PRESENTAZIONE
La Rassegna della giurisprudenza civile della Corte di cassazione, redatta dai magistrati dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo, ha ad oggetto, come in passato, la produzione giurisprudenziale delle Sezioni civili della Corte nell'anno appena trascorso (2016). Essa si compone di due Volumi, dedicati rispettivamente ai profili sostanziali e processuali, articolati in parti, capitoli e paragrafi, così ripetendo la stessa struttura della Rassegna per il 2015. Si tratta di un monitoraggio della giurisprudenza di legittimità dell'anno, che copre tutte le materie secondo un criterio di tendenziale completezza e sistematicità, come risulta all'evidenza dagli indici generali delle Rassegne degli ultimi quattro anni (2013-2016).
La continuità dello stesso modello espositivo agevola anche la comparazione per materie in quest'ultimo torno di tempo, connotato da un elevato numero complessivo di pronunce emesse, che da tempo ormai si attesta mediamente in 25.000/30.000 provvedimenti l'anno (oltre 27.000 nel 2016).
Da queste pronunce sono state estratte dall'Ufficio del Massimario mediamente oltre 4000 massime l'anno con una percentuale che si è stabilizzata sul 16/18%. Nell'anno appena trascorso le massime sono ad oggi oltre 3700; numero destinato a crescere in ragione di quelle in corso di redazione.
Massime e non già "principi di diritto": questi ultimi sono quelli enunciati dalla Corte nei suoi provvedimenti e che si nutrono del contesto motivazionale del provvedimento sia quando sono enunciati in chiusura della motivazione (ex art. 384 c.p.c.), sia quando si desumono dai passaggi argomentativi della stessa; le "massime" di giurisprudenza sono invece quelle elaborate dall'Ufficio del Massimario come registrazione di tali principi in una sintesi enunciativa autosufficiente, tendenzialmente formulata a modo di sillogismo.
Nel nostro sistema giudiziario né i "principi di diritto" né, a maggior ragione, le "massime" di giurisprudenza che li esprimono sono vincolanti per il giudice, stante il precetto costituzionale dell'art. 101, secondo comma, Cost. che prescrive che i giudici sono soggetti soltanto alla legge; ma hanno una indubbia valenza persuasiva in ragione dell'impianto argomentativo contenuto nella motivazione che li esprime.
A fronte della non vincolatività dei principi di diritto si pone però un'altra esigenza che ha pari rilievo costituzionale: quella della certezza del diritto quale proiezione del principio di eguaglianza posto dall'art. 3, primo comma, Cost. (Tutti i cittadini [...] sono uguali davanti alla legge [...]").
La "legge" davanti alla quale i cittadini sono eguali si atteggia come insieme di norme positive e di principi di diritto: le une (leges) e gli altri (iura) sono idonei a fornire al giudice la regola di giudizio per decidere il caso portato alla sua cognizione. Un'accentuata mutevolezza o relativizzazione dei principi di diritto, seppur rispettosa del principio di cui all'art. 101, secondo comma, Cost., non realizzerebbe il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), con il quale mal si concilia l'evenienza che due fattispecie analoghe siano decise in termini diversi.
Ripetuto è il richiamo della Corte al dovere di fedeltà ai precedenti sul quale si fonda l'assolvimento della funzione ordinamentale e, al contempo, di rilevanza costituzionale, della nomofilachia: quella, affidata alla Corte di cassazione, di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge nonché l'unità del diritto oggettivo nazionale.
Pur in un sistema in cui non opera il principio dello stare decisis, non di meno la circostanza che un principio di diritto risulti nel tempo costantemente affermato ed applicato dalla Corte, nonché registrato in massime ripetute dell'Ufficio del Massimario, comporta la formazione di una situazione qualificata come di "diritto vivente", che esprime la norma di legge contestualizzata dai principi di diritto che ad essa afferiscono; situazione questa che crea affidamento nella stabilità del quadro normativo e nella certezza dei rapporti giuridici.
L'attività di massimazione delle pronunce della Corte di cassazione ad opera dell'Ufficio del Massimario si colloca in questo circuito virtuoso diretto a realizzare l'esigenza di certezza del diritto; attività complessa e delicata anche per il numero di pronunce da esaminare.
La Corte però non si chiude nel circuito autoreferenziale dei suoi precedenti, ma è aperta agli apporti soprattutto della dottrina. La forza del diritto giurisprudenziale sta anche in questa apertura alla costante verifica della tenuta dei principi di diritto affermati in precedenza. Questa ragionevole flessibilità del diritto giurisprudenziale, che lo legittima come prodotto di un sapere giuridico costantemente verificato, si coniuga poi con la ormai riconosciuta tutela - a partire dal fondamentale arresto delle Sezioni Unite del 2011 (Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144) - dell'affidamento che le parti fanno in un orientamento giurisprudenziale consolidato, successivamente oggetto di revirement.
Di un gran numero delle pronunce e delle massime del 2016 si dà conto in questa Rassegna, con un'analisi sistematica d'insieme e con un rilievo particolare per la giurisprudenza delle Sezioni Unite, il cui ruolo fondamentale nella nomofilachia della Corte è stato accentuato a partire dalla riformulazione dell'art. 374 c.p.c. in occasione della riforma del 2006 del giudizio civile di cassazione.
Proseguendo in un'innovazione introdotta lo scorso anno, alla tradizionale Rassegna della giurisprudenza civile della Corte si affianca - oltre alla parallela Rassegna della giurisprudenza penale - anche un ulteriore volume sui grandi arrêts dell'anno 2016 con una più approfondita analisi, mirata distintamente a ciascuna pronuncia e svolta sempre da magistrati di questo Ufficio del Massimario, i quali con encomiabile dedizione hanno esteso il loro impegno a questo ulteriore e parallelo contributo.
I volumi della Rassegna della giurisprudenza civile e penale della Corte per l'anno 2015 sono stati pubblicati, per conto della Corte, dall'Istituto Poligrafico dello Stato riprendendo le fila di una tradizione del passato che aveva parimenti visto la stampa di studi dell'Ufficio del Massimario. Analoga pubblicazione, estesa quest'anno al menzionato volume dei grandi arrêts, si intende promuovere anche per le Rassegne del 2016.
Questa breve presentazione non può non concludersi con doverosi ringraziamenti.
La Rassegna, come lo scorso anno, è stata egregiamente coordinata dal collega Giuseppe Fuochi Tinarelli.
È opera dei magistrati dell'Ufficio del Massimario: Irene Ambrosi, Fabio Antezza, Stefania Billi, Eduardo Campese, Dario Cavallari, Aldo Ceniccola, Gian Andrea Chiesi, Marina Cirese, Francesco Cortesi, Milena d'Oriano, Paola D'Ovidio, Lorenzo Delli Priscoli, Paolo Di Marzio, Luigi Di Paola, Giuseppe Dongiacomo, Giovanni Fanticini, Annamaria Fasano, Francesco Federici, Ileana Fedele, Giuseppe Fichera, Rosaria Giordano, Gianluca Grasso, Stefano Giaime Guizzi, Salvatore Leuzzi, Francesca Miglio, Marzia Minutillo Turtur, Roberto Mucci, Giuseppe Nicastro, Andrea Nocera, Giacomo Maria Nonno, Andrea Penta, Renato Perinu, Francesca Picardi, Valeria Piccone, Paolo Porreca, Raffaele Rossi, Salvatore Saija, Paolo Spaziani, Cesare Trapuzzano, Cristiano Valle, Luca Varrone, Andrea Venegoni.
Ha collaborato alla rifinitura dell'editing il personale addetto alla Segreteria dell'Ufficio del Massimario.
A tutti va il più vivo ringraziamento per il loro contributo che ha reso possibile la realizzazione di un'opera collettanea, qual è questa Rassegna della giurisprudenza civile della Corte di cassazione per l'anno 2016.
Un ringraziamento speciale va infine al Pres. Giuseppe Maria Berruti che, dopo aver diretto l'Ufficio del Massimario e del Ruolo fino allo scorso anno con intelligenza, assidua partecipazione e convinto coinvolgimento in ogni iniziativa innovativa, è stato nominato Presidente Titolare della Terza Sezione civile per poi assumere l'alto incarico istituzionale di componente della Commissione nazionale per le società e la Borsa.
GIOVANNI AMOROSO-CAMILLA DI IASI.
Nell'attuale ordinamento, manca una fonte unitaria e con essa qualunque tipo di elencazione dei diritti della persona molti dei quali sono addirittura di elaborazione giurisprudenziale. Vi sono varie disposizioni contenute in diverse fonti (Costituzione, leggi ordinarie, leggi delegate, ordini d'esecuzione relativi all'applicazione dei trattati internazionali in materia di diritti umani di cui l'Italia è parte ecc.) che riguardano i diritti della persona e la loro rilevanza giuridica. Anche nel corso del 2016 si registrano numerose pronunce della Suprema Corte in tema di diritti della persona.
Il diritto al nome ed all'identità personale trovano il loro riconoscimento costituzionale nell'art. 2, che tutela l'identità dell'individuo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Sul piano della normativa codicistica, invece, trova esplicito riconoscimento solo il diritto al nome e la tutela del correlato diritto all'identità personale è il frutto dell'estensione analogica delle norme positive esistenti in materia di tutela del diritto al nome ed all'immagine. Il diritto all'identità personale si configura come diritto ad essere riconosciuto secondo le proprie caratteristiche individuali, così come socialmente percepite ed ha le medesime forme di tutela del diritto al nome.
In tale ambito si inquadra il diritto a conoscere le proprie origine biologiche.
Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, 25 settembre 2012, Godelli c. Gov. Italia, e della Corte cost., 18 novembre 2013, n. 278, la S.C., con Sez. 1, n. 15024/2016, Bisogni, Rv. 641021, si è pronunciata sul diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini e all'accesso ai dati personali della madre biologica con particolare riferimento al caso di decesso della madre.
Il caso oggetto della pronuncia era quello di una donna che, esponendo di esser nata da madre che aveva chiesto di rimanere anonima e di essere stata adottata, aveva fatto istanza al tribunale per i minorenni di poter accedere ai dati riguardanti il parto contenuti nella cartella clinica. Accolta la richiesta della ricorrente, ottenuta la documentazione e constatato il decesso della madre biologica, il tribunale aveva respinto la richiesta dell'istante di conoscere il nominativo di quest'ultima sul presupposto della impossibilità di interpellarla in ordine alla persistente volontà di mantenere l'anonimato. La corte d'appello, adita in sede di reclamo, confermava la decisione escludendo che il decesso della madre potesse valutarsi come revoca implicita della volontà di mantenere l'anonimato.
Nella pronuncia de qua la S.C., dopo un ampio excursus delle fonti internazionali e sovranazionali, definisce il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e alle circostanze della propria nascita quale diritto fondamentale della persona, previsto espressamente in diverse legislazioni europee, ricondotto dalla stessa Corte europea dei diritti dell'uomo nell'ambito di applicazione della nozione di vita privata e nella sfera di protezione dell'identità personale. Secondo il ragionamento svolto dalla Corte, è improprio parlare di conflitto di interessi o di diritti fondamentali, avendosi, invece, ponderazione tra diritti fondamentali con mero riferimento al diritto della madre alla scelta dell'anonimato (effettuata per svariate motivazioni: sanitarie, economiche, sociali) contrapposto al diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Dopo la nascita del figlio, non sussiste, invece, un diritto della madre a rimanere anonima; non è più il diritto alla vita ad essere in gioco, ma sempre il diritto alla scelta dell'anonimato che le ha consentito di portare a termine la gravidanza.
Viene, a riguardo, richiamata la sentenza della Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983 n. 184, laddove escludeva la possibilità di autorizzare il figlio all'accesso alle informazioni concernenti le proprie origini senza aver previamente verificato l'attuale volontà della madre. Tale norma comportava, secondo i giudici, la irreversibilità del segreto materno ed era destinata ad esporre il figlio alla inevitabile e definitiva perdita del suo diritto alla conoscenza delle proprie origini. L'irreversibilità del segreto si poneva, quindi, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost.
