidenziando che era stata commessa "apologia di genocidio", in quanto "non risulta dagli atti che l'Audiencia Provincial o il rappresentante del pubblico ministero abbiano, nel corso del dibattimento, evocato la possibilità di una riqualificazione o anche semplicemente rilevato l'argomento delle parti accusatrici private" (cfr. § 50).

La sentenza Corte EDU, Mulosmani c. Albania, ha avuto ad oggetto una fattispecie in cui l'imputato, a fronte di un'originaria contestazione di omicidio commesso in danno di un membro del Parlamento, è stato condannato in primo grado per il delitto di omicidio commesso per vendetta, con decisione confermata nei successivi giudizi davanti alla Corte di appello ed alla Corte Suprema. La pronuncia ha escluso la violazione dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sia perché l'imputato aveva potuto impugnare la decisione di primo grado davanti al giudice di appello e poi davanti alla Corte Suprema (cfr. § 132), sia perché, alla luce delle "conclusioni del procuratore" davanti al primo giudice, nelle quali si evidenziavano la finalità di vendetta del delitto, "non può sostenersi che il ricorrente non potesse prevedere la riqualificazione del capo di accusa nei suoi confronti" (cfr. § 133).

La sentenza Corte EDU, Čepek c. Repubblica Ceca, invece, si è occupata di un processo civile in cui il giudice di secondo grado, pur accogliendo l'impugnazione del convenuto e rigettando la pretesa attorea accolta dal primo giudice, aveva fatto applicazione di una disposizione di diritto interno che consente, sulla base di una valutazione discrezionale, di non concedere alla parte vincitrice il diritto al rimborso delle spese processuali, senza procedere preventivamente al contraddittorio, e la decisione così emessa era impugnabile esclusivamente con ricorso alla Corte costituzionale. I giudici di Strasburgo, per risolvere la questione, e concludere nel senso dell'avvenuta violazione dell'art. 6 della Convenzione europea, tra l'altro, hanno ribadito che "il giudice deve ... rispettare il principio del contraddittorio, in particolare quando risolva una disputa sulla base di un motivo invocato d'ufficio o di un'eccezione sollevata d'ufficio" (cfr. § 45), pur rilevando che, nel settore penale, alla luce dell'elaborazione giurisprudenziale della Corte, si "può dedurre che non vi sia alcuna violazione del diritto ad un equo processo qualora l'imputato possa effettivamente prevedere la riqualificazione" (cfr. § 47). Gli stessi giudici, inoltre, dopo aver richiamato la loro precedente giurisprudenza, anche in materia penale, secondo la quale, "se il diritto al contraddittorio in sede processuale è stato ignorato in una determinata fase del procedimento, non è escluso che un giudice di grado superiore possa riparare una tale defaillance" (cfr. § 50), hanno però evidenziato l'insufficienza del rimedio offerto dal sistema del diritto nazionale al ricorrente nel caso di specie, e cioè la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale, poiché questa "aveva un potere molto più limitato rispetto al potere discrezionale del tribunale municipale" (cfr. § 59).

2.2. Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto nell'udienza preliminare.

La Corte di cassazione, pur non mettendo in discussione il consolidato orientamento, secondo il quale il giudice dell'udienza preliminare può dare una diversa definizione giuridica al fatto in contestazione (cfr., da ultimo, Sez. VI, 17 aprile 2012 - dep. 16 luglio 2012, n. 28481, C., Rv. 253695), ha tuttavia individuato dei limiti all'esercizio di questo potere.

Segnatamente, Sez. VI, 29 gennaio 2013 - dep. 10 aprile 2013, n. 16386, Tarantino, Rv. 254705, ha affermato che il G.u.p. non può procedere alla modifica della qualificazione del reato, anche se invocata dall'imputato e più favorevole allo stesso (nel caso di specie, l'imputato chiedeva la derubricazione da corruzione propria a corruzione impropria), quando sussistono le condizioni perché debba essere pronunciata sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., e, ai fini della ridefinizione del fatto, sono necessari ulteriori accertamenti.

2.3. Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto all'esito del giudizio di primo grado.

Alcune decisioni hanno esaminato il problema della legittimità della ridefinizione giuridica del reato operata dal giudice di ufficio nella sentenza che definisce il giudizio di primo grado, senza che vi sia stato un preventivo contraddittorio sul punto.

In particolare, le sentenze Sez. III, 7 novembre 2012 - dep. 17 gennaio 2013, n. 2341, Manara, Rv. 254135, e Sez. V, 24 settembre 2012 - dep. 19 febbraio 2013, n. 7984, Jovanovic, Rv. 254649, hanno ritenuto che il giudice di primo grado può procedere ad una nuova qualificazione del fatto direttamente in sentenza. Gli esiti, però, almeno sotto il profilo delle argomentazioni svolte, non sembrano del tutto coincidenti.

Infatti, la sentenza Sez. III, Manara, dopo aver premesso che l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come interpretata dalla Corte EDU, e segnatamente nella decisione 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, impone il contraddittorio anche in relazione all'esercizio dei poteri officiosi del giudice e quindi in tema di nuova definizione giuridica del fatto "ex officio", ha osservato che il diritto al contraddittorio è assicurato non solo quando vi sia una preventiva contestazione del pubblico ministero, ma anche quando "la riqualificazione è effettuata lasciando comunque all'imputato la facoltà di controdedurre, come avviene quando la sentenza riqualificante è impugnabile". Può essere utile aggiungere che la pronuncia impugnata era una sentenza inappellabile, in relazione alla quale l'unico rimedio esperibile era il ricorso per cassazione (nella specie, a fronte di una contestazione per il reato previsto dalla lett. h) dell'art. 30 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, relativo a "chi abbatte, cattura o detiene specie di mammiferi o uccelli nei cui confronti la caccia non è consentita o fringillidi in numero superiore a cinque o esercita la caccia con mezzi vietati ... o con l'ausilio di richiami vietati", il tribunale aveva ritenuto sussistente il reato previsto dalla lett. l) del medesimo art. 30, riguardante "chi pone in commercio o detiene a tal fine fauna selvatica in violazione della presente legge").

Invece la sentenza Sez. V, Jovanovic, anch'essa agganciandosi all'evoluzione giurisprudenziale determinata dall'interpretazione dell'art. 6 della CEDU da parte della Corte di Strasburgo, ha affermato che il potere di riqualificazione giuridica del fatto ex officio è legittimamente esercitato "quando l'imputato o il suo difensore abbia avuto nella fase di merito la possibilità comunque di interloquire ..., anche attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione avverso la sentenza di primo grado", ovvero "quando la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei possibili (si potrebbe dire 'non sorprendenti') epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la riconducibilità del fatto storico ... ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l'eventuale esclusione dell'una comporta, inevitabilmente, l'applicazione dell'altra" (nella specie, la sentenza di primo grado aveva condannato per furto aggravato l'imputato citato a giudizio per ricettazione).

In altri termini, mentre la sentenza Sez. III, Manara, esclude la configurabilità di una violazione del diritto al contraddittorio se l'imputato può proporre un'impugnazione, sia essa anche solo quella del ricorso per cassazione, la sentenza Sez. V, Jovanovic, richiede che "l'imputato o il suo difensore abbia avuto nella fase di merito la possibilità comunque di interloquire", e quindi offre un discorso argomentativo che giustifica la legittimità della ridefinizione del reato ex officio solo se sia esperibile un'impugnazione attinente anche al merito della regiudicanda.

Inoltre, Sez. III, Manara, in quanto relativa a sentenza inappellabile, si pone in termini di contrasto rispetto a recenti precedenti (ci si riferisce, specificamente, a Sez. I, 29 aprile 2011 - dep. 11 maggio 2011, n. 18590, Corsi, Rv. 250275).

2.4. Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto all'esito del giudizio di appello.

Un consistente numero di pronunce si è occupato del problema della ridefinizione del reato operata di ufficio dal giudice con la sentenza di appello.

Alcune decisioni - ci si riferisce, in particolare, alle sentenze: Sez. I, 17 dicembre 2012 - dep. 8 gennaio 2013, n. 474, Presti, Rv. 254207; Sez. VI, 17 ottobre 2012 - dep. 15 marzo 2013, n. 12368, Medugno, Rv. 255996; Sez. II, 7 maggio 2013 - dep. 17 maggio 2013, n. 21170, Maiuri, Rv. 255735; Sez. I, 12 febbraio 2013 - dep. 23 maggio 2013, n. 22066, Burinato, Rv. 255945 - hanno ritenuto senz'altro legittima la riqualificazione del fatto "ex officio" compiuta direttamente nella decisione di secondo grado.

Sez. I, Presti, così come Sez. VI, Medugno, e Sez. I, Burinato, in verità, non hanno affrontato il problema alla luce dei principi desumibili dalla CEDU.

Invero, la prima di esse ha rappresentato che il giudice di appello è "legittimato, ai sensi dell'art. 597 comma 3 cod. proc. pen., ad attribuire al fatto un diverso e più grave nomen iuris" e, in conseguenza di ciò, ha ritenuto corretta la decisione del giudice di appello che aveva escluso l'applicazione della prescrizione riqualificando un fatto per il quale era intervenuta condanna in primo grado per il reato contravvenzionale previsto dall'art. 9, primo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, relativo alla violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, nei termini della fattispecie delittuosa di cui al secondo comma del medesimo art. 9, come modificato dal d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modifiche nella legge 31 luglio 2005, n. 155, riguardante la violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Sez. VI, Medugno, a sua volta, ha affermato che la "diversa qualificazione del fatto reato [derubricato da concorso in peculato a furto aggravato] non ha dato luogo ad alcuna violazione del principio di correlazione né ad alcuna lesione del diritto di difesa dell'imputato a fronte della palese invarianza del fatto materiale realizzante la condotta penalmente illecita".

Sez. I, Burinato, tuttavia, si distingue dalle precedenti perché ha riguardo ad una riqualificazione operata non in una sentenza sul merito dell'imputazione, ma in un'ordinanza di contenuto processuale: la pronuncia, infatti, muovendo dal presupposto della legittimità della ridefinizione del fatto compiuta di ufficio dal giudice di appello (nella specie, Tribunale) - il quale aveva ravvisato gli estremi della calunnia in riferimento ad una vicenda qualificata come diffamazione in primo grado (nella specie, Giudice di Pace) -, ha escluso l'abnormità del provvedimento impugnato che aveva disposto la restituzione degli atti al P.M. per lo svolgimento dell'udienza preliminare.

Sez. II, Maiuri, invece, richiamando un precedente orientamento (si cita Sez. II, 13 novembre 2012 - dep. 23 novembre 2012, n. 45795, Tirenna, Rv. 254357), e contrapponendosi ad altro indirizzo (si indica Sez. V, 28 ottobre 2011 - dep. 17 febbraio 2012, n. 6487, Finocchiaro, Rv. 251730), ha espressamente affermato la legittimità della riqualificazione operata di ufficio in sentenza da parte del giudice di appello anche avendo riguardo ai principi elaborati in tema di processo equo dalla sentenza della Corte EDU, 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia. Ha in proposito osservato che quando "il mutamento della qualificazione giuridica del fatto sia operato in appello, la garanzia del contraddittorio è comunque assicurata" dalla possibilità per l'imputato di "interloquire e contestare la nuova qualificazione ... mediante il ricorso per cassazione, attenendo la qualificazione giuridica a profili di legittimità, e non di merito, che ben possono essere denunziati con il ricorso per cassazione". Ha poi aggiunto che, nella specie, l'imputato - assolto in primo grado dalla contestazione di tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose, era stato poi condannato in appello per il reato di danneggiamento aggravato - "nulla ha dedotto per contestare la qualificazione giuridica data al fatto dalla Corte territoriale, non avendo, peraltro, alcun interesse a contestare una qualificazione giuridica che ridimensiona notevolmente la gravità del reato".

A differenza di quelle appena citate, altre decisioni - esattamente: Sez. V, 9 ottobre 2012 - dep. 7 gennaio 2013, n. 231, Ferrari, Rv. 254521; Sez. VI, 8 febbraio 2013 - dep. 13 febbraio 2013, n. 7195, Sema, Rv. 254720; Sez. VI, 2 luglio 2013 - dep. 10 luglio 2013, n. 29533, Tomasso, rv. 256150 - si sono preoccupate di subordinare il riconoscimento della legittimità della riqualificazione operata di ufficio dal giudice di appello alla verifica del prerequisito della prevedibilità per l'imputato.

La sentenza Sez. V, Ferrari, ha escluso ogni violazione del contraddittorio secondo l'interpretazione accolta dalla Corte EDU, in quanto, nel caso di specie, "la riqualificazione del fatto è stata espressamente richiesta dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello nel suo atto d'impugnazione".

La sentenza Sez. VI, Sema, dal canto suo, ha rilevato che la ridefinizione del fatto - operata dal giudice di appello a norma dell'art. 597, comma 3, cod. proc. pen. da lesioni a tentato omicidio, senza modificare la pena irrogata rispetto al giudizio di prime cure - era stata legittima effettuata sia perché "era facilmente prevedibile per l'imputato che, in presenza di impugnazione del P.G., la Corte di appello avrebbe potuto riqualificare il fatto, riproponendo la 'veste giuridica' che già era stata prospettata con l'originaria contestazione dell'addebito", sia perché "è sicuro che l'imputato sia stato messo in condizione di poter far valere le sue ragioni, tanto nel corso del giudizio di secondo grado, quanto, come ha poi concretamente fatto, con la presentazione del ricorso per cassazione", sia perché, infine, nella concreta regiudicanda dall'esercizio dei poteri officiosi del giudice non erano derivate né "alcuna variazione in peius nel trattamento sanzionatorio ... né ... l'operatività di un più negativo criterio di computo del termine di prescrizione". La decisione ha pure aggiunto, rispondendo a specifiche doglianze della difesa, che, quando il giudice di appello provvede ad una definizione del fatto in termini di maggior gravità, non è necessario neanche "effettuare una valutazione diretta delle prove", perché la determinazione assunta non riguarda "l'alternativa assoluzione-condanna dell'imputato" ed è pertanto improprio richiamare in materia i principi affermati nella sentenza della Corte EDU, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia.

La sentenza Sez. VI, Tomasso, infine, ha ritenuto legittima la riqualificazione operata in sentenza dal giudice di appello con riferimento alla figura del tentativo del reato originariamente contestato (nella specie, esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone), dopo che in primo grado la sentenza aveva definito il fatto in diversi termini giuridici (precisamente, come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose). A tal proposito, ha osservato che "anche a voler prescindere dal fatto che la riqualificazione ha avuto effetti favorevoli per l'imputato e che questi ha avuto modo, comunque, con il ricorso per cassazione di interloquire sulla correttezza di una scelta che è stata operata dal giudice di secondo grado ... è di tutta evidenza come fosse ampiamente prevedibile per [l'imputato] che la Corte di appello potesse 'correggere' la qualificazione giuridica attribuita ai fatti accertati dal giudice di prime cure, 'tornando' all'imputazione iniziale, con riferimento alla quale il prevenuto aveva già avuto ampia possibilità di fare valere le proprie ragioni e di esercitare il diritto alla prova".

Un diverso orientamento sembra essere seguito, invece, dalla sentenza Sez. VI, 4 ottobre 2012 - dep. 4 marzo 2013, n. 10148, Pilato, Rv. 254409, emessa in riferimento al giudizio di prevenzione. Questa pronuncia ha posto esplicitamente la sua premessa nell'affermazione secondo cui anche nel giudizio di prevenzione deve essere garantito il rispetto del principio del contraddittorio quando il giudice procede alla riqualificazione di ufficio dell'atto d'iniziativa del procedimento se da questa operazione "derivano effetti pregiudizievoli per la parte", in quanto anche in questo giudizio trova applicazione "la regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo", a sua volta conforme con quanto "statuito dall'art. 111, secondo comma, Cost.". In applicazione del principio così enunciato, poi, la sentenza ha annullato il decreto con il quale la Corte di appello aveva ridefinito la richiesta di aggravamento della misura di prevenzione (accolta come tale in primo grado dal tribunale) in termini di richiesta di applicazione di nuova misura di prevenzione, "senza che la parte abbia avuto la possibilità di rappresentare le ragioni di merito relative ai presupposti e alle condizioni della nuova domanda".

2.5. La qualificazione giuridica del fatto nel giudizio di legittimità.

Più articolato è il panorama relativo alla giurisprudenza di legittimità.

Il problema della ridefinizione officiosa del fatto nel giudizio di cassazione risulta affrontato, tra le altre, dalle sentenze Sez. II, 15 maggio 2013 - dep. 12 settembre 2013, Drassich, Rv. 256651-256653, e Sez. VI, 10 ottobre 2013, Campo.

Sez. II, Drassich, si è occupata della questione dell'ammissibilità dell'istanza di revisione proposta per far valere la violazione del diritto di difesa verificatasi nel giudizio di cassazione per effetto della riqualificazione in peius, che era stata operata direttamente in sentenza con riferimento ad alcuni dei reati ascritti all'imputato (ridefiniti da corruzione a corruzione in atti giudiziari), e che aveva determinato la conferma della sentenza di condanna in luogo di una dichiarazione di prescrizione degli stessi; in particolare, il ricorrente ha denunciato l'insufficienza del rimedio precedentemente riconosciutogli dalla Corte di cassazione, attraverso l'utilizzo dell'art. 625 bis cod. proc. pen., e consistito nella riapertura del processo di legittimità con conseguente possibilità per la difesa di dibattere la questione giuridica derivante dalla riqualificazione. La pronuncia ha innanzitutto premesso che il ricorso al mezzo della revisione, come risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011, non è utilizzabile in relazione a violazioni verificatesi nel corso del giudizio di legittimità, in quanto esso ha come obiettivo quello di "porre l'interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata" e quindi "è funzionale alla individuazione di uno strumento idoneo ad assicurare la riapertura del processo di merito e non anche di quello di cassazione". Ha poi osservato che il rimedio precedentemente riconosciuto non poteva dirsi inidoneo: in primo luogo, infatti, il ricorso avrebbe potuto avere anche un esito di annullamento con rinvio per consentire all'imputato "di chiedere nuove prove specificamente indicate e ritenute in ipotesi essenziali"; in secondo luogo, "la questione della qualificazione giuridica del fatto (e non dell'accertamento materiale dello stesso) rientra fra i casi tipici del ricorso per cassazione (art. 606, lett. b, cod. proc. pen.) e quindi può essere adeguatamente discussa anche in ultima istanza"; in terzo luogo, "anche ove sia ipotizzabile la contestazione in fatto della diversa qualificazione giuridica, è imprescindibile che con il ricorso per cassazione sia formulata una richiesta di annullamento con rinvio, che specificamente indichi nuovi elementi di fatto, non valutati dal giudice di merito e non prospettati perché non attinenti alla originaria qualificazione, che consentirebbero di escludere la nuova e diversa qualificazione". Ha perciò concluso in proposito che, "se il vizio processuale si è verificato in sede di legittimità, spetta alla stessa Corte porvi rimedio (argomenta ex art. 185, commi 2 e 3, c.p.p.), adottando le necessarie iniziative e pervenendo agli esiti processuali indispensabili per ripristinare le garanzie violate".

Sez. VI, Campo, invece, nel decidere sul ricorso proposto avverso una sentenza di secondo grado, ha disposto di rinviare a nuovo ruolo il giudizio nei confronti di alcuni ricorrenti condannati per il reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. "onde consentire la difesa anche in ordine all'ipotesi della riqualificazione giuridica del reato associativo in quella di concorso 'esterno' nel medesimo".

Una questione affine è stata esaminata dalla sentenza Sez. VI, 25 gennaio 2013 - dep. 11 febbraio 2013, n. 6578, Piacentini, Rv. 254543. Questa pronuncia, infatti, ha ritenuto ammissibile la proposizione, con il ricorso per cassazione, di motivi nuovi di doglianza (rispetto a quelli dedotti con l'appello) che attengano alla qualificazione giuridica del fatto, con il rilievo che "la lettura giuridica adeguata del fatto contestato è punto della decisione che può essere introdotto anche per la prima volta nel giudizio di legittimità", superando così il possibile sbarramento derivante dalla previsione dell'art. 609, comma 3, cod. proc. pen. Ha però aggiunto, rigettando la richiesta di derubricazione della fattispecie concreta da concussione a corruzione ex art. 319 cod. pen., che, "quando ... il tema della riqualificazione giuridica è introdotto come motivo nuovo, il fatto storico con cui è possibile il confronto deve necessariamente essere quello ricostruito dai giudici del merito", senza che sia possibile addurre letture alternative del fatto fondate su aspetti non dedotti in sede di appello.

Diverse decisioni, poi, si sono occupate del potere della Corte di cassazione di sindacare la qualificazione giuridica del fatto in relazione a sentenze di patteggiamento.

Innanzitutto, la sentenza Sez. un., 31 gennaio 2013 - dep. 23 aprile 2013, n. 18374, Adami (non massimata sul punto), in linea con un consolidato orientamento, ha ribadito che anche con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, il ricorso per cassazione può denunciare l'erronea qualificazione giuridica del fatto. La decisione, inoltre, ricollegandosi ad autorevoli precedenti (segnatamente a Sez. Un., 19 gennaio 2000, dep. 28 aprile 2000, n. 5, Neri, Rv. 215825), si preoccupa di indicare esplicitamente il fondamento di tale possibilità: la doglianza sul punto è ammissibile "in quanto la qualificazione giuridica è materia sottratta alla disponibilità delle parti e l'errore su di essa costituisce errore di diritto rilevante ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen."

Altre pronunce delle Sezioni semplici hanno poi collegato il potere della Corte di legittimità di sindacare l'erronea qualificazione dell'oggetto della regiudicanda da parte del giudice di merito ora - come Sez. VI, 14 gennaio 2013 - dep. 7 febbraio 2013, n. 6156, Pavlik, Rv. 254897 - con la necessità di consentire una verifica della correttezza della misura della pena applicata, ora - come Sez. VI, 27 novembre 2012 - dep. 2 aprile 2013, n. 15009, Bisignani, Rv. 254865 - con l'esigenza di assicurare il rispetto dell'art. 444, comma 2, cod. proc. pen., il quale impone il controllo sulla definizione giuridica accolta per "evitare che l'accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati". Va tuttavia evidenziato che l'appena citata Sez. VI, Bisignani, ha indicato espressamente i limiti di questo controllo: "proprio in considerazione della natura del patteggiamento e dello scopo del controllo affidato al giudice, ... la ricorribilità della sentenza di patteggiamento è ammessa nelle sole ipotesi di errore manifesto, ossia quando sussiste realmente l'eventualità che l'accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, sicché deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità". La stessa pronuncia, anzi, in applicazione di questo principio, ha escluso sia la possibilità di sindacare la definizione giuridica accolta nella sentenza impugnata sulla base di argomenti che, addotti dalle parti, implicavano la necessità di una verifica dibattimentale, sia la rilevanza, al medesimo fine, di decisioni che in sede cautelare avevano affermato l'insussistenza dei reati oggetto di patteggiamento.

2.6. Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto nel giudizio cautelare e nel procedimento di prevenzione.

Il tema della ridefinizione officiosa della fattispecie giuridicamente rilevante è stato esaminato anche in relazione al procedimento cautelare ed a quello di prevenzione.

Con riferimento al primo, la sentenza Sez. VI, 14 febbraio 2013 - dep. 19 marzo 2013, n. 12828, P., Rv. 254902, confermando un precedente orientamento (cfr., da ultimo, Sez. II, 9 ottobre 2008, dep. 22 dicembre 2008, n. 47563, Mauri, Rv. 242299), ha ribadito che il giudice può legittimamente qualificare il fatto diversamente da come indicato nella richiesta di applicazione della misura cautelare (nella specie, ridefinito da estorsione a maltrattamenti in famiglia), senza che ciò costituisca violazione dell'art. 291 cod. proc. pen.

Per quanto attiene al procedimento di prevenzione, si è già riferito in precedenza (paragrafo 4 di questo capitolo) della sentenza Sez. VI, 4 ottobre 2012 (dep. 4 marzo 2013), n. 10148, Pilato (Rv. 254409) che ha annullato il decreto con il quale la Corte di appello aveva riqualificato di ufficio la richiesta di aggravamento della misura di prevenzione (accolta come tale in primo grado dal tribunale) in termini di richiesta di applicazione di nuova misura di prevenzione, "senza che la parte abbia avuto la possibilità di rappresentare le ragioni di merito relative ai presupposti e alle condizioni della nuova domanda".

2.7. La validità della contestazione "in fatto".

Un tema molto prossimo a quello della riqualificazione giuridica della fattispecie è quello che attiene alla validità della "contestazione in fatto", ossia compiuta con la mera descrizione del fatto, senza indicazione delle disposizioni di legge violate, riguardino esse la fattispecie di reato, o le circostanze aggravanti: anche in questo caso, infatti, l'imputato può trovarsi condannato senza che vi sia stato un precedente contraddittorio sulla natura giuridica dell'accusa o di parte di essa.

La sentenza Sez. III, 19 febbraio 2013 - dep. 24 maggio 2013, n. 22434, Nappello, Rv. 255772, con riferimento ad una vicenda in cui la contestazione riguardava la detenzione per la vendita di supporti audiovisivi abusivamente riprodotti, ha ritenuto, ricollegandosi ad un risalente orientamento giurisprudenziale (cfr., da ultimo, Sez. VI, 16 settembre 2004, dep. 13 gennaio 2005, n. 437, Verdiani, Rv. 230858), che "la mancata esplicita indicazione della norma violata" integra "una omissione che non rende nulla la contestazione", in quanto "ai fini della contestazione dell'accusa, ciò che rileva è la compiuta descrizione del fatto, non l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati".

La sentenza Sez. II, 10 gennaio 2013 - dep. 28 marzo 2013, n. 14651, Chatbi, Rv. 255793, invece, ha ritenuto irrilevante che, ai fini della contestazione di un'aggravante, sia stata omessa la specifica indicazione della norma che la prevede, essendo sufficiente la precisa enunciazione "in fatto" della stessa. In proposito, la decisione ha osservato che la compiuta descrizione della condotta è sufficiente a consentire all'imputato di avere chiara cognizione dell'accusa, e, in applicazione del principio, ha annullato una sentenza di non doversi procedere per remissione di querela relativamente ad una fattispecie di appropriazione indebita, che, invece, per effetto del riconoscimento dell'aggravante dell'abuso di relazione di prestazione d'opera, è procedibile d'ufficio.

  • sciopero
  • avvocato

CAPITOLO II

IL DIFENSORE

Sommario

1 La scelta dell'argomento. - 2 Astensione degli avvocati e disposizioni del codice di autoregolamentazione: l'intervento delle Sezioni unite sulle udienze in materia cautelare. - 2.1 Le pronunce delle Sezioni semplici adesive all'impostazione delle Sezioni unite. - 2.2 L'indirizzo contrario sulla necessità di bilanciamento tra diritto all'astensione ed esigenze di giustizia: la rimessione della questione alle Sezioni unite. - 3 Astensione dalle udienze a partecipazione non necessaria del difensore: una innovativa pronuncia.

1. La scelta dell'argomento.

Tra le problematiche afferenti la figura del difensore, oggetto di significativi interventi della giurisprudenza della Corte di cassazione, si è ritenuto di individuare ed approfondire quella dell'astensione dalle udienze: un tema di particolare interesse ed attualità, non solo per la notoria incidenza del fenomeno sulla funzionalità del sistema giudiziario, ma anche per la diversità di ricostruzioni elaborate dalla giurisprudenza in ordine alla natura giuridica ed ai limiti di ammissibilità dell'astensione, avuto riguardo al contenuto del vigente codice di autoregolamentazione di categoria. Tali divergenze interpretative hanno da ultimo determinato la rimessione di tale questione (ritenuta di particolare importanza, ai sensi dell'art. 610 cod. proc. pen.) alle Sezioni unite.

Proprio queste ultime, come si vedrà nel paragrafo successivo, si sono occupate incidentalmente della questione nel maggio del 2013 (il Supremo consesso era stato chiamato a pronunciarsi sulla portata applicativa della presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all'art. 275, comma terzo, cod. proc. pen.), rigettando un'istanza di rinvio formulata in un'udienza relativa, appunto, ad una misura cautelare personale e motivata con l'adesione dei difensori all'astensione di categoria. Nel richiamare e valorizzare l'art. 4 del codice di autoregolamentazione - il quale esclude la possibilità di astenersi, tra l'altro, nelle udienze "afferenti misure cautelari" - le Sezioni unite hanno attribuito a tale Codice "valore di normativa secondaria alla quale occorre conformarsi".

Nei mesi successivi, sono state depositate diverse pronunce delle Sezioni semplici che, con varietà di impostazioni e sfumature, si sono esplicitamente richiamate alla decisione delle Sezioni unite, pervenendo ai risultati interpretativi che saranno illustrati nel par. 3.

Peraltro, tale impostazione non è apparsa pacifica nel panorama giurisprudenziale, ed è stata da ultimo sottoposta ad una valutazione critica da parte della Quinta sezione della Suprema corte, che ha sollecitato un nuovo pronunciamento delle Sezioni unite: di tali sviluppi si darà conto nel par. 4.

Infine, nel paragrafo 5, verrà esaminata una recente pronuncia che si è consapevolmente discostata da un consolidato orientamento espresso, dalla Suprema corte, sulla "contigua" questione relativa alla possibilità di astenersi nelle udienze camerali in cui non è prevista la partecipazione necessaria del difensore.

2. Astensione degli avvocati e disposizioni del codice di autoregolamentazione: l'intervento delle Sezioni unite sulle udienze in materia cautelare.

Le Sezioni unite, con sentenza emessa il 30 maggio 2013 - dep. 19 giugno 2013, n. 26711, Ucciero, Rv. 255326, hanno affermato il principio così massimato: "Nei procedimenti relativi alle misure cautelari non è consentita l'astensione dalle udienze da parte del difensore che aderisca ad una protesta di categoria, atteso il disposto dell'art. 4 del Codice di "Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati", adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, avente valore di normativa secondaria, che esclude espressamente che l'astensione possa riguardare le udienze penali "afferenti misure cautelari".

La Corte, rigettando l'istanza di rinvio avanzata dal difensore dell'imputato nel giudizio di legittimità instaurato ai sensi dell'art. 311 cod. proc. pen., ha, da una parte, richiamato la sentenza n. 171 del 1996 della Corte Costituzionale, dichiarativa della illegittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 5, della legge 12 giugno 1990, n. 146, nella parte in cui non era previsto, nel caso di astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e procuratori legali, l'obbligo d'un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell'astensione, né gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, né, ancora, le procedure e le misure consequenziali, nell'ipotesi di inosservanza; dall'altra parte, le Sezioni unite hanno sottolineato - richiamando espressamente e facendo propri gli insegnamenti della Consulta - che l'astensione dalle udienze degli avvocati, costituendo una "manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo", deve essere ricondotta nel perimetro dei diritti "di libertà dei singoli e dei gruppi che ispira l'intera prima parte della Costituzione: un diritto, quindi, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo".

Nell'occasione le Sezioni unite hanno ricordato che, proprio allo scopo di soddisfare le esigenze di bilanciamento tra interessi contrapposti, la legge n. 146 del 1990 è stata appositamente novellata ad opera della legge n. 83 del 2000, la quale, introducendo l'art. 2-bis, ha previsto, per l'astensione collettiva da parte di "lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori, l'adozione di appositi codici di autoregolamentazione destinati a realizzare il "contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all'art. 1" della stessa legge, e come, in base alla richiamata disposizione legislativa, sia stato adottato da parte degli organismi di categoria, il 4 aprile 2007, il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, "valutato idoneo dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali con deliberazione del 13 dicembre 2007".

In tale quadro di riferimento la Corte, come già accennato in premessa, ha riconosciuto alle disposizioni contenute nel codice di autoregolamentazione valore di normativa secondaria, evidenziando, con specifico riferimento alla fattispecie concreta, come l'art. 4, lett. a), del predetto codice espressamente preveda che l'astensione non sia consentita in materia penale, fra l'altro, per le udienze "afferenti misure cautelari", e come in tale espressione normativa debba farsi rientrare anche l'udienza in corte di cassazione relativa al ricorso presentato, ai sensi dell'art. 311 cod. proc. pen., nell'interesse di un imputato sottoposto a misura cautelare personale.

2.1. Le pronunce delle Sezioni semplici adesive all'impostazione delle Sezioni unite.

Nel periodo successivo alla sentenza Ucciero, le Sezioni semplici della Corte di cassazione hanno avuto plurime occasioni per ritornare sulla problematica qui in esame, sia perché anch'esse direttamente investite di istanze di rinvio dell'udienza motivate con l'adesione degli avvocati all'astensione proclamata dagli organismi di categoria, sia perché chiamate a pronunciarsi sulla correttezza delle decisioni assunte, su analoghe istanze, dai giudici di merito.

Viene in rilievo, anzitutto, la sentenza Sez. VI, 12 luglio 2013 - dep. 25 settembre 2013, n. 39871, Notarianni, Rv. 256444, la quale, richiamandosi espressamente alla decisione delle Sezioni unite, ha stabilito che il divieto di astenersi nelle udienze "afferenti misure cautelari", di cui al già citato dell'art. 4 del codice di autoregolamentazione, deve ritenersi comprensivo anche dei procedimenti relativi a misure cautelari reali. Tra le ragioni di coerenza logico-sistematica addotte a sostegno di tale conclusione, la sentenza ha valorizzato l'ulteriore divieto di astenersi, contenuto nel più volte richiamato art. 4 e concernente l'assistenza al compimento degli atti di perquisizione e sequestro, "ossia per attività i cui risultati possono essere oggetto di successive contestazioni all'interno dei giudizi di impugnazione" disciplinati nel codice di rito.

Anche in un'altra coeva decisione (Sez. VI, 12 luglio 2013 - dep. 23 settembre 2013, n. 51524, Cartia, Rv. 256336) si è dato preliminarmente conto del rigetto di un'istanza di rinvio dell'udienza, che i difensori avevano formulato dichiarando di aderire all'astensione di categoria: una decisione fondata, anche in questo caso, sull'art. 4 del codice di autoregolamentazione, nella parte in cui non consente l'astensione nei giudizi di legittimità dove la prescrizione dei reati vada a maturare nei novanta giorni successivi (art. 4, comma 1, lett. a del codice). La pronuncia si segnala per una piena e convinta adesione ai principi espressi dalle Sezioni unite, che costituiscono il presupposto di alcuni corollari assai rilevanti:

a) è proprio il valore di normativa secondaria, che deve attribuirsi al codice di autoregolamentazione, ad escludere in radice la legittimità dell'adesione nei casi ivi contemplati (tra cui, appunto, quello dei processi pendenti in cassazione destinati a prescriversi nei novanta giorni successivi). In altri termini, la conformità al codice di una richiesta di rinvio, motivata dalla volontà di esercitare il diritto di adesione all'astensione di categoria, costituisce una vera e propria precondizione per poter ritenere sussistente il diritto medesimo;

b) del tutto irrilevante è quindi la considerazione per cui, in ogni caso, il rinvio dell'udienza motivato dall'adesione del difensore all'astensione di categoria non spiega ormai effetti di sorta sul calcolo della prescrizione (infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale del tutto pacifico, trattasi di un'ipotesi di sospensione del processo non già "per ragioni di impedimento" del difensore, bensì "su richiesta" di quest'ultimo: il corso della prescrizione rimane dunque sospeso per l'intero periodo di differimento, senza il limite di sessanta giorni previsto, per i soli casi di rinvio da impedimento, dall'art. 159, comma primo n. 3, cod. pen.. Sul punto, v. ad es. Sez. V, 8 febbraio 2010 - dep. 12 maggio 2010, n. 18071, Placentino, Rv. 247142). In buona sostanza, la "disciplina speciale" del codice di autoregolamentazione "prevale" perché costituisce il "limite originario" all'esercizio del diritto di astensione, e preclude in ogni caso l'accoglimento di un'istanza di rinvio non rispettosa di quel limite, nonostante l'assenza di effetti pratici sul calcolo della prescrizione;

c) "l'autolimitazione, rispetto alla disciplina codicistica della prescrizione, risponde a specifiche scelte della categoria professionale perfettamente adeguate, e quindi congrue, ai principi costituzionali in materia di giustizia, primo tra tutti quello della ragionevole durata nel processo (sicchè in nessun modo potrebbe ipotizzarsi una disapplicazione parziale del codice sul punto)". In tale prospettiva, imperniata sulla necessità di tener concettualmente distinti il principio di ragionevole durata e la disciplina della prescrizione, la sentenza Cartia ha conclusivamente sottolineato la "perfetta razionalità e sistematicità" della normativa contenuta nel codice di autoregolamentazione, "che in definitiva sceglie di non esercitare un diritto collettivo pur astrattamente in ipotesi invocabile, quando tale esercizio dilaterebbe ulteriormente i tempi del processo (giunto ormai, a seguito dell'interferenza della disciplina sostanziale della prescrizione, alla sua conclusione), ma per ragioni non afferenti i diritti di difesa concretamente rilevanti nello specifico procedimento".

Un richiamo adesivo ai principi espressi dalla sentenza Ucciero delle Sezioni unite, ed in particolare al "valore di normativa secondaria" ivi conferito al codice di autoregolamentazione, è riscontrabile anche in altre più recenti decisioni, non ancora massimate, della Corte di cassazione.

In particolare, sul tema dell'astensione in udienze "afferenti misure cautelari", si richiamano Sez. VI, 19 settembre 2013 - dep. 26 settembre 2013, n. 39979, C.R.; Sez. II, 17 settembre 2013 - dep. 27 novembre 2013, n. 47145, F.F.; Sez. II, 17 settembre 2013 - dep. 19 settembre 2013, n. 38684, D.P.M.. Con riferimento, invece, a dichiarazioni di astensione da udienze di legittimità in processi per reati destinati a prescriversi entro i successivi novanta giorni, si richiamano Sez. II, 18 settembre 2013 - dep. 19 dicembre 2013, n. 51412, V.G.; Sez. II, 18 settembre 2013 - dep. 19 dicembre 2013, n. 51412, M.C.R..

2.2. L'indirizzo contrario sulla necessità di bilanciamento tra diritto all'astensione ed esigenze di giustizia: la rimessione della questione alle Sezioni unite.

La ricostruzione sistematica fin qui delineata del fenomeno dell'astensione dei difensori dalle udienze, per l'adesione alle agitazioni proclamate dagli organismi di categoria, non risulta peraltro unanimemente condivisa nella giurisprudenza di legittimità.

Viene in rilievo, anzitutto, una sentenza della Seconda sezione che ha preceduto di pochi giorni l'intervento delle Sezioni unite (Sez. II, 19 aprile 2013 - dep. 24 maggio 2013, n. 22353, Di Giorgio, Rv. 255937), e che è giunta - pur facendo anch'essa riferimento alla sentenza n. 171 della Corte costituzionale - a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle evidenziate nel paragrafo precedente.

Muovendo dal presupposto per cui la "libertà" di astensione (non riconducibile al diritto di sciopero di cui all'art. 40 Cost., ma al diverso ambito del diritto di associazione ex art. 18) trova un limite "nei diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione giudiziaria e, cioè, nel diritto di azione e di difesa di cui all'art. 24 Cost. e nei principi di ordine generale che sono posti a tutela della giurisdizione inclusa la ragionevole durata del processo", la Corte ha sostenuto la necessità di riconoscere, al giudice procedente, il potere di bilanciare i valori in conflitto e quindi di far recedere la "libertà sindacale di fronte a valori costituzionali primari". In tale valutazione, ad avviso della Corte, il giudice "non è legato dai principi fissati dall'avvocatura per autodisciplinare l'astensione", dovendo piuttosto "autonomamente procedere al bilanciamento degli interessi in gioco in quanto il cod. di autoregolamentazione è un atto che vincola i soli associati". Poste tali premesse, la Corte ha ritenuto immune da censure la reiezione, da parte del giudice di merito, di un'istanza di astensione formulata dal difensore di un'imputata sottoposta alla misura cautelare di cui all'art. 282 ter cod. proc. pen.: né, per la sentenza, poteva conferirsi rilievo alle disposizioni del codice di autoregolamentazione, in quanto il giudice procedente, "nel bilanciare gli interessi in gioco, ha insindacabilmente ritenuto di dover dare la prevalenza all'interesse dell'imputata - sottoposta ad una misura coercitiva - ad un celere processo a fronte del diritto del difensore ad astenersi dall'udienza". Per un'impostazione analoga, v. in precedenza Sez. II, 29 maggio 2009 - dep. 12 giugno 2009, n. 24533, Frediani, Rv. 244785, secondo cui "il giudice nel valutare le circostanze che, rendendo urgente la trattazione, impediscono l'accoglimento di una richiesta di rinvio del dibattimento motivata dall'adesione all'astensione dalle udienze proclamata dalla categoria, non è legato dai principi fissati dall'avvocatura per autodisciplinare l'astensione medesima, ma deve autonomamente giudicare tenendo conto delle molteplici variabili che condizionano un simile giudizio" (in tale prospettiva, la Corte ha ritenuto corretta la reiezione di un'istanza di rinvio per adesione all'astensione di un processo che, pur prossimo alla prescrizione, non rientrava nei limiti temporali individuati, all'uopo, dall'art. 4 del codice di autoregolamentazione).

Come già accennato in premessa, la questione del valore da attribuire al codice di autoregolamentazione è stata, da ultimo, rimessa alle Sezioni unite dalla Quinta sezione, con ordinanza 21 novembre 2013 - dep. 20 dicembre 2013, n. 51524, Lattanzio, relativa ad una fattispecie in cui il giudice di merito, nel rigettare un'istanza difensiva di rinvio per adesione all'astensione, aveva motivato la propria decisione adducendo la necessità di escutere un teste che, per deporre, aveva affrontato un lungo viaggio. Dopo aver delineato i contorni dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale intervenuta in materia, la Quinta sezione ha posto in evidenza la necessità di definire "l'esatto ambito di operatività e cogenza della normativa autoregolamentare emanata in attuazione della L. 146/90", sottoponendo quindi alle Sezioni unite il seguente quesito: "Se, anche dopo l'emanazione del codice di autoregolamentazione dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, permanga il potere del giudice - in caso di adesione del difensore all'astensione proclamata dall'associazione di categoria - di disporre la prosecuzione del giudizio in presenza di esigenze di giustizia non contemplate dal codice suddetto".

3. Astensione dalle udienze a partecipazione non necessaria del difensore: una innovativa pronuncia.

L'esposizione dei più significativi arresti giurisprudenziali in tema di astensione dei difensori dalle udienze non può prescindere da un richiamo ad una recentissima pronuncia (Sez. VI, 24 ottobre 2013 - dep. 17 gennaio 2014, n. 1826, S., in corso di massimazione) intervenuta - con impostazione e conclusioni decisamente innovative - su una tematica strettamente collegata a quella fin qui presa in considerazione: la possibilità di esercitare il diritto di astensione nell'udienza camerale di trattazione del giudizio abbreviato in grado di appello di cui all'art. 599 cod. proc. pen., e nelle altre udienze camerali (quale ad es. quella prevista dall'art. 409, comma secondo) in cui il codice di rito non contempla la partecipazione necessaria del difensore.

La sentenza prende le mosse dall'orientamento, del tutto consolidato in giurisprudenza, che esclude la possibilità di accogliere l'istanza di rinvio per l'adesione dell'avvocato all'agitazione di categoria, non trovando applicazione, in tali udienze, la disciplina sul legittimo impedimento del difensore di cui all'art. 420 ter cod. proc. pen. (in tal senso v. per tutte Sez. V, 26 luglio 2010, n. 36623, Borra, Rv. 248435). Si evidenzia, peraltro, che la riconduzione di tale fattispecie alla categoria del legittimo impedimento risulta non condivisibile, sia alla luce degli interventi della Corte costituzionale (sent. n. 171 del 1996) e del legislatore (legge n. 83 del 2000), in forza dei quali l'astensione degli avvocati, pur non costituendo espressione del diritto di sciopero di cui all'art. 40 Cost., si configura come la manifestazione di un diritto di libertà derivante direttamente dall'art. 18 Cost.; sia anche avuto riguardo all'evoluzione giurisprudenziale registratasi in tema di sospensione del corso della prescrizione, essendo ormai pacifico che, in caso di astensione, non si applica il limite massimo di sessanta giorni di cui all'art. 159 cod. pen., dal momento che la richiesta di rinvio, pur tutelata dall'ordinamento, non costituisce "impedimento in senso tecnico" (v. ad es. Sez. IV, 29 gennaio 2013 - dep. 7 marzo 2013, n. 10621, M., Rv. 256067; sul punto, v. anche supra, par. 3).

Viene quindi in evidenza, per la sentenza in esame, una vera e propria "discrasia interpretativa", posto che "da un lato, vista dalla prospettiva del termine di sospensione della prescrizione, l'astensione viene configurata come un "diritto al rinvio", escludendo espressamente che rientri nell'ambito di un legittimo impedimento; dall'altro lato, l'irrilevanza dell'astensione nei procedimenti camerali a partecipazione eventuale ex art. 127 c.p.p., compresi quelli di cui all'art. 599 c.p.p., viene giustificata proprio con riferimento alla mancata previsione del legittimo impedimento del difensore".

Tale discrasia deve essere superata, secondo la Sesta sezione, ponendo mente alla disciplina introdotta dal legislatore del 2000, sotto la "spinta" della Corte costituzionale, al fine di bilanciare "gli spazi di libertà" (di cui è espressione l'astensione dalle udienze) ed il buon andamento dell'amministrazione della giustizia. In particolare, con la fissazione di obblighi di preavviso e di un ragionevole limite temporale, e con la previsione di codici di autoregolamentazione (la cui idoneità deve essere valutata dalla Commissione di cui alla l. n. 146 del 1990), l'astensione "ha ormai acquisito una piena legittimazione nel nostro ordinamento giuridico quale diritto di libertà sindacale, il cui esercizio resta subordinato ad una serie di regole e limiti, che sono stabiliti dalla legge, integrata dai codici di autoregolamentazione che siano valutati conformi alla legge stessa. Una volta che tali regole risultano osservate, il giudice non può che accogliere la richiesta di differimento dell'udienza formulata dal difensore che dichiari di aderire all'astensione collettiva, a condizione che sia stata proclamata a norma di legge".

La fondatezza di tali conclusioni, ad avviso della sentenza, deve ritenersi corroborata dai principi affermati dalle Sezioni unite nella sentenza Ucciero (cfr. supra, par. 2) in ordine alla valenza da attribuire al vigente codice di autoregolamentazione degli avvocati, che all'art. 3 disciplina le modalità di presentazione dell'istanza di astensione "all'udienza o all'atto di indagine preliminare o a qualsiasi altro atto o adempimento per il quale sia prevista la sua presenza, ancorchè non obbligatoria". Del resto, il diritto di astenersi risultava espressamente contemplato anche nella regolamentazione provvisoria dettata nel 2002 - in mancanza di un codice di autoregolamentazione ritenuto idoneo - dalla Commissione di garanzia con apposita delibera, ai sensi della l. n. 83 del 2000: si prevedeva infatti che, "per le udienze che possono celebrarsi anche in assenza del difensore, questi, qualora intenda astenersi, deve darne comunicazione all'autorità procedente" (cfr. art. 3, comma 4, del. 4 luglio 2002).

  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • responsabilità
  • sequestro di beni
  • sentenza della Corte (UE)

CAPITOLO III

LA MOTIVAZIONE

Sommario

1 La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. - 2 Il contenuto della motivazione nei provvedimenti cautelari personali. - 3 La motivazione del decreto di sequestro probatorio. - 4 Il vizio di motivazione della sentenza. - 5 L'affermazione della responsabilità dell'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio". - 5.1 Le implicazioni derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU.

1. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.

Il rilievo centrale che da sempre assume, nell'elaborazione giurisprudenziale non solo penalistica, il problema della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (in relazione, tra l'altro, alle tecniche di redazione, all'individuazione dei requisiti minimi di esaustività e completezza, alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto di questi ultimi, ecc.) non ha ovviamente bisogno di essere sottolineato in questa sede. Anche nel corso del 2013, il tema è stato affrontato da numerose interessanti pronunce, alcune delle quali saranno richiamate nelle pagine seguenti.

Il problema della motivazione sarà esaminato da una pluralità di angolazioni, ovvero con riferimento alle ordinanze in tema di misure cautelari personali, al decreto di sequestro probatorio, alla sentenza di merito.

A tale ultimo proposito, si soffermerà l'attenzione sulle problematiche connesse alla nuova formulazione dell'art. 533, comma primo, cod. pen. (introdotta dalla l. n. 46 del 2006), anche con riferimento alle indicazioni derivanti dalla Corte EDU (sentenza 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia) per l'ipotesi di riforma, in appello, della sentenza assolutoria emessa in primo grado.

2. Il contenuto della motivazione nei provvedimenti cautelari personali.

In argomento, merita anzitutto di essere segnalata la sentenza Sez. VI, 14 giugno 2013 - dep. 26 giugno 2013, n. 27928, Ferrara, Rv. 256262, la quale ha statuito che l'obbligo di motivare l'ordinanza coercitiva e quella che la conferma in sede di riesame non è assolto dalla riedizione del compendio investigativo, facendo leva su di una autoevidenza dello stesso compendio.

Nella occasione la Corte ha precisato come il Tribunale del riesame sia tenuto, innanzitutto, ad individuare la motivazione offerta dal giudice di prime cure a sostegno della sua decisione ed eventualmente - ove questa sia carente - ad integrarla, laddove ne sussistano i presupposti di fatto e di diritto.

La Corte con la sentenza in esame ha affermato che, se è legittima la motivazione per relationem da parte della ordinanza impositiva e anche di quella resa in sede di riesame, è necessario tuttavia che tale tecnica redazionale consenta, pur sempre, la individuazione nel provvedimento genetico delle ragioni in fatto e diritto commisurate all'azione cautelare proposta dall'organo dell'accusa, e, quindi, i motivi della sua condivisione da parte dell'organo del riesame, e ciò sia che non vi siano state specifiche deduzioni difensive, sia che ve ne siano state, sussistendo uno specifico obbligo di risposta da parte del Tribunale laddove esse riguardino aspetti decisivi.

In particolare, ha assunto la Corte con la sentenza in esame, quanto all'esposizione del gravi indizi di colpevolezza, che in tema di misure cautelari personali, l'obbligo di motivazione dell'ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, e, tanto più, la giustificazione conforme che intenda darne il Tribunale del riesame, non può ritenersi assolto, con la mera elencazione descrittiva degli elementi di fatto, occorrendo invece una valutazione critica ed argomentata delle fonti indiziarie, singolarmente assunte e complessivamente considerate, il cui controllo in sede di legittimità deve limitarsi a verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all'esigenza di completezza espositiva. In tale quadro, di necessaria e rigorosa giustificazione, attinente in particolare ai gravi indizi di colpevolezza, tale obbligo, secondo la Corte, non può intendersi assolto "con la mera elencazione descrittiva di elementi di fatto ovvero con la trascrizione del contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate e delle condotte percepite dalla Polizia giudiziaria, definite di "formidabile valenza", di "indubbio rilievo", senza una adeguata e pertinente sintesi logica, accompagnata dalla valutazione critica e argomentata degli indizi".

In una prospettiva in parte analoga si colloca la sentenza Sez. IV, 5 febbraio 2013 - dep. 12 febbraio 2013, n. 7031, Conti, Rv. 254937, la quale ha dichiarato la nullità, per difetto assoluto di motivazione, dell'ordinanza del Tribunale per il riesame che aveva confermato la decisione del G.i.p., con una motivazione consistita - quanto allo specifico profilo dei gravi indizi di colpevolezza, e nonostante le specifiche censure formulate sul punto dalla difesa - in una pedissequa riproduzione della corrispondente parte motivazionale dell'ordinanza applicativa della misura.

La sentenza ha anzitutto richiamato il consolidato insegnamento secondo cui "ove venga denunciato il vizio di motivazione dell'ordinanza del tribunale del riesame in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato e di controllare la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie" (in senso conforme, v. da ultimo anche Sez. IV, 29 maggio 2013 - dep. 20 giugno 2013, n. 26992, P.M. in proc. Tiana, Rv. 255460). In tale prospettiva, si è quindi evidenziato che, ovviamente, la riproduzione del testo di altro provvedimento non equivale, di per sé, ad omessa motivazione: "ma ciò sino a quando emergano comunque elementi che manifestino un'autonoma rielaborazione da parte del decidente che si avvale della particolare tecnica di redazione e soprattutto a condizione che in tal modo sia assicurata la valutazione dei rilievi mossi dalla parte ed esplicitate le ragioni per le quali si è ritenuto di disattenderle".

Diverso, ma strettamente connesso alle questioni fin qui esaminate, è poi il problema dei limiti entro cui il tribunale della libertà, investito della richiesta di riesame avverso un'ordinanza applicativa di misura cautelare connotata dalle gravi carenze motivazionali di cui si è detto, possa ed anzi debba porre rimedio a queste ultime, esercitando i propri poteri integrativi.

Su tale questione, com'è noto, persiste un contrasto giurisprudenziale nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

In particolare, secondo un primo orientamento, "il tribunale del riesame, a fronte di un difetto di motivazione del provvedimento applicativo della misura coercitiva, deve porvi rimedio con le necessarie integrazioni e non annullare il provvedimento, perché solo al giudice di legittimità è dato il potere di pronunciare l'annullamento per difetto di motivazione" (così, da ultimo, Sez. II, 30 gennaio 2013 - dep. 20 febbraio 2013, n. 8128, Wandati, non mass.; in senso conforme, tra le altre, Sez. II, 14 febbraio 2013 - dep. 18 aprile 2013, n. 17681, Lonoce, non mass.; Sez. III, 2 febbraio 2011 - dep. 15 aprile 2011, n. 15416, D'Agostino).

A tale indirizzo si contrappone, peraltro, quello secondo cui "Il potere-dovere del Tribunale del riesame di integrazione delle insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato non opera nel caso di ordinanza che si sia limitata ad una sterile rassegna delle fonti di prova a carico dell'indagato e che manchi totalmente di qualsiasi riferimento contenutistico e di enucleazione degli specifici elementi reputati indizianti" (Sez. II, 14 giugno 2012 - dep. 28 giugno 2012, n. 25513, P.M. in proc. Mazza, Rv. 253247; in senso analogo, tra le altre, v. anche Sez. VI, 24 maggio 2012 - dep. 2 luglio 2012, n. 25631, P.M. in proc. Piscopo, Rv. 254161).

3. La motivazione del decreto di sequestro probatorio.

In tema di sequestro probatorio, si registra nella giurisprudenza della Suprema Corte un vivace dibattito sulla necessità o meno che il provvedimento di sequestro del corpo di reato contenga adeguata motivazione in merito anche alle esigenze probatorie che lo giustificano.

Al riguardo, due sono gli orientamenti che si affermano.

Il primo, cui da ultimo si è conformata Sez. III, 6 marzo 2013 - dep. 21 marzo 2013, n. 13044, Del Borri, Rv. 255116, ritiene essere nullo il decreto di sequestro delle cose costituenti il corpo del reato, in difetto di idonea motivazione in ordine al presupposto della concreta finalità perseguita per l'accertamento dei fatti (in senso conforme: Sez. II,13 luglio 2012 - dep. 21 agosto 2012, n. 32941, Albanese, Rv. 253658; Sez. V, 07 ottobre 2010 - dep. 20 gennaio 2011, n. 1769, Cavone, rv. 249740).

Il secondo, di recente affermato da Sez. II, n. 31950, del 3 luglio 2013 - dep. 23 luglio 2013, n. 31950, Fazzari, Rv. 255556, ritiene, invece, che il decreto di sequestro probatorio delle cose che costituiscono corpo del reato non debba essere motivato in ordine alla necessità di esso in funzione dell'accertamento dei fatti, poiché l'esigenza probatoria del corpo del reato è in re ipsa ed è, pertanto, sufficiente per la validità del provvedimento che lo stesso sia sorretto da idonea motivazione sulla sussistenza della relazione di immediatezza tra la res sequestrata ed il reato oggetto di indagine (in termini, tra le più attuali, cfr. Sez. IV, n. 8662, 15 gennaio 2010 (dep. 3 marzo 2010), Bettoni, rv. 246850; Sez. IV, n. 11843, 2 marzo 2010, (dep. 26 marzo 2010) Bottino, rv. 247039).

La dialettica sul tema, alimentata negli anni da ripetuti arresti in una direzione e nell'altra, ha anche registrato un intervento delle Sezioni Unite (sentenza n. 5876, 28 gennaio 2004 - dep. 13 febbraio 2004, n. 5876, PC Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710-226713), secondo le quali, tra le due soluzioni interpretative, quella che richiede a pena di nullità la motivazione del decreto di sequestro in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l'accertamento dei fatti è l'unica compatibile con i limiti dettati all'intervento penale sul terreno delle libertà fondamentali e dei diritti costituzionalmente garantiti dell'individuo, qual é certamente il diritto alla "protezione della proprietà" riconosciuto dall'art. 42 Cost. e dall'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

L'argomento a sostegno della soluzione prospettata dalle Sezioni unite, è stato testualmente ripreso da ultimo dalla citata sentenza Sez. III, Borri, la quale ha osservato che il giusto equilibrio tra i motivi di interesse generale e il sacrificio del diritto del singolo al rispetto dei suoi beni, che il canone costituzionale e quello convenzionale pretendono, sarebbe altrimenti messo in irrimediabile crisi dall'opposta regola, secondo cui il sequestro probatorio del corpo del reato è legittimo tout court, indipendentemente da ogni riferimento alla concreta finalità probatoria perseguita, in tal modo autorizzandosi un vincolo di temporanea indisponibilità della cosa che, al di fuori dell'indicazione dei motivi di interesse pubblico collegati all'accertamento dei fatti di reato, viene arbitrariamente e irragionevolmente ancorato alla circostanza del tutto accidentale di essere questa cosa oggetto sul quale o mediante il quale il reato è stato commesso o che ne costituisce il prodotto, il profitto o il prezzo. E la lesione del principio di ragionevolezza e proporzionalità della misura sarebbe tanto più grave laddove si tratti di cose configurabili come corpo del reato, ma di proprietà della vittima o di terzi estranei alla condotta criminosa.

La soluzione continua, però, a non convincere altra parte della giurisprudenza di legittimità, la quale insiste nel ritenere, giustificate in re ipsa, le ragioni probatorie sottese al sequestro del corpo di reato.

In particolare, la già menzionata sentenza Sez. II, Fazzari, nel dichiarato sforzo di vincere il diverso e assolutamente prevalente orientamento che fa capo alle Sezioni Unite del 2004 (vd. supra), ha offerto una serie di ulteriori ed interessanti spunti di riflessione a sostegno della fondatezza dell'orientamento sostenuto.

Nello specifico, i Giudici della pronunzia in esame ritengono necessario, per un più corretto inquadramento della questione, prendere le mosse dal dato letterale della norma, l'art. 253 del codice di rito, che stabilisce al primo comma: "l'Autorità Giudiziaria dispone con decreto motivato il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti", al secondo comma: "sono corpo del reato le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo".

La premessa sul dato normativo consente alla Corte di osservare che già dal testo letterale della legge, risulta, anche da un punto di vista grammaticale, che, in tema di sequestro probatorio, "necessarie per l'accertamento dei fatti", sono solo le cose pertinenti al reato; in tal caso, solo se ed in quanto necessarie a fini probatori, determinate cose potranno essere qualificate come "pertinenti al reato" e, dunque, essere oggetto del procedimento di sequestro. Dette valutazioni non sono, al contrario, richieste per il "corpo del reato", e, quindi, per le cose individuate dal legislatore, nel secondo comma dell'art. 253 c.p.p.; per esse, invero, il rapporto con il reato non è mediato dalla finalità della prova, ma è immediato, tant'è che in via generale ne è prevista la confisca.

Ne consegue, secondo il ragionamento in esame, che in tema di misure cautelari reali, è obbligatorio il sequestro penale del corpo del reato che mira a sottrarre all'indagato tutte le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto e il prezzo. Di contro, è facoltativo e presuppone la tutela delle esigenze probatorie il sequestro delle cose pertinenti al reato.

Precisano, pur tuttavia, i giudici che se è vero che, nel provvedimento di sequestro del corpo di reato, non è necessario offrire la dimostrazione della necessità del sequestro in funzione dell'accertamento dei fatti, atteso che la esigenza probatoria del corpus delicti è in re ipsa, è altrettanto vero che, ai fini della qualificazione come corpo di reato delle cose in sequestro, il provvedimento deve dare concretamente conto della relazione di immediatezza descritta nel comma secondo dell'art. 253 c.p.p. tra la res e l'illecito penale". Ne consegue che nel provvedimento di sequestro probatorio del corpo di reato non è sufficiente la mera indicazione delle norme di legge violate, ma occorre anche che sia individuato il rapporto diretto tra cosa sequestrata e delitto ipotizzato e che, quindi, siano descritti gli estremi essenziali di tempo, di luogo e di azione del fatto, in modo che siano specificati gli episodi in relazione ai quali si ricercano le cose da sequestrare.

Può conclusivamente osservarsi che l'ulteriore problema della possibilità di integrare, in sede di riesame, la motivazione del decreto di sequestro che risulti carente in ordine alle finalità probatorie sottese al provvedimento, viene diversamente risolto dalla giurisprudenza a seconda dell'opzione per l'uno o l'altro degli indirizzi interpretativi in precedenza illustrati.

In particolare, da un lato, la più volte richiamata sentenza delle Sezioni unite n. 5876 del 2004 ha chiarito che "qualora il pubblico ministero non abbia indicato, nel decreto di sequestro a fini di prova, le ragioni che, in funzione dell'accertamento dei fatti storici enunciati, siano idonee a giustificare in concreto l'applicazione della misura e abbia persistito nell'inerzia pure nel contraddittorio del procedimento di riesame, il giudice di quest'ultimo non è legittimato a disegnare, di propria iniziativa, il perimetro delle specifiche finalità del sequestro, così integrando il titolo cautelare mediante un'arbitraria opera di supplenza delle scelte discrezionali che, pur doverose da parte dell'organo dell'accusa, siano state da questo radicalmente e illegittimamente pretermesse" (in senso analogo, tra le altre, v. Sez. IV, 10 luglio 2007 - dep. 28 settembre 2007, n. 35708, Bedda, Rv. 237459; Sez. III, 5 giugno 2007 - dep. 12 ottobre 2007, n. 37837, Grande, Rv. 237926).

A tale indirizzo si contrappone, peraltro, quello secondo cui "in tema di sequestro probatorio, l'eventuale incompletezza del provvedimento impugnato (nella specie, per la non compiuta indicazione delle esigenze probatorie) può essere sanata dal Tribunale del riesame, che ha l'obbligo di verificare l'effettiva sussistenza dei requisiti per la sua emissione e, in caso positivo, di procedere all'integrazione della motivazione carente" (così da ultimo Sez. VI, 22 gennaio 2013 - dep. 6 febbraio 2013, n. 5906, P.M. in proc. Costanzo Zammataro, Rv. 254900. Nello stesso senso, v. Sez. I, 15 aprile 2003 - dep. 10 giugno 2003, n. 25122, Cafarelli, Rv. 224696).

4. Il vizio di motivazione della sentenza.

Nel corso dell'anno 2013 la Suprema Corte ha affrontato, con più pronunce, la tematica relativa al sindacato di legittimità sulla sentenza di appello per vizi attinenti alla motivazione, esaminando in particolare lo specifico aspetto della mancanza di motivazione, previsto dall'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen..

In primo luogo, con la sentenza Sez. VI, 7 marzo 2013 - dep. 18 aprile 2013), n. 17912, Adduci ed altri, Rv. 255393, la Corte, pur richiamando in via preliminare il principio codificato dall'art. 546 cod. proc. pen., secondo cui la motivazione ben può consistere in una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione, ha altresì precisato, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità (cfr. in particolare, Sez. VI, giugno 2010 - dep. 27 luglio 2010, n. 29638, Lo Bianco, non mass. e Sez. VI, 21 novembre 2012 - dep. 20 dicembre 2012, n. 49754, Casulli, Rv. 254102), che il giudice di appello ha, comunque, l'obbligo di confrontarsi con gli elementi di fatto richiamati dall'appellante e con le ragioni di diritto dal medesimo addotte nonché il dovere di argomentare circa la fondatezza del proprio convincimento e, per contro, sull'inconsistenza e non pertinenza delle doglianze difensive.

La motivazione della sentenza d'appello dovrà dunque dimostrare di avere sottoposto a rinnovato ed autonomo vaglio critico i punti della decisione devolutigli, consentendo così alle parti ed al giudice di legittimità la verifica logica del ragionamento svolto e del percorso giustificativo della rinnovata valutazione. La Corte ha in tal modo definito la portata della funzione di controllo ad essa attribuita, escludendo che possa essere limitata all'accertamento dell'esistenza di una motivazione minima, "una sorta di quanto basta indeterminato e, perciò, mutevole arbitrariamente, a seconda dei casi", che la ridurrebbe ad una mera difesa della decisione gravata; imponendosi viceversa un rigoroso scrutinio logico e giuridico volto a verificare la congruità e la completezza dell'intero apparato argomentativo della motivazione.

Muovendo da tale impostazione esegetica, la pronuncia in esame ha riaffermato l'ammissibilità della motivazione per relationem (cfr. Sez. III, 13 maggio 2010 - dep. 24 giugno 2010, n. 24252, O., Rv. 247287, e Sez. VI, 12 febbraio 2009 - dep. 19 marzo 2009, n. 12148, Giustino, Rv. 242811), effettuata mediante il rinvio alle corrispondenti parti della sentenza di primo grado, purché l'appellante si sia limitato alla mera riproposizione di questioni di fatto o di diritto già espressamente ed adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, ovvero abbia formulato deduzioni superflue, non pertinenti, generiche o manifestamente infondate. A fronte, viceversa, di nuove e puntuali censure alle soluzioni adottate dal giudice di primo grado, il giudice di appello dovrà procedere ad una revisione critica della precedente pronuncia alla stregua degli argomenti svolti dall'appellante, incorrendo nel vizio di carenza di motivazione qualora si limitasse a reiterare in termini acriticamente adesivi la motivazione della sentenza impugnata.

La motivazione per relationem risulta pertanto legittima esclusivamente quando sia integrata con la risposta ai rilievi critici formulati dall'appellante, mentre la mera riproposizione del contenuto argomentativo della pronuncia di primo grado, in mancanza di controdeduzioni, deve ritenersi inadempiente all'obbligo di dar conto delle ragioni della decisione imposto dall'art. 111 della Costituzione.

La pronuncia, conclusivamente, applicando gli enunciati principi allo specifico caso sottoposto al suo esame, caratterizzato da una pluralità di reati contestati in concorso, in relazione ai quali la diversa scelta del rito aveva condotto a percorsi processuali differenziati, ha evidenziato che in tali casi sussiste a carico del giudice di appello l'obbligo di procedere ad un ulteriore sforzo giustificativo, al fine di evitare che aspetti determinanti della complessa vicenda penale, essenziali ai fini di una esatta ed esaustiva ricostruzione dei fatti, seppure oggetto di separato giudizio, vengano dati per verificati, lasciando zone d'ombra prive di adeguato riscontro giustificativo nel corpo motivazionale, nonostante le specifiche censure proposte nei motivi di appello.

Sempre in tema di carenza di motivazione, la Corte di legittimità con le sentenze Sez. V, 24 ottobre 2012 - dep. 20 febbraio 2013, n. 8343, E. ed altri, Rv. 254651, e Sez. VI, 5 dicembre 2012 - dep. 10 gennaio 2013, n.1269, Marrone e altri, Rv. 254227, ha affrontato il fenomeno, di recente manifestazione, della pedissequa riproduzione del contenuto di altro provvedimento, effettuata mediante il ricorso alla tecnica informatica del copia-incolla.

In particolare, la sentenza Sez. V, E. ed altri, ha affermato che è illegittima la motivazione del giudice di appello che, trascurando ogni valutazione in merito alla motivazione della sentenza impugnata, si limiti a trasporre intere pagine di provvedimenti adottati nel corso della fase delle indagini preliminari. Nella specie, in particolare, è stata rilevata l'abnormità del provvedimento decisorio che, riportando testualmente stralci dell'ordinanza di custodia cautelare e delle trascrizioni di intercettazioni telefoniche, sia venuto meno alla sua funzione di revisio prioris istantiae, vanificando del tutto il senso e lo scopo del doppio grado di giurisdizione. La Corte ha precisato che tale metodologia motivazionale non è nemmeno riconducibile al paradigma della motivazione per relationem, atteso che la motivazione del provvedimento applicativo della misura cautelare in quanto fondato sulla valutazione di gravi indizi di colpevolezza è del tutto inidonea rispetto alle esigenze di giustificazione di una sentenza di appello.

Con particolare riferimento, poi, all'ipotesi di motivazione fondata sulla mera trascrizione di intercettazioni telefoniche in assenza di alcuna valutazione critica idonea a spiegarne la valenza probatoria, la Corte con la sentenza Sez. VI, Marrone e altri, ne ha escluso la legittimità, riaffermando i criteri ermeneutici sopra richiamati pur mitigandone la portata nel caso in cui la " chiarezza della conversazione e linearità della vicenda in oggetto consentano di affermare l'autoevidenza della prova stessa".

5. L'affermazione della responsabilità dell'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio".

La regola di giudizio "dell'oltre ogni ragionevole dubbio", introdotta formalmente dall'art. 5 della legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell'art. 533 del codice di procedura penale con la seguente disposizione: "il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio" è direttamente connessa al vizio di motivazione della sentenza.

Tale principio impone al giudice di procedere ad un completo esame degli elementi di prova rilevanti e di argomentare adeguatamente circa le opzioni valutative della prova, giustificando, con percorsi razionali idonei, che non residuino dubbi in ordine alla responsabilità dell'imputato. L'inosservanza della regola dell'al di là di ogni ragionevole dubbio, lasciando spazio all'incertezza ed implicando una sentenza non pienamente e razionalmente motivata in punto di colpevolezza, si traduce inevitabilmente in un vizio di motivazione. Secondo l'opinione comunque prevalente in giurisprudenza, la modifica legislativa introdotta con la novella anzidetta non ha avuto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità dell'imputato. La novella, dunque, non avrebbe inciso sulla funzione di controllo del giudice di legittimità che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l'impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.