In applicazione dei principi sopra esposti, la S.C. afferma, quindi, che, nel caso di cd. parto anonimo, dopo la morte della madre, sussiste il diritto del figlio di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative alla identità personale della madre, non potendosi considerare operativo oltre il limite della vita della madre, il termine di cento anni dalla formazione del documento per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall'art. 93, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio.
Il principio è stato, quindi, ribadito da Sez. 1, n. 22838/2016, Acierno, Rv. 641857-01, la quale ha altresì precisato che il trattamento dei dati personali della madre che ha partorito in anonimo e di cui si è venuti a conoscenza deve essere lecito e non lesivo dei diritti dei terzi.
Oltre a ricevere tutela costituzionale, il diritto all'immagine è disciplinato dalla legislazione ordinaria che, all'art. 10 c.c., si occupa di definire l'abuso del diritto all'immagine imponendo il risarcimento dei danni e la cessazione dell'abuso da parte di chi espone o pubblica l'immagine di una persona o dei suoi congiunti nonché dagli articoli 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633 (cd. legge sul diritto d'autore). Tale diritto è tutelato altresì dalla normativa a tutela dei dati personali posto che la stessa immagine costituisce un dato personale che, in quanto tale, è garantito dalla normativa sulla privacy.
L'art. 10 c.c. non offre una definizione del concetto di diritto all'immagine, attribuendo al titolare dello stesso specifiche prerogative e facoltà, ma si preoccupa esclusivamente di tutelare il diritto all'immagine in negativo, descrivendo il comportamento vietato dalla legge. La legge sulla protezione del diritto di autore, all'art. 96, individua nel consenso dell'interessato l'elemento che esime dalla responsabilità civile il soggetto che espone, riproduce o mette in commercio l'immagine altrui.
Al riguardo Sez. 1, n. 01748/2016, Valitutti, Rv. 638445, chiarisce che il consenso alla pubblicazione della propria immagine è qualificabile quale negozio unilaterale che ha ad oggetto non il diritto all'immagine, ma solo l'esercizio di tale diritto, cosicché deve distinguersi tra il consenso e la pattuizione che lo contiene, rimanendo il consenso sempre revocabile.
Laddove si faccia riferimento al consenso dell'interessato, il primo aspetto da affrontare, concerne la forma che deve rivestire la manifestazione di volontà.
La normativa vigente non impone alcuna forma vincolata per la manifestazione del consenso, potendo esso prestarsi in forma espressa od implicita.
Con riguardo ai contratti aventi ad oggetto la trasmissione del diritto all'utilizzazione dell'immagine, Sez. 1, n. 01748/2016, Valitutti, Rv. 638446, stabilisce che detti contratti vanno provati per iscritto ai sensi dell'art. 110 della l. n. 633 del 1941, al fine di dirimere i conflitti tra i pretesi titolari del medesimo diritto.
Corollario del diritto alla propria identità personale è il diritto all'immagine professionale.
Al riguardo Sez. L, n. 08709/2016, Riverso, Rv. 639584, afferma che il diritto all'immagine professionale del lavoratore rientra tra quelli fondamentali tutelati dall'art. 2 Cost., la cui risarcibilità va riconosciuta anche in presenza di lesioni di breve durata, nel caso di specie costituite dall'esercizio, da parte del lavoratore, privato della funzione di coordinamento, di mansioni dequalificanti, sia pure per un periodo limitato.
Per trattamento dei dati personali si intende qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca dati.
Rispetto alla definizione accolta dalla previgente legge 31 dicembre 1996, n. 675, è stato precisato espressamente che nella nozione di trattamento devono essere fatte rientrare anche le operazioni relative a dati non registrati in una banca dati.
Sono dati personali le informazioni che identificano o rendono identificabile una persona fisica e che possono fornire dettagli sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, il suo stile di vita, le sue relazioni personali, il suo stato di salute, la sua situazione economica, ecc.
Particolarmente importanti sono: i dati identificativi, cioè quelli che permettono l'identificazione diretta, come i dati anagrafici e le immagini; i dati sensibili, cioè quelli che possono rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, lo stato di salute e la vita sessuale; i dati giudiziari, ovvero quelli che possono rivelare l'esistenza di determinati provvedimenti giudiziari soggetti ad iscrizione nel casellario giudiziale.
Con riguardo ai dati del traffico telefonico, Sez. 1, n. 01625/2016, Lamorgese, Rv. 638562, stabilisce, applicando l'articolo 132 del Codice della privacy, nella versione risultante dalle modifiche apportate dal d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv. con modif. nella l. 31 luglio 2005, n. 155, applicabile ratione temporis, che una volta trascorsi 24 mesi, è precluso ai privati l'accesso e il conseguente utilizzo dei dati del traffico telefonico per finalità di investigazioni difensive, in relazione a procedimenti penali per reati diversi da quelli indicati dall'articolo 407, comma 2, lettera a), c.p.p. Ciò posto, la Corte ritiene che la mancata conservazione dei dati da parte della società non abbia leso il diritto di difesa del ricorrente. Difatti, il bilanciamento del «diritto dei terzi coinvolti nei dati di traffico telefonico alla segretezza delle comunicazioni e il diritto di difesa al quale è funzionale l'esigenza investigativa dei privati richiedenti l'accesso» è stata effettuata direttamente e discrezionalmente dal legislatore, il quale ha individuato un lasso di tempo distinto a seconda della tipologia di reato interessato, trascorso il quale il diritto di accesso finalizzato alle esigenze investigative non può più essere esercitato.
In tema di trattamento dei dati personali presenti nelle banche dati costituite sulla base degli elenchi telefonici, Sez. 1, n. 17143/2016, Genovese, Rv. 640918, statuisce che il cessionario di tali dati non può lecitamente utilizzarli per fini promozionali se non prova di avere inoltrato l'informativa prescritta dall'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003 per l'acquisizione del consenso degli interessati all'utilizzazione dei dati di loro pertinenza.
Costituisce trattamento di dati personali anche l'installazione di un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale.
La S.C. con Sez. 2, n. 13663/2016, Scarpa, Rv. 640210, stabilisce che il codice sulla protezione di dati personali impone al titolare dell'esercizio commerciale, dotato di videosorveglianza interna, di informare previamente gli utenti del trattamento, oralmente o per iscritto, che stanno per entrare in una zona videosorvegliata mediante cartello ben visibile e scritto a caratteri leggibili, da collocare fuori del raggio d'azione delle telecamere che consentono la raccolta delle immagini delle persone e danno così inizio al trattamento stesso.
Al contrario, tale informativa preventiva non è richiesta, secondo Sez. 2, n. 01422/2016, Correnti, Rv. 638670, allorché l'utente fruisca di un meccanismo azionabile a sua iniziativa che consente l'erogazione di specifiche prestazioni programmate, dovendosi escludere tale informazione in ragione di tale automatismo e del consenso dell'interessato. Il caso sottoposto all'esame della Corte era quello di una società di gestione di impianti sciistici che non aveva assolto all'informativa ex art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003 in relazione ad etichette che al momento in cui gli sciatori si avvicinavano al tornello muniti di tesserino verificavano che non avessero superato il credito prepagato.
Con Sez. 1, n. 10510/2016, Dogliotti, Rv. 639811, la Corte, pronunciandosi in tema di trattamento di dati sensibili, ha statuito che è illecita la pubblicazione su un sito internet liberamente accessibile al pubblico, di un provvedimento giurisdizionale indicante lo stato di salute del ricorrente, pur in assenza di un'espressa istanza in tal senso formulata dall'interessato ex art. 52 del Codice della privacy.
Nel caso di specie, la Corte, cassando la sentenza emessa dal Tribunale di Palermo, ha disposto la non pubblicazione dei dati dell'interessato all'interno del provvedimento di primo grado sulla base di quanto previsto dall'art. 22 del Codice della privacy e dalle "Linee guida del Garante della Privacy sul trattamento dei dati personali nella riproduzione dei provvedimenti giurisdizionali", i quali prevedono, rispettivamente, che i dati inerenti lo sta to di salute non possono essere in alcun modo diffusi e che la salvaguardia del diritto alla riservatezza degli interessati attraverso l'oscuramento delle loro generalità non pregiudica la finalità di informazione giuridica.
Con Sez. 1, n. 18302/2016, Lamorgese, Rv. 641215, la Corte affronta il tema della legittimità dei controlli su personal computer, posta elettronica e telefoni da parte del datore di lavoro sui propri dipendenti, statuendo che è illegittima l'installazione di apparecchi e software che consentono controlli approfonditi sulla posta elettronica, sulle telefonate e sulla navigazione internet del lavoratore, se non sono preventivamente esperite le procedure di autorizzazione (sindacale o amministrativa) previste dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e se non sono rispettati gli ulteriori adempimenti previsti dal codice della privacy.
Il caso sottoposto all'esame della Corte aveva visto contrapporsi l'Istituto poligrafico e Zecca dello Stato e il Garante per la privacy che aveva emesso un provvedimento vietando al Poligrafico «l'ulteriore trattamento, nelle forme della conservazione e della categorizzazione, dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione Internet, all'utilizzo della posta elettronica e alle utenze telefoniche chiamate dai lavoratori».
In tema di trattamento di dati sanitari, la Corte, con Sez. 2, n. 15908/2016, Scarpa, Rv. 640578, stabilisce che, come previsto dall'art. 37 d.lgs. n. 196 del 2003 (che elenca, tra i soggetti obbligati, coloro che effettuano trattamenti ai fini di prestazioni per via telematica di servizi sanitari) va preventivamente notificato al Garante della privacy, il trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute, effettuato da una struttura sanitaria pubblica o privata. Nel caso specifico, il trattamento dati consisteva nella raccolta di schede o di cartelle cliniche per ogni paziente, accessibile a diversi soggetti e consultabile on line.
I casi di esclusione dalla notifica preventiva riguardano invece, secondo la Corte, i trattamenti di dati sanitari effettuati manualmente mediante archivi cartacei, oppure eseguiti nell'ambito di servizi di assistenza o consultazione sanitaria per via telefonica o, comunque, inseriti in banche dati non collegate a reti telematiche. Tale obbligo di notifica viene affermato, come statuito da Sez. 2, n. 08105/2016, Cosentino, Rv. 639672, anche per le cliniche o case di cura che trattano dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, facendoli confluire in banche dati, non rilevando né che tali banche dati abbiano una finalità generale (statistica o epidemiologica) e non siano specificamente dirette alla raccolta ed organizzazione di tali dati sensibili, né la mancanza di specializzazione della struttura.
Con particolare riguardo alla circolazione stradale, Sez. 2, n. 08415/2016, Falabella, Rv. 639688, ha stabilito che la violazione della disciplina della tutela della riservatezza con riferimento all'utilizzo dei dispositivi elettronici per la rilevazione di violazioni al codice della strada non spiega alcun effetto sulla contestazione dell'illecito di cui si dolga il conducente del veicolo, siccome non preavvertito della presenza del dispositivo di rilevazione, e ciò in quanto l'informativa di cui all'art. 13 non è correlata funzionalmente alla prevenzione dell'infrazione al codice della strada, ma al rispetto di un obbligo di riservatezza. L'avviso in questione infatti non è diretto a orientare la condotta di guida del trasgressore, così da evitare che lo stesso incorra in una violazione delle norme che regolano la circolazione.
Sez. 1, n. 10638/2016, Giancola, Rv. 639786, è intervenuta per riaffermare alcuni princìpi a tutela del consumatore quale utente del sistema bancario. Nella specie il cliente aveva chiamato in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano una banca, lamentando l'intrusione nel suo home banking, avendo disconosciuto una disposizione di bonifico eseguita con addebito sul suo conto corrente. La Corte giunge ad affermare il principio che in tema di ripartizione dell'onere della prova, al correntista abilitato a svolgere operazioni on line che agisca per l'abusiva utilizzazione delle sue credenziali informatiche, spetta soltanto la prova del danno come riferibile al trattamento del suo dato personale, mentre la banca risponde, quale titolare del trattamento, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico mediante la captazione dei codici d'accesso del correntista, ove non dimostri che l'evento dannoso non le sia imputabile perché discendente da trascuratezza, errore o frode del correntista o da forza maggiore. Tale ricostruzione è coerente, peraltro, anche con gli obblighi previsti in capo al prestatore del servizio di pagamento in base ai quali, se l'utente nega di aver autorizzato un'operazione, l'onere di provarne la genuinità ricade essenzialmente sul prestatore medesimo. E nel contempo obbliga quest'ultimo a rifondere con sostanziale immediatezza il correntista in caso di operazione disconosciuta, tranne laddove vi sia un motivato sospetto di frode e salva la possibilità di dimostrare che l'operazione di pagamento era stata autorizzata, con il diritto di chiedere e ottenere dall'utilizzatore la restituzione dell'importo rimborsato.
Con riguardo al diverso profilo afferente alla legittimazione passiva al trattamento dei dati personali, Sez. 1, n. 06927/2016, Lamorgese, Rv. 639326, si pronuncia in materia di dati contenuti nell'archivio della Centrale di allarme interbancaria (CAI). Al riguardo richiama il principio generale per il quale la Banca d'Italia, pur soggetto pubblico, non si sottrae alla disciplina in materia generale di protezione dei dati personali. In tale ambito, la Corte chiarisce anche la portata dell'art. 8, comma 2, lett. d), del Codice della privacy. Tale norma deroga alla possibilità di esercizio dei diritti sui propri dati personali da parte dell'interessato, stabilendo che i diritti di cui all'art. 7 non possono essere esercitati con richiesta al titolare o al responsabile o con ricorso ai sensi dell'art. 145 se i trattamenti di dati personali sono effettuati da un soggetto pubblico, diverso dagli enti pubblici economici, in base ad espressa disposizione di legge, per esclusive finalità inerenti alla politica monetaria e valutaria, al sistema dei pagamenti, al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e finanziari, nonché alla tutela della loro stabilità.
Chiarisce altresì la Corte che tale limitazione/deroga all'esercizio dei diritti sui propri dati si applica ai soli mezzi di ricorso di tipo amministrativo richiamati dall'art. 8, ovvero al ricorso al Garante quale Autorità amministrativa di controllo, e non può essere applicata anche alla diversa tutela di tipo giurisdizionale ex art. 152, rubricato "Autorità Giudiziaria ordinaria", non richiamata dalla norma nell'ambito di esclusione, con la conseguenza che la Banca d'Italia, pur nel perseguimento «in base ad espressa disposizione di legge, di esclusive finalità inerenti al sistema dei pagamenti ed al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e finanziari», può essere legittimata passiva nei casi di ricorso all'Autorità Giudiziaria per far valere la responsabilità civile per danni cagionati dal trattamento per segnalazione erroneamente effettuata.
La Corte chiarisce, infine, che non è possibile distinguere tra «un concreto trattamento dei dati consistente nel loro esame, valutazione, inserimento nell'archivio, aggiornamento, etc. e una qualità meramente formale di titolare del trattamento, limitata alla semplice tenuta dell'archivio e alla verifica della regolarità formale delle segnalazioni, poiché la qualifica di titolare non può essere scissa in un livello concreto e in uno formale, essa implicando sempre il potere di prendere tutte le decisioni in ordine alle finalità e alle modalità di trattamento», restando la Banca d'Italia pienamente soggetta, quale titolare del trattamento, all'esercizio dei diritti previsti dall'art. 7 del Codice della privacy. Con riferimento alla posizione degli istituti di credito segnalanti ed al rapporto con la Banca d'Italia, la Corte conclude per l'esistenza di una contitolarità congiunta dei relativi trattamenti dei dati, sicché il ricorso al Garante volto ad ottenere la rettifica o la cancellazione di dati inseriti nel CAI va propo sto dall'interessato tanto nei confronti della Banca d'Italia (titolare del trattamento dei dati nell'archivio centrale) quanto nei confronti dell'istituto di credito segnalante (titolare del trattamento della sezione remota del CAI).
In tema di trattamento dei dati personali cd. comuni per finalità promozionali e commerciali mediante sms su utenze telefoniche mobili, Sez. 1, n. 09982/2016, Giancola, Rv. 639804, stabilisce che la prestazione del consenso al trattamento di tali dati non è soggetta al requisito della forma scritta, ma, a differenza che per i dati sensibili, può essere espressa anche oralmente, purché venga documentata per iscritto.
Secondo la Corte, l'art. 23, comma 3, del d.lgs. n. 196 del 2003 consente al titolare del trattamento, onerato della prova, di fare ricorso all'art. 2712 c.c. per dare riscontro scritto documentale dell'acquisizione da parte sua del consenso al trattamento dei dati personali comuni e, perciò, di avvalersi di registrazioni e riproduzioni anche informatiche da lui stesso attivate (e da correlare con la doverosa preventiva informativa resa all'utente, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs n. 196 del 2003).
Sempre in ordine al consenso prestato dall'utente, Sez. 1, n. 02196/2016, Terrusi, Rv. 638406, si pronuncia in tema di telefonate provenienti da call center. Al riguardo stabilisce che i call center non potranno più utilizzare i numeri di cellulare trovati sul web (cosiddetta pratica dello web scraping o web data extraction) per chiamate con finalità commerciali, se l'utente non ha precedentemente concesso loro un'autorizzazione espressa.
Viene quindi circoscritto alle sole chiamate ai telefoni fissi e senza risposta automatica il principio generale secondo cui le chiamate promozionali sono lecite, salvo diniego dell'utente (principio dell'opt-out); tale principio non vale invece per quelle sui dispositivi mobili.
Aggiunge Sez. 1, n. 02196/2016, Terrusi, Rv. 638405, che il provvedimento con cui il Garante per la protezione dei dati personali prescrive, ai sensi degli artt. 143, comma 1, lett. b), e 154, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 196 del 2003 l'adozione di misure atte ad eliminare il disagio derivante dalla reiterazione di chiamate su contatto abbattuto, non integra una sanzione amministrativa, cosicché il soggetto legittimato a sottoporre a controllo giurisdizionale la situazione soggettiva su cui il provvedimento ha inciso è lo specifico titolare destinatario della prescrizione e non invece qualunque titolare del trattamento di dati personali.
Sez. 1, n. 13161/2016, Giancola, Rv. 640218, si pronuncia in tema di diritto all'oblio, da intendersi quale diritto dell'individuo ad essere dimenticato e che mira a salvaguardare il riserbo imposto dal passare del tempo ad una notizia già resa di dominio pubblico. Tale diritto va oltre la tutela della privacy e nasce a seguito di elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali e principalmente delle Autorità Garanti europee. Come fondamento normativo del diritto all'oblio, il Codice della privacy prevede che il trattamento non sia legittimo qualora i dati siano conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti o trattati (art. 11 del d.lgs. n. 196/2003). Nel caso sottoposto alla Corte, il Tribunale di Chieti aveva condannato al risarcimento del danno per violazione del diritto all'oblio sia il direttore che l'editore di una testata giornalistica telematica per la permanenza a tempo indeterminato di un articolo su una vicenda giudiziaria di natura penale che aveva coinvolto i ricorrenti per un fatto avvenuto tempo addietro e che non si era ancora conclusa. I ricorrenti lamentavano il pregiudizio alla propria reputazione personale.
La Corte, confermando la decisione del Tribunale, evidenzia che l'illecito trattamento di dati personali è stato specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell'articolo di cronaca e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico pubblicato tempo prima e della sua diffusione sul web, quanto meno a decorrere dal ricevimento della diffida per la rimozione della pubblicazione dalla rete. La Corte evidenzia che il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione, e ciò in relazione alla peculiarità dell'operazione di trattamento, caratterizzata dalla capillarità della divulgazione dei dati trattati e dalla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale.
Il tema del diritto all'oblio si correla all'esercizio del diritto di cronaca giornalistica. Difatti, presupposto perché un fatto privato possa divenire legittimamente oggetto di cronaca è l'interesse pubblico alla notizia. Ma una volta che del fatto il pubblico sia stato informato con completezza, cessa l'interesse pubblico in quanto la collettività ha ormai acquisito il fatto, cosicché riproporre l'accadimento sarebbe inutile, poiché non vi sarebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare. Il diritto all'oblio è quindi la naturale conseguenza di una corretta e logica applicazione dei principi generali del diritto di cronaca.
La questione affrontata da Sez. 1, n. 01091/2016, Genovese, Rv. 638494, è se, una volta determinato il danno per la lesione del diritto alla reputazione e all'immagine, sia legittima un'automatica riduzione del quantum, a causa della pubblicazione della sentenza su un quotidiano. Nel caso sottoposto al suo esame la corte di merito aveva risposto in senso affermativo, facendo leva sulla portata riparatoria della suddetta misura.
Al riguardo rileva, tuttavia, la Suprema Corte che, seppure la funzione riparatoria è nella legge ed è confermata dalla giurisprudenza, ciò non è sufficiente per ritenere legittima un'operazione di sottrazione aritmetica dall'importo del danno accertato di una somma (peraltro indeterminata) corrispondente al valore riparatorio insito nella pubblicazione della sentenza.
In realtà, osserva la Corte, la pubblicazione costituisce «una modalità di risarcimento in forma specifica volta ad aggiungersi al risarcimento per equivalente al fine di assicurare, nei casi in cui il giudice la ritenga utile, la integrale riparazione del danno», al fine di contribuire a rimuovere il discredito gettato su un soggetto e di ricostruire la sua immagine pubblica. È significativo che la pubblicazione della sentenza sia un provvedimento, costituente oggetto di un potere discrezionale del giudice, che può essere disposto indipendentemente dall'esistenza o dalla prova di un danno attuale, trattandosi di una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all'ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell'illecito nel futuro.
Sez. L, n. 06775/2016, Tria, Rv. 639149, ha stabilito che l'alternatività tra ricorso amministrativo e ricorso giudiziale disposta dell'art. 29, comma 2, l. n. 675 del 1996 riguarda esclusivamente le domande aventi un identico oggetto, che devono essere intese come quelle che se, in ipotesi, pendenti contestualmente avanti a più giudici, possono in via generale essere assoggettate al regime processuale della litispendenza o della continenza. Secondo la Corte si tratta, quindi, delle domande giudiziali che richiedono interventi di natura preventiva, inibitoria o conformativa, potendo indicare il Garante modalità concrete di cessazione del trattamento illecito dei dati. Del resto, rileva la S.C., la lettura della normativa in generale porta ad escludere che al Garante sia attribuita la cognizione di domande risarcitorie che si devono ritenere coperte da riserva esclusiva di giurisdizione ordinaria le quali, infatti, sono destinate ad una declaratoria d'inammissibilità se proposte davanti al Garante, come risulta dalle numerose pronunce in tal senso emesse dal Garante stesso, nelle quali l'Autorità ha affermato la propria incompetenza al riguardo. Diversamente ragionando, dovrebbe ritenersi alternativamente che, scelta la strada della tutela inibitoria (e preventiva), sia negata quella risarcitoria; oppure che, nonostante il riconoscimento del trattamento illecito dei dati personali, l'interessato sia tenuto ad un'impugnazione del provvedimento del Garante al solo fine di richiedere il risarcimento del danno e non incorrere nella sanzione di tardività dell'azione. Mentre quest'ultima soluzione è in netto contrasto con il canone costituzionale della ragionevolezza, la prima introduce un impedimento all'ottenimento della tutela piena di un diritto fondamentale, del tutto incompatibile con l'art. 24 Cost., tanto più ove il lavoratore faccia valere nei confronti del datore di lavoro tutti i diritti soggettivi derivanti dal rapporto di lavoro.
Il diritto all'equa riparazione per l'irragionevole durata dei processi è stato, anche nel corso del 2016, posto al centro di numerose pronunce della Suprema Corte, alcune delle quali di particolare interesse in quanto affrontano questioni problematiche derivanti dalle innovazioni introdotte dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, sia in ordine al procedimento che ai presupposti ed ai criteri di liquidazione dell'indennizzo.