In tal senso si è espressa nel corso dell'ultimo anno Sez. V, 28 gennaio 2013 - dep. 6 marzo 2013, n. 10411, Viola, Rv. 254579, la quale - precisando che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità (cfr. sul punto Sez. I, 24 ottobre 2011 - dep. 11 novembre 2011, n. 41110, Javad, Rv. 251507) - ha comunque escluso che il principio in esame abbia mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, volto ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione necessariamente unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo in ogni caso la sua valutazione sconfinare nell'ambito del giudizio di merito (negli stessi termini si erano già pronunciate Sez. I, del 28 giugno 2006 - dep. 13 settembre 2006, n. 30402, Volpon, Rv. 234374; Sez. IV, 12 novembre 2009 - dep. 17 dicembre 2009, n. 48320, Brusco, Rv. 245879 e Sez. 6, 24 marzo 2006 - dep. 20/04/2006, n. 14054, Strazzanti, Rv. 233454). In buona sostanza, secondo la sentenza Viola, "il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio non può certo valere a far sì che sia la Cassazione a valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emersa nella sede del merito e segnalata dalla difesa, una volta che tale eventuale duplicità sia stata il frutto di un'attenta e completa disamina da parte del giudice dell'appello, il quale abbia operato una scelta, sorreggendola con una motivazione rispettosa dei canoni della logica e della esaustività." Nei medesimi termini, circa la portata del principio, si è pronunciata Sez. II, 9 novembre 2012 - dep. 13 febbraio 2013, n. 7035, De Bartolomei, Rv. 254025, secondo cui "la previsione normativa della regola di giudizio dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio", che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell'imputato. (Conf. nn. 7036, 7037, 7038, 7039, 7040/2013)." La Corte, in linea con le precedenti pronunce sul punto (cfr. Sez. II, 21 aprile 2006 - dep. 7 giugno 2006, n. 19575, Serino ed altro, Rv. 233785 e Sez. II, 2 aprile 2008 - dep. 18 aprile 2008, n. 16357, Crisiglione, Rv. 239795) ha osservato che la regola di giudizio in esame, già prima della novella del 2006 era rinvenibile nel nostro ordinamento, giacché anche in precedenza, "il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2.".

Va rilevato, altresì, che la regola di giudizio in esame non può essere interpretata nel senso che in presenza di una sentenza di proscioglimento in primo grado non sarebbe più logicamente concepibile una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio in appello, giacché siffatta interpretazione si porrebbe in contrasto, non solo con il sistema che ammette il doppio grado di giudizio di merito e quindi la possibilità del ribaltamento del primo giudizio, ma anche con la ritenuta illegittimità costituzionale da parte del Giudice delle leggi dell'esclusione dell'impugnabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero (sentenza n. 36 del 2007 della Corte costituzionale). Sarà tuttavia indispensabile, in tal caso, una motivazione capace di confutare gli argomenti del primo giudice e conseguentemente una sentenza di condanna sarà legittima, escludendosi il difetto di motivazione, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., unicamente quando l'imputato risulti colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Questa è la linea interpretativa seguita negli ultimi anni dalla giurisprudenza di legittimità e ribadita dalle pronunce più recenti.

Si segnala, in particolare, Sez. VI, 10 ottobre 2012 - dep. 10 gennaio 2013, n. 1266, Andrini, Rv. 254024, che ha riaffermato il principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo il quale la sentenza di appello che riforma il giudizio assolutorio deve confutare specificamente, a pena di vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Si è inoltre precisato che "il principio secondo cui il giudizio di condanna è legittimo se l'imputato risulta colpevole ... al di là di ogni ragionevole dubbio, (art. 533 cod. proc. pen., comma 1, come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 5), implica che, in mancanza di elementi sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel processo d'appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente l'errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d'appello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull'affermazione di colpevolezza. Non basta più per la riforma di un'assoluzione una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far cadere "ogni ragionevole dubbio", in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza" (così anche Sez. VI, 3 novembre 2001 - dep. 7 novembre 2011, n. 40159, Galante, Rv. 251066 e Sez. VI, 26 ottobre 2011 - dep. 09 febbraio 2012, n. 4996, Abbate, Rv. 251782).

Il principio è stato ribadito da Sez. II, del 8 novembre 2012 (dep. 14 marzo 2013), n. 11883, Berlingeri, Rv. 254725, secondo cui "nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio". In termini del tutto adesivi si è poi pronunciata Sez. VI, del 24 gennaio 2013 - dep. 21 febbraio 2013, n. 8705, Farre, Rv. 254113, secondo la quale "nel giudizio di appello, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio". Di conseguenza, la motivazione che sia priva di tali requisiti viola la regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio introducendo un difetto di motivazione sotto il profilo del "vizio dell'apparenza".

Da ultimo giova evidenziare che l'applicazione della regola di giudizio dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio" è stata ritenuta efficace dalla Corte anche per l'affermazione della responsabilità ai fini civili che venga dichiarata nel processo penale. In tal senso si sono espresse Sez. VI, 11 giugno 2013 - dep. 13 settembre 2013, n. 37592, Monna, Rv. 256332; Sez. V, 17 gennaio 2013 - dep. 20 febbraio 2013, n. 8361, Rastegar, Rv. 254638 nonchè Sez. VI, 19 dicembre 2012 - dep. 11 gennaio 2013, n. 1514, Crispi, Rv. 253940. Tale ultima pronuncia ha sul punto inoltre precisato che questa conclusione trova il suo fondamento in particolare nell'art 573 cod. proc. pen. il quale dispone che "l'impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale".

5.1. Le implicazioni derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU.

La sentenza Sez. VI, Farre, citata nella parte conclusiva del precedente paragrafo, riveste un particolare interesse, in quanto, per la prima volta, la sussistenza di un onere motivazionale particolarmente rigoroso, a carico del giudice di appello che emetta una sentenza di condanna in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, è stata sostenuta anche sulla base dei principi espressi, in tema di processo equo, in una recente e nota pronuncia della Corte EDU.

Al riguardo, la sentenza Sarre evidenzia in particolare che "anche i più recenti orientamenti della Corte EDU (tra cui si evidenzia la sentenza 5.7.2011. Dan c. Moldavia, in particolare i paragrafi 32 e 33 con l'affermazione che quando la decisione di prima condanna in grado di appello si fonda sul diverso apprezzamento di una prova orale determinante per la decisione, questa deve "in linea di massima" prima essere riassunta davanti al medesimo giudice d'appello) concorrono (e con un'efficacia che va oggi valutata anche alla luce della sentenza della nostra Corte Costituzionale n. 113/2001 sull'art. 630 c.p.p.) ad una conclusione che vede la prima condanna in appello, a materiale probatorio invariato, come soluzione strutturale legittima, quindi possibile e fisiologica, ma caratterizzata da indefettibile rigore ed attenzione nell'adempimento degli obblighi e nell'osservanza delle regole anche «di sistema» del processo".

Non è questa la sede, ovviamente, per una compiuta illustrazione della sentenza Dan c. Moldavia, né per indugiare sull'ormai acquisito principio secondo cui il giudice nazionale, nell'applicare una norma interna che appaia in contrasto con una norma CEDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo), è tenuto anzitutto a verificare la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, e, in caso di esito negativo, a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna, in relazione al "parametro interposto" di cui all'art. 117 Cost. (sul punto, cfr. Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113).

Quel che invece si intende evidenziare è che, da un lato, la Corte di cassazione ha nel corso del 2012 dichiarato la manifesta infondatezza, in due distinte occasioni, di altrettante questioni di legittimità costituzionale dell'art. 603 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l'obbligatorietà della rinnovazione parziale del dibattimento, qualora si ritenga di dover riformare in peius una sentenza assolutoria: v. Sez. V, 5 luglio 2012 - dep. 2 ottobre 2012, n. 38085, Luperi Rv. 253541; Sez. II, 8 novembre 2012 - dep. 27 novembre 2012, n. 46065, Consagra, Rv. 254726. In quest'ultima pronuncia, in particolare, si è tra l'altro osservato: "È importante, a tal proposito, rilevare come il principio per cui la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado - stabilito nell'art. 603 c.p.p., comma 1 - sia subordinata ad una duplice circostanza (ossia che: a) i dati probatori già acquisiti siano incerti; b) l'incombente richiesto sia decisivo e, quindi, idoneo ad eliminare le eventuali incertezze ovvero ad inficiare ogni altra risultanza) è perfettamente coincidente e sovrapponibile con il principio di diritto enunciato dalla Corte EDU secondo il quale il giudice di appello non può decidere sulla base delle testimonianze assunte nel giudizio di primo grado limitandosi ad una mera rivalutazione - in termini di attendibilità - delle medesime (in senso peggiorativo per l'imputato) quando siano decisive."

D'altro lato, occorre sottolineare che, nella ricerca di un'interpretazione dell'art. 603 cod. proc. pen. compatibile con i principi di derivazione sovranazionale sopra illustrati, la più recente giurisprudenza di legittimità non sembra esser giunta a conclusioni univoche.

Si richiama, in primo luogo, Sez. VI, 26 febbraio 2013 - dep. 12 aprile 2013, n. 16566, Caboni, secondo cui "Il giudice di appello per riformare in peius una sentenza assolutoria è obbligato - in base all'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale solo quando intenda operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile." Nella medesima ottica ricostruttiva sembra collocarsi Sez. III, 9 luglio 2013 - dep. 15 ottobre 2013, n. 42344, Polimeno, Rv. 256856, emessa in una fattispecie in cui la Corte d'appello aveva condannato l'imputato, assolto in primo grado, valorizzando le incoerenze ed i contrasti rilevabili nelle deposizioni rese, nel giudizio dinanzi al tribunale, dai testi indicati della difesa. La sentenza ha escluso la compatibilità con l'art. 6 della condanna fondata sulla rivalutazione in senso sfavorevole all'imputato delle dichiarazioni dei testi, senza consentire a questi ultimi, attraverso la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, di chiarire le imprecisioni ed i contrasti rilevati. Il principio dell'illegittimità della condanna fondata su un diverso apprezzamento della precedente deposizione è stato ribadito, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, anche da Sez. V, 7 maggio 2013 - dep. 26 giugno 2013, n. 28061, Marchetti, Rv. 255580.

Proprio con riferimento alla persona offesa, peraltro, deve essere infine registrata l'importante distinzione tracciata in una fattispecie di violenza sessuale da Sez. III, 5 giugno 2013 - dep. 29 luglio 2013, n. 32798, N.S., Rv. 256906. Si è infatti affermato che l'art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, obbliga il giudice d'appello - che intenda riformare in peius la sentenza assolutoria di primo grado - a rinnovare l'istruttoria dibattimentale per escutere i testi a carico nel contraddittorio con l'imputato, "tranne che non ricorrano due circostanze: a) l'escussione risulti a priori superflua perché le dichiarazioni rese in primo grado non necessitino di chiarimenti o integrazioni, né sussistano contraddittorietà o ambiguità da dirimere; b) la persona da escutere non sia terza rispetto alla vicenda, ma vittima di un reato che ne ha leso gravemente e violentemente la libertà personale ed il cui effetto è stato, in misura maggiore o minore, pregiudizievole per la vittima medesima e tale da far ritenere che la rievocazione ulteriore del fatto in sede processuale possa per essa essere oggettivamente lesiva". (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto legittima la reformatio in peius di una sentenza assolutoria per il delitto di violenza sessuale, anche in assenza della escussione ex novo delle vittime del reato).

  • prova
  • concorso nel reato

CAPITOLO IV

LE PROVE

Sommario

1 La scelta degli argomenti. - 2 La chiamata in correità. - 2.1 La pronuncia delle Sezioni Unite sulla idoneità di due chiamate de relato a riscontrarsi reciprocamente. - 2.2 Le argomentazioni della sentenza delle Sezioni unite. - 2.3 La soluzione interpretativa offerta. - 2.4 La compatibilità della soluzione offerta con la normativa costituzionale ed europea. - 3 Due significative affermazioni delle Sezioni unite relative all'ambito operativo dell'art. 195 cod. proc. pen. - 4 La valutazione frazionata della chiamata in reità o in correità. - 5 La distruzione di documenti relativi a prove illegali o inutilizzabili. - 5.1 La legittimazione in via esclusiva del p.m. a chiedere la distruzione della documentazione. - 5.2 La distruzione delle intercettazioni non utilizzabili e la garanzia del contraddittorio.

1. La scelta degli argomenti.

La necessità, già più volte richiamata, di procedere ad una selezione degli argomenti più significativi ha indotto, per quanto riguarda il Libro Terzo del codice di rito, a soffermare l'attenzione, anzitutto, sull'elaborazione giurisprudenziale in tema di chiamata in correità, che, nel corso del 2013, ha registrato una tappa estremamente significativa: si allude al deposito della sentenza delle Sezioni unite sulla delicata questione relativa alla possibilità che una chiamata in reità o correità de relato sia riscontrata unicamente da un'altra dichiarazione accusatoria, anch'essa de relato. Ulteriori interessanti pronunce, inoltre, sono intervenute sul problema dei presupposti e dei limiti entro cui è possibile procedere ad una valutazione frazionata della chiamata in correità. Di tale elaborazione giurisprudenziale si darà conto nelle pagine seguenti (paragrafi 2-4).

Si è poi ritenuto di richiamare alcune decisioni concernenti un problema particolare, ma di notevole rilevanza e non privo di implicazioni concernenti principi costituzionali: la distruzione delle risultanze probatorie (documentali o scaturenti da attività di intercettazione) illegalmente formate o acquisite. Tale questione sarà esaminata nel paragrafo 5).

2. La chiamata in correità.

In relazione al tema della valutazione della chiamata in correità la giurisprudenza della Corte dell'anno 2013 non si è discostata dalla ormai consolidata metodologia cd. "a tre tempi" tracciata da Sez. un. 21 ottobre 1992 - dep. 22 febbraio 1993, n. 1653, Marino, Rv. 192465: a) credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio-economiche e familiari, dal suo passato, dai rapporti col chiamato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che lo hanno indotto all'accusa nei confronti del chiamato; b) attendibilità intrinseca della chiamata, in base ai criteri della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; c) verifica esterna dell'attendibilità della dichiarazione, attraverso l'esame di elementi estrinseci di riscontro alla stessa.

Il principio ormai assolutamente pacifico (tra le pronunzie dell'ultimo anno si veda Sez. II, 7 maggio 2013 - dep. 17 maggio 2013 n. 21171, Lo Piccolo e altro, rv. 255553), è stato ripreso anche da Sez. un., 29 novembre 2012 - dep. 14 maggio 2013, n. 20804, Aquilina ed altri, rv. 255141-255145, che hanno avuto modo di osservare, in linea ancora una volta con quanto ripetutamente affermato negli anni dalla giurisprudenza di legittimità, che la sequenza sopra richiamata non deve essere - per così dire - rigorosamente rigida, nel senso cioè che il percorso valutativo dei vari passaggi non deve muoversi lungo linee separate. In particolare, la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni altra prova dichiarativa, devono essere valutate unitariamente, "discendendo ciò dai generali criteri epistemologici e non indicando l'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria" (Sez. I, 17 maggio 2011- dep. 20 giugno 2011, n. 19759, Misseri, n. m. sul punto; Sez. VI, 13 marzo 2007 - dep. 19 marzo 2007, n. 11599, Pelaggi, Rv. 236151). In sostanza, devono essere superate eventuali riserve circa l'attendibilità del narrato, vagliandone la valenza probatoria anche alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente acquisiti.

La sequenza valutativa del dictum accusatorio del reo o dell'indagato in procedimento connesso, benché ormai cristallizzata nelle suindicate scansioni, è stata oggetto, nel 2013, di interessanti pronunzie della Suprema Corte, che hanno trattato la materia in specifici suoi passaggi ancora problematici.

Ci si riferisce, in primo luogo, alla citata sentenza delle Sezioni unite sulla idoneità di due chiamate in correità de relato a riscontrarsi reciprocamente e contenente ulteriori significative affermazioni, soprattutto, in relazione all'ambito operativo dell'art. 195 cod. proc. pen..

Saranno poi esaminate tre interessanti arresti delle Sezioni semplici (Sez. VI, 18 luglio 2013 - dep. 22 agosto 2013, n. 35327, Arena ed altri, rv. 256097; Sez. III, 24 gennaio 2013 - dep. 26 marzo 2013, n. 14084, L., Rv. 255111; Sez. I, 10 luglio 2013 - dep. 26 settembre 2013, n. 40000, Pompita ed altro), sul tema della valutazione frazionata della chiamata in correità.

2.1. La pronuncia delle Sezioni Unite sulla idoneità di due chiamate de relato a riscontrarsi reciprocamente.

Le Sezioni Unite, con la già citata sentenza Aquilina, hanno affrontato la seguente questione di diritto: "Se la chiamata in reità o in correità de relato, in assenza della possibilità di esaminare anche la fonte diretta, possa avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell'accusato, un'altra chiamata de relato". Su tale questione, il dibattito giurisprudenziale di legittimità sviluppatosi negli anni ha registrato la contrapposizione di due diversi indirizzi interpretativi.

Una prima posizione espressa da più decisioni della Suprema Corte ritiene che la chiamata in correità o in reità de relato non possa essere confortata da altra di analogo tenore; in questo senso si è espressa in particolare la sentenza Sez. V, 9 maggio 2002 - dep. 20 dicembre 2002, n. 43464, Pinto, Rv. 223544, secondo cui "La chiamata in reità de relato, affine nella struttura alla testimonianza indiretta, può costituire prova della responsabilità penale solo se sorretta da adeguati riscontri estrinseci obiettivi ed individualizzanti, in relazione alla persona incolpata e al fatto che forma oggetto dell'accusa, non essendo sufficiente il controllo sulla mera attendibilità intrinseca del collaborante (nell'affermare tale principio, la Corte ha escluso che una chiamata in reità de relato possa essere riscontrata da altra chiamata in reità anche essa de relato e, inoltre, ha ritenuto che il ritardo notevole con cui il collaborante rende le sue dichiarazioni può giustificare una valutazione negativa della genuinità delle dichiarazioni stesse)" ed ancora Sez. V, 9 luglio 2010 - dep. 19 ottobre 2010, n. 37239, Canale, Rv. 248648, secondo cui "La chiamata in reità de relato non può essere riscontrata da altra dichiarazione de relato, in quanto la ricerca di riscontri, a conferma di dichiarazioni caratterizzate da credibilità congenitamente carente, affine a quella della testimonianza indiretta, deve essere particolarmente rigorosa e può costituire prova solo se sorretta da riscontri estrinseci, obiettivi ed individualizzanti, tra i quali non sono ricomprese altre dichiarazioni indirette" e Sez. VI, 20 dicembre 2011 - dep. 7 maggio 2012, n. 16939, De Filippi, Rv. 252631, secondo cui "ai fini della valutazione della chiamata in correità, le dichiarazioni de relato rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 cod. proc. pen. e non confermate dal soggetto indicato come fonte di informazione, possono costituire elemento indiziario idoneo a fondare la dichiarazione di colpevolezza soltanto se confortate, ai sensi dell'art 192, comma terzo, cod. proc. pen., da riscontri estrinseci certi, univoci, specifici, individualizzanti, e tali da consentire un collegamento diretto ed obiettivo con i fatti contestati e con la persona imputata. Ne consegue che il riscontro ad una chiamata in reità o correità de relato non può essere integrato da un'altra chiamata dello stesso tipo priva dei suddetti riscontri, mentre plurime chiamate de relato ben possono ritenersi reciprocamente corroborate e idonee a fondare il giudizio di colpevolezza, purché sottoposte alla verifica di attendibilità, intrinseca ed estrinseca, e supportate da riscontri esterni muniti delle su indicate caratteristiche".

Un diverso indirizzo della Cassazione ritiene, invece, coerente con le regole di valutazione della prova dettate dall'art. 192 cod. proc. pen. l'idoneità, in via generale, della chiamata in correità o in reità de relato, riscontrata da altra chiamata di identica natura, a integrare la prova del giudizio di responsabilità penale, purché dette chiamate, sottoposte a penetrante vaglio critico, si rivelino intrinsecamente attendibili, convergenti, specifiche, indipendenti, vale a dire non frutto di pregresse intese fraudolente, e autonome, cioè derivanti da una fonte diretta non comune e non espressione della c.d. "circolarità della notizia". In tal senso, si sono espresse tra le altre, Sez. I, 4 aprile 2012 - dep. 29 agosto 2012, n. 33398, Madonia, Rv. 252930; Sez. I, n. 34525, 28 febbraio 2012 - dep. 11 settembre 2012, n. 34525, Farinella, Rv. 252937; Sez. I, 23 giugno 2010 - dep. 11 agosto 2010, n. 31695, Calabresi ed altri, Rv. 248013; Sez. I, 21 novembre 2006 - dep. 19 gennaio 2007, n. 1560, Missi, Rv. 235801. A sostegno della soluzione interpretativa offerta, si sottolinea, nelle decisioni che hanno affrontato ex professo il tema specifico (cfr., in particolare, la seconda delle sentenze citate), che negare rilevanza probatoria alla chiamata indiretta, riscontrata soltanto da altra chiamata della medesima natura, darebbe luogo ad una sorta di "valutazione "legale" della portata probatoria di un fatto comunque rilevante, da affidare invece al prudente apprezzamento del giudicante", in coerenza col principio del libero convincimento del giudice.

2.2. Le argomentazioni della sentenza delle Sezioni unite.

Il ragionamento offerto dalle Sezioni unite a sostegno della interpretazione offerta ha preso le mosse dall'art. 192, comma primo, cod. proc. pen., che, nella sua generica formulazione, priva di indicazioni limitatrici (il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati) assume importanza centrale nella soluzione della questione. Dalla norma in esame si ricava, invero, il principio del libero convincimento del giudice, sul quale si incentra il sistema di valutazione della prova penale, senza che detta regola generale possa essere ritenuta messa in crisi dalle previsioni contenute nei commi successivi dell'art. 192 cod. proc. pen., in cui si codifica la valutazione di dati probatori, che, isolatamente considerati, si rivelano di minore efficacia dimostrativa, quali - da un lato - gli indizi in genere e - dall'altro - quegli specifici indizi costituiti dai contributi dichiarativi di coimputati del medesimo reato, di imputati in procedimento connesso a norma dell'art. 12 cod. proc. pen. e di imputati di un reato collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen..

La selezione di linee-guida lungo le quali deve muoversi il giudice, nell'operazione intellettiva di valutazione di questa tipologia di prove, non introduce, in via indiretta, un limite negativo di prova legale a tale principio e quindi una regola di esclusione probatoria. Affida, piuttosto, al decidente, in assenza di qualunque indicazione aprioristica di segno contrario, la libertà di utilizzare anche propalazioni di chiamanti in correità o in reità prive di riscontri e legittimamente acquisite, non per inferirne la sicura sussistenza del fatto a carico dell'accusato (caso in cui è necessaria la conferma ab extra), ma nella prospettiva, per esempio, di evidenziare una trama di mendacio ordita in danno del medesimo soggetto, attinto da chiamate plurime. Si richiede, pertanto, solo, sotto il profilo metodologico, un più rigoroso sforzo nell'evidenziare l'efficacia dimostrativa di dati di per sé meno affidabili, in quanto non autosufficienti ad affermare l'altrui colpevolezza, senza minimamente incidere sulla libertà di valutazione del giudice di merito, la quale non è condizionata, come avviene in un regime di prova legale, da un esito precostituito, ma è semplicemente guidata da più pregnanti criteri "razionali" di analisi, nella prospettiva di pervenire ad un risultato logicamente apprezzabile, che non sia espressione di discrezionalità incontrollabile e connotata dei caratteri dell'arbitrio. Ciò premesso in linea generale, la pronunzia in esame affronta nello specifico la prova dichiarativa de relato, fornendone una definizione (mezzo di prova avente ad oggetto circostanze di fatto non percepite personalmente dal dichiarante, ma a costui riferite da altri e, quindi, frutto di conoscenza, per così dire, di "seconda mano") e individuando puntuali riferimenti normativi nella disciplina dei mezzi di prova attraverso i quali la stessa chiamata è veicolata nel processo. Nello specifico:

a) L'art. 210 cod. proc. pen., che, nel disciplinare l'esame dibattimentale della persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., dopo le previsioni circa la citazione, le modalità attraverso le quali deve procedersi all'esame, i diritti dell'esaminando (con particolare riferimento alla facoltà di non rispondere), stabilisce, al comma 5, che si applicano le disposizioni dettate dall'art. 195 cod. proc. pen. per la testimonianza indiretta, il che chiarisce, in maniera inequivoca, l'intenzione del legislatore del 1988 di comprendere tra i mezzi di prova indicati nel Libro III, Titolo II, Capo II del codice di rito anche la chiamata in correità o in reità de auditu effettuata da imputato in procedimento connesso, tanto da imporre le medesime cautele e limitazioni previste per la testimonianza indiretta. Disciplina, questa, che si applica anche, secondo quanto prevede il comma 6 dell'art. 210 cod. proc. pen., alle "persone imputate in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. c), o di un reato collegato a norma dell'art. 371, comma 2, lett. b)", soltanto se le medesime "non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato".

b) L'art. 197-bis cod. proc. pen. (introdotto dall'art. 6, legge 1 marzo 2001, n. 63), che, pur non richiamando, a differenza dell'art. 210 cod. proc. pen., l'art. 195 cod. proc. pen., non rende inapplicabile quest'ultima disposizione, il cui espresso richiamo sarebbe stato pleonastico, considerato che il teste assistito è un vero e proprio testimone e quindi soggiace, sia pure con un peculiare regime di assunzione e valutazione dei relativi dicta, alle regole dettate per la testimonianza indiretta.

c) L'art. 209 cod. proc. pen., dettante le regole per l'esame delle parti, che, per espressa indicazione, esclude l'applicabilità delle regole della testimonianza indiretta all'imputato, previsione questa giustificata, nella Relazione al Progetto preliminare del codice, dall'esigenza, data la peculiare posizione dell'imputato, di "acquisire tutto quanto sia venuto a sua conoscenza anche per via indiretta" (p. 64). Osserva la Corte che la lettera della norma desta, in verità, non poche perplessità circa la sua razionalità e la parità di trattamento con l'analoga situazione in cui l'imputato, non giudicato cumulativamente ai suoi coimputati, sia esaminato ex art. 210 cod. proc. pen. nel procedimento connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.; ciò perché finisce, almeno in apparenza, per sottrarre a qualsiasi verifica i dicta de relato eteroaccusatori del predetto soggetto e per rendere irragionevolmente non operativa la causa di inutilizzabilità prevista dall'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. e persino quella di cui al comma 7 della stessa norma (rifiuto od omessa indicazione della fonte diretta). E' evidente quindi un possibile contrasto con l'art. 3 della Carta Fondamentale. Una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 209 cod. proc. pen. induce la Corte a ritenere, come sostenuto da autorevole dottrina, che quando l'imputato non si limiti a parlare della propria responsabilità ma riferisca circostanze di fatto confidategli da terzi in relazione all'altrui responsabilità andrebbe equiparato, in via analogica, al soggetto indicato dall'art. 210 cod. proc. pen., con conseguente applicazione delle regole di cui all'art. 195 cod. proc. pen. In sostanza, la voluntas legis di abilitare l'imputato ad enunciare, senza preclusioni di sorta, tutte le proprie conoscenze sui fatti di causa - ivi incluse quelle apprese da altri soggetti o anonime - non può che essere letta nell'ottica di valorizzare, con riferimento circoscritto alla sola posizione personale del dichiarante, la finalità squisitamente difensiva connessa alla natura giuridica dell'esame dibattimentale. Ciò non toglie, però, che la dichiarazione de relato contra alios resta pur sempre un tema di prova che non può essere sottratto, ove ne ricorrano i presupposti, all'operatività dell'art. 195 cod. proc. pen..

Puntualizzato quanto sopra, le Sezioni unite, procedendo nella disamina, hanno escluso che l'inevitabile diffidenza verso la prova dichiarativa indiretta (definita "inoriginale") non si traduce nella collocazione della stessa in una fascia di secondo livello. Invero, un sistema ruotante intorno al principio del libero convincimento del giudice non tollera una classificazione dei tipi di prova in base ad una loro predeterminata e differenziata idoneità dimostrativa; è compatibile, invece, con una indicazione normativa circa i metodi, che possono essere diversi, di acquisizione e di verifica dei mezzi di prova, non incidendo tale indicazione sulla efficacia dei medesimi, che è astrattamente la stessa e deve essere, di volta in volta, liberamente apprezzata e valutata con riferimento al caso concreto.

La chiamata in correità o in reità de relato, in quanto contenuta nelle dichiarazioni eteroaccusatorie rese da uno dei soggetti indicati nell'art. 192, commi terzo e quarto, cod. proc. pen. (coimputato o imputato in procedimento connesso o collegato), non può allora che soggiacere ai criteri di valutazione della prova ivi previsti, nel senso che la sua attendibilità deve trovare conferma in altri elementi di prova, con conseguente accentuazione, in ossequio alla previsione di cui al comma primo dello stesso articolo, dell'obbligo di motivazione del convincimento del giudice.

La metodologia, cui il giudice di merito è chiamato a conformarsi, non può che essere quella "a tre tempi", di cui si è detto in premessa (cfr. supra, par. 1), che dovrà solo essere ancor più attenta e rigorosa in tutti i suoi passaggi, in ragione della peculiarità della prova. Nello specifico:

a) Il giudizio di attendibilità del chiamante (c.d. attendibilità intrinseca soggettiva) e della specifica dichiarazione da costui resa (c.d. attendibilità intrinseca oggettiva) impone un'indagine molto attenta anche sulla causa scientiae del dichiarante, la cui conoscenza, traendo origine dalla trasmissione di informazioni ad opera di un altro soggetto, può essere esposta a maggiori rischi di errore. Il metodo di verifica implica necessariamente uno sdoppiamento della valutazione, nel senso che occorre verificare non soltanto l'attendibilità intrinseca soggettiva ed oggettiva del dichiarante in relazione al fatto storico della narrazione percepita, ma anche l'attendibilità della fonte primaria di conoscenza e la genuinità del suo narrato, che integra l'elemento di prova più significativo del fatto sub iudice.

b) La valutazione della credibilità intrinseca delle relative dichiarazioni impone di apprezzarne la spontaneità, la coerenza, la costanza e la precisione, indagando, in particolare, proprio per il maggiore rigore valutativo imposto dalla peculiarità del caso, sulle circostanze concrete di tempo e di luogo in cui avvenne il colloquio tra il loquens e il soggetto di riferimento nonché sulla natura dei rapporti (di frequentazione e di familiarità) tra i due, sì da giustificare le confidenze, di tenore certamente compromettente, ricevute dal primo.

c) L'operazione logica conclusiva di verifica giudiziale della chiamata de relato, perché la stessa possa assurgere al rango di prova idonea a giustificare un'affermazione di responsabilità, necessita, inoltre, di "convergenti e individualizzanti riscontri esterni in relazione al fatto che forma oggetto dell'accusa e alla specifica condotta criminosa dell'incolpato, essendo necessario, per la natura indiretta dell'accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa" (Sez. un., n. 45276 del 30 ottobre 2003 - dep. 24 novembre 2003, n. 45276, Andreotti ed altro, Rv. 226090).

Le Sezioni Unite del 2013 puntualizzano, però, che il percorso valutativo appena tracciato non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale.

L'iter argomentativo seguito dai giudici delle Sezioni Unite giunge così ad affrontare il tema centrale della questione loro rimessa, relativa alla tipologia e all'oggetto dei riscontri necessari per una chiamata in correità de relato.

La risposta al quesito è ormai agevole, in quanto, premessi tutti i principi sopra esposti in ordine alla natura della prova in esame, è sufficiente per i Giudici aggiungere che la genericità dell'espressione "altri elementi di prova" utilizzata dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., legittima l'interpretazione secondo cui, in subiecta materia, vige il principio della "libertà dei riscontri", in forza del quale qualunque elemento probatorio, diretto o indiretto che sia, purché estraneo alle dichiarazioni da riscontrare, può essere legittimamente utilizzato a conferma dell'attendibilità delle stesse, purché legittimamente acquisito al processo ed idoneo, anche sul piano della mera consequenzialità logica, a corroborare, nell'ambito di una valutazione probatoria unitaria, il mezzo di prova ritenuto ex lege bisognoso di conferma.

La conclusione cui si perviene è che il riscontro estrinseco alla chiamata in correità o in reità de auditu ben può essere offerto dalle dichiarazioni di analoga natura rese da uno o più degli altri soggetti indicati nella richiamata norma.

Le previsioni di cui all'art. 192, commi terzo e quarto, cod. proc. pen., hanno inteso, dunque, evocare un parametro meramente quantitativo e non qualitativo dei riscontri, senza alcuna pretesa di una imprescindibile differenziazione di tipo ontologico dei medesimi rispetto alla prova dichiarativa da riscontrare. Non può, in sostanza, condividersi, conclude la Corte, l'affermazione secondo cui una chiamata de relato sarebbe, in linea di principio, funzionalmente inidonea a riscontrarne altra avente la stessa natura. Una tale limitazione probatoria non è legittimata da alcuna previsione del sistema processuale vigente e si pone in netto contrasto con il principio del libero apprezzamento del giudice.

L'unico dato certo, evincibile da una corretta interpretazione della previsione di cui all'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., è costituito dall'esigenza che i riscontri alle dichiarazioni ivi considerate devono essere caratterizzati dalla necessaria estraneità - nel senso di provenienza ab externo - rispetto alle dichiarazioni medesime, sì da scongiurare una verifica tautologica, autoreferenziale ed affetta dal vizio della circolarità.

Coerentemente, infine, a quanto sopra affermato sui requisiti necessari affinché un determinato elemento possa corroborare il mezzo di prova ritenuto ex lege bisognoso di conferma, la sentenza in esame esclude l'idoneità a fungere da riscontro estrinseco ed individualizzante di una chiamata in correità o in reità de relato, con cui si attribuisce all'accusato il ruolo di mandante di un omicidio, l'esistenza di un semplice interesse da parte del predetto alla commissione del delitto, precisando, la Corte, che tale elemento può spiegare, al più, una funzione orientativa nella valutazione della chiamata.

2.3. La soluzione interpretativa offerta.

Sulla base delle argomentazioni sviluppate, le Sezioni unite, in relazione alla specifica questione loro rimessa, sono addivenute all'enunciazione dei principi così massimati: "La chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purchè siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) vi sia l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse".

2.4. La compatibilità della soluzione offerta con la normativa costituzionale ed europea.

Ad esito del ragionamento svolto, i Giudici hanno osservato che la soluzione privilegiata non contrasta con gli artt. 111, comma quarto, Cost. e 6, comma 3, lett. d), CEDU, che postulano il principio del contraddittorio nel procedimento di formazione della prova. Nel caso in esame, invero, non difetta il controllo dialettico sulle prove dichiarative di seconda mano, le uniche che, in quanto legittimamente acquisite, sono utilizzabili e ben possono essere poste a base della decisione, data l'impossibilità di esaminare quelle dirette. Non si pone, pertanto, nella specie, un problema di violazione del contraddittorio, ma piuttosto di efficacia dimostrativa del citato materiale probatorio. Sotto altro profilo, la circostanza che il narrato extraprocessuale proveniente da tali fonti non entri nel circuito dialettico, ma è veicolato nel processo attraverso i relata di coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato, non si pone in contrasto con la Carta Fondamentale. Invero, l'impossibilità di esaminare la fonte originaria, perché deceduta o perché riveste la qualità soggettiva di imputato, integra quella "accertata impossibilità di natura oggettiva" prevista dal comma quinto dell'art. 111 Cost. come deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova. Non contrasta, infine, con i principi convenzionali sui diritti umani, una pronuncia di condanna che si fondi su più chiamate de auditu, che, pur non asseverate, per oggettiva impossibilità, dalle fonti dirette, siano entrate nel circuito del contraddittorio e si riscontrino reciprocamente secondo le rigorose modalità di valutazione più sopra diffusamente precisate. La giurisprudenza della Corte europea (le Sezioni unite richiamano la sentenza della Corte EDU, G.C., 15 dicembre 2011, Al Khawaja c. Regno Unito) ammette, in via eccezionale, deroghe al principio del contraddittorio, specificando che non sussiste violazione della norma convenzionale, ove venga comunque assicurata, attraverso solide garanzie procedurali, l'equità complessiva del processo, bilanciando gli interessi concorrenti della difesa, della vittima del reato e dello Stato al perseguimento del colpevole.

3. Due significative affermazioni delle Sezioni unite relative all'ambito operativo dell'art. 195 cod. proc. pen.

L'excursus argomentativo svolto dalle Sezioni unite nella sentenza sin qui esaminata contiene talune ulteriori significative affermazioni, in merito all'ambito operativo dell'art. 195 cod. proc. pen..

In particolare, si è già accennato nel paragrafo 2.4 all'ipotesi che la chiamata indiretta provenga dall'imputato nel medesimo processo nel corso del suo esame, eventualità, questa, implicitamente disciplinata dall'art. 209 cod. proc. peri., che, per espressa indicazione, esclude l'applicabilità dell'art. 195 cod. proc. pen.

I Giudici delle Sezioni Unite, dopo aver evidenziato le perplessità destate dalla norma circa la sua razionalità e la parità di trattamento con l'analoga situazione in cui l'imputato, non giudicato cumulativamente ai suoi coimputati, sia esaminato ex art. 210 cod. proc. pen. nel procedimento connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., ne offre una interpretazione costituzionalmente orientata, secondo cui quando l'imputato non si limiti a parlare della propria responsabilità, ma riferisca circostanze di fatto confidategli da terzi in relazione all'altrui responsabilità andrebbe equiparato, in via analogica, al soggetto indicato dall'art. 210 cod. proc. pen., con conseguente applicazione delle regole di cui all'art. 195 cod. proc. pen..

Altra questione esaminata dalla Corte ha riguardato l'applicabilità alla chiamata de relato dell'art. 195 comma 3 ultima parte cod. proc. pen..

Al riguardo, nella sentenza in esame, si osserva, innanzi tutto, che il principio dell'inutilizzabilità delle chiamate de relato in assenza di escussione della fonte primaria non è assoluto (si pensi al caso in cui manchi l'espressa richiesta di parte o a quello in cui il giudice non ritenga di disporre d'ufficio l'audizione della fonte primaria ovvero quando l'esame di questa risulti impossibile). Aggiungono, poi, i Giudici delle Sezioni Unite che si è progressivamente consolidato l'orientamento in base al quale, pur individuando l'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. soltanto tre ipotesi di impossibilità di esaminare l'originaria fonte della notizia (morte, infermità o irreperibilità), debba escludersi che tale elenco sia tassativo, potendo essere individuate altre previsioni di impossibilità oggettiva, assimilabili a quelli indicati dal legislatore (Sez. II, 22 marzo 2011 - dep. 3 maggio 2011, n. 17107, Cocca, Rv. 250252; Sez. IV, 12 giugno 2003 - dep. 2 ottobre 2003, n. 37434, Postiglione, Rv. 226036). Tali sono certamente i casi dell'imputato nel medesimo procedimento, dell'imputato in procedimento connesso o collegato, che non hanno l'obbligo di sottoporsi all'esame, e del teste assistito, che, nelle ipotesi tassativamente previste dall'art. 197-bis, comma quarto, e 198, comma secondo, cod. proc. pen., non ha l'obbligo di deporre.

In sostanza, affermano i giudici delle Sezioni unite, il confronto con le dichiarazioni del soggetto di riferimento è soltanto un modo - tra l'altro non l'unico né da solo sufficiente - per verificare la veridicità dei relata. Né va sottaciuto che, in caso di convergenza delle due dichiarazioni, le stesse si fonderebbero virtualmente in un'unica, non idonea di per sé a provare il fatto storico oggetto di giudizio, in quanto sarebbe comunque imprescindibile, proprio perché la notizia deriva ex unica fonte, la ricerca di ulteriori elementi estrinseci di riscontro sia di natura oggettiva che soggettiva (ciò ovviamente non vale ove la fonte primaria sia un testimone puro).

4. La valutazione frazionata della chiamata in reità o in correità.

Nella valutazione della chiamata in reità o in correità, può verificarsi che una parte del narrato venga ritenuto pienamente attendibile, a differenza di altro segmento del dictum che risulti non veritiero per ragioni intrinseche (quale potrebbe essere il difetto di logicità, di coerenza, di precisione) o desumibili aliunde, per contrasto con altre emergenze probatorie.

In tutte queste ipotesi, la giurisprudenza di legittimità, ormai consolidatasi negli anni, ha ripetutamente affermato il principio della "scindibilità" della valutazione della prova dichiarativa, tale da consentire al giudice di ritenere veritiera una parte della dichiarazione e, nel contempo, disattendere altre parti di essa. Tuttavia, in siffatte ipotesi, il giudicante deve dare conto, con adeguata motivazione, delle ragioni che lo hanno indotto a tale diversa valutazione e deve anche chiarire i motivi per i quali le conclusioni raggiunte non si risolvono in un complessivo contrasto logico-giuridico della prova. In altri termini, è lecita la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie, per cui l'inattendibilità del narrato, limitata ad una sua parte, non ne coinvolge necessariamente tutte le altre che reggano alla verifica giudiziale del riscontro.

Sul punto, tra le tante, v. Sez. I, 18 dicembre 2000 - dep. 19 gennaio 2001, n. 468, Orofino, Rv. 217820 (richiamata in numerosi arresti successivi conformi) che afferma il principio secondo cui la c.d. valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da chiamante in correità (per la quale l'attendibilità del dichiarante, anche se denegata per una parte del suo racconto, non viene necessariamente meno con riguardo alle altre parti, quando queste reggano alla verifica giudiziale del riscontro), in tanto è ammissibile in quanto non esista un'interferenza fattuale e logica fra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti che siano intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate. Detta interferenza, peraltro, si verifica solo quando fra la prima parte e le altre esista un rapporto di causalità necessaria, ovvero quando l'una sia imprescindibile antecedente logico dell'altra.

Di converso, puntualizza la Corte in motivazione nella sentenza appena citata, "la credibilità ammessa per una parte dell'accusa, non può significare attendibilità per l'intera narrazione in modo automatico: in siffatte ipotesi, il giudicante deve dare conto tuttavia, con adeguata motivazione, delle ragioni che lo hanno indotto a tale diversa valutazione, e deve anche chiarire i motivi per i quali tale diversa valutazione non si risolve in un complessivo contrasto logico-giuridico della prova dichiarativa...Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche quando la chiamata in correità nei confronti di un soggetto comprende la partecipazione del chiamato a una pluralità di episodi pure inseriti in una stessa fase, quella esecutiva, del medesimo delitto: anche in questo caso, l'accertata inattendibilità o il mancato riscontro del racconto accusatorio relativo a un singolo episodio non può estendersi meccanicamente a un diverso episodio, quando non sussista tra i plurimi fatti un rapporto di causalità necessario.

In termini pienamente conformi, Sez. VI, 20 aprile 2005 - dep. 16 febbraio 2006, n. 6221, Aglieri, Rv. 233095, così massimata: "In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, l'esclusione di attendibilità per una parte del racconto non implica, per il principio della cosiddetta "frazionabilità" della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento a quelle altre parti che reggono alla verifica del riscontro oggettivo esterno, sempre che, però, non sussista un'interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti e l'inattendibilità non sia talmente macroscopica, per accertato contrasto con altre sicure risultanze di prova, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante" e Sez. I, 17 marzo 2006 - dep. 14 luglio 2006, n. 24466, Morfò, Rv. 234412, la quale in motivazione osserva anche che nell'ipotesi di ritenuta attendibilità di una sola parte del narrato, in tanto la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti dal chiamante in correità potrà ritenersi ammissibile in quanto non esista un'interferenza fattuale e logica tra la parte del discorso ritenuta falsa o non confermata e le rimanenti parti della narrazione che siano intrinsecamente attendibili e che reggano alla verifica giudiziale del riscontro, con il logico corollario che l'interferenza fattuale tra una serie di circostanze che impedisce, una volta accertata la falsità di una componente della serie, di ammettere per vera un'altra circostanza della medesima serie, si verifica quando la prima sia collegata all'altra da un rapporto di causalità necessario, ovvero quando l'una sia imprescindibile antecedente logico dell'altra.

Non si discostano dall'ormai consolidato indirizzo anche gli arresti delle Sezioni semplici del 2013, che sottolineano, però, l'esigenza che il rigore valutativo, nell'ipotesi di frazionamento della chiamata, venga esteso alle ragioni dell'inattendibilità di talune parti del dictum.

In questo senso, Sez. VI, 18 luglio 2013 - dep. 22 agosto 2013, n. 35327, Arena, Rv. 256097, ha affermato il principio così massimato: "In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, l'esclusione dell'attendibilità per una parte del racconto non implica, per il principio della cosiddetta "frazionabilità" della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate, sempre che non sussista un'interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti e l'inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante. (Fattispecie in cui è stata annullata con rinvio la sentenza impugnata che aveva utilizzato le dichiarazioni di un collaboratore il quale aveva affermato di avere appreso propositi omicidiari maturati nel clan avverso per essere stato ammesso a riunioni riservate di questo, senza che venisse fornita alcuna spiegazione per escludere l'inverosimiglianza di tali propalazioni)". In motivazione, si sottolinea che il principio di frazionabilità non è un passepartout utile per assembleare le parti coincidenti di dichiarazioni differenti e impone un rafforzamento dell'obbligo motivazionale del giudice, non potendo egli omettere di affrontare la questione e spiegare le ragioni per cui l'inattendibilità parziale delle dichiarazioni non incide sull'attendibilità del dichiarante.

In termini ancor più rigorosi, v. Sez. III, 24 gennaio 2013 - dep. 26 marzo 2013, n. 14084, L., Rv. 255111, secondo cui: "In tema di valutazione della chiamata in correità, la verifica dell'intrinseca attendibilità delle dichiarazioni può portare anche ad esiti differenziati, purché la riconosciuta inattendibilità di alcune di esse non dipenda dall'accertata falsità delle medesime, giacché, in tal caso, il giudice è tenuto ad escludere la stessa generale credibilità soggettiva del dichiarante, a meno che non esista una provata ragione specifica che abbia indotto quest'ultimo a rendere quelle singole false propalazioni".

Sulla stessa linea di rigore valutativo, si colloca, infine, Sez. I, 10 luglio 2013 - dep. 26 settembre 2013, n. 40000, Pompita (in corso di massimazione) la quale, dopo aver ribadito, senza discostarsene, il principio della valutazione frazionata della prova ed i relativi presupposti di validità, aggiunge testualmente che per ritenere attendibile solo una parte delle dichiarazioni, oltre ad esservi un'autonomia della parte risultata attendibile nel senso sopra indicato, deve essere data una spiegazione alla parte o alle parti risultate smentite da altre emergenze processuali (per esempio con la difficoltà di mettere a fuoco un ricordo lontano; con la complessità dei fatti e la possibile confusione tra gli stessi; e persino con la scelta del dichiarante di non coinvolgere un prossimo congiunto o una persona a lui molto cara, senza ovviamente accusare un innocente) in modo da ritenere comunque sussistente il necessario requisito dell'attendibilità soggettiva del dichiarante, non essendo né giuridicamente né logicamente accettabile che il giudicante utilizzi solo una parte della dichiarazione, senza spiegare le ragioni per le quali ritiene non intaccata l'attendibilità del dichiarante.

In definitiva, specie negli ultimi due citati approdi giurisprudenziali, si rimarca l'esigenza di un rafforzato obbligo motivazionale del giudice, il quale, nell'eventuale inattendibilità di una parte del narrato, oltre a dover verificare che questo non abbia assunto rilevanza macroscopica e che riguardi segmenti "autonomi" rispetto alla sezione del fatto ricostruito risultata invece attendibile, individui la giustificazione della inattendibilità di una frazione del dictum e la ritenga tale da non inficiare la credibilità soggettiva del dichiarante.

5. La distruzione di documenti relativi a prove illegali o inutilizzabili.

Per neutralizzare gli effetti pregiudizievoli all'imputato o a terzi di acquisizioni probatorie illegali o comunque illegittime, il codice di rito appresta in una serie di ipotesi la più radicale delle soluzioni, vale a dire la distruzione dell'atto viziato, prevista dall'art. 240 comma secondo cod. proc. pen. per i documenti anonimi ed atti relativi ad intercettazioni illegali e dall'art. 271, comma terzo, cod. proc. pen., per le intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o nel mancato rispetto degli artt. 267 e 268, commi primo e terzo, cod. proc. pen. o ancora coinvolgenti le persone indicate dall'art. 200, comma primo, cod. proc. pen., quando hanno ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione.

Sul tema si registrano, nell'anno 2013, due significative pronunzie della Corte di Cassazione.

Con la prima (ord. Sez. III, 17 aprile 2013 - dep. 10 luglio 2013, n. 29433, Gardino, Rv. 255903), in tema di legittimazione a richiedere la distruzione dei documenti ed atti relativi ad intercettazioni illegali, la Corte ha affermato il principio così massimato: "Al solo pubblico ministero è riconosciuta la competenza di chiedere al gip, ai sensi dei commi secondo e ss. dell'art. 240 cod. proc. pen., la distruzione della documentazione formata attraverso la raccolta illegale di informazioni o attraverso intercettazioni illegali".

Nel secondo caso, invece, la Corte con la sentenza Sez. VI 18 aprile 2013 - dep. 22 aprile 2013, n. 18373, Ciancimino, Rv. 255162, è intervenuta con significative puntualizzazioni in relazione alla disciplina e all'ambito operativo della previsione dell'art. 271, comma terzo, cod. proc. pen., con specifico riferimento all'instaurazione del contraddittorio, affermando il principio così massimato: "In tema di distruzione della documentazione relativa ad intercettazioni di conversazioni o comunicazioni inutilizzabili, la procedura camerale nel contraddittorio tra le parti è applicabile per le ipotesi di violazione di norme processuali, mentre è preclusa nel caso in cui vi siano state violazioni di ordine sostanziale riconducibili a diritti e interessi di rilievo costituzionale".

5.1. La legittimazione in via esclusiva del p.m. a chiedere la distruzione della documentazione.

Con la citata ordinanza Sez. III, Gardino, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall'indagato avverso il provvedimento del Gip, che, contestualmente all'archiviazione del procedimento penale, aveva rigettato l'istanza della difesa di distruzione di documentazione bancaria, contenente informazioni relative a migliaia di correntisti e formata abusivamente da un ex dipendente infedele, dalla quale aveva tratto origine il procedimento stesso.

La difesa, ben consapevole del tenore letterale dell'art. 240 cod. proc. pen., aveva, in prima battuta, chiesto al P.M. di attivare la procedura di distruzione della documentazione anzidetta, senza, però, ricevere alcun riscontro, anche quando il P.M. si era determinato, ad esito delle indagini, ad avanzare richiesta di archiviazione.

Passato il fascicolo al Gip, la difesa sollecitava quest'ultimo a vagliare l'istanza non evasa dal P.M., ma il giudice, ad esito dell'udienza camerale, pur disponendo l'archiviazione del procedimento, rigettava la richiesta di distruzione della documentazione osservando che la procedura incidentale di cui all'articolo 240 c.p.p. poteva essere attivata esclusivamente all'interno del procedimento penale a carico dell'autore o utilizzatore del dossier aggio, e ritenendo che, in quella sede, la richiesta non poteva essere accolta in quanto il procedimento principale nell'ambito del quale la stessa era stata attivata concerneva non già condotte di illegale raccolta delle informazioni, bensì di infedele dichiarazione da parte di uno dei contribuenti menzionati nella lista, e nel merito mancando comunque la prova che la documentazione di cui si chiedeva la distruzione fosse stata illecitamente acquisita.

Seguiva, avverso quest'ultimo provvedimento, il ricorso in cassazione, che la Corte dichiarava inammissibile, in ragione del già richiamato principio secondo cui è il P.M. il titolare esclusivo del potere di chiedere la distruzione dei documenti o atti relativi a dati illegalmente acquisiti.

Il ragionamento della Corte prende le mosse dal tenore letterale dell'art. 240 cod. proc. pen., che individua nel Gip l'autorità giudiziaria competente a disporre la distruzione della documentazione illegalmente formata o acquisita, ma non gli riconosce un potere autonomo di intervento, che prescinda dall'iniziativa assunta dal P.M. ai sensi del comma terzo.

Il Gip, investito dalla domanda del Pubblico Ministero, deve, pertanto, entro le successive quarantotto ore, fissare l'udienza da tenersi entro dieci giorni, ai sensi dell'art. 127, dando avviso a tutte le parti interessate.

Dalla lettura della norma suindicata, osserva la Corte, oltre ad emergere lo specifico riparto di ruoli tra P.M. e Gip, si coglie come nessuna facoltà di iniziativa per ottenere la distruzione del documento sia riconosciuta alla parte diversa dal P.M..

A sostegno della bontà dell'interpretazione letterale del dato normativo, osserva la Corte che, lì dove in ipotesi analoghe il Legislatore ha inteso estendere ad altri soggetti la legittimazione a rivolgersi al giudice, vi ha provveduto espressamente.

E qui la pronunzia effettua una breve, ma assai utile, digressione, operando un raffronto tra la previsione dell'art. 240 cod. proc. pen. e la disciplina dettata per situazioni in cui pure si pone l'esigenza di evitare la compressione di diritti fondamentali dell'individuo, quali la riservatezza (artt. 269 e 271 cod. proc. pen.) o la proprietà (art. 263 cod. proc. pen.), ma dove, a differenza della previsione dell'art. 240 cit., in assenza di reali esigenze di carattere processuale, a tutti gli interessati (e non al solo P.M.) è riconosciuto il diritto di rivolgersi al giudice.

La ragione della differenza appena evidenziata e, in particolare della legittimazione del solo P.M. ex art. 240 cit., va oltre l'argomento letterale, trovando il principio affermato dalla Corte fondamento nella più generale competenza esclusiva del P.M. nell'attività di raccolta delle prove, che comprende, quale suo accessorio, anche il compito di verificare ed accertare eventuali profili di illiceità nella formazione dell'atto di cui si chiede la distruzione.

La conclusione cui è pervenuta la Corte nella sentenza in esame si armonizza con quanto, sotto altro profilo, ritenuto dalla Corte medesima sull'utilizzabilità da parte del P.M. degli atti illegalmente formati ai fini di indagine, ferma restando ovviamente la sanzionabilità in via autonoma di eventuali abusi.

Al riguardo, in due arresti conformi del 2007 (Sez. V, 13 marzo 2007 - dep. 18 aprile 2007, n. 15598, Mancini, Rv. 236402 e Sez. I, 16 novembre 2007 - dep. 5 dicembre 2007, n. 45566, Dionisi, Rv. 238143), si afferma il principio secondo cui "sono utilizzabili a fini di indagine anche i documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni, in quanto il divieto di utilizzazione disposto dall'art. 240, comma secondo, cod. proc. pen., nella versione novellata dal D.L. n. 259 del 2006, convertito nella L. n. 281 del 2006, si riferisce al loro contenuto e non esclude, pertanto, che la loro esistenza, le modalità della loro formazione e la definizione del loro contenuto come legale o illegale possano e debbano essere accertati mediante attività investigativa la quale può configurarsi come dovuta anche ai fini dell'esercizio dell'azione penale in ordine a quei reati che siano ipoteticamente riconducibili all'illegale raccolta di informazioni".

5.2. La distruzione delle intercettazioni non utilizzabili e la garanzia del contraddittorio.

Altre ipotesi di distruzione di documentazione probatoria inutilizzabile trovano autonoma e puntuale disciplina in tema di intercettazioni telefoniche, informatiche o telematiche.

Due, in questo caso, le previsioni:

La prima concerne la documentazione che risulti non necessaria per il procedimento (art. 269, comma secondo, cod. proc. pen.).

La seconda è relativa alle intercettazioni affette da una patologia tale da determinarne l'inutilizzabilità (art. 271 comma terzo cod. proc. pen.).

Nel primo caso, la norma ricorre espressamente al procedimento in camera di consiglio ex art. 127 cod. proc. pen. e riconosce la legittimazione a chiedere la distruzione a tutti coloro che siano portatori di un interesse in tal senso.

Nel secondo caso, la norma si limita, invece, ad affermare che in ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni, inutilizzabili ai sensi dei commi primo e secondo del citato articolo 271, sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato.

Nell'ipotesi di intercettazioni inutilizzabili, il legislatore non detta alcuna disciplina, ma si limita a riconoscere al giudice poteri, anche officiosi, di intervento.

La norma pone dunque grossi interrogativi sulle modalità procedurali attraverso cui pervenire alla soppressione della documentazione in oggetto e, in particolare, sulla necessità o meno di garantire il contraddittorio tra le parti in causa.

La problematica è stata affrontata dalla citata sentenza Sez. VI, Ciancimino, la quale ha fissato sul tema il principio, già richiamato in premessa, secondo cui la procedura camerale nel contraddittorio tra le parti è applicabile per le ipotesi di violazione di norme processuali, mentre è preclusa nel caso in cui vi siano state violazioni di ordine sostanziale riconducibili a diritti e interessi di rilievo costituzionale.

Prima di soffermarci sul ragionamento della Corte, è necessario, per una migliore e più chiara comprensione dello stesso, richiamare, sia pure succintamente, la fattispecie.

Trattasi di un ricorso avanzato dall'indagato avverso un'ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari aveva rigettato l'istanza di autorizzazione all'ascolto di quattro registrazioni di conversazioni telefoniche, nelle quali uno dei due interlocutori era il Presidente della Repubblica. Contestualmente il ricorrente impugnava il precedente decreto del Gip di distruzione delle predette intercettazioni.

Quest'ultimo provvedimento era stato adottato in esecuzione di una sentenza della Corte Costituzionale, che aveva risolto il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, sollevato dal Presidente della Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo che rivendicava il potere-dovere di attivare la procedura di selezione prevista dall'art.268 c.p.p., all'esito della quale avrebbe potuto essere disposta - su istanza degli interessati e nella specie, dello stesso Presidente della Repubblica, attraverso una ulteriore udienza camerale - la distruzione del materiale in questione "a tutela della riservatezza".

La Corte Costituzionale, con la decisione del 4 dicembre 2012, n. 1 del 2013 (G.U. 4 del 23/01/2013) ha risolto il conflitto dichiarando che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell'ambito del procedimento penale n. 11609/08; non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l'immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell'art. 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate.

La Cassazione, nella sentenza in esame, recependo il principio fondante enunciato dalla Consulta (obbligo per l'autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica) ha affermato che l'osservanza della decisione adottata in sede di conflitto di attribuzione è dirimente al fine di verificare l'assoluta impossibilità di qualsiasi scrutinio di impugnabilità delle statuizioni del Gip oggetto di censura.

Interessante, però, a questo punto, è comprendere il ragionamento in diritto sviluppato dai Giudici Costituzionali nella decisione assunta, in quanto costituisce l'occasione per mettere a fuoco gli ambiti operativi delle diverse previsioni del codice di rito in tema di distruzione di intercettazioni.

In particolare, il Giudice delle Leggi rileva che lo strumento processuale per giungere alla distruzione delle registrazioni viziate dal coinvolgimento in esse del Presidente della Repubblica, non può essere quello previsto dagli artt. 268 e 269 cod. proc. pen., giacché tali norme richiedono la fissazione di un'udienza camerale, con la partecipazione di tutte le parti del giudizio, i cui difensori, secondo quanto prevede il comma 6 del citato art. 268, "hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni", previamente depositati a tale fine. Anche la procedura di distruzione regolata dai commi 2 e 3 del citato art. 269 è incentrata, come questa Corte ha ribadito a suo tempo con la sentenza n. 463 del 1994, sull'adozione del rito camerale e dei connessi strumenti di garanzia del contraddittorio.

Un duplice ordine di motivi conduce ad escludere la legittimità del ricorso agli istituti processuali in questione.

In primo luogo, la cosiddetta "udienza di stralcio", di cui al sesto comma dell'art. 268 cod. proc. pen., è inconferente rispetto al caso che ha dato origine al conflitto, essendo strutturalmente destinata alla selezione dei colloqui che le parti giudicano rilevanti ai fini dell'accertamento dei fatti per cui è processo. Nel caso di specie nessuna valutazione di rilevanza è possibile, alla luce del riscontrato divieto di divulgare, ed a maggior ragione di utilizzare in chiave probatoria, riguardo ai fatti oggetto di investigazione, colloqui casualmente intercettati del Presidente della Repubblica. Quanto alla procedura partecipata di distruzione, essa riguarda per definizione conversazioni prive di rilevanza ma astrattamente utilizzabili, come risulta dalla clausola di esclusione inserita, riguardo alle intercettazioni delle quali sia vietata l'utilizzazione, in apertura del secondo comma dell'art. 269 cod. proc. pen.

È evidente d'altra parte, nella dimensione propria e prevalente delle tutele costituzionali, che l'adozione delle procedure indicate vanificherebbe totalmente e irrimediabilmente la garanzia della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica.

Esiste piuttosto un'altra norma processuale - cioè l'art. 271, comma terzo, cod. proc. pen., invocato dal ricorrente - che prevede che il giudice disponga la distruzione della documentazione delle intercettazioni di cui è vietata l'utilizzazione ai sensi dei precedenti commi dello stesso articolo, in particolare e anzitutto perché "eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge", salvo che essa costituisca corpo di reato.

Per le ragioni fin qui illustrate, le intercettazioni delle conversazioni del Presidente della Repubblica ricadono in tale ampia previsione, ancorché effettuate in modo occasionale.

I principi affermati dalla Consulta hanno consentito alla Cassazione nella successiva pronunzia qui in esame di affrontare e risolvere l'ulteriore questione, sollevata in via subordinata dalla difesa del ricorrente, relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 271, comma terzo, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la necessità ai fini della decisione della procedura ex art. 127 cod. proc. pen.

E' in questo passaggio motivazionale che la Corte, recependo quanto affermato dalla Consulta, richiama il raffronto tra le ipotesi regolamentate dagli artt. 268 e 269 cod. proc. pen., che si sviluppano attraverso la procedura camerale in contraddittorio tra le parti e la disposizione dall'art. 271, comma terzo, c.p.p., che prevede la distruzione della documentazione delle intercettazioni di cui "è vietata l'utilizzazione" senza però imporre, come si desume dal mancato richiamo all'art.127 c.p.p., la procedura camerale e il contraddittorio tra le parti.

Tali premesse consentono alla Corte di affermare che la procedura camerale nel contraddittorio tra le parti è attuabile o meno in considerazione degli interessi e dei diritti fondamentali coinvolti e, in particolare, è applicabile per le ipotesi di violazioni di norme processuali, mentre è preclusa nel caso in cui vi siano state violazioni di ordine sostanziale riconducibili a diritti e interessi di rilievo costituzionale poiché l'accesso alle parti potrebbe neutralizzare la ratio della tutela riconosciuta, secondo un modello non dissimile da quello che impone la distruzione di registrazioni riguardanti le conversazioni tra l'imputato e il suo difensore e in altre ipotesi analoghe che implicano esigenze di tutela diversificate, ma sempre riferibili a un vulnus costituzionalmente rilevante.

In definitiva dalla sentenza in esame possono trarsi, sul tema della destinazione delle intercettazioni inutilizzabili perché illegittime, le seguenti conclusioni:

a) L'art. 271 comma 3 cod. proc. pen. non prevede - ma non vieta - la procedura camerale disciplinata dall'art. 127 cod. proc. pen..

b) Il contraddittorio è garantito a seconda del "rango degli interessi coinvolti", tale per cui b1) l'inutilizzabilità causata da violazioni di norme processuali consente l'instaurazione del contraddittorio ai fini della decisione.

b2) l'inutilizzabilità, frutto di violazioni che pregiudicano diritti ed interessi di rilievo costituzionale, determina la tutela assoluta di questi ultimi, a scapito quindi anche del diritto delle parti alla garanzia del contraddittorio, che vanificherebbe la preclusione di accesso alla documentazione risultante lesiva dei supremi diritti anzidetti.

  • detenzione preventiva

CAPITOLO V - LE MISURE CAUTELARI --- Sezione I

Misure cautelari personali

Sommario

1 Le questioni trattate. - 2 Procedimento di riesame e inefficacia della misura cautelare per omesso o irrituale interrogatorio. - 3 La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare. - 4 Mancata registrazione dell'interrogatorio di imputato detenuto e inefficacia della misura cautelare. - 5 Perdita di efficacia della misura nel procedimento di riesame e interrogatorio dell'indagato prima dell'emissione del nuovo titolo cautelare. - 6 Revoca o sostituzione di misura custodiale e condizioni di salute dell'imputato. - 7 Altre decisioni rilevanti. - 7.1 La domanda cautelare. - 7.2 La nozione di "ordinanza in materia di misure cautelari". - 7.3 Il computo dei termini di durata della custodia cautelare. - 8 La riparazione per ingiusta detenzione: l'intervento delle Sezioni unite.

1. Le questioni trattate.

In materia cautelare sono state emesse, nel corso del 2013, numerosissime decisioni della Corte di cassazione, con arresti di notevole interesse sia nel settore delle misure personali, sia in quello delle misure reali. Nelle pagine seguenti, verranno richiamate le pronunce apparse di particolare interesse ed attualità.

In particolare, in questa prima sezione dedicata alle misure cautelari personali, si farà riferimento, anzitutto, ad una serie di sentenze che hanno affrontato specifici temi di indubbio rilievo, riguardanti la esatta individuazione dei limiti di operatività di moduli procedimentali di garanzia fortemente incidenti sui diritti della persona. Verranno poi richiamate alcune pronunce aventi ad oggetto tematiche più generali, ma di perdurante attualità. Da ultimo, si darà conto di un intervento delle Sezioni unite in tema di riparazione per ingiusta detenzione.

Infine, per ciò che specificamente riguarda l'assistenza difensiva nelle udienze relative alle misure cautelari, con particolare riguardo all'intervento delle Sezioni unite sulla problematica dell'astensione degli avvocati, si fa rinvio a quanto già esposto nel capitolo II della presente rassegna. Analogamente, per ciò che riguarda le questioni afferenti la motivazione dell'ordinanza cautelare, si rimanda all'esposizione contenuta nel capitolo III.

2. Procedimento di riesame e inefficacia della misura cautelare per omesso o irrituale interrogatorio.

Va segnalata l'articolata motivazione della sentenza Sez. II, 23 ottobre 2012 - dep. 30 gennaio 2013, n. 4817, Russo, Rv. 254447, che ha affermato il principio di diritto così massimato: "Nel procedimento di riesame non è deducibile, né rilevabile d'ufficio, la questione inerente all'inefficacia della misura coercitiva per asserita mancanza, tardività o comunque invalidità dell'interrogatorio previsto dall'art. 294 cod. proc. pen., a nulla rilevando che essa sia proposta unitamente ad altre questioni inerenti a vizi genetici del provvedimento impugnato, sicché la stessa non può costituire oggetto di ricorso per cassazione ex art. 311 cod. proc. pen." Con la sentenza in questione la Corte ha ricostruito l'evoluzione giurisprudenziale sulla questione relativa al se sia deducibile o rilevabile d'ufficio nel procedimento di riesame la questione inerente la inefficacia della misura cautelare coercitiva per assenza, tardività o comunque invalidità dell'interrogatorio previsto dall'art. 294 cod. proc. pen.

Si tratta di un tema sul quale le Sezioni unite, già nel 1995 (Sez. un., 5 luglio 1995 - dep. 20 luglio 1995, n. 26, Galletto, Rv. 202015) ebbero modo di chiarire che, "poiché il procedimento di riesame è preordinato alla verifica dei presupposti legittimanti l'adozione del provvedimento cautelare, e non anche di quelli incidenti sulla sua persistenza, non è consentito dedurre con tale mezzo di impugnazione la successiva perdita di efficacia della misura derivante dalla mancanza o invalidità di successivi adempimenti; ne consegue che esulano dall'ambito del riesame le questioni relative a mancanza, tardività o comunque invalidità dell'interrogatorio previsto dall'art. 294 cod. proc. pen., le quali, inerendo a vicende del tutto avulse dall'ordinanza oggetto del gravame, si risolvono in vizi processuali che non ne intaccano l'intrinseca legittimità ma, agendo sul diverso piano della persistenza della misura, ne importano l'estinzione automatica che deve essere disposta, in un distinto procedimento, con l'ordinanza specificamente prevista dall'art. 306 cod. proc. pen., suscettibile di appello ai sensi dell'art. 310 dello stesso codice".

Il principio in questione fu sostanzialmente confermato da Sez. Un., 17 aprile 1996 - dep. 3 luglio 1996, n. 7, Moni, Rv. 205255, secondo cui (pur in relazione ad una fattispecie diversa) "le cause che determinano la perdita di efficacia dell'ordinanza cautelare, secondo le previsioni contenute nel titolo primo del libro quarto del codice di procedura penale, non intaccando l'intrinseca legittimità del provvedimento, ma agendo sul piano della persistenza della misura coercitiva, devono essere fatte valere avanti al giudice di merito in un procedimento distinto da quello di impugnazione, attraverso la richiesta di revoca contemplata dall'art. 306 cod. proc. pen.; tuttavia, allorché la questione di inefficacia sia stata proposta, insieme ad altre concernenti l'originaria legittimità del provvedimento, con il ricorso per cassazione, essa deve ritenersi attratta da questo e può quindi essere direttamente esaminata dal giudice di legittimità affinché non sia ritardata la decisione de libertate che si sarebbe dovuto richiedere in altra sede".

In applicazione di detto principio la Corte ritenne di poter esaminare - respingendola peraltro per motivi diversi - la questione concernente la perdita di efficacia della misura cautelare per inosservanza del termine di cui all'art. 309, comma nono, cod. proc. pen., prospettata nel ricorso insieme a varie censure di violazione di legge, ma precisò altresì che non ci sarebbe stato spazio per il dispiegarsi della descritta vis attrattiva del ricorso proposto nel procedimento di impugnazione della misura ove, con esso, si fosse denunciata esclusivamente la sopravvenuta inefficacia del provvedimento coercitivo. (In tal senso anche Sez. un., 16 dicembre 1998 - dep. 18 gennaio 1999, n. 25, Alagni, Rv. 212072, in fattispecie nella quale la ricorrente, unitamente a censure inerenti all'ordinanza reiettiva della richiesta di riesame, lamentava la perdita di efficacia del provvedimento di custodia cautelare in carcere per effetto della mancata trasmissione al giudice del riesame di tutti gli atti di cui all'art. 291 cod. proc. pen. entro il termine di cui all'art. 309, comma quinto, dello stesso codice).