Pervenendo a conclusioni opposte a quelle affermate per la parte rimasta contumace nel processo di cognizione, Sez. 6-2, n. 00089/2016, Manna, Rv. 638571, ha chiarito che il debitore esecutato rimasto inattivo non ha diritto ad alcun indennizzo per l'irragionevole durata del processo esecutivo che è preordinato all'esclusivo interesse del creditore, sicché egli è soggetto al potere coattivo del creditore, recuperando solo nelle eventuali fasi d'opposizione ex artt. 615 e 617 c.p.c., la cui funzione è diretta a stabilire un separato ambito di cognizione, la pienezza della posizione di parte, con possibilità di svolgere contraddittorio e difesa tecnica.
La legittimazione ad agire della persona offesa dal reato, relativamente all'irragionevole durata del procedimento di opposizione all'archiviazione, è stata invece negata da Sez. 6-2, n. 08291/2016, Manna, Rv. 639736, in quanto la stessa non assume, in detto giudizio, la necessaria veste, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europera per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, di parte di una causa civile, né, tantomeno, di destinataria di un'accusa penale.
L'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 stabilisce che la domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento e' divenuta definitiva. Come noto, tale formulazione della disposizione è successiva alle modifiche introdotte dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, prima delle quali era possibile proporre la domanda di equa riparazione anche "lite pendente". Proprio in ordine all'attuale esclusione di tale possibilità, Sez. 6-2, n. 13556/2016, Manna, Rv. 640328, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, laddove condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo alla previa definizione del processo medesimo, in quanto il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha introdotto un sistema di rimedi preventivi diretti a impedire la stessa formazione del ritardo processuale, così aderendo alla sentenza di monito n. 30 del 2014 della Corte Costituzionale circa la violazione dei principi CEDU. Peraltro, la più recente Sez. 6-2, n. 26402/2016, Lombardo, in corso di massimazione, dissentendo espressamente da tale decisione, ha invece ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 4 della l. n. 89 del 2001, come sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8, paragrafo, 1, e 13, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. In particolare, l'ordinanza di rimessione si fonda sull'assenza di tutela della parte durante il giudizio presupposto, anche laddove lo stesso abbia significativamente superato i termini di durata ragionevole, nonché - e soprattutto - sulla declaratoria di inammissibilità della domanda "lite pendente" anche nell'ipotesi in cui, nelle more della definizione del giudizio indennittario, il processo presupposto sia stato definito.
Sotto altro profilo, le Sezioni Unite hanno chiarito da quando decorre il termine semestrale per la proposizione della domanda di equa riparazione allorché, in relazione alla tutela del medesimo diritto, si siano succeduti un giudizio di cognizione e la fase dell'esecuzione forzata. In particolare, Sez. U, n. 09142/2016, Bianchini, Rv. 639530, premesso che ai fini dell'equa riparazione per irragionevole durata, il procedimento di cognizione e quello di esecuzione devono essere considerati unitariamente o separatamente in base alla condotta di parte, allo scopo di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne l'esercizio abusivo, ha affermato che, ove si sia attivata per l'esecuzione nel termine di sei mesi dalla definizione del procedimento di cognizione, ai sensi dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, la parte può esigere la valutazione unitaria dei procedimenti, finalisticamente considerati come unicum, mentre, qualora abbia lasciato spirare quel termine, essa non può più far valere l'irragionevole durata del procedimento di cognizione, essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo procedimento di esecuzione.
Il medesimo principio è stato sostanzialmente affermato da Sez. 6-2, n. 23187/2016, Rv. 641686, avuto riguardo al computo del termine necessario per la defizione dell'eventuale procedura di correzione dell'errore materiale da cui sia affetto il provvedimento conclusivo del processo presupposto, purché vi sia continuità tra tale procedimento ed il giudizio di cognizione cui afferisce. Sulla questione si segnala, inoltre, anche Sez. 6-2, n. 20697/2016, Manna, Rv. 641513, la quale ha ritenuto i principi enunciati dalla richiamata decisione delle Sezioni Unite applicabili anche con riguardo ai rapporti, nell'ambito del processo contabile, tra il giudizio di cognizione e quello di interpretazione di cui all'art. 78 del r.d. 7 dicembre 1934 n. 1214, che è equiparabile al processo esecutivo, in quanto volto a consentire l'esatto adeguamento del rapporto sostanziale al comando giurisdizionale, senza che assuma rilevanza la parte che abbia promosso lo stesso.
Sotto altro profilo, Sez. 6-2, n. 21777/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha evidenziato che in tema di irragionevole durata delle procedure fallimentari, il termine semestrale di decadenza per la proponibilità della domanda di equa riparazione decorre dalla data di definitività del decreto di chiusura del fallimento, coincidente con il decorso del termine per la proposizione del reclamo o con il rigetto del reclamo medesimo, se esperito, ovvero con la decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la decisione assunta in sede di reclamo.
In materia di processo amministrativo si segnala, invece, Sez. 6-2, n. 07011/2016, Manna, Rv. 639662, per la quale il decreto di estinzione emesso ex art. 85, comma 1, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per rinuncia agli atti proveniente da entrambe le parti, riveste il carattere di definitività cui è subordinata, ai sensi dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, la proponibilità della domanda di equa riparazione, e ciò indipendentemente dal decorso del termine per l'opposizione prevista dal comma 3 del medesimo art. 85, in quanto il reclamo resta in tal caso escluso dal difetto di interesse delle parti a proporlo contra factum proprium.
In tema di irragionevole durata del processo penale, Sez. 6-2, n. 22818/2016, Giusti, Rv. 641682, ha chiarito che il "dies a quo" per la proponibilità della domanda di equa riparazione va individuato nella data di irrevocabilità della sentenza conclusiva del processo presupposto, evidenziando che tale momento coincide con lo spirare dei termini per impugnare detta decisione, ex art. 585 c.p.p.
Con riferimento ai procedimenti nei quali trova applicazione l'art. 4 della l. n. 89 del 2001, laddove consente la proponibilità della domanda indennitaria anche "lite pendente", è stato precisato, da Sez. 6-2, n. 15803/2016, Manna, Rv. 640711, che il ricorrente che si avvalga della facoltà di agire per l'equa riparazione prima della definizione del giudizio presupposto ha l'onere di proporre e coltivare la domanda per ogni profilo di danno già maturato, attesi i principi di unicità, concentrazione e infrazionabilità, sicché nell'eventuale nuovo procedimento volto a ottenere l'indennizzo per la durata ulteriore della causa egli non può far valere danni verificatisi nell'arco temporale coperto dalla prima domanda di riparazione.
In generale, come evidenziato da Sez. 6-2, n. 21777/2016, Falaschi, Rv. 641542, l'intervenuta decadenza dall'azione indennitaria, per mancato rispetto del termine semestrale ex art. 4, della l. n. 89 del 2001, è rilevabile d'ufficio, anche in sede di legittimità, costituendo l'avvenuta proposizione della domanda entro detto termine una componente indefettibile del giudizio di equa riparazione, sia in negativo, quale causa preclusiva di una pronunzia sul merito della pretesa, sia in positivo, quale condizione di proponibilità della domanda.
Con riguardo all'istanza di prelievo da presentarsi nel processo amministrativo presupposto, sul piano processuale, Sez. 6-2, n. 00092/2016, Manna, Rv. 638570, ha statuito che l'istanza di prelievo, presentata dal difensore in forza del mandato ricevuto per la costituzione in giudizio, è valida finché è efficace la procura alla lite che la sorregge e, dunque, anche dopo la morte della parte rappresentata ove il procuratore, non dichiarando l'evento interruttivo, si avvalga della consequenziale ultrattività del mandato all'interno del medesimo grado di giudizio ai sensi dell'art. 300 c.p.c.
Sotto altro profilo, Sez. 6-2, n. 13554/2016, Manna, Rv. 640246, ha precisato che l'istanza di prelievo, anche quando condiziona ratione temporis la proponibilità della domanda di indennizzo, non incide sul computo della durata del processo, che va riferita all'intero svolgimento processuale e non alla sola fase seguente detta istanza.
In tema di equa riparazione per la irragionevole durata di un procedimento penale, infine, Sez. 6-2, n. 23448/2016, Petitti, in corso di massimazione, ha enunciato il principio per il quale la disposizione di cui all'art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge n. 89 del 2001 - a tenore della quale non è riconosciuto alcun indennizzo «quando l'imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini cui all'articolo 2-bis» - non è applicabile in relazione alle domande di equa riparazione relative a procedimenti penali che, alla data di entrata in vigore della stessa, avessero già superato la durata ragionevole di cui all'art. 2-bis della medesima legge.
La domanda di equa riparazione si propone, nelle forme del ricorso per ingiunzione, al Presidente della corte d'appello individuata ai sensi dell'art. 11 c.p.p. A riguardo, Sez. 6-2, n. 22708/2016, Abete, Rv. 641628, ha precisato che la competenza territoriale a decidere sulla domanda di equa riparazione spetta al giudice individuato sulla base degli artt. 11 c.p.p. e 3, comma 1, della l. n. 89 del 2001 (nel testo vigente "ratione temporis"), e tale criterio trova applicazione anche laddove la parte ricorrente sia un magistrato esercente la funzione nel medesimo distretto di corte di appello cui appartiene il giudice in tal guisa individuato, non determinandosi, in virtù di detta circostanza, alcuno spostamento di competenza, atteso che l'art. 30-bis c.p.c. va inteso in senso restrittivo (Corte cost. n. 147 del 2004) e che non si versa al cospetto di un'azione civile concernente le restituzioni e il risarcimento del danno da reato di cui sia stato parte un magistrato.
Il procedimento per l'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo è stato rimodellato dalla l. n. 134 del 2012, che ha l'strutturato secondo uno schema che ricalca, almeno in apparenza, quello del giudizio monitorio di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c. e, dunque, su due fasi, l'una necessaria inaudita altera parte e l'altra, provocata dall'eventuale opposizione di una delle parti, a cognizione piena, sebbene nelle forme del procedimento in camera di consiglio, volta all'accertamento in contraddittorio in ordine all'esistenza del diritto fatto valere dal ricorrente.
In tale prospettiva, Sez. 6-2, n. 21658/2016, Manna, Rv. 641540, ha statuito che la struttura monitoria del procedimento di equa riparazione, come modificato dalla l. n. 134 del 2012, determina, ove non sia prevista una disciplina specifica, l'applicazione analogica delle norme di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c.: pertanto, quando in sede di opposizione ai sensi dell'art. 5-ter della l. n. 89 del 2001 proposta tardivamente si fa valere la nullità della notificazione del decreto, grava sull'opponente l'onere di provare, ai sensi dell'art. 650 c.p.c., che, a causa di detta invalidità, egli non abbia avuto tempestiva conoscenza del decreto e che, inoltre, non sia stato in grado di proporre tempestiva opposizione.
Sotto distinto, ma concorrente, profilo, Sez. 6-2, n. 20695/2016, Manna, in corso di massimazione, ha chiarito che l'inefficacia del decreto ingiuntivo per la notificazione dello stesso oltre il termine previsto, deve essere fatta valere con l'opposizione di cui all'art. 5-ter della l. n. 89 del 2001, la quale, instaurando il contraddittorio tra le parti, ha ad oggetto non solo l'eccezione d'inefficacia del decreto ma anche la fondatezza della domanda introdotta con il ricorso monitorio.
Si segnala, inoltre, Sez. 6-2, n. 03159/2016, Manna, Rv. 638859, per la quale nel procedimento di equa riparazione per durata irragionevole del processo, come modificato dalla l. n. 134 del 2012, la notifica al Ministero del solo decreto ingiuntivo e non anche del ricorso, integra una nullità formale ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c., poiché non realizza lo scopo dell'atto, costituito dalla piena conoscenza legale della domanda giudiziale da parte dell'amministrazione ingiunta, ma è suscettibile di sanatoria, con efficacia ex tunc, ove, a seguito dell'opposizione erariale, il ricorrente esegua tempestivamente la rinnovazione della notifica del ricorso disposta dalla corte d'appello ex art. 291 c.p.c. Peraltro, Sez. 6-2, n. 24137/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha evidenziato che la notifica al Ministero del solo decreto ingiuntivo, e non anche del ricorso, non ne comporta l'inesistenza, ma solo la nullità per incompletezza, sicché, non essendo applicabile l'art. 188 disp. att. c.p.c., che presuppone una notificazione omessa o giuridicamente inesistente, in caso di opposizione da parte dell'amministrazione, ai sensi dell'art. 5-ter della l. n. 89 del 2001, il vizio risulta sanato, non essendosi determinata alcuna lesione del diritto di difesa.
Quanto alla statuizione sulle spese all'esito della fase di opposizione avverso il decreto ingiuntivo emanato nei confronti dell'Amministrazione, poiché trovano applicazione residuale le regole proprie del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo di cui agli artt. 645 e ss. c.p.c., Sez. 6-2, n. 26851/2016, Manna, in corso di massimazione, ha evidenziato che nell'ipotesi di revoca, anche parziale, del provvedimento monitorio, il giudice decide delle spese sia della fase sommaria che di quella dell'opposizione, tenendo conto del principio di globalità (ossia valutando l'esito complessivo del giudizio), mentre nel caso di rigetto resta ferma la statuizione contenuta nel decreto, cui si aggiunge la decisione sulle spese relative alla fase dell'opposizione.
In tema di compensazione delle spese processuali per soccombenza reciproca, Sez. 6-2, n. 26235/2016, Scalisi, in corso di massimazione, ha chiarito che detta ipotesi non può verificarsi nel procedimento di equa riparazione ove la domanda sia accolta in misura inferiore all'ammontare preteso, in quanto tale giudizio è connotato, a causa dell'assenza di strumenti di predeterminazione anticipata del danno e del suo ammontare, dal potere del giudice d'individuare in maniera autonoma l'indennizzo dovuto, secondo criteri che sfuggono (come al dominio, così anche) alla previsione della parte, la quale, nel precisare l'ammontare della somma richiesta a titolo di danno non patrimoniale, non completa il "petitum" della domanda tematizzandola sotto il profilo quantitativo, ma sollecita (a prescindere dalle espressioni adoperate) l'esercizio di un potere di liquidazione interamente ufficioso.
È stato inoltre precisato da Sez. 6-2, n. 16392/2016, Petitti, Rv. 640835, rispetto ai compensi professionali spettanti ai difensori, che nei giudizi di equa riparazione per irragionevole durata del processo, il giudice, purché non scenda al di sotto degli importi minimi, può ridurre il compenso sino alla metà ex art. 9 del d.m. n. 140 del 2012, senza necessità di specifica motivazione.
È stato poi precisato, da parte di Sez. 6-2, n. 23187/2016, Petitti, Rv. 641687, che, ai fini della liquidazione delle spese processuali, la natura contenziosa del processo camerale per l'equa riparazione, già affermata in relazione alla previgente tariffa di cui al d.m. n. 127 del 2004, deve essere ribadita anche in relazione alla tariffa di cui al d.m. n. 55 del 2014.
Sempre in tema di spese processuali, si segnala Sez. 6-2, n. 02587/2016, Scalisi, la quale ha statuito che, in tema di equa riparazione, configura abuso del processo la condotta di coloro che, avendo agito unitariamente nel processo presupposto, in tal modo dimostrando la carenza di interesse a diversificare le rispettive posizioni, propongano contemporaneamente, con identico patrocinio legale, distinti ricorsi per ottenere l'indennizzo ex lege n. 89 del 2001, così da instaurare cause inevitabilmente destinate alla riunione in quanto connesse per oggetto e titolo. Ne deriva che è legittima la decisione che, a seguito della riunione di distinti ricorsi presentati dal medesimo difensore, per conto di soggetti aventi la stessa posizione nel processo a quo, ha ritenuto il giudizio come unitario ab origine, liquidando le spese di lite con un importo unico.
Quanto alle sanzioni pecuniarie che possono essere poste a carico della parte ricorrente nell'ipotesi di inammissibilità o manifesta infondatezza della domanda di equa riparazione, Sez. 6-2, n. 05433/2016, Manna, Rv. 639210, ha ritenuto manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., l'eccezione d'illegittimità costituzionale dell'art. 5-quater della l. n. 89 del 2001, in quanto, senza alcun automatismo, rientra nel potere discrezionale del giudice valutare se sussistono i presupposti per disporre una sanzione pecuniaria a carico della parte nelle ipotesi di declaratoria di inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza e la previsione di detta sanzione, pur costituendo un deterrente rispetto alla proposizione dell'azione, è compatibile con i parametri costituzionali ed in particolare con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che, per realizzarsi concretamente, presuppone misure volte a ridurre i rischi di abuso del processo.
Su un piano generale, è stato chiarito da Sez. 6-2, n. 26630/2016, Petitti, in corso di massimazione, che, sebbene in linea di principio il "dies a quo" dell'introduzione del giudizio con atto di citazione debba individuarsi nella notifica dello stesso, peraltro, ove l'incompleta o erronea notificazione dell'atto introduttivo sia imputabile alla parte, non può addebitarsi all'amministrazione della giustizia la necessità di procedere alla rinnovazione della notifica ovvero all'integrazione del contraddittorio (sicché il relativo periodo non può essere computato ai fini della determinazione della durata irragionevole del processo presupposto).
Sez. 6-2, n. 26208/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha inoltre precisato che anche la fase del giudizio introdotto dinanzi ad un giudice dichiarato incompetente, a seguito di tempestiva riassunzione, deve essere valutata per la determinazione della durata del giudizio ed ai fini della quantificazione dell'indennizzo.
Per altro verso, Sez. 6-2, n. 26833/2016, Petitti, in corso di massimazione, ha affermato che la regola per la quale non si computa nel periodo di durata del processo presupposto la fase che va dalla pubblicazione della sentenza alla proposisizione dell'impugnazione, pur se destinata ad essere applicata ai giudizi introdotti successivamente all'11 settembre 2012, esprime tuttavia un chiaro elemento interpretativo della "ratio" della legge sull'equa riparazione, da ritenersi operante anche per il periodo anteriore alla sua entrata in vigore, in assenza di una previsione legislativa di segno contrario, non potendosi addebitare all'amministrazione della giustizia il lasso di tempo di stasi processuale, nel quale nessun giudice è incaricato della trattazione del processo.
Sez. 6-2, n. 15734/2016, Manna, Rv. 640574, ha evidenziato che, ai fini dell'equa riparazione, la durata del processo di esecuzione include i tempi impiegati per definire i rimedi cognitivi o esecutivi, come la fase di reclamo avverso l'ordinanza che dichiari l'estinzione della procedura.
Sempre ai fini dell'equa riparazione per violazione del termine ragionevole, Sez. 6-2, n. 13819/2016, Manna, Rv. 640247, ha affermato che la durata del procedimento di insinuazione al passivo fallimentare si computa dalla proposizione dell'istanza di ammissione - tempestiva o tardiva - fino all'emanazione del relativo provvedimento, non potendosi cumulare a tale periodo quello del precedente svolgimento della procedura concorsuale, perché a questo il creditore è rimasto estraneo.
Nell'ambito di un processo instaurato ai sensi della legge cd. Pinto, per ottenere l'indennizzo da irragionevole durata di un altro processo, Sez. 6-2, n. 16857/2016, Petitti, Rv. 640830, ha chiarito che la durata complessiva dei due gradi di giudizio è ragionevole ove non ecceda il termine di un anno per grado, anche alla luce della sentenza n. 36 del 2016 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 2, comma 2-bis, della l. n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del processo di equa riparazione in primo grado.
Più in generale, Sez. 6-2, n. 19938/2016, Manna, Rv. 641698, ha chiarito che, in tema di equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001, sebbene il comma 2-bis dell'art. 2 abbia individuato standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest'ultimo sia stato articolato in vari gradi e fasi, occorre effettuare una valutazione sintetica e complessiva della durata dello stesso, non potendosi attribuire altro significato alla previsione di un termine massimo di durata ragionevole dell'intero giudizio effettuata dall'art. 2, comma 2-ter, della stessa l. n. 89 del 2001.
Sulla scorta del generale principio per il quale, ai fini del riconoscimento dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo, il danno non patrimoniale si presume, mentre quello patrimoniale deve essere oggetto di puntuale allegazione e prova, Sez. 6-2, n. 12864/2016, Manna, Rv. 640090, ha affermato che l'irragionevole durata della procedura concorsuale di per sè non causa al fallito un lucro cessante, in quanto egli non è privato della capacità di svolgere attività lavorativa, né l'eventualità che i proventi siano appresi all'attivo fallimentare rappresenta un danno ingiusto.
Per converso, come evidenziato da Sez. 6-2, n. 18333/2016, Petitti, Rv. 641072, la dichiarazione di estinzione del giudizio contabile presupposto per mancata riassunzione in esito all'interruzione per decesso della parte o del difensore non esclude la sussistenza del danno non patrimoniale in quanto, diversamente, verrebbe attribuita rilevanza ad una circostanza sopravvenuta, quale l'estinzione, sorta successivamente al superamento del limite di durata ragionevole del processo.
Ancora, Sez. 6-2, n. 14047/2016, Picaroni, Rv. 640212, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per irragionevolezza. dell'art. 2-bis, comma 3, della l. n. 89 del 2001, in quanto tale norma, garantendo una più stretta relazione tra il significato economico della domanda giudiziale e il patema d'animo che la parte subisce in attesa della definizione, persegue la ratio di evitare sovracompensazioni.
Si segnala, poi, l'importante precisazione resa da Sez. 6-2, n. 09100/2016, Petitti, Rv. 639461, che ha evidenziato che l'elenco di cui all'art. 2, comma 2-quinquies, della legge n. 89 del 2001 in ordine alle cause di esclusione dell'indennizzo non è tassativo, sicché l'indennizzo può essere negato a chi abbia agito o resistito temerariamente nel giudizio presupposto, anche in assenza della condanna per responsabilità aggravata, a cui si riferisce la lett. a), potendo il giudice del procedimento di equa riparazione, già prima delle modifiche di cui alla legge 28 dicembre 2015, n. 208, autonomamente valutare la temerarietà della lite, come si desume, peraltro, dalla lett. f), che attribuisce carattere ostativo ad ogni altra ipotesi di abuso dei poteri processuali.
Sulla questione è stato anche chiarito, da Sez. 6-2, n. 22150/2016, Falaschi, 641722, che il patema d'animo derivante dalla situazione di incertezza per l'esito della causa è da escludersi anche nell'ipotesi di "temerarietà sopravvenuta", ovvero quando la consapevolezza dell'infondatezza delle proprie pretese sia derivata, rispetto al momento di proposizione della domanda, da circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio prima che la durata del processo abbia superato il termine di durata ragionevole. La successiva decisione Sez. 6-2, n. 24604/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha precisato che, nell'ipotesi di "temerarietà sopravvenuta" della lite, il diritto all'equa riparazione è subordinato alla circostanza che, già prima che la controversia divenisse temeraria, era stato superato il termine di ragionevole durata del processo presupposto.
Sotto altro profilo, è stato chiarito, da Sez. 6-2, n. 24743/2016, Petitti, in corso di massimazione, che il diritto all'equa riparazione va riconosciuto, nella ricorrenza delle condizioni cui è subordinato il conseguimento dell'indennizzo, anche in favore della parte che, nel processo presupposto, abbia sollevato questione di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, limitatamente alla parte di detto giudizio svoltasi anteriormente alla dichiarazione di non fondatezza della questione.
Quanto al diritto dell'imputato ad ottenere l'equa riparazione per irragionevole durata del processo, Sez. 6-2, n. 26630/2016, Criscuolo, in corso di massimazione, ha evidenziato che detto diritto all'indennizzo sussiste nell'ipotesi di proposizione di appello volto ad ottenere la piena assoluzione nel merito, atteso che la differenza tra una definizione del processo penale in rito ed una assoluzione nel merito non si palesa come priva di rilevanza, quanto meno sul piano morale e per ciò che attiene all'interesse dell'imputato alla tutela della propria reputazione sociale, sicché il protrarsi del processo in grado di appello non consente di affermare che la lite avesse rivestito ormai carattere bagatellare o che la posta in gioco, sempre per l'imputato, fosse del tutto irrilevante e tale da fargli perdere ogni concreto interesse.