La Seconda sezione, con la sentenza in esame, dopo aver fatto riferimento all'orientamento di cui si è detto, persistente anche dopo le richiamate pronunce delle Sezioni unite (Sez. VI, 29 ottobre 2009 - dep. 3 novembre 2009, n. 42308, Mansueto, Rv. 245479; Sez. VI, 10 novembre 2009 - dep. 3 febbraio 2010, n.4683, Pispicia, Rv. 245848), ha dato atto della esistenza di altro indirizzo nomofilattico, anche risalente nel tempo, secondo cui, invece, nel procedimento di riesame non sono deducibili, ne' rilevabili d'ufficio, questioni di inefficacia della misura diverse da quelle concernenti l'inosservanza dei termini stabiliti dai commi quinto e nono dell'art. 309 c.p.p. (tra le altre, Sez. III, 10 febbraio 2010 - dep. 27 aprile 2010, n. 16386, Vidori ed altro, Rv. 246768, proprio in una fattispecie di dedotta inefficacia per nullità dell'interrogatorio di garanzia. In precedenza, nel medesimo senso, Sez. I, 9 luglio 1997 - dep. 24 settembre 1997, n. 4677, Suarino, Rv. 208503; Sez. IV, 6 maggio 1999 - dep. 24 maggio 2009, n. 214243, n. 1430, Barbaro, Rv. 214243; Sez. V, 24 novembre 1999 - dep. 16 febbraio 2000, n. 5664, Frroku, Rv. 216240; Sez. III, 17 febbraio 2000, dep. 4 maggio 2000, n. 809, Demo, Rv. 216065; Sez. II, 13 novembre 2001, dep. 11 febbraio 2002, n. 5428, Giuliani, Rv. 220998; Sez. VI, 10 giugno 2003, dep. 15 luglio 2003, n. 29564, Vinci, Rv. 226222; Sez. VI, 8 maggio 2009, dep. 28 maggio 2009, n.

22448, Patriarca, Rv. 244008).

Ricostruita l'evoluzione giurisprudenziale la Seconda Sezione ha recepito l'ultimo degli orientamenti richiamati affermando il principio massimato di cui si è detto.

Nella occasione la Corte ha aggiunto due ulteriori considerazioni.

Con la prima ha precisato che la questione inerente all'inefficacia della misura coercitiva per la omissione o la nullità dell'interrogatorio di garanzia ex art. 294 c. od. proc. pen. (costituente atto successivo all'adozione del provvedimento cautelare) risulta del tutto estranea all'ambito del riesame, dovendo, invece, formare - per espressa previsione di legge - oggetto di istanza al giudice del procedimento principale, il cui provvedimento, pronunciato ai sensi degli artt. 302 e 306 c od. proc. pen., è soggetto all'appello previsto dall'art. 310, con possibilità di successivo ricorso per Cassazione in forza dell'art. 311 del codice di rito.

Con la seconda considerazione la Corte ha evidenziato come a medesime conclusioni siano, pur incidentalmente, di recente giunte le Sezioni unite della Corte Suprema (Sez. un., 19 luglio 2012 - dep. 20 novembre 2012, n. 45246, Polcino, Rv. 253549: in motivazione, infatti, si è precisato che "l'estinzione di una misura cautelare può (...) verificarsi ope legis, per caducazione automatica conseguente al verificarsi di determinati eventi che non incidono di regola ne' sulla validità del provvedimento applicativo, ne' sui presupposti di applicazione della misura; si tratta quindi di eventi sopravvenuti che determinano la perdita di efficacia della misura ma non ne precludono la rinnovazione, salve le limitazioni previste dall'art. 307 cod. proc. pen. per la sostituzione della custodia cautelare caducata per decorso dei termini massimi di durata. E per questa ragione la giurisprudenza ha sempre escluso che le cause di caducazione ope legis delle misure cautelari personali possano essere dedotte con le impugnazioni proponibili contro le ordinanze applicative. In particolare, deve escludersi che con la richiesta di riesame possa essere dedotta la caducazione della custodia cautelare per omissione o invalidità dell'interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen., che va dedotta con richiesta al giudice per le indagini preliminari, in quanto non attiene alle condizioni di legittimità e di merito per l'adozione della misura".

3. La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare.

Nel corso del 2013 sono intervenute numerose pronunce volte a definire ulteriormente i presupposti per la operatività, ai sensi dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., della retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, con particolare riferimento al caso in cui due ordinanze cautelari siano emesse in distinti provvedimenti e procedimenti ed abbiano ad oggetto fatti non avvinti da alcuna delle ipotesi di connessione qualificata prevista dalla norma richiamata.

Viene in rilievo, in particolare, Sez. VI, 11 febbraio 2013 - dep. 12 marzo 2013, n. 11807, Palladini, Rv. 255721 (in senso conforme anche Sez. VI, 10 dicembre 2012 - dep. 18 marzo 2013, n. 12610, Napoli, Rv. 256167), la quale ha innanzitutto ricordato come, attraverso l'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., il legislatore abbia voluto codificare la regola, frutto dell'elaborazione giurisprudenziale formatasi sotto la vigenza del previgente codice di rito, con la quale si era stabilita una deroga al principio della decorrenza autonoma dei termini di durata massima della custodia in relazione a ciascun titolo cautelare, al dichiarato scopo di evitare il fenomeno della "diluizione" nel tempo della "carcerazione provvisoria", attuata mediante l'emissione, in momenti diversi, nei confronti della stessa persona di più provvedimenti coercitivi concernenti il medesimo fatto, diversamente qualificato o circostanziato, ovvero riguardanti fatti di reato diversi ma connessi tra loro.

In tale contesto con la sentenza in esame si è evidenziato l'ampliamento della portata applicativa della disposizione in esame per effetto, da una parte, della sentenza additiva n. 408 del 2005, con la quale la Corte costituzionale dichiarò la illegittimità dell'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., nella parte in cui "non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento dell'emissione della precedente ordinanza", e, dall'altra, dell'ulteriore precisazione operata dalla sentenza n. 233 del 2011, con la quale la Consulta - "reagendo" ad un contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità, che aveva finito per diventare "diritto vivente" - ha dichiarato la illegittimità dello stesso art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all'adozione della seconda misura.

Nella cornice normativa così tratteggiata, la Corte, seguendo il percorso argomentativo fissato dalle Sezioni Unite con due decisioni rispettivamente del 2005 e del 2006 (Sez. un., 19 dicembre 2006 - dep. 10 aprile 2007, n. 14535, Librato, Rv. 235909-11; Sez. un., 22 marzo 2005 - dep. 10/6/2005, n. 21957, Rahulia, Rv. 231057-9), ha fissato il principio secondo cui la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare disposta per differenti reati non solo presuppone, in ogni caso, che la seconda ordinanza abbia ad oggetto fatti anteriori a quelli oggetto della prima, ma, quando i reati siano oggetto di distinti provvedimenti e procedimenti e tra gli stessi non sussista una delle ipotesi di connessione qualificata previste dall'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., richiede anche, come condizioni ulteriori ed autonomamente necessarie, che, al momento dell'emissione della prima ordinanza, fossero già desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere il successivo provvedimento e che i diversi procedimenti, pendenti davanti alla stessa autorità giudiziaria, siano stati tenuti separati in conseguenza di una scelta del pubblico ministero.

Secondo la Corte, nel caso di pluralità di ordinanze custodiali aventi ad oggetto fatti non connessi, l'operatività del meccanismo di retrodatazione impone una doppia verifica: il giudice deve, per un verso, controllare se, al momento dell'emissione della prima ordinanza cautelare, non fossero già desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere la successiva ordinanza cautelare, vale a dire se i due provvedimenti non potessero essere adottati in un unico contesto temporale, e, per altro verso, appurare se i due diversi procedimenti, laddove pendenti dinanzi alla stessa autorità giudiziaria, siano stati tenuti separati in conseguenza di una scelta del pubblico ministero.

Nella occasione la Corte, peraltro, non ha mancato di precisare come la nozione di anteriore "desumibilità" delle fonti indiziarie, poste a fondamento dell'ordinanza cautelare successiva, dagli atti inerenti la prima ordinanza cautelare, "non vada confusa con quella di semplice "conoscenza" o "conoscibilità" di determinate evenienze fattuali. Infatti, la desumibilità, per essere rilevante ai fini del meccanismo di cui all'art. 297 cod. proc. pen., comma 3, deve essere individuata nella condizione di conoscenza, da un determinato compendio documentale o dichiarativo, degli elementi relativi ad un determinato fatto-reato che abbiano in sè una specifica "significanza processuale": ciò che si verifica allorquando il pubblico ministero procedente sia nella reale condizione di avvalersi di un quadro sufficientemente compiuto ed esauriente (sebbene modificabile nel prosieguo delle indagini) del panorama indiziario, tale da consentirgli di esprimere un meditato apprezzamento prognostico della concludenza e gravità delle fonti indiziarie, suscettibili di dare luogo - in presenza di concrete esigenze cautelari - alla richiesta ed all'adozione di una misura cautelare" (così anche Sez. IV, 14 marzo 2012 - dep. 20 aprile 2012, n. 15451, Di Paola, Rv. 253509; in senso sostanzialmente conforme, quanto alla necessità della valorizzazione del momento di pervenimento della notitia criminis, v. Sez. I, 08 gennaio 2010 - dep. 5 marzo 2010, n. 8839, Fontana, Rv. 246380; e, circa la irrilevanza del momento dell'apprezzamento, tra le diverse, Sez. VI, 24 aprile 2012 - dep. 1 agosto 2012, n.

31441, Canzonieri, Rv. 253236).

4. Mancata registrazione dell'interrogatorio di imputato detenuto e inefficacia della misura cautelare.

La sentenza Sez. I, 12 marzo 2013 - dep. 12 aprile 2013, n. 16717, Giardina, Rv. 256153, ha affermato il principio secondo cui "la trasmissione al tribunale del riesame del solo verbale riassuntivo dell'interrogatorio di persona in stato di detenzione, non comporta, nel caso in cui sia stata omessa la riproduzione fonografica dell'atto, la violazione dell'obbligo previsto dall'art. 309, comma quinto, cod. proc. pen. e, pertanto, non determina la perdita di efficacia dell'ordinanza che dispone la misura coercitiva".

La Corte di cassazione, nel fissare il principio indicato, ha aggiunto che "l'inosservanza dell'art. 141 bis cod. proc. pen., per omessa riproduzione fonografica dell'interrogatorio dell'indagato, non può essere parificata al mancato compimento dell'interrogatorio e non determina, quindi, la perdita di efficacia della misura cautelare a norma dell'art. 302 stesso codice, dato che la sanzione dell'inutilizzabilità riguarda unicamente gli effetti probatori e non invece gli altri effetti che all'atto si ricollegano". (In senso testualmente conforme alla sentenza in esame si collocano Sez. I, 19 marzo 1996 - dep. 28 maggio 1996, n. 1800, De Bari, Rv. 204681 e Sez. IV, 16 ottobre 1997 - dep. 30 dicembre 1997, n. 2552, Montesu, Rv. 210155).

Il tema non sembra attenere alla inutilizzabilità di cui all'art. 141 bis cod. proc. pen., che consegue esclusivamente alla violazione delle prescrizioni ivi contenute e non già alla mancata trasmissione della documentazione integrale dell'atto al tribunale della libertà (fra le altre, Sez. un., 25 marzo 1998 - dep. 30 giugno 1998, n. 9, D'Abramo, Rv. 210803), né a quello del se, fra gli atti favorevoli all'indagato, sopravvenuti alla esecuzione di una misura cautelare coercitiva, debba essere sempre ricompreso l'interrogatorio, avendo sul punto la giurisprudenza affermato che tra gli atti in questione non rientra necessariamente il verbale di interrogatorio di garanzia, che deve essere trasmesso al tribunale del riesame solo se, in concreto, contenga elementi favorevoli alla persona sottoposta alle indagini (in tal senso, Sez. un. 26 settembre 2000 - dep. 11 gennaio 2001, n. 25, Mennuni, Rv. 217443), né, ancora, a quello del se dalla inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in violazione dell'art. 141 bis cod. proc. pen. consegua la inesistenza dell'interrogatorio, con conseguente inefficacia della misura cautelare ai sensi dell'art. 302 cod. proc. pen.

L'ipotesi che rileva è quella in cui l'interrogatorio di garanzia contenga in concreto elementi favorevoli all'indagato in stato di detenzione e di esso venga nondimeno omessa la fonoregistrazione e trasmesso al tribunale del riesame il verbale riassuntivo: la questione attiene quindi al se, anche in tale caso, la trasmissione del solo verbale riassuntivo non violi l'obbligo previsto dall'art. 309, comma 5, cod. proc. pen., con conseguente declaratoria di inefficacia della misura coercitiva ai sensi dell'art. 309, comma 10, cod. proc. pen.

Sul tema, peraltro, deve essere registrato un indirizzo giurisprudenziale ulteriore, secondo cui non è violato l'obbligo di trasmissione degli atti posti a fondamento della richiesta di misura e di tutti gli elementi sopravvenuti a favore del sottoposto alle indagini, e pertanto non si determina la perdita di efficacia dell'ordinanza, quando sia trasmesso al tribunale del riesame il solo verbale riassuntivo di interrogatorio reso da persona detenuta, sempre che l'originale sia stato redatto secondo le forme previste dall'art. 141 bis cod. proc. pen. (Sez. II, 21 settembre 2005 - dep. 27 ottobre 2005, n. 39486, Fazio, Rv. 232672).

Si tratta di un orientamento che pare avere come presupposto fondante l'assunto secondo cui, in tanto la trasmissione al tribunale del riesame del solo verbale riassuntivo dell'interrogatorio di garanzia reso da persona in stato di detenzione non violi l'obbligo di cui all'art. 309, comma 5, cod. proc. pen., in quanto la fonoregistrazione o la documentazione nelle altre forme previste dall'art. 141 bis c.p.p., siano state comunque effettuate.

Nel senso indicato sembrano porsi altre pronunce che, pur non affrontando specificamente il tema della violazione dell'obbligo previsto dall'art. 309, comma 5, cod. proc. pen. nel caso di interrogatorio di persona in stato di detenzione in cui sia omessa la fonoregistrazione e trasmesso al tribunale del riesame il solo verbale riassuntivo, sembrano tuttavia recepire il principio per cui la trasmissione del solo verbale riassuntivo debba considerarsi rituale a condizione che la documentazione integrale dell'atto, con la fonoregistrazione o con le altre forme previste dall'art. 141 bis c.p.p., sia stata comunque effettuata (In tal senso, Sez. VI, 28 ottobre 2010 - dep. 9 novembre 2010, n. 39376, Quatrosi, Rv. 248799; Sez. I, 18 aprile 2002 - dep. 30 maggio 2002, n. 20250, P.M. in proc. Medaglia, Rv. 221425; Sez. I, 22 dicembre 2000 - dep. 28 febbraio 2001, n. 8778 Tropea, Rv. 218187).

5. Perdita di efficacia della misura nel procedimento di riesame e interrogatorio dell'indagato prima dell'emissione del nuovo titolo cautelare.

La II sezione penale, con decisione assunta il 23 novembre 2012 - dep. 27 febbraio 2013, n. 9258, Sarpa, Rv. 254870, ha affermato il principio di diritto così massimato "Nell'ipotesi di emissione di una nuova misura custodiale in seguito alla dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell'art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., di quella precedente, il giudice per le indagini preliminari non ha l'obbligo di interrogare l'indagato prima di ripristinare nei suoi confronti il regime carcerario".

Si tratta di un principio consolidato fondato sull'assunto secondo cui, da una parte, le prescrizioni di cui agli artt. 294 e 302 cod. proc. pen. non sarebbero suscettibili di applicazione analogica e, dall'altro, il nuovo interrogatorio, nel caso in cui la nuova ordinanza non contenga elementi nuovi e diversi rispetto a quella precedente, costituirebbe una mera, superflua e non sostanziale, formalità, in quanto l'esigenza di tutela dell'indagato sarebbe "assicurata pienamente con il primo interrogatorio".

Tale orientamento, ancorchè consolidato, non è tuttavia unanime, essendosi da esso la Corte discostata in alcune occasioni in cui ha affermato la necessità di un nuovo interrogatorio anche nel caso in cui l'ordinanza custodiale, precedentemente emessa, sia divenuta inefficace a norma di quanto previsto dall'art. 309, commi quinto e decimo, cod. proc. pen.

In tal senso si è espressa Sez. V, del 12 novembre 2010 - dep. 11 febbraio 2011, n. 5135, Toni, Rv. 249693, secondo cui "E' illegittima l'ordinanza di custodia cautelare motivata per relationem ad altra ordinanza - dichiarata inefficace per inosservanza del termine stabilito per la decisione del giudice del riesame (art. 309, comma decimo, cod. proc. pen.) - e adottata in assenza del previo interrogatorio", in quanto "si tratta infatti di provvedimento nuovo - e non già meramente reiterativo o sostitutivo di quello originario che risulti ancora valido al momento dell'emissione del nuovo - tanto da imporre una nuova richiesta del P.M., cui deve, in tal caso, far seguito il previo interrogatorio dell'indagato", e ciò, secondo quando affermato in motivazione, " a pena di inefficacia ai sensi del combinato disposto degli artt. 294 e 302 c.p.p." e con conseguente "radicale nullità" del provvedimento del tribunale del riesame che non rilevi tale effetto. Analogo principio era stato affermato in precedenza da Sez. VI, 10 giugno 1998 - dep. 9 ottobre 1998, n. 2119, Manfredi M., Rv. 211751, secondo cui, in caso di sopravvenuta inefficacia di un provvedimento coercitivo per il mancato rispetto del termine di cui all'art. 309, comma quinto, cod. proc. pen., "l'unica condizione posta dall'art. 302 c.p.p. per la reiterazione della custodia cautelare è che l'indagato sia stato sottoposto ad interrogatorio".

6. Revoca o sostituzione di misura custodiale e condizioni di salute dell'imputato.

Devono essere segnalate alcune pronunce delle Sezioni semplici sulla questione relativa all'ambito dei poteri del giudice nel caso in cui questi non ritenga di accogliere, sulla base degli atti, la richiesta di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere, fondata sulle condizioni di salute di cui al comma 4 bis dell'art. 275 cod. proc. pen..

Il tema attiene al se nei casi indicati il giudice sia obbligato o meno a disporre gli accertamenti medici del caso, nominando un perito, ai sensi dell'art. 299, comma 4 ter, c.p.p.

Secondo un indirizzo di legittimità, cui aderisce Sez. II, 14 febbraio 2013 - dep. 21 febbraio 2013, n. 8642, Foraci, Rv. 255236, la richiesta di revoca o sostituzione della misura della custodia in carcere, basata sulle condizioni di salute dell'imputato, non impone automaticamente al giudice, che non ritenga di accoglierla sulla base degli atti, di nominare un perito. Si afferma che quando la situazione di incompatibilità "non sia apprezzabile sulla base della diagnosi dedotta (Sez. VI, 23 aprile 4 1997 - dep. 5 giugno 1997, n. 1672, Omini, Rv. 209310) ....o comunque non emerga già dagli atti secondo le prospettazioni difensive, che vanno ancorate a dati oggettivi ed attuali" (Sez. I, 4 marzo 1996 - dep. 10 aprile 1996, n. 1419, Ruggeri, Rv. 204309), il giudice non è tenuto a nominare un perito, dovendo dare solo contezza della diversa scelta adottata con argomentazione adeguata e coerente.

Peraltro, le sentenze Sez. IV, 15 febbraio 2013 - dep. 11 aprile 2013, n. 16524, Mafrica, Rv. 254846, e, sempre recentemente, Sez. V, 11 ottobre 2011 dep. 9 gennaio 2012, n. 132, Dell'Asta, Rv. 252655, aderendo ad altra impostazione, assumono che il giudice nei casi indicati, si troverebbe di fronte ad una scelta obbligata nel senso che "la normativa escluderebbe implicitamente qualsiasi forma di accertamento diverso da quello peritale".

A sostegno della suddetta interpretazione vengono addotte ragioni di ordine letterale desumibili dal confronto tra il testo del primo e del terzo periodo della norma in questione, che prevedono discipline diverse a seconda che si tratti delle due differenti ipotesi di accertamenti sulle condizioni in generale dell'imputato o sull'esistenza di malattia, nonchè ragioni di carattere logico, che rinvengono la necessità della nomina di un perito nell'esigenza di assicurare che l'accertamento medico si svolga con particolari garanzie, nel contraddittorio delle parti, data l' importanza dell'indagine in relazione alla dedotta gravità delle condizioni fisiche del detenuto e, dunque, la necessità di un in contemperamento fra esigenze di tutela della salute con quelle di difesa dell'ordine pubblico.

Si tratta di un tema sul quale le Sezioni Unite della Corte sono in passato intervenute affermando il principio secondo cui ove il giudice non ritenga di accogliere, sulla base degli atti, la richiesta di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere basata sulla prospettazione di condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione o comunque tali da non consentire adeguate cure inframurarie, è tenuto a disporre gli accertamenti medici del caso, nominando un perito secondo quanto disposto dall'art. 299, comma 4 ter, cod. proc. pen. (Sez. un., 17 febbraio 1999 - dep. 10 marzo 1999, n. 3, Femia, Rv. 212755, in cui, nell'affermare il principio indicato, la Corte ha altresì precisato che è comunque consentito al giudice di delibare sull'ammissibilità della richiesta, onde attivare la procedura decisoria, ma solo al fine di verificare che sia stata prospettata una situazione di salute della specie prevista dall'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., senza la possibilità di alcuna valutazione di merito, mentre gli è inibito respingere la domanda solo perché, in via preliminare, si prefiguri la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non potendo tale apprezzamento che essere successivo all'accertamento peritale che offre il parametro di comparazione).

7. Altre decisioni rilevanti.

La materia della misure cautelari personali è stata inoltre interessata da ulteriori pronunce riguardanti i temi della domanda cautelare, della individuazione della nozione di "ordinanza in materia di misure cautelari", dell'obbligo di motivazione, del computo della durata dei termini di custodia cautelare.

7.1. La domanda cautelare.

Sotto il primo profilo indicato, viene in rilievo Sez. VI, 4 aprile 2013 - dep. 8 aprile 2013, n. 17950, Conserva, Rv. 255136, ha affermato il principio secondo cui "è affetto da nullità assoluta a norma degli artt. 178, lett. b), e 179 cod. proc. pen. il provvedimento del giudice che, disponendo l'applicazione della misura degli arresti domiciliari, impone limiti o divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, in difetto di una previa corrispondente richiesta del pubblico ministero" (Sul tema, v. anche Sez. V, 22 ottobre 2010 - dep. 30 marzo 2011, n. 13271, G., Rv. 255136).

Nell'occasione si è assunto che le restrizioni che contribuiscono ad inasprire il grado di afflittività della misura cautelare devono essere considerate esse stesse restrizione alla libertà personale e, come tali, sono suscettibili di autonomo controllo giurisdizionale anche di secondo grado (e, quindi, anche, dopo, di legittimità). In assenza della corrispondente "domanda cautelare" il giudice, secondo la sentenza in esame, non può pertanto adottare d'ufficio tale peculiare autonoma forma di (ulteriore e più intensa) restrizione di libertà personale, sicché la sua eventuale adozione è nulla ai sensi degli artt. 178, lett. b), e 179, cod. proc. pen..

7.2. La nozione di "ordinanza in materia di misure cautelari".

Il tema delle concrete modalità di esecuzione degli arresti domiciliari, appena richiamato, ha assunto rilevanza anche sotto un diverso profilo.

Va infatti segnalata la sentenza Sez. IV, 28 marzo 2013 - dep. 19 aprile 2013, n. 18202, Brittanico, Rv. 255987, la quale ha affermato che "il provvedimento di diniego di concessione dell'autorizzazione ad assentarsi per lo svolgimento di attività lavorativa deve qualificarsi come "ordinanza in materia di misure cautelari" e, conseguentemente, impugnabile mediante appello ex art. 310 cod. proc. pen."

Si tratta di una pronuncia che, per un verso, appare conforme a quanto le Sezioni unite della Corte avevano in passato chiarito, e cioè che i provvedimenti emessi ai sensi dell'art. 284, comma terzo, cod. proc. pen., che regolano le modalità di attuazione degli arresti domiciliari relativamente alla facoltà dell'indagato di allontanarsi dal luogo di custodia, contribuiscono ad inasprire o ad attenuare il grado di afflittività della misura cautelare e devono pertanto essere ricompresi nella categoria dei provvedimenti sulla libertà personale (ne consegue che ad essi si applicano le regole sull'impugnazione dettate dall'art. 310 cod. proc. pen.; Sez. un., 3 dicembre 1996 - dep. 21 gennaio 1997, n. 24, Lombardi, Rv. 206465, in cui, nell'affermare detto principio, la Corte aveva anche precisato che la predetta disciplina non trova tuttavia applicazione con riferimento a quei provvedimenti i quali, per il loro carattere temporaneo e meramente contingente, non sono idonei a determinare apprezzabili e durature modificazioni dello status libertatis); per altro verso, la decisione si pone in contrasto con altro indirizzo secondo cui, invece, il provvedimento di diniego (o di concessione) dell'autorizzazione ad assentarsi durante la giornata dal luogo di restrizione è inoppugnabile, per assenza di previsione di legge, e non è nemmeno ricorribile per cassazione, trattandosi di un provvedimento che non decide sulla libertà personale ma si limita a regolare le modalità di esecuzione della misura cautelare (Sez. II, 6 aprile 2011 - dep. 11 luglio 2011, n. 27020, Morciano, Rv. 250885; Sez. I, 1 dicembre 2006 - dep. 8 gennaio 2007, n. 103, Cherchi Rv. 235341; Sez. VI, 2 novembre 1995 - dep. 27 novembre 1995, n. 3942, Matragano, Rv.203319).

7.3. Il computo dei termini di durata della custodia cautelare.

Va al riguardo segnalata la sentenza Sez. I, 10 maggio 2013, dep. 6 giugno 2013, n. 24896, Barbagallo, Rv. 255831, che ha affermato il principio secondo cui, in caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione della sentenza di secondo grado, i termini di durata della custodia cautelare ricominciano a decorrere dalla decisione di annullamento, ma non possono protrarsi oltre il doppio del termine massimo di fase, computando l'intero periodo trascorso in detenzione dall'originaria decorrenza, cioè dalla sentenza di primo grado.

In motivazione, la Corte ha precisato essere inapplicabile al giudizio di appello la regola stabilita per la fase di cassazione dalla lett. d) del comma primo dell'art. 303 cod. proc. pen., secondo la quale, in caso di doppia condanna nei gradi di merito, si tiene conto soltanto dei termini massimi complessivi di cui al comma quarto, atteso che, a seguito di annullamento con rinvio della sentenza di secondo grado, il processo è di nuovo nella fase del giudizio di appello e, quindi, trova applicazione quanto disposto dal comma secondo dell'art. 303: "i termini previsti dal precedente comma 1, lett. c) - decorrenti "dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado" - sono azzerati e corrono nuovamente a partire dalla pronuncia della sentenza di annullamento; la custodia non potrà tuttavia, in pendenza del nuovo giudizio di appello, protrarsi oltre il doppio del massimo di fase, computando l'intero periodo trascorso in vinculis dall'originaria decorrenza (sentenza di primo grado), come stabilito dall'art. 304, co. 6, secondo un'interpretazione "obbligata" da pronunce della Corte Costituzionale culminate nella n. 299 del 2005".

Ha aggiunto la Corte che, nella specie, non poteva essere applicata la norma di cui alla lett. d) del comma primo dell'art. 303 secondo la quale, in caso di doppia condanna nei gradi di merito, si tiene conto esclusivamente dei termini massimi complessivi di cui al comma quarto, non solo perché la norma in questione riguarda la fase di cassazione, che si apre con la "pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello" - condanna che, nel caso di specie, era venuta meno a seguito dell'annullamento - ma anche perché non potrebbe essere applicata all'appello, neppure in caso di regresso, una regola stabilita per un grado diverso ed ulteriore, attesa la rilevata "impermeabilità" della disciplina dei termini di ciascuna fase processuale.

Sotto altro profilo, appare utile richiamare Sez. VI, 8 febbraio 2013 - dep. 13 febbraio 2013, n. 7199, Lusham, Rv. 254504, la quale, recependo un consolidato orientamento, ha affermato il principio così massimato: "La sentenza di condanna in appello con cui, in parziale riforma di quella di primo grado, venga riconosciuta un'attenuante ad effetto speciale, non comporta la rideterminazione retroattiva dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento, attesa l'autonomia di ciascuna di esse. (Fattispecie in cui la Corte di cassazione ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale del riesame che aveva giudicato irrilevante il riconoscimento, da parte della Corte di appello, dell'attenuante di cui all'art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990, ai fini della determinazione del termine di durata per la fase antecedente all'emissione del decreto che dispone il giudizio)".

Il principio indicato sarebbe, secondo la sentenza in esame, quello "più conforme alla lettera e alla ratio della disciplina codicistica dei termini di durata della custodia cautelare, nella quale l'indicazione di differenti presupposti per il computo dei termini massimi di fase finisce per assegnare una tendenziale autonomia a ciascuno di essi".

Il legislatore infatti, secondo la Sesta Sezione, ha per un verso rapportato la durata dei termini massimi della custodia nelle prime due fasi, quelle previste dalle lett. a) e b) o b bis) del comma 1 dell'art. 303 (che vanno dall'inizio dell'esecuzione della custodia all'emissione del decreto di rinvio a giudizio ovvero dell'ordinanza di ammissione del rito abbreviato, ed ancora, dalla emissione di tali provvedimenti, ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, all'adozione della sentenza di condanna di primo grado) al limite edittale massimo della pena della reclusione prevista per il delitto per cui si procede e, quindi, all'astratta gravità del reato oggetto del procedimento; per altro verso, la durata dei termini massimi in relazione alle altre due successive fasi, regolate dalle lett. c) e d) dello stesso comma 1 dell'art. 303 (cioè delle fasi che vanno, rispettivamente, dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, alla sentenza di condanna di secondo grado; e dalla pronuncia di tale seconda sentenza di condanna, o dalla sopra sopravvenuta esecuzione della custodia, alla pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna) è stata invece rapportata alla gravità in concreto del reato per il quale è intervenuta la condanna, in relazione all'entità della pena della reclusione effettivamente irrogata.

Sarebbe contraddittorio, assume l'impostazione indicata, ai fini del computo dei termini di durata di fase della custodia cautelare, riferire il contenuto decisionale della sentenza di condanna - rilevante per il computo della durata del termine in relazione alle fasi in cui il legislatore ha inteso fare riferimento alla gravità del reato in concreto accertata - ad una fase precedente esaurita, in cui il calcolo della durata del termine è correlato ad un diverso criterio, quello della gravità astratta del reato contestato.

8. La riparazione per ingiusta detenzione: l'intervento delle Sezioni unite.

Le Sezioni unite, ricostruendo i presupposti applicativi dell'istituto e i principi regolatori della materia, si sono pronunciate in materia di riparazione per l'ingiusta detenzione.

La questione che era stata sottoposta alla cognizione delle Sezioni unite aveva ad oggetto la forma di trattazione del procedimento. In particolare, nell'ordinanza di rimessione Sez. III, 23 maggio 2012 - dep. 6 agosto 2012, n. 31815, era stato osservato che, su tale aspetto, "era intervenuta la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in data 10 aprile 2012, caso Lorenzetti c. Italia, la quale, in riferimento al procedimento per l'accertamento del diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione ai sensi degli artt. 314 e seguenti cod. proc. pen., aveva ravvisato la violazione dell'art. 6 CEDU in tema di diritto ad equo processo, per la mancanza di pubblicità dei procedimenti in camera di consiglio, quale era quello davanti alla Corte d'appello, a norma degli artt. 127, 643 e 646 cod. proc. pen., richiamati dall'art. 315 cod. proc. pen.".

Le Sezioni Unite, con ordinanza 18 ottobre 2012 - dep. 25 ottobre 2012, n. 41694, Nicosia, avevano dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 315, comma terzo, in relazione all'art. 646, comma primo, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 111, primo comma, Cost., nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento per la riparazione per l'ingiusta detenzione potesse svolgersi, davanti alla Corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 214 del 2013, aveva dichiarato inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite nei termini dianzi indicati, in quanto l'interessato (ricorrente per cassazione) non aveva formulato alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento.

La declaratoria di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale aveva esaurito il tema specifico in relazione al quale in ricorso era stato rimesso alle Sezioni Unite le quali, con sentenza 28 novembre 2013 (dep. 24 dicembre 2013), n. 51779, Nicosia, decidevano il ricorso nel merito e premettevano, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 310 del 1996, n. 446 del 1997, n. 109 del 1999, n. 284 del 2003, nn. 230 e 231 del 2004, n. 219 del 2008), che il riconoscimento dell'indennizzo non può ritenersi precluso dalla legittimità del provvedimento che ha determinato la restrizione della libertà personale, né presuppone che la detenzione sia conseguenza di una condotta illecita.

Ciò che rileva, infatti, è la obiettiva ingiustizia della privazione della libertà personale che, in ragione del fondamento solidaristico dell'indennizzo e della specifica qualità del bene giuridico coinvolto, postula necessariamente una misura riparatoria.

Ma se l'indennizzabilità può anche prescindere da un "errore giudiziario", la privazione della libertà personale può considerarsi "ingiusta" solo se l'incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa giacché, altrimenti, la misura riparatoria verrebbe a perdere la sua funzione indennitaria, dissolvendo il presupposto solidaristico che ne è alla base.

Tale principio rinviene un limite nel dovere di responsabilità di tutti i cittadini, che non possono invocare benefici tesi a ristorare pregiudizi da essi stessi colposamente o dolosamente cagionati.

Le Sezioni unite, quindi, ponendosi in linea di continuità con i propri precedenti orientamenti (sentenze 27 maggio 2010 - dep. 30 agosto 2010, n. 32383, D'Ambrosio, Rv. 247664 e 13 dicembre 1995, dep. 9 febbraio 1996, n. 43, Sarnataro, Rv. 203636), hanno ribadito il principio secondo il quale il giudice, per l'accertamento della sussistenza o meno dei requisiti ostativi al riconoscimento dell'indennizzo, consistenti nell'incidenza causale del dolo o della colpa grave del soggetto sottoposto alla custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dall'interessato, sia anteriormente che successivamente alla produzione dell'evento costitutivo del diritto e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico, con la precisazione che in relazione ai "comportamenti processuali", il relativo apprezzamento non può prescindere dalle cautele insite nel rispetto per le scelte di strategia difensiva in concreto adottate.

Per quanto riguarda la ricorrenza delle condizioni dell'azione e i criteri di apprezzamento da utilizzare nel procedimento riparatorio, il compito del giudice è quello di stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si siano poste come fattore condizionante, anche nel concorso dell'altrui errore, alla produzione dell'evento "detenzione".

Agli effetti dello scrutinio circa la condotta sinergica dell'interessato come causa ostativa al riconoscimento del beneficio, deve intendersi: 1) "dolosa" non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, ma anche l'azione consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio secondo le regole di comune esperienza, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell'autorità giudiziaria; 2) "colposa" la condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per macroscopica negligenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta ma prevedibile ragione di intervento dell'autorità giudiziaria che si sostanzi nell'adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso.

In applicazione di tale principi, le Sezioni unite hanno ritenuto colpevole la condotta di un soggetto che aveva intrattenuto alcune conversazioni telefoniche con persone pacificamente coinvolte in un traffico di sostanze stupefacenti, alle quali, con espressioni allusive e criptiche, aveva sollecitato in orario notturno la urgente consegna di beni.

  • sequestro di beni

Sezione II

Misure cautelari reali

Sommario

1 Le questioni trattate. - 2 Il fumus quale presupposto per l'applicazione del sequestro preventivo. - 3 L'inosservanza del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame. - 4 Legittimazione della parte civile a ricorrere per cassazione contro l' annullamento del sequestro conservativo. - 5 Il sequestro preventivo funzionale alla confisca ex art. 12 sexies l. n. 356 del 1991 nei delitti tentati. - 6 Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente nei confronti dei concorrenti nel reato. - 7 Preclusioni processuali nei rapporti tra misura cautelare reale e confisca adottata in sede di prevenzione (rinvio). - 8 I principi di proporzionalità e adeguatezza nei sequestri.

1. Le questioni trattate.

In questa sezione, verranno richiamate una serie di pronunce relative ad alcuni aspetti problematici della disciplina dei sequestri, in relazione - tra l'altro - all'individuazione dei presupposti legittimanti la misura (basti qui accennare alle oscillazioni interpretative in tema di fumus commissi delicti, e di rapporti tra misure cautelari reali e sequestri finalizzati alla confisca di prevenzione), e ad alcuni profili controversi specificamente attinenti il procedimento di riesame.

Nella sezione successiva, invece, si concentrerà l'attenzione su una tematica di estremo rilievo ed interesse, quale quella del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente, nei reati tributari.

2. Il fumus quale presupposto per l'applicazione del sequestro preventivo.

In materia di misure cautelari reali va registrata la graduale tendenza della giurisprudenza a innalzare lo standard indiziario per i presupposti che giustificano il sequestro preventivo, sicché si richiede che il giudice verifichi la sussistenza del fumus commissi delicti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato (Sez. VI, 21 giugno 2012 - dep. 18 settembre 2012, n. 35786, Buttini, Rv. 254394). Così, con riferimento al controllo effettuato in sede di riesame, si è sostenuto che nella valutazione del fumus non può ritenersi sufficiente la sola astratta configurabilità del reato, ma il giudice deve apprezzare in modo puntuale e coerente le risultanze processuali e l'effettiva situazione emergente dagli elementi eventualmente forniti dalle parti, indicando, sia pure sommariamente, le ragioni che rendono allo stato seriamente sostenibile l'impostazione accusatoria.

Tali esigenze di garanzia che dovrebbero essere ordinariamente salvaguardate per tutte le categorie di sequestro, si rivelano particolarmente avvertite per il sequestro preventivo a fini di confisca che assume una natura sanzionatoria.

Per la particolare natura afflittiva e sanzionatoria della confisca di valore, in cui il reato degrada a mero presupposto per l'ablazione dei beni per un valore corrispondente al profitto del reato, ha iniziato a consolidarsi un orientamento che richiede l'allegazione di un compendio indiziario a carico dell'indagato di maggiore consistenza. Nell'ipotesi in cui l'ablazione dei beni ha natura sanzionatoria, al giudice non sarebbe consentito prescindere da una valutazione di colpevolezza, che potrà eventualmente essere apprezzata con minor rigore rispetto alle previsioni sulle misure cautelari, ma che dovrà in ogni caso sussistere. In tal senso, si è sostenuto che, per procedere al sequestro preventivo a fini di ablazione del profitto del reato nei confronti di una persona giuridica, è richiesto un fumus delicti allargato, che finisce per coincidere sostanzialmente con l'accertamento della sussistenza di gravi indizi di responsabilità dell'ente indagato (Sez. VI, 31 maggio 2012 - dep. 10 settembre 2012, n. 34505, Codelfa s.p.a., Rv. 252929). Poiché, quindi, il sequestro nei confronti degli enti è prodromico all'irrogazione di una sanzione principale, sarebbe proprio la natura di sanzione principale e obbligatoria della misura ablatoria ad imporre una più approfondita valutazione del presupposto del fumus delicti, non limitata alla sola verifica della sussumibilità del fatto attribuito in una determinata ipotesi di reato, ma estesa al controllo sulla concreta fondatezza dell'accusa.

I principi elaborati nella materia in esame dimostrano una tendenziale omologazione delle misure cautelari reali a quelle personali: i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, previsti per le misure cautelari personali, sono applicabili anche alle misure cautelari reali, dovendo il giudice motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare con altre misure meno invasive (Sez. IV, 21 marzo 2013 - dep. 24 aprile 2013, n. 18603, P.M. in proc. Camerini, Rv. 256068).

3. L'inosservanza del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame.

Le Sezioni unite, con sentenza del 28 marzo 2013 - dep. 17 giugno 2013 n. 26268, Cavalli, Rv. 255581, hanno affrontato la questione relativa al se, nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, sia applicabile il termine perentorio di cinque giorni, previsto dall'art. 309, comma 5, cod. proc. pen. (con la conseguente perdita di efficacia del provvedimento in caso di violazione) per la trasmissione degli atti al tribunale.

La questione inerisce al testo dell'art. 324 cod. proc. pen. ed alla sua peculiare struttura, in quanto, da una parte, il terzo comma prevede che l'autorità giudiziaria procedente trasmetta entro un giorno al Tribunale del riesame gli atti su cui si fonda il provvedimento cautelare impugnato e, dall'altra, il settimo comma rinvia, per contenuto e disciplina, ai commi 9 e 10 del precedente art. 309, che sono relativi sia al termine entro il quale gli atti in base ai quali deve essere assunta la decisione sullo status libertatis devono pervenire al tribunale, sia al termine entro il quale tale decisione deve essere assunta. La sanzione processuale per la violazione del primo termine è, a sua volta, per le misure cautelari personali, conseguenza di un rinvio che, all'interno del medesimo art. 309, il comma 10 fa al comma 5, che impone la trasmissione degli atti entro il giorno successivo alla richiesta e "comunque" non oltre il quinto.

A differenza dell'art. 324, l'art. 309 cod. proc. pen. (disciplinante il riesame delle misure cautelari personali), così come l'art 310 (disciplinante l'appello cautelare) sono stati, nel corso del tempo, modificati, in particolare, dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 con cui si è intervenuti "allungando" il termine di trasmissione/ricezione degli atti (sostanzialmente da uno a cinque giorni), ma rendendolo perentorio.

Le Sezioni Unite, quindi, sono state chiamate a stabilire se, in seguito alle modifiche apportate all'art. 309 cod. proc. pen., anche il termine per la trasmissione degli atti, previsto in tema di riesame delle misure cautelari, abbia assunto natura perentoria, con la conseguenza che il suo mancato rispetto determini la perdita di efficacia della misura adottata.

Sul tema le Sezioni Unite erano già intervenute con la sentenza 29 maggio 2008 - dep. 26 giugno 2008, n. 25932, Ivanov, affermando il principio secondo cui la inosservanza, da parte dell'autorità procedente, del termine di cinque giorni dalla richiesta di riesame per la trasmissione degli atti al tribunale, non comporta la perdita automatica di efficacia della misura cautelare reale; nella occasione si precisò altresì che l'omessa o tardiva trasmissione di atti al tribunale del riesame non determina, di per sé e sempre, l'automatica caducazione della misura, dovendosi, in ogni caso, sottoporre alla così detta "prova di resistenza" il provvedimento cautelare, in modo da apprezzare, ai fini della sua adozione, il grado di rilevanza degli elementi non trasmessi o trasmessi intempestivamente, se posti a confronto con quelli già legittimamente acquisiti, i quali ben potrebbero essere, da soli, sufficienti a giustificare il mantenimento del vincolo.

A fondamento del principio indicato vi era la ritenuta inapplicabilità dell'art. 309, comma 5, cod. proc. pen al riesame delle misure reali, atteso il mancato richiamo della norma da parte dell'art. 324, comma 7 del codice.

Dopo l'intervento delle Sezioni unite, a fronte di un consolidato orientamento conforme, una parte della giurisprudenza di legittimità (Sez. III, 3 maggio 2011 - dep. 16 giugno 2011, 24163, Wang, Rv. 250603), aveva affermato il principio di diritto così massimato: "È abnorme la decisione con cui il Tribunale, in sede di riesame di un provvedimento di sequestro preventivo, rilevata la parziale trasmissione da parte del P.M. degli atti posti a fondamento dell'istanza di sequestro, rinvii il procedimento a nuovo ruolo, al fine di consentire la trasmissione degli atti mancanti per poi fissare l'udienza di trattazione, invece di dichiarare l'inefficacia del provvedimento". (In motivazione la Corte aveva precisato che l'abnormità discendeva dall'aver in tal modo il tribunale prorogato un termine perentorio già scaduto).

In tale sentenza veniva valorizzato l'assunto secondo cui "le limitazioni della sfera patrimoniale avrebbero rilievo costituzionale "non inferiore" rispetto a quelle della libertà personale" e , quindi, non sarebbe stato giustificabile un regime "meno garantito".

Le Sezioni unite, rivisitando criticamente la tesi indicata, hanno ritenuto che:

a) il codice del 1988, già nella stesura originaria, aveva tenuto nettamente distinto il sistema delle impugnazioni delle misure cautelari personali da quello della impugnazione delle misure cautelari reali e che nulla, evidentemente, avrebbe impedito al legislatore di predisporre un unico procedimento di riesame per entrambe le tipologie di misure cautelari;

b) se è vero che l'art. 100 delle disposizioni di attuazione impone alla cancelleria o alla segreteria della autorità procedente di trasmettere al giudice competente per la decisione gli atti necessari, con precedenza assoluta su ogni altro affare, è altrettanto vero che la norma in questione attiene al solo caso in cui sia impugnato un provvedimento concernente la libertà personale; proprio tale opzione legislativa sarebbe espressione della valutazione differente da parte del legislatore della scala dei valori costituzionali;

c) non è senza significato il fatto che nel nostro ordinamento solo la compressione della libertà personale per fini cautelari debba essere contenuta entro predeterminati limiti temporali e che una analoga previsione non sia prevista per le misure cautelari reali;

d) proprio il comma 3 dell'art. 324 cod. proc. pen., secondo cui la trasmissione degli atti deve avvenire entro il giorno successivo a quello di ricezione dell'avviso, induce ad escludere che, dal combinato disposto degli artt. 324, comma 7, e 309, comma 10, possa desumersi la perdita di efficacia del provvedimento di sequestro nel caso in cui gli atti necessari alla decisione siano pervenuti in ritardo, atteso che l'art. 324 cod. proc. pen. richiama la sola norma dell'art. 309, comma 10, e non anche quella di cui all'art. 309, comma 5, cod. proc. pen.;

f) il riferimento contenuto nel comma 10 dell'art. 309 anche al mancato rispetto dei termini di cui al comma 5 della medesima disposizione non è di per sé decisivo perché l'art. 324 cod. proc. pen. prevede un'autonoma disciplina in tema di termine per la trasmissione degli atti (stabilendo che gli stessi siano inviati entro il giorno successivo all'avviso), con la conseguenza che il citato richiamo al disposto di cui all'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., deve ritenersi unicamente riferito al termine per la decisione.

g) il rinvio operato dal comma 7 dell'art. 324 cod. proc. pen. ai commi 9 e 10 del precedente art. 309 è recettizio, vale a dire statico; esso cioè è fatto "alla mera veste letterale dei predetti commi e che tale modalità di "incorporazione" per relationem comporta, inevitabilmente, la cristallizzazione della disposizione normativa recepita, che dunque, una volta inglobata nella norma che la richiama, ne entra a far parte integrante e non segue le eventuali "sorti evolutive" della norma richiamata".

Sulla base delle considerazioni indicate le Sezioni unite hanno quindi affermato il principio secondo cui nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro non è applicabile il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale, previsto dall'art. 309, comma quinto, cod. proc. pen., con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare impugnata in caso di trasmissione tardiva, ma il diverso termine indicato dall'art. 324, comma terzo, cod. proc. pen., che ha natura meramente ordinatoria.

Nella occasione la Corte ha anche affrontato il tema della individuazione del dies a quo, dal quale decorre il termine (perentorio) di 10 giorni per la decisione, nel caso di trasmissione frazionata degli atti al collegio cautelare, affermando che il decorso di detto termine inizia dal momento in cui la predetta trasmissione è completa.

4. Legittimazione della parte civile a ricorrere per cassazione contro l' annullamento del sequestro conservativo.

In tema di misure cautelari reali sono state emesse nel corso del 2013 numerose sentenze dalle Sezioni semplici in relazione a specifiche questioni di indubbio rilievo su cui si registrano orientamenti nomofilattici anche non omogenei.

Con riferimento alla questione indicata nel titolo del presente paragrafo, secondo un primo indirizzo (nel cui ambito si collocano Sez. VI, 9 aprile 2013 - dep. 14 maggio 2013, n. 20820, Nola, Rv. 256231 e Sez. VI, 31 gennaio 2012 - dep. 15 febbraio 2012, n. 5928, P.C. in proc. Cipriani, Rv. 252076) la parte civile non è legittimata a proporre ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del tribunale del riesame che abbia revocato, in tutto o in parte, il sequestro conservativo.

Secondo l'orientamento in parola, in tema di sequestro conservativo, la parte civile sarebbe legittimata, ai sensi dell'art. 318 c.p.p., a richiedere il riesame avverso l'ordinanza applicativa del sequestro, ma non a proporre impugnazione avverso il provvedimento di diniego di siffatto sequestro ovvero avverso il provvedimento decisorio dell'istanza di riesame, pur nel caso in cui quest'ultima procedura incidentale sia stata promossa dalla stessa parte civile.

Per affermare tale principio è valorizzato il dato testuale dell'art. 325 cod. proc. pen. che proprio al comma 2 attribuisce alla parte civile il diritto a proporre ricorso per saltum soltanto contro i "decreti" applicativi di sequestro, cioè contro una tipologia di provvedimenti prevista unicamente per il sequestro preventivo e per il sequestro probatorio, ma non anche per il sequestro conservativo che è emesso sempre con "ordinanza" (art. 317 co. 1 c.p.p.).

L'orientamento in esame richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale e, in particolare, l'ordinanza n. 424 del 1998, in cui il Giudice delle leggi ha chiarito, da una parte, che qualora la persona offesa scelga di inserire la propria azione civile nel processo penale, non può non subire i condizionamenti rivenienti dalla preminente esigenza di un rapido accertamento della responsabilità penale, dall'altra, che il sistema di impugnazione di provvedimenti in tema di sequestro conservativo si inscrive nel quadro della nuova dinamica dei rapporti fra azione civile e azione penale ispirato al favor separationis, quale "corollario del carattere accessorio e subordinato dell'azione civile nel processo penale e della prevalenza in quest'ultimo di interessi pubblicistici rispetto a quelli privatistici della parte civile".

In questa prospettiva, aggiunge la Corte Costituzionale, è lasciata alla persona danneggiata dal reato l'opzione tra chiedere la tutela dei propri diritti nella sede propria (cioè nel processo civile) ovvero nel processo penale, ma - una volta scelta la seconda possibilità - essa non si sottrae agli effetti che ne conseguono a causa della "struttura e della funzione del giudizio penale, cui la stessa azione civile deve necessariamente adattarsi".

In tale contesto l'indirizzo giurisprudenziale in esame assume che la diversa disciplina dettata dagli artt. 322-bis e 325 cod. proc. pen., che solo in materia di sequestro preventivo prevedono rispettivamente l'appellabilità e la ricorribilità di tutte le ordinanze, sarebbe giustificata dalle differenze strutturali e funzionali tra le due forme di sequestro e, in particolare, dagli interessi pubblicistici sottesi al sequestro preventivo, volto alla prevenzione dei reati, rispetto a quelli di natura patrimoniale e civilistica che esclusivamente connotano il sequestro conservativo ("sicché non irragionevolmente il legislatore ha nel primo caso inteso assicurare al pubblico ministero un mezzo di impugnazione avverso il provvedimento negativo, negandolo invece alla parte civile e allo stesso pubblico ministero in relazione al sequestro conservativo", così Corte Cost. ord. n. 424 del 1998).

L'affermazione è asimmetrica rispetto a quanto ritenuto da altro orientamento della Corte, nel cui ambito devono iscriversi, Sez. V, 7 novembre 2012 - dep. 30 gennaio 2013, n. 4622, Dazzi, Rv. 254645; Sez. VI, 3 maggio 2013 - dep. 10 giugno 2013, 25449, Polichetti, Rv. 255473; Sez. VI, 5 aprile 2013 - dep. 26 giugno 2013, n. 28082, Fall. Soc. DKW srl, Rv. 256320, secondo cui la parte civile sarebbe legittimata a proporre ricorso per Cassazione.

La legittimazione, secondo l'indirizzo in esame, discenderebbe da una lettura estensiva del comma 2 dell'art 325; in questo senso si era espressa, in tempi meno recenti, Sez. IV, 21 giugno 1995 - dep. 28 luglio 1995, n. 2394, Tirelli, Rv. 202021, secondo cui "dal combinato disposto degli artt. 325, comma secondo, e 318 cod. proc. pen., che attribuisce la legittimazione a proporre richiesta di riesame contro il provvedimento di sequestro conservativo a chiunque vi abbia interesse, si desume che anche la parte civile può presentare direttamente ricorso per cassazione e, conseguentemente, che può pure proporre ricorso ex art. 325, comma primo, cod. proc. pen. (Fattispecie relativa a ricorso per cassazione della parte civile avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame che su richiesta dell'imputato, aveva annullato il provvedimento di sequestro conservativo emesso in danno dello stesso)". Alle medesime conclusioni è giunta anche Sez. V, 17 dicembre 2003 - dep. 9 febbraio 2004, n. 5021, Feola, Rv. 228071, secondo cui "sussiste la legittimazione della parte civile ad impugnare, con ricorso per cassazione, l'ordinanza del Tribunale del riesame che ha revocato il sequestro conservativo, in quanto dal combinato disposto degli articoli 325, comma secondo, e 318 cod. proc. pen. deriva la legittimazione a proporre richiesta di riesame - avverso il provvedimento di sequestro conservativo - o ricorso diretto per cassazione di chiunque vi abbia interesse; d'altra parte, l'esclusione della legittimazione della parte civile in ordine all'impugnazione di un provvedimento cautelare diretto a garantire le obbligazioni civili derivanti da reato, sarebbe lesivo del diritto di difesa ad essa assicurato".

5. Il sequestro preventivo funzionale alla confisca ex art. 12 sexies l. n. 356 del 1991 nei delitti tentati.

La Corte di cassazione ha sostenuto che la confisca ex art. 12-sexies legge 8 luglio 1992, n. 356, può essere disposta anche in conseguenza di una condanna per tentativo di estorsione in quanto il richiamo contenuto nell'art. 12 sexies citato al delitto previsto dall'art. 629 cod. pen., in mancanza di ulteriori specificazioni, non autorizza alcuna distinzione fra la fattispecie consumata e quella tentata" (Sez. I, 28 maggio 2013 - dep. 20 giugno 2013, n. 27189, Guarnieri, Rv. 255633).

A fondamento del principio indicato si è posto l'assunto secondo cui "in mancanza di ulteriori specificazioni, [la norma] non autorizza alcuna distinzione fra reato consumato e reato tentato, in quanto non collega la confisca al provento o al profitto del reato, bensì ai beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza lecita, indipendentemente dalla loro fonte che si presume derivante dalla complessiva attività illecita del soggetto".

Sul tema, deve essere segnalato che in una precedente occasione la Corte era giunta a diverse conclusioni.

Infatti, Sez. II, 23 settembre 2010 - dep. 7 ottobre 2010, n. 36001, Fasano, Rv. 248164, ha affermato che non può essere disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ai sensi dell'art. 12-sexies legge n. 356 del 1991 in relazione al delitto di tentata estorsione, stante l'espressa previsione della sequestrabilità esclusivamente per il reato consumato e l'autonomia, rispetto ad esso, del tentativo che non consente estensioni in malam partem.

La Corte, in motivazione, ha anche aggiunto, a sostegno dell'orientamento proposto, che "...può farsi riferimento alla giurisprudenza di legittimità che ha costantemente affermato, in tema di esclusioni oggettive dall'amnistia e dall'indulto e in tema di arresto in flagranza, che le relative norme operano solo nelle ipotesi di reato consumato, quando solo queste siano indicate. Allorché il legislatore ha voluto ricomprendere il tentativo lo ha espressamente previsto, come nel caso di cui all'art. 380 c.p.p., che consente l'arresto obbligatorio in flagranza per chi è colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce una determinata pena".

6. Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente nei confronti dei concorrenti nel reato.

La Sezione Sesta con sentenza del 26 marzo 2013 - dep. 28 giugno 2013, n. 28264, Anemone, Rv. 255610 ha affermato che "il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto o del prezzo del reato di corruzione può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni di ciascuno dei concorrenti nel reato, senza, però, poter complessivamente eccedere il valore del suddetto prezzo o profitto e ciò perché il sequestro preventivo non può avere un ambito più vasto della futura confisca".

La Corte ha richiamato un principio generale del diritto processuale, quello secondo cui con il provvedimento cautelare non si può ottenere più di quello che sarà conseguibile con il provvedimento definitivo, precisando che se è vero che la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, che non è commisurata alla colpevolezza del reo, né alla gravità dell'illecito, e che prescinde dalla pericolosità in sé della cosa, impedisce l'ablazione di beni, appartenenti ai concorrenti nel reato, che superino il valore del prezzo o del profitto ricavato dal reato, lo stesso limite deve valere anche per la misura cautelare che anticipa il provvedimento definitivo, atteso che, se così non fosse, si realizzerebbe una violazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza e risulterebbe inficiata la stessa funzione strumentale e provvisoria che il sequestro preventivo, come ogni provvedimento cautelare, assolve rispetto al successivo provvedimento di merito definitivo.

In motivazione la sentenza ha evidenziato come la stessa giurisprudenza di legittimità, in molteplici occasioni, abbia ritenuto applicabili i principi di proporzionalità e adeguatezza, unitamente a quello di gradualità, anche in ordine alle misure cautelari reali, affermando che nel sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente "è necessaria da parte del giudice una valutazione relativa all'equivalenza tra il valore dei beni e l'entità del profitto, così come avviene in sede esecutiva della confisca, non essendovi ragioni per cui durante la fase cautelare possa giustificarsi un sequestro avente ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto o il prezzo del reato" (in tale senso, Sez. V, 9 ottobre 2009 - dep. 18 gennaio 2010, n. 2101, Sortino, Rv. 245727; Sez. III, 7 ottobre 2010 - dep. 25 novembre 2010, n. 41731, Giordano, Rv. 248697; Sez. V, 21 gennaio 2010 - dep. 1 marzo 2010, n. 8152, Magnano, Rv. 246103; Sez. VI, 23 novembre 2010 - dep. 27 febbraio 2010, n. 45504, Marini, Rv. 248956).

Il sequestro per equivalente funzionale alla confisca, si assume, è limitato solo al tantundem, cioè alla somma corrispondente al profitto o al prezzo conseguito dall'illecito, sicchè la questione relativa al quantum dei beni da sequestrare non può considerarsi estranea alla sfera di cognizione del giudice, dovendo invece quest'ultimo valutare, ai fini dell'emissione della misura cautelare, la corrispondenza tra il valore dei beni oggetto della futura ablazione e l'entità del profitto o del prezzo del reato.

Si tratta di una decisione non simmetrica rispetto ad altro indirizzo giurisprudenziale secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, anche se poi l'espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l'ammontare complessivo dello stesso profitto (in tal senso, Sez. II, 16 novembre 2012 - dep. 22 febbraio 2013, n. 8740, Della Rocca, Rv. 254526; Sez. V, 10 gennaio 2012 - dep. 11 aprile 2012, n. 13562, Bocci, Rv. 253581; Sez. V, 3 febbraio 2010 - dep. 19 marzo 2010, n. 10810, Perrotelli, Rv.246364).

Secondo questo orientamento, mentre il sequestro preventivo, in considerazione della sua natura provvisoria e strumentale rispetto alla futura esecuzione della confisca, può essere disposto per l'intero (e, cioè, fino all'entità del profitto complessivo) nei confronti di ciascuno degli indagati, invece la confisca, istituto di natura sanzionatoria, non può in alcun caso eccedere l'ammontare del prezzo o del profitto del reato. L'affermazione indicata è considerata espressione del principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, in ragione del quale è consentita l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente, nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati.

7. Preclusioni processuali nei rapporti tra misura cautelare reale e confisca adottata in sede di prevenzione (rinvio).

Sull'argomento si rinvia alla trattazione svolta nella parte III, capitolo V, sezione IV, paragrafo 4.

8. I principi di proporzionalità e adeguatezza nei sequestri.

La materia della misure cautelari reali è stata inoltre interessata da ulteriori pronunce in tema di applicazione dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità in tema di sequestro, di poteri del giudice in ordine alla verifica delle equivalenza fra valore dei beni sottoposti al vincolo reale ed entità del profitto, di sequestro avente ad oggetto beni in comunione con soggetti terzi.

Sez. V, 16 gennaio 2013 - dep. 20 febbraio 2013, n. 8382, Caruso, Rv. 254712, ha ribadito che i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall'art. 275 c.p.p. per le misure cautelari personali, devono ritenersi applicabili anche alle misure cautelari reali e devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell'applicazione delle cautele reali, al fine di evitare una ingiustificata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata.

In applicazione del principio in questione, la Corte ha chiarito che il giudice nel provvedimento impositivo del vincolo reale deve "motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato ricorrendo ad altri e meno invasivi strumenti cautelari ovvero modulando quello disposto - qualora ciò sia possibile - in maniera tale da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto a vincolo anche oltre le effettive necessità dettate dall'esigenza cautelare che si intende arginare".

Profilo esplicativo direttamente discendente dal tema su indicato è quello del dovere del giudice di verificare la equivalenza fra valori dei beni sottoposti a sequestro ed entità del profitto.

Sez. VI, 10 gennaio 2013 - dep. 2 maggio 2013, n. 19051, Curatela Fall. Soc. Tecno Hospital s.r.l., Rv. 255256 e Sez. III, 4 aprile 2012 - dep. 22 gennaio 2013, n. 3260, Currò, Rv. 254679 hanno affermato il principio per cui spetta al giudice del riesame l'onere di effettuare, sulla base dei dati disponibili, la valutazione relativa alla equivalenza tra il valore dei beni in sequestro e l'entità del profitto del reato.

Se è vero, si assume, che "da parte del tribunale (come del g.i.p.) non può essere compiuta alcuna valutazione sul valore dei beni sequestrati in assenza di dati forniti dal pubblico ministero richiedente, né può differirsi tale valutazione alla fase esecutiva, pena il rischio del profilarsi di seri dubbi di legittimità costituzionale, in quanto il sequestro preventivo, funzionale alla confisca "per equivalente", per sua intrinseca natura non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, imponendosi quindi una valutazione relativa all'equivalenza tra il valore dei beni e l'entità del profitto... è parimenti incontroverso che, laddove il giudice disponga di elementi di valutazione tali da effettuare un calcolo ai fini della esatta commisurazione del valore, tale operazione può e deve essere condotta dal giudice, avendo il pubblico ministero solo il compito di fornire al giudice dati concreti per operare la valutazione senza incorrere nel pericolo che essa sia rimessa ad libitum a soggetti non legittimati a tanto ed al di fuori quindi di qualsiasi controllo giurisdizionale".

Quanto al sequestro di beni in comunione, Sez. III, 27 marzo 2013 - dep. 12 luglio 2013, n. 29898, Giorgianni, Rv. 256438, ha chiarito che in caso di comproprietà del bene, il sequestro, quale cautela reale prodromica a una misura ablativa dal contenuto sostanzialmente sanzionatorio come è la confisca, può comunque assoggettare il bene nella sua interezza solo quando è dimostrato che esso sia comunque nella disponibilità dell'indagato oppure in ipotesi di assoluta necessità, rappresentate dalla indivisibilità del bene o da comprovate esigenze di sua conservazione per evitarne la dispersione e il detrimento del valore, essendo altrimenti assoggettabile alla cautela esclusivamente la quota di proprietà intestata all'indagato.

  • sequestro di beni
  • reato tributario
  • confisca di beni
  • pubblica amministrazione

Sezione III

Il sequestro preventivo nei reati tributari

Sommario

1 Il ricorso al sequestro preventivo per equivalente nei reati tributari. - 2 Il profitto quale oggetto del sequestro preventivo. - 3 Il valore dei beni. - 4 I beni nella disponibilità dell'indagato. - 5 L'individuazione dei beni da confiscare. - 6 I presupposti per il mantenimento del sequestro preventivo. - 7 Il sequestro dei beni della persona giuridica per i reati commessi dagli amministratori. - 8 L'obbligatorietà della confisca nel patteggiamento.

1. Il ricorso al sequestro preventivo per equivalente nei reati tributari.

La Corte in materia tributaria ha affermato, nel corso dell'anno, numerosi principi riguardanti il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, nel tentativo di tracciare gli ambiti e i confini operativi di un istituto giuridico che si è dimostrato molto efficace nel contrasto al fenomeno dell'evasione fiscale.

L'ambito di applicazione della confisca per equivalente inizialmente prevista per alcuni reati del codice penale è stato esteso dall'art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) anche ai reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, omesso versamento di ritenute certificate, omesso versamento di I.V.A., indebita compensazione e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

E' stato messo in rilievo che la scelta di rendere obbligatoria, quantomeno per alcuni reati, la confisca del profitto del reato è stata introdotta nell'ordinamento per adeguare il sistema interno alle indicazioni sovranazionali e alla decisione quadro 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 del Consiglio dell'Unione Europea, che, all'art. 2, impone agli Stati membri di adottare "le misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena della libertà superiore ad un anno o di beni il cui valore corrisponda a tali proventi" (Sez. III, 9 ottobre 2013 - dep. 4 novembre 2013, n. 44445, Cruciani).

Come è noto con l'espressione "confisca per equivalente" si intende far riferimento al provvedimento ablatorio che viene adottato a seguito di condanna per determinati reati in relazione a cose che non rappresentano il profitto o il prezzo del reato commesso, ma riguardano beni o altre utilità nella disponibilità del colpevole per un ammontare corrispondente al prezzo o al profitto del reato (cd. tantundem).

L'opzione legislativa corrisponde ad una precisa scelta in materia politicocriminale, che ha focalizzato l'intervento repressivo non più sulla persona del colpevole, ma sul risultato economico dell'attività delittuosa: tali considerazioni spiegano la ragione per la quale i provvedimenti sanzionatori a carattere patrimoniale siano diventati una delle principali forme di contrasto alla criminalità economica. Si è quindi affermato che qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto l'ammontare oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato (Sez. III, 25 settembre 2012 - dep. 10 gennaio 2013, n. 1261, Marseglia, Rv. 254175).

2. Il profitto quale oggetto del sequestro preventivo.

L'oggetto della misura ablatoria è stato esattamente individuato con un articolato percorso interpretativo, all'esito del quale la Corte è pervenuta alla conclusione che, nei reati tributari, il profitto del reato generalmente coincide con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato. Il profitto su cui può essere disposta la confisca comprende non solo il risparmio di spesa derivante dall'evasione di imposta, ma anche ulteriori vantaggi riflessi riconducibili alle sanzioni e alle altre somme eventualmente dovute (Sez. III, 4 luglio 2012 - dep. 13 marzo 2013, n. 11836, Bardazzi, Rv. 254737).

Tale nozione di profitto è stata ribadita anche dalle Sezioni Unite, che hanno affermato il principio secondo il quale "il profitto confiscabile può essere costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguente alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario" (Sez. Un., 31 gennaio 2013 - dep. 23 aprile 2013, n. 18374, Adami, Rv. 255036).

Nell'accertamento del debito di imposta, che costituisce l'oggetto del sequestro preventivo a fini di confisca, il giudice resta autonomo e non è vincolato dall'esito del processo tributario o dell'accertamento fiscale, essendo evidente come la debenza verso l'Amministrazione finanziaria spesso si riveli divergente dalla pretesa originaria per la operatività di una serie di istituti che hanno sempre più accentuato la determinazione concordata del tributo, come nel caso dell'accertamento per adesione e della conciliazione giudiziale (Sez. III, 19 settembre 2012 - dep. 10 gennaio 2013, n. 1256, Unicredit).

3. Il valore dei beni.

In riferimento alla determinazione del valore dei beni da assoggettare a vincolo, la Corte con alcune pronunce ha ben delimitato i poteri estimatori rimessi alla valutazione del giudice.

In applicazione di tale regola è stato affermato che spetta al giudice che, in sede di riesame, proceda alla conferma del sequestro preventivo funzionale alla confisca del profitto del reato, il compito di valutare l'effettiva equivalenza tra il valore dei beni sottoposti a vincolo e l'entità del suddetto profitto (Sez. VI, 8 aprile 2013 - dep. 4 giugno 2013, n. 24277, Rolli, Rv. 255441).

Poiché l'oggetto del sequestro è rappresentato dai beni di cui il reo ha la disponibilità per un ammontare corrispondente a quelli costituenti il prezzo o profitto del reato, è legittima la determinazione del valore economico degli immobili desunta dalla rendita catastale, che costituisce un parametro maggiormente oggettivo rispetto all'andamento del mercato immobiliare (Sez. III, 6 marzo 2013 - 3 maggio 2013, n. 19099, Di Vora, Rv. 255328).

In riferimento ai rimedi finalizzati a garantire il rispetto del principio di proporzionalità vigente anche per le misure cautelari reali, il soggetto destinatario del provvedimento di coercizione reale, nel caso di sproporzione tra il valore economico dei beni da confiscare indicato nel decreto di sequestro e l'ammontare delle cose effettivamente sottoposte a vincolo, può contestare tale eccedenza al fine di ottenere una riduzione della garanzia, presentando apposita richiesta al pubblico ministero, al g.i.p., ovvero appello al tribunale del riesame (Sez. III, 12 luglio 2012 - dep. 7 marzo 2013, n. 10567, Falchero, Rv. 254919).

E' stato anche precisato che le eventuali divergenze sulla esatta determinazione del valore dei beni oggetto dell'ablazione costituiscono una "quaestio facti" il cui esame è precluso in sede di legittimità (Sez. II, 10 gennaio 2013 - dep. 17 aprile 2013, n. 17584, Iaia, Rv. 255965).

4. I beni nella disponibilità dell'indagato.

Il sequestro a fini di confisca può essere imposto, per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato, sui beni di cui l'indagato abbia la disponibilità e, quindi, non solo sul denaro o sui cespiti di cui il soggetto sia formalmente titolare, ma anche su quelli rispetto ai quali egli possa vantare una disponibilità informale ma diretta ed oggettiva.

Sez. II, 22 febbraio 2013 - dep. 23 maggio 2013, n. 22152, Ucci, Rv. 255950 ha sostenuto che nella sfera applicativa dell'istituto possono ricadere cespiti o liquidità anche solo nella disponibilità dell'indagato, per essa dovendosi intendere la relazione effettuale con il bene, connotata dall'esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà e Sez. III, 7 marzo 2013 - dep. 27 giugno 2013, n. 28145, Papini e altri, Rv. 255559 ha ritenuto che non è di ostacolo all'ablazione dei beni l'esistenza di una ipoteca gravante sull'immobile a tutela dei diritti di terzi, potendo operare, per determinare la destinazione del cespite in caso di conflitto tra i diversi titoli, i generali principi in tema di rapporti tra creditori.

Non possono, invece, essere oggetto di apprensione i beni che l'imputato detiene in virtù di un contratto di leasing che devono ritenersi appartenenti a terzi estranei al reato (Sez. VI, 10 gennaio 2013 - dep. 29 gennaio 2013, n. 4297, Orsi, Rv. 254483) o i beni meramente futuri, come quelli direttamente derivanti dalla gestione dei beni in sequestro (Sez. III, 27 febbraio 2013 - dep. 31 maggio 2013, n. 23649, D'Addario, Rv. 256164).

5. L'individuazione dei beni da confiscare.

La giurisprudenza della Corte ha, inoltre, esaminato la specifica tematica riguardante l'individuazione dei singoli beni da colpire con il sequestro preventivo a fini di confisca, pronunciandosi sull'obbligo per il giudice di indicare i singoli cespiti da sequestrare già al momento dell'emissione del provvedimento cautelare.