Anche nel corso del 2016 la S.C. si è più volte pronunciata sul tema dei diritti degli stranieri extracomunitari.
Sez. 6-1, n. 13252/2016, De Chiara, Rv. 640224, accogliendo l'impugnazione proposta da una cittadina peruviana che aveva visto respingere dal giudice di pace il ricorso avverso il decreto di espulsione emesso nei suoi confronti, ove denunciava la violazione di alcune norme di diritto, derivanti dalla necessità di osservare un rigido protocollo post-operatorio in seguito a un intervento chirurgico, ribadisce che la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero, che comunque si trovi nel territorio nazionale, impedisce l'espulsione nei confronti di colui che dall'immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d'urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita.
Sez. L, n. 17397/2016, Doronzo, Rv. 641001, inserendosi nel solco dell'indirizzo già consolidatosi, afferma la equiparazione tra cittadini italiani residenti in Italia e stranieri titolari di carta o di permesso di soggiorno, ai fini del diritto alle prestazioni assistenziali (nel caso di specie l'assegno sociale), senza richiedere, in aggiunta, il requisito della stabile dimora in Italia. Ed, invero, si afferma che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, ove si versi, come nel caso di specie, in tema di provvidenza destinata a far fronte al sostentamento della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dall'art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Alla luce di questi principi, pertanto, la tesi secondo cui l'allontanamento anche solo temporaneo dello straniero farebbe venir meno il diritto alla prestazione per il principio della "inesportabilità" delle prestazioni assistenziali introdurrebbe un limite al diritto non previsto dalla legge e discriminatorio in ragione della oggettiva diversità della posizione dello straniero extracomunitario rispetto al cittadino italiano.
Sez. U, n. 07951/2016, Giusti, Rv. 639287, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. 5 aprile 2002, n. 77, sancisce che è discriminatorio il comportamento della P.A. che inserisca tra i requisiti per l'accesso ad un bando di selezione di volontari, da impiegare in progetti di servizio civile nazionale, il possesso della cittadinanza italiana e che avverso tale condotta, il soggetto leso può promuovere l'azione di cui all'art. 44, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
Sempre in tema di prestazioni assistenziali Sez. L, n. 00593/2016, Tricomi, Rv. 638229, statuisce che il cittadino straniero, titolare del solo permesso di soggiorno, ha il diritto di vedersi attribuire l'indennità di accompagnamento, ove ne ricorrano le condizioni previste dalla legge, per effetto di Corte cost., 30 luglio 2008, n. 306, Corte cost., 23 gennaio 2009, n. 11, Corte cost., 28 maggio 2010, n. 187, e Corte cost., 15 marzo 2013, n. 40, che hanno espunto l'ulteriore condizione della necessità della carta di soggiorno. Ciò in quanto, secondo la S.C., se è consentito al legislatore nazionale subordinare l'erogazione di prestazioni assistenziali alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, quando tali requisiti non siano in discussione, sono costituzionalmente illegittime, perché ingiustificatamente discriminatorie, le norme che impongono nei soli confronti dei cittadini extraeuropei particolari limitazioni al godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti ai cittadini italiani.
Pronunciandosi in tema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario, Sez. 6-1, n. 14157/2016, Ragonesi, Rv. 640261, dando continuità ad un indirizzo già consolidatosi, stabilisce che requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione "personale e diretta" nel Paese d'origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un gruppo sociale, ovvero per le opinioni politiche professate specificando che il relativo onere probatorio, che riceve un'attenuazione in funzione dell'intensità della persecuzione, incombe sull'istante, per il quale è tuttavia sufficiente provare anche in via indiziaria la "credibilità" dei fatti da esso segnalati. Affinché l'onere probatorio (che grava in ogni caso sullo straniero, seppure in modo attenuato) possa ritenersi assolto, gli elementi allegati devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza desumibili dai dati anche documentali offerti.
In tema di protezione sussidiaria, Sez. 6-1, n. 25463/2016, Bisogni, Rv. 641904-01, nel solco della precedente giurisprudenza della Corte, afferma che la costrizione ad un matrimonio non voluto costituisce grave violazione della dignità e, dunque, trattamento degradante che integra un danno grave, la cui minaccia, ai fini del riconoscimento di tale misura, può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato, allorché le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato o una sua parte consistente non possano o non vogliano fornire protezione adeguata. Sez. 6-1, n. 26641/2016, De Chiara, Rv. 642778-01, chiarisce che la protezione umanitaria non può essere riconosciuta per il semplice fatto di versare in non buone condizioni di salute, occorrendo invece che tale condizione sia l'effetto della grave violazione dei diritti umani dell'interessato nel paese di provenienza non rilevando le buone prospettive di integrazione in Italia in mancanza del diritto di soggiornarvi.
Con riguardo al profilo processuale, Sez. 6-1, n. 13830/2016, Mercolino, Rv. 640348, stabilisce che le controversie in materia di protezione internazionale instaurate in data successiva all'entrata in vigore del d.lgs. 10 settembre 2011, n. 150 sono assoggettate al rito sommario di cognizione ai sensi degli artt. 19 e 36 di tale decreto, con la contestuale abrogazione del rito speciale già disciplinato dall'art. 35 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25. Ne consegue, pertanto, con il venir meno della disciplina speciale dettata da quest'ultima disposizione nonché dell'assenza di norme specifiche riguardanti il ricorso per cassazione nel caso in cui il giudizio di primo grado si sia svolto con il rito sommario, l'assoggettamento dell'impugnazione alla disciplina ordinaria dettata dal codice di procedura civile e la necessità che il ricorso debba essere notificato alla controparte a cura del ricorrente.
In tema di protezione internazionale dello straniero, Sez. 6-1, n. 23576/2016, Ragonesi, Rv. 642792-01, stabilisce che dal momento della pubblicazione e prima ancora della notificazione, la sentenza del tribunale di rigetto del ricorso contro il provvedimento negativo della Commissione territoriale, proposto ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, fa venire meno l'effetto sospensivo dell'esecutività del diniego stesso, sicché fa divenire attuale l'obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale. Tale obbligo si traduce nel dovere, per il Prefetto, di provvedere ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, salvo che venga proposto reclamo alla Corte d'Appello e venga accolta l'istanza di sospensione.
Sez. 6-1, n. 03004/2016, Genovese, Rv. 638574, ha ribadito il principio secondo cui in tema di immigrazione, il decreto di espulsione emesso nei confronti dello straniero avente figli minori che abbia omesso di chiedere, nei termini di legge, al tribunale per i minorenni il rinnovo dell'autorizzazione al soggiorno per gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico degli stessi, è illegittimo per violazione della clausola di salvaguardia della coesione familiare di cui all'art. 5, comma 5, e 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, ove non contenga alcun riferimento alle ragioni per cui non è stata presa in considerazione la sua situazione familiare.
Con riguardo alla diversa ipotesi del cittadino straniero coniugato con cittadino italiano, Sez. 6-1, n. 13831/2016, Mercolino, Rv. 640349, ha avuto modo di precisare l'ambito applicativo della disciplina dettata dal d.lgs. 6 febbraio 2007 n. 30, chiarendo che la stessa si riferisce alla sola ipotesi di rinnovo di un precedente titolo di soggiorno, e distinguendola da quella di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, riguardante invece l'ipotesi di prima richiesta del titolo di soggiorno alla scadenza del periodo di tre mesi previsto dall'art. 6 del d.lgs. n. 30 del 2007. La Corte ha quindi affermato che il coniuge del cittadino italiano (o di altro Stato membro dell'Unione Europea), dopo aver trascorso nel territorio nazionale il trimestre di soggiorno informale, è tenuto a richiedere la carta di soggiorno prescritta dall'art. 10 del d.lgs. n. 30 del 2007, restando soggetto, sino al momento in cui non ottenga detto titolo (avente valore costitutivo per l'esercizio dei diritti nell'Unione Europea) alla disciplina dettata dalla legislazione nazionale e, segnatamente, dall'art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998, nonché dall'art. 28 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, in virtù della quale, ai fini della concessione e del mantenimento dei permessi di soggiorno per coesione familiare, è imposta la sussistenza del requisito della convivenza effettiva. Nella specie, la Corte aveva confermato il provvedimento impugnato in quanto era emerso che la ricorrente, allontanatasi dal territorio nazionale poco dopo la celebrazione del matrimonio, vi aveva fatto ritorno dopo oltre nove anni, senza mai intraprendere la convivenza con il marito.
In tema di ricongiungimento familiare, Sez. 1, n. 10072/2016, De Chiara, Rv. 639673, ha affermato che l'attribuzione della tutela su di un minore per via negoziale è inidonea all'accoglimento della domanda di ricongiungimento familiare, ex art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, non essendo tale tutela equiparabile a quella disciplinata dal diritto italiano, giudizialmente disposta in favore dei minori privi di genitori in grado di esercitare nei loro confronti la responsabilità genitoriale e, dunque, di rappresentarli legalmente. Nella specie, la ricorrente chiedeva il ricongiungimento con la nipote, minorenne, dal cui padre le era stata concessa la tutela in virtù di mero atto negoziale.
Quanto ai profili processuali, Sez. 6-1, n. 13815/2016, Bisogni, Rv. 640303, ha chiarito che l'impugnazione avverso l'ordinanza reiettiva del permesso di soggiorno per motivi familiari di cui all'art. 30, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 286 del 1998 , va proposta con atto di citazione e non già con ricorso, precisando che, nel caso di erronea introduzione del giudizio, la tempestività del gravame va verificata con riferimento non solo alla data di deposito dell'atto ma anche a quella di notifica dello stesso alla controparte, che deve avvenire nel rispetto del termine di cui all'art. 702-quater c.p.c. a pena di inammissibilità, senza che sia possibile peraltro alcuna conversione del rito in appello.
Sez. 6-1, n. 04794/2016, De Chiara, Rv. 639018, sottolinea che nel giudizio introdotto con il ricorso avverso il provvedimento espulsivo il giudice ordinario ha piena cognizione dei fatti di causa, che può e deve accertare anche grazie alla produzione di prove non esibite a suo tempo all'autorità amministrativa, secondo le regole generali valevoli per i giudizi davanti a tale giudice, finalizzati appunto, grazie alla pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa, a correggere eventuali lacune o errori del procedimento amministrativo. Nel caso sottopostole, in particolare, la Corte ha annullato la decisione impugnata laddove il giudice aveva ritenuto irrilevante l'esistenza, sul passaporto del ricorrente, di un visto d'ingresso in quanto non esibito al momento dell'espulsione.
Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104, si colloca nel solco dell'orientamento secondo cui il provvedimento di espulsione dello straniero è obbligatorio e a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario dinanzi al quale esso venga impugnato è tenuto unicamente a controllare la sussistenza, al momento dell'espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l'emanazione, i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento ovvero nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego. In particolare, chiarisce che al giudice investito dell'impugnazione del provvedimento di espulsione non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno ovvero ne abbia negato il rinnovo. Tale sindacato spetta, secondo la Corte, unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l'impugnazione dei provvedimenti del questore non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l'impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile. Nel solco di tale orientamento, Sez. 6-1, n. 25799/2016, Acierno, Rv. 642307-01, ribadisce che il sindacato giurisdizionale sull'espulsione non può estendersi alla valutazione dei presupposti della revoca del permesso di soggiorno né l'inespellibilità ex art. 19, comma 2, del d.lgs n. 286 del 1998, può trovare applicazione quando il titolo di soggiorno fondato su tale divieto sia stato revocato per difetto di altri presupposti.
Con riguardo al sindacato del giudice di pace sul decreto espulsivo, Sez. 6-1, n. 05367/2016, Acierno, Rv. 639027, afferma il principio secondo cui il giudice ordinario, dinanzi al quale sia stato impugnato il provvedimento di espulsione, sul presupposto che la cittadina straniera si era trattenuta nel territorio dello Stato senza aver presentato la dichiarazione di presenza di cui all'art. 5, comma 2, d.lgs n. 286 del 1998 o richiesto il permesso nei termini prescritti, non può in via interpretativa modificare la contestazione facendovi rientrare la diversa fattispecie dell'irregolare presenza per mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Ciò in quanto tale fattispecie è fenomenicamente e giuridicamente diversa e poiché il provvedimento di espulsione ha carattere vincolato, come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità e poiché le ipotesi di violazione che possono giustificare l'espulsione sono rigorosamente descritte dalla vigente normativa, sicché il giudice di pace non può accertare l'esistenza di una causa espulsiva non contestata.