In argomento si è sostenuto che il giudice è tenuto soltanto ad indicare l'importo complessivo da sequestrare, mentre l'individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al "quantum" indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (Sez. III, 12 luglio 2012 - dep. 7 marzo 2013, n. 10567, Falchero, Rv. 254918).

6. I presupposti per il mantenimento del sequestro preventivo.

La giurisprudenza delle Sezioni semplici ha analizzato gli aspetti riguardanti la persistenza dei presupposti per il mantenimento della misura cautelare reale.

Nella materia tributaria va rammentato che il versamento tardivo dell'imposta e il pagamento successivo del debito di imposta non hanno effetti estintivi della fattispecie penale, ma integrano solo gli estremi della circostanza attenuante prevista dall'art. 13 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

Generalmente si ritiene che la misura di coercizione reale può essere legittimamente mantenuta fino a quando permane l'indebito arricchimento derivante dall'azione illecita, che cessa definitivamente con l'adempimento dell'obbligazione tributaria. Di conseguenza, è inidoneo a costituire presupposto per la revoca della misura cautelare anche l'eventuale accordo transattivo concluso con l'Amministrazione finanziaria per il versamento rateale dell'imposta evasa, che presuppone il pagamento graduale di somme nel tempo secondo un piano di estinzione del debito: ciò in quanto il pagamento rateizzato dell'imposta, poiché non prevede l'estinzione dell'obbligazione tributaria in un'unica soluzione, potrebbe non essere puntualmente adempiuto alle singole scadenze con l'ulteriore effetto di produrre una ulteriore lievitazione del debito fiscale (Sez. III, 4 luglio 2012 - dep. 13 marzo 2013, n. 11836, Bardazzi).

Secondo Sez. III, 17 gennaio 2013 - dep. 28 febbraio 2013, n. 9578, Tanghetti, Rv. 254748 non costituisce presupposto per la revoca del sequestro nemmeno il provvedimento del giudice tributario di sospensione della esecutività della cartella esattoriale che, per la sua natura "precaria", lascia immutata la doverosità del debito: si è così stabilito che il profitto del reato oggetto del sequestro preventivo per equivalente è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, che rimane inalterato anche nella ipotesi di sospensione della esecutività della cartella esattoriale da parte della Commissione tributaria.

7. Il sequestro dei beni della persona giuridica per i reati commessi dagli amministratori.

Ha formato oggetto di ampio dibattito la questione relativa alla confiscabilità per equivalente dei beni appartenenti alla società per i reati tributari commessi nel suo interesse dagli amministratori.

Sul punto, l'art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001 prevede la confisca, anche per equivalente, come una delle sanzioni principali applicabili alla persona giuridica ritenuta responsabile per uno dei reati-presupposto inseriti nel catalogo degli illeciti penali espressamente previsti dalla normativa sulla responsabilità amministrativa dell'ente (artt. 24 e ss.). Nella materia del diritto penale tributario la possibilità di applicare la misura ablatoria è impedita dalla mancata inclusione dei reati fiscali previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 nell'elenco degli illeciti penali richiamati dagli artt. 24 e seguenti del d.lgs. n. 231 del 2001.

Con riferimento al sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente (artt. 53 e 19 comma secondo d.lgs. 231/2001), è stato affermato che il vincolo non può essere disposto sui beni appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che i delitti fiscali non figurano tra le fattispecie dei reati-presupposto che possono determinare la responsabilità dei soggetti collettivi e che, conseguentemente, sono in grado di giustificare l'adozione del provvedimento cautelare reale (Sez. III, 19 settembre 2012 - dep. 10 gennaio 2013, n. 1256, Unicredit, Rv. 254796).

In effetti, solo un intervento legislativo che preveda espressamente la responsabilità della persona giuridica per i reati tributari commessi a vantaggio e nell'interesse dell'ente potrebbe rendere possibile la confisca di valore nei suoi confronti.

Gli illeciti penali tributari, invece, possono rientrare nella categoria dei reati-fine di una organizzazione criminale transnazionale in grado di consentire la confisca di valore per l'ammontare del prezzo o del profitto del reato sul patrimonio della persona giuridica: la confisca per equivalente, prevista dall'art. 11 della legge 16 marzo 2006, n. 146 per i reati transnazionali, è applicabile anche ai reati tributari rientranti nel programma di un'organizzazione criminale transnazionale (Sez. Un., 31 gennaio 2013 - dep. 23 aprile 2013, n. 18374, Adami).

Tuttavia, la giurisprudenza ha affermato che la confisca di valore può attingere i beni della persona giuridica nell'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti: in tal caso, infatti, il reato non risulterebbe commesso nell'interesse o a vantaggio di una persona giuridica, ma a beneficio diretto del reo attraverso lo schermo dell'ente (Sez. III, 23 ottobre 2012 - dep. 3 aprile 2013, n. 15349, Gimeli, Rv. 254739).

Ad esaurimento dell'argomento va comunque segnalato che la Terza sezione con ordinanza 30 ottobre 2013, n. 46726, Gubert, ha rimesso alle Sezioni Unite la risoluzione della questione "se sia possibile o meno aggredire direttamente i beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante della stessa".

La rimessione della questione alle Sezioni Unite è stata motivata con l'esistenza di una diversa posizione secondo la quale "sebbene il reato tributario sia addebitabile all'indagato, le conseguenze patrimoniali ricadono sulla società a favore della quale egli ha agito salvo che si dimostri che vi è stata una rottura del rapporto organico, cosicché non è richiesto che l'ente sia responsabile ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 ed esso non può considerarsi terzo estraneo al reato perché partecipa all'utilizzazione degli incrementi economici che ne sono derivati".

In base a tale orientamento sarebbe consentita la confisca diretta dei beni costituenti profitto dell'attività illecita indipendentemente dalla qualifica di concorrente nel reato del soggetto nella cui disponibilità è pervenuto l'incremento patrimoniale e, nel caso si tratti di una società, prescindendo dalla previsione o meno di responsabilità amministrativa per il reato medesimo.

8. L'obbligatorietà della confisca nel patteggiamento.

La Corte ha, infine, affrontato la questione relativa alla applicabilità della confisca per equivalente nel rito speciale del patteggiamento.

Il tema è stato trattato dalla sentenza Sez. III, 9 ottobre 2013 - dep. 4 novembre 2013, n. 44445, Cruciani, in corso di massimazione, che ha affermato il principio secondo il quale la confisca di valore è obbligatoria e prescinde dall'accordo delle parti, posto che la sentenza di applicazione concordata della pena è vincolata al solo profilo del trattamento sanzionatorio, ma non a quello relativo all'ablazione del profitto illecito, in relazione al quale la discrezionalità del giudice si riespande come in una normale sentenza di condanna, per cui nessuna efficacia determinante può assumere la volontà dei soggetti processuali tesa ad escluderne l'adozione.

Qualora le parti abbiano limitato il loro accordo al profilo attinente l'applicazione della pena principale, il giudice dovrà pure d'ufficio disporre la confisca per equivalente, anche qualora non sia stato preventivamente disposto il sequestro preventivo, ben potendo il profitto, senza necessità di alcun accertamento nel contraddittorio delle parti, essere determinato nell'ammontare dell'imposta non versata corrispondente all'importo indicato nell'imputazione.

  • archiviazione digitale

CAPITOLO VI

INDAGINI PRELIMINARI

Sommario

1 La scelta dell'argomento. - 2 Richiesta di archiviazione e poteri del giudice: la sentenza delle Sezioni unite. - 3 Opposizione all'archiviazione e poteri del giudice.

1. La scelta dell'argomento.

Una pluralità di pronunce della Suprema Corte ha trattato, nel corso del 2013, la materia delle indagini preliminari, evidenziandone aspetti di diversificata natura.

Le esigenze selettive connaturate alla struttura della presente esposizione hanno peraltro indotto a concentrare l'attenzione sulla tematica dell'archiviazione, oggetto nel 2013 di un intervento delle Sezioni unite e di numerose significative pronunce delle Sezioni semplici.

In particolare, viene da un lato in rilievo la decisione resa dalle Sezioni unite all'udienza del 28 novembre 2013 (allo stato non ancora depositata), con cui è stata risolta, in termini affermativi, la controversa questione "se sia abnorme il provvedimento con cui il g.i.p., investito della richiesta di archiviazione per un determinato reato, ravvisando anche altri fatti costituenti reato, a carico del medesimo indagato o di altri soggetti non indagati, ordini al pubblico ministero di formulare l'imputazione ex art. 409 cod. proc. pen. in riferimento a detti reati".

D'altro lato, verranno richiamate alcune sentenze relative alle problematiche - assai ricorrenti e di non poco rilievo - emerse in tema di opposizione all'archiviazione, con particolare riguardo alla legittimazione alla proposizione, all'ammissibilità dell'atto di opposizione, ai conseguenti poteri valutativi e decisori attribuiti al G.i.p.

2. Richiesta di archiviazione e poteri del giudice: la sentenza delle Sezioni unite.

In materia di procedimento di archiviazione ed, in particolare, in relazione allo spinoso tema dei confini del potere di controllo del Gip sulle richieste del P.M., le Sezioni unite hanno affermato all'udienza del 28 novembre 2013 - con decisione di cui, come già accennato, ancora non è stata depositata la motivazione - il principio per cui deve ritenersi abnorme il provvedimento con cui il G.i.p. investito della richiesta di archiviazione per un determinato reato, ravvisando a carico del medesimo indagato anche altri fatti costituenti reato, ordini al pubblico ministero di formulare l'imputazione ex art. 409 cod. proc. pen. in riferimento a questi ultimi.

La questione e' stata rimessa alla Sezioni unite della Suprema Corte, avendo rilevato i giudici della Sezione V persistere un contrasto di giurisprudenza pur dopo l'affermazione dei principi di diritto in materia espressi dalle Sez. Un., 31 maggio 2005 - dep. 17 giugno 2005, n. 22909, Minervini Rv. 231162-231163.

L'oggetto della rimessione riguarda la particolare fattispecie dell'ordine d'imputazione coattiva nei confronti del medesimo indagato ma relativa a reati "diversi" da quelli iscritti nel registro delle notizie di reato ed oggetto della richiesta di archiviazione avanzata dal P.M.

Un primo orientamento di giurisprudenza non ravvisa alcun profilo di abnormità del provvedimento del G.i.p. in esame, sul preliminare rilievo argomentativo che, "una volta formulata la richiesta di archiviazione il thema decidendum che investe il G.i.p. non si modella sulla base di una specifica domanda ma sulla base delle risultanze processuali, dalle quali questi può trarre elementi per disporre la formulazione della imputazione in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato" (Sez. VI, 28 settembre 2012 - dep. 31 ottobre 2012, n. 42508, Peverelli e altro, Rv. 253617; Sez. VI, 31 gennaio 2011 - dep. 12 aprile 2011, n. 14565, S., Rv 250029; Sez. VI, 22 giugno 2011 - dep. 16 settembre 2011, n. 34284, Polese, Rv. 250836; Sez. VI, 20 gennaio 2010 - dep. 5 marzo 2010, n. 9005, Iannantuono, rv. 246407; Sez. V, 7 ottobre 2008 - dep. 19 novembre 2008, n. 43262, Frizzo, Rv. 241724; Sez. I, 24 novembre 2006 - dep. 15 dicembre 2006, n. 41207, Laccetti Rv. 236003).

Ritengono, invece, abnorme il provvedimento con il quale il G.i.p. ordini al P.M. di formulare l'imputazione in ordine a reati diversi da quelli contemplati nella richiesta di archiviazione le sentenze Sez. II, 3 aprile 2006 - dep. 6 giugno 2006, n. 19447, Filippone, Rv. 234200; Sez. IV, 21 febbraio 2007 - dep. 21 febbraio 2007, n. 20198, Marinelli, Rv. 236667; Sez. III, 27 maggio 2009 - dep. 10 luglio 2009, n. 28481, Battisti, Rv. 244565; Sez. VI, 13 ottobre 2009 - dep. 28 ottobre 2009, n. 41409, Anzellotti, Rv. 245476 e, da ultimo, Sez. VI, 16 febbraio 2012 - dep. 5 aprile 2012, n. 12987, Di Felice, Rv. 252312.

Tali pronunce, concordi nell'affermazione del principio, sono caratterizzate da significative e sostanziali differenze nei rispettivi percorsi motivazionali seguiti.

Nell'ambito di tale solco giurisprudenziale vanno, infatti, enucleate quelle sentenze che sostengono l'abnormità del provvedimento in quanto "esorbitante dai limiti imposti dalla legge al potere del giudice di ordinare la formulazione dell'imputazione".

In particolare tali pronunce, argomentando sulla base della stessa formulazione letterale dell' art. 409, comma quinto, cod. proc. pen., nella parte in cui esso stabilisce espressamente che, "al di fuori della ipotesi prevista dal quarto comma (necessità di ulteriori indagini), il giudice dispone con ordinanza la formulazione della imputazione, quando non accoglie la richiesta di archiviazione", sottolineano che la norma in questione attribuisce al giudice l'eccezionale potere di imporre all'accusa la formulazione della imputazione solo, appunto, quando egli non accolga la richiesta avanzata dal P.M. e non, invece, dopo l'avvenuta archiviazione del medesimo procedimento.

I giudici della Suprema Corte sostengono, infatti, che, anche a voler aderire a quell'orientamento giurisprudenziale che riconosce il potere del giudice di ordinare la formulazione di imputazioni anche diverse da quelle individuate dall'accusa nella richiesta d'inazione (sulla premessa che la richiesta di archiviazione ed il relativo provvedimento del giudice hanno per oggetto una notizia di reato e non una imputazione), "sta di fatto che l'art. 409 comma 5 cod. proc. pen. consente ciò solo quando il giudice non accoglie la richiesta di archiviazione in quanto lo stesso non ha, ovviamente, poteri d'iniziativa dopo la pronuncia del decreto di accoglimento della richiesta del Pubblico Ministero".

Va evidenziato, pertanto, che, tra i due orientamenti emerge, almeno nelle premesse, una contiguità che ha la sua genesi nella condivisione comune dei principi espressi dalla già citata sentenza Minervini delle Sezioni unite, avente ad oggetto la "possibilità che l'imputazione venga formulata, a seguito dell'ordine del giudice, per un titolo di reato diverso da quello o quelli indicati nel registro di reato, e che ciò costituisca una conseguenza fisiologica all'esercizio del legittimo potere di controllo del giudice".

Rispetto a tale premessa tali pronunce, tuttavia, si spingono oltre, in un ulteriore significativo distinguo fondato sull' affermazione che i suddetti poteri del giudice (ordine di ulteriori indagini ed ordine d'imputazione) hanno il loro presupposto nel "non accoglimento" dell'archiviazione per i medesimi fatti e per i medesimi soggetti nei cui confronti si è proceduto. In sostanza esse evidenziano come non sia ammessa dal sistema l'archiviazione sulle ipotesi astratte di qualificazione giuridica, ma soltanto sulla rilevanza penale del fatto rispetto " a tutte le qualificazioni giuridiche in astratto possibili per quella vicenda, apprezzata nei suoi contenuti di evento, condotte, soggetto".

Si pone, in tal modo, l'accento su un distinguo tra il potere del giudice di diversamente qualificare i fatti, che nel percorso motivazionale seguito appare riconosciuto salvo la necessità di un "previo rigetto" della corrispondente richiesta del P.M., e quello di ordinare l'imputazione per fatti diversi.

Di particolare rilevanza, inoltre, il percorso motivazionale di alcune pronunce che concludono per l'abnormità del provvedimento de quo, sulla constatazione che l' assenza di una previa iscrizione nel registro delle notizie di reato, e relativa a fatti per i quali il P.M. non ha svolto indagini, integri un provvedimento che non trova cittadinanza nel sistema processuale in vigore e che "scavalca i poteri d'iniziativa riservati alla pubblica accusa".

Queste, infatti, ricollegano l'abnormità dell'ordinanza che dispone la formulazione dell'imputazione per reati diversi da quelli contemplati dalla pubblica accusa, alla omissione da parte del giudice per le indagini preliminari del passaggio, definito "essenziale", dell'ordine al pubblico ministero di iscrivere nel registro delle notizie di reato i soggetti e/o i reati fino a quel momento non oggetto di indagine, potere questo, invece, ricompreso nelle funzioni di controllo sul corretto esercizio dell'azione penale attribuite al giudice.

3. Opposizione all'archiviazione e poteri del giudice.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione nell'anno 2013 ha trattato l'istituto dell'opposizione alla richiesta di archiviazione sotto diversificati profili, individuando in talune ipotesi il soggetto a ciò legittimato, specificando i limiti di esercizio del potere spettante alla persona offesa, verificando i profili di ammissibilità dell'atto di opposizione nonché accertando i poteri decisori rimessi alla competenza del G.I.P..

Analizzando in dettaglio i superiori aspetti, deve in primo luogo darsi conto di come la giurisprudenza di legittimità abbia stabilito, con riferimento ad alcune specifiche situazioni, a chi competa la legittimazione alla proposizione dell'opposizione alla richiesta di archiviazione.

In termini generali, la sentenza Sez. II, 9 novembre 2012 - dep. 13 febbraio 2013, n. 7043, De Vivo, Rv. 255700, proseguendo nel solco di un consolidato indirizzo interpretativo (cfr., da ultimo, Sez. V, 16 febbraio 2012 - dep. 26 marzo 2012, n. 11634, Iacobuzio, Rv. 252311), ha confermato come agli eredi o ai prossimi congiunti della persona offesa, deceduta non in conseguenza del reato, non possa essere riconosciuta la facoltà di opporsi alla richiesta di archiviazione, né di presentare ricorso avverso il provvedimento di accoglimento della stessa. L'erede, infatti, non può succedere nella posizione sostanziale e processuale del defunto, poiché la qualità di persona offesa è da considerarsi strettamente personale e correlata al rapporto processuale penale che si instaura con l'indagato, per cui essa può essere trasmessa nel solo caso in cui la persona offesa, successivamente deceduta, abbia già provveduto a costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali cagionati dal reato.

E' stata verificata, poi, la possibilità per i danneggiati di opporsi alla richiesta di archiviazione in alcune specifiche ipotesi criminose.

Con riferimento al reato di associazione per delinquere, la Sez. VI, 16 luglio 2013 - dep. 17 luglio 2013, n. 30791, Fragalà, Rv. 255863, ha precisato come l'interesse protetto sia solo l'ordine pubblico, per cui la persona offesa deve esclusivamente essere individuata nella P.A., con la conseguenza che il privato che assuma di essere stato danneggiato dal reato non ha titolo a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione, né a ricevere l'avviso previsto dall'art. 408 cod. proc. pen..

Ad identica soluzione la Corte è pervenuta analizzando il reato di turbata libertà degli incanti, anche in questo caso affermando (Sez. VI, 26 febbraio 2013 - dep. 8 marzo 2013, n. 11031, Ruggieri, Rv. 255724), che l'unico soggetto passivo titolare dell'interesse protetto è la P.A., con la conseguenza che il privato che assume di essere stato danneggiato dal reato non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione.

Con riguardo ai limiti di esercizio del potere della persona offesa, la Sez. VI, 3 aprile 2013 - dep. 17 maggio 2013, n. 21226, Sangiorgi, Rv. 255676, ha osservato come nell'ipotesi in cui vengano dedotti nell'opposizione solo argomenti relativi alla fondatezza della notizia di reato, senza indicazione alcuna di indagini suppletive - stante la ritenuta esaustività dell'attività investigativa svolta - la persona offesa non abbia diritto alla fissazione dell'udienza in camera di consiglio, essendo a ciò contraria sia la lettera della legge che ragioni di ordine logico-sistematico, desumibili dal fatto che la valutazione di ammissibilità prevista dall'art. 410 cod. proc. pen. dovrebbe, in tal caso, implicare un non previsto vaglio preliminare sulla manifesta infondatezza dell'accusa, a sua volta sindacabile in cassazione. Con l'istituto in esame, in particolare, il legislatore ha voluto conferire alla persona offesa poteri di impulso in caso di carenza delle indagini, tuttavia non intendendo riconoscere ad essa alcun potere di discutere in contraddittorio i profili contenutistici di fondatezza dell'accusa e di configurazione giuridica del fatto, evidentemente anche al fine di evitare un'eccessiva dilatazione dello strumento dell'opposizione all'archiviazione.

Sotto altro profilo, la sentenza Sez. II, 27 novembre 2012 - dep. 4 gennaio 2013, n. 161, Bracaglia, Rv. 254049, ha precisato come sia da considerarsi inammissibile l'opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla persona offesa presso un ufficio giudiziario incompetente, successivamente alla scadenza del termine previsto dall'art. 408 cod. proc. pen. e dopo l'emissione del decreto di archiviazione. Pur essendo ordinatorio e non perentorio il suddetto termine, infatti, la Corte ha comunque ritenuto che il G.I.P. debba tener conto dell'atto di opposizione solo in quanto egli non abbia già provveduto, senza sua colpa, all'archiviazione - come verificatosi nel caso di specie, in cui la tardiva presentazione dell'opposizione era da ascriversi alla condotta erronea della persona offesa, che aveva depositato l'atto presso un ufficio giudiziario non competente.

Con riferimento alla posizione dell'indagato, la Sez. VI, 5 marzo 2013 - dep. 24 giugno 2013, n. 27730, Savino, Rv. 255624, ha ribadito, conformemente a quanto già precedentemente indicato dalla Corte (cfr. Sez. I, 23 febbraio 1999 - dep. 18 marzo 1999, n. 1560, Bentivegna, Rv. 213879), che la persona sottoposta ad indagini non è legittimata né a opporsi alla richiesta di archiviazione del procedimento, ciò competendo solo alla persona offesa, né a ricorrere in cassazione contro il decreto di archiviazione, nemmeno sotto il profilo dell'abnormità. Il provvedimento di archiviazione, infatti, è un atto concepito dal legislatore come anteriore all'esercizio dell'azione penale, correlato alla insussistenza degli estremi per esercitarla, che in nessun modo può pregiudicare gli interessi della persona indicata come responsabile nella notizia di reato o l'interesse della pubblica accusa a riaprire le indagini nel caso previsto dall'art. 414 cod. proc. pen. Ne consegue che, per la sua natura di provvedimento "neutro", non sono previsti mezzi di impugnazione contro di esso.

Più di una pronuncia ha affrontato, nell'anno in esame, la problematica dell'ammissibilità dell'atto di opposizione alla richiesta di archiviazione e dei correlati poteri decisori rimessi al G.i.p..

Le decisioni Sez. II, 27 novembre 2012 - dep. 4 gennaio 2013, n. 158, Scandurra, Rv. 254062; Sez. V, 12 dicembre 2012 - dep. 22 gennaio 2013, n. 3246, Vernesoni, Rv. 254375; Sez. VI, 13 novembre 2012 - dep. 11 febbraio 2013, n. 6579, Febbo (Rv. 254869); Sez. VI, 26 febbraio 2013 - dep. 19 marzo 2013, n. 12833, Adolfi, Rv. 256060) hanno nuovamente affrontato la questione relativa ai requisiti di ammissibilità dell'opposizione alla richiesta di archiviazione, di cui il G.I.P. deve tener conto al momento del vaglio dell'atto oppositivo, individuati nella pertinenza e nella rilevanza degli elementi di prova su cui l'opposizione si fonda, ritenendosi in particolare inammissibile l'opposizione in cui la persona offesa si limiti a sollecitare delle investigazioni suppletive superflue ed inidonee a determinare modificazioni sostanziali del quadro probatorio. La soluzione adottata risulta conforme ad un indirizzo interpretativo che, anche se non univoco nella giurisprudenza di legittimità, è stato copiosamente seguito dalla giurisprudenza delle Sezioni semplici (cfr., a titolo esemplificativo, Sez. V, 6 giugno 2012 - dep. 26 giugno 2012, n. 25302, Scicchitano, Rv. 253306), in ciò conformandosi a quanto autorevolmente affermato dalle Sezioni unite nella sentenza 14 febbraio 1996 - dep. 15 marzo 1996, n. 2, Testa, Rv. 204133.

Nella stessa materia, poi, rileva la decisione della Sez. III, 20 marzo 2013 - dep. 5 giugno 2013, n. 24536, Milardi, Rv. 255457, che, ribadendo quanto già espressosi in precedenti pronunce (cfr., da ultimo, Sez. VI, 10 luglio 2012 - dep. 18 settembre 2012, n. 35787, Settembre, Rv. 253349), ha riaffermato che il provvedimento di archiviazione assunto de plano dal G.I.P., pur in costanza di tempestiva opposizione proposta dalla persona offesa, é da considerarsi illegittimo nel caso in cui il giudice, anziché delibare sull'ammissibilità dell'opposizione, abbia valutato il merito della richiesta del P.M. in ordine alla fondatezza dell'accusa, ad esempio ritenendo giuridicamente non configurabile il reato ipotizzato. La regola fondamentale, infatti, è rappresentata dal contraddittorio orale, per cui il G.I.P., a fronte dell'opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, deve provvedere, di norma, alla fissazione dell'udienza camerale per poter decidere, in contraddittorio tra l'indagato e la persona offesa, sulla richiesta avanzata dal P.M..

In coerenza a ciò, la Sez. IV, 17 gennaio 2013 - dep. 20 marzo 2013), n. 12980, P.O. in proc. c/ignoti, Rv. 255500, ha osservato come non possa essere consentito al G.I.P., in presenza di temi suppletivi di indagine, anche se di presumibile scarsa incidenza, di poter obliterare la regola del contraddittorio, anticipando valutazioni di merito in ordine alla fondatezza o all'esito delle indagini suppletive indicate, in quanto l'opposizione è preordinata esclusivamente a sostituire il provvedimento de plano con il rito camerale.

Principio di interesse, poi, è anche quello affermato dalla Sez. VI, 15 gennaio 2013 - dep. 28 gennaio 2013, n. 4183, Noli, Rv. 254254, per cui non è abnorme il provvedimento con il quale il G.I.P., all'esito di udienza camerale fissata a seguito di opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, inviti il P.M. a procedere all'iscrizione nel registro degli indagati della persona denunciata, anche nel caso si tratti di procedimento iscritto a mod. 45. La Corte, infatti, ha ritenuto che nel caso di specie, avendo il P.M. sollecitato il vaglio del G.I.P. - così sottoponendo il procedimento alle regole stabilite dal codice di rito per l'archiviazione - il conseguente provvedimento del giudice di invito alla iscrizione nel registro degli indagati della persona denunciata assume il carattere di mera interlocuzione diretta alla regolarità formale del procedimento, priva di contenuto giurisdizionale e non incidente sul potere del P.M. di qualificazione del fatto e di assunzione di autonome determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale.

La Sez. VI, 9 ottobre 2012 - dep. 8 gennaio 2013, n. 457, Riccio, Rv. 254253, ha ribadito il principio, in precedenza già espresso (cfr. Sez. VI, 28 settembre 2007 - dep. 15 ottobre 2007, n. 37960, Brecciaroli, Rv. 237664), per cui configura una "investigazione suppletiva" ai sensi dell'art. 410 cod. proc. pen., idonea a rendere ammissibile l'opposizione alla richiesta di archiviazione, non solo una indagine nuova, ma anche quella che costituisca un'integrazione o un completamento di un atto investigativo già compiuto.

Conformemente a quanto precisato dalle Sezioni Unite nella sentenza del 27 maggio 2010 - dep. 22 giugno 2010, n. 23909, Simoni, Rv. 247124, la citata sentenza Sez. VI, Riccio, ha anche ribadito il principio per cui il G.I.P. non può provvedere de plano sulla richiesta di archiviazione, riproposta dal P.M. a seguito dello svolgimento di indagini suppletive, se la persona offesa ha presentato nuova opposizione e questa non sia inammissibile.

Da ultimo, deve essere fatto riferimento alla sentenza Sez. VI, 14 novembre 2012 - dep. 9 gennaio 2013, n. 1052, Argenio, Rv. 253650, che, nel seguire un consolidato indirizzo esegetico (cfr., tra le altre, Sez. III, 27 maggio 2010 - dep. 22 giugno 2010, n. 23930, B., Rv. 247875), ha riaffermato il principio in base al quale è da considerasi abnorme l'ordinanza con cui il G.I.P., in esito allo svolgimento dell'udienza camerale fissata a seguito di opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, indichi al P.M., tra le ulteriori indagini necessarie, anche l'interrogatorio dell'indagato, non essendo tale atto un mezzo d'indagine, bensì uno strumento di garanzia e di difesa. L'interrogatorio dell'indagato, infatti, non è un atto geneticamente volto alla ricerca di elementi prova, bensì un incombente tipico da effettuare, una volta acquisite circostanze tali da superare la soglia del mero sospetto nei confronti dell'indagato, come atto di difesa e garanzia dello stesso dalle cui dichiarazioni possono eventualmente emergere ulteriori elementi rispetto a quelli già acquisiti.

  • procedura penale
  • procedura per direttissima

CAPITOLO VII

I PROCEDIMENTI SPECIALI

Sommario

1 Le pronunce in tema di giudizio abbreviato: l'ammissione al rito. - 1.1 L'attività di integrazione probatoria. - 1.2 L'utilizzabilità degli atti. - 1.3 La modifica dell'imputazione. - 1.4 Altre questioni. - 2 Le decisioni relative al giudizio immediato: l'ammissibilità del rito. - 2.1 I rapporti con gli altri procedimenti speciali. - 3 Le decisioni in tema di giudizio direttissimo. - 4.1 Il procedimento per decreto: limiti alla facoltà del p.m. di richiedere l'emissione del decreto penale. - 4.1 I poteri del giudice. - 4.2 Gli effetti del decreto penale di condanna. - 4.3 La fase di opposizione al decreto. - 4.4 La proponibilità del ricorso per cassazione.

1. Le pronunce in tema di giudizio abbreviato: l'ammissione al rito.

Appare utile richiamare, in primo luogo, la sentenza Sez. IV, 15 maggio 2013 - dep. 27 giugno 2013, n. 28184, Sironi, Rv. 255465, la quale ha risolto, in termini di riconoscimento dell'ammissibilità, una questione mai affrontata in precedenza in ordine alla possibilità per l'imputato di richiedere, per la prima volta, il giudizio abbreviato nell'udienza preliminare rinnovata a seguito di annullamento con rinvio di una precedente sentenza di non luogo a procedere disposto dalla Corte di Cassazione. La soluzione favorevole alla ritualità della richiesta é stata fondata, in particolare, sul presupposto, normativamente riconosciuto, della possibilità per l'imputato di avanzare istanza di accesso al rito abbreviato sino alla formulazione delle conclusioni, di cui agli articoli 421 e 422 cod. proc pen.. L'intervenuto annullamento di un precedente atto decisorio e la conseguente necessità del rinnovamento dell'udienza preliminare determina, nel caso di specie, il pieno riconoscimento al giudice di quegli stessi poteri istruttori e decisori che sono tipici di questa fase processuale, per cui non può essere considerata intempestiva un'istanza di ammissione al giudizio abbreviato presentata prima della formulazione delle conclusioni delle parti.

Altro principio innovativo è stato espresso nella sentenza Sez. III, 12 dicembre 2012 - dep. 27 marzo 2013, n. 14403, Stabile, Rv. 255247, avente ad oggetto la differente ipotesi della pronuncia in appello dell'annullamento senza rinvio della sentenza di primo grado, con restituzione degli atti al primo decidente. Tale situazione, per la Corte, non determina la possibilità di revoca della richiesta di rito abbreviato già formulata dall'imputato - che una volta incardinato diviene opzione difensiva oramai intangibile - nella considerazione di come il giudizio di primo grado nuovamente iniziato rappresenti null'altro che una fase dell'originario procedimento, a questo inscindibilmente collegata.

Ulteriore pronuncia, riguardante questione invero mai affrontata nei medesimi termini, è quella della Sez. VI, 15 marzo 2013 - dep. 27 marzo 2013, n. 14454, Lomazzi, Rv. 254542, relativa al caso in cui il giudice di primo o secondo grado riconosca, all'esito del dibattimento, la sussistenza dei presupposti per l'ammissibilità al giudizio abbreviato, nella ritenuta erroneità di una antecedente declaratoria di inammissibilità o di rigetto di una conforme richiesta di ammissione al rito speciale. In tale evenienza, in cui rileva un provvedimento errato inficiante la legalità del procedimento di quantificazione della pena, si determina il doveroso riconoscimento all'imputato del diritto ad ottenere la riduzione della pena prevista dall'art. 442 cod. proc. pen., senza la necessità del regresso alle forme camerali previste per il giudizio abbreviato e con possibilità di utilizzo delle prove assunte in contraddittorio nel corso del procedimento ordinario.

Trattando analoga questione, la sentenza Sez. II, 15 gennaio 2013 - dep. 29 aprile 2013, n. 18745, Ambrosanio, Rv. 255261, ribadendo quanto già affermato in Sez. Un., 27 ottobre 2004 - dep. 18 novembre 2004, n. 44711, Wajib, Rv. 229173, ha precisato come il giudice dibattimentale, che abbia respinto in limine litis la richiesta di accesso al rito abbreviato - "rinnovata" dopo il precedente rigetto del G.I.P. ovvero proposta per la prima volta in caso di giudizio direttissimo o per citazione diretta - debba applicare anche d'ufficio la riduzione di un terzo prevista dall'art. 442 cod. proc. pen., ove riconosca, anche alla luce dell'istruttoria espletata, che quel rito si sarebbe dovuto invece celebrare.

L'effetto estensivo del beneficio ai coimputati è stato, invece, oggetto di considerazione nella sentenza Sez. II, 8 gennaio 2013 - dep. 24 gennaio 2013, n. 3750, Ferrante, Rv. 254459, che ha precisato come la richiesta di applicazione della diminuente prevista per il rito abbreviato non ammesso nel giudizio di primo grado sia motivo di impugnazione non esclusivamente personale, per cui, ove accolto, può essere esteso anche agli altri imputati, impugnanti o meno, che lo abbiano proposto.

Sempre in tema di ammissibilità del giudizio abbreviato, deve essere segnalata, ancora, la Sez. II, 7 maggio 2013 - dep. 29 maggio 2013, n. 23036, Necula, Rv. 255554, che ha affrontato, dichiarandola manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 458 cod. proc. pen., nella parte in cui fissa in quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato il termine perentorio entro cui poter scegliere di accedere al rito abbreviato. Tale decisione, tuttavia, è oggetto di trattazione nella parte relativa al giudizio immediato, alla quale, pertanto, viene fatto rinvio (cfr. infra, par. 3).

1.1. L'attività di integrazione probatoria.

Particolarmente numerose sono state le pronunce della Suprema Corte, emesse nel 2013, concernenti l'attività istruttoria svolta nel corso del giudizio abbreviato.

Di sicuro interesse è la sentenza Sez. III, 16 gennaio 2013 - dep. 20 marzo 2013, n. 12842, Gambarini, Rv. 255109, che, proseguendo nell'orientamento modificativo assunto dalla più recente giurisprudenza della Corte (cfr. Sez. V, 30 aprile 2012 - dep. 21 settembre 2012, n. 36335, R., Rv. 254027), ha ribadito come, in tema di giudizio abbreviato, l'integrazione probatoria disposta dal giudice ai sensi del quinto comma dell'art. 441 cod. proc. pen. possa riguardare anche la ricostruzione storica del fatto e la sua attribuibilità all'imputato, atteso che gli unici limiti a cui è soggetto l'esercizio del relativo potere sono costituiti dalla necessità, ai fini della decisione, degli elementi di prova di cui viene ordinata l'assunzione e dal divieto di esplorare itinerari probatori estranei allo stato degli atti formato dalle parti.

Nella sentenza Sez. IV, 20 novembre 2012 - dep. 12 febbraio 2013, n. 6969, Carani, Rv. 254478, è stato riaffermato il principio, espresso in altra pronuncia datata (Sez. VI, 12 giugno 1997 - dep. 15 dicembre 1997, n. 11462, Albini, Rv. 209696), per cui la richiesta di giudizio abbreviato proveniente dall'imputato comporta la definizione del processo allo stato degli atti, il che determina la formazione della res iudicanda sulla base del quadro probatorio già acquisito, ivi compresi gli elementi relativi alle circostanze attenuanti (nella fattispecie quella prevista dall'art. 62 n. 6 cod. pen.), per il riconoscimento delle quali non è possibile procedere ad ulteriori acquisizioni probatorie o documentali. Nel caso di specie, in particolare, l'imputato aveva chiesto l'ammissione al rito abbreviato in un'udienza antecedente a quella in cui aveva provveduto a comprovare documentalmente l'intervenuta effettuazione del risarcimento del danno.

1.2. L'utilizzabilità degli atti.

La tematica è stata affrontata, con riferimento al giudizio abbreviato da numerose decisioni emesse nel 2013, per lo più conformi ad altre pronunce, spesso recenti.

Analizzando tali sentenze, può evidenziarsi che la Corte ha in particolare ritenuto utilizzabili: a) le dichiarazioni rese dall'indagato alla polizia giudiziaria, senza assistenza del difensore, sul luogo e nell'immediatezza del fatto durante l'esecuzione di una perquisizione domiciliare (Sez. IV, 14 novembre 2012 - dep. 12 febbraio 2013, n. 6962, Memoli, Rv. 254396); b) le trascrizioni sommarie della polizia giudiziaria di intercettazioni di conversazioni telefoniche (Sez. V, 26 marzo 2013 - dep. 9 maggio 2013, n. 20055, Nocella, Rv. 255655); c) le dichiarazioni rese dai coimputati sulla base della normativa vigente prima dell'entrata in vigore della legge 1 marzo 2001, n. 63 (Sez. II, 15 maggio 2013 - dep. 4 giugno 2013, n. 24211, Pelle, Rv. 255710).

Con pronunce che appaiono invece innovative, la Corte ha per la prima volta riconosciuto la possibilità di utilizzare nel rito abbreviato: a) le relazioni di servizio redatte da ufficiali di polizia giudiziaria contenenti informazioni apprese da colleghi stranieri nel corso di colloqui con finalità investigative (Sez. VI, 2 ottobre 2012 - dep. 3 gennaio 2013, n. 115, Neziraj, Rv. 254007); b) le informative redatte dalla polizia estera direttamente consegnate ad autorità di polizia italiane, al di fuori di procedure formali di rogatoria (Sez. VI, 9 novembre 2012 - dep. 8 febbraio 2013, n. 6346, Domizi, Rv. 254889); c) le dichiarazioni rese in contraddittorio nel corso del giudizio dai collaboratori di giustizia oltre il termine di centoottanta giorni dall'inizio della collaborazione (Sez. VI, 30 ottobre 2012 - dep. 13 giugno 2013, n. 26093, Pompeo, Rv. 255736-255738).

Con riferimento ai poteri istruttori spettanti al giudice di appello, sempre con riguardo al giudizio abbreviato, la Sez. II, 21 dicembre 2012 - dep. 28 marzo 2013, n. 14649, Santostasi, Rv. 255358, riaffermando un consolidato indirizzo giurisprudenziale (cfr. Sez. I, 24 gennaio 2008 - dep. 2 aprile 2008, n. 13756, Diana, Rv. 239767), ha evidenziato come al giudice di secondo grado sia consentito, a differenza di quello di primo grado, disporre di ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, secondo il disposto dell'art. 603, terzo comma, cod. proc. pen., potendo le parti sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria spettanti al giudice di appello.

Ad ulteriore precisazione, la già citata sentenza Sez. VI, Pompeo, ha affermato, con altra interpretazione innovativa, che la celebrazione del processo nelle forme del rito abbreviato non preclude al giudice di appello di disporre, ai sensi dell'art. 603, terzo comma, cod. proc. pen., la citazione di testi di riferimento omessa in primo grado, ovvero di provvedere alla rinnovazione dell'istruzione nel caso di prova sopravvenuta dopo l'apertura del giudizio di primo grado.

La decisione assunta con Sez. III, 29 novembre 2012 - dep. 6 febbraio 2013, n. 5854, R., Rv. 254850, poi, ha per la prima volta applicato anche al rito abbreviato il principio, mutuato dalla sentenza CEDU del 5 luglio 2011 nel caso Dan c. Moldavia, per cui il giudice di appello, qualora intenda riformare la sentenza di assoluzione assunta in prime cure in esito al giudizio abbreviato, debba procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per l'audizione dei testimoni ritenuti inattendibili (su tale problematica, si rinvia alla trattazione svolta nel capitolo III, paragrafo 6).

La Sez. V, 5 febbraio 2013 - dep. 26 giugno 2013, n. 27985, Rossi, Rv. 255566, ha quindi ribadito, in una con l'interpretazione consolidata (cfr., da ultimo, Sez. VI, 8 marzo 2011 - dep. 13 aprile 2011, n. 15086, Della Ventura e altri, Rv. 249910), che non è deducibile come motivo di ricorso per cassazione la mancata assunzione di una prova decisiva nel giudizio abbreviato non condizionato.

Con riferimento, invece, all'attività istruttoria nel giudizio abbreviato condizionato, deve essere segnalata la decisione Sez. I. 9 ottobre 2012 - dep. 6 giugno 2013, n. 24865, Chiapponi, Rv. 255824, che ha ribadito il già reiteratamente espresso concetto (su cui cfr., tra le altre, Sez. V, 19 dicembre 2005 - dep. 3 febbraio 2006, n. 4648, Simoncelli, Rv. 233632) per cui il potere attribuito al giudice dall'art. 441, comma 5, cod. proc. pen. di assumere, anche d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione quando ritiene di non potere decidere allo stato degli atti, è preordinato alla tutela dei valori costituzionali che devono presiedere, anche nei giudizi a prova contratta, all'esercizio della funzione giurisdizionale e, pertanto, risponde alle medesime finalità cui è preordinato il potere previsto dall'art. 507 cod. proc. pen. in dibattimento.

Relativamente ad un'ipotesi in cui, successivamente alla loro ammissione, non è stato possibile acquisire delle registrazioni video, in quanto non risultate effettuate, la Corte ha affermato il principio per cui non è causa di nullità del giudizio abbreviato condizionato la mancata acquisizione della prova ammessa in quanto non esistente (Sez. VI, 23 maggio 2013 - dep. 26 giugno 2013, n. 27907, Lombardo, Rv. 255563), conformemente a quanto osservato, in termini generali, in Sez. Un., 19 luglio 2012 (dep. 24 ottobre 2012), n. 41461, Bell'Arte, 253211, per cui non è revocabile l'ordinanza di ammissione al rito abbreviato condizionato ad integrazione probatoria nel caso in cui la condizione divenga irrealizzabile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte.

1.3. La modifica dell'imputazione.

L'incidenza di tale problematica nel giudizio abbreviato è trattata, come subito si vedrà, da due specifiche pronunce.

Introducendo un'affermazione del tutto innovativa, la sentenza Sez. I, 12 febbraio 2013 - dep. 27 febbraio 2013, n. 9400, Albanese, Rv. 254955, ha riconosciuto la possibilità per il P.M. di procedere ad una nuova contestazione della recidiva all'esito dell'espletamento dell'integrazione probatoria disposta dal G.U.P. ai sensi dell'art. 441, comma 5, cod. proc. pen., limitatamente, tuttavia, alle risultanze scaturite dall'integrazione officiosa, senza possibilità di riferimento a dati preesistenti, già parte del fascicolo processuale al momento della scelta del rito. Ciò appare diretta conseguenza del principio, derivato dal disposto degli artt. 441, comma 1, e 423 cod. proc. pen., per cui il giudizio abbreviato deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, e quindi allo stato degli atti, con conseguente immutabilità dell'originaria contestazione. L'apertura alle nuove contestazioni, prevista dall'art. 441 bis cod. proc. pen. anche nel caso di integrazione probatoria disposta ex officio dal giudice, non può essere intesa, pertanto, come un viatico per una nuova o più circostanziata contestazione di preesistenti emergenze - elusiva del disposto del primo comma dell'art. 441 cod. proc. pen. - ma come una possibilità applicativa correlata unicamente all'intervenuta acquisizione di nuove emergenze alteranti lo stato degli atti, come tali giustificative di apporti correttivi alla contestazione.

La decisione Sez. II, 18 dicembre 2012 - dep. 9 gennaio 2013, n. 859, Chiapolino, Rv. 254186, ha riaffermato il principio seguito dal prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. Sez. V, 21 ottobre 2008 - dep. 12 gennaio 2009, n. 595, Anzalone, Rv. 242543; Sez. IV, 12 giugno 2007 - dep. 8 ottobre 2007, n. 36936, Gamba, Rv. 237238; Sez. VI, 7 luglio 2005 - dep. 6 ottobre 2005, n. 36310, Notari, Rv. 232407) secondo cui non è abnorme il provvedimento di restituzione degli atti al P.M. nel corso del giudizio abbreviato qualora il fatto risulti diverso da quello indicato in imputazione. La richiesta del rito abbreviato, infatti, non determina una cristallizzazione dell'accusa e non limita il potere del giudice di assicurare la corretta qualificazione giuridica del fatto e la corrispondenza tra esso e la contestazione, senza che ciò determini nessuna compromissione delle prerogative difensive spettanti all'imputato, sia in termini di rito che di prova.

1.4. Altre questioni.

In piena conformità al principio espresso in Sez. un., 29 marzo 2012 - dep. 13 luglio 2012, n. 27996, Forcelli, Rv. 252612, la sentenza Sez. II, 23 aprile 2013 - dep. 24 maggio 2013, n. 22366, Pisu, Rv. 255931 ha ribadito che l'eccezione di incompetenza territoriale è proponibile in limine al giudizio abbreviato non preceduto dall'udienza preliminare, mentre, qualora il rito alternativo venga instaurato nella stessa udienza, l'incidente di competenza può essere sollevato, sempre in limine a tale giudizio, solo se già proposto e rigettato in sede di udienza preliminare.

In tema di sanatoria di atti relativi al giudizio abbreviato, un ulteriore principio innovativo è stato espresso nella sentenza Sez. VI, 12 marzo 2013 - dep. 1 luglio 2013, n. 28419, Sanchez Conception, Rv. 255800, in ragione del quale la mancata eccezione dell'imputato e/o del suo difensore all'acquisizione disposta dal giudice di appello, a seguito di parziale rinnovazione dell'istruttoria conseguente a giudizio di primo grado svoltosi con le forme del rito abbreviato, di una relazione di servizio della polizia giudiziaria, già presentata al P.M. durante la fase delle indagini preliminari, preclude la possibilità di deduzione del vizio con ricorso per cassazione.

La decisione Sez. VI, 7 febbraio 2013 - dep. 3 maggio 2013, n. 19191, Stanganelli ed altri, Rv. 255128-255130, in tema di intercettazioni di comunicazioni, ha confermato il più recente indirizzo giurisprudenziale (cfr. Sez. VI, 15 dicembre 2011 - dep. 1 giugno 2012, n. 21265, Bianco, Rv. 252850) secondo cui, ove sia impossibile per l'imputato ascoltare ed esaminare le video-riprese effettuate, si determina una nullità di ordine generale a regime intermedio, non più deducibile, in quanto sanata con la scelta del rito abbreviato, anche in considerazione della possibilità di optare per il giudizio ordinario o di subordinare la richiesta della definizione con il procedimento speciale alla integrazione probatoria.

La stessa sentenza Sez. VI, Stanganelli ha tra l'altro anche chiarito, con decisione sul punto mai precedentemente espressa, che la competenza a giudicare in appello i reati comunque aggravati di associazione di tipo mafioso, dopo l'entrata in vigore del D.L. 12 febbraio 2010, n. 10, convertito nella legge 6 aprile 2010, n. 52, spetta alla Corte di appello, e non già alla Corte di Assise di appello, anche nel caso che il giudizio di primo grado sia stato celebrato e definito nelle forme del rito abbreviato davanti al giudice dell'udienza preliminare in epoca precedente alla modifica normativa, poiché l'art. 2 di detta legge stabilisce per tale tipologia di procedimenti la competenza del tribunale, salvo che, al momento dell'entrata in vigore del D.L., "sia stato dichiarato aperto il dibattimento davanti alla Corte di Assise".

La Sez. II, 10 maggio 2013 - dep. 24 maggio 2013, n. 22386, Cicciarelli, Rv. 255943, nel confermare una consolidata opzione ermeneutica (cfr., da ultimo, Sez. VI, 10 dicembre 2009 - dep. 15 gennaio 2010, n. 1940, Testa Fredric, Rv. 245705) ha ribadito, esaminando un'ipotesi di richiesta di patteggiamento rigettata da parte del giudice, come non appartenga alla competenza del G.U.P. la possibilità di procedere, in sede di giudizio abbreviato, al vaglio della fondatezza di una precedente decisione di rigetto di una richiesta di applicazione della pena avanzata ai sensi degli artt. 444 e seguenti cod. proc. pen..

La sentenza Sez. III, 20 novembre 2012 - dep. 25 febbraio 2013, n. 9038, Micheletti, Rv. 254977, relativa invece alla fase dell'esecuzione, ha osservato, nel solco di un univoco orientamento giurisprudenziale (cfr., a titolo esemplificativo, Sez. I, 19 novembre 2009 - dep. 30 dicembre 2009, n. 49981, Scalas, Rv. 245966), come nel caso di riconoscimento della continuazione tra più reati, alcuni dei quali oggetto di condanna all'esito di giudizio abbreviato ed altri di condanna all'esito di giudizio ordinario, la riduzione ex art. 442 cod. proc. pen. debba essere applicata, ove i reati più gravi risultino essere quelli giudicati col rito ordinario, sull'aumento di pena per i reati satellite giudicati con il rito abbreviato.

Da ultimo, con riguardo al computo dei termini di fase della custodia cautelare nel caso di imputato ammesso a giudizio abbreviato dopo l'emissione del decreto di giudizio immediato, è necessario segnalare la pronuncia Sez. VI, 22 dicembre 2012 - dep. 25 febbraio 2013, n. 9088, Sall Mame, Rv. 254582, che peraltro sarà oggetto di trattazione nelle pagine seguenti, dedicate ai rapporti tra il giudizio immediato e gli altri procedimenti speciali, cui si rinvia (cfr. infra, par. 2.1).

2. Le decisioni relative al giudizio immediato: l'ammissibilità del rito.

Su tale specifica questione, vengono in rilievo due differenti decisioni della Seconda sezione.

La prima di esse (Sez. II, 21 dicembre 2012 - dep. 28 marzo 2013, n. 14672, Akid, Rv. 255355), ha vagliato l'indicato aspetto dell'ammissibilità con riferimento all'ipotesi in cui il giudice di merito ravvisi il difetto dei necessari presupposti limitatamente ad alcuni dei reati contestati. La decisione, ribadendo un risalente e non contrastato orientamento (cfr. Sez. III, 26 settembre 1995 - dep. 12 gennaio 1996, n. 273, Pellegrino ed altro, Rv. 203708) ha osservato come, nelle ipotesi in cui il Tribunale ritenga illegittimamente instaurato il giudizio immediato solo per una parte delle imputazioni, possa essere disposto lo stralcio degli atti relativi a tali contestazioni, tuttavia valutandosi la necessità della unitarietà del giudizio alla stregua di quanto stabilito dal primo comma dell'art. 18 cod. proc. pen., che esclude la separazione solo quando la riunione sia "assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti", non assumendo invece alcun rilievo il principio fissato dall'art. 453, comma secondo, del codice di rito, per il quale la separazione deve essere evitata quando possa determinare grave pregiudizio per le indagini in corso, atteso che per "indagini in corso" devono essere intese solo le indagini connesse relative ad altri imputati o ad altri reati per i quali si procede nelle forme ordinarie e con stretto riferimento alla fase delle indagini preliminari.

Di sicura rilevanza, in quanto mai oggetto di alcuna specifica massimazione precedente, è il principio espresso dalla sentenza Sez. II, 13 dicembre 2012 - dep. 4 aprile 2013, n. 15578, Sacco, Rv. 255790, per cui la richiesta di giudizio immediato nei confronti di persona sottoposta a custodia cautelare per il reato in relazione al quale si procede può essere rigettata dal g.i.p. solo in caso di sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

La questione attiene al c.d. giudizio immediato custodiale, oggetto di previsione nei commi 1-bis e 1-ter dell'art. 453 cod. proc. pen., introdotti dalla novella del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125.I limiti e i poteri di controllo del G.I.P. rispetto alla richiesta del P.M. di questa peculiare ipotesi di giudizio immediato, dalla Corte definita "nuova ... autonoma e distinta", sono individuabili in ragione del combinato disposto degli artt. 453, comma 1, e 455, comma 1-bis, cod. proc. pen.. La Sez. II, Sacco, in particolare, ha sottolineato come la nuova disciplina normativa abbia di fatto privato il giudice di qualsiasi controllo sulla richiesta di giudizio immediato a seguito di misura cautelare, essendo il G.I.P. vincolato all'accoglimento della richiesta di giudizio immediato per il reato o per i reati per i quali l'indagato si trovi in stato di custodia cautelare e ricorrano le condizioni di cui al comma 1-ter dell'art. 453 cod. proc. pen., a meno che, nel periodo compreso tra la richiesta e la decisione del giudice, l'ordinanza non sia stata revocata o annullata per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Ne consegue, pertanto, che a differenza del giudizio immediato fondato sull'evidenza della prova - rispetto al quale il giudice mantiene il controllo su tutti i presupposti del rito - nella nuova figura di giudizio immediato il giudice ha la possibilità di rigettare la richiesta nella sola ipotesi di sopravvenuta carenza di un pregiudicato quadro indiziario a carico dell'indagato.

2.1. I rapporti con gli altri procedimenti speciali.

Viene anzitutto in rilievo - per l'incidenza che tali rapporti assumono sulla custodia cautelare - la già citata sentenza Sez. VI, Sall Mame (cfr. supra, par. 1.4), sulla questione della decorrenza del termine di fase nel caso di imputato ammesso a giudizio abbreviato dopo l'emissione del decreto di giudizio immediato. Tale decisione, nel seguire l'interpretazione espressa dalle Sezioni unite nella sentenza 28 aprile 2011 - dep. 28 luglio 2011, n. 30200, P.M. in proc. Ohonba, Rv. 250348, ha precisato come, con riguardo all'indicata ipotesi, i termini di durata massima della custodia cautelare debbano essere commisurati a quelli propri della fase del giudizio dibattimentale per ciò che attiene al periodo antecedente all'emissione dell'ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, viceversa dovendosi avere riguardo a quelli previsti per tale ultimo rito per il periodo successivo all'ordinanza di ammissione, fermo restando il necessario rispetto del complessivo termine stabilito, tra l'emissione del provvedimento che dispone il giudizio e la pronuncia della sentenza di primo grado, dall'art. 303, comma 1 lett. b), cod. proc. pen..

Deve poi darsi conto della decisione Sez. VI, 10 gennaio 2013 - dep. 3 maggio 2013, n. 19205, Elkhadraoui, Rv. 255121, che, nel seguire un orientamento interpretativo consolidato, ha ribadito come sia affetta da nullità la sentenza di patteggiamento pronunciata, dopo l'esercizio dell'azione penale e la notifica del decreto di giudizio immediato, senza la preventiva fissazione dell'udienza in camera di consiglio. A dire della Corte, la necessità dell'udienza camerale si giustifica non solo in ragione della compiuta applicazione del disposto normativo dell'art. 448 cod. proc. pen., ma perché si conforma al diritto dell'imputato - tutelato in ambito costituzionale e sovranazionale - a comparire davanti al proprio giudice, che ben può pronunciarsi in udienza disponendo il proscioglimento dell'imputato, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen..

Di significativo rilievo, infine, è la sentenza Sez. II, 7 maggio 2013 - dep. 29 maggio 2013, n. 23036, Necula, Rv. 255554, che ha affrontato, dichiarandola manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 458 cod. proc. pen., nella parte in cui fissa in quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato il termine perentorio entro cui poter scegliere di accedere ad un rito alternativo (nel caso di specie al giudizio abbreviato). La questione era stata sollevata per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. ed art. 6, comma 3, lett. b) C.E.D.U., nella considerazione di come la disciplina prevista per il giudizio immediato potesse creare una disparità di trattamento tra il soggetto ivi imputato e quello rinviato a giudizio con citazione diretta, cui solo pertiene la possibilità di optare per un rito alternativo fino all'apertura del dibattimento. La Corte ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione dapprima ribadendo l'insegnamento della Corte Costituzionale per cui è rimesso al legislatore dettare nei singoli procedimenti, in relazione alla loro specifica struttura, diversificate modalità di garanzia dell'esercizio del diritto defensionale, e quindi osservando come la questione della conformità agli artt. 3 e 24 Cost. dell'art. 458 cod. proc. pen. fosse già stata dichiarata manifestamente infondata dalla Consulta, sul rilievo che, nel caso in cui l'azione penale venga esercitata mediante richiesta di giudizio immediato al G.I.P., risulti coerente con i caratteri di celerità e di economia processuale del giudizio abbreviato che sia lo stesso giudice ad essere direttamente investito della richiesta del rito alternativo.

3. Le decisioni in tema di giudizio direttissimo.

Le decisioni in materia di giudizio direttissimo hanno riguardato tra l'altro i "casi" in cui è previsto il ricorso a questo rito speciale, la costituzione del contraddittorio ed i termini per proporre impugnazione.

Con riferimento al primo aspetto, la sentenza Sez. I, 27 marzo 2013 - dep. 29 aprile 2013, n. 18775, Baragliu, Rv. 256012, ha ribadito l'orientamento prevalente secondo cui l'obbligatorietà del giudizio direttissimo per i reati in materia di armi permane anche quando sono superati i termini ordinari previsti dall'art. 449 cod. proc. pen. A fondamento di questa conclusione, si è osservato che l'art. 233 disp. att. cod. proc. pen. come introdotto dall'art. 12 bis d.l. 8 giugno 1992, n. 306, prevede l'obbligo di giudizio direttissimo per i reati in materia di armi "anche fuori dei casi" stabiliti dalle disposizioni del codice di procedura penale. Ha rilevato, poi, che una conferma dell'inclusione dei termini nell'ambito dei "casi" deriva dall'art. 452, comma 1, cod. proc. pen., che, con lo stabilire la restituzione degli atti al P.M. "se il giudizio direttissimo risulta promosso fuori dei casi previsti dall'art. 449", classifica i termini nei "casi" e non nei "modi".

La medesima sentenza, inoltre, ha evidenziato che il ricorso al rito direttissimo per i reati connessi o collegati a quelli in materia di armi (nella specie si trattava di reati in materia di caccia), non incidendo sull'intervento, l'assistenza e la rappresentanza del difensore, dà luogo ad una nullità relativa sanabile se non tempestivamente eccepita.

Per quanto riguarda il contraddittorio, un principio nuovo, almeno con riferimento al codice di procedura penale del 1988, è stato affermato dalla sentenza Sez. VI, 15 maggio 2013 - dep. 31 maggio 2013, n. 23845, Di Muzio, Rv. 256131. Questa decisione ha esaminato il problema della posizione processuale dell'imputato che, condotto in stato di arresto davanti al tribunale, dopo la convalida e la remissione in libertà, chiede i termini a difesa e non si presenta alle successive udienze. La soluzione accolta è stata quella di qualificare la mancata comparizione alle successive udienze come assenza e non come contumacia, attesa la regolarità della costituzione del rapporto processuale alla prima udienza. Di conseguenza, è stato escluso il diritto dell'imputato a ricevere la notifica dell'estratto contumaciale; l'ulteriore effetto è stato quello di fissare il decorso del dies a quo del termine per impugnare dalla data del deposito della sentenza, ove questo adempimento sia stato tempestivamente effettuato, con evidenti ricadute ai fini del giudizio sull'ammissibilità dell'impugnazione.

Con specifico riferimento al termine per proporre impugnazione, la sentenza Sez. VI, 6 febbraio 2013 - dep. 6 marzo 2013, n. 10347, Hamed, Rv. 254588, ha affermato l'applicabilità dell'istituto della sospensione nel periodo feriale secondo la disciplina prevista dall'art. 2 della legge 7 ottobre 1969, n. 742. Ha osservato, in proposito, che la disciplina della sospensione dei termini è di generale applicazione anche in relazione a processi con imputati detenuti, e che le deroghe alla stessa sono espressamente previste ed ancorate ad esigenze particolari e specifiche, come in caso di imminenza della prescrizione o del termine massimo di custodia cautelare, mentre per il caso di specie non è contemplata alcuna deroga espressa. Ha poi aggiunto che l'unico indice normativo utilizzabile per configurare una deroga implicita al regime fissato dall'art. 2 della legge n. 742 del 1969 è la formula impiegata negli artt. 449, comma 3, cod. proc. pen e 558, comma 6, cod. proc. pen., nei quali si dispone che se, l'arresto è convalidato, "si procede immediatamente a giudizio", e che, però, tale espressione non è sufficiente: invero, per essere risolutivo ai fini in questione, "il riferimento al 'giudizio' dovrebbe sussumere anche tutto ciò che può accadere fino al giudicato", imponendo, quindi, per i soli processi celebrati nelle forme del rito direttissimo, in modo del tutto irrazionale, tempi rapidissimi pure per i gradi di impugnazione e persino "a prescindere dal contingente stato di custodia cautelare.

4.1. Il procedimento per decreto: limiti alla facoltà del p.m. di richiedere l'emissione del decreto penale.

Viene anzitutto in rilievo la sentenza Sez. III, 13 febbraio 2013 - dep. 21 marzo 2013, n. 13028, Traina, Rv. 255028, la quale ha affermato il principio secondo cui il denunciante non può precludere al magistrato requirente la scelta di accedere al rito speciale previsto dagli artt. 459 e ss. cod. proc. pen., neanche formulando opposizione preventiva nell'atto di denuncia, in quanto la titolarità dell'azione penale è nella esclusiva competenza del pubblico ministero, e che nessun potere in proposito è riconosciuto al denunciante dal sistema processuale. Sez. II, 18 dicembre 2012 - dep. 23 gennaio 2013, n. 3415, De Luca, Rv. 254773 ha affermato che al pubblico ministero è inibito richiedere l'emissione del decreto penale quando vi è l'opposizione espressa del querelante e che la violazione del divieto determina la nullità di ordine generale, per inosservanza di disposizione riguardante l'iniziativa del medesimo nell'esercizio dell'azione penale, del provvedimento di accoglimento eventualmente adottato dal giudice.

 

4.1. I poteri del giudice.

Per quanto attiene ai poteri del giudice adito con richiesta di emettere il decreto penale, Sez. II, 12 dicembre 2012 - dep. 14 gennaio 2013, n. 1631, Romano, Rv. 254449, e Sez. VI, 27 giugno 2013 - dep. 10 luglio 2013, P., Rv. 256149, hanno ribadito il consolidato insegnamento (cfr., da ultimo, Sez. IV, 21 novembre 2007 - dep. 28 gennaio 2008, n. 4186, Tricolore, Rv. 238431) secondo cui è possibile l'adozione una sentenza di proscioglimento nei soli casi tassativamente indicati dall'art. 129 cod. proc. pen. e quindi non anche quando la prova risulta mancate, insufficiente o contraddittoria; in particolare, Sez. II, Romano, ha precisato che il principio enunciato è violato anche quando il proscioglimento è formalmente disposto con formula piena. Sez. VI, 27 giugno 2013 - dep. 3 settembre 2013, n. 36216, Galati, Rv. 256331, poi, ha escluso - anch'essa in continuità con precedenti pronunce (cfr., da ultimo, Sez. IV, 6 ottobre 2010 - dep. 16 novembre 2010, n. 40513, Sabbatino, Rv. 248857) - l'abnormità del provvedimento con il quale il giudice rigetta la richiesta in ragione della necessità di approfondimenti istruttori, osservando che il sistema, in particolare alla luce di quanto previsto dagli art. 459, comma 3, e 460, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., "consente tra i possibili epiloghi decisori una valutazione di merito sulla consistenza degli elementi di prova addotti a sostegno del decreto di condanna" e che abnorme è solo il rigetto fondato su un giudizio di inopportunità del ricorso al procedimento monitorio. Un'affermazione nuova sui poteri del giudice in tema di procedimento per decreto, ma coerente con i principi generali in tema di abnormità dei provvedimenti, è offerta da Sez. III, 28 febbraio 2013 - dep. 12 aprile 2013, n. 16786, Berenbruch, Rv. 255093: questa sentenza ha escluso l'abnormità del provvedimento di revoca del decreto penale per irreperibilità dell'imputato anche se determinato da un'errata valutazione sui presupposti di fatto dell'irreperibilità, osservando che si tratta di decisione la quale, pur se illegittimamente adottata, costituisce in ogni caso esercizio di un potere espressamente attribuito al giudice dalla legge.

4.2. Gli effetti del decreto penale di condanna.

Sul punto, assume rilevanza Sez. III, 28 novembre 2012 - dep. 11 gennaio 2013, n. 1460, Morandi, Rv. 254267, la quale ha enunciato, senza che risultino precedenti affermazioni in proposito, il principio secondo cui l'interruzione della prescrizione determinata dall'emissione del provvedimento è vicenda che non viene caducata in conseguenza della revoca dell'atto; a fondamento di tale conclusione, la decisione ha evidenziato che il decreto penale denota univocamente la volontà punitiva dello Stato e che questa è irretrattabile. Inoltre Sez. III, 24 ottobre 2012 - dep. 20 dicembre 2012, n. 49477, Birro, Rv. 254147, richiamando un precedente orientamento (cfr., da ultimo, Sez. III, 18 gennaio 2008 - dep. 19 febbraio 2008, n. 7475, Petracchi, Rv. 239008), ha ribadito che il decreto penale, se divenuto irrevocabile, non consente neanche la revoca della confisca erroneamente disposta, perché adottata fuori dei casi di confisca obbligatoria previsti dall'art. 240, comma 2, cod. pen.

4.3. La fase di opposizione al decreto.

Per ciò che riguarda, anzitutto, il profilo della legittimazione a proporre l'opposizione, viene in rilievo Sez. III, 20 novembre 2012 - dep. 18 aprile 2013, n. 17713, Iper Montebello s.p.a., Rv. 255588, la quale ha ribadito un risalente insegnamento (su cui v. specificamente Sez. III, 4 giugno 1999 - dep. 16 luglio 1999, n. 2119, Deriu PA, Rv. 214314), secondo il quale la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è legittimata a proporre opposizione solo se vi sia espressa condanna nei suoi confronti; in particolare, la decisione ha osservato che, in assenza di statuizioni nei suoi confronti, la persona civilmente obbligata non può essere chiamata a rispondere del mancato pagamento da parte del reo, e, quindi, la sua impugnazione non è sorretta da un valido interesse.

In tema di disciplina applicabile, un principio nuovo è stato affermato da Sez. III, 19 febbraio 2013 - dep. 24 maggio 2013, n. 22443, Hichri, Rv. 255287. Questa pronuncia, ponendosi in consapevole contrasto con un consolidato insegnamento (per il quale, cfr. da ultimo, Sez. III, 29 febbraio 2012 - dep. 4 aprile 2012, n. 12784, Medulla, Rv. 252238), ha ritenuto che il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto penale di condanna, pur essendo inammissibile, deve essere convertito nell'opposizione prevista dall'art. 461 cod. proc. pen., perché quest'ultima è inquadrabile nel più generale istituto delle impugnazioni, che prevede anche la conversione dei mezzi di impugnazione (cfr. art. 568, comma 5, cod. proc. pen.), né è plausibile distinguere, nell'ambito della disciplina relativa alle impugnazioni, tra disposizioni applicabili e disposizioni non applicabili all'opposizione al decreto penale, attesa l'esigenza di assicurare una interpretazione conforme ai principi sull'esercizio del diritto di difesa e sul giusto processo tutelati dagli artt. 24 e 111 della Costituzione e dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Sez. III, 29 gennaio 2013 - dep. 3 aprile 2013, n. 15369, Morlini, Rv. 255250, poi, anch'essa muovendo dall'inquadramento dell'istituto nell'ambito dei mezzi di impugnazione, ha ribadito, in linea con una consolidata giurisprudenza (cfr., da ultimo, Sez. IV, 21 ottobre 2010 - dep. 24 novembre 2010, n. 41557, Gallonetto, Rv. 248453), che la rinuncia all'opposizione ex art. 461 cod. proc. pen. deve manifestarsi con atto redatto nelle forme e nei termini previsti dall'art. 589 cod. proc. pen., e non è, pertanto, è desumibile da altri atti o comportamenti, come il pagamento della pena pecuniaria cui l'opponente è stato condannato.

In ordine alle conseguenze, Sez. I, 5 dicembre 2012 - dep. 27 maggio 2013, n. 22710, Hu, Rv. 256538, ha evidenziato che l'opposizione ritualmente proposta priva il decreto penale della sua natura di condanna anticipata, perché esso deve essere revocato dal giudice del dibattimento, e che, di conseguenza, una volta instaurato il dibattimento, il giudice non può più rilevare alcuna nullità del provvedimento monitorio, ma deve procedere alla trattazione del processo. Il principio risulta ribadito anche da Sez. I, 20 giugno 2013 - dep. 17 luglio 2013, n. 30741, Maresca, Rv. 256217, la quale ha ritenuto legittima la declaratoria di nullità del decreto di citazione a giudizio emesso a seguito di opposizione a decreto penale, proprio perché l'atto dichiarato nullo non è quest'ultimo, ma il decreto di citazione.

Trattando della disciplina del giudizio di opposizione, Sez. IV, 20 marzo 2013 dep. 10 aprile 2013, n. 16265, Costa, Rv. 255514, ha ribadito l'orientamento secondo cui il termine a comparire, anche se il giudice che procede è il tribunale in composizione monocratica, è pari a trenta e non a sessanta giorni, per effetto di quanto risulta dal combinato disposto degli artt. 464, comma 1, e 456, comma 3 cod. proc. pen. La decisione si segnala perché conferma l'indirizzo più recente (affermatosi a partire da Sez. IV, 29 settembre 2003, dep. 12 novembre 2003, n. 43366, Gabriele, Rv. 226457), in contrapposizione a quello che riteneva, invece, applicabile il più lungo termine di sessanta giorni (cfr., da ultimo, Sez. IV, 19 dicembre 2002, dep. 28 gennaio 2003, n. 3993, Chiolo, Rv. 220342).

4.4. La proponibilità del ricorso per cassazione.

Con riguardo all'area di possibile impiego del ricorso per cassazione, si segnalano, in particolare, due decisioni già citate - e precisamente Sez. II, De Luca, e Sez. III, Berenbruch - che risultano esprimere significative novità.

La sentenza Sez. II, De Luca, ha riconosciuto la legittimazione della persona offesa querelante a proporre ricorso per cassazione avverso il decreto penale per denunciare che lo stesso è stato emesso nonostante la sua espressa opposizione e la perseguibilità del reato a querela, al fine di un annullamento senza rinvio del provvedimento, "in analogia di quanto previsto dall'art. 428 c. 2 per le nullità ex art. 419 c. 2 cod. proc. pen. e come desumibile dalla disposizione per la quale deve in ogni caso essergli data comunicazione del decreto penale (art. 459 c. 4 cod. proc. pen.)".