Con riguardo al sindacato sul decreto di espulsione Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv. 641169, afferma che, nel caso di provvedimento espulsivo emesso a seguito di reingresso irregolare dello straniero nel territorio dello Stato, di cui all'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, l'emissione del decreto di espulsione ha carattere di automaticità, con esclusione di qualsivoglia potere discrezionale del prefetto al riguardo. Pertanto, il provvedimento espulsivo del prefetto è sindacabile solo ove gli accertamenti di fatto su cui è fondato siano erronei o mancanti, o il cittadino straniero non abbia potuto esercitare la propria opzione in ordine alla richiesta di rimpatrio mediante partenza volontaria. Né tale decreto può essere dichiarato illegittimo solo perché esso non contenga un termine per la partenza volontaria, così come previsto dalla direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, in quanto tale mancanza può incidere sulla misura coercitiva adottata per eseguire l'espulsione, ma non sulla validità del provvedimento espulsivo.
Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv. 641171, afferma, inoltre, che, mentre spetta al prefetto stabilire se sussistono le condizioni per concedere, con il provvedimento di espulsione, il termine per la partenza volontaria, rientra nella competenza del questore indicare, in tale evenienza, le condizioni per la permanenza medio tempore dello straniero nel territorio nazionale, ovvero, qualora venga disposta l'espulsione immediata, decidere se provvedere all'accompagnamento coattivo immediato, al trattenimento presso il centro di identificazione ed espulsione (CIE) o all'intimazione ex art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998. Pertanto non vi è contraddittorietà, secondo la Corte, tra il diniego di concessione di partenza volontaria e la mancata adozione di misure di controllo, che restano applicabili, alternativamente o cumulativamente, dal questore solo nell'ipotesi in cui sia stata accolta dal prefetto la richiesta di rimpatrio volontario.
Con riguardo all'espulsione amministrativa, Sez. 6-1, n. 08984/2016, Genovese, Rv. 639502, chiarisce che la ricorrenza dell'ipotesi di trattenimento illegale nel territorio dello Stato, di cui all'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, comporta l'emissione del decreto di espulsione con carattere di automaticità, salvo il solo caso di tardiva presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, con esclusione di qualsivoglia potere discrezionale del prefetto al riguardo e senza che assumano alcun rilievo né la circostanza che lo straniero sia entrato regolarmente in Italia, né che vi svolga attività lavorativa, in assenza dell'attivazione della specifica procedura di sanatoria al riguardo.
Può viceversa inibire l'esercizio del potere espulsivo nel caso di intervenuta scadenza del permesso di soggiorno oltre il limite temporale stabilito nell'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. .n. 286 del 1998, come affermato in Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640100, il mancato rifiuto esplicito o per facta concludentia di ricevere l'istanza di rinnovo, ancorché tardivamente proposta, del permesso di soggiorno scaduto, che può integrare una causa di addebitabilità all'Amministrazione della permanenza illegale, purché lo straniero fornisca la prova del comportamento dilatorio ed ostruzionistico.
D'altra parte, afferma Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640099, ai sensi dell'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, la spontanea presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno oltre il termine di sessanta giorni dalla sua scadenza non consente l'espulsione automatica, che può essere disposta solo se la domanda sia stata respinta per la mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno dello straniero sul territorio nazionale, mentre il ritardo nella presentazione può costituirne solo un indice rivelatore, nel quadro di una valutazione complessiva, della situazione in cui versa l'interessato.
Si registrano alcune pronunce della Corte in tema di trattenimento dello straniero, misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell'articolo 13 della Costituzione.
Con d.l. 14 settembre 2004, n. 241, convertito con modificazioni nella legge 12 novembre 2004 n. 271, la competenza è stata attribuita al giudice di pace.
Il procedimento di convalida del trattenimento è analogo a quello della convalida dell'accompagnamento alla frontiera ed è disciplinato dall'art. 14, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Al riguardo, Sez. 6-1, n. 08268/2016, De Chiara, Rv. 639487, stabilisce che ai sensi dell'art. 14, comma 4, d.lgs. n. 286 del 1998, che fa applicazione dell'art. 13 Cost., il decreto di convalida del trattenimento deve essere emesso dal giudice entro le quarantotto ore successive alla comunicazione del trattenimento stesso, a pena di inefficacia di quest'ultimo. A fini del controllo della sua osservanza, è indispensabile, che risulti non soltanto il giorno, ma anche l'ora in cui il decreto è emesso. Ove il decreto sia emesso all'udienza, è sufficiente l'indicazione dell'ora in cui questa si è svolta nel relativo verbale; ove, invece, il decreto sia emesso con distinto provvedimento, è necessario che sia precisata l'ora del suo deposito in cancelleria, posto che il provvedimento emesso fuori udienza viene ad esistenza soltanto con il deposito. Nel caso in cui tale precisazione manchi, il provvedimento è nullo per difetto di un requisito essenziale ai fini del raggiungimento dello scopo (art. 156, comma 2, c.p.c.).
Con riferimento alla proroga del trattenimento, Sez. 6-1, n. 07158/2016, De Chiara, Rv. 639310, chiarisce che ai fini della tempestività della proroga del trattenimento in un CIE, è sufficiente che essa sia disposta nel termine originario di scadenza del trattenimento, mentre il decorso, tra la corrispondente richiesta e la sua convalida da parte del giudice di pace, di un tempo superiore alle quarantotto ore, non ne inficia la validità, non ponendosi alcuna esigenza di rispetto dell'articolo 13, comma 3, Cost., atteso che il giudice non interviene per convalidare un provvedimento restrittivo già emesso dal questore, ma emette egli stesso il provvedimento restrittivo.
Con riguardo alla proroga del trattenimento, inserendosi nel solco di una consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, Sez. 6-1, n. 12709/2016, De Chiara, Rv. 640098, stabilisce che al procedimento giurisdizionale sulla richiesta di proroga del trattenimento presso il CIE si applicano le stesse garanzie del contraddittorio, consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell'audizione del trattenuto, previste per il procedimento di convalida della prima frazione temporale del trattenimento, senza necessità di specifica richiesta del trattenuto di essere sentito dal giudice. In tema di misure alternative al trattenimento di cui all'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, Sez. 6-1, n. 20108/2016, De Chiara, Rv. 641863-01, stabilisce che il possesso di passaporto o di altro documento equipollente o il pregresso rilascio di permesso di soggiorno per richiesta di asilo non è requisito indispensabile per l'adozione di dette misure.
Con riguardo al rapporto tra il giudizio sul provvedimento di espulsione e l'accertamento in sede penale dei fatti, che sarebbero a base della valutazione di pericolosità dell'espulso, Sez. 6-1, n. 12711/2016, De Chiara, Rv. 640097, afferma la ricorrenza di un rapporto di connessione e non di pregiudizialità in senso tecnico giuridico ex art. 295 c.p.c.
In tema di traduzione del decreto di espulsione nella lingua madre del destinatario, Sez. 6-1, n. 13824/2016, Mercolino, Rv. 640376, statuisce che la traduzione del decreto di espulsione nella lingua ufficiale del Paese al quale appartiene lo straniero soddisfa il requisito posto dall'art. 13, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, in termini di presunzione legale di conoscenza, non rilevando che l'espellendo possa essere non in grado di intendere tale lingua, dovendo escludersi che dalla citata norma possa ricavarsi la necessità della traduzione in un dialetto locale da lui comprensibile.
Sez. 6-1, n. 22145/2016, De Chiara, Rv. 642668-01, chiarisce che deve escludersi un potere del giudice di "sindacare" la norma di legge (art. 13, comma 7, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) che impone la traduzione del decreto espulsivo in lingua nota alla persona espulsa; né la necessità della traduzione in tale lingua può essere superata dall'avvenuta traduzione in altra lingua (nella specie quella francese) nota alla maggioranza degli abitanti del paese di origine dell'interessato, senza neppure affermare, e tantomeno motivare, sulla circostanza che tale lingua sarebbe nota anche a quest'ultimo.
La Suprema Corte ha statuito che qualora il coniuge, titolare di un bene conferito ad un fondo patrimoniale, agisca contro un suo creditore, chiedendo la declaratoria dell'illegittimità dell'iscrizione ipotecaria perché eseguita sul bene al di fuori delle condizioni di cui all'art. 170 c.c., ha l'onere di allegare e provare che il debito sia stato contratto per uno scopo estraneo ai bisogni della famiglia e che il creditore fosse a conoscenza di tale circostanza, anche nel caso di iscrizione ipotecaria ex art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, Sez. 3, n. 01652/2016, Scrima, Rv. 638354. Nella medesima decisione la S.C. ha pure chiarito che l'art. 170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell'esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all'iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui all'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, sicché l'esattore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, se il debito sia stato da loro contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero - nell'ipotesi contraria - purché il titolare del credito, per il quale l'esattore procede alla riscossione, non fosse a conoscenza di tale estraneità, dovendosi ritenere, diversamente, illegittima l'eventuale iscrizione comunque effettuata, Sez. 3, n. 01652/2016, Scrima, Rv. 638353.
In tema di benefici fiscali, ha chiarito il giudice di legittimità, l'agevolazione di cui all'art. 19 della legge 12 febbraio 1987, n. 74, nel testo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità (Corte cost., 10 maggio 1999, n. 154), spetta per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi in esito alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, atteso il carattere di "negoziazione globale" attribuito alla liquidazione del rapporto coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, i quali, nell'ambito della nuova cornice normativa (da ultimo culminata nella disciplina di cui agli artt. 6 e 12 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv., con modif., nella l. 10 novembre 2014, n. 162), rinvengono il loro fondamento nella centralità del consenso dei coniugi. La S.C., nella fattispecie esaminata, ha ritenuto la spettanza del beneficio rispetto al trasferimento, concordato tra i coniugi, di una porzione di immobile, che, in costanza di matrimonio, era stato dai medesimi acquistato pro quota in regime di separazione dei beni, Sez. 5, n. 02111/2016, Napolitano, Rv. 639235.
In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell'art. 9 della l. 2 dicembre 1975, n. 576 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l'onere - posto a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili - della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell'impresa familiare che dell'entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, Sez. L, n. 05224/2016, Torrice, Rv. 639221. Nella stessa decisione la S.C. ha pure statuito che la partecipazione agli utili per la collaborazione nell'impresa familiare, ai sensi dell'art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell'accrescimento, a tale data, della produttività dell'impresa ("beni acquistati" con essi, "incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento") in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall'azienda, atteso che i proventi - in assenza di un patto di distribuzione periodica - non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti bensì ad essere reimpiegati nell'azienda o utilizzati per l'acquisto di beni, Sez. L, n. 05224/2016, Torrice, Rv. 639222.
In tema di comunione legale tra i coniugi, ha deciso la Cassazione, gli atti di disposizione di beni mobili non richiedono il consenso del coniuge non stipulante, essendo posto a carico del disponente unicamente un obbligo di ricostituire, a richiesta dell'altro, la comunione nello stato anteriore al compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l'equivalente del bene secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione, mentre non è stabilita alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia, per cui l'atto compiuto in assenza del consenso del coniuge resta pienamente valido ed efficace. Il principio è stato enunciato dalla Corte in una fattispecie avente ad oggetto un preliminare di vendita di quote di s.r.l., Sez. 1, n. 09888/2016, Nazzicone, Rv. 639724.
In tema di lavoro familiare, ai fini dell'individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell'art. 230-bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all'art. 732 c.c., al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l'impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto, Sez. L, n. 17639/2016, Esposito, Rv. 640823.
In tema di riscossione coattiva delle imposte, l'iscrizione ipotecaria è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall'art. 170 c.c., sicché è legittima solo se l'obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l'estraneità a tali bisogni, ma grava sul debitore che intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale l'onere di provare l'estraneità del debito alle esigenze familiari e la consapevolezza del creditore, Sez. 5, n. 22761/2016, Meloni, Rv. 641645.