La sentenza Sez. III, Barenbruch, invece, ha affermato che l'imputato può ricorrere avverso il provvedimento che revoca il decreto penale, sia pure solo al fine di denunciarne l'abnormità, in quanto vi è un suo interesse a poter esercitare l'opzione tra l'acquiescenza e l'opposizione al provvedimento.

Può, quindi, osservarsi, in sintesi, che le linee di tendenza della giurisprudenza appaiono essere quelle di un ampio riconoscimento del potere di iniziativa del pubblico ministero e, nello stesso tempo, della perimetrazione dell'intervento del giudice al controllo dell'esistenza dei presupposti per l'accesso al rito. Ancor più decisa, inoltre, risulta essere l'adesione alla soluzione sistematica dell'inquadramento del rimedio dell'opposizione a decreto penale nell'ambito delle impugnazioni, con il risultato di derivarne nuove ed ulteriori conseguenze in ordine alla disciplina applicabile, come emerge, in particolare, dall'affermazione favorevole all'impiego dell'istituto della conversione dei mezzi di impugnazione. Il quadro, poi, è completato dall'adozione di decisioni intese ad estendere le possibilità di tutela per i soggetti interessati, consentendo l'impiego del ricorso per cassazione in casi in cui non può soccorrere il rimedio dell'opposizione.

  • procedura penale

CAPITOLO VIII

LE IMPUGNAZIONI

Sommario

1 La scelta degli argomenti. - 2 L'impugnazione della sentenza di proscioglimento ad opera della parte civile. - 3 L'individuazione del giudice d'appello competente per la decisione sulle statuizioni civili. - 4 Il divieto di reformatio in peius: il recente intervento delle Sezioni unite. - 5 Ne bis in idem e giudizio di legittimità: i termini del contrasto giurisprudenziale. - 5.1 L'orientamento tradizionale: la non deducibilità del divieto di bis in idem. - 5.2 L'orientamento alternativo. - 6 La Corte di Giustizia dell'UE e il principio del ne bis in idem: il caso Aklagaren c. Hans Akerberg Frannssonn.

1. La scelta degli argomenti.

Il particolare "taglio" che caratterizza la presente esposizione ha già consentito di richiamare, nelle pagine precedenti, numerose decisioni della Corte di cassazione, emesse nel corso del 2013, che sono apparse rilevanti per aver esaminato - dalla particolare prospettiva del giudizio di impugnazione - alcuni importanti problematiche. Si allude, in particolare, alle pronunce in tema di qualificazione giuridica del fatto e di motivazione del provvedimento giurisdizionale (capitoli I e III), nonché a quelle richiamate nella sezione dedicata ai procedimenti speciali (capitolo VII).

Nelle pagine seguenti, si darà conto di alcune importanti decisioni delle Sezioni unite, che hanno risolto contrasti giurisprudenziali concernenti sia il tema dell'impugnazione della sentenza agli effetti civili, sia l'esatta portata del divieto di reformatio in peius in appello. Inoltre, si soffermerà l'attenzione sull'elaborazione giurisprudenziale intervenuta sull'altro fondamentale principio - oggetto anche di una importante sentenza della Corte di Giustizia - del divieto di bis in idem, con particolare riferimento alla sua deducibilità in cassazione.

2. L'impugnazione della sentenza di proscioglimento ad opera della parte civile.

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione era insorto, in tema di impugnazione agli effetti civili della sentenza, un contrasto sulla seguente questione: "se la parte civile, con l'impugnazione della sentenza di proscioglimento, debba richiedere espressamente, a pena d' inammissibilità, la riforma della sentenza ai soli effetti civili".

Un primo orientamento di legittimità, "estensivo" e minoritario, faceva conseguire, dalla disposizione contenuta nell'art. 576 c.p.p., il potere per la parte civile di proporre impugnazione anche "chiedendo l'affermazione della responsabilità penale dell'imputato sebbene ai soli effetti civili" ed escludendo la necessità di una espressa richiesta, nell'atto di gravame, di riforma della sentenza ai soli effetti civili.

Nel solco di tale orientamento "estensivo" venivano collocate anche quelle pronunce che, pur non parendo affermare in modo diretto la non necessità di un espresso riferimento agli effetti civili che con l'impugnazione si intendono conseguire, ritenevano tuttavia ammissibile l'appello della parte civile quando tale riferimento potesse desumersi anche implicitamente dai motivi, dai quali emergesse in modo inequivoco la richiesta formulata.

Un più "restrittivo" orientamento individuava, invece, come inammissibile l'atto di impugnazione della sentenza di proscioglimento proposto dalla parte civile che non contenesse un espresso e diretto riferimento agli effetti civili che si vogliono conseguire, non potendosi neppure ritenere tale riferimento implicito nella mera richiesta di verifica della responsabilità dell'imputato negata dalla pronunzia impugnata.

La sentenza Sez. un. 20 dicembre 2012 - dep. 8 febbraio 2013, n. 6509, Colucci, Rv. 254130, dirimendo il contrasto, ha affermato che l'impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, che non abbia accolto le sue conclusioni, è ammissibile anche quando non contenga l'espressa indicazione che l'atto è proposto ai soli effetti civili.

Tale pronuncia fonda l'asserita non necessità della formale enunciazione della finalizzazione dell'atto di gravame agli effetti civili sulla "superfluità di un tale elemento dal momento che è lo stesso art. 576 cod. proc. pen. a circoscrivere in tal modo l'impugnazione svolta dalla parte civile", non potendo la finalità di tale gravame fuoriuscire da tale ambito per precisa volontà normativa.

La Suprema Corte ha precisato, infatti, che, come la richiesta della parte civile di condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni implica l'accertamento, sia pure ai soli fini civili, della responsabilità dell'imputato, così la richiesta della medesima parte civile di affermazione della responsabilità dell'imputato non può avere, per espressa disposizione normativa, altro significato che quello di un accertamento incidentale ed ai soli effetti civili.

3. L'individuazione del giudice d'appello competente per la decisione sulle statuizioni civili.

La Corte di Cassazione, con la sentenza Sez. un., 18 settembre 2013 - dep. 27 settembre 2013, n. 40109, Sciortino, Rv. 256087, ha enunciato il seguente principio di diritto: "In ogni caso in cui il giudice di appello abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia), senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, a seguito di ricorso per cassazione proposto dall'imputato, ritenuto fondato dalla corte di cassazione, deve essere disposto l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen".

L'intervento delle Sezioni unite si è reso necessario in ragione della diversità di orientamenti in materia. Invero, secondo l'orientamento maggioritario, all'annullamento in sede di legittimità - limitatamente alle statuizioni civili - della sentenza con la quale il giudice di appello ha rilevato la sopravvenuta prescrizione del reato, senza motivare in ordine alla ritenuta responsabilità dell'imputato in ordine alle confermata condanna in favore della parte civile, deve necessariamente conseguire, ai sensi dell'art. 622 cod. proc. pen., il rinvio innanzi al giudice civile. Ciò in quanto nella descritta ipotesi opera appieno il principio di economia, che vieta il permanere in sede penale della vicenda in mancanza di un interesse penalistico.

In base invece all'orientamento minoritario, nell'ipotesi de qua il giudice del rinvio deve essere individuato nel giudice penale, giacché il disposto di cui al citato art. 622 presuppone o che vi sia già stato il definitivo accertamento della responsabilità dell'imputato in sede penale ovvero l'accoglimento dell'impugnazione proposta dalla sola parte civile avverso una sentenza di proscioglimento dell'imputato. Nei casi da essi diversi, la decisione di cui all'art. 578 cod. proc. pen. deve essere rimessa alla stessa Corte di appello che ha emesso, in sede penale, il provvedimento annullato, giacché l'accertamento dell'an in siffatta ipotesi ha ad oggetto l'accertamento della responsabilità per il reato, che appartiene alla cognizione del giudice penale, il quale, peraltro, può utilizzare direttamente il materiale probatorio acquisito, senza alcun onere di impulso a carico della parte civile, ed esercitare poteri di ufficio in materia di acquisizione probatoria, che non trovano corrispondenza nel processo civile.

Le Sezioni unite, nel dirimere il contrasto, hanno fatto propria la scelta già coltivata dall'orientamento maggioritario, rilevando che il mancato approfondito esame del capo relativo alla responsabilità civile, pur integrando un vizio di motivazione potenzialmente idoneo a incidere direttamente sul capo della responsabilità penale, è però distinto da questo, e la fattispecie trova completa disciplina nell'art. 622 cod. proc. pen., che si riferisce senza eccezione ai casi di annullamento di capi (o disposizioni) riguardanti la responsabilità civile. La Corte, nell'occasione, ha pure affermato che a diversa conclusione non può condurre neppure la considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile comporta inevitabilmente l'applicazione delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall'azione pubblica di cui può ben beneficiare indirettamente il danneggiato dal reato. Si tratta però di un'evenienza che il danneggiato ben può prospettarsi al momento dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, di cui conosce preventivamente procedure e possibili esiti, comprese le eventualità che in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell'azione penale venga a mancare un accertamento della responsabilità penale dell'imputato e che in caso di translatio judicii l'azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Con la presente sentenza la Corte, secondo quanto dato testualmente atto, ha portato a compimento il percorso ermeneutico tracciato dalla sentenza Sez. un., 28 maggio 2009 - dep. 15 settembre 2009, n. 35490, Tettamanti, Rv. 244273-244275, che, ricostruito il tema dei rapporti tra gli artt. 129, 530 e 578 cod. proc. pen., non aveva, tuttavia, specificatamente affrontato la questione esaminata in questa sede, , che ne costituisce lo sviluppo logico ulteriore.

4. Il divieto di reformatio in peius: il recente intervento delle Sezioni unite.

In materia di reformatio in peius le Sezioni Unite della Suprema Corte sono state chiamate a pronunciarsi in ordine alla seguente questione controversa: "Se, nel caso in cui il giudice di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante in accoglimento del motivo proposto dall'imputato, confermi la pena applicata in primo grado ribadendo il giudizio di equivalenza tra le residue circostanze, sussista o meno la violazione del divieto di reformatio in peius ex art. 597 comma 4 cod. proc. pen.".

Sul punto, infatti, si era in precedenza formato un orientamento maggioritario di giurisprudenza che, sostanzialmente, ribadendo i principi espressi dalla pronuncia delle Sezioni Unite 27 settembre 2005 - dep. 10 ottobre 2005, n. 40910, Morales, Rv. 232066, secondo la quale nel giudizio d'appello il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dal solo imputato non riguarda solo l'entità della pena complessiva, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono a determinarla, affermava, inoltre, che il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante ed irroga una sanzione inferiore a quella applicata dal giudice di primo grado, non vanta il potere di fissare la pena base in misura superiore a quella precedentemente irrogata.

Altro orientamento sosteneva invece che non violava il divieto di reformatio in peius il giudice di appello che, su gravame del solo imputato, pur escludendo l'esistenza di una circostanza aggravante, lasciava inalterata la misura della pena inflitta in primo grado, qualora a quella esclusione non conseguisse un'automatica riduzione di questa, ma la necessità di un rinnovato giudizio comparativo tra aggravanti residue ed attenuanti, nella formulazione del quale il giudice di secondo grado conserva piena facoltà di conferma del precedente giudizio di valenza, il cui esercizio è insindacabile in cassazione, se congruamente motivato.

Su tale questione di diritto, concernente l'ambito della cognizione del giudice di appello ai sensi dell'art. 597 cod. proc. pen. e della corretta interpretazione del divieto di reformatio in peius previsto dai commi 3 e 4 del medesimo articolo, allorquando impugnante sia il solo imputato, si è pronunciata la Suprema Corte a Sezioni unite con la sentenza 18 aprile 2013 - dep. 2 agosto 2013, n. 33752, Papola, rv. 255660.

In tale pronuncia si afferma che il giudice di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante o riconosciuto un'ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall'imputato, può, senza incorrere nel divieto di reformatio in peius, confermare la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purchè tale giudizio sia accompagnato da adeguata motivazione, essendo tale conferma soggetta alla sola verifica di adeguatezza motivazionale ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.

In particolare la Suprema Corte nella sua più alta composizione, dopo aver ribadito la correlazione - già sottolineata dalla citata sentenza Sez. Un. n. 40910 del 2005, Morales - tra l'effetto devolutivo dell'appello e il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dal solo imputato, rileva che il limitato ambito di cognizione attribuito al giudice di appello è suscettibile di ampliamento solo nei casi previsti dal comma quinto dell'art.597 cod. proc. pen.

Tuttavia, continua la sentenza in esame, se è indiscutibile che il divieto di reformatio in peius è esteso alle singole componenti che concorrono a formare il trattamento sanzionatorio complessivo, ciò imponendo la corretta interpretazione dei commi terzo e quarto dell'art. 597 cod. proc. pen., da leggersi in correlazione con la regola dell'effetto parzialmente devolutivo posta dal comma primo, le ipotesi derogatorie a siffatta regola, di cui al citato comma quinto, non possono, tuttavia, ritenersi parimenti poste in correlazione con il divieto in questione, in assenza di specifica previsione.

Nessun richiamo o riferimento al divieto di reformatio in peius è, infatti, rinvenibile nella disposizione di cui al comma quinto dell'articolo in questione, il quale disciplina ipotesi derogatorie alla regola dell'effetto parzialmente devolutivo, attribuendo tra l'altro al giudice di appello, "quando occorre", il potere di effettuare il giudizio di comparazione a norma dell'art. 69 cod. pen.

Infine, le Sezioni Unite della Suprema Corte adducono, a sostegno della conclusione assunta, rilevanti ragioni di ordine sistematico quali la autonomia e la discrezionalità del giudizio di comparazione che non sempre conduce ad attribuire un peso quantitativamente apprezzabile ad ogni elemento considerato, e la incongruenza di una sorta di "presunzione assoluta" della necessità di modifica del precedente giudizio che, di fatto, implicherebbe "non una mera riduzione della pena, ma una obbligatoria formulazione di un giudizio più favorevole, con conseguente irragionevole pianificazione di casi eterogenei ed inaccettabile invasione del campo di valutazione discrezionale del giudice di appello".

5. Ne bis in idem e giudizio di legittimità: i termini del contrasto giurisprudenziale.

Nel corso del 2013, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di occuparsi della questione della rilevabilità del doppio giudizio de eadem re in alcune pronunce di estremo interesse, dalle quali si evince la presenza di due diversi orientamenti, caratterizzati da un nucleo di possibile convergenza.

Le sentenze del 2013 alle quali ci si riferisce, e che verranno di seguito commentate, sono rappresentative, alcune, dell'orientamento che afferma il principio della deducibilità nel giudizio di cassazione della preclusione del giudicato formatosi sul medesimo fatto, ritenendo che la violazione del divieto del bis in idem si risolva in un error in procedendo che consente al giudice di legittimità l'accertamento di fatto dei relativi presupposti, anche quando, come nel caso di specie, ci si riferisca ad eccezione mai in precedenza sollevata, altre, di quello che invece nega la deducibilità in sede di legittimità della violazione del divieto del ne bis in idem, trattandosi di questione di fatto, in quanto tale riservata al giudice di merito, e che presuppone la produzione della sentenza irrevocabile o degli atti necessari per l'accertamento dell'identità dei fatti (giudicato e giudicabile).

Alla base dei due differenti indirizzi giurisprudenziali di legittimità registratisi negli anni sul punto, e tuttora coesistenti, si pone il comune nodo della rilevabilità di tale divieto di doppio giudizio, così come strutturata e leggibile dalle norme processuali.

Stando alla lettera della specifica disposizione posta dal secondo comma dell'art. 649 cod. proc. pen., se viene iniziato un nuovo procedimento per il medesimo fatto, il giudice successivamente adito deve, in ogni stato e grado del processo, pronunciare sentenza di non doversi procedere o di non luogo a procedere (in relazione alla fase processuale in cui viene adottata la decisione), enunciandone le ragioni nel dispositivo e dichiarando che la materia ha già formato oggetto di un accertamento definitivo da parte dell'autorità giurisdizionale.

La giurisprudenza della Cassazione ha costantemente ricollegato la rilevabilità del divieto del doppio giudizio ad un onere di produzione documentale a carico dell'interessato della sentenza definitiva o degli atti necessari per l'accertamento dell'identità dei fatti. I termini letterali di largo respiro con i quali è formulata la disposizione del secondo comma dell'art. 649 cod. proc. pen. ben si combinano con la rilevabilità del divieto di un secondo giudizio sinanche in assenza di una pronuncia già irrevocabile, nelle forme del divieto del nuovo esercizio dell'azione penale da parte dello stesso ufficio del pubblico ministero (secondo l'insegnamento delle Sez. un., 28 giugno 2005 - dep. 28 settembre 2005, n. 34655, Donati, Rv. 231799), nonché addirittura in fase esecutiva, dunque in un momento posteriore rispetto allo stesso passaggio in giudicato del giudizio "duplicato" .

La questione problematica che si è invece posta in termini di rilevabilità, e che deve formare oggetto di attenzione specifica, riguarda la deducibilità della preclusione del bis in idem nel corso del giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di cassazione.

In tale contesto, è necessario premettere anche che, secondo le affermazioni costanti della Corte di cassazione (cfr. per tutte Sez. un., 31 ottobre 2001 - dep. 28 novembre 2001, n. 42792, Policastro, Rv. 220092), la deduzione di un cd. error in procedendo ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., comporta che il giudice di legittimità sia giudice anche del fatto e, dunque, che possa accedere all'esame diretto degli atti processuali, esame che resta, invece, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del medesimo articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione.

5.1. L'orientamento tradizionale: la non deducibilità del divieto di bis in idem.

Sin dalla prima fase di compiuta applicazione delle norme del nuovo codice di rito, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si è affermata, con riferimento al problema della rilevabilità in sede di legittimità della preclusione relativa al divieto di un secondo giudizio, la posizione che tende a considerare inammissibile, in quanto non deducibile in sede di legittimità (ma proponibile dinanzi al giudice dell'esecuzione), la violazione del divieto del ne bis in idem, risolvendosi in una questione di fatto, in quanto tale riservata al giudice di merito, e che presuppone la produzione della sentenza irrevocabile o degli atti necessari per l'accertamento dell'identità del fatto. Da tale opzione interpretativa discende l'esclusione della deducibilità della questione dinanzi al giudice di legittimità, al quale è precluso l'accertamento del fatto e davanti a cui la parte non è ammessa a produrre documenti. Si segnala, altresì, in tale opzione di indirizzo, come la parte non rimanga priva di tutela nell'ipotesi di passaggio in giudicato della sentenza nelle more del giudizio di cassazione, potendo far valere la preclusione davanti al giudice dell'esecuzione. In questo senso, tra le pronunce del 2013, v. Sez. V, 10 gennaio 2013 - dep. 1 marzo 2013, n. 9825, Di Martino, Rv. 255219, secondo cui "Non è deducibile dinanzi alla Corte di cassazione la violazione del divieto del ne bis in idem, in quanto è precluso, in sede di legittimità, l'accertamento del fatto, necessario per verificare la preclusione derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione è rimessa esclusivamente al giudice di merito", e Sez. V, 11 dicembre 2012 - dep. 31 gennaio 2013, n. 5099, Bisconti, Rv. 254654, di identico tenore, entrambe espressione di quell'elaborazione interpretativa maturata nel corso dei primi anni di attuazione del nuovo codice processuale, della quale è rappresentativo l'arresto contenuto in Sez. V, 30 marzo 1998 (dep. 7 luglio 1998), n. 7953, Sparacino, Rv. 211535. In passato nel medesimo senso si erano espresse, tra le altre, Sez. II, 24 settembre 2004 - dep. 20 ottobre 2004, n.41069, Chiaberti, Rv. 230708; Sez. IV, 3 dicembre 2009 - dep. 18 dicembre 2009, n.48575, Bersani, Rv.245740; nonché Sez. I, 14 maggio 2004 - dep. 15 luglio 2004, n. 31123, Cascella, Rv. 229283, con la quale si afferma che "la violazione del divieto di bis in idem è questione di fatto, riservata alla valutazione del giudice di merito, e non può essere dedotta per la prima volta davanti al giudice di legittimità, a meno che ratione temporis non fosse stato possibile dedurla in grado di appello perché la sentenza di riferimento era passata in giudicato dopo quel giudizio". La Corte, in tale decisione, ha dichiarato l'inammissibilità della questione sollevata sulla formazione del giudicato sostanziale, sottolineando come la stessa ben sarebbe potuta essere sottoposta dinanzi al giudice d'appello. In tale quadro ermeneutico, l'importanza delle pronunce adottate nel corso del 2013 risiede principalmente nel fatto che, pur aderendo alla tesi della non deducibilità in sede di legittimità del divieto del bis in idem, esse danno atto dell'esistenza - come vedremo di qui a poco - di una differente opzione interpretativa favorevole all'ammissibilità di siffatto giudizio, manifestatasi per la prima volta con la sentenza della Sez. VI, 30 settembre 2009, n. 44484 - dep. 19 novembre 2009, P., Rv. 244856, e, successivamente, nella pronuncia emessa da Sez. I, 5 maggio 2011 - dep. 8 luglio 2011, n. 26827, Santoro, Rv. 250796. Peraltro, nelle citate pronunce (così come in Sez. V, 6 maggio 2011 - dep. 21 giugno 2011, n. 24954, Brunetto, Rv. 250920) è ben evidente l'espresso riferimento all'inutilità dell'accertamento sulla violazione del ne bis in idem, nei casi sottoposti all'esame della Cassazione, in quanto già compiuto con esito negativo dalla Corte d'Appello nella sentenza impugnata.

5.2. L'orientamento alternativo.

In periodo più recente, la Corte di Cassazione sembra essere giunta a conclusioni differenti sul tema esposto, ponendo l'accento, peraltro, su di un nucleo di comune derivazione logico - giuridica e sul riferimento alla necessità, ai fini della deducibilità, che sia stata prodotta in sede di legittimità, con precisione di dati identificativi, la decisione preclusiva o la sentenza irrevocabile che determina la preclusione.

Nel corso del 2013, si segnalano due sentenze riconducibili a tale opzione ermeneutica, delle quali la più recente, Sez. VI, 30 gennaio 2013 - dep. 2 aprile 2013, n. 14991, Barbato e altri, Rv. 256221, esprime il seguente principio: "E' deducibile nel giudizio di cassazione la preclusione del giudicato formatosi sul medesimo fatto, atteso che la violazione del divieto del bis in idem si risolve in un error in procedendo che, in quanto tale, consente al giudice di legittimità l'accertamento di fatto dei relativi presupposti. (Fattispecie in tema di annullamento disposto in relazione ad eccezione mai in precedenza sollevata, neppure in altro gravame di legittimità già proposto nel medesimo processo)". Viene affermato, pertanto, il principio della deducibilità nel giudizio di cassazione della preclusione del giudicato formatosi sul medesimo fatto, anche quando, come nel caso della sentenza in esame, ci si riferisca ad eccezione mai in precedenza sollevata, neppure in altro gravame di legittimità già proposto nel medesimo processo. Tale orientamento, peraltro, si preoccupa di specificare che in ogni caso spetta al ricorrente l'onere di allegare, con precisione di dati identificativi, la decisione preclusiva o la sentenza irrevocabile che determina la preclusione. La prima pronuncia che ha aperto in senso positivo la questione sulla ammissibilità in sede di legittimità della deduzione con cui la parte invoca la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, è stata quella della Sez. VI, 30 settembre 2009 - dep. 19 novembre 2009, n. 44484, P., Rv. 244856. Con ragionata ed ampia motivazione la Corte, nella citata sentenza, ha adottato l'opzione della deducibilità, sottoponendo a vaglio critico la differente interpretazione, ritenendola intrinsecamente contraddittoria. Ciò che si propone, pertanto, con la tesi da ultimo adottata nella sentenza Barbato ed altri del 2013 è un'opzione differente che enuclea quale error in procedendo la violazione del divieto del bis in idem, presidiato dall'obbligo del giudice di pronunciare, in ogni stato e grado del processo, sentenza di proscioglimento, e in relazione al quale la Corte di Cassazione, come noto, è giudice anche del fatto (cfr. sul punto la già citata Sez. un., Policastro, Rv. 220092). Conseguentemente si riconosce la piena ammissibilità in cassazione della deduzione con cui la parte invoca la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, fermo restando l'onere di allegazione, nel senso che il ricorrente deve indicare e produrre la sentenza irrevocabile in questione. Nel solco della richiamata Sez. VI, n. 44484 del 2009, citata si iscrivono significativamente Sez. I, 5 maggio 2011 - dep. 8 luglio 2011, n. 26827, Santoro, Rv. 250796, che afferma come il divieto di un secondo giudizio sia "regola di diritto riconducibile al principio di preclusione-consumazione che fonda la nozione stessa di processo e delimita il potere di giudicare (Sezioni unite, Donati). Come molte regole di diritto può presupporre - e forse il più delle volte presuppone - verifiche di fatto per la individuazione dell'ambito effettivo delle fattispecie concrete denunziate come assumibili nella nozione di stesso fatto." La sentenza Santoro, peraltro, rammenta in motivazione come della questione della rilevabilità in sede di legittimità della preclusione di cui al secondo comma dell'art. 649 cod. proc. pen. si siano occupate anche, incidentalmente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia 11 aprile 2006 - dep. 10 maggio 2006, n. 15983, Sepe, non massimata sul punto, che, pur convenendo con la giurisprudenza maggioritaria di orientamento negativo, non sembrano proporre ostacoli alla lettura più recente.

La seconda sentenza dell'anno 2013, che opta per la nuova linea evolutiva della giurisprudenza della Cassazione, tesa a valorizzare la possibilità di dedurre in sede di legittimità la preclusione del divieto del bis in idem, è Sez. V, 29 novembre 2012 (dep. 9 gennaio 2013), n. 1131, Siano, Rv. 254837 (proveniente dalla medesima Sezione che, con le pronunce n. 9825 del 2013 e n. 5099 del 2012, già citate, ha contestualmente invece proseguito il filone giurisprudenziale negativo e maggioritario). Tale sentenza propone una possibile sintesi tra le due opzioni interpretative "ove si consideri che nella prima posizione la conclusione negativa sulla proponibilità della questione in sede di legittimità trova il suo fondamento nella necessità, ai fini della soluzione della questione stessa, di accertamenti di fatto incompatibili con il giudizio di cassazione. Se questo è vero, ne segue, infatti che, ove nel caso concreto tale necessità non ricorra, non vi è alcuna ragione per negare acceso in questa sede alla valutazione sulla sussistenza o meno di una violazione del ne bis in idem processuale; ed in questa prospettiva i due orientamenti appaiono in realtà complementari." La pronuncia Siano ravvisa elementi di possibile integrazione tra il primo e il secondo orientamento della Corte, affermando la correttezza dell'impostazione più recente e positiva, che vuole la questione sulla violazione del divieto di bis in idem riferibile alla violazione di una norma processuale, pertanto censurabile nel giudizio di legittimità, e combinandola, d'altra parte, alla necessità, imposta dai principi generali, che il giudizio pur possibile non debba estendersi fino a comprendere accertamenti di fatto - in coerenza con l'orientamento che non ammette la deducibilità - laddove siffatti accertamenti si rendano necessari.

6. La Corte di Giustizia dell'UE e il principio del ne bis in idem: il caso Aklagaren c. Hans Akerberg Frannssonn.

La Corte di Giustizia dell'UE, Grande Sezione, con sentenza del 26 febbraio 2013, nel caso Aklagaren c. Hans Akerberg Franssonn, C-617/10, si è espressa sul divieto di bis in idem con un'interessante pronuncia sul campo di applicabilità dell'art. 50 CDFUE (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata una prima volta a Nizza nel 2000 e alla quale, nel 2009, con il Trattato di Lisbona, è stata conferita efficacia giuridica vincolante al pari dei Trattati), in base al quale «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».

La sentenza, articolata e complessa, chiude una procedura sorta da rinvio pregiudiziale sollevato dall'autorità giudiziaria svedese, nell'ambito di un procedimento penale per frode fiscale aggravata nei confronti di un soggetto (H. Åkerberg Fransson) già condannato definitivamente al pagamento di una sovrattassa di natura fiscale per lo stesso fatto di inadempimento degli obblighi dichiarativi in materia di IVA. La questione posta si chiede se, alla luce degli artt. 4 Prot. n. 7 CEDU e 50 CDFUE, il procedimento penale debba essere considerato ammissibile o meno in ragione della sanzione fiscale già applicata. A fronte di tale problema di bis in idem interno (e non transnazionale), l'autorità giudiziaria svedese ha sospeso il procedimento penale in corso sottoponendo una serie di questioni pregiudiziali alla Corte. Tralasciando ulteriori, pur interessanti, spunti offerti dalla pronuncia della Corte di Giustizia in esame, per quanto rileva in questa sede deve sottolinearsi come essa, all'esito del giudizio, abbia, in sintesi, affermato:

a) il principio del ne bis in idem sancito all'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA), una combinazione di sanzioni sia fiscali che penali, al fine di tutelare gli interessi finanziari dell'Unione mediante il sistema di riscossione di entrate provenienti dall'IVA, sempre che tali sovrattasse non abbiano natura penale ai sensi dell'art. 50 della Carta: in tal caso, infatti, tale norma sarebbe di ostacolo ad ulteriori procedimenti penali;

b) ai fini della valutazione sulla natura penale delle sanzioni tributarie vengono in rilievo tre criteri: la qualificazione giuridica formale dell'illecito compiuta dal diritto interno, la natura oggettiva dell'illecito, la natura della sanzione prevista e il suo grado di severità, come delineati dalla giurisprudenza europea;

c) spetta al giudice (nazionale) del rinvio valutare, alla luce dei predetti criteri per verificare la natura penale di una norma, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali ai sensi dei principi affermati nella medesima pronuncia (al punto 29), circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive.

Nel delineare tali soluzioni interpretative, certamente meritevoli di ulteriori sviluppi per il futuro, la Grande Camera ha compiuto uno sforzo ricostruttivo molto rilevante per la configurazione dei rapporti tra fonti normative nazionali e fonti europee, con una fondamentale affermazione, in punto di conseguenze che il giudice nazionale deve trarre da un conflitto tra disposizioni nazionali e diritti garantiti dalla CDFUE: il diritto dell'Unione - si dice - osta a una prassi giudiziaria che subordina l'obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare ogni disposizione che sia in contrasto con un diritto fondamentale garantito dalla Carta alla condizione che tale contrasto risulti chiaramente dal tenore della medesima o dalla relativa giurisprudenza, dal momento che essa priva il giudice nazionale del potere di valutare pienamente, se del caso con la collaborazione della Corte di Giustizia dell'Unione europea, la compatibilità di tale disposizione con la Carta medesima. Se l'affermazione conferisce forza all'operatività della Carta dei diritti fondamentali europei, indicandola come prevalente, in caso di divergenza, anche sullo standard nazionale riferito ai singoli diritti in questione, appare evidente, peraltro, come l'attuazione pratica di tale principio sarà senza dubbio problematica, sotto il profilo del tipo di valutazione che il giudice nazionale sarà chiamato, di volta in volta, a svolgere.

  • arresto
  • esecuzione della pena
  • estradizione

CAPITOLO IX

ESTRADIZIONE E MANDATO D'ARRESTO EUROPEO

Sommario

1 Il problema della competenza ai fini dell'emissione del m.a.e. - 2 Rifiuto della consegna: la tutela del rapporto genitori - figli. - 3 Condanna in contumacia ed esecuzione della pena. - 4 Dichiarazioni predibattimentali della persona offesa. - 5 Altre pronunce.

1. Il problema della competenza ai fini dell'emissione del m.a.e.

Le questioni problematiche legate alla corretta determinazione della competenza funzionale nell'emissione del mandato di arresto europeo hanno dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale che ha registrato un duplice intervento delle Sezioni Unite.

Inizialmente, le Sezioni Unite (Sez. Un., 21 giugno 2012 - dep. 27 luglio 2012, n. 30769, Caiazzo, Rv. 252891-92), senza risolvere espressamente la controversa questione della individuazione dell'organo funzionalmente competente all'emissione del mandato di arresto europeo, rimessa alla loro attenzione con un' ordinanza della Sesta Sezione (ordinanza 13 marzo 2012 - dep. 2 aprile 2012, n. 12321, Caiazzo), si sono arrestate sulla soglia di una preliminare questione di rito, ribadendo il principio secondo cui non sono impugnabili nell'ordinamento interno, neanche ai sensi degli artt. 111, comma settimo, 7, Cost. e 568, comma secondo, cod. proc. pen., il mandato di arresto europeo emesso dall'autorità giudiziaria italiana nella procedura attiva di consegna (artt. 28, 29 e 30 della legge 22 aprile 2005, n. 69) ed il provvedimento emesso dalla stessa autorità (eventualmente in forma di m.a.e.) nell'ambito della procedura di estensione attiva della consegna di cui agli artt. 32 e 26 della citata l. n. 69 del 2005, potendo i loro eventuali vizi essere dedotti solo nello Stato richiesto, qualora incidano sulla procedura di sua pertinenza, e secondo le regole, le forme ed i tempi previsti nel relativo ordinamento.

Nel caso di specie, infatti, l'oggetto del ricorso atteneva non propriamente al "modello" del m.a.e. attivo ordinario, finalizzato ad ottenere la consegna della persona ricercata, ma ad un m.a.e. utilizzato dall'organo richiedente come "veicolo" per attivare la procedura di assenso all'estensione della consegna di cui alle su citate disposizioni degli artt. 26 e 32 della l. n. 69 del 2005, assenso necessario al fine di superare gli effetti limitativi del principio di specialità.

L'analisi delle numerose implicazioni problematiche legate all'applicazione della disposizione di cui all'art. 28 della L. n. 69 del 2005 ha inizialmente indotto la Corte di cassazione, intervenuta nel definire un conflitto negativo di competenza insorto tra il g.i.p., che aveva emesso le ordinanze di custodia cautelare, ed il tribunale, presso il quale il procedimento risultava successivamente pendente per il merito, a ritenere che, sulla base di un'interpretazione logico-sistematica degli artt. 28, 30 e 39 della l. n. 69 del 2005, la competenza deve essere attribuita all'autorità giudiziaria che procede (Sez. I, 29 aprile 2008 - dep. 2 luglio 2008, n. 26635, confl. comp. in proc. Trib. Ragusa, Rv. 240531).

La ragione giustificativa di tale orientamento è stata individuata non solo nel considerevole lasso di tempo che può intercorrere tra l'emissione della misura coercitiva e l'emissione del mandato d'arresto europeo, ma anche nell'esigenza che l'organo emittente sia pienamente a conoscenza dell'iter processuale compiuto, sì da assolvere ai numerosi incombenti che la legge pone al riguardo (quali, ad es., le informazioni, la relazione di accompagnamento, la trasmissione di informazioni integrative, ecc.).

La prevalenza in tal modo attribuita all'interpretazione logico-sistematica, rispetto a quella strettamente letterale, della disposizione di cui all'art. 28, comma primo, lett. a), della l. n. 69 del 2005, si radica, pertanto, sulla natura delle informazioni che, a norma dell'art. 30, devono corredare il mandato di arresto europeo, e che necessariamente postulano la disponibilità degli atti processuali: lo Stato richiesto, infatti, ben potrebbe richiedere la trasmissione di ulteriori elementi di informazione, che solo il giudice che ha quella disponibilità e conosce l'evoluzione del procedimento sarebbe in grado di offrire.

Ponendosi entro tale prospettiva ermeneutica, inoltre, la Suprema corte ha rilevato che se, nel caso di un "fisiologico iter processuale", è corretto prevedere che chi emette la misura custodiale, avendo interesse a farla eseguire, disponga se del caso gli opportuni accertamenti sulla persona ricercata e in base ad essi emetta - entro termini ragionevolmente ristretti - anche il m.a.e. (in linea con i dati acquisiti e dei quali ha piena cognizione), non sembra possibile accedere, di contro, alla medesima soluzione allorquando tra l'emissione della misura restrittiva e l'emissione del mandato d'arresto europeo intercorra un "considerevole lasso di tempo": in ragione della evoluzione dell'iter processuale, della fluidità che spesso caratterizza l'ipotesi accusatoria e delle non rare modifiche dell'impianto probatorio, il m.a.e. potrebbe, infatti, non coincidere in toto con la misura originariamente emessa, imponendo in tal modo la sua emissione da parte dell'autorità giudiziaria che risulti essere a piena conoscenza dell'evoluzione processuale nel frattempo intervenuta.

Successivamente, tuttavia, la S.C. si è discostata da tale indirizzo interpretativo, ed ha stabilito che la competenza ad emettere il mandato di arresto europeo spetta al giudice che ha emesso la misura cautelare, ancorché non sia più il giudice "che procede" (Sez. I, 26 marzo 2009 - dep. 8 aprile 2009, n. 15200, Lauricella, Rv. 243321).

Il mutamento di prospettiva è avvenuto sulla base di uno stretto ancoraggio alla formulazione letterale del testo normativo, che fa riferimento non al giudice che procede ai sensi dell'art. 279 cod. proc. pen., ma al giudice che ha emesso la misura cautelare.

Muovendo da tale premessa argomentativa si è osservato, in particolare: a) che l'art. 29 della l. n. 69 del 2005 non subordina l'emissione del m.a.e. ad una valutazione di merito, ma solo alla condizione che l'imputato o il condannato risultino nel territorio di uno Stato membro dell'U.E., con la conseguenza che la sua adozione "non appare espressione dell'esercizio del potere cautelare, ma uno strumento per consentire l'esecuzione in campo europeo dell'originario provvedimento"; b) che l'art. 30 della stessa legge prevede che il m.a.e. contenga un apparato informativo legato esclusivamente alla misura cautelare emessa, e dunque "nulla che attenga all'iter processuale in corso".

A tale nuovo orientamento si è adeguata la successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità, stabilendo anche in un altro caso la competenza del giudice del dibattimento che aveva emesso la misura cautelare. Più in particolare, il nuovo indirizzo interpretativo è stato confermato, ragionando sulla base del rilievo che la compilazione e la spedizione del m.a.e. non costituiscono espressione della potestà coercitiva e, pertanto, non rientrano nelle generali attribuzioni del giudice procedente, ai sensi dell'art. 279 cod. proc. pen.: si tratterebbe dunque, "di un'attività di carattere meramente certificativo-amministrativo-strumentale, preordinata alla esecuzione della ordinanza cautelare fuori dei confini dello Stato, la quale non offre alcun margine di discrezionalità al compilatore e costituisce adempimento assolutamente dovuto e a contenuto vincolato ".

Né, peraltro, gioverebbe, al riguardo, la considerazione di supposte esigenze di carattere pratico, eventualmente apprezzabili in relazione alla immediata disponibilità degli atti occorrenti per attingere i dati necessari per la compilazione del provvedimento e al correlato aspetto del principio di economia processuale, sotto il profilo che, specie ove sia decorso un notevole lasso di tempo dall'emissione dell'ordinanza coercitiva, il giudice che l'ha deliberata non è più in possesso del fascicolo, in dipendenza della evoluzione della fase o del grado del processo.

Siffatta, possibile, obiezione non è stata ritenuta fondata, essenzialmente sulla base di due argomenti: a) in primo luogo, perché la stessa ordinanza che ha disposto la misura coercitiva (necessariamente non ancora in corso di esecuzione, se è richiesto il mandato di cattura europeo) non deve essere allegata al fascicolo formato per il dibattimento, sicché il giudice procedente non ha la disponibilità del provvedimento; b) inoltre, secundum id quod plerumque accidit, gli atti sulla base dei quali è fondata la coercizione sono custoditi nel fascicolo del p.m., e neppure di essi il giudice dibattimentale procedente ha la disponibilità.

Tra i due contrapposti orientamenti, la su citata ordinanza di rimessione n. 12321 del 2012 ha ritenuto maggiormente condivisibile il primo, sul rilievo che esso meglio riflette la natura strumentale del m.a.e., ed il necessario raccordo tra il mandato e l'ordinanza cautelare emessa nel procedimento "domestico": il mandato d'arresto europeo, infatti, rappresenta solo il profilo esterno di un provvedimento, cautelare o definitivo, la cui legittimità è comunque subordinata al necessario rispetto delle regole interne che ne disciplinano l'emissione.

Mentre il secondo degli orientamenti giurisprudenziali sopra illustrati tende a privilegiare un'esegesi strettamente letterale della norma contenuta nell'art. 28 della l. n. 69 del 2005, il primo di essi, ad avviso della Sezione rimettente, ritiene necessario "leggere" tale disposizione unitamente agli artt. 30-39 della medesima, al fine di evitare che, sulla base di un approccio meramente testuale al dato normativo, si pervenga a soluzioni non in linea con gli intendimenti e le finalità del legislatore.

Procedendo, ora, ad una sintetica disamina delle principali argomentazioni su cui ha fatto leva l'ordinanza di rimessione per motivare tale assunto, è necessario anzitutto rilevare come l'applicazione della regola posta dall'art. 28, co. 1, lett. a), della l. n. 69 del 2005, debba compiutamente inserirsi all'interno di un quadro normativo che presuppone il rispetto, "in quanto compatibili", delle disposizioni del codice di procedura penale e delle leggi complementari (ex art. 39, comma primo, l. cit.).

In tal senso, la disposizione attributiva della competenza nella fase di emissione del mandato (art. 28, comma primo, lett. a), l. n. 69 del 2005) fa riferimento al "giudice che ha applicato la misura cautelare", utilizzando la stessa formulazione lessicale impiegata dal legislatore nell'art. 279 cod. proc. pen. (che fa riferimento, oltre che all' "applicazione", alla "revoca" delle misure ed alle "modifiche" delle loro modalità esecutive) per delineare i criteri che regolano la legittimazione all'emissione dei provvedimenti de libertate, sui quali, come è noto, "provvede il giudice che procede" al tempo della richiesta, ovvero il g.i.p., nell'eventualità che il petitum cautelare si collochi in un momento antecedente all'esercizio dell'azione penale.

Il mancato coordinamento del testo normativo con la regola di sistema enunciata nell'art. 279 cod. proc. pen. è probabilmente dovuto al fatto che, nel corso dei lavori parlamentari, era stato proposto un testo alternativo che assegnava la competenza per l'emissione del m.a.e. al "procuratore generale presso la corte d'appello del distretto in cui si procede" (a tal fine sollecitato dal p.m. presso il giudice de libertate, ovvero da quello che ha emesso l'ordine di esecuzione), testo poi abbandonato in favore dell'attuale, senza peraltro provvedere all'introduzione delle necessarie disposizioni di raccordo normativo.

Di contro, secondo l'impostazione accolta dall'ordinanza di rimessione, è proprio il rilievo della stretta interdipendenza tra il m.a.e. ed il provvedimento restrittivo dello status detentionis, sulla cui adozione si fonda l'emissione del primo, a suggerire il rispetto del requisito della identità soggettiva tra l' "autorità giudiziaria emittente" e l'"autorità giudiziaria procedente", in conformità alle regole generali dell'ordinamento processuale (arg. ex art. 39, comma primo, della l. n. 69 del 2005), la cui piena "compatibilità" all'interno del nuovo meccanismo di consegna non sembra possa essere messa validamente in discussione, se non alterando la fondamentale ratio di garanzia che individua la figura del giudice de libertate parallelamente alla dinamica evoluzione del rapporto processuale ed alla sua progressiva articolazione nelle varie fasi e nei diversi gradi, sulla base della disponibilità materiale e giuridica degli atti.

Al riguardo, ad esempio, appare emblematico il riscontro derivante dall'analisi della disposizione di cui all'art. 31 della l. n. 69 del 2005, la quale stabilisce il principio della non autonomia del mandato d'arresto europeo rispetto al provvedimento interno, prevedendo che il mandato d'arresto perda efficacia quando il provvedimento restrittivo della libertà personale, "sulla base del quale è stato emesso", venga revocato, annullato, o sia divenuto inefficace (sulla base dei principi generali e delle ordinarie regole processuali fissate dagli artt. 272 ss. cod. proc. pen., in tal modo implicitamente richiamate nella legge di attuazione).

Ne discende che il venir meno del presupposto giustificativo della richiesta di consegna - ossia del provvedimento restrittivo dello status libertatis - non può che travolgere il mandato e gli effetti dallo stesso scaturiti.

Altro argomento fatto proprio dal Giudice rimettente è quello incentrato sul fatto che la decisione sull'emissione del m.a.e., lungi dall'esaurirsi in un'attività di riscontro certificativo, o di tipo meramente compilativo, costituisce il risultato dell'esercizio di una prerogativa rimessa al giudice e, nella fase esecutiva, al pubblico ministero, cui spetta valutare essenzialmente i seguenti profili, di ordine sostanziale e processuale:a) la sussistenza dei presupposti di legge per l'emissione del m.a.e. (artt. 28 e 29, comma primo 1, della l. n. 69/2005); b) l'an debeatur in merito alla richiesta di arresto e consegna da rivolgere agli altri Stati membri dell'UE.

I presupposti di legge, come è noto, sono tre: 1) che nel procedimento penale siano stati emessi l'ordinanza di custodia cautelare o un ordine di esecuzione della pena detentiva, non eseguiti per irreperibilità dell'imputato o del condannato; 2) che sia certa, probabile o possibile la presenza dell'imputato o del condannato sul territorio di un altro Stato membro, qualunque sia la loro cittadinanza; 3) che ricorrano determinati limiti di pena.

A tali considerazioni, però, deve aggiungersi l'ulteriore, dirimente, rilievo per cui la valutazione in ordine alla sussistenza dei profili dell'an debeatur poggia su un apprezzamento largamente discrezionale, anche in tal caso oggettivamente ricollegabile ad un'operazione di attenta verifica e ponderazione del complesso degli elementi storico-fattuali e probatori a disposizione dell'autorità giudiziaria che procede nella fattispecie concreta.

Non a caso si è ritenuto possibile enucleare, al riguardo, taluni criteri direttivi di ordine generale, il cui prudente bilanciamento, come posto in luce nel Vademecum per l'emissione del mandato d'arresto europeo, elaborato dal Ministero della giustizia - Direzione Generale della giustizia penale, e nel Manuale europeo sull'emissione del mandato di arresto europeo, adottato dal Consiglio dell'Unione europea il 18 giugno 2008 (8216/2/08), dovrebbe in ogni caso essere condotto dall'autorità competente per l'emissione del m.a.e.:

a) in primo luogo, l'arresto e la consegna possono essere richiesti, ad un altro Stato membro, soltanto ai fini dell'effettiva esecuzione del provvedimento detentivo emesso nel procedimento penale; per questo motivo la legge, da un lato, non consente di emettere il m.a.e. in presenza di misure coercitive non custodiali (artt. 281-283 cod. proc. pen.), che comporterebbero l'immediata liberazione della persona, dopo la consegna; dall'altro lato, prevede espressamente la perdita di efficacia del mandato d'arresto europeo, già emesso dal giudice, nei casi di estinzione della custodia cautelare (ex art. 31 della l. n.69 del 2005);

b) in secondo luogo, la stretta correlazione tra lo status detentionis e il mandato d'arresto europeo ne rende problematica l'emissione sulla base della misura coercitiva degli arresti domiciliari (art. 28, comma primo, lett. a), l. cit., in relazione all'art. 284 cod. proc. pen.), inducendo il giudice ad adottare, in questo caso, particolari cautele nella decisione;

c) in terzo luogo, e soprattutto, la valutazione sull'an debeatur, che nella prassi applicativa risulta essere molto diversa, a seconda dello Stato membro interessato e dell'autorità che procede, non può prescindere dal fatto che l'emissione del m.a.e. è comunque soggetta al rispetto dei limiti generali di ragionevolezza e proporzionalità sui quali si fonda l'azione comune dell'Unione europea, anche nel settore della cooperazione giudiziaria (art. 5 T.U.E.).

Ne consegue che il giudice e il pubblico ministero, quando agiscono come autorità "di emissione" del m.a.e., sono chiamati sempre ad operare una duplice valutazione: 1) sul piano interno, essi devono tener conto di una serie di elementi indicativi, quali quelli rappresentati, a titolo esemplificativo, dalla gravità del reato, dalla personalità dell'autore, dall'entità della pena e dalla durata della misura cautelare, anche in considerazione della scadenza dei termini di fase; 2) sul piano internazionale, inoltre, devono considerare che dall'emissione del m.a.e. scaturisce una complessa attività di cooperazione internazionale tra organi di polizia e autorità giudiziarie, e che l'esecuzione del mandato comporta l'arresto e la detenzione del ricercato, nel territorio di un altro Stato membro, per un lungo periodo di tempo, sollecitando l'instaurazione di un continuo interscambio informativo tra le autorità giudiziarie interessate e, talora, tra queste ultime ed Eurojust (ex artt. 16 e 17 della decisione quadro del 13 giugno 2002).

Si tratta, evidentemente, di una "griglia" di valutazioni che solo l'autorità procedente è in grado di esercitare con ampiezza di prospettive ed effettività di risultati, traendone le necessarie determinazioni ai fini dell'atto d'impulso della procedura attiva di consegna.

Dal testo normativo emerge con evidenza una scelta asimmetrica nell'articolazione della competenza giurisdizionale tra la fase attiva e quella passiva della procedura di consegna, attraverso l'introduzione di un significativo elemento di novità nella disciplina dei rapporti giurisdizionali con le autorità straniere: per la prima volta, infatti, la competenza non viene radicata a livello distrettuale presso le procure generali delle corti d'appello, come nel precedente sistema estradizionale, ma viene attribuita al giudice titolare del potere cautelare, che non può essere individuato se non alla stregua delle regole generali, implicitamente richiamate, di cui agli artt. 279 c.p.p. e 91, disp. att., c.p.p.

Inoltre, l'imprecisa formulazione letterale del testo normativo, non coordinato con il quadro di regole che presiedono all'individuazione del giudice competente in ordine alle misure cautelari (artt. 279 cod. proc. pen. e 91, disp. att., cod. proc. pen.), è stata ritenuta, in dottrina, foriera di gravi complicazioni sul piano applicativo, poiché, ove intesa in senso restrittivo, porterebbe ad assegnare al giudice che ha adottato la misura cautelare una competenza "ultrattiva", il cui radicamento resisterebbe finanche nell'ipotesi in cui l'emissione del mandato di arresto europeo dovesse verificarsi all'interno di fasi o gradi successivi, come, ad esempio, nelle situazioni in cui la corte d'appello per qualsiasi ragione decidesse di ripristinare una misura cautelare precedentemente revocata da un altro giudice.

Era dunque assai agevole ipotizzare che il "nodo" problematico giunto all'attenzione delle Sezioni Unite vi sarebbe presto tornato, per essere sciolto con una statuizione che facesse definitiva chiarezza sui numerosi dubbi emersi riguardo alla corretta applicazione dell'art. 28 della L. n. 69 del 2005.

Con ordinanza del 2 luglio 2013 - dep. 17 luglio 2013, n. 30761, la Prima Sezione di questa Suprema Corte ha nuovamente rimesso la questione controversa all'attenzione delle Sezioni Unite, richiamandosi alle principali argomentazioni su cui aveva fatto leva la precedente ordinanza di rimessione della Sesta Sezione (n. 12321/2012) per sostenere la maggiore fondatezza del primo dei su menzionati indirizzi esegetici, e rilevando, inoltre, come la soluzione di tale questione di diritto involgesse la delibazione di delicate questioni interpretative riguardanti la materia della libertà personale.

Con sentenza del 28 novembre 2013, non ancora depositata, le Sezioni Unite hanno risolto la questione, stabilendo che la competenza funzionale ad emettere il mandato d'arresto europeo per l'esecuzione di una misura cautelare spetta al giudice che procede.

2. Rifiuto della consegna: la tutela del rapporto genitori - figli.

Una sensibile estensione della latitudine applicativa di principi già affermati nella giurisprudenza di legittimità è operata dalla recente pronuncia Sez. VI, 3 ottobre 2013 - dep. 8 ottobre 2013, n. 41642, Witoszek, Rv. 256277-256278, secondo cui la consegna a fini di estradizione della madre di prole di età superiore ai tre anni, e però bisognosa di continua assistenza materiale ed affettiva, presuppone l'accertamento dell'esistenza nel Paese richiedente di garanzie idonee ad assicurare i contatti tra l'estradanda ed i figli con modalità adeguate a salvaguardare l'integrità psicofisica del minore, del genitore e del nucleo familiare.

Se, infatti, la condizione di madre di prole convivente di età inferiore a tre anni è stata considerata causa di rifiuto della consegna in virtù della disposizione di cui all'art. 18, lett. s), della legge n. 69 del 2005, ritenuta analogicamente estensibile ai procedimenti di estradizione passiva in quanto promossi da autorità giudiziarie di Stati appartenenti all'U.E. ai quali non erano applicabili, per meri motivi temporali, le disposizioni sul mandato di arresto europeo (v. Sez. VI, 4 dicembre 2007 - dep. 20 marzo 2008, n. 12498, Kochanska, Rv. 239145), quella di madre di prole di età che, pur se superiore ai tre anni, necessiti indiscutibilmente di una continua assistenza materiale ed affettiva, impone che la consegna della estradanda sia subordinata alla esistenza nell'ordinamento del Paese richiedente di garanzie idonee ad assicurare che durante il periodo di detenzione la madre possa mantenere idonei contatti con i figli in tenera età, sia pure con modalità non necessariamente corrispondenti a quelle previste dall'ordinamento penitenziario italiano, purché venga salvaguardata l'integrità psicofisica non solo del minore, che altrimenti resterebbe privato del rapporto affettivo con la madre in una fase delicata della sua esistenza, ma dello stesso genitore e della stessa famiglia.

La finalità della disposizione sopra richiamata (art. 18, lett. s, della l. n. 69/2005) è stata anche di recente individuata nell'esigenza di tutelare gli interessi dei figli di tenera età, in modo da assicurare loro la prosecuzione del rapporto essenziale con il genitore in una fase particolarmente importante e delicata per lo sviluppo psichico nonché fisico del bambino (Sez. VI, 7 ottobre 2013, dep. 11 ottobre 2013, n. 42124).

Entro tale prospettiva, peraltro, questa Corte ha già avuto modo di affermare che la limitazione della previsione di cui alla citata disposizione alla sola "madre", con esclusione del padre, trova giustificazione nell'assoluta peculiarità del rapporto tra la donna e la prole di tenera età, giustificazione che non appare irrazionale stante la non equiparabilità delle due situazioni (Sez. VI, 25 marzo 2010 - dep. 26 marzo 2010, n. 11800, Meskaoui; Sez. Fer., 2 settembre 2008 - dep. 15 settembre 2008, n. 35286, Zvenca).

In senso contrario rispetto a questo orientamento, tuttavia, si è di recente espressa un'unica pronuncia, che ha esteso il rifiuto di consegna anche al padre, in una peculiare vicenda in cui il consegnando aveva con sé il figlio di età minore a tre anni, senza alcuna possibilità per quest'ultimo di essere affidato ad altri membri della famiglia (Sez. VI, 15 aprile 2013 - dep. 22 maggio 2013, n. 21988, Partenie, Rv. 256564). In tal caso, di è tento conto delle prioritarie esigenze di tutela del figlio di età minore dei tre anni, del rischio di sradicamento dal territorio italiano della famiglia dovuto alla impossibilità per la madre di provvedere ai bisogni primari, del rischio di perdita della casa di abitazione per l'impossibilità di pagamento del mutuo, esigenze la cui rilevanza in concreto è stata valutata e posta a raffronto con il ridotto interesse punitivo riconoscibile al fatto per il quale era stata richiesta la consegna (furto di polli) ed alla correlativa distanza temporale dell'accadimento (16 anni).

3. Condanna in contumacia ed esecuzione della pena.

Un'importante precisazione in tema di rapporti tra condanna contumaciale, esecuzione della pena in Italia e possibilità, o meno, di proporre impugnazione avverso la sentenza di condanna pronunciata nello Stato richiedente, è giunta dalla pronuncia Sez. VI, del 21 febbraio 2013 - dep. 26 febbraio 2013, n. 9151, Amoasei, Rv. 254473, secondo cui, in tema di mandato di arresto europeo, è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione con cui la Corte d'appello ha rifiutato la consegna a norma dell'art. 18, lett. r), della L. n. 69/2005, stabilendo l'esecuzione in Italia della pena inflitta dall'autorità giudiziaria estera con sentenza contumaciale, qualora l'interessato si dolga del fatto che tale decisione lo ha privato della possibilità di proporre impugnazione per ottenere la rimessione in termini dinanzi all'autorità giudiziaria dello Stato di emissione.

Ne consegue che la eventuale celebrazione di un nuovo giudizio presso tale Stato farebbe perdere ipso iure il carattere di esecutività alla condanna inflitta, imponendo la consegna all'autorità richiedente in applicazione dell'art. 19, comma primo, lett. c), della legge n. 69 del 2005 (fattispecie relativa ad un ordinamento - la Romania - in cui la persona estradata per essere sottoposta ad una pena derivante da una condanna in absentia, può, su sua richiesta, essere nuovamente giudicata dalla stessa Corte che ha emesso il giudizio nella precedente fase).

4. Dichiarazioni predibattimentali della persona offesa.

A fondamento In linea con l'evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali della Corte EDU si è affermato, inoltre, che non è di ostacolo all'estradizione richiesta dallo Stato estero, per violazione dei diritti fondamentali, il fatto che nei confronti della persona da estradare sia stata pronunciata sentenza di condanna definitiva utilizzando, per l'accertamento della sua responsabilità, dichiarazioni predibattimentali rese dalla persona offesa in assenza di contraddittorio e ritrattate all'esito di pressioni esercitate nei suoi confronti, quando la decisione dell'autorità estera si fondi anche su altri elementi di prova e le suddette dichiarazioni non siano state il motivo esclusivo o prevalente della condanna (Sez. VI, 10 dicembre 2012 - dep. 29 gennaio 2013, n. 4288, B., Rv. 254469).

Alla stregua della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della stessa giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. un., 25 novembre 2010 - dep. 14 luglio 2011, n. 27918, D. F., Rv. 250199), si può ritenere ormai vigente nel nostro ordinamento il principio secondo cui le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono, in applicazione della disposizione di cui all'art. 6 della CEDU, fondare in modo esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale.

5. Altre pronunce.

Analoga attenzione all'evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU in merito all'interpretazione del disposto di cui all'art. 6, comma 3, della Convenzione dei diritti dell'uomo mostra, poi, la pronuncia Sez. VI, 30 ottobre 2012 - dep. 14 febbraio 2013, n. 7388, Carpa, Rv. 254415, che ha ribadito il principio secondo cui il giudizio celebrato senza l'assistenza di un difensore non è motivo preclusivo alla estradizione solo quando l'ordinamento estero rimetta all'imputato la scelta di difendersi personalmente.

E', infine, da segnalare, in tema di estradizione per l'estero, una rilevante precisazione fornita dalla Corte nel senso che la "scelta di fatto" dello Stato richiedente, da cui deriva il pericolo per l'estradando di patire la violazione dei diritti fondamentali della persona e che impone al giudice italiano di pronunciarsi negativamente sull'istanza, può consistere anche nel contegno delle Autorità di non approntare misure idonee ad assicurare ai detenuti le condizioni necessarie a salvaguardare le minime esigenze di rispetto della dignità umana, pur conoscendo ufficialmente lo stato di degrado in cui versano le strutture carcerarie (Sez. VI, 15 ottobre 2013 - dep. 18 novembre 2013, n. 46212).

Pur afferente a tematiche connesse a quelle estradizionali, va registrata, per l'importanza del principio affermato, un'ulteriore pronuncia della Sezione Sesta, secondo cui, in tema di esecuzione all'estero di una sentenza penale italiana di condanna a pena detentiva, il condannato può revocare il consenso al trasferimento anche dopo la deliberazione della Corte d'appello, quando le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sue determinazioni si siano successivamente modificate (Sez. VI, 15 ottobre 2013, - dep. 18 novembre 2013, n. 46205) riguardo ad una fattispecie in cui erano sopravvenuti provvedimenti giudiziari di rideterminazione della data di fine-pena implicanti un ravvicinatissimo tempo di cessazione del trattamento sanzionatorio).

PARTE TERZA LE DECISIONI IN MATERIA DI LEGISLAZIONE PENALE COMPLEMENTARE E DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

Sommario

0 Premessa.

0. Premessa.

Le parti del diritto penale disciplinate dalla legislazione speciale o dedicate alla regolazione dei fenomeni di criminalità organizzata sono state oggetto anch'esse, nel corso del 2013, di numerose decisioni della Corte di legittimità.

La necessità di operare una selezione tra le diverse materie e i diversi settori di intervento, per evidenti ragioni di economia di trattazione, ha condotto a preferire quegli argomenti e quei temi caratterizzati da copiosità di produzione giurisprudenziale e vivacità di dialettica anche alla luce dell'elaborazione delle Corti europee, o le cui implicazioni sociali ed economiche risultano particolarmente avvertite e che hanno dato luogo a recenti o recentissimi interventi normativi.

Si è così dato spazio ad un'analisi delle decisioni relative alla disciplina penale del fallimento, e, in particolare, alla bancarotta fraudolenta, dove lo sforzo si rivela concentrato nel tentativo di perseguire un equilibrio tra le pressanti esigenze di tutela del credito ed i principi di offensività e di colpevolezza.

Un capitolo è stato riservato al settore del diritto penale del lavoro, e, specificamente, all'individuazione delle posizioni di garanzia e della distribuzione dei rischi, che appare affrontata dalle pronunce in un'ottica rivolta ad assicurare, con la massima 'effettività' possibile, la sicurezza dei prestatori di lavoro attraverso la prefigurazione di un quadro chiaro e preciso dei ruoli ai quali si connettono le responsabilità.

Altra parte della trattazione è stata destinata alla disciplina penalistica dell'immigrazione, in riferimento alla quale la Corte di Cassazione risulta avere svolto un'opera di equilibrio e di puntualizzazione procedendo alla 'armonizzazione' della disciplina legislativa nazionale con i principi delle direttive e della giurisprudenza comunitaria, ispirandosi al principio di conservazione, ma evitando rigorismi.

In un apposito ambito, ancora, si sono esaminati gli orientamenti in tema di reati concernenti gli stupefacenti, e si è rilevata la tendenza delle pronunce di legittimità a seguire un'interpretazione il più possibile aderente con i principi di tassatività, offensività e proporzionalità, secondo una prospettiva nella quale sembra muoversi anche il recentissimo decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146.

Una articolata porzione espositiva, infine, è stata assegnata all'elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte in tema di criminalità organizzata e, in particolare, di criminalità organizzata di tipo mafioso. Si è così messo in luce il ruolo centrale attribuito alle massime di esperienza come strumento di razionalità valutativa e, quindi, di garanzia funzionale al contenimento dei rischi derivanti da semplificazioni della disciplina legislativa – in sostanza dal cd. 'doppio binario' – sia sul versante sostanziale, sia su quello processuale. Si sono poi esaminate le linee di tendenza in relazione alle aggravanti previste dall'art. 7 del decreto legge n. 152 del 1991, e le novità determinate, in particolare, in tema di 'relativizzazione' della presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 57 del 2013. Si è, quindi, dato conto dell'arresto delle Sezioni Unite in tema di aggravante della transnazionalità e delle successive puntualizzazioni delle Sezioni semplici. Si è, da ultimo, affrontato l'argomento delle misure di prevenzione patrimoniale e della confisca, segnalando la vivace dialettica seguita alle novità normative che, a partire dal 2008, hanno sganciato il sequestro e la confisca dall'attualità della pericolosità del soggetto destinatario del provvedimento ablatorio.

  • società
  • sistema bancario
  • fallimento

CAPITOLO I

LA TUTELA PENALE NEL FALLIMENTO E LA BANCAROTTA FRAUDOLENTA

Sommario

1 Principali problemi in tema di disciplina penale del fallimento. - 2 Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nel reato di bancarotta. - 3 Il ruolo del danno nel reato di bancarotta fraudolenta: in generale. - 3.1 Il danno nella "bancarotta impropria" da reato societario. - 3.2 Il danno e la bancarotta fraudolenta nei gruppi societari. - 4 Il dolo nel reato di "bancarotta impropria". - 5 Il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta: la posizione degli amministratori di società diverse da quella fallita. - 6 La distinzione tra bancarotta fraudolenta e bancarotta preferenziale: fattispecie problematiche in tema di dissesti societari. - 7 L'area di applicazione dell'aggravante del danno di rilevante gravità. - 8 La durata delle pene accessorie per il reato di bancarotta fraudolenta.

1. Principali problemi in tema di disciplina penale del fallimento.

Gli interventi della giurisprudenza di legittimità in relazione alla materia dei reati fallimentari, nel corso del 2013, sono stati numerosi, ed hanno affrontato le principali questioni, spesso consolidando e precisando orientamenti già emersi, talvolta affrontando questioni nuove.

In linea generale, tra le pronunce più significative possono annoverarsi quelle che hanno ripetutamente messo a fuoco il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nel reato di bancarotta fraudolenta, quelle che hanno esaminato il profilo del danno per i creditori come elemento incidente ai fini della configurabilità del medesimo reato, e quelle che hanno ribadito e puntualizzato detti principi in materia societaria, anche ai fini della distinzione tra le fattispecie di bancarotta fraudolenta e bancarotta preferenziale. Una particolare importanza deve essere riconosciuta, poi, ai principi affermati in ordine alle condizioni per configurare il dolo della bancarotta fraudolenta a carico degli amministratori senza delega ed il concorso in questo reato degli amministratori di società diversa da quella fallita.

Complessivamente, alla luce delle soluzioni accolte, le linee di tendenza della giurisprudenza sembrano essere informate all'esigenza di coniugare l'attenzione alle ragioni del ceto creditorio e, insieme, il rispetto del principio di colpevolezza.

2. Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nel reato di bancarotta.

La più recente giurisprudenza sembrerebbe, allo stato, aver superato il contrasto aperto dalla sentenza Sez. V, 24 settembre 2012 - dep. 6 dicembre 2012, n. 47502, Corvetta, Rv 253493, la quale, sia pure in relazione a una fattispecie di marcata peculiarità (vicenda relativa ad una società sportiva, caratterizzata da forte discontinuità nella gestione aziendale, dovuta all'avvicendamento di amministratori operanti in segmenti temporali ben distinti, con conseguente necessità di verificare la rilevanza delle condotte tenute nel corso della prima fase e addebitate alla proprietà storica in ordine all'avvenuta dichiarazione di fallimento, intervenuta successivamente all'ingresso di altri soggetti e a seguito di ulteriori operazioni di gestione atte ad incidere negativamente sulla consistenza patrimoniale della società) aveva affermato - in consapevole contrasto con la giurisprudenza consolidata - che "nel reato di bancarotta per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e deve essere, altresì, sorretto dall'elemento soggettivo del dolo". In sostanza, la questa sentenza, pur non distaccandosi, ma anzi riaffermando l'impostazione della consolidata giurisprudenza, che ha sempre qualificato la dichiarazione di fallimento quale elemento costitutivo del reato – e non quale condizione obiettiva di punibilità, secondo una tesi sostenuta diffusamente in dottrina – aveva sviluppato le conseguenze di detta impostazione in punto di accertamento causale e di elemento psicologico, ricostruendo la funzione di tale elemento nell'economia della fattispecie di bancarotta e pervenendo alla conclusione che la bancarotta è un reato di evento.

Con diverse sentenze, depositate nel 2013, la S.C. ha, tuttavia, ripristinato la continuità interrotta con la sentenza Corvetta, riaffermando il principio per il quale "la dichiarazione di fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta, con la conseguenza che è del tutto irrilevante il nesso eziologico tra la condotta realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo – che incide sulla consistenza di un'impresa commerciale – ed il fallimento" (Sez. V, 12 febbraio 2013 - dep. 26 giugno 2013, n. 27993, Di Grandi, Rv 255567). Nello stesso senso, si è evidenziato che "ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento" (così, Sez. V, 9 ottobre 2012, dep. 7 gennaio 2013, n. 232, Sistro, Rv. 254061; Sez. V, 25 ottobre 2012, dep. 15 febbraio 2013, n. 7445, Lanciotti, Rv 254634). In conformità anche la sentenza Sez. V, 24 settembre 2012 - dep. 8 gennaio 2013, n. 733, Sarno, n. mass., per la quale "la punibilità della condotta per distrazione non è subordinata alla condizione che la stessa distrazione sia stata causa del dissesto, in quanto una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento i fatti di distrazione assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l'impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza, né è rilevante trattandosi di reato di pericolo, che al momento della consumazione l'agente non avesse consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato". In tema, per un'esclusione ancor più netta della coscienza del dissesto ai fini della configurabilità del dolo, v. anche Sez. V, 14 dicembre 2012 - dep. 22 gennaio 2013, n. 3229, Rossetto, Rv. 253932-253933, e Sez. V, 23 aprile 2013 - dep. 2 luglio 2013, Grazioli Gauthier, n. mass. sul punto.

3. Il ruolo del danno nel reato di bancarotta fraudolenta: in generale.

Importanti indicazioni sono intervenute in relazione al ruolo del danno nel reato di bancarotta, con affermazione di principi ora di generale applicabilità, ora, invece, specificamente inerenti al tema della cd. bancarotta impropria da reato societario, ovvero a quello dei gruppi societari.

Una precisazione importante, di carattere generale, sulla nozione del danno in una prospettiva 'dinamica' e 'funzionale' è stata offerta dalla sentenza Sez. V, 23 aprile 2013 - dep. 2 luglio 2013, n. 28514, Grazioli Gauthier, Rv. 255576.

In questa pronuncia, la S.C. ha affermato che "non è configurabile l'ipotesi di bancarotta 'riparata' nel caso in cui il socio e amministratore che abbia posto in essere condotte distrattive, ceda prima del fallimento le proprie quote ottenendo dall'acquirente manleva per i debiti pregressi nei confronti della società, compresi quelli derivanti dalle sottrazioni illecite". In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato l'irrilevanza della manleva prestata dagli acquirenti delle quote - nei confronti dell'imputato, tenuto indenne dai debiti pregressi verso la società, ivi compresi quelli derivanti dalle sottrazioni contestate - ritenendo che tale accordo esaurisse i suoi effetti all'interno dei rapporti tra i soci, mentre non mutava la situazione con riguardo alle ragioni dei creditori della società, rispetto alle quali persisteva il pericolo derivante dall'incidenza di dette sottrazioni sulla garanzia patrimoniale dei debiti della società, non rimosso dall'effettiva immissione di somme corrispondenti a quelle prelevate. A fondamento di questa affermazione, la Corte ha precisato che la "restituzione è rilevante nel momento in cui la sottrazione dei beni venga annullata da un'attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell'impresa prima della dichiarazione di fallimento ed impedisca l'insorgenza di alcun effettivo pregiudizio per i creditori".

La decisione è in linea con la precedente giurisprudenza sul tema, la quale, ancorché configuri la distrazione come reato di pericolo, ha, infatti, riconosciuto l'irrilevanza penale di comportamenti distrattivi di risorse 'rientrate' nel patrimonio dell'impresa prima della dichiarazione di fallimento, affermando che, in tal caso, viene meno la stessa oggettività giuridica della fattispecie. In tal senso si è specificamente affermato che "non integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il finanziamento concesso al socio e da questi restituito in epoca anteriore al fallimento, in quanto la distrazione costitutiva del delitto di bancarotta si ha solo quando la diminuzione della consistenza patrimoniale comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre concretamente in pericolo l'interesse protetto e cioè le ragioni della massa dei creditori ed il momento cui fare riferimento per verificare la consumazione dell'offesa è quello della dichiarazione giudiziale di fallimento e non già quello in cui sia stato commesso l'atto, in ipotesi, antidoveroso (Sez. V, 21 settembre 2007 - dep. 23 ottobre 2007, n. 39043, Spitoni, Rv. 238212). Più di recente si è formulato il principio in termini ancor più piani riconoscendo che "ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, il pregiudizio dei creditori deve sussistere al momento della dichiarazione giudiziale di fallimento, non già al momento della commissione dell'atto antidoveroso. Pertanto, non integra fatto punibile come bancarotta per distrazione la condotta, ancorché fraudolenta, la cui portata pregiudizievole risulti annullata per effetto di un atto o di un'attività di segno inverso, capace di reintegrare il patrimonio della fallita prima della soglia cronologica costituita dall'apertura della procedura, quantomeno, prima dell'insorgenza della situazione di dissesto produttiva del fallimento. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato la decisione del giudice di merito il quale ha affermato la responsabilità dell'imputato a titolo di bancarotta per distrazione, omettendo di motivare in ordine all'effettivo rientro del denaro fuoriuscito dalla società e ai tempi di restituzione delle somme)" (Sez. V, 3 febbraio 2011 - dep. 2 marzo 2011, n. 8402, Cannavale, Rv. 249721).

In verità, quest'ultimo orientamento costituisce una significativa precisazione dell'altro già esaminato che esclude il fallimento quale evento dannoso nelle condotte di bancarotta: se, infatti, la condotta fraudolenta può essere messa nel nulla da una attività di segno inverso, è evidente che si richiede per la sussistenza del delitto che la condotta bancarottiera lasci un segno negativo (evento) nel patrimonio del fallito al momento della dichiarazione di fallimento.

3.1. Il danno nella "bancarotta impropria" da reato societario.

In relazione al reato di bancarotta impropria da reato societario, la concezione 'dinamica' del danno ha indotto ritenere rilevante non solo la condotta che abbia determinato il dissesto, ma anche quella che ne abbia prodotto l'aggravamento.

La sentenza Sez. V, 11 gennaio 2013 - dep. 12 aprile 2013, n. 17021, Garuti, Rv. 255089-255090, ha affermato il principio per il quale "integra il reato di bancarotta impropria da reato societario l'amministratore che, attraverso mendaci appostazioni nei bilanci, simuli un inesistente stato di solidità della società, consentendo così alla stessa di ottenere nuovi finanziamenti bancari ed ulteriori forniture, giacché agevolando in tal modo l'aumento dell'esposizione debitoria della fallita, determina l'aggravamento del suo dissesto". In applicazione del principio di cui in massima, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha affermato la responsabilità degli imputati, nella loro qualità di presidente e consigliere di amministrazione della medesima società, per il reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 1 l. fall., ritenendo che la simulazione di un inesistente stato di solidità non solo aveva mascherato la reale situazione, ma aveva anche consentito alla società di ottenere ulteriori e sempre crescenti finanziamenti dalle banche in tal modo mantenendo la fiducia dei fornitori e dei clienti, ma aumentando l'esposizione debitoria ed aggravando conseguentemente il dissesto. Si tratta di un caso paradigmatico che mostra come - ancorché sia difficile ipotizzare casi in cui il dissesto possa conseguire ad operazioni di mera rappresentazione di valori contabili, essendo normalmente causalmente legato a condotte materiali distrattive o dissipative – la falsità in bilancio possa determinare l'aggravamento del dissesto.

Nella stessa direzione si pone anche la sentenza Sez. V, 12 aprile 2013 - dep. 2 luglio 2013, n. 28508, Mannino, Rv. 255575, la quale afferma che "integra il reato di bancarotta impropria da reato societario l'amministratore di società che esponga nel bilancio dati non veri al fine di occultare la sostanziale perdita del capitale sociale, evitando così che si palesasse la necessità di procedere al suo rifinanziamento o alla liquidazione della società, provvedimenti la cui mancata adozione determinava l'aggravamento del dissesto di quest'ultima".

Entrambe le decisioni, poi, a fondamento della rilevanza di condotte determinative del solo aggravamento del dissesto, richiamano sia la lettera dell'art. 223, comma 2, n. 1), l. fall., laddove si dà rilievo alla condotta che abbia "concorso a cagionare", sia i principi generali in materia di causalità di cui all'art. 41 cod. pen., sia l'osservazione secondo cui il fenomeno del dissesto si caratterizza in termini non già di istantaneità, bensì di progressività nel tempo.

3.2. Il danno e la bancarotta fraudolenta nei gruppi societari.

In materia di operazioni interne ai gruppi societari, la giurisprudenza ha attribuito rilevanza al danno avendo riguardo alle conseguenze tanto per il gruppo nel suo complesso, quanto – specificamente – per la singola società fallita.

In particolare, in tema di finanziamento infragruppo, la S.C., con la sentenza Sez. V, 21 febbraio 2013 - dep. 9 maggio 2013, n. 20039, Turchi, Rv. 255646, ha affermato il principio per il quale "integra distrazione rilevante ai fini della bancarotta fraudolenta la condotta di finanziamento di ingenti somme in favore di società dello stesso gruppo, effettuato dalla società fallita quando già si trovava in situazione di difficoltà finanziaria, in mancanza di garanzie e senza vantaggi compensativi sia per il gruppo nel suo complesso che per la stessa società fallita". Si tratta di una decisione che richiama e conferma alcuni dei precedenti elaborati in materia, osservando che "l'influenza … dei collegamenti della società fallita nell'ambito del gruppo deve … essere esaminata nel rispetto dell'autonoma tutela delle ragioni creditorie specificamente riferibili alla società fallita", con la conseguenza che deve "essere allegata dall'imputato, a fronte della natura oggettivamente distrattiva dell'operazione, l'esistenza di uno specifico vantaggio derivante dall'atto di disposizione patrimoniale, complessivamente riferibile al gruppo ma altresì produttivo per la fallita di benefici, i quali si rivelino concretamente idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione stessa che derivi anche in favore della fallita". Nella specie l'operazione di finanziamento infragruppo è stata ricondotta nell'alveo della bancarotta fraudolenta per distrazione, trattandosi, come accertato in sede di merito con congrua motivazione, di finanziamenti estranei all'oggetto sociale della fallita concessi senza alcuna deliberazione, in assenza di garanzie ed erogati quando la società finanziatrice si trovava già in difficoltà.

Peraltro, occorre anche rilevare che seppure sia ormai consolidato il riconoscimento da parte della giurisprudenza di legittimità dei c.d. vantaggi compensativi escludenti la bancarotta patrimoniale nei gruppi societari, raramente ne è stata affermata la sussistenza nelle fattispecie sottoposte al vaglio della S.C.

4. Il dolo nel reato di "bancarotta impropria".

Una importante ed innovativa pronuncia, Sez. V, 5 ottobre 2012 - dep. 28 maggio 2013, n. 23000, Berlucchi, in corso di massimazione, ha precisato i limiti di responsabilità degli amministratori societari senza delega, evidenziando come ai fini della configurabilità del reato di bancarotta occorre il dolo, non essendo sufficiente la mera colpa cosciente.

La decisione, precisamente, ha affermato il seguente principio: "in tema di reati fallimentari e societari, la responsabilità penale dell'amministratore privo di delega per fatti di bancarotta fraudolenta presuppone che egli sia concretamente venuto a conoscenza di dati da cui desumere un evento pregiudizievole per la società o almeno il rischio della verifica di detto evento ed abbia volontariamente omesso di attivarsi per scongiurarlo. Ne consegue che, a tal fine, non solo è necessaria la conoscenza del c.d. segnale di allarme - non essendone sufficiente la mera conoscibilità - ma occorre anche che l'amministratore si sia rappresentato tale segnale come dimostrativo di fatti potenzialmente dannosi, e non di meno sia rimasto deliberatamente inerte". (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato la decisione del giudice di appello per difetto di motivazione in punto di esistenza di chiari indici rivelatori del possibile compimento di illeciti - che avrebbero dovuto imporre agli amministratori senza delega di intervenire - ritenendo quelli evidenziati dal giudice di merito insufficienti ad integrare una responsabilità a titolo di dolo). Si tratta di una sentenza di grande rilievo che – in continuità con la più recente giurisprudenza in subiecta materia – ha ribadito e specificato, anche con tratti innovativi, gli elementi costitutivi dell'accertamento e, quindi, della prova del dolo degli amministratori privi di delega che, pur avendo partecipato a delibere societarie aventi carattere distrattivo (art. 216 e 223 l. fall.) non abbiano effettiva conoscenza del carattere illecito delle predette delibere societarie (o, comunque, non vi sia prova di tale effettiva conoscenza), e di cui il giudice di merito afferma la responsabilità ritenendo l'esistenza di 'segnali di allarme peculiari in relazione all'evento illecito", con "grado di anormalità particolarmente eloquente".

La sentenza Berlucchi costituisce un vero e proprio punto di rottura con schemi ascrittivi di responsabilità c.d. 'funzionali' o 'da posizione', escludendo scorciatoie probatorie e affermando l'esigenza di standards probatori e argomentativi rigorosi in tema di accertamento del dolo, ancora più stringenti a seguito delle riforme del diritto societario: essa afferma che, quando la responsabilità è fondata e delimitata dal dolo – il quale richiede l'effettiva conoscenza e la volontà del fatto di reato –, esso non può essere sostanziato dalla mancata acquisizione di conoscenza, ancorché tale acquisizione sia possibile mediante l'attività di vigilanza e di controllo, giacché il non avere adeguatamente vigilato, il non avere appreso ciò che si sarebbe potuto conoscere in adempimento del dovere di vigilanza, fonda un addebito di colpa. A specificazione di tale assunto, si sottolinea che il dolo, anche eventuale, richiede "pur sempre da parte del soggetto attivo – per potersi affermare che un fatto è da lui voluto, per quanto in termini di mera accettazione del rischio che si produca – la determinazione di orientarsi verso la lesione o l'esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice". Con la conseguenza che "un conto è che l'amministratore privo di delega rimanga indifferente dinanzi ad un 'segnale di allarme' percepito come tale, in quanto decida di non tenere in alcuna considerazione l'interesse dei creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli continui a riconoscere fiducia, per quanto mal riposta, verso le capacità gestionali di altri, ovvero che per colpevole – ma non dolosa – superficialità venga meno agli obblighi di controllo su di lui effettivamente gravanti, accontentandosi di informazioni insufficienti su un'operazione che gli viene sottoposta per l'approvazione senza che egli si renda davvero conto delle conseguenze che ne potrebbero derivare". Giacché "solo nel primo caso l'amministratore potrà essere chiamato a rispondere penalmente delle proprie azioni od omissioni, non già nel secondo dove – ferma restando la prospettiva di ravvisare una sua responsabilità in sede civile, ricorrendone i meno rigorosi presupposti – sarebbe ipotizzabile soltanto una sua condotta colposa, al massimo nella forma della colpa cosciente per avere egli ritenuto erroneamente che le capacità manageriali di qualcun altro avrebbero di certo impedito il verificarsi di un pur previsto evento: e l'ordinamento non consente la condanna in sede penale per fatti di bancarotta connotati da mera colpa, neppure se in ipotesi aggravati ex art. 61, n. 3, cod. pen.". Pertanto, nessun automatismo né presunzione di responsabilità collettiva: occorre avere riguardo alla concreta fattispecie alla luce del mutato assetto normativo.

Nella concreta fattispecie, la Corte ha rilevato che non è sufficiente, ai fini della prova del dolo, così come ritenuto dal giudice di merito, il non aver colto "alcuni fattori di anomalia, tali da emergere alla semplice lettura del carteggio della pratica", poiché tale elemento, se "comporta ex se un chiaro addebito di colpa, financo grave, nei confronti di chi non lo colse", "non basta ancora per giungere ad affermare che chi espresse un voto favorevole e concorse così ad autorizzare un'operazione pregiudizievole per la società lo fece volendo perseguire quell'intento, o restando consapevolmente indifferente verso conseguenze della propria condotta che comunque si era prefigurato". In altri termini, l'avere espresso un voto favorevole non illumina sulla effettiva conoscenza del votante, occorrendo, invece, l'accertamento della "determinazione di orientarsi verso la lesione o l'esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice" e, quindi, la decisione personale dell'agente di azionare un processo causale in direzione dell'offesa, di talché il fatto nel suo insieme è stato pur sempre voluto dall'autore della condotta. Ciò conduce ad una attenta riflessione sui c.d. segnali di allarme, perché "la scelta degli amministratori non operativi di astenersi dal richiedere dati ulteriori dimostra che essi non seppero svolgere adeguatamente il loro compito, ma non ancora che l'omissione rivela una loro partecipazione dolosa al programma di 'drenaggio di risorse' che altri avevano ordito".

Ne deriva che la prova della rappresentazione in capo all'amministratore degli illeciti in itinere può essere evinta - in assenza di prova in ordine ad una esplicita volontaria partecipazione all'illecito - anche da elementi correlati alle operazioni che ne manifestino in modo perspicuo e peculiare il carattere illecito; tuttavia, essa non può ridursi alla mera esistenza di tali segnali, dovendosi accertare la percezione da parte dell'imputato degli stessi e, quanto meno, l'accettazione che vengano realizzati fatti di reato in danno della società, dei soci o dei creditori, con il proprio contributo.

5. Il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta: la posizione degli amministratori di società diverse da quella fallita.

La S. C., con la sentenza Sez. V, 28 novembre 2012 - dep. 15 febbraio 2013, n. 7556, Accorinti, Rv. 254653, ha affermato che in tema di bancarotta per distrazione, "non è configurabile la responsabilità dell'amministratore di una società diversa da quella fallita nel reato proprio, ex art. 40, comma 2, cod. pen., la quale, integrata dalla posizione di garanzia, ex art. 2392 cod. civ., è invocabile solo con riferimento agli atti di gestione della società amministrata e non può invece estendersi ad atti compiuti da amministratori di società terze. Ne consegue che l'amministratore di una società diversa da quella fallita può concorrere quale 'extraneus' nel reato solo mediante una partecipazione attiva".

Nella specie un gruppo tessile in notevoli difficoltà finanziarie, con l'avvallo di un pool di banche creditrici, aveva costituito una new company nella quale, mediante un affitto di azienda con opzione di riscatto, aveva trasferito le attività ancora redditizie e posto in liquidazione volontaria le c.d. bad companies; gli amministratori dimissionari delle società poste in liquidazione avevano poi assunto il controllo formale e sostanziale della new company, personalmente o attraverso familiari. Il giudice di appello aveva affermato la responsabilità per bancarotta fraudolenta per distrazione non solo degli amministratori delle società poste in liquidazione e della new company, ma anche dei dirigenti delle banche creditrici, quali extranei concorrenti nel reato proprio, in quanto gli stessi, con la loro inerzia, rilevante ex art. 40, comma 2, cod. pen., avevano appoggiato tale piano consentendo l'operazione come una sorta di regalìa ai soci e fondatori storici del gruppo, ottenendo in cambio che la liquidazione del gruppo fosse lasciata nelle mani di soggetti a loro compiacenti e parte dei crediti delle banche, non adeguatamente garantiti, fossero trasferiti alla new company.

La S.C. ha annullato l'affermazione di responsabilità evidenziando che "l'amministratore di società non assume una posizione di garanzia generalizzata nei confronti dei terzi, dei soci o dei creditori, essendo il suo obbligo limitato alla vigilanza ed alla personale attivazione per impedire l'adozione di atti di gestione pregiudizievoli"; a tal fine ha precisato che la responsabilità per omissione è integrata solo laddove si fondi sulla posizione di garanzia ex art. 2392 cod. civ. e, dunque, solo con riferimento agli atti della società amministrata e non anche a quelli compiuti da amministratori di società terze, o a quelli non pregiudizievoli per i soci o i creditori della stessa società amministrata, in quanto la responsabilità penale si fonda "sull'esistenza di una norma giuridica che impone un determinato comportamento funzionale ad evitare la verificazione dell'evento che costituisce la violazione dell'interesse tutelato dalla norma penale" ed attribuisce ai destinatari poteri impeditivi tipizzati e derivanti da un preciso obbligo giuridico (art. 2932 cod. civ.). In questa prospettiva, i dirigenti delle banche, pur essendo evidente la loro consapevolezza della grave situazione di crisi del gruppo, siccome non hanno concorso con condotte commissive, né hanno svolto il ruolo di amministratori di fatto delle società del gruppo, non possono essere ritenuti responsabili, ex art. 40, comma 2, cod. pen., in quanto, avuto riguardo alla posizione penalistica di garanzia, essi non sono garanti degli interessi dei soci o dei creditori di società diverse rispetto a quelle alle quali essi appartengono.

6. La distinzione tra bancarotta fraudolenta e bancarotta preferenziale: fattispecie problematiche in tema di dissesti societari.

Alcune decisioni hanno affrontato fattispecie relative a vicende di dissesti societari che hanno dato luogo a differenti soluzioni interpretative sotto il profilo della esatta qualificazione giuridica in termini di bancarotta fraudolenta ovvero di bancarotta preferenziale.

La sentenza Sez. V, 14 febbraio 2013 - dep. 21 marzo 2013, n. 13318, Viale, Rv. 254985, ha affermato – in continuità con la giurisprudenza maggioritaria e più recente (v. Sez. V, 10 novembre 2011 - dep. 17 gennaio 2012, n. 1793, N., Rv. 252003, e Sez. V, 7 marzo 2008 - dep. 9 aprile 2008, n. 14908, Frigerio, Rv. 239487) – che "integra il reato di bancarotta preferenziale la restituzione ai soci, effettuata in periodo di insolvenza, dei finanziamenti concessi dai medesimi alla società a titolo di mutuo". Tuttavia, sulla questione esiste una pronuncia in contrasto, Sez. V, 15 aprile 2004 - dep. 20 maggio 2004, n. 23672, Ribatti, Rv. 229032, per la quale "le restituzioni ai soci dei conferimenti o delle anticipazioni effettuate poco prima del fallimento della società, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale, integrano una condotta in contrasto con gli interessi della società fallita e della intera massa dei creditori, consistendo nella appropriazione di parte delle risorse sociali, distolte dalla loro naturale destinazione a garanzia dei creditori"; con la conseguenza che "la fattispecie deve … essere inquadrata nel reato di bancarotta per distrazione previsto dall'art. 223, comma 2, n. 1 della legge fallimentare e non in quello di bancarotta preferenziale".

Con riferimento ad altra tipologia di vicende, Sez. V, 25 ottobre 2012 - dep. 15 febbraio 2013), n. 7546, Fratalocchi, non mass., ha ribadito il principio secondo cui "l'amministratore che si ripaghi di un proprio credito verso la società risponde del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e non di bancarotta preferenziale, non potendo scindersi la sua qualità di creditore da quella di amministratore, come tale vincolato alla società dall'obbligo di fedeltà e da quello della tutela degli interessi sociali nei confronti dei terzi", già affermato da ultimo con la sentenza Sez. V, 30 maggio 2012 - dep. 26 giugno 2012, n. 25292, Massocchi, Rv. 253001. Sulla questione esiste un nutrito contrasto: secondo quanto rilevato da Sez. V, 15 aprile 2011 - dep. 15 luglio 2011, n. 28077, Landi, Rv. 250461, e, precedentemente, tra le altre, da Sez. V, 17 ottobre 2007 - dep. 12 dicembre 2007, n. 46301, Petilli, Rv. 238291, in tali ipotesi, deve trovare applicazione la bancarotta preferenziale, in quanto l'amministratore ripagandosi dei propri crediti verso la società fallita favorisce se stesso, quale creditore, alterando la par condicio creditorum. L'orientamento ribadito anche quest'anno ritiene, invece, che l'amministratore è vincolato alla società dall'obbligo di fedeltà e tutela degli interessi sociali nei confronti dei terzi e proprio il venir meno di questo obbligo evidenzierebbe l'aspetto preponderante della fraudolenza.

7. L'area di applicazione dell'aggravante del danno di rilevante gravità.

Alcune decisioni – in particolare, Sez. V, 21 gennaio 2013 - dep. 26 aprile 2013, n. 18695, Liori, Rv. 255839, e Sez. V, 17 gennaio 2013 - dep. 4 marzo 2013, n. 10180, Soldini, non mass. – hanno affrontato il tema dell'estensione della disciplina dell'aggravante del danno di rilevante gravità anche ai reati di bancarotta cd. impropria previsti dall'art. 223 l. fall., esprimendosi in senso favorevole all'applicazione di tale circostanza.

Il principio accolto si pone in continuità con la prevalente giurisprudenza di legittimità che ritiene pacificamente applicabile alla bancarotta societaria l'aggravante circostanza di cui all'art. 219, comma 1, l. fall. in virtù del richiamo dell'art. 223, comma 1, della l. fall. alle pene stabilite nell'art. 216 della medesima legge, richiamo che deve intendersi riferito al complessivo assetto sanzionatorio previsto per i delitti ivi disciplinati (l'art. 216 l. fall., a sua volta rinvia, con riguardo a specifiche attenuanti ed aggravanti, all'art. 219 l. fall.). La premessa maggiore di questa conclusione è data dalla ritenuta identità di condotte che caratterizzano la bancarotta propria e le corrispondenti fattispecie di bancarotta societaria di cui all'art. 223, comma 1, l. fall., con l'unica differenza che in quest'ultimo caso sono realizzate da soggetti diversi dall'imprenditore, sebbene in qualche modo legati all'amministrazione dell'ente collettivo. La conseguenza è che "la determinazione della pena per i reati commessi ai sensi dell'art. 223, comma 1, si deve operare con riferimento a quanto previsto dall'art. 216, per la bancarotta propria" e "le pene per la bancarotta propria si determinano tenendo conto non solo dei minimi e massimi edittali contemplati dall'art. 216, bensì anche considerando le attenuanti e le aggravanti speciali previste per tali reati". Conclusivamente: "il rinvio alla determinazione della pena … deve ritenersi integrale ed è basato sul presupposto della identità oggettiva delle condotte" alla quale non può che seguire l'identità del trattamento sanzionatorio. Secondo la S.C. una diversa interpretazione che escludesse l'applicabilità dell'aggravante del danno di rilevante entità alla bancarotta impropria violerebbe il principio di uguaglianza e comporterebbe "una patente irragionevolezza del sistema sanzionatorio, atteso che la bancarotta societaria rappresenta – in linea generale – fenomeno criminale molto più grave di quello costituito dalla bancarotta individuale", considerato che "nella moderna economia, le più alte concentrazioni di capitali assumono … forma societaria".

Occorre rilevare che sulla questione sussiste un contrasto espresso dalla sentenza Sez. V, 18 dicembre 2009 - dep. 5 marzo 2010, n. 8829, Triuzzi, Rv. 246154, la quale afferma che "non è applicabile la circostanza aggravante ad effetto speciale del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all'art. 219, comma 1, l. fall. all'ipotesi di bancarotta documentale fraudolenta impropria, stante il richiamo letterale dell'art. 219, comma 1, l. fall. circoscritto agli art. 216, 217 e 218 l. fall. e determinato dalla diversità strutturale e ontologica sussistente tra la bancarotta fraudolenta impropria e quella ordinaria che ne preclude l'estensione in via analogica, la quale si risolverebbe, peraltro, nell'applicazione in malam partem del criterio analogico, vietato in materia penale. Pertanto, per la sentenza Truzzi – che considera insuperabile il dato testuale dell'art. 219, comma 1, l. fall. che stabilisce l'aumento di pena, per effetto dell'elemento accidentale, esclusivamente per le fattispecie incriminatrici degli art. 216, 217 e 218 l. fall. - l'estensione della predetta aggravante alla bancarotta impropria si traduce - non già in una "semplice operazione ermeneutica di tipo sistematico" - bensì in una illegittima operazione di applicazione analogica in malam partem. Questa interpretazione restrittiva in ordine all'operatività dell'art. 219 l. fall., peraltro, pur avendo incontrato i favori di autorevole dottrina, allo stato, costituisce un dissenso isolato.

8. La durata delle pene accessorie per il reato di bancarotta fraudolenta.

La S.C., con la sentenza Sez. V, 31 gennaio 2013 - dep. 11 marzo 2013, n. 11257, Raccanello Fiori, Rv. 254641, ha affermato che, in tema di bancarotta fraudolenta, "la pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa ha la durata fissa ed inderogabile di dieci anni".

Occorre rilevare che si tratta di questione ampiamente dibattuta e oggetto di contrasto, ritenendosi da taluni che la pena di cui all'art. 216, u.c. l. fall. non è indeterminata, essendo stabilita nella misura fissa e inderogabile di dieci anni, con la conseguenza che essa si sottrae alla disciplina di cui all'art. 37 cod. pen. Più recentemente si è, per contro, affermato, che la pena accessoria sia determinata solo nel massimo, sicché, ai sensi dell'art. 37 cod. pen., deve avere durata uguale a quella della pena principale irrogata. Si è, in particolare, affermato che la fissità della sanzione accessoria contrasterebbe con il volto costituzionale dell'illecito penale e che il sistema normativo debba, comunque, lasciare spazi alla discrezionalità del giudice, al fine di adeguare la risposta punitiva alle singole fattispecie concrete.

La stessa Corte di cassazione, con ordinanza del 21 aprile 2011, aveva, sollevato – in riferimento agli art. 3, 27, comma 3 e 11 della Costituzione – la questione di legittimità costituzionale dell'art. 216, u. c., l. fall., nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 134 del 2012, però, ha dichiarato inammissibile la predetta questione, in quanto la soluzione prospettata dalla rimettente (aggiungere le parole 'fino a' all'art. 216, u.c. l. fall., al fine di rendere possibile l'applicazione dell'art. 37 cod. pen.), "è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione", considerato che "sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad es. da 5 a 10 anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all'entità della pena detentiva".

  • garanzia
  • sicurezza del lavoro
  • diritto del lavoro
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO II

LE POSIZIONI DI GARANZIA NEL DIRITTO PENALE DEL LAVORO

Sommario

1 La gestione del rischio nelle attività pericolose. - 2 La figura del committente. - 3 Le figure assimilabili al preposto. - 4 La delega di funzioni. - 5 Le posizioni di garanzia nella pubblica amministrazione.

1. La gestione del rischio nelle attività pericolose.

Nel corrente anno, diverse pronunce della Quarta Sezione si sono occupate dell'applicazione della normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Muovendo dal presupposto che il legislatore ha costruito un sistema 'preventivo' finalizzato a rafforzare l'incolumità dei lavoratori, distribuendo e governando il rischio tra una pluralità di soggetti e di figure professionali, che, in funzione del ruolo rivestito e delle attività svolte, assumono il ruolo di garanti della sicurezza del lavoro e del bene giuridico tutelato, l'elaborazione giurisprudenziale risulta informata dall'esigenza di assicurare una gestione integrata del rischio, modulata in relazione alle differenti situazioni lavorative, fondata sull'interazione diverse figure tecniche e professionali, ed ispirata alla finalità di controllare le situazioni pericolose ed impedire la verificazione di infortuni anche nel caso in cui l'evento lesivo sia conseguenza dell'eventuale imprudenza o disattenzione dei lavoratori.

Oltre che all'imprenditore, il quale ha la responsabilità dell'organizzazione del cantiere o dell'unità produttiva per il concreto esercizio di poteri decisionali e di spesa, una particolare attenzione è stata rivolta perciò anche ad altri soggetti, come il committente (che programma e finanzia l'opera), il preposto e i coordinatori per la progettazione e per l'esecuzione dei lavori.

L'elaborazione giurisprudenziale, inoltre, è intervenuta anche in ordine alle posizioni di garanzia corrispondenti all'adempimento dei doveri di prevenzione e protezione dei lavoratori dagli infortuni nella pubblica amministrazione, ulteriormente precisando le condizioni alle quali gli organi di direzione politica o i dirigenti preposti al settore possono assumere la qualità di datore di lavoro.

Resta da aggiungere che, in materia, è prevedibile un fondamentale contributo dalla decisione che le Sezioni Unite pronuncerà nell'aprile del 2014 nell'ambito del processo relativo al gravissimo incidente occorso agli operai della Thyssen, e che investe, in particolare, i confini tra dolo eventuale e colpa cosciente.

2. La figura del committente.

La sentenza Sez. IV, 4 dicembre 2012 - dep. 7 marzo 2013, n. 10608, Bracci, Rv. 255282, ha approfondito il tema relativo alla responsabilità del committente, che, per la sua qualità di soggetto nell'interesse del quale l'opera è realizzata, risulta destinatario delle disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni per la titolarità di una autonoma posizione di garanzia secondo la previsione dell'art. 26 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. La Corte, quindi, in una fattispecie riguardante l'inizio dei lavori nonostante l'omesso allestimento di idoneo ponteggio, ha affermato che il committente può essere chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore qualora l'evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali siano immediatamente percepibili senza particolari indagini. La responsabilità sorge per il solo fatto che i lavori abbiano inizio in presenza di situazioni di fatto pericolose e non è esclusa nemmeno dalla circostanza che il committente abbia impartito le opportune direttive per osservare le necessarie misure di prevenzione, occorrendo in ogni caso che egli ne abbia controllato, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservanza.

Con la sentenza Sez. IV, 18 aprile 2013 - dep. 22 luglio 2013, n. 31296, Dho, Rv. 256427, è stata esaminata la configurabilità della responsabilità del committente in relazione alla mancata nomina di una specifica figura tecnica, come il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, che, nei casi previsti dalla legge, deve assicurare il collegamento con l'impresa appaltatrice al fine di realizzare una migliore organizzazione del lavoro, di adeguare e di vigilare sul rispetto del piano operativo di sicurezza in relazione alla evoluzione dei lavori, sospendendo in caso di grave ed imminente pericolo le lavorazioni in atto. La responsabilità del committente è stata ritenuta rilevante, sotto il profilo causale, perché la nomina del coordinatore per l'esecuzione dei lavori, imposta dalla legge proprio per rafforzare la tutela dell'incolumità dei lavoratori, avrebbe potuto impedire l'evento infortunistico, in quanto tale figura tecnica è tenuta a verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza e, in caso di assenza di adeguate misure precauzionali, deve sospendere lo svolgimento sul cantiere delle attività lavorative.

Nella sentenza Sez. IV, 28 maggio 2013 - dep. 13 settembre 2013, n. 37738, Gandolla, Rv. 256635-256637, è stata ulteriormente analizzata la responsabilità del committente.

In particolare, si è osservato che questi, essendo titolare "ex lege" di una posizione di garanzia che si integra ed interagisce con quella di altre figure di garanti legali (datori di lavoro, dirigenti, preposti etc.), può designare un responsabile dei lavori, con un incarico formalmente rilasciato ed accompagnato dal conferimento di poteri decisori, gestionali e di spesa, che gli consente di essere esonerato dalle responsabilità, sia pure entro i limiti dell'incarico medesimo e fermo restando la sua piena responsabilità per la redazione del piano di sicurezza, del fascicolo di protezione dai rischi e per la vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento del suo incarico e sul controllo delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza. Si è inoltre affermato che il committente, quando provvede alla nomina del coordinatore per la progettazione o per l'esecuzione dei lavori, trasferisce a tale soggetto lo svolgimento di una funzione tecnica di alta vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non il puntuale e continuo controllo su di esse (demandato ad altre figure operative come il datore di lavoro, il dirigente o il preposto). Si è tuttavia precisato che, anche nel caso di nomina del coordinatore per la progettazione o per l'esecuzione dei lavori, resta ferma la posizione di garanzia del committente, e del responsabile dei lavori eventualmente nominato, in relazione alla redazione del piano di sicurezza e del fascicolo per la protezione dei rischi ed alla verifica che il tecnico nominato adempia al suo compito.

In argomento, Sez. IV, 17 gennaio 2013 - dep. 14 febbraio 2013, n. 7443, Palmisano, Rv. 255102, ha ulteriormente chiarito che le figure del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l'esecuzione dei lavori non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una gestione unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell'incolumità dei lavoratori.

Significative precisazioni sui limiti della responsabilità del committente sono offerte da Sez. IV, 23 maggio 2013 - dep. 5 settembre 2013, n. 36398, Mungiguerra, Rv. 256891.

Questa decisione ha premesso che il riconoscimento normativo di tale figura ai fini della sicurezza e della prevenzione degli infortuni sul lavoro è avvenuto solo con il d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494, relativo alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili, e che, in epoca precedente, la giurisprudenza era orientata a riconoscere la responsabilità del medesimo soggetto solo quando si ingeriva direttamente nell'esecuzione dei lavori, ovvero quando commissionava o consentiva l'inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose (quest'ultima precisazione era stata fornita da Sez. III, 24 aprile 1992 - dep. 21 luglio 1992, n. 8134, Togni, Rv. 191387). La pronuncia ha poi rilevato che, siccome il contenuto degli obblighi gravanti sul committente è specificato dall'art. 3 del d.lgs. n. 494 del 1996, nonché dall'art. 26 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, e dalle norme da queste direttamente o indirettamente richiamate, nessuna violazione può configurarsi quando di dette disposizioni non sussistono i presupposti di applicabilità. Sulla base di tale affermazione di principio, la Corte, con riferimento ad un privato che aveva affidato ad un'impresa lavori edili presso un immobile di sua proprietà, ed in difetto di prova della sussistenza del requisito dell'affidamento di lavori a più imprese, ha escluso che sul committente possa gravare l'obbligo di nominare il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, e, conseguentemente, il dovere di adottare un piano di sicurezza del cantiere.

3. Le figure assimilabili al preposto.

In altre decisioni la Corte ha individuato l'ambito di operatività della figura del preposto, definita dall'art. 2, comma 1, lett. e), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, inquadrando in tale modello legale diverse posizioni professionali rilevanti nell'organizzazione dei luoghi di lavoro e dei cantieri, in quanto destinatarie di specifici doveri di vigilanza ed incaricate di prevenire il verificarsi di infortuni o altri eventi in grado di pregiudicare l'incolumità fisica dei lavoratori.

L'elemento unificante, a tal fine, è costituito dalla prevalenza della sostanza sulla forma, senza attribuire rilevanza decisiva alle formali qualificazioni giuridiche, ma valorizzando le mansioni sostanzialmente svolte nell'impresa o all'interno del cantiere. In base a tale impostazione chiunque abbia assunto, in qualsiasi modo, posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, è obbligato all'osservanza e all'attuazione delle prescritte misure di sicurezza ed al controllo del loro rispetto da parte dei dipendenti.

Avendo riguardo al potere di sovraintendere alle attività, di impartire istruzioni, di dirigere gli operai, di attuare le direttive ricevute e di controllarne l'esecuzione, Sez. IV, 10 gennaio 2013 - dep. 27 febbraio 2013, n. 254403, Ridenti, Rv. 254403, ha assimilato al preposto il "capo cantiere", mentre Sez. IV, 17 aprile 2013 - dep. 5 giugno 201, n. 24764, Bondielli, Rv. 255400, ha riconosciuto analoga posizione giuridica al "sorvegliante di cava".

4. La delega di funzioni.

Nel periodo di riferimento, la Corte ha offerto un contributo significativo anche sul tema della forma della delega di funzioni, ai fini della sua validità ed efficacia nell'esercizio dell'attività di impresa e nella gestione delle organizzazioni complesse.

La delega, nei limiti in cui è consentita dalla legge, determina una rimodulazione dei poteri e delle responsabilità, causando la traslazione dal delegante al delegato di poteri e di responsabilità. La giurisprudenza della Corte ha sempre affermato che la delega di funzioni può esplicare una efficacia scriminante della responsabilità penale, in presenza delle seguenti condizioni: a) natura formale ed espressa; b) conformità alle disposizioni statutarie previa adozione delle prescritte procedure; c) specificità nel senso di un puntuale contenuto; d) pubblicità; e) trasferimento di poteri decisionali con attribuzione di autonomia di gestione e disponibilità economica; f) dimensioni dell'impressa tali da giustificare la necessità di decentrare compiti e responsabilità; g) capacità ed idoneità tecnica del soggetto delegato. Queste indicazioni sono state recepite dagli artt. 16 e 17 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81,

La sentenza Sez. II, 17 ottobre 2012 - dep. 11 aprile 2013, n. 16452, Conti, Rv. 255394, nell'applicare tali principi ha evidenziato che la delega di funzioni nell'esercizio di un'attività di impresa esonera il titolare dalla responsabilità penale connessa alla posizione di garanzia solo se è conferita per iscritto al delegato, essendo inidonea l'attribuzione in forma orale. La decisione si segnala perché consolida un orientamento che appare quantitativamente minoritario (per la necessità della delega scritta, cfr., infatti, Sez. III, 19 gennaio 2011 - dep. 23 febbraio 2011, n. 6872, Trinca, Rv. 249536, nonché Sez. III, 3 dicembre 1999 - dep. 17 gennaio 2000, n. 422, Natoli, Rv. 215159; in senso contrario all'assoluta necessità della delega scritta, invece, v.: Sez. III, 6 giugno 2007 - dep. 6 agosto 2007, n. 32014, Cavallo, Rv. 237141; Sez. IV, 7 febbraio 2007 - dep. 29 marzo 2007, n. 12800, Ferrante, Rv. 236196; Sez. III, 13 luglio 2004 - dep. 7 ottobre 2004, n. 39268, Beltrami, Rv. 230088; Sez. III, 13 marzo 2003 - dep. 26 maggio 2003, n. 22931, Conci, Rv. 225322), ma che sembra essere particolarmente aderente al dettato dell'art. 16 d.lgs. n. 81 del 2008, il quale, alla lett. e) del comma 1, prevede che "la delega sia accettata dal delegato per iscritto".

5. Le posizioni di garanzia nella pubblica amministrazione.

All'interno della pubblica amministrazione la Corte ha individuato il soggetto titolare della posizione di garanzia, che riveste la qualifica di datore di lavoro e risponde della violazione della normativa sulla prevenzione degli infortuni.

Il parametro normativo di riferimento è attualmente offerto dall'art. 2, comma 1, lett. b, del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, secondo cui «nelle pubbliche amministrazioni […] per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo».

Le questioni interpretative poste dalla norma richiamata riguardano la natura giuridica e l'eventuale obbligatorietà di uno specifico atto di individuazione del dirigente o del funzionario quale datore di lavoro, nel senso del carattere costitutivo o meramente ricognitivo del provvedimento dell'organo di vertice dell'ente pubblico che attribuisca ad altri la funzione datoriale.

Pronunciandosi sulla previgente e omologa norma di cui all'art. 2, comma 1, lett. b, del d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626, la Corte si era orientata sulla natura originaria o derivata della posizione datoriale con due differenti interpretazioni, di cui una predicava la necessità del conferimento mediante un "atto espresso" e non meramente implicito della qualità di datore di lavoro anche per l'esercizio di poteri di gestione in materia di sicurezza, mentre l'altra riteneva non necessario un "atto formale" di individuazione del soggetto gravato dall'obbligo di garanzia.

Con due decisioni speculari, la Quarta Sezione ha recepito l'orientamento più attento al dato formale, che richiede, in considerazione della minuziosa regolamentazione dell'organizzazione della pubblica amministrazione e dell'esercizio del pubblico potere, una necessaria ed espressa formalizzazione del ruolo datoriale, ritenendo, altrimenti, in mancanza di una specifica indicazione o individuazione del dirigente del settore, che tale qualifica permanga in capo all'organo di direzione politica.

In tal senso, la sentenza Sez. IV, 23 aprile 2013 - dep. 21 agosto 2013, n. 35295, Bendotti, Rv. 256398, ha affermato che "nelle amministrazioni pubbliche spetta agli organi di direzione politica procedere all'individuazione dei soggetti cui attribuire la qualità di datore di lavoro, con la conseguenza che in mancanza di tale individuazione permane in capo ai suddetti organi l'indicata qualità, anche ai fini dell'eventuale responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica (nella fattispecie è stata riconosciuta la responsabilità di un sindaco che non aveva provveduto ad attribuire ad alcuno la qualità datoriale né, tantomeno, aveva nominato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione)".

Inoltre, la sentenza Sez. IV, 12 aprile 2013 - dep. 12 luglio 2013, n. 30214, Orciani, Rv. 255896, ha sostenuto, in proiezione prevenzionistica, che, "in tema di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro negli enti locali, l'organo di direzione politica che non abbia espressamente attribuito la qualifica di datore di lavoro al dirigente del settore competente, conserva lui stesso la qualifica".

  • immigrazione
  • cittadino straniero
  • espulsione

CAPITOLO III

LA DISCIPLINA PENALE E PROCESSUALE IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE

Sommario

1 La disciplina penalistica dell'immigrazione e l'esigenza di armonizzazione tra fonti nazionali ed europee. - 2 Il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato ed il provvedimento giudiziario di espulsione. - 3 Le altre fattispecie incriminatrici. - 4 La posizione dello straniero e le ricadute sul diritto processuale.

1. La disciplina penalistica dell'immigrazione e l'esigenza di armonizzazione tra fonti nazionali ed europee.

La materia in esame è caratterizzata da una continua evoluzione normativa spesso finalizzata a fornire un'adeguata risposta alle pressanti emergenze di controllo del fenomeno della immigrazione irregolare.

Sotto il profilo del diritto penale sostanziale, si è assistito alla creazione di fattispecie di reato e di circostanze aggravanti "tipiche" dell'immigrato clandestino spesso problematiche in relazione ai principi fondamentali[1], mentre, sotto il profilo processuale, si è giunti alla creazione di un processo "differenziato" cui viene affidato il compito di contrastare l'emergenza del fenomeno della immigrazione irregolare.

Un ulteriore, peculiare, aspetto della disciplina in esame è quello della necessità di un coordinamento tra il procedimento penale ed il parallelo procedimento amministrativo di espulsione. Anche tale fenomeno si traduce in una continua contaminazione tra la dimensione amministrativa e quella processual-penalistica, determinando specifici problemi in tema di diritto di difesa dello straniero, sotto il profilo della necessità di assicurare allo stesso adeguata e concreta possibilità di essere presente sul territorio nazionale durante le varie fasi del procedimento.

In tale panorama, costellato da numerosi interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia, la giurisprudenza di legittimità ha fornito il suo contributo per offrire soluzioni di equilibrio, attente ad evitare, da un lato, scelte drastiche, spesso reclamate dalla dottrina, di affermazione dell'inconciliabilità delle disposizioni sostanziali e processuali con i principi fondamentali costituzionali ed europei, e, dall'altro, approdi ermeneutici eccessivamente rigorosi per gli imputati.

2. Il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato ed il provvedimento giudiziario di espulsione.

Nel corso del 2013 si registrano diverse pronunce delle Sezioni semplici riguardanti le fattispecie di reato in vigore, anche alla luce della disciplina comunitaria, della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea e delle modifiche apportate dal decreto legge 23 giugno 2011, n. 89, contenente "Disposizioni urgenti per il completamento dell'attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari".

Un numero particolarmente significativo di esse ha riguardo al reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, contemplata dall'art. 10 bis del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 del 1998 (c.d. "Testo unico sull'immigrazione"), ed al provvedimento giudiziario di espulsione.

E' opportuno premettere che la disciplina che attribuisce al giudice penale il potere di disporre l'espulsione del cittadino extracomunitario illegalmente sul territorio dello Stato non è indefettibilmente collegata con quella che sanziona le condotte di ingresso e permanenza illegale, in quanto la misura può essere applicata anche nelle altre ipotesi previste dall'art. 13, comma 2, del D.Lgs. n. 286 del 1998; tuttavia, molto spesso, anche in sede di giurisprudenza comunitaria le questioni sono state esaminate congiuntamente. E', quindi, per ragioni di omogeneità espositiva che si procederà ad una esposizione unitaria delle due tematiche.

In effetti, tanto la norma incriminatrice delle condotte di ingresso e permanenza illegale sul territorio dello Stato, sebbene molto criticata e discussa in dottrina, quanto la disciplina attributiva al giudice penale del potere di disporre l'espulsione hanno superato sostanzialmente indenni il vaglio sia della Corte Costituzionale, sia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

In particolare, la Consulta, con la sentenza n. 250 del 2010, ha avuto modo di precisare che la disposizione di cui all'art. 10 bis cit. non punisce "una condizione personale o sociale", quale quella di "straniero clandestino" e non criminalizza "un modo di essere" della persona, quanto, piuttosto, uno specifico comportamento, costituito dal "fare ingresso" (condotta attiva ed istantanea) e dal "trattenersi" (condotta permanente di natura omissiva) nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni di legge.

La Corte europea, invece, nella decisione del 6 dicembre 2012, causa C 430/11, Md Sagor, ha affermato la compatibilità dell'art. 10 bis cit. e dell'attribuzione al giudice penale del potere di disporre l'obbligo di rimpatrio con la disciplina comunitaria e, in particolare, con la direttiva CE n. 115 del 2008. Per quanto riguarda il primo profilo, i giudici di Lussemburgo hanno rilevato che la previsione incriminatrice del legislatore italiano non comporta alcun intralcio alla finalità primaria perseguita dalla direttiva n. 115 del 2008 di agevolare e assecondare l'uscita dal territorio nazionale degli stranieri extracomunitari privi di valido titolo di permanenza, né, in particolare, è in contrasto con l'art. 7, par. 1, del medesimo testo normativo, posto che tale ultima disposizione, nel porre un termine compreso tra 7 e 30 giorni per la partenza volontaria del cittadino di un paese terzo, non trasforma per questo da irregolare a regolare la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato. Con riferimento al secondo aspetto, la Corte europea ha osservato che le disposizioni della direttiva non precludono ai singoli Stati di sanzionare il soggiorno irregolare con una pena pecuniaria sostituibile con l'espulsione e che, però, a norma dell'art. 7, par. 4, del medesimo testo, il giudice nazionale deve disapplicare la disciplina nazionale che non consente all'interessato di fruire dell'opzione della partenza volontaria, salvo che, nel caso di specie, sussista il concreto pericolo di fuga o il pericolo per la sicurezza e l'ordine pubblico ovvero risulti accertata la presentazione di una domanda di soggiorno fraudolenta.

Esattamente su questa linea si pongono le decisioni del giudice di legittimità Sez. I, 22 maggio 2013 - dep. 27 maggio 2013, n. 22693, Gumeniuk, Rv. 256485; Sez. I, 22 maggio 2013 - dep. 11 luglio 2013, n. 29776, Pendela, Rv. 255918; Sez. I, 5 luglio 2013 - dep. 29 agosto 2013, n. 35749, Bakali, Rv. 256757; Sez. I, 17 luglio 2013 - dep. 27 agosto 2013, n. 35587, Hu Yan, Rv. 256786. Tutte queste decisioni, infatti, evidenziano che la fattispecie contravvenzionale prevista dall'art. 10 bis d.lgs. n. 286 del 1998 non viola la direttiva CE 16 dicembre 2008, n. 115, in materia di rimpatri, proprio richiamando gli argomenti esposti dalla sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 6 dicembre 2012 e sopra riferiti. In particolare, Sez. I, 17 luglio 2013, Hu Yan, cit., ha rilevato che un concreto ostacolo all'attuazione della direttiva n. 115 del 2008 si pone nei soli casi in cui il trattamento punitivo penale impedisca l'applicazione delle norme e delle procedure comuni sul rimpatrio degli stranieri, rendendole inefficaci, o sia contrario ai diritti fondamentali della persona, evenienza che potrebbe accadere se lo Stato comminasse la pena della detenzione da espiarsi nel corso della procedura di rimpatrio o comunque prima del suo inizio, venendola ad impedire materialmente, e che, però, ciò non si verifica alla stregua delle disposizioni del comma 5 dell'art. 10-bis, il quale assegna preminenza all'esecuzione in via amministrativa dell'espulsione dello straniero irregolare, tanto da imporre al giudice penale di pronunciare sentenza di proscioglimento dell'imputato se già espulso.

Alcune precisazioni significative sui limiti di applicazione dell'art. 10 bis cit. provengono dalle sentenze Sez. I, 27 giugno 2013 - dep. 10 luglio 2013, n. 29491, Sivasubramaniam, Rv. 256292, e Sez. I, 22 maggio 2013 - dep. 26 giugno 2013, n. 27815, Shakarkil, Rv. 256286. In particolare, Sez. I, 27 giugno 2013, Sivasubramaniam, cit., esclude che il giudice penale possa pronunciare declaratoria di improcedibilità nei confronti del cittadino extracomunitario imputato del reato di cui all'art. 10 bis, anche ove questi ritenga sussistenti, dall'esame di quanto a lui sottoposto, le condizioni per ottenere la qualifica di "rifugiato". Il riconoscimento di tale "status", infatti, precisa la Corte, è riservato alla competenza dell' apposito organismo amministrativo. Sez. I, 22 maggio 2013, Shakarkil, cit., invece, chiarisce che il termine di otto giorni, previsto dagli artt. 4 e 5 Dlgs. n. 286/1998 per permettere al cittadino extracomunitario di avanzare richiesta di permesso di soggiorno, riguarda soltanto le ipotesi di ingresso avvenuto regolarmente attraverso i valichi di frontiera e non si applica, invece, alle ipotesi di ingresso clandestino nel territorio italiano, con la conseguenza che la clandestina permanenza dello straniero entro tale lasso temporale integra la fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 10 bis.

Per quanto riguarda specificamente la misura dell'espulsione, quale sanzione sostitutiva e quale misura alternativa alla detenzione (art. 16 del D.Lgs. n. 286 del 1998), diverse sono le questioni affrontate.

Sez. I, 4 aprile 2013 - dep. 9 maggio 2013, n. 20014, Ben Makhlouf, Rv. 256029, in relazione alla espulsione disposta quale misura alternativa alla detenzione, afferma che tale espulsione è illegittima nel caso in cui lo straniero abbia richiesto, nei termini, il rinnovo del permesso di soggiorno e la sua richiesta sia stata rigettata. Il rigetto dell'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, infatti, non rientra, secondo i giudici della Sez. I, tra i presupposti, indicati dall'art. 13, comma 2 lett. B) del d.lgs n. 286/1998, per l'emissione del decreto di espulsione e, pertanto, esso non ne costituisce valido presupposto.

Sez. I, 17 maggio 2013 - dep. 3 giugno 2013, n. 23892, Siqueira, Rv. 255801, poi, ha affermato che , in caso di condanna per la contravvenzione di cui all'art. 10 bis, T.U., l'applicazione della espulsione in sostituzione della pena pecuniaria è subordinata al rispetto delle indicazioni contenute nell'art. 7 della Direttiva della Comunità Europea n. 115 del 2008 e, quindi, può essere irrogata soltanto dopo che il giudice abbia verificato, in concreto, la sussistenza del pericolo di fuga o del pericolo per la sicurezza e l'ordine pubblico, ovvero abbia accertato la presentazione di una domanda di soggiorno fraudolenta. In senso conforme si esprimono anche Sez. I, 17 maggio 2013 - dep. 24 giugno 2013, n. 27604, Jaoili, Rv. 256602, relativa all'annullamento della sentenza del giudice di pace che aveva disposto la sanzione dell'espulsione sulla sola scorta dei precedenti penali dello straniero condannato, e Sez. I, 17 maggio 2013 - dep. 23 luglio 2013, n. 31993, Gujjar, Rv. 256838.

A completamento del discorso sull'espulsione, può essere utile segnalare che Sez. I, 9 novembre 2012 - dep. 14 marzo 2013, n. 12004, Gabraj, Rv. 254948, ha enunciato il principio secondo cui nei confronti di un cittadino straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che permanga sul territorio dello Stato è legittima l'adozione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno ove si configuri una concreta situazione di pericolo per la sicurezza pubblica, qualunque sia stata la ragione della mancata esecuzione dell'espulsione.

3. Le altre fattispecie incriminatrici.

Con riferimento alla condotta di reingresso senza autorizzazione, sanzionata dall'art. 13, comma 13, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (cd. Testo unico sull'immigrazione), la giurisprudenza, già nel corso del 2012 (cfr. Sez. I, 25 maggio 2012 - dep. 19 settembre 2012, n. 35871, Mejdi, Rv. 253353), aveva affermato che persisteva la rilevanza penale della stessa pur dopo l'emissione della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio dell'Unione europea del 16 dicembre 2008 e la conseguente pronuncia della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011 nel caso El Dridi, secondo la quale il sistema sanzionatorio non deve porsi in contrasto con la scelta di privilegiare il "rimpatrio volontario" dello straniero.

Nel 2013, questo orientamento è stato confermato, con alcune precisazioni, dalle sentenze Sez. I, 4 febbraio 2013 - dep. 18 febbraio 2013, n. 7912, Hidri, Rv. 254531, e Sez. I, 26 marzo 2013 - dep. 12 aprile 2013, n. 16634, Kajmaku, Rv. 255685.

In particolare, Sez. I, 26 marzo 2013, Kajmaku, ritenuti insussistenti i presupposti per investire in via pregiudiziale la Corte di Giustizia e per sollevare questione d'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 13, D.Lgs. n. 286/1998, si sofferma sulla non equiparabilità, ai fini dell'integrazione del suddetto reato, della condizione di cittadino straniero, in precedenza rimpatriato, che faccia nuovamente ingresso nel territorio dello Stato senza la prescritta autorizzazione e prima del termine stabilito nell'ordine di rimpatrio, a quella dello straniero che, invece, permanga nello stato medesimo in violazione dell'ordine di allontanamento, evidenziando l' autonomia e la diversità strutturale tra le due fattispecie incriminatrici di riferimento. La Corte ha affermato l'impossibilità di trasporre automaticamente le conclusioni della sentenza El Dridi, pronunziata con riferimento al reato previsto dall'art. 14, comma 5-ter del citato Testo Unico, alla diversa fattispecie del reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato del cittadino extracomunitario già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, anche ove tale provvedimento sia stato emesso a seguito di un procedimento non conforme ai principi affermati dalla Corte di Giustizia, perché tale operazione esegetica comporterebbe una inammissibile invalidazione a posteriori del provvedimento amministrativo di espulsione a suo tempo legittimamente adottato che, oltre a non costituire elemento strutturale della fattispecie penale di cui all'art. 13, comma 13, ha esaurito i suoi effetti con l'avvenuta espulsione dello straniero.

Sez. I, 4 febbraio 2013, Hidri, invece, dopo aver anch'essa sostenuto la permanenza della rilevanza penale della fattispecie di reingresso non autorizzato, ha affrontato, in particolare, il tema del ricongiungimento familiare quale causa che giustifichi il reingresso, prima del termine stabilito dal decreto, dello straniero espulso. La Corte ha precisato che il matrimonio contratto all'estero, dallo straniero allontanato con una cittadina italiana, non è sufficiente a giustificare il rientro dello stesso nello Stato in assenza di autorizzazione, essendo necessario l'ulteriore presupposto della convivenza, come si ricava dall'intero sistema e dalla avvertita esigenza di evitare matrimoni solo formali, strumentali ad ottenere il premesso di soggiorno.

Sempre in relazione alla fattispecie di arbitrario reingresso nel territorio dello Stato italiano, Sez. I, 4 febbraio 2013 - dep. 18 febbraio 2013, n. 7910, Stojanovic, Rv. 254017, ha precisato che soggetto agente di tale reato è il cittadino straniero che sia stato raggiunto da un provvedimento di espulsione, indipendentemente dalla modalità esecutiva, coattiva o volontaria, della stessa, escludendo, pertanto, che la sostituzione dell'originario termine "espulso" con la locuzione "straniero destinatario di un provvedimento di espulsione" operata dall'art. 3, comma 1, lett. c) n. 8 del D.L. n. 89 del 23 giugno 2011, abbia avuto incidenza sulla identificazione del soggetto attivo del reato, il quale potrà essere, indifferentemente, lo straniero accompagnato alla frontiera o quello che, colpito dall'ordine, si sia allontanato volontariamente.

In relazione al reato di cui all'art 22 comma 12 del T.U., Sez. IV, 16 aprile 2013 - dep. 22 luglio 2013, n. 31288, Mangione, Rv. 255897, precisa che la fattispecie di occupazione alle proprie dipendenze di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno è un reato 'proprio' ed, in quanto tale, esso può essere commesso soltanto dal datore di lavoro. In applicazione di tale principio, è stato esclusa la configurabilità del reato a carico del committente delle opere edilizie affidate ad una persona che ebbe, poi, personalmente ad ingaggiare il lavoratore extracomunitario clandestino.

Sez. I, 9 gennaio 2013 - dep. 21 febbraio 2013, n. 8529, Filadi, Rv. 254925, invece, delinea i rapporti del reato di favoreggiamento della illegale permanenza dello straniero nel territorio dello Stato, contemplato dall'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, con la fattispecie prevista dall'art. 1 ter comma 15 D.L. n. 78 del 2009 in tema di false dichiarazioni o attestazione in materia di emersione del lavoro cd. 'irregolare'. La Corte, ponendo l'accento sull'elemento soggettivo del reato previsto dal d.lgs. n. 286 del 1998, precisa che la condotta consistente nella "presentazione di false dichiarazioni di emersione di lavoro irregolare" è idonea ad integrare il più grave delitto di favoreggiamento dell'immigrazione, ove sia sorretta e caratterizzata anche dallo specifico ed ulteriore fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero.

Vanno infine segnalate, pur se non riconducibili alle fattispecie di reato previste dal T.U. in materia di immigrazione, ma comunque riferibili allo straniero clandestino quale soggetto agente del reato, alcune sentenze – segnatamente Sez. I, 7 maggio 2013 - dep. 11 giugno 2013, n. 25606, Zhuo, Rv. 255969, e Sez. I, 7 febbraio 2013 - dep. 8 marzo 2013, n. 11049, Kasham, Rv. 255349 – che, superando una precedente giurisprudenza di segno opposto (cfr. Sez. I, 23 settembre 2004 - dep. 20 ottobre 2004, n. 41101, Trepci, Rv. 230631) e confermando invece un orientamento più recente (v., da ultimo, Sez. I, 20 maggio 2010 - dep. 8 settembre 2010, n. 32974, Gradinariu, Rv. 248273), escludono la configurabilità del reato di "Inosservanza di disposizioni o ordini dell'Autorità", previsto dall'art. 650 cod. pen., nella condotta dello cittadino extracomunitario che non ottemperi all'invito a presentarsi presso un ufficio di Pubblica Sicurezza ai fini dell'espulsione dal territorio nazionale. L'argomento da esse posto a fondamento della decisione è che l'ordine di allontanamento del Questore e la relativa sequenza procedimentale prevista dall'art. 14 Dlgs. n. 286 del 1998 non possono essere validamente surrogati da altri atti.

4. La posizione dello straniero e le ricadute sul diritto processuale.

Per quanto concerne i profili di diritto processuale riguardanti lo straniero irregolare anche gli ultimi interventi legislativi non hanno eliminato del tutto le discussioni sulla compatibilità di tale disciplina con le norme costituzionali e con i principi di diritto sovranazionale, specie in relazione a quelli di un giusto processo. In dottrina si ritiene, infatti, ancora esposta a serio rischio la tenuta delle garanzie nel processo penale, in particolare del diritto di difesa dello straniero al quale, ad esempio, non verrebbe adeguatamente e concretamente assicurata la possibilità di essere presente sul territorio nazionale durante le varie fasi del procedimento, ma anche quella dei diritti della persona, del principio di uguaglianza e di pari dignità, che nel procedimento penale tuttavia si innestano.

Con particolare riferimento alla presenza dello straniero al processo, va sottolineato come la disciplina normativa in esame, volta a privilegiare l'allontanamento dello straniero irregolare rispetto alle esigenze processuali, pone problemi di compatibilità con la tutela del diritto alla conoscenza ed alla partecipazione dell'accusato al processo, riconosciuto dall'art. 6 della Cedu. Va ricordato infatti che detta garanzia ha riferimento alla partecipazione "fisica" dell'imputato al processo in relazione al suo diritto ad essere ascoltato nonché alla possibilità di controllare l'esattezza delle sue affermazioni confrontandole con quelle dei testimoni.

Sul punto nel 2013 la sentenza della Sez. V, 27 febbraio 2013 - dep. 26 aprile 2013, n. 18708, T., Rv. 256247, ha sostenuto che non costituisce legittimo impedimento a comparire dell'imputato straniero l'avvenuta espulsione del medesimo dal territorio dello Stato. In particolare, la decisione, ribadendo un principio già sostenuto in relazione alla ipotesi di richiesta di restituzione in termini, ha precisato che l'allontanamento dello straniero non costituisce ostacolo assoluto all'esercizio dei poteri difensivi indicati nel comma primo dell'art. 175 cod. proc. pen., posto che l'art. 17 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, prevede la possibilità, per l'imputato espulso, di rientrare temporaneamente in Italia per l'esercizio del suo diritto di difesa.

La Corte si è inoltre pronunciata in ordine all'impatto della necessità di svolgere una lunga procedura finalizzata alla identificazione dello straniero, specie nel caso in cui non siano esibiti validi documenti di identificazione e regolare permesso di soggiorno, sui tempi prefissati dalla legge per effettuare la convalida dell'arresto in flagranza. La sentenza della Sez. VI, 11 giugno 2013 - dep. 8 luglio 2013, n. 28987, Assane Gueye, Rv. 255886, ha ribadito e puntualizzato un orientamento già manifestatosi nella precedente giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. I, 10 giugno 2010 - dep. 18 giugno 2010, n. 23686, Bakhiri, Rv. 247427) secondo cui il termine per la convalida dell'arresto decorre dal momento in cui l'interessato è rimasto a disposizione dell'autorità di sicurezza procedente e non, invece, da quello annotato sul verbale, ma ha altresì precisato che in tale computo devono escludersi i tempi funzionali alla identificazione dell'arrestato, posto che trattasi di attività, nel caso si riferisca a cittadini extra UE, imposta dalla legge e particolarmente complessa.

Un ulteriore aspetto, concernente più in generale la condizione nel processo dell'indagato/imputato alloglotta, attiene al diritto all'interprete ed alla traduzione degli atti processuali, entrambi diritti espressamente riconosciuti nella direttiva 2010/64/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010, alla quale gli Stati membri avevano tempo di adeguarsi fino al 27-10-2013.

Invero, sulla considerazione che un processo giusto deve necessariamente assicurare all'interessato la piena comprensione delle accuse che gli vengono rivolte, in particolare l'art. 6, n. 3, lett. a), della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sancisce che «ogni accusato ha diritto ad essere informato, nel più breve spazio di tempo, nella lingua che egli comprende ed in maniera dettagliata, della natura e dei motivi della accusa a lui rivolta»; analogamente dispone l'art. 14, n. 3, lett. a) e f), del Patto internazionale per i diritti civili e politici, di contenuto identico al primo. La giurisprudenza della Suprema Corte ha, negli anni, affermato l'obbligo della traduzione del decreto di citazione a giudizio, del decreto penale di condanna, del decreto che dispone il giudizio immediato, dell'ordine di esecuzione della pena.

Nel 2013, in particolare, la Corte con le sentenze Sez. I, 31 maggio 2013 - dep. 23 luglio 2013, n. 32000, Yousif, Rv. 256113, e Sez. I, 13 giugno 2013 - dep. 19 giugno 2013, n. 26705, B., Rv. 255972, ha riconosciuto che anche l'elezione di domicilio, effettuata da parte di straniero non a conoscenza della lingua italiana, necessita dell'assistenza dell'interprete e che l'omessa assistenza dà luogo ad una nullità a regime intermedio.

Sez. V, 15 maggio 2013 - dep. 30 maggio 2013, n. 23579, Filipesco, Rv. 255343, ha, invece, affermato la necessità di traduzione anche in relazione alla ordinanza di applicazione della misura cautelare emessa dal Gip a conferma della precedente ordinanza (questa tradotta) emessa da giudice dichiaratosi incompetente. A fondamento dell'assunto, si è osservato che l'indagato/imputato alloglotta, anche solo per potersi rendere conto dell'identità dei due provvedimenti o di un rinvio del secondo al primo, avrebbe dovuto conoscere la lingua italiana che gli è invece ignota.

Diversa soluzione è stata seguita con riferimento alle sentenze.

In proposito, Sez. IV, 19 marzo 2013 - dep. 14 giugno 2013, n. 26239, Gharby, Rv. 255694, ha confermato l'orientamento quantitativamente prevalente, affermando che la sentenza e l'estratto contumaciale non sono compresi tra gli atti rispetto ai quali la legge processuale assicura all'imputato alloglotta, che non conosca la lingua italiana, il diritto alla nomina di un interprete per la traduzione nella lingua a lui conosciuta. Tale pronuncia precisa che sussiste la necessità di offrire la traduzione degli atti processuali agli imputati alloglotti solo per quelli cui lo straniero, che non comprenda la lingua italiana, partecipi direttamente e non anche, invece, per quelli, come l'estratto contumaciale della sentenza, che essendo preordinati a dare impulso alla fase successiva e solo eventuale, sono rimessi all'iniziativa ed alla valutazione della parte interessata.

Tuttavia, la stessa decisione ha anche osservato che tale soluzione è possibile in quanto la Direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010, sul diritto all'interpretazione ed alla traduzione nei procedimenti penali, che, all'art. 3, commi 1 e 2, prevede che gli Stati membri, assicurino, entro un tempo ragionevole, agli imputati che non comprendano la lingua del procedimento penale, che essi ricevano una traduzione scritta di tutti i documenti che sono fondamentali per garantire che siano in grado di esercitare i loro diritti di difesa e che, tra tali documenti, rientrano anche le sentenze, non è (era) immediatamente cogente, atteso che l'art. 8 riconosce agli Stati membri la possibilità di emanare le norme interne necessarie per attuare la direttiva fino al 27 ottobre 2013. Invero, tale affermazione rende comunque prevedibile un mutamento della giurisprudenza di legittimità.

Del resto, la più recente Sez. III, 5 giugno 2013 - dep. 1 ottobre 2013, n. 40616, J., Rv. 256934, ha riproposto quello che fino ad oggi è stato l'orientamento minoritario (v., in particolare, Sez. VI, 21 settembre 2011 - dep. 29 settembre 2011, n. 35571, Paheshti, Rv. 250877), e riconosciuto il diritto dell'imputato alloglotta alla traduzione della sentenza e dell'avviso di deposito, quale garanzia del "fondamentale diritto, costituzionalmente garantito ex artt. 24 e 111 Cost., di difesa ei di partecipazione dell'imputato al processo". Va però precisato che questa decisione, in linea con l'orientamento cui presta adesione, riconosce personalmente all'imputato, e non anche al difensore, l'interesse a rilevare la violazione dell'obbligo di traduzione della sentenza e del relativo avviso di deposito.

  • stupefacente
  • circostanza attenuante

CAPITOLO IV

I REATI IN MATERIA DI STUPEFACENTI

Sommario

1 L'elaborazione giurisprudenziale: principi direttivi e novità normative. - 2 La pronuncia delle Sezioni unite sul "consumo di gruppo". - 3 L'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale sull'equiparazione tra "droghe leggere" e "droghe pesanti" ai fini sanzionatori. - 4 Il "piccolo spaccio" e la lieve entità del fatto. - 5 La configurabilità della circostanza aggravante dell'ingente quantità. - 6 L'applicabilità della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità ai reati di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. - 7 La soglia di rilevanza penale riferibile alla condotta di coltivazione di piante da stupefacenti.

1. L'elaborazione giurisprudenziale: principi direttivi e novità normative.

Nel corso del 2013, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di occuparsi per molteplici aspetti del fenomeno dell'illecita detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, anche vagliando il rilevante profilo dell'associazione criminale dedita a tali reati, con particolare riferimento alla prospettiva di azione transnazionale (di tale ultimo argomento si tratterà con riferimento alla materia della criminalità organizzata).

In ambito generale, deve darsi conto della pronuncia delle Sezioni Unite sul cd. "consumo di gruppo" (Sez. Un., 31 gennaio 2013 - dep. 10 giugno 2013, n. 25401, Galluccio, Rv. 255258) che, risolvendo il contrasto registratosi in seguito alla novella del Testo Unico in materia, introdotta con la legge n. 49 del 21 febbraio 2006, si sono pronunciate sulla questione se il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi di mandato all'acquisto o dell'acquisto comune, sia o meno penalmente rilevante. La Suprema Corte ha, in sintesi, confermato l'orientamento interpretativo precedente alla novella e relativo alle condizioni richieste per l'irrilevanza penale della condotta.

Sempre in ordine alle questioni problematiche collegate alla novella legislativa deve segnalarsi, tra le pronunce delle sezioni semplici, l'ordinanza della Terza Sezione (Sez. III, 9 maggio 2013 - dep. 11 giugno 2013, Maniscalco, n. 25554, Rv. 255699) che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4 vicies-ter, comma secondo, lett.a) e comma terzo, lett. a) n.6 del d.l. n.272 del 30 dicembre 2005, introdotti dalla legge di conversione n.49 del 2006 cit., con i quali è stata modificata la disciplina dei reati in materia di stupefacenti, eliminando la distinzione fra droghe pesanti e droghe leggere, con conseguente aumento delle pene previste in relazione agli illeciti relativi a queste ultime. I profili di criticità riguardano l'art.77 Cost., in via principale, con riferimento alla estraneità delle norme introdotte in sede di conversione rispetto al contenuto e alla finalità del provvedimento d'urgenza, e, in via subordinata, in relazione alla mancanza del presupposto della necessità ed urgenza nel caso in cui sia dichiarata, invece, la non estraneità di esse.

La giurisprudenza delle Sezioni semplici, nel corso dell'anno, ha, inoltre, esaminato peculiari profili dell'atteggiarsi degli illeciti in materia di stupefacenti, tra i quali vanno sicuramente menzionati:

- la questione dei caratteri costitutivi della "lieve entità" del fatto, prevista dall'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, molto significativa anche in considerazione della novella legislativa del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146;

- la questione della configurabilità della circostanza aggravante dell'ingente quantità, ex art.80, comma secondo, del d.p.r. n.309 del 1990, con pronunce che si iscrivono nel solco dell'orientamento già oggetto di arresto delle Sezioni Unite nel 2012 (Sez. Un. 24 maggio 2012 - dep. 20 settembre 2012, n. 36258, Biondi, Rv. 253150);

- la questione della applicabilità della circostanza attenuante comune del danno patrimoniale di speciale tenuità, prevista dall'art.62 n.4 cod. pen., ai reati di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti;

- la questione della soglia di offensività riferibile alla condotta di coltivazione di piante da stupefacenti, con pronunce che hanno confermato le linee interpretative consolidatesi nell'evoluzione ermeneutica a cavallo tra giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

In generale, le linee di fondo dell'elaborazione giurisprudenziale in materia risultano quelle dirette ad assicurare una interpretazione delle disposizioni di legge ordinaria il più possibile in linea con i principi costituzionali di tassatività, offensività e proporzionalità.

2. La pronuncia delle Sezioni unite sul "consumo di gruppo".

Come detto, Sez. Un., 31 gennaio 2013 – dep. 10 giugno 2013, n. 25401, Galluccio, Rv. 255258, in risoluzione di un contrasto, si sono pronunciate sulla questione se il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi di mandato all'acquisto o dell'acquisto comune, sia o meno penalmente rilevante.

Secondo il pregresso orientamento delle Sezioni Unite dovevano ritenersi non punibili e ricompresi nella sfera dell'illecito amministrativo previsto dall'art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, l'acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate all'uso personale che avvengano per conto e nell'interesse anche di soggetti diversi dall'agente, quando sia certa sin dall'inizio la loro identità, oltre che manifesta la volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo (Sez. Un., 28 maggio 1997, dep. 18 luglio 1997, n. 4, Iacolare, Rv. 208216).

Tale conclusione era fondata sulla omogeneità ideologica della condotta del procacciatore, rispetto allo scopo degli altri componenti del gruppo, che caratterizzava la detenzione nel senso di una comune codetenzione idonea ad impedire che il primo si ponesse in rapporto di estraneità e quindi di alterità rispetto ai secondi, con conseguente impossibilità di connotazione della sua condotta quale cessione.

La novella introdotta con la legge n. 49 del 2006, nel modificare l'art. 73, comma 1-bis, del d.P.R. n. 309 del 1990, ha stabilito che è punito con le medesime pene di cui al comma primo chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17, comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope che "per quantità (...) ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale".

Parallelamente, il novellato art. 75 dispone che è punito con delle semplici sanzioni amministrative chiunque "(....) comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dall'ipotesi di cui all'art. 73, comma 1-bis (...)": il che significa che è soggetto alle sanzioni amministrative solo colui che detiene sostanze stupefacenti o psicotrope destinate ad un uso esclusivamente personale.

A seguito del mutamento del quadro legislativo, le Sezioni Unite sono state chiamate a riconsiderare la validità dell'orientamento giurisprudenziale formatosi sotto il regime normativo previgente.

L'orientamento improntato a maggior rigore formatosi all'interno delle Sezioni semplici ha ritenuto che l'introduzione dell'avverbio "esclusivamente" avrebbe assunto un significato particolarmente pregnante sotto il profilo semantico, perché una cosa è "l'uso personale" di sostanze stupefacenti, altra e ben diversa cosa è "l'uso esclusivamente personale", frase che, proprio in virtù dell'avverbio, non può che condurre ad un'interpretazione più restrittiva rispetto a quella che, sotto la previgente normativa, veniva evidenziata con il sintagma "uso personale": infatti, l'acquisto per il gruppo, presuppone l'acquisto di un quantitativo di stupefacente che, per quantità e/o per modalità di presentazione, appare necessariamente destinato ad un uso non esclusivamente personale.

La riforma legislativa, dunque, avendo spostato il baricentro dal consumo personale al consumatore, avrebbe inteso contrastare il fenomeno del consumo della droga e ampliare l'area della punibilità, sanzionando tutte le condotte in grado di facilitare la diffusione della droga, ivi compreso l'acquisto finalizzato all'uso collettivo.

Secondo l'orientamento di segno contrario, la mutata cornice legislativa non avrebbe introdotto significative novità in grado di determinare un ripensamento dell'interpretazione giurisprudenziale formatasi sotto il pregresso regime normativo: l'avverbio "esclusivamente", di modo o qualità, sarebbe stato usato dal legislatore con funzione e finalità affermativa - rafforzativa, tenuto conto che l'espressione "non esclusivamente personale" ha il medesimo intercambiabile significato di "tassativamente personale", suggerendo così all'interprete la ragionevole impressione di un'aggiunta ridondante, superflua o pleonastica.

In definitiva, il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, quale ipotesi di non punibilità, si atteggerebbe a particolare specie del più ampio "genus" configurante il concetto di detenzione, atteso che la specificità in grado di escludere la rilevanza penale di un acquisto e di una derivata detenzione di droga da parte di più persone riunite, sarebbe subordinato al raggiungimento della prova positiva di una comune ed originaria finalità in grado di unire e conformare la partecipazione dei singoli alle condotte descritte.

Pertanto, tutti i consumatori sarebbero codetentori della sostanza fin dal momento dell'acquisto effettuato anche da uno solo di essi nell'interesse collettivo del gruppo, con l'effetto che l'adesione a un simile progetto comune escluderebbe che l'acquirente della sostanza su incarico degli altri sodali si ponga in posizione di estraneità rispetto ai mandanti: tale considerazione autorizzerebbe la conclusione che sarebbero confinati nell'area di rilevanza meramente amministrativa le condotte finalizzate all'uso esclusivamente personale (anche) di persone diverse, perché anche il consumo di gruppo dovrebbe essere considerato come una forma di consumo "esclusivamente personale".

Le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto, hanno affermato che all'esito delle modifiche normative il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nell'ipotesi di acquisto congiunto, che in quella di mandato all'acquisto collettivo ad uno dei consumatori, non è penalmente rilevante, a condizione che: a) l'acquirente sia uno degli assuntori; b) l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) sia certa sin dall'inizio l'identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all'acquisto.

Di conseguenza, la modifica normativa non ha influito sulla correttezza e sulla validità dei principi già affermati dalle Sezioni Unite, in quanto il legislatore non ha introdotto una nuova norma penale incriminatrice, con conseguente restrizione dei comportamenti rientranti nell'uso personale dei componenti del gruppo, ma ha di fatto ribadito che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi, ma all'utilizzo personale degli appartenenti al gruppo che la codetengono.

In particolare, a fondamento di questa conclusione, si è osservato che quella seguita è la "interpretazione che – stante l'indiscutibile significato quanto meno equivoco delle espressioni utilizzate – appare più conforme al principio costituzionale di precisione della norma penale, ed anche ai principi di tassatività, di legalità e di riserva di legge, evitando che sia in definitiva rimessa al giudice l'enucleazione della norma incriminatrice".

3. L'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale sull'equiparazione tra "droghe leggere" e "droghe pesanti" ai fini sanzionatori.

Sez. III, 9 maggio 2013 – dep. 11 giugno 2013, n.25554, Maniscalco, Rv. 255699, operando preliminarmente una valutazione positiva sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale proposta dalla difesa relativamente alla richiesta di riduzione della pena in modo da ottenere il beneficio della sospensione condizionale, ne ha dichiarato la fondatezza e l'ha circoscritta all'art.4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n.272, introdotto dalla legge di conversione n.49 del 2006, nella parte in cui, nel sostituire il precedente testo dell'art.73 del d.P.R. 9 ottobre 1990 n.309, ha abolito la distinzione tra c.d. droghe leggere e droghe pesanti, abrogando le precedenti disposizioni, ed ha conseguentemente innalzato in misura notevole le pene edittali per le condotte di reato aventi ad oggetto le droghe leggere.

La questione di legittimità costituzionale è stata poi necessariamente estesa anche alle disposizioni di cui all'art.4-vicies-ter, comma 2, lett. a) e comma 3, lett. a) n.6 del d.l. n.272 del 2005, sostitutive degli articoli 13 e 14 del d.P.R. n.309 del 1990, relative alle tabelle che identificano le sostanze stupefacenti e con le quali si sono incluse la cannabis e i suoi derivati nella tabella Prima, con conseguente innalzamento delle pene edittali per i reati aventi ad oggetto le droghe leggere.[2]

In via preliminare, la Corte ha specificato che un'eventuale dichiarazione di incostituzionalità comporterebbe la reviviscenza delle norme precedentemente vigenti e più favorevoli quanto al regime sanzionatorio, dal momento che, per pacifica giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenze della Corte Costituzionale n.108 del 1986 e n.314 del 2009), l'accertamento della invalidità di una norma abrogatrice ed il suo annullamento da parte del giudice delle leggi determinano la caducazione dell'effetto abrogativo e il ripristino delle disposizioni precedentemente abrogate. Da qui la indubbia rilevanza della questione nella fattispecie sottoposta al giudizio, in cui si era quantificata la pena in relazione al minimo edittale, oggetto di sensibile mutamento in caso di accoglimento della eccezione di costituzionalità e di rinnovata vigenza dei limiti di pena precedenti alla riforma del 2005-2006.

Svolta positivamente l'analisi sulla plausibilità del dubbio di legittimità costituzionale, deve specificarsi che la questione è stata sollevata, in via principale, con riferimento all'art.77, secondo comma, Cost., sotto il profilo della totale estraneità, rispetto all'oggetto e alle finalità del decreto legge, delle norme aggiunte in sede di conversione con le quali è stata introdotta una nuova disciplina in materia di sostanze stupefacenti, sostituendo il precedente testo degli articoli 73, 13 e 14 del d.P.R. n.309 del 1990 ed eliminando la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti. Deve rammentarsi, infatti, che il testo iniziale del decreto legge n. 272 del 2005, intitolato "Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi.", prevedeva un unico articolo riferibile alla disciplina sugli stupefacenti, ma attinente al diverso aspetto della esecuzione delle pene detentive per i tossicodipendenti detenuti, allo scopo di favorirne il recupero. L'art.4 di tale decreto, infatti, si limitava a statuire l'abrogazione dell'art.94 bis del d.P.R. n.309/1990, all'epoca di recente introduzione, per evitare che i tossicodipendenti con programma terapeutico in atto, quasi sempre recidivi, potessero non beneficiare della sospensione dell'esecuzione della pena e dell'affidamento in prova entro il limite dei 4 anni di reclusione in ragione dell'entrata in vigore di tale norma più restrittiva.

Le disposizioni e le norme per le quali la Suprema Corte solleva dubbio di legittimità costituzionale non facevano neppure parte del testo originario del decreto legge n.272 del 2005, ma sono state inserite per effetto di emendamenti proposti ed approvati in sede di legge di conversione; l'ordinanza di rimessione sottolinea come si tratti di un "corpo di nuove disposizioni, con le quali non vengono disciplinate situazioni esistenti e bisognose di urgente intervento normativo per le ragioni che avevano ispirato il decreto legge, bensì viene posta una normativa «a regime» sulla disciplina delle condotte illecite aventi ad oggetto sostanze stupefacenti". Il contenuto e le finalità estranei all'originario impianto normativo (già di per sé abbastanza eterogeneo, come si comprende dal titolo stesso del provvedimento legislativo riportato) - sottolinea la Corte di Cassazione - sono stati di fatto ammessi dallo stesso legislatore che, in sede di approvazione del testo di conversione, ha sentito la necessità di aggiungere al titolo del decreto legge la notazione specifica della modifica del testo unico sugli stupefacenti.[3]

La motivazione dell'ordinanza di rimessione ricorda come la giurisprudenza costituzionale abbia recentemente espresso (con la sentenza n.22 del 2012, ma si richiamano anche le pronunce n.171 del 2007 e n.128 del 2008) un'organica analisi della decretazione d'urgenza e della sua compatibilità con il dettato della Costituzione, individuando uno dei principali indici della carenza dei requisiti di necessità ed urgenza proprio nella "evidente estraneità" della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto legge in cui è inserita. Si segnala, altresì, per rafforzare il percorso logico che ha condotto alla decisione di rimettere la questione alla Corte Costituzionale, come la richiamata giurisprudenza abbia indicato quale ratio implicita nel secondo comma dell'art. 77 Cost. l'obbligo di collegamento dell'intero testo del decreto legge al caso straordinario di necessità e urgenza, anche nell'ipotesi di inserimento di norme eterogenee rispetto all'oggetto o alla finalità del decreto. Si sottolinea, inoltre, che tale affermazione è stata ribadita anche rispetto alla legge di conversione, laddove la citata sentenza n. 22 del 2012 ha stabilito che "La necessaria omogeneità del decreto legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione all'apprezzamento politico, operato dal Governo e controllato dal Parlamento, del singolo caso straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione".

Tale principio costituzionale di sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto legge, confermato dal regolamento del Senato, è richiamato da un'altra sentenza di notevole importanza della Corte Costituzionale, egualmente utilizzata nell'ordinanza di rimessione per giustificare la serietà e la plausibilità della questione di legittimità sollevata: la n. 335 del 2010. Secondo tale arresto della giurisprudenza costituzionale, le Camere possono apportare emendamenti al testo del decreto legge nell'esercizio della propria potestà legislativa, ma non tali da produrre un'alterazione della "omogeneità di fondo della normativa urgente, quale risulta dal testo originario, ove questo, a sua volta, possieda tale caratteristica". In sintesi, secondo tale orientamento, che appare utilizzato nel caso di specie dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione, le norme inserite in un decreto legge, che siano del tutto estranee alla materia e alla finalità del medesimo, sono costituzionalmente illegittime per violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost.. Infine, la motivazione fa riferimento all'ordinanza della Corte Costituzionale n.34 del 2013 che, conformemente alla predetta giurisprudenza, ha ribadito che le norme aggiunte in sede di conversione, se connotate da assoluta eterogeneità rispetto al contenuto o alle ragioni di necessità ed urgenza proprie del decreto legge, "devono ritenersi illegittime perché esorbitano dal potere di conversione attribuito dalla Costituzione al Parlamento".

Nel caso oggetto della propria cognizione, la Cassazione ha rilevato una "profonda distonia di contenuto, di finalità e di ratio tra il decreto legge n. 272 del 2005 in generale, e anche tra le disposizioni dell'art. 4 in particolare, e le nuove norme introdotte in sede di conversione con le quali è stata sostanzialmente posta una nuova disciplina a regime sulle sostanze stupefacenti". Appare evidente alla Corte una radicale disomogeneità tra le norme aggiunte in sede di conversione con il testo e l'oggetto del decreto legge nel suo complesso nonché con le sue finalità, che erano quelle di garantire, sotto l'aspetto finanziario e della sicurezza pubblica, l'ordinato svolgimento delle imminenti olimpiadi invernali.[4] Ad avviso della Cassazione, peraltro, la distonia sarebbe evidente anche a volersi riferire alle sole disposizioni contenute nell'art.4 dedicato al tema degli stupefacenti, poiché in esso non veniva affatto in esame la disciplina del trattamento sanzionatorio per i relativi illeciti penali bensì, come già sottolineato, unicamente la materia dell'esecuzione della pena per i condannati tossicodipendenti che fossero recidivi. Ed invece, con la legge di conversione, all'art.4 ha fatto seguito l'aggiunta di 23 articoli (dal 4 bis al 4 vicies ter), a loro volta recanti numerosi commi, che modificavano profondamente l'assetto normativo ordinario in materia di stupefacenti, incidendo, tra l'altro, sul sistema classificatorio delle sostanze stupefacenti (riducendo le 4 tabelle previgenti ad una sola) e sulle pene edittali previste per le droghe leggere, equiparate a quelle pesanti.

Alla luce di tale disamina, la Corte di Cassazione, con l'ordinanza di rimessione, ha ritenuto non sussistere (tranne che per l'art. 4 undecies) una "tendenziale coincidenza, una omogeneità materiale e teleologica tra la disposizione abrogatrice contenuta nell'art.4 del decreto d'urgenza e la riforma organica del testo unico sugli stupefacenti posta con la legge di conversione, o almeno, per quanto qui rileva, con l'aumento delle pene per le c.d. droghe leggere e la loro parificazione a quelle c.d. pesanti". Pertanto, si è valutato non manifestamente infondato ritenere che l'introduzione delle nuove norme di cui agli articoli 4 bis e 4 vicies ter comma secondo, lett.a), e comma terzo, lett.a), n.6, abbia "travalicato i limiti della potestà emendativa del Parlamento tracciati dalle richiamate pronunce della Corte costituzionale".

Per le ragioni sinora esposte, in considerazione della già richiamata cesura tra le norme di modifica del testo unico sugli stupefacenti, introdotte con la legge di conversione n.49 del 2006, e l'iniziale testo di legge proposto dal decreto n.272 del 2005, la Corte di Cassazione ha ritenuto non manifestamente infondato, ed anzi plausibile e serio, il dubbio di legittimità costituzionale degli articoli 4 bis e 4-viciester, comma 2 lett.a) e comma 3, lett.a) n. 6 del medesimo decreto rimessi al vaglio di costituzionalità, in riferimento all'art.77, comma secondo, Cost., in via principale, sotto il profilo della estraneità delle nuove norme inserite dalla legge di conversione all'oggetto, alle finalità ed alla ratio dell'originale decreto legge.

Deve aggiungersi che l'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale eccepisce, in via subordinata, anche la violazione dell'art. 77, comma secondo, Cost., sotto il profilo della carenza del presupposto della necessità ed urgenza, nell'eventualità che il giudice delle leggi dovesse ritenere infondata la prima eccezione di costituzionalità e ammettere che le norme al vaglio non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d'urgenza. Si afferma, infatti, che in tal caso dovrebbe comunque essere effettuata, per le norme introdotte solo in sede di conversione, la verifica sui necessari presupposti di necessità ed urgenza ai sensi dell'art. 77 Cost., coerentemente all'orientamento della giurisprudenza costituzionale che, in particolare con la sentenza n. 171 del 2007, ha ritenuto non si possa sottrarre al sindacato di costituzionalità il decreto legge carente sotto tali profili sulla base della motivazione che la legge di conversione sani in ogni caso i vizi del decreto, poiché una simile conclusione finirebbe per alterare il riparto di competenze tra Parlamento e Governo nell'esercizio del potere legislativo. Molto efficacemente, peraltro, su tali temi, la motivazione dell'ordinanza ha richiamato ancora una volta la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010 nella quale si è operata una distinzione tra "norme aggiunte eterogenee" e "norme aggiunte non eterogenee" sottolineando che la valutazione in termini di necessità ed urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d'urgenza, mentre tale valutazione è superflua quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto al contenuto iniziale, in quanto la eterogeneità costituisce di per sé sintomo della mancanza di detti presupposti.

In chiusura dell'analisi dell'articolata decisione della Cassazione di rimettere la questione di legittimità costituzionale delle norme del d.l. n.272 del 2005, convertito in L. n. 49 del 2006, deve darsi atto di una decisione contraria quasi coeva della Sesta sezione penale della Corte: si tratta di Sez. VI, 28 febbraio 2013 - dep. 29 aprile 2013, n. 18804, Petorelli, Rv. 254930. La sentenza richiamata ha dichiarato manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale delle modifiche introdotte all'art.73 del d.P.R. n.309 del 1990 con il D.L. n. 272 del 2005, nel testo introdotto con modifiche dalla legge di conversione n.49 del 2006, per contrasto con gli articoli 77 Cost., 117 Cost. e 4 della decisione quadro UE 2004/757/GAI. In motivazione la sentenza si pronuncia espressamente proprio sul punto del dubbio di costituzionalità sul contenuto innovativo della legge di conversione e sull'assenza di sostanziale omogeneità tra il testo del decreto legge originariamente adottato e quello risultante in seguito agli emendamenti in sede di conversione. La conclusione cui giunge la Sesta sezione penale, però, a differenza di quanto affermato nell'ordinanza di rimessione del maggio 2013, è negativa, rilevandosi che "non emerge con immediatezza la disomogeneità tra il contenuto del decreto legge e quello della legge di conversione che giustifichi il dubbio di costituzionalità" e sottolineandosi come la disposizione dell'art. 4 del testo originario del decreto legge n. 272 del 2005, in materia di trattamento penale di soggetti tossicodipendenti, offra il legame per affrontare con la legge di conversione il tema della tossicodipendenza sotto il profilo dell'inasprimento delle pene per le droghe leggere, utilizzando i poteri di valutazione di merito propri del legislatore. Quanto al profilo della violazione delle norme di diritto europeo la sentenza non rileva alcun elemento di criticità, non rinvenendosi in ambito comunitario alcuna previsione specifica di necessaria differenziazione delle droghe leggere da quelle pesanti quanto al trattamento sanzionatorio (ma soltanto impone un livello minimo di sanzioni per le droghe maggiormente dannose).

4. Il "piccolo spaccio" e la lieve entità del fatto.

Il tema dell'attenuante della "lieve entità" è stato esaminato, con prospettive almeno in parte innovative, nella sentenza Sez. VI, 18 luglio 2013 - dep. 4 ottobre 2013, n. 41090, Airano, Rv. 256609.

Questa decisione, partendo dall'esigenza di assicurare il rispetto del principio di proporzionalità tra pena ed offensività del fatto, ha osservato, innanzitutto, che già la significativa entità delle pene per l'ipotesi "lieve", e la divaricazione tra minimo e massimo edittale, inducono ad escludere che questa ipotesi possa limitarsi al "fatto assolutamente minimo", limitato a vicende in cui l'oggetto della cessione o della detenzione sia costituito da pochissime dosi. La pronuncia, poi, ha evidenziato che una significativa conferma di questa soluzione ermeneutica è desumibile dall'art. 74, comma 6, del medesimo d.P.R. n. 309 del 1990, che, prevedendo specificamente la figura dell'associazione finalizzata al traffico di stupefacenti per commettere fatti di lieve entità, ed assoggettandola a più miti sanzioni rispetto all'ipotesi ordinaria, induce a ritenere che la lieve entità possa ricorrere anche in relazione ad un'attività di tipo 'organizzato' e 'professionale' e quindi sia compatibile con la detenzione di un "discreto" quantitativo di scorta per la distribuzione ai consumatori finali. La sentenza ha perciò concluso che la fattispecie attenuata di cui all'art. 73, comma 5, cit. deve essere riconosciuta all'esito di una valutazione complessiva, nella quale, quando non ricorrono mezzi e modalità dell'azione di particolare potenzialità offensiva, non assume carattere preclusivo una quantità non proprio modestissima della sostanza detenuta, in considerazione del prevedibile guadagno; in tale prospettiva, potrà essere possibile differenziare tra le diverse sostanze, e ritenere che l'attenuante, in relazione al medesimo numero di dosi ottenibile, può sussistere se attiene a sostanze di scarso valore economico, e deve invece essere esclusa ove si riferisca a sostanze di ben maggior valore di mercato.

Può aggiungersi, come si evidenziava in premessa, che il riferito approdo ermeneutico, sotto il profilo sistematico, sembra in particolare sintonia con il 'nuovo' comma 5 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, come sostituito dal recentissimo d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 il quale risulta aver trasformato la circostanza aggravante delle "lieve entità" in autonoma fattispecie di reato.

In questo senso, si è orientata Sez. VI, 8 gennaio 2014, in attesa di deposito. In effetti, questa decisione, di cui allo stato è disponibile la sola informazione provvisoria, proprio muovendo dalla prospettiva del reato autonomo, ha ritenuto applicabile, con efficacia retroattiva, a norma dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., per i fatti di lieve entità riconducibili sotto l'egida del 'nuovo' comma 5 dell'art. 73, il più breve termine di prescrizione di sei anni, previsto dall'art. 157, primo comma, cod. pen.

5. La configurabilità della circostanza aggravante dell'ingente quantità.

Le Sezioni semplici della Corte di Cassazione, nel corso del 2013, hanno ribadito, quanto al tema della configurabilità della circostanza aggravante della ingente quantità ex art.80, comma secondo, del d.P.R. n. 309 del 1990, l'orientamento già oggetto di arresto delle Sezioni Unite nel 2012 (Sez. Un. 24 maggio 2012 - dep. 20 settembre 2012, n. 36258, Biondi, Rv. 253150), che aveva affermato il principio per cui, in tema di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, tale aggravante non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo, in milligrammi (valore - soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata.

Si rammenta che l'arresto delle Sezioni unite ha risolto il contrasto sul se, per il riconoscimento della circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità nei reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si dovesse far ricorso al criterio quantitativo con predeterminazione di limiti ponderali per tipo di sostanza, ovvero dovesse aversi riguardo ad altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute pubblica derivante dallo smercio di un elevato quantitativo e la potenzialità di soddisfare numerosi consumatori per l'alto numero di dosi ricavabili.

La soluzione individuata ha fatto leva sulla constatazione che la normativa prevede che le sostanze stupefacenti e psicotrope siano iscritte in due tabelle, la prima comprendente le sostanze con potere drogante, le altre quelle con funzione farmacologia e terapeutica, indicando inoltre i cd. limiti-soglia, cui far riferimento per il discrimine tendenziale fra l'«uso personale», che non comporta sanzione penale, e le condotte di detenzione penalmente rilevanti. Secondo la sentenza, proprio per il dettato del comma 1 bis, lett. a), dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, e per il rinvio che esso adotta all'apposita tabella, acquistano rilievo dirimente le soglie, sicchè è possibile stabilire, sulla base della fenomenologia relativa al traffico di sostanze stupefacenti, un limite quantitativo, ponderalmente determinato, al di sotto del quale non può parlarsi di quantità ingente. Sulla base di uno studio del Massimario sui quantitativi di droghe pesanti sequestrati in 65 casi, le Sezioni unite della Cassazione, pertanto, hanno ritenuto non ingente un quantitativo che non superi di 2000 volte il valore-soglia espresso in mg. nella tabella.

In tale solco si sono mosse, come detto, alcune pronunce delle sezioni semplici, di seguito segnalate.

Una pronuncia – Sez. V, 10 gennaio 2013 – dep. 8 marzo 2013, n. 10961, Scognamiglio, Rv. 255221 – ha stabilito che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell'ingente quantità, ex art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, qualora non sia esattamente determinata la percentuale del principio attivo contenuto nella sostanza stupefacente sequestrata, non è essenziale il ricorso alla determinazione peritale nel caso in cui possano essere tratti risultati utili e rilevanti da altre fonti probatorie, essi siano sostenuti da motivazione esente da vizi logici e conducano a ritenere che detto principio attivo sia superiore a 2000 volte il valore massimo in milligrammi, determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006. La sentenza ha, altresì, precisato che il superamento del predetto limite non determina comunque, automaticamente, la sussistenza dell'ipotesi aggravata, dovendo in ogni caso, aversi riguardo alle circostanze del caso concreto.

Altra sentenza del 2013, Sez. IV, 18 gennaio 2013 – dep. 7 marzo 2013, n. 10618, Grasso, Rv. 254913, con riferimento alla coltivazione di cannabis, ha affermato che l'aggravante di cui all'art. 80, comma secondo, d.P.R. n.309 del 1990, non è di norma ravvisabile quando la quantità di stupefacente ricavabile dalla piantagione sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo, in milligrammi (valore – soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito quando tale quantità sia superata. Nella fattispecie l'aggravante è stata ritenuta sussistente con riguardo ad una tonnellata e tre quintali di foglie della pianta "cannabis sativa", nelle quali erano contenuti complessivi mg. 481.508 di principio attivo puro, da cui erano ricavabili 19.260 dosi.

Di tenore identico alla sentenza n. 10618 del 2013 risulta Sez. IV, 20 dicembre 2012 - dep. 8 febbraio 2013, n. 6369, Carola, Rv. 255098, che, ribadita la soglia di configurabilità pari a 2.000 volte il valore massimo, ha ritenuto sussistere l'aggravante, nel caso sottoposto ad esame, in presenza di circa Kg. 15,6 di marijuana, da cui potevano ricavarsi da 83.200 a 111.933 dosi, con un quantitativo di principio attivo pari a Kg. 1.966 ed un principio attivo medio del 12,8 %.

6. L'applicabilità della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità ai reati di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti.

La questione dell'applicabilità dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen. ai reati di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, per i quali è prevista, come noto, l'attenuante speciale del fatto di lieve entità di cui al comma quinto dell'art.73 del d.P.R. n. 309 del 1990, è stato oggetto di attenzione della giurisprudenza di legittimità già da lungo tempo ed anche di recente, nel corso del 2013, non sono mancate pronunce delle sezioni semplici che hanno affrontato il tema, ribadendo l'orientamento senza dubbio dominante che propende per la soluzione negativa.

In verità, il problema interpretativo ha assunto nuova attualità in ragione di una sentenza difforme – precisamente Sez. VI, 18 gennaio 2011 – dep. 25 maggio 2011, n. 20937, Bagoura, Rv. 250028[5] - rispetto alla tesi che esclude l'applicabilità dell'attenuante comune ai reati di cui all'art.73 d.P.R. n.309 del 1990.

Il tema ermeneutico coinvolge quello più generale del danno nei reati patrimoniali e nei reati determinati da motivi di lucro, in relazione al quale, con diretto riferimento all'argomento in esame, deve anzitutto rammentarsi come, con la legge n. 19 del 7 febbraio 1990, il legislatore abbia inteso ampliare il campo applicativo della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 4 del cod. pen., sino ad allora limitata al danno economico di particolare tenuità prodotto nei reati contro il patrimonio, estendendola anche ai reati determinati da motivi di lucro, qualora al profitto di speciale tenuità derivante dal reato si accompagni corrispondentemente un evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità.

Le pronunce del 2013, conformi alla tesi consolidata dell'impossibilità di configurare la contestuale applicazione delle attenuanti della "speciale tenuità" e della "lieve entità" ai reati in materia di stupefacenti, se determinati da motivi di lucro, hanno ribadito le ragioni alla base dell'opzione negativa, individuate, in un caso - Sez. IV, 26 giugno 2013 – dep. 5 settembre 2013, n. 36408, Lassad, Rv. 255958 – nell'evidente coincidenza dei presupposti fattuali che condizionano l'applicabilità dell'ipotesi di cui all'art.62 n. 4 e di quella di cui al comma quinto dell'art. 73 d.P.R. n.309 del 1990, in un altro (ord. Sez. VI, 27 febbraio 2013 – dep. 31 maggio 2013, n. 23821, Orlando, Rv. 255663) nell'impossibilità di ricomprendere i reati in materia di stupefacenti tra quelli ai quali è applicabile in astratto l'attenuante comune, secondo quanto già in precedenza affermato da altre pronunce, richiamate in motivazione (v. sez. VI, 30 marzo 1999 – dep. 16 giugno 1999, n. 7830, Chanovi N., Rv. 214733, e Sez. IV, 26 febbraio 1993 – dep. 9 aprile 1993, n. 3621, Mosca, Rv. 193651)[6].

7. La soglia di rilevanza penale riferibile alla condotta di coltivazione di piante da stupefacenti.

In tema di offensività della condotta di coltivazione di piante da stupefacenti, la giurisprudenza di legittimità, dopo anni di arresti problematici e non univoci, è oramai orientata dalla sentenza delle Sezioni Unite, 24.4.2008 – dep. 10 luglio 2008, n. 28605, Di Salvia, Rv. 239920 - 239921, con la quale si sono posti due principi fondamentali:

- spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto stupefacente rilevabile;

- costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.[7]

Ripercorrendo le argomentazioni delle Sezioni Unite: "il principio di offensività – in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria") – secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, "rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato" (così testualmente Corte Cost. n. 265/05 e, in senso conforme, vedi pure le decisioni nn. 360/95, 263/00, 519/00, 354/02)." Con riferimento alla questione problematica propostasi per i reati in materia di stupefacenti, la Corte Costituzionale ha specificamente sostenuto, nella sentenza n. 360 del 1995, che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta. Partendo da tale premessa la Cassazione, con la sentenza richiamata, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, ha stabilito che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva.[8]

In tale cornice interpretativa tracciata dalle Sezioni Unite e dalla giurisprudenza costituzionale si iscrivono rilevanti pronunce sul tema specifico della coltivazione di piante da stupefacenti, che hanno confermato l'arresto riferito alla necessità di ritagliare in concreto i contorni dell'offensività della condotta sottoposta al giudizio.

La sentenza Sez. III, 9 maggio 2013 – dep. 29 maggio 2013, n. 23082, De Vita, Rv. 256174, ha enucleato una serie di "indicatori" dimostrativi della concreta offensività della condotta di coltivazione non autorizzata di piante di natura stupefacente, enucleando tra questi il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante in relazione al loro grado di maturazione, come anche l'estensione e la struttura organizzata della piantagione, dalle quali possa derivare una produzione di sostanze potenzialmente idonea ad incrementare il mercato (nella fattispecie il reato è stato ritenuto configurabile per un quantitativo di 43 piantine di "cannabis", dalle quali all'atto di accertamento si sarebbe ricavato un quantitativo di sostanza stupefacente sia al valore della dose singola che della dose – soglia, per la presenza di semi e di impianti di innaffiamento e riscaldamento dei locali, finalizzati a favorire la crescita e lo sviluppo della coltivazione).

La pronuncia della Sez. VI, 16 marzo 2013 – dep. 24 maggio 2013, n. 22459, Cangemi, Rv. 255732, ha affrontato la questione egualmente con riferimento ai caratteri specifici della piantagione, affermando, ai fini della punibilità della coltivazione, l'irrilevanza della quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, e la rilevanza, invece, della conformità della pianta al tipo botanico previsto e della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente.

Infine, sul principio in generale di offensività, Sez. III, 31 gennaio 2013 – dep. 16 maggio 2013, n. 21120, Colamartino, Rv. 255427, ha ribadito che non è configurabile il reato di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti nel caso in cui la condotta sia assolutamente inidonea (irrilevante essendo il grado dell'offesa) a ledere i beni giuridici tutelati[9] dalla norma incriminatrice e, pertanto, risulti inoffensiva secondo i canoni previsti dall'art.49 cod. pen.

La sentenza precisa, altresì, che tale assoluta inidoneità della condotta non può dipendere da circostanze occasionali e contingenti quali la mancata produzione di sostanza stupefacente a causa della non maturazione della piantagione, magari per l'intervento tempestivo da parte della polizia giudiziaria.[10]

  • mafia
  • riciclaggio di denaro
  • criminalità organizzata
  • concorso nel reato

CAPITOLO V - LA CRIMINALITA' ORGANIZZATA --- Sezione I

La criminalità organizzata di tipo mafioso

Sommario

1 La giurisprudenza in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso e le massime di esperienza. - 2 I "fatti" sintomatici dell'esistenza e della partecipazione all'associazione di tipo mafioso: le massime di esperienza localizzate. - 2.1 Il rilievo delle relazioni di parentela e di affinità nella prova del vincolo associativo. - 2.2 Persistenza del vincolo associativo e detenzione carceraria. - 3 Il concreto esercizio del ruolo direttivo. - 4 Il concorso esterno nel reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso. - 5 Il rapporto strutturale tra concorso esterno in associazione mafiosa e favoreggiamento. - 6 La collusione politico-mafiosa: questioni in tema di stabilità del vincolo associativo. - 7 Le forme della contiguità tra mafia e impresa. - 8 Associazione mafiosa, riciclaggio e interposizione fittizia. - 9 L'operatività delle presunzioni cautelari nelle ipotesi di concorso esterno.

1. La giurisprudenza in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso e le massime di esperienza.

L'analisi delle più significative pronunce dell'anno appena trascorso in tema di criminalità organizzata di tipo mafioso fa registrare la crescente sensibilità della Corte per le massime di esperienza, quali criteri inferenziali essenziali per l'adempimento del compito valutativo dell'informazione probatoria e della sua tessitura in ragionevoli orditi accusatori o difensivi.

La Corte ha avuto modo di definire più volte la nozione e gli elementi che valgono a distinguerla dalle congetture e illazioni attraverso le quali i doveri del giudice nei confronti della prova, anziché essere adempiuti, finiscono con l'essere elusi.

La distinzione tra criteri inferenziali empirici e congetture costituisce anzi, secondo un consolidato orientamento della Corte, il limite del suo sindacato, posto che: "Il controllo della Corte di cassazione sui vizi di motivazione della sentenza di merito, sotto il profilo della manifesta illogicità, non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza delle quali il giudice abbia fatto uso nella ricostruzione del fatto, purché la valutazione delle risultanze processuali sia stata compiuta secondo corretti criteri di metodo e con l'osservanza dei canoni logici che presiedono alla forma del ragionamento, e la motivazione fornisca una spiegazione plausibile e logicamente corretta delle scelte operate. Ne consegue che la doglianza di illogicità può essere proposta quando il ragionamento non si fondi realmente su una massima di esperienza (cioè su un giudizio ipotetico a contenuto generale, indipendente dal caso concreto, fondato su ripetute esperienze ma autonomo da esse, e valevole per nuovi casi), e valorizzi piuttosto una congettura (cioè una ipotesi non fondata sullo id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica), od anche una pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque e pur minima plausibilità. (A tale ultimo proposito, la Corte ha sindacato l'assunto, così enunciato, per il quale sarebbe normale che i pubblici funzionari, contattati da privati per il sollecito di una pratica, effettuino in favore di costoro prestiti non documentati e poi restituiti)" (così Sez. VI, 7 marzo 2003 - dep. 28 luglio 2003, n. 31706, Abbate, Rv. 228401).

Nell'anno appena trascorso questi concetti sono stati più volte ripresi. Valga per tutte la sentenza Sez. VI, 9 ottobre 2012 - dep. 15 gennaio 2013, n. 1775, Ruoppolo, Rv. 254196, secondo la quale: "Le massime di esperienza sono generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, fondate su ripetute esperienze ma autonome e sono tratte, con procedimento induttivo, dall'esperienza comune, conformemente ad orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spaziotemporale in cui matura la decisione, in quanto non si risolvono in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze o parametri riconosciuti e non controversi".

Ora, l'uso delle inferenze empiriche e di quelle estratte dagli studi storicosociologici nello specifico contesto della criminalità organizzata non è, neppur essa, un'acquisizione recente per la Corte (v. Sez. I, 5 gennaio 1999 - dep. 18 febbraio 1999, n. 84, Cabib, Rv. 212579; Sez. Un., 12 luglio 2005 - dep. 20 settembre 2005, n. 33748, Mannino, Rv. 231673; Sez. II, 9 giugno 2006 - dep. 16 giugno 2006, n. 21102, Sessa, Rv. 234665).

Alcune delle pronunce di quest'anno si caratterizzano per esigere una selezione dei criteri inferenziali specializzata in ragione della peculiarità dei vari fenomeni associativi, della loro localizzazione, dei loro diversi moduli organizzativi (così le sentenze Sez. II, 16 aprile 2013 - dep. 7 maggio 2013, n. 19483, Avallone, Rv. 256039, e Sez. II, 30 aprile 2013 - dep. 28 maggio 2013, Gioffré, Rv. 255708).

In altra la Corte 'mette a punto' e coordina logicamente le massime che presidiano (e presumono) la permanenza del vincolo associativo durante la detenzione del soggetto della quale sia stata già accertata l'affiliazione (Sez. II, 31 gennaio 2013 - dep. 12 febbraio 2013, Fusco, Rv. 254503).

La sentenza Sez. I, 19 dicembre 2012 - dep. 31 gennaio 2013, n. 4937, Modafferi, Rv. 254915, 'riscopre' - sulla base di criteri inferenziali ritratti dalle regole di funzionamento interno dei sodalizi - la rilevanza della partecipazione ai rituali di affiliazione, quali elementi sufficienti a suffragare la prova d'intraneità.

Le massime consolidate dagli studi storico-sociologici in tema di rapporti tra imprenditoria e mafia sono poi richiamate nella diagnosi differenziale operata dalla sentenza Sez. VI, 18 aprile 2013 - dep. 15 luglio 2013, n. 30346, Orobello, Rv. 256740, tra imprenditori collusi e imprenditori vittima.

La sentenza Sez. VI, 27 giugno 2013 - dep. 24 luglio 2013, n. 32412, Cosentino, Rv. 255751, svolge anche sul piano della plausibilità inferenziale il discorso relativo alla prova idonea a confutare la presunzione di sussistenza dei pericula libertatis nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa.

2. I "fatti" sintomatici dell'esistenza e della partecipazione all'associazione di tipo mafioso: le massime di esperienza localizzate.

Il rilievo sintomatico dei 'fatti concludenti', ai fini della prova di esistenza dell'associazione, della sua configurazione come associazione di tipo mafioso, dell'affiliazione del singolo partecipe, è stato quest'anno affermato in più pronunce.

Molteplici indicazioni su questi temi sono offerte dalla sentenza Sez. II, 16 aprile 2013 - dep. 7 maggio 2013, n. 19483, Avallone, Rv. 256039.

Per quanto attiene alle massime di esperienza rilevanti ai fini della configurabilità del sodalizio criminale, si distilla il principio per il quale "l'esistenza di un'associazione per delinquere di tipo mafioso può essere desunta, oltre che da prove dirette, anche da indizi precisi e concordanti tra i quali rientrano le specifiche modalità dei reati fine e la stessa causale dei comportamenti delittuosi, quali indici del metodo seguito dai componenti per la realizzazione del programma associativo, che si caratterizza, dal lato attivo, per l'utilizzazione da parte degli associati della forza intimidatrice nascente dallo stesso vincolo associativo e, dal lato passivo, per la condizione di assoggettamento che ne deriva, tanto all'esterno quanto all'interno dell'associazione". Per tal via la sentenza perviene al rigetto dei ricorsi proposti contro una sentenza di condanna che dava conto di una pluralità di estorsioni, di fatti usurari, di comportamenti finalizzati al favoreggiamento della latitanza dei capi di una cosca, quale momenti espressivi dell'esistenza di un'associazione di tipo mafioso (un 'locale di 'ndrangheta') radicata in Lombardia, ma coagulata intorno a figure carismatiche imparentate con una nota "famiglia" calabrese. Dalla lettura integrale della decisione emerge come, ai dati inerenti la proiezione operativa esterna del sodalizio, si cumulassero elementi inerenti la sua stabile struttura interna: l'imposizione di regole stringenti e inderogabili, quali il pagamento di un contributo per l'associazione, a valere sui ricavati tratti dalle operazioni illecite effettuate per conto del sodalizio stesso, che affluiva in una cassa comune e che era diretto a garantire un sistema di mutuo sostentamento in caso di morte o di arresto; la diuturnitas dei rapporti intersoggettivi; la rigida ripartizione di ruoli e la rigorosa gerarchia che escludevano per gli affiliati la possibilità di adottare estemporanee iniziative personali.

Sempre in tema di provvista dei criteri inferenziali che il giudice è chiamato a utilizzare nella valutazione delle informazioni probatorie, sotto un profilo di carattere generale che attiene alla configurabilità e alla conformazione strutturale del sodalizio, un altro importante principio affermato nella sentenza Avallone è quello secondo il quale "ciascuna entità associativa di stampo mafioso, al di là del 'nomen' più o meno tradizionale, vive di regole proprie ed assume altresì connotati strutturali, dimensioni operative ed articolazioni territoriali che vanno analizzati caso per caso, senza che i relativi modelli debbano essere necessariamente riconducibili ad una sorta di unità ideale, con la conseguenza che, a ciascun fenomeno associativo, potranno annettersi caratteristiche peculiari e ritenersi applicabili 'massime di esperienza', non necessariamente trasferibili rispetto a sodalizi di diversa matrice".

Il principio si muove nel solco tracciato da un'importante sentenza (Sez. I, 5 gennaio 1999 - dep. 18 febbraio 1999, n. 84, Cabib, Rv. 212579) che, nella specifica materia della criminalità organizzata di stampo mafioso, convalidava l'utilizzabilità e l'importanza delle massime di esperienza ritratte dalle indagini storico-sociologiche, sul presupposto che lo stesso modello dell'associazione mafiosa scaturisce dalla tipizzazione delle regole inferenziali tratte dall'analisi sociologica delle principali organizzazioni criminali, prime fra tutte "cosa nostra" e "camorra". La sentenza Avallone affina il principio, indicando al giudice la necessità di tenere conto delle peculiarità dei diversi fenomeni di criminalità organizzata e delle loro diverse regole di funzionamento, che non sono riducibili neppure alla tradizionale classificazione delle mafie storiche, posto che "nella stessa tradizione organizzativa della 'ndrangheta, non può intravedersi un'unica associazione articolata e presente in determinati territori, ma più centrali operative - i cosiddetti 'locali' - ciascuno dei quali dotato di una propria autonomia, ma pur sempre collegato alla 'famiglia' o ad altro 'locale' da cui ha tratto origine, quasi come una gemmazione. Il che non è senza significato anche sul piano internazionale, come d'altra parte stanno a dimostrare note e gravi vicende (ad es. la strage di Duisburg) che hanno testimoniato della presenza di 'locali' anche in altri Paesi".

A sostegno di questa necessità di enucleazione puntuale della massima esperienziale, la Corte ha addotto due dati.

Il primo è ritratto dall'evoluzione normativa che segnala come lo stesso legislatore abbia dovuto prendere atto, nel corso del tempo, dei diversi 'connotati' che ciascun 'fenomeno' mafioso è in grado di esprimere e abbia perciò avvertito la necessità di arricchire la definizione dell'articolo 416 bis cod. pen., costruita sulla falsariga della storica mafia siciliana, per attrarre nella sua sfera precettiva, oltre che la camorra, la 'ndrangheta (per l'espressa introduzione di questo termine nel testo dell'art. 416 bis cod. pen., si è dovuto attendere art. 6, comma 2, del d.l. 4 febbraio 2010, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 31 marzo 2010, n. 50) e, in genere tutte le altre organizzazioni, comunque localmente denominate, fino ad assorbire nel genus anche le organizzazioni criminali straniere (art. 1, comma 1, lett. b-bis, n. 4 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125).

Il secondo è un dato giurisprudenziale ed è ricavato dalla sentenza Sez. Un., 31 gennaio 2013 - dep. 23 aprile 2013, n. 18374, Adami, Rv. 255033-255038 (analiticamente esaminata nella Sezione III del presente capitolo di questa Rassegna). In quella pronuncia, affermando il principio della compatibilità dell'aggravante della "transnazionalità" (art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146), la Corte l'ha condizionata all'evenienza nella quale il gruppo criminale italiano basti a se stesso e si appoggi ad elementi esterni soltanto per estendere le sue potenzialità in campo internazionale. In tal modo - si dice nella sentenza Avallone - le stesse Sezioni Unite hanno finito per convalidare la plausibilità di quella logica dei "cerchi concentrici" che caratterizza il funzionamento del rapporto organizzativo tra i vari "locali " di 'ndrangheta e tra questi e la "casa madre" calabrese, secondo moduli nei quali coesistono elementi di autonomia e di interazione.

Alcuni punti della motivazione, poi, concretizzano le caratteristiche dei fatti concludenti che possono concorrere alla prova dell'addebito di associazione mafiosa nei confronti dei singoli imputati.

Significativa appare la risposta a un motivo nel quale si evidenziava come fosse stato posto a carico del ricorrente, tra i dati suffraganti la sua partecipazione, il suo concorso esecutivo in un attentato per il quale si era esclusa la sussistenza a carico dell'imputato dell'aggravante di cui all'art. 7 del d.l. n. 152/1991 contestata nella sua dimensione finalistica. In proposito, la Corte ha osservato che l'esclusione dell'aggravante, correttamente argomentata con la circostanza che l'imputato lo aveva compiuto per ragioni di vendetta personale estranee agli scopi del sodalizio, non si poneva in contraddizione con il suo ruolo associativo, del quale anzi costituiva riprova il fatto (documentato da intercettazioni telefoniche) che, per compiere quell'azione, l'imputato aveva potuto fruire dell'appoggio e della copertura della cosca calabrolombarda: un aiuto che non viene fornito al quisque de populo ma che si realizza nei confronti di chi era considerato per gli associati "un fratello".

E' inoltre rilevante la lettura 'laica' e non 'intimista' dell'elemento soggettivo del delitto di partecipazione associativa. Rispondendo a un motivo di ricorso incentrato sulle affermazioni di disistima, profferite nei confronti del ricorrente da uno dei capi della cosca in alcune conversazioni telefoniche intercettate, la Corte ha affermato che l'affectio societatis non va certamente intesa come un "moto dell'anima", ma come un'obiettiva convergenza di intenti, che evidentemente prescinde dalle personali simpatie o antipatie tra gli associati o dalla opinione che di ciascun associato possano nutrire i vertici del sodalizio.

Ancora con specifico riguardo alle massime di esperienza utilizzabili ai fini della individuazione delle responsabilità individuali, la sentenza Sez. II, 19 dicembre 2012 - dep. 18 gennaio 2013, n. 2740, Di Sarli, Rv. 254233, sottolinea come la valutazione dei reati fine quali elementi sintomatici dell'esistenza della compagine e dell'affiliazione ad essa dei loro autori non contraddica il principio dell'autonomia tra le due tipologie delittuose: "in tema di associazione per delinquere è consentito al giudice, pur nell'autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell'esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l'operatività dell'associazione medesima".

Sullo specifico tema delle caratteristiche del fatto concludente sintomatico di intraneità associativa assume rilievo anche un passaggio argomentativo della sentenza Sez. V, 5 giugno 2013 (dep. 14 agosto 2013), n. 35100, Matacena (che in seguito analizzeremo sotto altro profilo) nel quale si valorizza, tra gli elementi sintomatici del concorso esterno dell'indagato, una vicenda che addirittura lo aveva visto come vittima renitente di una richiesta estorsiva, posto che da quella pretesa era stato poi esentato per disposizione dei vertici della cosca in ragione del fatto che la vittima aveva "sempre favorito" e ancora avrebbe favorito, in caso di bisogno, l'associazione.

La sentenza Sez. I, 19 dicembre 2012 - dep. 31 gennaio 2013, n. 4937, Modafferi, Rv. 254915, affronta il tema della sufficienza sintomatica di elementi diversi dal concorso ai 'delitti scopo' dell'associazione, tutti afferenti alle 'regole interne' della compagine.

La Corte ha ritenuto sufficienti a fondare l'addebito (cautelare) relativo alla partecipazione dell'indagato a un "locale" piemontese della 'ndrangheta le seguenti circostanze: a) in una conversazione intercettata, commentando le vicende della cerimonia di conferimento della "dote di trequartino" a un determinato soggetto, si indicava l'indagato come partecipante alla cerimonia e come soggetto facente parte della "base", ossia del locale di Chivasso, capeggiato dal di lui cognato; b) da una videoripresa risultava che l'indagato avesse partecipato a una cena svoltasi dopo l'affiliazione di altri due soggetti, nel corso della quale "erano stati pronunciati discorsi ufficiali espressi nel tipico gergo 'ndranghetistico ("ora dico le canzoni nei miei riti e alla destra mia qua li ricevete") dai capi dei locali vicini, quali rappresentanti di altri affiliati in quel momento assenti, alla presenza del responsabile provinciale di Torino, "il tutto per evocare e ribadire la comune appartenenza allo stesso sodalizio, di cui si erano pronunciati i riti formali".

Applicata a dette informazioni, la massima di esperienza secondo la quale "stante il vincolo di segretezza che caratterizza l'onorata società, solamente un partecipe avrebbe potuto essere coinvolto e assistere a tale celebrazione" e tenuto conto di elementi ulteriori dello stesso segno - come la partecipazione dell'indiziato a successive riunioni tenutesi presso esercizi pubblici o abitazioni di affiliati in Torino e Chivasso, alla presenza di altri esponenti della stessa organizzazione; o come il suo intervento per prevenire lo scontro fisico tra due sodali - il Tribunale della libertà di Torino aveva ritenuto integrato il presupposto di cui all'art. 273 c.p.p. La Cassazione, confermando la decisione, ha affermato che "anche il solo fatto di essere a conoscenza dell'organigramma e della struttura organizzativa delle cosche della zona, dell'identità dei loro capi e gregari, dei luoghi di riunione, degli argomenti trattati e l'essere stato ammesso a partecipare a degli incontri in contesti deputati all'inserimento di nuovi sodali" giustifica razionalmente l'addebito.

E' interessante notare che, sollecitata dai ricorsi difensivi a valutare la compatibilità di detti argomenti con le indicazioni della sentenza Sez. Un., 12 luglio 2005 - dep. 20 settembre 2005, n. 33748, Mannino, Rv. 231670-231679, sul significato dinamico piuttosto che statico del "prender parte" all'associazione mafiosa, la Corte ha ritenuto rispettati quei principi, giacché dagli indicatori fattuali acquisiti "grazie alle regole di esperienza elaborate dalla giurisprudenza sulla scorta delle conoscenze acquisite sulle dinamiche operative dei fenomeni di criminalità di stampo mafioso", si poteva inferire la "messa a disposizione della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento peraltro allo specifico periodo temporale considerato nell'imputazione." E in effetti la sentenza Mannino elenca, tra i fatti sufficienti a suffragare la partecipazione, oltre alla commissione dei delitti-fine, contegni interni all'organizzazione quali "i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di uomo d'onore".

2.1. Il rilievo delle relazioni di parentela e di affinità nella prova del vincolo associativo.

In tema di prova del vincolo associativo due pronunce si soffermano sul rilievo delle relazioni di parentela e di affinità con esponenti conclamati dell'organizzazione criminale, per escludere che questo elemento valga di per sé a costituire prova o anche soltanto indizio dell'appartenenza.

Entrambe le pronunce riconoscono però che, quando si combini con la prova dell'esistenza di un'organizzazione delinquenziale a base familiare e della non occasionale attività criminosa del soggetto nel medesimo ambito in cui l'organizzazione opera, "può essere considerato come non privo di valore indiziante il fatto che vi siano legami di parentela o di affinità fra essi e coloro che in quel sodalizio occupano posizioni di vertice" (Sez. II, 15 marzo 2013 - dep. 3 maggio 2013, Vallelonga, Rv. 255828; conforme Sez. V, 22 novembre 2012 - dep. 24 aprile 2013, n. 18491, Vadalà, Rv. 255431).

Tuttavia, nella sentenza Vallelonga si è reputato insufficiente a dimostrare l'affiliazione del soggetto indagato (secondo lo standard richiesto per l'adozione delle misure cautelari personali) il coacervo indiziario costituito dai legami familiari dell'indagato con esponenti autorevoli di una cosca e dalla sua partecipazione a un'unica riunione, avente per oggetto le iniziative da assumere in relazione al conflitto in corso con altra fazione malavitosa, peraltro conclusivamente decise al termine di ulteriori incontri, ai quali si assumeva pacificamente che l'indagato non avesse partecipato. Si è in proposito rilevato che in un contesto conoscitivo nel quale l'indagato non risultava attinto dalle dichiarazioni di nessuno dei collaboratori di giustizia interrogati nel corso dell'indagine, né compariva nelle plurime intercettazioni effettuate, anche sulla sua utenza, per circa sette mesi, la mera partecipazione alla riunione poteva trovare una spiegazione alternativa: "la famiglia ben potrebbe soltanto avere inteso avvertire uno dei familiari estranei agli interessi malavitosi dei più, del conflitto in corso, in un momento in cui si era scatenata la 'mattanza' e gli antagonisti erano 'in caccia', soltanto per consentirgli di mettersi in guardia del grave pericolo che correva".

2.2. Persistenza del vincolo associativo e detenzione carceraria.

La sentenza Sez. II, 31 gennaio 2013 - dep. 12 febbraio 2013, Fusco, Rv. 254503, mette ordine nelle massime di esperienza che tradizionalmente presidiano la valutazione probatoria della permanenza del vincolo associativo mafioso durante la detenzione carceraria dell'affiliato, eccettuando la sola ipotesi del fattivo recesso.

Il principio enucleato dalla massima recita: "ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere, laddove uno dei sodali abbia patito uno stabile isolamento del gruppo in forza di detenzione prolungata e senza soluzione di continuità, occorre la prova della permanenza di un suo contributo oggettivamente apprezzabile alla vita e all'organizzazione del gruppo stesso, anche se solo a carattere morale".

La Corte non ha contestato l'affermazione, valorizzata nella sentenza di condanna della corte territoriale, per la quale "in tema di associazione per delinquere, il sopravvenuto stato detentivo di un soggetto non determina la necessaria e automatica cessazione della partecipazione al sodalizio criminoso di appartenenza, atteso che, in determinati contesti delinquenziali, i periodi di detenzione sono accettati dai sodali come prevedibili eventualità le quali, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo e alla programmazione delle sue attività e, dall'altro, non fanno cessare la disponibilità a riassumere un ruolo attivo non appena venga meno il forzato impedimento" (così Sez. I, 23/11/2000 - dep. 2 aprile 2001, n. 12907, Boscolo, Rv. 218440).
 Ha però evidenziato come una tale affermazione non possa essere trasformata in una presunzione sulla base della quale si possa ritenere che chi è stabilmente inserito in un sodalizio criminale, ove sia sopravvenuto lo stato di detenzione, continui a rimanere compartecipe dell'associazione, salvo prova contraria.

Spostando il ragionamento dal piano inferenziale a quello dei requisiti di fattispecie, la sentenza evidenzia, in linea con una pronuncia precedente (Sez. VI, 17/01/2003 - dep. 07/02/2003, n. 6262, Agate, Rv. 227710), come la regola della "permanenza salvo recesso", possa spiegare la persistenza dell'affectio; ma non possa sostituire la prova positiva di un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita dell'ente associativo: "In proposito questa Corte ha statuito che ove una organizzazione criminale di tipo mafioso richieda ai partecipi la loro definitiva adesione, fino a quando non abiurino o vengano a morte, la perdurante appartenenza al gruppo di persona della quale sia provata l'affiliazione può essere correttamente ritenuta in qualunque momento, se manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione, anche in assenza della prova di condotte attualmente riferibili al fenomeno associativo, ed anche nel caso di arresto e di condanna. Tuttavia, poiché la condotta di partecipazione ad un'associazione per delinquere non consiste della sola affectio societatis, in caso di stabile isolamento dell'interessato dal gruppo (in forza di detenzione prolungata e senza soluzione di continuità) occorre la prova della permanenza di un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita ed all'organizzazione del gruppo stesso, anche se a carattere solo morale (come ad esempio attraverso manifestazioni di solidarietà rivolte all'esterno del carcere)".

3. Il concreto esercizio del ruolo direttivo.

Il tema del concreto esercizio del 'ruolo' è affrontato dalla sentenza Sez. VI, 7 febbraio 2013 - dep. 3 maggio 2013, n. 19191, Stanganelli, Rv. 255132, con specifico riferimento alla qualifica dirigenziale: "Il ruolo direttivo nell'ambito di un'associazione per delinquere di tipo mafioso è correttamente escluso dal giudice di merito quando la posizione di vertice, pur formalmente attribuita all'imputato all'interno della consorteria, non sia stata in concreto esercitata".

La sentenza affronta il caso dell'affiliato al quale era stato attribuito il ruolo di referente di una cosca di 'ndrangheta, con decisione revocata dai vertici del sodalizio prima che i compiti propri di quella funzione potessero essere esercitati.

4. Il concorso esterno nel reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso.

La sentenza Sez. V, 5 giugno 2013 - dep. 14 agosto 2013, n. 35100, Matacena, Rv. 255769, è intervenuta sul tema della natura della fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, per affermare che essa "si atteggia come reato permanente al pari di quella di partecipazione alla medesima associazione da parte del soggetto organicamente inserito nel sodalizio, fermo restando che il concorrente può far cessare la permanenza desistendo dal continuare a prestare il proprio apporto alla vita dell'associazione".

L'affermazione è in linea con le sentenze Sez. VI, 9/10 maggio 2007 - dep. 8 gennaio 2008, n. 542, Contrada, Rv. 238241, e Sez. V, 9 marzo 2012 - dep. 24 aprile 2012, n. 15727, Dell'Utri, Rv. 252329).

Quest'ultima però esprime il principio in termini più cauti ("La fattispecie del concorso esterno in associazione di tipo mafioso si atteggia, di regola, come reato permanente, al pari di quella di partecipazione alla medesima associazione da parte del soggetto organicamente inserito nel sodalizio").

L'argomentazione della Corte fa perno sul testo dell'articolo 110 c.p. che, prevedendo il concorso di persone nel reato, specifica che i diversi contributi devono afferire al "medesimo reato"; e da ciò fa conseguire la (tendenziale) equiparazione sanzionatoria. Da detta classificazione la Corte fa discendere una conseguenza in termini di valutazione della prova imponendo, nel caso di contributi plurimi, che questi siano letti unitariamente, smarrendosi altrimenti la "valenza sociale" del contributo e la differenza tra il concorso esterno in associazione e altre tipologie delittuose, come il favoreggiamento reale e personale, magari continuato.

Non è dunque sul piano della natura (istantanea o permanente) che concorso esterno e partecipazione associativa possono differenziarsi, secondo la sentenza Matacena, per la quale, nell'uno come nell'altro caso, la struttura associativa (mafiosa o non) può sopravvivere alla fuoriuscita degli associati e alla perdita dei fiancheggiatori; così come può mutare i suoi organigrammi attraverso l'inclusione (sostitutiva o aggiuntiva) di nuovi adepti.

L'elemento differenziale è colto nei contenuti della prova di durata o cessazione del rapporto con la compagine: "prova della fuoriuscita o, al contrario, prova della sussistenza durevole del vincolo associativo (per l'associato); prova della cessazione della disponibilità del concorrente esterno a fornire il suo contributo per il mantenimento in vita/rafforzamento dell'associazione criminosa, o, al contrario, prova della permanenza di tale disponibilità, che potrà concretizzarsi in singoli, futuri interventi ausiliari".

Nello stesso senso si esprime Sez. VI, 30 ottobre 2012 - dep. 13 giugno 2013, n. 26093, Pompeo, Rv. 255739, che dalla natura tendenzialmente permanente del concorso esterno in associazione mafiosa inferisce l'applicazione a questa fattispecie del principio per il quale a conseguenza per la quale "la disposizione che vieta la concessione delle attenuanti generiche sul solo presupposto dello stato di incensuratezza, introdotta dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125 e che si applica ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore, opera con riguardo ai reati permanenti nei quali la condotta, iniziata in epoca precedente, sia giunta a consumazione in epoca successiva".

5. Il rapporto strutturale tra concorso esterno in associazione mafiosa e favoreggiamento.

La sentenza Sez. II, 21 marzo 2013 - dep. 24 aprile 2013, Cuffaro, Rv. 255837, affronta il caso nel quale a un soggetto già condannato con sentenza irrevocabile per i delitti di favoreggiamento personale e rivelazione di segreti d'ufficio aggravati dall'art. 7 del d.l. n. 152/1991, al quale in successivo procedimento venivano contestati i delitti di concorso esterno nella medesima associazione mafiosa sulla base di comportamenti coincidenti con quelli indicati nella precedente imputazione o valorizzati, nel corso della vicenda processuale, anche per suffragare la circostanza aggravante.

Dalla sentenza è possibile enucleare due principi.

Il primo attiene alle condizioni operative della preclusione sancita dall'art. 649 cod. proc. pen., in relazione alla quale la Corte si è attenuta, nell'alternativa ermeneutica su cosa debba intendersi per "medesimo fatto" (se l'idem factum ovvero l'idem legale), alla posizione prevalente nella giurisprudenza che privilegia la nozione storico-naturalistica (idem factum) in base alla quale la preclusione opera soltanto quando vi sia corrispondenza biunivoca fra gli elementi costitutivi dei reati descritti nelle rispettive contestazioni (condotta, evento, nesso causale) che vanno riguardate anche con riferimento alle circostanze di tempo, luogo e persona (Sez. V, 1 luglio 2010 - dep. 20 luglio 2010, n. 28548, Carbognani, Rv. 247895; Sez. IV, 20 febbraio 2006 - dep. 5 maggio 2006, n. 15578, Mele, Rv. 233959; Sez. Un., 28 giugno 2005 - dep. 28 settembre 2005, n. 34655, Donati, Rv. 231799).

La posizione enunciata permette di ritenere legittima la prospettazione di 'diversità' del fatto anche in ipotesi di concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza che una persona giudicata per un reato ben può essere sottoposta a un successivo giudizio per l'ulteriore e diverso reato contestualmente commesso (Sez. I, 24 gennaio 1995 - dep. 28 marzo 1995, n. 3354, Sorgato, Rv. 200695). Assume rilievo nella decisione la puntualizzazione per la quale il "fatto" giudicato non è solo quello descritto nel capo di imputazione ma, secondo il principio della contestazione sostanziale, ricomprende tutti quegli aspetti che, nella progressione della vicenda processuale, sono stati via via oggetto di contestazione e puntualizzazione attraverso atti diversi e successivi rispetto a quelli tipicamente preposti a tal fine. Su questa base teorica s'innesta la valutazione di ragionevolezza ed esaustività dell'apprezzamento compiuto dalla corte territoriale secondo cui le condotte integranti i delitti di rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento aggravati ascritte all'imputato non rappresentavano, nello specifico contesto, le prove dell'ulteriore delitto di cui agli articoli 110-416 bis cod. pen., ma costituivano invece i medesimi fatti diversamente qualificati.

Il secondo principio enunciato nella sentenza (cospirante verso l'esito confermativo della dichiarazione d'improcedibilità) attiene al rapporto tra le fattispecie configurate nelle due imputazioni a confronto, e in particolare il favoreggiamento (per il quale il soggetto era stato condannato con sentenza irrevocabile) e il concorso esterno.

Sul punto la Corte ha compiuto un'ulteriore scelta ermeneutica. Piuttosto che aderire alla tesi (espressamente rifiutata) per la quale la configurazione del favoreggiamento postula l'avvenuta consumazione del reato ascritto al soggetto favorito e, nel caso dell'associazione di tipo mafioso, la sua cessazione per scioglimento del sodalizio (Cass., sez. fer., 3 settembre 2004 - dep. 28 settembre 2004, n. 38236, Iovino, Rv. 229648), la Corte ha fondato la valutazione di incompatibilità sull'argomento secondo il quale: "il delitto di favoreggiamento personale è strutturalmente incompatibile con il reato associativo in quanto esso presuppone che il soggetto attivo non sia stato coinvolto, né oggettivamente né soggettivamente nella realizzazione del reato presupposto".

6. La collusione politico-mafiosa: questioni in tema di stabilità del vincolo associativo.

Il tema della collusione politico-mafiosa è stato affrontato nelle sentenze Sez. VI, 7 febbraio 2013 - dep. 3 maggio 2013, Stanganelli, Rv. 255131; Sez. I, 9 gennaio 2013 - dep. 21 febbraio 2013, n. 8531, Ferraro, Rv. 254926; Sez. II, 30 aprile 2013 - dep. 28 maggio 2013, Gioffré, Rv. 255708.

Le prime due pronunce hanno riferimento a condotte di concorso esterno; la terza, invece, a contestazioni di intraneità nel sodalizio.

La sentenza Stanganelli individua un caso di concorso esterno nel comportamento di chi "anche avvalendosi della collaborazione di altre persone, pone in essere un'attività di avvicinamento al mondo politico-istituzionale in un'ottica di vantaggio per la cosca di riferimento, offrendo appoggio elettorale attraverso la creazione di circoli di partito in aree di dominio della consorteria, con il manifesto interesse di ottenere mitigazioni del regime carcerario e cariche onorifiche in favore di esponenti della stessa, così da contribuire ad accrescerne l'egemonia rispetto a un sodalizio rivale operante sul medesimo territorio".

La sentenza Ferraro ritiene integrata la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa dalla "promessa di un esponente politico di favorire, in cambio del sostegno elettorale, il sodalizio nei futuri rapporti con la pubblica amministrazione". La pronuncia si allinea a un indirizzo secondo il quale il contributo dell'extraneus realizza l'offesa del bene giuridico tutelato "con lo scambio sinallagmatico tra le due promesse (l'appoggio elettorale e l'agevolazione dell'ente) restando irrilevante la mancata esecuzione delle promesse in discorso" (così Sez. V, 26 marzo 2000 - dep. 20 aprile 2000, Frasca, Rv. 215964, e Sez. VI, 15 maggio 2000 - dep. 4 settembre 2000, n. 2285, Pangallo, Rv. 216815).

Nella parte in cui afferma la sufficienza dell'accordo di scambio' senza condizionarla all'effettiva ripercussione della promessa dell'impegno assunto dal politico sulle sorti del sodalizio e sul suo funzionamento, la sentenza Ferraro sembra porsi in contrasto con i principi dettati dalla sentenza Sez. Un., 12 luglio 2005 - dep. 20 settembre 2005, n. 33748, Mannino, Rv. 231670-231679.

In effetti, in quest'ultima si affermava: I) la necessità della concretezza e dell'efficienza causale del contributo dell'extraneus, da apprezzarsi ex post e da valutarsi secondo uno standard di 'certezza processuale' e non di "mero aumento del rischio" (Rv. 231671), con esplicita esclusione del ricorso alla 'causalità psichica' (cosiddetta da 'rafforzamento dell'organizzazione criminale') che condurrebbe a concludere in ogni caso "che la condotta atipica, se obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei membri dell'associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso per la struttura organizzativa della stessa"; II) la necessità di scandire la dimostrazione del contributo causale secondo le seguenti tappe: "a) gli impegni assunti dal politico a favore dell'associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell'accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; b) all'esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali" (Rv. 231673).

La sentenza Gioffré, invece, afferma il principio per il quale "integra la fattispecie delittuosa prevista dall'art. 416-bis cod. pen. la condotta di coloro che, attraverso la carica intimidatoria indotta dalla presenza e dallo specifico interesse manifestato dal sodalizio mafioso sul territorio locale, condizionino e manipolino una tornata elettorale amministrativa al fine di creare le premesse per inserire uomini del sodalizio in seno all'amministrazione locale, non occorrendo che le pressioni sugli elettori assumano connotati di eclatante violenza o minaccia".

Come osservato dalla Corte nell'incipit del "considerato in diritto", il caso è connotato da plurime peculiarità.

La prima è costituita dalla configurazione come associazione mafiosa (sub specie di 'ndrina della 'ndrangheta calabrese) di un'aggregazione di soggetti che si era avvalsa della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo al fine di realizzare un unico e (apparentemente) circoscritto obiettivo: il controllo integrale delle elezioni comunali, tenutesi in un piccolo comune della Calabria nell'anno 2007.

Veniva dunque in rilievo il tema della necessaria stabilità del vincolo associativo e della sua proiezione sull'atteggiamento soggettivo dei presunti associati (l'affectio), elementi che la Corte ha ritenuto sussistenti valorizzando alcuni elementi di prova dai quali risultava che il programma del sodalizio era tutt'altro che contingente, mirando a introdurre nella compagine amministrativa di quel piccolo comune, non soltanto il sindaco e il vicesindaco direttamente favoriti nella competizione, ma anche un componente della famiglia criminale, da proiettare verso futuri maggiori incarichi e responsabilità politiche, al fine ('dichiarato' in alcune intercettazioni telefoniche) di 'prendersi il comune', e cioè di consolidare, oltre che il prestigio della "famiglia", il controllo pervasivo ai appalti e concessioni. In un quadro siffatto, rivelatore di un orizzonte programmatico non circoscritto temporalmente alla sola vittoria elettorale, la Corte ha ritenuto perfettamente integrato il vincolo associativo stabile, allineandosi al filone interpretativo per il quale "non è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di assoluta stabilità, essendo sufficiente che esso non sia a priori e programmaticamente circoscritto alla consumazione di uno o più delitti predeterminati" (Cass., sez. V, 28 giugno 2000 - dep. 1 dicembre 2000, n. 12525, Buscicchio, Rv. 217458-2174561; conf. Sez. I, 18 marzo 2011 - dep. 10 agosto 2011, n. 31845, D., Rv. 250771).

La seconda peculiarità consisteva nella delimitazione 'finalistica' della configurata consorteria.

Sul punto la Corte ha opportunamente ricordato che il legislatore considera l'esperienza mafiosa come una realtà in grado di penetrare, non soltanto il tessuto socio-economico, ma anche "i gangli della gestione politico-amministrativa degli enti esponenziali di determinate realtà territoriali"; come testimonia - prima ancora che l'introduzione, con il d.l. n. 306 del 1992, del delitto di scambio elettorale politicomafioso - l'inclusione nel testo dello stesso art. 416-bis cod. pen. della finalità di "impedire od ostacolare il libero esercizio del diritto di voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali". A prescindere dunque dall'evocazione dei reati elettorali come reati-fine dell'associazione mafiosa, la scelta denota univocamente l'intenzione di orientare le applicazioni giurisprudenziali della fattispecie "anche verso il settore delle collusioni con la politica e le amministrazioni locali, realizzate attraverso il condizionamento e la manipolazione dei flussi elettorali, reso possibile proprio attraverso la carica intimidatoria indotta dalla presenza e dallo specifico interesse manifestato dal sodalizio mafioso competente ratione loci". La terza nota caratteristica del caso affrontato dalla sentenza Gioffré atteneva ai modi, non connotati da manifestazioni espresse di violenza o minaccia, attraverso i quali il sodalizio aveva esercitato il controllo del voto: il presidio materiale dei seggi elettorali, attuato attraverso la nomina di rappresentanti lista appartenenti alla famiglia; il ritiro delle tessere elettorali di diversi elettori, in maniera da controllare una per una le persone che andavano a votare; la consegna ad alcuni elettori di un normografo; la pretesa che altri testimoniassero con fotografie scattate con apparecchi cellulari il voto e la preferenza data.

Sul tema la Corte ha evidenziato come la violenza e la minaccia, nella struttura del delitto associativo mafioso, assumano rilievo quali elementi di formazione del capitale intimidatorio, senza che sia necessario il loro puntuale impiego nelle manifestazioni esterne del sodalizio "dal momento che la condizione di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi indotti nella popolazione costituiscono, più che l'effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale dell'associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici e indiretti, sia accreditata come temibile, effettivo e autorevole centro di potere". Dovendosi cogliere il larvato significato intimidatorio dei comportamenti attraverso i quali era avvenuto il condizionamento degli elettori, la Corte ha richiamato - con argomentazione identica a quella sviluppata nella sentenza Avallone - la necessità di fare ricorso a massime di esperienza specializzate ratione loci, costituendo "il 'localismo' connotato tipizzante, sul piano strutturale e funzionale, circa la presenza e l'attività delle 'ndrine, o dei 'locali', con ovvi riverberi sul piano della notorietà e appariscenza dei singoli sodalizi nelle vita sociale, economica e politica di quella specifica zona, in termini evidentemente inversamente proporzionali alla estensione del territorio e al numero delle persone ivi residenti". Diviene allora possibile cogliere nel presidio dei seggi, nella consegna dei normografi e negli altri comportamenti indicati l'implicita minaccia esercitata sui membri di una piccola comunità alla quale era ben noto, a tacer d'altro, il coinvolgimento della famiglia di appartenenza dei imputati a una sanguinosa faida protrattasi per vari anni, secondo cadenze cicliche e con connotazioni di tipo mafioso e tali da "far assumere a quel gruppo, strutturato su base familiare, una fama e un potere in quello specifico contesto territoriale mai offuscatosi nel tempo".

7. Le forme della contiguità tra mafia e impresa.

La sentenza Sez. VI, 18 aprile 2013 - dep. 15 luglio 2013, n. 30346, Orobello, Rv. 256740, affronta il tema delle collusioni impresa-mafia, nel solco tracciato dalle sentenze affermando la ricorrenza del concorso esterno in associazione di tipo mafioso nel caso dell'imprenditore che "senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo dell'affectio societatis, instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per l'imprenditore, nell'imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l'organizzazione mafiosa, nell'ottenere risorse, servizi o utilità".

Nel caso di specie il sinallagma ritenuto rilevante era contestualizzato in un sistema di gestione e spartizione degli appalti pubblici attraverso attività di illecita interferenza, che comportava, per l'imprenditore, il conseguimento di commesse e, per il sodalizio, il rafforzamento della propria capacità di penetrazione nel settore economico, con appalti ad imprese contigue.

La sentenza asseconda, per quanto concerne la diagnosi differenziale tra "imprenditore vittima" e "imprenditore colluso", la linea tracciata da: Sez. VI, 22 marzo 2005 - dep. 15 aprile 2005, n. 14236, Iovino, n. mass.; Sez. I, 11 ottobre 2005 - dep. 20 dicembre 2005, n. 46552, D'Orio, Rv. 232963; Sez. V, 1 ottobre 2008 - dep. 16 ottobre 2008, n. 39042, Samà, Rv. 242318.

In queste pronunce erano già delineati i contenuti del 'sinallagma' sintomatico del rapporto collusivo, attraverso il richiamo esemplificativo dei vantaggi ingiusti conseguibili dall'imprenditore, come l'ingresso di costui "in un sistema illecito di esercizio dell'impresa contraddistinto da appalti e commesse ottenuti grazie all'intermediazione mafiosa"; o il "beneficio insito nella possibilità di assicurarsi illegalmente una posizione dominante a scapito della concorrenza, nonché risorse e/o linee di credito a prezzi di favore, sino a godere di un sostanziale monopolio su un dato territorio"; e della strumentalizzazione della relazione con il sodalizio "il cui apparato intimidatorio si è reso disponibile a sostenere l'espansione dei suoi affari in cambio della sua disponibilità a fornire risorse, servizi o comunque utilità al sodalizio medesimo" (le citazioni sono tratte da Sez. I, 11 ottobre 2005, D'Orio). Così com'era già stato definito il diverso caso della "contiguità imprenditoriale soggiacente" nel quale l'imprenditore "non tenta di venire a patti con la mafia per rivolgere a proprio vantaggio il relativo apparato strutturale - strumentale basato sull'intimidazione, ma cede all'imposizione mafiosa (versando tangenti o piegandosi a prestazioni di altro tipo) e subisce il relativo danno ingiusto limitandosi a perseguire semmai un'intesa col sodalizio al solo fine di tentare di limitare il danno".

La conformità della sentenza sez. VI, Orobello alle linee precedentemente tracciate si registra anche in ordine all'esatta qualificazione del rapporto collusivo che si atteggia: -) in termini di piena intraneità, quando il soggetto risulterà inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione, sì da avervi consapevolmente assunto un ruolo specifico, funzionale al perseguimento dei fini programmatici del clan o di un settore di essi; -) in termini di concorso eventuale, quando il soggetto - privo di affectio e non inserito stabilmente nel tessuto organizzativo - agisca dall'esterno con la consapevolezza e la volontà di fornire un contributo causale alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione, nonché alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso.

8. Associazione mafiosa, riciclaggio e interposizione fittizia.

Alcune significative decisioni si sono occupate del tema delle infiltrazioni mafiose nell'economia lecita, in particolare attraverso operazioni di riciclaggio e di interposizione fittizia nell'intestazione di beni.

In particolare, Sez. II, 27 settembre 2012 - dep. 18 gennaio 2013, n. 2833, Adamo, Rv. 254296, si è soffermata sui rapporti tra l'aggravante cd. riciclatoria, prevista dalla norma incriminatrice dell'associazione di tipo mafioso e la fattispecie di interposizione fittizia nell'acquisto di beni e valori prevista dall'art. 12 quinquies della legge n. 356 del 1992, per escludere rapporti di specialità o consunzione tra le due figure: "La circostanza aggravante prevista dal comma sesto dell'art. 416-bis cod. pen. si differenzia dalla fattispecie di cui all'art. 12 quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, e può concorrere con essa, in quanto mentre la prima figura è integrata dal reinvestimento dei proventi illeciti dell'organizzazione criminale in attività economiche qualificate delle quali il sodalizio intende assumere o mantenere il controllo, e non implica la necessaria interposizione di soggetti terzi, ai fini della configurabilità della seconda occorre una condotta di interposizione fittizia soggettiva nella titolarità di un bene, e non è richiesto che il cespite sia di provenienza illecita e "mafiosa".

Sez. II, 16 novembre 2012 - dep. 21 marzo 2013, n. 12999, Bitica, Rv. 254804, poi, ha confermato le linea interpretativa che reputa inoperante il cd. "privilegio di autoriciclaggio", nella fattispecie di interposizione fittizia nell'intestazione di beni commessa ai fini riciclatori dallo stesso autore del reato presupposto: "Il soggetto attivo del delitto di trasferimento fraudolento di valori (art. 12-quinquies D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella L. 7 agosto 1992, n. 356), può essere anche colui nei cui confronti sia pendente il procedimento penale per il reato presupposto, che si attivi in qualunque forma al fine di agevolare la commissione del delitto di riciclaggio" (in questi termini, in precedenza, cfr.: Sez. VI, 9 ottobre 2003 - dep. 30 marzo 2004, n. 15104, Gioci, Rv. 229239, e Sez. VI, 21 aprile 2008 - dep. 23 giugno 2008, n. 25616, Giombini, Rv. 240987).

La motivazione è incentrata sul dato testuale che non vede riprodotta, nel tipo dell'art. 12 quinquies cit., la clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 648-bis c.p.: "Nell'art. 648 bis c.p. è espressamente prevista la non configurabilità del reato nelle ipotesi di concorso nel reato da cui il danaro, beni o altre utilità derivano; non altrettanto dicasi nel delitto di trasferimento fraudolento di valori, non avendo previsto il legislatore alcuna clausola di esclusione della responsabilità per l'autore dei reati che hanno determinato la produzione di illeciti proventi. E pertanto, secondo l'insegnamento di questa Corte, il soggetto attivo del delitto di cui al D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 quinquies, può essere anche colui nei cui confronti sia pendente il procedimento penale per il reato presupposto, che si attivi in qualunque forma al fine di agevolare la commissione del delitto di riciclaggio".

Un particolare rilievo nella materia delle infiltrazioni mafiose nell'economia legale assume l'ordinanza Sez. I, 1° ottobre 2013 - dep. 28 novembre 2013, n. 47221, Iavarazzo, che ha rimesso alle Sezioni Unite la risoluzione del contrasto sul tema se il concorrente nel reato associativo mafioso possa essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio e/o illecito reimpiego di beni provenienti dall'attività associativa mafiosa, quando il delitto presupposto dei beni sia individuato nello stesso reato associativo.

Il quesito presuppone la soluzione affermativa della preliminare questione inerente la possibilità che il delitto di associazione di tipo mafioso si atteggi, di per sé, a prescindere cioè dall'esecuzione di specifici reati-fine, quale fonte di ricchezza illecita riciclabile o reimpiegabile.

In questo senso risulta già essersi formato un consolidato orientamento giurisprudenziale.

Tra le pronunce in questione rilevano, per il più articolato discorso argomentativo, le pronunce Sez. I, 27 novembre 2008 - dep. 18 febbraio 2009, n. 6930, Ceccherini, Rv. 243223, e Sez. I, 27 novembre 2008 - dep. 16 gennaio 2009, Benedetti, Rv. 242665, nelle quali si afferma che: "In tema di riciclaggio, l'associazione per delinquere di stampo mafioso costituisce delitto da cui provengono il denaro o i beni sostituiti o trasferiti, posto che è l'associazione mafiosa in quanto tale, anche indipendentemente dalle attività cui si dedica, a rendere tali attività illegali, poiché esse sono perseguite e realizzate con lo strumento dell'omertà, dell'intimidazione o della violenza, senza neppure la necessità di una preventiva individuazione, da parte dell'associazione medesima, di un programma criminoso di reati - fine". L'avviso contrario è censurato sulla base di tre argomenti: a) il delitto di riciclaggio, così come riformulato dalla legge 9 agosto 1993, n. 328, in attuazione della Convenzione del Consiglio d'Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, è oggi svincolato dalla pregressa tassativa indicazione dei reati che potevano costituirne il presupposto, esteso attualmente a tutti i delitti non colposi previsti dal codice penale, ivi compreso il delitto di associazione di tipo mafioso; b) il catalogo degli scopi programmatici del sodalizio mafioso, contenuto nel comma terzo della norma incriminatrice, contempla la possibilità di una consorteria mafiosa che miri a trarre vantaggi o profitti da attività di per sé lecite (attività economiche, acquisizione di appalti pubblici) purché detto obiettivo sia perseguito con metodo mafioso, quale l'uso della forza intimidatrice dell'associazione, l'assoggettamento delle persone con tale timore, l'imposizione di atteggiamento omertoso: "è cioè possibile e anzi usuale che l'associazione mafiosa abbia tra i suoi scopi anche il perseguimento di attività di per sé formalmente lecite, conseguite attraverso il metodo mafioso che imponga, ad esempio, il monopolio di soggetti mafiosi in un certo settore attraverso la desistenza degli eventuali concorrenti; il che determina che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di altri diversi reati da qualificare come delitti fine dell'associazione"; c) il richiamo dell'art. 76, comma 4 bis del D.P.R. 115/2002, introdotto dalla legge n. 125/2008, disposizione che ha escluso dal patrocinio a spese dello Stato, tra gli altri, i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui all'art. 416 bis c.p., presumendo per costoro un reddito superiore ai limiti previsti (presunzione relativizzata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 139 del 16 aprile 2010), e che si presenta come una conferma legislativa della possibilità che il delitto di associazione mafiosa sia in grado ex se di produrre "lucrosi proventi".

Ferma questa premessa, il nucleo problematico si è trasferito sul tema oggi proposto alle Sezioni Unite (camera di consiglio fissata per il 27 febbraio 2014) in relazione al quale si fronteggiano due linee interpretative.

La prima - recentemente ripresa da Sez. I, 27 maggio 2011 - dep. 8 novembre 2011, n. 40354, Calabrese, Rv. 251166, e da Sez. II, 4 giugno 2013 - dep. 21 giugno 2013, n. 27292, Aquila, Rv. 255712 - per la quale il concorrente nel delitto associativo di tipo mafioso, non essendovi tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere alcun rapporto di "presupposizione" e non operando, pertanto, la clausola di riserva - "fuori dei casi di concorso nel reato" - che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio, può essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa, sia quando il delitto presupposto sia da individuarsi nei delitti fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell'associazione (Sez. II, 14 febbraio 2003 - dep. 6 marzo 2003, Bertolotti, n. 10582, Rv. 223689; Sez. II, 23 settembre 2005 - dep. 9 novembre 2005, n. 40793, Cardati, Rv. 232524; Sez. II, 8 novembre 2007 - dep. 27/11/2007, n. 44138, Rappa, Rv. 238311); sia quando il delitto presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso (Sez. I, 27 novembre 2008, Ceccherini, cit., nonché Sez. I, 27 novembre 2008, Benedetti, cit.).

Per il secondo indirizzo, invece, "una volta che il delitto associativo di tipo mafioso è da considerare per sé potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio (art. 648 bis) e di illecito reimpiego ... non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere l'operatività della cd. clausola di riserva - "fuori dei casi di concorso nel reato" - anche per esso" (così Sez. VI, 24 maggio 2012 - dep. 2 luglio 2012, n. 25633, Schiavone, Rv. 253010).

9. L'operatività delle presunzioni cautelari nelle ipotesi di concorso esterno.

La sentenza Sez. VI, 27 giugno 2013 - dep. 24 luglio 2013, n. 32412, Cosentino, Rv. 255751, affronta il tema del rapporto tra il concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa e la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari contenuta nell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.

Si ribadisce che la presunzione opera anche in materia di concorso esterno, ma si evidenziano i diversi ambiti della "prova contraria": "La presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari opera anche nel caso in cui sia contestata la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ma è superata se risulti esclusa, secondo una valutazione prognostica, la possibilità del ripetersi della situazione che ha dato luogo al contributo dell'extraneus alla vita della consorteria, a differenza di quanto rileva con riferimento alla partecipazione all'associazione mafiosa, giacché in tal caso, atteso l'evidenziarsi di una situazione di affectio societatis, la presunzione è vinta solo se siano acquisiti elementi tali da dimostrare in concreto un consistente allontanamento del soggetto rispetto all'associazione".

Si perviene così all'annullamento dell'ordinanza del tribunale del riesame che aveva ritenuto legittimo il rigetto della richiesta di revoca della misura custodiale eseguita nei confronti di un esponente politico cessato da tutte le cariche pubbliche e di partito, costituenti il presupposto fattuale delle condotte contestate, sulla base di una valutazione astratta in ordine alla perdurante esistenza del potere politico dell'indagato, omettendo qualsiasi riferimento a fatti recenti da cui inferire la prosecuzione dei suoi rapporti con il sodalizio.

La sentenza si allinea al principio dettato nella sentenza Sez. VI, 8 luglio 2011 - dep. 14 luglio 2011, n. 27685, Mancini, Rv. 250360.

Se dunque all'affiliato si chiede di dimostrare la stabile rescissione dei suoi legami con l'associazione perché questo è l'unico contegno che può significare il superamento dell'affectio giustificativa della presunzione di permanente pericolosità; al concorrente, scevro per definizione da affectio, basterà fornire la prova dell'irripetibilità del contributo, stabile o episodico, che egli ha fornito al clan.

Vengono così ripresi i principi enunciati nel settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, secondo i quali il giudizio di prognosi sfavorevole sulla pericolosità sociale dell'incolpato non è di per sé impedito dalla circostanza che l'indagato abbia dismesso la carica o esaurito l'ufficio nell'esercizio del quale aveva realizzato la condotta addebitata, purché il giudice fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla "mancata rilevanza della sopravvenuta cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell'imputato" (Sez. VI, 28 gennaio 1997 - dep. 14 maggio 1997, n. 285, Ortolano, Rv. 208889; Sez. VI, 16 dicembre 2009 - dep. 15 gennaio 2010, n. 1963, Rotondo, Rv. 245761). Si esige insomma che il giudizio di persistenza delle esigenze cautelari, sia ancorato al caso concreto, in modo che il rischio di ulteriori condotte illecite del tipo di quella contestata sia reso probabile da "una permanente posizione soggettiva dell'agente che gli consenta di continuare a mantenere, pur nell'ambito di funzioni o incarichi pubblici diversi, condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo e offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso" (Cass., VI, 10 marzo 2004 - dep. 11 maggio 2004, n. 22377, Pierri, Rv. 229526).

Vengono perciò censurate di astrattezza le valutazioni del giudice della cautela che inferiva dalla continuità operativa dell'associazione camorristica di riferimento (della quale però l'indagato non era ritenuto intraneo) e dall'apodittica affermazione di un residuo "potere politico" nella zona di influenza, il superamento dei fatti oggettivi costituiti dalla risalenza nel tempo degli ultimi comportamenti contributivi provati e dalla perdita di tutti gli incarichi istituzionali e politici, quegli stessi incarichi ai quali si riferivano le ordinanze cautelari genetiche per giustificare la sussistenza dei pericula libertatis.

A un ragionamento di tal fatta la Cassazione contrappone la massima di esperienza secondo la quale "le organizzazioni camorristico-mafiose non hanno interesse a servirsi di politici bruciati".

Un principio analogo è affermato nella sentenza Sez. I, 16 settembre 2013 - dep. 15 ottobre 2013, n. 42431, Scalzone, Rv. 256986, che, sempre in tema di concorso esterno, ha annullato con rinvio il provvedimento di riesame che aveva liquidato, con il succinto richiamo della presunzione di legge e dell'insussistenza di elementi idonei a sovvertirla, gli elementi oggettivi sintomatici della perdita di attualità delle esigenze cautelari originariamente configurabili a carico di un soggetto accusato di concorso esterno in associazione camorristica.

Detti elementi erano costituiti, oltre che dal tempo trascorso dagli ultimi fatti accertati (circa sette anni), dal sopravvenuto 'pentimento' degli esponenti apicali del sodalizio con i quali il ricorrente aveva intrattenuto le sue relazioni criminali; dal commissariamento dell'amministrazione comunale alla cui azione si riconducevano le condotte agevolatorie contestate; da alcune conversazioni intercettate che - documentando il proposito dell'imputato di non votare il proprio fratello, candidato alla guida dell'amministrazione comunale infiltrata, perché questi "non dovesse a vere a che fare con la delinquenza organizzata del posto" - segnalavano la dismissione dei rapporti con l'organizzazione criminale.

  • mafia
  • circostanza aggravante

Sezione II

Le circostanze aggravanti di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991.

Sommario

1 Puntualizzazioni e novità in tema di aggravanti previste dall'art. 7. - 2 L'aggravante agevolatoria di sodalizio mafioso. - 3 Le aggravanti previste dall'art. 7: ricadute sulla validità della contestazione. - 4 Le aggravanti previste dell'art. 7 e la presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere.

1. Puntualizzazioni e novità in tema di aggravanti previste dall'art. 7.

Nel corso del 2013, gli interventi giurisprudenziali hanno riguardato diversi profili inerenti all'art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203, investendo sia i profili sostanziali che quelli processuali.

In linea generale, gli orientamenti della Corte muovono, in relazione ad entrambi gli aspetti, dalla premessa dell'autonomia delle condotte connotate dalle due circostanze in questione - quella di aver agito con metodologia mafiosa e quella di aver agito al fine di agevolare un sodalizio di tipo mafioso - rispetto alla condotta di partecipazione ad associazione riconducibile allo schema dell'art. 416 bis cod. pen.

Le conseguenze derivate sono significative: in particolare, sul versante sostanziale, ai fini della configurabilità delle aggravanti, è esclusa la necessità che la condotta sia poste in essere da un partecipe ad un'associazione di tipo mafioso o, nel caso della fattispecie 'agevolatoria', sia finalizzata ad agevolare un'associazione la cui esistenza risulti provata con sentenza passata in giudicato; sul versante processuale, anche per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 57 del 2013, viene rimodulata l'operatività della presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia cautelare in carcere.

2. L'aggravante agevolatoria di sodalizio mafioso.

La pronunce sull'aggravante integrata dall'aver agito al fine di agevolare l'attività di un'associazione riconducibile al paradigma previsto dall'art. 416 bis cod. pen. hanno avuto riguardo, in particolare, alla natura oggettiva o soggettiva della stessa ed alla necessità della sua accessorietà ad associazioni di tipo mafioso la cui esistenza risulti dimostrata da sentenza irrevocabili.

Sul tema della natura dell'aggravante contemplata dall'art. 7 della legge n. 203/1991 nel reato plurisoggettivo, le sentenze Sez. II, 20 dicembre 2012 - dep. 23 gennaio 2013, n. 3428, Buonanno, Rv. 254776, e Sez. V, 8 novembre 2012 - dep. 8 marzo 2013, n. 10966, Minniti, Rv. 255206, hanno riaffermato il principio enunciato dalla sentenza Sez. VI, 22 gennaio 2009 - dep. 9 maggio 2009, n. 19802, Napolitano, Rv. 244261, secondo il quale, anche nella sua declinazione finalistica (quella che stigmatizza la finalità di agevolazione di un sodalizio mafioso), la circostanza ha natura oggettiva ai sensi dell'art. 70, primo comma, cod. pen., attenendo a "una modalità dell'azione in quanto rivolta ad agevolare un'associazione di tipo mafioso".

Da siffatta classificazione entrambe le pronunce inferiscono l'applicazione, nei casi di reato plurisoggettivo, della regola di attribuzione secondo la quale è sufficiente che l'elemento volitivo del dolo specifico sussunto nella fattispecie circostanziale (la volontà di agevolare il sodalizio mafioso) sussista in capo ad alcuni o anche a uno soltanto dei concorrenti; mentre per gli altri viene in rilievo il solo aspetto conoscitivo, da verificare secondo il dettato dell'articolo 59, comma secondo, cod. pen., e cioè secondo l'alternativa tra conoscenza effettiva e ignoranza o errore colpevole.

Per quanto attiene, invece, all'accessorietà dell'aggravante speciale nella sua declinazione agevolatoria ad associazioni di tipo mafioso, assume rilievo la sentenza Sez. II, 28 febbraio 2013 - dep. 22 marzo 2013, n. 13504, Pelle, Rv. 254909, che riguarda una pronuncia confermativa dell'ordinanza custodiale eseguita nei confronti di un soggetto indiziato del delitto di procurata inosservanza di pena, commesso in favore del capo di una cosca di 'ndrangheta che era stato così messo in condizione di "continuare a impartire le direttive per la gestione della 'ndrina senza correre il rischio di usare il telefono o di fare ritorno a casa".

Rispondendo a un motivo di ricorso incentrato sulla circostanza che il soggetto favorito non fosse mai stato condannato, all'epoca della condotta favoreggiatrice, per il delitto di associazione mafiosa, la Corte ha affermato il principio per il quale "la circostanza aggravante prevista dall'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge n. 203 del 1991, è configurabile anche se la condotta sia posta in essere in relazione ad associazione di tipo mafioso la cui esistenza non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato e se il dedotto capo di questa, destinatario della condotta agevolativa, sia stato precedentemente assolto da imputazioni relative al reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando l'operatività del sodalizio ed il ruolo svolto dal soggetto agevolato siano desumibili da risultanze acquisite successivamente alla sentenza di assoluzione".

3. Le aggravanti previste dall'art. 7: ricadute sulla validità della contestazione.

Significativi sono due interventi della Corte sul tema della contestazione dell'aggravante in parola e delle sue ricadute sulla validità dell'imputazione formulata nel decreto che dispone il giudizio (art. 429 cod. proc. pen.) e sul principio di correlazione tra la contestazione e la pronuncia (art. 521 cod. proc. pen.).

Nella sentenza Sez. II, 28 febbraio 2013 - dep. 22 marzo 2013, n. 13469, Basile, Rv. 255550, la Corte, allineandosi alla pronuncia Sez. I, 17 novembre 2011 - dep. 29 marzo 2012, n. 11742, Buono, Rv. 252275, afferma il principio per il quale "la contestazione di entrambi i profili che caratterizzano l'aggravante speciale di cui all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203 del 1991, quali l'utilizzo del metodo mafioso o la finalità di agevolazione mafiosa, non è illegittima, perché in presenza di condotte delittuose complesse e aperte all'una o all'altra modalità operativa od anche ad entrambe, essa amplia e non riduce le prerogative difensive".

La sentenza Sez. VI, 22 ottobre 2013 - dep. 8 novembre 2013, n. 45203, Paparo, Rv. 256870, ha ravvisato la violazione del principio di correlazione tra contestazione e pronuncia in una sentenza (del giudice d'appello) che "in presenza della contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, sub specie di agevolazione dell'associazione mafiosa, la ritenga invece sussistente con riferimento all'utilizzo del metodo mafioso".

Nella motivazione si evidenziano l'autonomia delle due ipotesi contemplate dalla disposizione, attestata dalla formula avversativa impiegata dal legislatore ("avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis cod. pen." o "per agevolare le associazioni previste nello stesso articolo") e la diversità del fatto contestato "in quanto l'agevolazione mafiosa presuppone la dimostrazione dell'esistenza di un'associazione, esclusa invece nell'ipotesi dell'utilizzo del metodo mafioso".

Si deduce pertanto che non può "ove sia contestata una specifica modalità della realizzazione della condotta che giustifica l'aggravamento di pena, senza una modifica della contestazione, ritenersi configurata l'una o l'altra fattispecie ivi considerata, poiché la possibilità attribuita al giudice dall'art. 521 cod. proc. pen. di qualificare giuridicamente le circostanze contestate in maniera difforme da quanto prospettato nell'imputazione, si muove necessariamente nell'ambito dell'identità del fatto contestato".

La sentenza della corte territoriale è stata pertanto, sul punto, annullata con rinvio ai sensi dell'art. 522 cod. proc. pen. con applicazione del principio estensivo dell'impugnazione di cui all'art. 587, comma 1, cod. proc. pen. in favore degli imputati che non avevano dedotto tale violazione.

4. Le aggravanti previste dell'art. 7 e la presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere.

Una significativa novità nella produzione giurisprudenziale dell'anno appena trascorso è intervenuta sul tema della portata della presunzione di esclusiva adeguatezza della misura custodiale carceraria nei confronti del soggetto raggiunto da gravi indizi di colpevolezza per un delitto aggravato ai sensi dell'art. 7 del d.l. n. 152/1991.

Con sentenza n. 57 del 25 marzo 2013, la Corte Costituzionale ha ribadito, nella materia che ci occupa, una linea tendente al ridimensionamento della portata della presunzione, trasformandola in una presunzione relativa, tale cioè da consentire l'adozione di misure diverse da quella carceraria, al cospetto di allegazioni e risultanze deponenti per la sufficienza di presidi meno afflittivi.

Quella tendenza aveva fino a quel momento interessato fattispecie diverse da quella associativa mafiosa, e in particolare: le fattispecie di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater c.p. (Corte Cost., 7-21.7.2010, n. 265); l'omicidio (Corte Cost., 9-12.5.2011, n. 164); l'associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti (Corte Cost., 19-22.7.2011 n. 231); l'associazione finalizzata alla commissione dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 c.p. (Corte Cost., 18.4-3.5.2012 n. 110). In tutti i casi precedentemente trattati, il giudice delle leggi era pervenuto alla 'relativizzazione' della presunzione di adeguatezza censurando la norma codicistica nella parte in cui "non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure".

Il percorso motivazionale che conduce al rilievo del contrasto della norma primaria con gli artt. 3, 13, primo comma, 27, secondo comma, Cost. è sostanzialmente il medesimo nelle cinque pronunce. La Corte stima irragionevole la massima esperienziale sottesa alla scelta generalizzante compiuta dal legislatore con l'estensione del regime presuntivo assoluto di adeguatezza esclusiva del carcere cautelare, quando la casistica criminologica e la concreta configurazione assunta dalle fattispecie nel diritto vivente denuncia la possibilità che esse possano in concreto presentarsi in forme che non giustificano il timore che misure diverse da quella maggiormente afflittiva risultino vane.

In particolare, nella sentenza Corte cost. n. 57/2013, si osserva che - essendo l'aggravante di cui all'art. 7 del d.l. n. 152/1991 configurabile anche quando sia evocato a fini intimidatori il patrocinio di un'organizzazione criminale in realtà inesistente o alla quale il soggetto non appartiene stabilmente; essendo la stessa circostanza collegabile anche a delitti di modesta portata lesiva; essendo ancora la circostanza configurabile (nella sua declinazione teleologica) anche quando la funzione agevolatoria mafiosa assegnata al reato non risulti poi conseguita - possono darsi casi nei quali il delitto, pur correttamente qualificato secondo la circostanza a effetto speciale, non denuncia in concreto la probabilità che il soggetto, ove sottoposto a misure meno afflittive, sia protetto dalle strutture dell'associazione criminale preposte alla protezione dei latitanti; o che scelte cautelari più miti lascino permanere il vincolo di appartenenza al contesto associativo e la correlata disponibilità.

Occorre però precisare che non è possibile leggere nel trend seguito dalle cinque pronunce della Corte la messa in discussione della base empirica (e dunque della ragionevolezza) della presunzione generalizzata inerente invece la fattispecie di partecipazione al sodalizio di tipo mafioso.

Al contrario, quel delitto (al quale era originariamente circoscritto il regime presuntivo) rappresenta nel discorso della Corte un parametro di ragionevolezza della presunzione, tanto che le fattispecie diverse venute alla sua attenzione vengono espunte dalla portata della presunzione assoluta, proprio perché potenzialmente distanti, nei casi concreti, dalla situazione che giustifica la generalizzazione congegnata per i soggetti indiziati di partecipazione ad associazioni mafiose: "Se la congrua base statistica della presunzione in questione è collegata all'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso - osserva la sentenza n. 57/2013, richiamando la precedente n. 164/2011) - una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta 'appartenenza' non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido".

L'intervento della giudice delle leggi sull'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., sollecitato da due ordinanze di rimessione delle Sezioni Unite (19 luglio 2012 - dep. 10 settembre 2012, n. 34473, Lipari, Rv. 253186, e 34474, Ucciero, n. mass.), ha determinato una presa d'atto dell'avvenuta relativizzazione della presunzione di adeguatezza che, pur operando sia nella fase genetica che in quella dinamica del procedimento applicativo, è oggi aperta alla possibilità della "prova contraria". Si segnalano, in particolare, tre pronunce, secondo le quali:

"In tema di misure cautelari, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 57 del 25 marzo 2013, la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui al comma terzo dell'art. 275 cod. proc. pen., per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis cod. pen. può essere superata quando, in relazione al caso concreto, siano acquisiti elementi specifici dai quali risulta che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure" (Sez. II, 30 aprile 2013 - dep. 15 maggio 2013, n. 20881, Esposito, Rv. 256072);

"In tema di misure cautelari, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 57 del 2013, la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui al terzo comma dell'art. 275 cod. proc. pen. per i delitti aggravati ex art. 7 del D.L. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203 del 1991, può essere superata quando, in relazione al caso concreto, siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure" (Sez. I, 27 giugno 2013 - dep. 10 luglio 2013, n. 29530, De Carlo, Rv. 256634);

"La presunzione di adeguatezza della custodia cautelare per i reati di "contesto mafioso", diversi da quelli di partecipazione o concorso nell'associazione prevista dall'art. 416 bis cod. pen., divenuta relativa per effetto della sentenza della Corte costituzionale del 29 marzo 2013, n. 57, può essere superata se il giudice individua analiticamente elementi di positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fatto" (Sez. II, 12 aprile 2013 - dep. 17 luglio 2013, Brancato, Rv. 256558).

Assume rilievo nelle decisioni la sottolineatura della "multiforme realtà storica coperta dall'aggravante", che impone di distinguere tra fatti che siano soltanto pertinenti al "contesto mafioso" e fatti che invece rivelino (o si associno alla prova de) l'esistenza di un sodalizio e dell'appartenenza al medesimo del soggetto indiziato del delitto aggravato ex art. 7 cit.

La considerazione riprende un passaggio cruciale della sentenza della Corte costituzionale (espressamente citato nella decisione Brancato), per il quale "la posizione dell'autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto "metodo mafioso" o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, si rivela non equiparabile a quella dell'associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale la presunzione delineata dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. risponde a dati di esperienza generalizzati".

Essa corrisponde al consolidato insegnamento della Corte di cassazione [Sez. Un. 22 gennaio 2001 - dep. 27 aprile 2001, n. 10, Cinalli, Rv. 218378; Sez. VI, 2 aprile 2007 - dep. 31 maggio 2007, n. 21342, Mauro, Rv. 236628; Sez. VI, 22 gennaio 2009 - dep. 9 maggio 2009, n. 19802, Napolitano, Rv. 244261; Sez. VI, 26 maggio 2011 - dep. 15 luglio 2011, n. 28017, Mitidieri, Rv. 250541; Sez. I, 2 aprile 2012 - dep. 10 maggio 2012, n. 17532, Dolce, Rv. 252649] così compendiato nella motivazione della sentenza De Carlo: "l'aggravante prevista dall'art. 7 cit., in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzino gli estremi, tanto se siano partecipi di un qualche sodalizio mafioso, oppure ne siano estranei con la conseguente riferibilità anche nei confronti di chi, pur non organicamente inserito in associazioni mafiose, agisca con metodi mafiosi".

La distinzione tra i fatti aggravati ex art. 7 cit. commessi dal soggetto intraneo o concorrente al delitto associativo permanente e quelli commessi dal soggetto che ad esso sia invece rimasto estraneo, postulata dal giudice delle leggi quale argomento di irragionevolezza della 'presunzione assoluta', diviene per la Corte di cassazione specifico (ma non esclusivo) criterio di riferimento indicato al giudice che sia chiamato a valutare l'eventuale adeguatezza di misure meno afflittive: "Con l'avvenuta trasformazione della presunzione da assoluta a relativa il giudice, pertanto, nell'applicare nel caso concreto una misura diversa dalla custodia in carcere, dovrà individuare analiticamente elementi di positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fatto. E questa attività ermeneutica dovrà trovare i suoi paletti di riferimento specifici, in base all'affermazione della Corte costituzionale, a seconda che emerga "l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso ovvero la sua estraneità ad esse" (Sez. II, 12 aprile 2013, Brancato, cit.).

Resta fermo che, anche in presenza del delitti aggravato ex art. 7 commesso dall'intraneo o dal concorrente esterno, la stessa necessità del presidio cautelare può essere superata dalla prova contraria ammessa dall'art. 275, comma 3 in relazione al profilo della sussistenza delle esigenze di cautela.

  • associazione
  • circostanza aggravante

Sezione III

L'aggravante della transnazionalità

Sommario

1 Punti fermi e precisazioni giurisprudenziali in tema di aggravante della transnazionalità. - 2 La pronuncia delle Sezioni unite. - 3 Le successive decisioni delle Sezioni semplici.

1. Punti fermi e precisazioni giurisprudenziali in tema di aggravante della transnazionalità.

Nel corso del 2013, la questione della astratta riferibilità dell'aggravante della transnazionalità anche ai reati associativi è approdata alle Sezioni Unite, che, risolvendo il contrasto manifestatosi nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, hanno fissato precisi principi sui caratteri costitutivi della circostanza in questione e sui rapporti tra la stessa e le fattispecie incriminatrici in materia di reati di associazione per delinquere.

Inoltre, sulla scia di questa decisione delle Sezioni Unite, ulteriori puntualizzazione sono state offerte da successive pronunce delle Sezioni semplici.

2. La pronuncia delle Sezioni unite.

Le Sezioni Unite, con sentenza 31 gennaio 2013 - dep. 23 aprile 2013, n. 18374, Adami, Rv. 255033-255038, si sono pronunciate su questione sollevata con riferimento ad una fattispecie associativa, finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di reati di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale, ed altri illeciti di evasione dell'imposizione fiscale, diretta ed indiretta, per notevoli importi. Il sodalizio criminale faceva capo ad uno studio di commercialisti, del quale erano parte alcuni imputati, con ruolo di organizzatori di un complesso meccanismo fraudolento, che prevedeva essenzialmente il progressivo svuotamento del patrimonio di diverse società attraverso: la costituzione di società fittizie, riconducibili allo stesso gruppo; simulate relazioni negoziali tra le stesse e le società capogruppo; il trasferimento di interi rami di azienda e di ingenti risorse finanziarie; intestazioni fittizie di beni societari. Alcune delle società fittiziamente create avevano, peraltro, sede all'estero, grazie al contributo fornito da soggetti ivi operanti e da prestanome. La contestazione aveva ad oggetto anche una serie di reati-fine di bancarotta fraudolenta impropria, e di reati tributari, oltre che di appropriazione indebita e riciclaggio, in gran parte aggravati dalla circostanza di cui all'art. 4 legge n.146 del 2006, in considerazione del collegamento funzionale con i citati nuclei operanti all'estero e dello svolgimento di attività illecite anche fuori del territorio nazionale.

La questione di diritto controversa era relativa alla compatibilità della circostanza aggravante ad effetto speciale della c.d. transnazionalità, prevista dall'art. 4 della legge 16 marzo 2006, n.146, con il reato di associazione per delinquere, ovvero la sua applicabilità ai soli reati-fine.

In motivazione, preliminarmente, si rileva l'esistenza, nella giurisprudenza di legittimità, di un duplice orientamento interpretativo, evidenziando, in particolare, come un maggior numero di decisioni si fossero pronunciate nel senso che la circostanza potesse operare anche con riferimento ai reati associativi[11] mentre altra sentenza, in contrario avviso, aveva ritenuto che l'aggravante potesse essere applicata ai soli reati fine e non a quello associativo[12]. L'esistenza di un contrasto ermeneutico era stata, inoltre, rimarcata anche da una relazione dell'ufficio del massimario, fin dall'aprile del 2011[13]. L'opzione favorevole alla compatibilità tra aggravante speciale e reato associativo, con accenti motivazionali differenti nelle diverse pronunce che l'hanno adottata, mette in risalto: l'assenza di ostacoli di ordine formale e testuale a ritenere tale compatibilità; la non sovrapponibilità dell'organizzazione internazionale a quella interna; la sola necessità, ai fini dell'applicazione dell'aggravante, che il gruppo criminale organizzato, attivo a livello internazionale, fornisca il proprio contributo alla commissione di un reato (per il quale sia prevista la pena non inferiore nel massimo a quattro anni). Il differente orientamento fatto proprio, invece, da un'unica pronuncia (Sez. V, 15 dicembre 2010 - dep. 21 gennaio 2011, n. 1937, Dalti, Rv. 249099), emessa in tema di associazione a delinquere dedita al narcotraffico, ipotizza un'incompatibilità ontologica, in via astratta, tra aggravante della transnazionalità e fattispecie associativa, postulando l'identità tra "gruppo" e "associazione" criminali e limitando l'accessibilità della circostanza speciale ai soli reati-fine dell'associazione costituenti la diretta manifestazione dell'attività del gruppo criminale organizzato ovvero a quelli ai quali il gruppo stesso abbia fornito un contributo causale.

Le Sezioni Unite risolvono la questione controversa loro sottoposta nel senso che la speciale aggravante della transnazionalità, prevista dall'art. 4 della legge n. 146 del 2006, è applicabile al reato associativo, semprechè il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l'associazione a delinquere.

A tal fine, la decisione premette un approfondito richiamo al contesto normativo di riferimento nel quale è stata introdotta l'aggravante: la legge n. 146 del 2006, intitolata "Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001", disciplina che ha ad oggetto prioritario la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite, sottoscritta nel corso della Conferenza di Palermo del 12-15 dicembre 2000, divenuta nota come "Convenzione di Palermo" o "Toc Convention" (Transnational organized crime convention)[14], e relativi protocolli aggiunti. La sentenza enuclea lo scopo di tale Convenzione dall'art.1 della medesima disciplina pattizia che lo indica nella necessità di promuovere la cooperazione degli Stati-parte per prevenire e combattere il crimine organizzato transnazionale in maniera più efficace, stante la sua rilevata, estrema pericolosità. In tale quadro di obiettivi di politica criminale, il legislatore ha configurato l'aggravante speciale dell'art. 4 della citata legge n. 146 del 2006 prevedendo che, per i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

Il ragionamento che la Suprema Corte pone alla base della soluzione adottata rileva come non vi siano motivi né di ordine testuale, riferiti alla struttura normativa e letterale della circostanza aggravante della c.d. transnazionalità, né di ordine logico - sistematico, che inducano a ritenere l'incompatibilità in astratto tra l'aggravante citata e il reato associativo in quanto tale. Si afferma, infatti, che l'art. 4 della legge n. 146 del 2006 riferisce con chiarezza l'aggravante a qualsiasi tipologia di reato, non escludendone alcuno (essendo posta dalla norma un'unica condizione nel limite minimo di pena prevista), né tantomeno offrendo spunti per l'applicabilità della circostanza speciale ai soli reati-fine e non anche al reato associativo al quale essi sono ricollegabili: per la configurabilità dell'aggravante speciale della transnazionalità, si richiede, invece, dal punto di vista sostanziale, che la commissione di un qualsiasi reato in ambito nazionale, purchè punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, sia stata determinata o anche solo agevolata, in tutto o in parte, dall'apporto di un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività illecite in più di uno Stato.

Le Sezioni Unite proseguono nella ricostruzione della questione individuando quello che viene definito un "equivoco di fondo" nell'orientamento favorevole all'incompatibilità, e cioè l'identificazione o la sovrapposizione dell'associazione per delinquere con il gruppo criminale organizzato e transnazionale. Tale possibilità, infatti, viene indicata dalla sentenza come solo eventuale e, qualora si verificasse, darebbe luogo ad inapplicabilità dell'aggravante anche secondo il ragionamento delle Sezioni Unite, non potendosi ipotizzare - si afferma - "l'esistenza di un gruppo criminale che contribuisca all'esistenza di se stesso". Ed invece, secondo la motivazione della sentenza Adami, il testo dell'art. 4 cit. postula proprio "alterità" tra il soggetto agente (il gruppo organizzato, configurabile in presenza delle condizioni indicate all'art. 2, punti a) e c) della Convenzione ONU del 15 novembre 2000, cd. Convenzione di Palermo) e la realtà plurisoggettiva beneficiaria (l'associazione criminale), ampliando il ragionamento, in chiave giuridica, sino all'affermazione che "il gruppo criminale organizzato è certamente un quid pluris rispetto al mero concorso di persone, ma si diversifica anche dall'associazione a delinquere di cui all'art. 416 cod. pen. che richiede un'articolata organizzazione strutturale, seppure in forma minima od elementare, tendenzialmente stabile e permanente, una precisa ripartizione di ruoli e la pianificazione di una serie indeterminata di reati".

Secondo la pronuncia, il maggior tasso di disvalore insito nell'aggravante deriva dall'essersi avvalsi, per la commissione di un reato, del contributo offerto da "un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato" ed impone necessariamente l'autonomia della condotta che integra il reato "comune" rispetto a quella che realizza il "contributo" prestato dal gruppo "transnazionale". Si rileva che, se i due fatti coesistessero all'interno di una sola condotta, "mancherebbe la ragione d'essere per ipotizzare la diversa - e più grave - lesione del bene protetto" (in tale caso, si dice, si avrebbe un'unica associazione per delinquere "transnazionale", da ritenersi fattispecie complessa, ai sensi dell'art. 84, comma primo, cod. pen., in cui la circostanza aggravante verrebbe a porsi come elemento costitutivo del reato associativo transnazionale, che rimarrebbe comunque una "ordinaria" fattispecie di associazione per delinquere con lo speciale connotato della transnazionalità). Si specifica, inoltre, che la transnazionalità non è un elemento costitutivo di una autonoma fattispecie di reato, ma un predicato riferibile a qualsiasi delitto, a condizione che questo sia punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, sia ricollegabile ad un gruppo criminale organizzato, anche se operante solo in ambito nazionale, e ricorra, in via alternativa, una delle seguenti situazioni: a) il reato sia commesso in più di uno Stato; b) il reato sia commesso in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato; c) il reato sia commesso in uno Stato, con implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) il reato sia commesso in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in altro Stato.

In tale prospettiva, si afferma la necessità di procedere alla verifica sul se, ed in che limiti, il contributo di un gruppo organizzato transnazionale possa costituire una autonoma condotta "aggravatrice" rispetto alla stessa fattispecie associativa.

Le Sezioni Unite indicano la strada per tale operazione ermeneutica, stabilendo che, ai fini della possibilità di configurare tale aggravante con riferimento al reato associativo, occorre che "quel contributo - ancorché realizzato in forma associativa - debba ontologicamente rappresentare una condotta materialmente scissa da quella che è necessaria per realizzare la fattispecie-base." Da tale affermazione può dedursi, da un lato, che l'aggravante in questione non risulta applicabile alla fattispecie della associazione per delinquere in tutti i casi in cui le due condotte associative coincidano sul piano strutturale e funzionale, dando luogo ad un'unica associazione transnazionale. Dall'altro, che la medesima aggravante è, invece, applicabile alla fattispecie associativa nell'ipotesi in cui l'associazione per delinquere sia autosufficiente rispetto al contributo del gruppo criminale esterno e transnazionale (e cioè "basti a se stessa", secondo la locuzione utilizzata in sentenza), nel senso che i relativi associati, o parte di essi, ed il programma criminoso del sodalizio realizzino il fatto-reato indipendentemente dal citato contributo esterno. In tal caso è possibile ritenere che, alla condotta associativa base, se ne possa affiancare un'altra, necessariamente autonoma, finalizzata ad estendere le potenzialità e le azioni criminali del sodalizio in campo internazionale, poiché quando tale contributo agevolativo e rafforzativo viene fornito da persone che, in modo organizzato, sono chiamate a prestare tale collaborazione, il reato-base assume connotati di intrinseca maggiore pericolosità, tali da giustificare l'applicazione della aggravante in questione.

3. Le successive decisioni delle Sezioni semplici.

I principi affermati dalle Sezioni Unite sono stati ripresi e puntualizzati da successive decisioni delle Sezioni semplici.

In particolare, Sez. I, 4 aprile 2013 - dep. 9 maggio 2013, n. 20020, Nettuno, Rv. 256031, ha precisato che l'aggravante della transnazionalità prevista dall'art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146, se richiede il coinvolgimento nella commissione del reato di una organizzazione internazionale impegnata in attività criminali in più stati, non esige, però, che i soggetti agenti siano tutti partecipi di un'associazione internazionale.

Sez. VI, 2 luglio 2013 - dep. 23 luglio 2013, n. 31972, Ruberto, Rv. 255887, invece, nel ribadire che, ai fini della configurabilità dell'aggravante in questione, è necessario che la commissione del reato sia determinata o anche solo agevolata, in tutto o in parte, dall'apporto di un gruppo criminale organizzato, distinto da quello cui è riferibile il reato, ed impegnato in attività illecite in più di uno stato, ha rilevato che deve escludersi la ravvisabilità della circostanza sulla base della sola espansione all'estero dell'attività criminosa.

  • confisca di beni

Sezione IV

Le misure di prevenzione patrimoniali: la confisca

Sommario

1 La confisca di prevenzione: dialettica e puntualizzazioni giurisprudenziali. - 2 La possibile rilevanza della pericolosità del proposto ai fini della confisca di prevenzione. - 3 Il contrasto di giurisprudenza sulla natura della confisca di prevenzione. - 4 Rapporti tra confisca di prevenzione e confisca "per sproporzione".

1. La confisca di prevenzione: dialettica e puntualizzazioni giurisprudenziali.

La materia delle misure di prevenzione patrimoniale e della confisca in particolare ha negli ultimi anni impegnato la giurisprudenza anche a causa di importanti modifiche normative apportate al sistema.

Negli ultimi anni, la c.d. confisca di prevenzione è divenuta possibile, da un lato, per forme di pericolosità "generiche", non necessariamente connesse ai fenomeni mafiosi, e, dall'altro, anche in assenza di una 'attuale' pericolosità del proposto: in particolare, a partire dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. in l. 24 luglio 2008, n. 125, e poi, a seguire, dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, e dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cd. 'codice antimafia'), è consentito al giudice di applicare le misure di prevenzione patrimoniali prescindendo dalla verifica del perdurare della pericolosità del proposto al momento della decisione.

E' sorta, però, in giurisprudenza, la questione se la pericolosità del proposto non abbia, in assoluto, più alcun rilievo o se di essa occorra comunque tenere conto, avendo riguardo però al momento dell'acquisizione del bene e non più a quello dell'irrogazione della confisca.

L'indicata evoluzione normativa, inoltre, ha fatto dubitare se questa forma di confisca abbia mutato la sua natura di misura di prevenzione per trasformarsi in una vera e propria ipotesi di sanzione, sia pure sui generis, a cui sarebbero, di conseguenza, applicabili i principi di irretroattività di cui all'art. 2 cod. pen.

Ancora, le riforme intervenute, seppure di sistema, non hanno risolto il problema delle interferenze tra confisca di prevenzione e confisca (o sequestro) cd. 'per sproporzione' disposta in sede penale, lasciando ampi margini alla giurisprudenza.

In generale, può dirsi che le soluzioni raggiunte sembrano in prevalenza individuare, ovviamente laddove è possibile, una trama di continuità con la precedente elaborazione giurisprudenziale.

2. La possibile rilevanza della pericolosità del proposto ai fini della confisca di prevenzione.

Si è detto in premessa che, a seguito delle indicate riforme legislative, il giudice può disporre la confisca di prevenzione anche se non risulta (o è esclusa) l'attualità della pericolosità del proposto al momento della decisione.

Resta però aperto il discorso sulla necessità che detta pericolosità sussista al momento dell'acquisizione del bene da sottoporre ad ablazione.

L'esigenza di tale requisito è stata affermata da Sez. VI, 18 ottobre 2012 - dep. 4 maggio 2013, n. 10153, Coli, Rv. 254545. Questa decisione, infatti, ha precisato che il principio di reciproca autonomia tra le misure personali e patrimoniali - previsto dall'art. 2-bis, comma 6-bis, della legge 31 maggio 1965, n. 575, così come modificato dall'art. 2, comma 22 della 15 luglio 2009, n. 94 - consente di applicare la confisca prescindendo dal requisito della pericolosità del proposto al momento dell'adozione della misura, ma richiede che essa sia comunque accertata con riferimento al momento dell'acquisto del bene, oggetto della richiesta ablatoria.

La ragione della necessità di questo presupposto, ad avviso della sentenza, si individua nell'obiettivo, perseguito dal legislatore, di colpire i patrimoni illecitamente acquisiti. E' in questa ottica che è venuto meno il nesso di accessorietà tra misura personale e patrimoniale e che è più necessaria la previa applicazione (o esecuzione) della misura personale: questa può mancare per carenza, non della pericolosità, ma di un suo ulteriore presupposto (residenza all'estero, morte, cessazione dell'attualità della pericolosità, cessazione della misura); resta in ogni caso necessario l'accertamento, anche se incidentale, della pericolosità del titolare del bene.

In altri termini, e sulla base di queste scelte del legislatore, da un lato, il bene viene colpito non solo se ricorrono gli ordinari presupposti dell'illecita provenienza, ma anche se è stato acquistato da persona che era, all'epoca, pericolosa. Dall'altro, il mero decorso del tempo, o comunque la cessazione della pericolosità del soggetto (ovvero, qualunque ragione che non consenta di applicare la misura di prevenzione), non possono avere l'effetto positivo di rendere lecito il possesso del bene da parte di colui che lo ha illecitamente acquisito (quando era pericoloso) o ne trae la conseguente utilità, sia pure di riflesso, quale successore a titolo universale o particolare.

3. Il contrasto di giurisprudenza sulla natura della confisca di prevenzione.

Un contrasto giurisprudenziale si è delineato sul tema della natura della confisca di prevenzione quando venga applicata in assenza del requisito dell'attualità della pericolosità, e precisamente in ordine alla sua qualificabilità in termini di sanzione o di misura preventiva. Le conseguenze sono di immediata evidenza e di incidente ricaduta operativa: la prima opzione ermeneutica implica l'irretroattività della nuova disciplina e, quindi, l'impossibilità di disporre la misura ablatoria; la seconda, invece, consente un risultato diametralmente opposto, in applicazione della previsione di cui all'art. 200 cod. proc. pen.

La sentenza Sez. V, 13 novembre 2012 - dep. 25 marzo 2013, n. 14044 Occhipinti, Rv. 255043, esclude che la confisca possa essere applicata in modo autonomo dalle misure di prevenzione personale per le fattispecie realizzatesi prima dell'entrata in vigore della legge n. 94 del 2009.

A fondamento di tale conclusione, la pronuncia precisa che il venir meno del presupposto della pericolosità sociale attribuisce natura oggettivamente sanzionatoria alla misura di prevenzione patrimoniale, con la conseguenza che ad essa è applicabile il regime di irretroattività previsto dall'art. 11 delle preleggi e non il disposto dell'art. 200 cod. pen.

L'iter argomentativo della sentenza prende l'avvio dalle citate modifiche normative del 2008 e del 2009 e si concentra sulle novità introdotte nel sistema delle misure di prevenzione analizzando, in particolare, come esse abbiano inciso sulla struttura della confisca. La Corte premette che, a partire dal 2009, deve considerarsi "senz'altro possibile disporre una misura di prevenzione patrimoniale pure in difetto del presupposto di un'attuale pericolosità sociale del soggetto destinatario della misura". Tale possibilità, però, va esclusa con riferimento alle vicende pregresse, non potendosi fare applicazione dell'art. 200 cod. pen., "la cui operatività si fonda, invece, su un accertamento di pericolosità in atto".

La lettura secondo cui l'articolo del codice penale richiederebbe quale presupposto indispensabile la pericolosità individuale attuale viene supportata dai giudici della Sez. V, anche sulla base di un argomento tratto da un precedente giurisprudenziale riguardante la cosiddetta confisca per equivalente, introdotta nell'art. 2 ter della l. n. 575 del 1965, dall'art. 10 del d.l. n. 92 del 2008, conv. in l. n. 125 del 2008. Invero, in un arresto della Sez. I, 28 febbraio 2012 - dep. 29 marzo 2012, n. 11768, Barillari, Rv. 252297, questa peculiare forma ablatoria era stata qualificata in termini di sanzione proprio sul presupposto che non potesse individuarsi alcun rapporto tra essa e la pericolosità individuale del reo e si era, di conseguenza, escluso potesse irrogarsi a fattispecie precedenti l'entrata in vigore della novella legislativa. Riprendendo questo discorso, la sentenza Sez. V, 13 novembre 2012, Occhipinti, cit., afferma che i medesimi parametri utilizzati per escludere il carattere preventivo nella speciale ipotesi di confisca per equivalente possono di certo essere esportati alla confisca di prevenzione, quantomeno in quei casi in cui è divenuto possibile infliggerla senza dover accertare la pericolosità attuale del titolare del bene: si afferma, infatti, che "appare [...] arduo, almeno con riferimento ad ipotesi in cui la misura di prevenzione patrimoniale possa addirittura svincolarsi da un necessario accertamento di attuale pericolosità sociale del proposto, continuare ad escluderne una natura oggettivamente sanzionatoria".

In consapevole contrasto con la suddetta pronuncia, però, si pone Sez. I 17 maggio 2013 - dep. 23 settembre 2013, n. 39204, Ferrara, Rv. 256141. Questa sentenza, infatti, enuncia il principio di diritto secondo cui la previsione contenuta nella legge n. 94 del 2009, che modificando l'art. 2 bis della legge n. 575 del 1965, consente al giudice di irrogare le misure di prevenzione patrimoniali anche prescindendo dalla verifica della pericolosità attuale del proposto, si applica anche alle fattispecie realizzatesi prima dell'entrata in vigore della legge citata.

In proposito, la Corte rappresenta che il venir meno del presupposto della pericolosità sociale non ha modificato la natura della confisca di prevenzione, da intendersi sempre come sanzione amministrativa, equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza della confisca di cui all'art. 240, comma secondo, cod. pen., per cui ad essa si applica il disposto dell'art. 200 cod. pen. e non, invece, quello dell'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile.

Il percorso motivazionale prende l'avvio proprio dalle importanti modifiche introdotte negli ultimi anni nel sistema delle misure di prevenzione patrimoniali. In particolare, prima con il d.l. n. 92 del 2008, conv. in l. n. 125 del 2008 e poi con la l. n. 94 del 2009 si è "definitivamente spezzato il nesso di necessaria presupposizione tra misure personali e misure reali, richiedendo unicamente, ai fini della confisca, l'accertamento incidentale della riconducibilità del proposto in una delle categorie dei potenziali destinatari dell'azione di prevenzione". Questa novità ha imposto all'attenzione dell'interprete l'interrogativo sulla natura che è chiamata ad assumere oggi la confisca di prevenzione e cioè se essa possa continuare ad essere considerata - così come aveva ritenuto, all'esito di un articolato dibattito giurisprudenziale, Sez. Un., 3 luglio 1996 - dep. 17 luglio 1996, n. 18, Simonelli, Rv. 205262 - "una sanzione amministrativa, equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza prescritta dall'art. 240, comma secondo, cod. pen.", o se, invece, essa non abbia del tutto perso i caratteri di misura di carattere preventiva per trasformarsi in una vera e propria sanzione di carattere sostanzialmente penale.

All'interrogativo in questione, Sez. V, 17 maggio 2013, Ferrara, cit., risponde nel senso che la riforma "non ha comportato alcun riassestamento teleologico dell'istituto" e, quindi, non ne ha affatto modificato la natura e di conseguenza lo statuto normativo che resta quello delle misure di sicurezze (che comporta, quanto al tema qui di interesse della successione nelle leggi nel tempo, l'applicazione dell'art. 200 cod. pen.) e non quello delle pene vere e proprie pene (che avrebbe imposto sul punto indicato il criterio molto più rigoroso dell'art. 2 cod. pen.).

Questa conclusione viene fatta derivare, in primis, proprio dalla lettura dell'art. 200 cod. pen. L'applicabilità di quest'ultima disposizione, infatti, in materia di misure di sicurezza patrimoniali - cui sono assimilate, sia pure a tale limitato fine, le misure di prevenzione patrimoniali - avviene "non già in via diretta, ma per effetto del richiamo operato dall'art. 236 cod. pen., che ha cura di selezionare con puntualità le disposizioni applicabili anche alle misure patrimoniali, ovviamente sul presupposto, implicito ma inequivoco, che la diversità strutturale fra i due tipi di misure impedirebbe la naturale estensione di disciplina dettata espressamente per le prime". Il legislatore del codice penale, quindi, ha tenuto presente che le misure di sicurezza personali e patrimoniali sono fisiologicamente diversificate sul piano strutturale; per le prime, infatti, il presupposto della pericolosità attuale è per sua natura - si potrebbe dire ontologicamente - indispensabile; sarebbe, infatti, "irragionevole ipotizzare che ad una persona non più pericolosa si possano applicare misure di sicurezza personali"; per le seconde, invece, il concetto di pericolosità non riguardando una persona ma una res può ben essere inteso in modo diverso e, quindi, prescindere da qualunque valutazione dell'attualità della sua pericolosità e ciò "perché la strutturale staticità dei beni non consente evoluzioni apprezzabili sul piano del giudizio di pericolosità".

Questa indicata caratteristica strutturale della misura ablatoria - e cioè il bene è pericoloso perché illecitamente acquisito - consente di fornire una spiegazione razionale agli interventi novellatori del legislatore del 2008 e del 2009; essi hanno modificato solo in parte e senza snaturarne la funzione quello che era stato l'approccio normativo precedente. In passato, infatti, i beni venivano confiscati oltre che perché di illegittima provenienza, anche perché nella disponibilità di persone socialmente pericolose; oggi l'idea di una nuova prevenzione patrimoniale è quella di "concentrare l'attenzione sulla pericolosità del bene, connessa direttamente alla modalità di acquisto". Ciò, del resto, non significa affatto che la pericolosità personale del titolare diretto o indiretto della res sia divenuta del tutto irrilevante: "Il vero è che l'interesse pubblico all'eliminazione dal circuito economico di beni di sospetta illegittima provenienza, per l'appartenenza del titolare ad associazioni di tipo mafioso, sussiste per il solo fatto che quei beni siano andati ad incrementare il patrimonio del soggetto e prescinde dal fatto che perduri in capo a quest'ultimo lo stato di pericolosità, perché la finalità preventiva che si intende perseguire con la confisca risiede proprio nell'impedire che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza, quale che sia la condizione del soggetto che si trovi a farne in qualsiasi modo uso".

Conformemente alla sentenza Sez. I, 17 maggio 2013, Ferrara, cit. si esprime anche Sez. VI, 15 gennaio 2013 - dep. 4 giugno 2013, n. 24272, Pascali, Rv. 256804.

Questa decisione, in particolare, rileva che la disciplina prevista dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, che consente l'adozione della confisca di prevenzione anche prescindendo dalla verifica dell'attualità della pericolosità del proposto, è applicabile pure ai procedimenti pendenti alla data della sua entrata in vigore.

La base della riferita regula iuris viene individuata, in termini sintetici, ma sicuramente significativi sotto il profilo sistematico, nel fatto che "il principio di irretroattività della legge penale riguarda le norme incriminatrici e non le misure di sicurezza".

Si può aggiungere, ancora, per completezza, che la possibilità di applicare "retroattivamente" la nuova disciplina della legge n. 94 del 2009 è riconosciuta anche da Sez. VI, 18 dicembre 2012 - dep. 4 marzo 2013, n. 10153, Coli, Rv. 254545, e da Sez. VI, 10 ottobre 2012 - dep. 10 gennaio 2013, n. 1282, Vittoriosi, Rv. 254220, le quali, pur senza affrontare specificamente il tema, hanno dato praticamente per scontata questa soluzione.

4. Rapporti tra confisca di prevenzione e confisca "per sproporzione".

Nel 2013 la giurisprudenza della Suprema Corte si è ripetutamente occupata anche della questione riguardante i rapporti tra la confisca di prevenzione e la c.d. confisca per sproporzione disposta in sede penale.

Le due figure, che presentano una serie di affinità di ordine funzionale e strutturale, possono dal punto di vista pratico, "sovrapporsi" o "interferire" fra loro. Su di uno stesso bene, infatti, possono intervenire entrambe le confische (e prima di esse i provvedimenti cautelari di sequestro) o possono essere avanzate richieste di sequestro/confisca delle due diverse tipologie.

Proprio in relazione a questo secondo aspetto, con particolare riferimento alle conseguenze del rigetto della richiesta di una misura ablatoria (sequestro o confisca di prevenzione, o, invece, 'per sproporzione') sull'altra, è intervenuta una significativa elaborazione giurisprudenziale.

In effetti, la questione, mai affrontata in termini normativi in nessuna delle tante modifiche che hanno riguardato le due forme di confisca, è stata invece posta in numerose occasioni processuali da parte, soprattutto, dei destinatari dei provvedimenti di sequestro/confisca. E' stata, ad esempio, più volte eccepita l'esistenza di decisioni favorevoli, assunte o in sede di prevenzione o in sede penale, per provare ad impedire l'adozione di provvedimenti ablatori di diversa tipologia, imponendo alla giurisprudenza di legittimità di individuare una soluzione pretoria che si facesse carico della necessità di garantire una stabilità reale a provvedimenti definitivi e/o irrevocabili.

A partire, in special modo, dal 2008, e, segnatamente, da Sez. I, 18 novembre 2008 - dep. 27 novembre 2008, n. 44332, Araniti, Rv. 242201, la Corte di legittimità ha individuato alcuni principi in tema di effetti preclusivi derivanti dal rigetto di una richiesta di sequestro/confisca di prevenzione sull'analoga figura emessa ex art. 12 sexies e viceversa, dal cui esame emergono alcuni punti fermi. In particolare, dalle decisioni emerge che, nel rapporto fra le due misure ablatorie, non può parlarsi di preclusione da giudicato, perché i due provvedimenti vengono adottati in ambiti procedurali diversi, che non consentono di ipotizzare un ne bis in idem. Risulta, al contrario, prospettata una forma di preclusione processuale simile a quella individuata dalla giurisprudenza in materia cautelare, caratterizzata da una stabilità minore rispetto al giudicato vero e proprio, rebus sic stantibus, che copre il dedotto e non il deducibile ed è quindi, suscettibile di essere messa in discussione con la sopravvenienza di fatti nuovi.

Nel 2012, inoltre, la Corte aveva avuto occasione di fornire due importanti precisazioni. Da un lato, si era osservato, sia pure incidentalmente, non essendo l'affermazione risolutiva ai fini del caso di specie, che il descritto rapporto di pregiudizialità opera alla condizione che le decisioni siano intervenute sui presupposti comuni delle due ipotesi espropriative (cioè la titolarità formale e/o fittizia del bene e la sproporzione reddito/disponibilità), ma non anche quando la decisione reiettiva sia fondata su ragioni meramente processuali: così, Sez. VI, 27 novembre 2011 - dep. 12 dicembre 2012, n. 47983, D'Alessandro, Rv. 254278. Dall'altro, si era enunciata in termini espliciti la configurabilità dell'effetto pregiudiziale anche quando il provvedimento di rigetto/revoca sia intervenuto in materia cautelare e cioè sui sequestri (sia penali che di prevenzione), ovviamente sempre che la decisione abbia escluso la sussistenza dei presupposti della titolarità indiretta o della sproporzione/giustificazione: in questi termini, Sez. I, 4 maggio 2012 - dep. 4 luglio 2012, n. 25846, Franco, Rv. 253080.

Nel 2013, si segnalano tre decisioni edite sul tema che sostanzialmente confermano e precisano l'orientamento precedente.

La prima di esse, in ordine temporale, è la pronuncia della Sez. I, 29/05/2012 - dep. 10 gennaio 2013, n. 1204, La Rosa, Rv. 254256, la quale afferma che la revoca del provvedimento di confisca adottata all'esito del procedimento di prevenzione patrimoniale per meri motivi procedurali non produce effetto preclusivo su un eventuale procedimento avente ad oggetto gli stessi beni e in danno della stessa persone, per la confisca ex art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992, conv. in legge n. 356 del 1992. Nel caso sottoposto all'esame della Corte, in particolare, era stata concessa, in fase esecutiva, una confisca ex art. 12 sexies cit. di alcuni beni malgrado che su alcuni di essi fosse stato revocato un precedente sequestro intervenuto in materia di prevenzione in quanto era trascorso più di un anno dal sequestro senza che fosse intervenuta successiva confisca. I giudici della Sez. I hanno, tuttavia, escluso il carattere preclusivo di tale revoca, trattandosi di decisione assunta per motivi squisitamente processuali.

La sentenza Sez. VI, 21 gennaio 2013 - dep. 21 febbraio 2013, n. 8720, Barbaro, Rv. 255352, dal canto suo, ha escluso l'operatività della preclusione nei rapporti tra la misura di prevenzione e quella penale quando una di esse sia stata rigettata o revocata per motivi afferenti ad un presupposto non comune all'altra, anche se di natura non strettamente processuale. Nel caso di specie, infatti, la misura di prevenzione non era stata disposta solo perché il proposto era stato ritenuto non pericoloso, e l'attualità della pericolosità, al momento di quella decisione reiettiva era un presupposto per l'applicazione della confisca. Il principio di diritto è stato così massimato: "Il rigetto della proposta della misura di prevenzione della confisca, ex art. 2 ter legge n. 575 del 1965, per mancanza del requisito della pericolosità sociale del prevenuto non preclude l'applicabilità, nei confronti del medesimo bene ed a seguito di un procedimento penale, della confisca ex art. 12 sexies, D.L. n. 306 del 1992, conv. in legge n. 356 del 1992. (In motivazione, la Corte ha rilevato che la preclusione sussiste, invece, quando la decisione emessa a seguito del processo di prevenzione ha escluso la disponibilità sostanziale del bene, in luogo della formale intestazione del bene, e/o la sproporzione fra il patrimonio e le disponibilità finanziarie del proposto)".

Sez. I, 11 febbraio 2013 - dep. 13 maggio 2013, n. 20476, Capriotti, Rv. 255383, infine, ha ribadito il principio, già affermato da Sez. I, 4 maggio 2012, Franco, cit., secondo cui il rapporto tra misura cautelare e confisca adottata in sede di prevenzione si pone in termini di preclusione ogni qualvolta si ravvisi identità del "decisum" tra le stesse parti in ordine alla medesima questione di diritto ovvero di fatto anche quando il provvedimento annullato o revocato sia di natura cautelare. Nella specie, infatti, la Corte ha annullato il provvedimento del giudice di merito che aveva confermato la confisca di prevenzione disposta nei confronti di un soggetto ritenuto dedito ad attività di spaccio di sostanze stupefacenti in relazione a beni sui quali, precedentemente, era intervenuto sequestro preventivo ex art. 12 sexies, poi caducato dal tribunale del riesame.