In tema di separazione personale dei coniugi, la Corte ha precisato che la pronuncia di addebito richiesta da un coniuge per le violenze perpetrate dall'altro non è esclusa qualora risulti provato un unico episodio di percosse, trattandosi di comportamento idoneo comunque a sconvolgere definitivamente l'equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona, Sez. 6-1, n. 00433/2016, Bisogni, Rv. 638437.
In tema di separazione personale tra coniugi, ha deciso il giudice di legittimità, il mutamento di fede religiosa, e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dall'art. 19 Cost., non può di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, a meno che l'adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore previsti dagli artt. 143 e 147 c.c., in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza o di grave pregiudizio per l'interesse della prole. In conseguenza, la Corte ha escluso l'addebitabilità della separazione al marito in ragione della adesione di quest'ultimo alla confessione religiosa dei Testimoni di Geova, non potendo attribuirsi rilievo all'impegno assunto in sede di celebrazione del matrimonio religioso di conformare l'indirizzo della vita familiare ed educare i figli secondo i dettami della religione cattolica, estraneo alla disciplina civilistica del vincolo, Sez. 6-1, n. 14728/2016, Mercolino, Rv. 641024.
Gli accordi tra i coniugi modificativi delle disposizioni contenute nel decreto di omologazione della separazione ovvero nell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nell'art. 1322 c.c., sono validi ed efficaci, anche a prescindere dal procedimento ex art. 710 c.p.c., qualora non superino i limiti di derogabilità posti dall'art. 160 c.c. e purché non interferiscano con l'accordo omologato, ma ne specifichino il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti agli interessi ivi tutelati, Sez. 2, n. 00298/2016, Matera, Rv. 638452.
In tema di affidamento dei minori, il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice della separazione, ha chiarito la S.C., è costituito dall'esclusivo interesse morale a materiale della prole, previsto in passato dall'art. 155 c.c. ed oggi dall'art. 337-quater c.c. il quale, imponendo di privilegiare la soluzione che appaia più idonea a ridurre al massimo i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore, richiede un giudizio prognostico circa la capacità del singolo genitore di crescere ed educare il figlio, da esprimersi sulla base di elementi concreti attinenti alle modalità con cui ciascuno in passato ha svolto il proprio ruolo, con particolare riguardo alla capacità di relazione affettiva, nonché mediante l'apprezzamento della personalità del genitore. Il giudice di legittimità ha confermato nella fattispecie la sentenza di merito, ritenendo che la scelta spirituale di uno dei genitori di aderire ad una confessione religiosa diversa da quella cattolica, quella dei Testimoni di Geova, non potesse costituire ragione sufficiente a giustificare l'affidamento esclusivo dei figli minori all'altro genitore, in presenza di emergenze probatorie per le quali entrambi i coniugi risultano legati ai figli e capaci di accudirli nella quotidianità, Sez. 6-1, n. 14728/2016, Mercolino, Rv. 641025.
Il coniuge separato che intenda trasferire la residenza lontano da quella dell'altro coniuge, ha specificato la Corte, non perde l'idoneità ad avere in affidamento i figli minori, sicché il giudice deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all'interesse della prole il collocamento presso l'uno o l'altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario. Nel caso sottoposto al suo esame, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di appello di privilegiare la collocazione dei minori presso la madre in ragione dell'età prescolare degli stessi, Sez. 1, 18087/2016, Giancola, Rv. 641020.
In caso di divorzio, sono assoggettate alla disciplina di cui all'art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 le somme corrisposte dal datore di lavoro come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (cd. incentivi all'esodo), atteso che dette somme non hanno natura liberale né eccezionale ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto, Sez. 6-1, n. 14171/2016, Bisogni, Rv. 640497.
Il diritto ad una quota della indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge, previsto dall'art. 12-bis della l. n. 898 del 1970 a favore del coniuge divorziato che sia titolare di assegno e che non sia passato a nuove nozze, ha specificato la S.C. che sussiste con riferimento agli emolumenti collegati alla cessazione di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che si correlino al lavoro dell'ex coniuge, sicché, nel caso di indennità spettante all'agente generale di un'agenzia di assicurazioni, tale diritto compete unicamente ove l'attività dell'agente si risolva in una prestazione di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale e non sia svolta attraverso una struttura organizzata, anche a livello embrionale, con ampi margini di autonomia, riguardo alla scelta dei tempi e dei modi di esercizio, e con assunzione di rischio a proprio carico, Sez. 6-1, n. 17883/2016, Mercolino, Rv. 641026.
La Corte ha confermato che il coniuge assegnatario della casa familiare, perché affidatario della prole minorenne - o maggiorenne non autosufficiente - può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell'immobile, l'esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi (salva la concentrazione del rapporto in capo all'assegnatario, ancorché diverso) il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., sorge per un uso determinato ed ha - in assenza di una espressa indicazione della scadenza - una durata determinabile per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall'insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari (nella specie, relative a figli minori) che avevano legittimato l'assegnazione dell'immobile, Sez. 3, n. 02506/2016, Rossetti, Rv. 638982.
La qualificazione giuridica di un immobile come "casa familiare", ai sensi dell'art. 155-quater c.c. (applicabile ratione temporis), postula, laddove non risulti in modo inequivoco che, prima del conflitto familiare, vi fosse una stabile e continuativa utilizzazione dello stesso da parte del nucleo costituito da genitori e figli, che la destinazione suddetta sia stata impressa dalle parti non solo in astratto (con l'acquisto in comunione), ma anche in concreto, mediante la loro convivenza nell'immobile. In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto doversi qualificare come "casa familiare" l'immobile acquistato in comproprietà dai genitori, che lì avevano iniziato la convivenza, prima della nascita del figlio, nella prospettiva di farne il luogo ove avrebbero vissuto insieme. La Cassazione ha escluso la rilevanza, al fine del mutamento di una siffatta destinazione, del temporaneo allontanamento dall'abitazione per il contrasto insorto tra i coniugi dopo la nascita, Sez. 1, n. 03331/2016, Acierno, Rv. 638708.
In tema di agevolazioni tributarie, il giudice di legittimità ha chiarito che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale, in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale, non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza dai benefici cosiddetta "prima casa", ma una modalità di utilizzazione dello stesso correlata ai giudizi di separazione e di divorzio, che resta svincolata dalla corresponsione di alcun corrispettivo e, quindi, priva di intento speculativo, Sez. 5, n. 05156/2016, Cirillo, Rv. 639234.
In materia di assegnazione della casa familiare, ha statuito la S.C., l'art. 155-quater c.c. (applicabile ratione temporis), laddove prevede che «il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell'art. 2643» c.c., va interpretato nel senso che entrambi non hanno effetto riguardo al creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull'immobile in base ad un atto iscritto anteriormente alla trascrizione del provvedimento di assegnazione, il quale perciò può far vendere coattivamente l'immobile come libero, Sez. 3, n. 07776/2016, Barreca, Rv. 639499.
L'assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l'immobile non appartenga in via esclusiva, ha osservato la Cassazione, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni, e, in caso di trascrizione, senza limite di tempo) che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l'altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non sia eventualmente modificato, sicché nel giudizio di divisione se ne deve tenere conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all'uno o all'altro coniuge ovvero venduto a terzi, Sez. 2, n. 08202/2016, Parziale, Rv. 639528.
In tema d'imposta di registro e dei relativi benefici per l'acquisto della prima casa, la S.C. ha deciso che il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui ove l'immobile acquistato sia adibito a tale destinazione non rileva la diversa residenza di uno dei coniugi in regime di comunione legale, essendo gli stessi tenuti non ad una comune sede anagrafica, ma alla coabitazione. Deve essere, peraltro, accertata l'effettiva destinazione a residenza principale della famiglia e, cioè, la coabitazione dei coniugi nell'immobile, non essendo sufficiente che uno solo di essi abbia trasferito la sua residenza nel relativo comune di ubicazione, Sez. 5, n. 13335/2016, Zoso, Rv. 640345.
In tema di agevolazioni tributarie, la Corte ha poi riaffermato che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare, in adempimento di una condizione della separazione consensuale, non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici "prima casa", atteso che, pur non essendo essenziale per addivenire alla separazione o al divorzio, è diretto a sistemare globalmente i rapporti fra coniugi, nella prospettiva di una definizione tendenzialmente stabile della crisi, ed è, quindi, un atto relativo a tali procedimenti, che può fruire dell'esenzione di cui all'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, salva la contestazione da parte della Amministrazione, onerata della relativa prova, della finalità elusiva, Sez. 5, n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344.
In tema di agevolazioni "prima casa", la Corte ha chiarito che il requisito della mancanza di titolarità su tutto il territorio nazionale del diritto di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà di un'altra casa acquistata col medesimo beneficio, di cui all'art. 1, nota IIbis, lett. c, della parte I della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non può essere inteso, atteso il chiaro tenore letterale della disposizione, come mancanza di disponibilità effettiva di essa, sicché non sussiste ove l'immobile di proprietà del contribuente sia stato assegnato, in sede di separazione o divorzio, al coniuge separato o all'ex coniuge, in quanto affidatario di prole minorenne, Sez. 6-1, n. 14673/2016, Napolitano, Rv. 640515.
In materia di divorzio, la sentenza che ponga a carico del marito l'obbligo di mantenimento della ex moglie e revochi l'assegnazione della casa coniugale a quest'ultima, contestualmente affermando che il bene segua "il normale regime civilistico", ha chiarito la Corte, va intesa nel senso che la casa torna nel godimento esclusivo della stessa ex moglie, in quanto ne era unica proprietaria, essendo tale interpretazione l'unica desumibile, oltre che dal tenore letterale del disposto, anche dalla piena corrispondenza di una simile conseguenza con l'imposizione, sempre al marito, dell'assegno di mantenimento. In applicazione di questo principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva accolto l'opposizione a precetto per il rilascio dell'immobile, intimato dal marito a carico dell'ex moglie, rilevando come l'assenza di una statuizione espressa di assegnazione in suo favore della casa coniugale escludesse l'esistenza di un titolo dotato del requisito della certezza che lo legittimasse a procedere ad esecuzione forzata, Sez. 3, n. 15373/2016, Frasca, Rv. 641292.
La Corte ha specificato pure che l'assegnazione del godimento della casa familiare, ex art. 155 c.c. previgente e art. 155-quater c.c., ovvero in forza della legge sul divorzio, non può essere considerata in occasione della divisione dell'immobile in comproprietà tra i coniugi al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora l'immobile venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento stesso, atteso che tale diritto è attribuito nell'esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario e, diversamente, si realizzerebbe una indebita locupletazione a suo favore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale, Sez. 2, n. 17843/2016, D'Ascola, Rv. 641168.
In sede di divorzio, ai fini della determinazione dell'assegno per il coniuge bisognoso deve tenersi conto dell'intera consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente, di qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, compreso l'uso di una casa di abitazione, determinante un risparmio di spesa, salvo che l'immobile sia occupato in via di mero fatto, trattandosi, in tale ultima ipotesi, di una situazione precaria ed essendo le difficoltà di liberazione, da parte del proprietario, un aspetto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali, Sez. 6-1, n. 00223/2016 Genovese, Rv. 638050.
La S.C. ha anche chiarito che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 156, comma 1, c.c., per contrarietà agli artt. 3 e 29 Cost., laddove, nell'ipotesi di addebito della separazione ad entrambi i coniugi, esclude il diritto all'assegno di mantenimento, atteso che il legislatore, esercitando un legittimo apprezzamento discrezionale, ha inteso sanzionare l'inosservanza dei doveri nascenti dal matrimonio e rafforzare il vincolo matrimoniale, riconducendo a tale violazione la perdita di quel dovere di assistenza che sopravvive alla separazione, peraltro non privando completamente di tutela il coniuge economicamente più debole, cui vengono comunque garantiti il diritto agli alimenti e, in caso di morte del coniuge, quello ad un assegno vitalizio in sostituzione della quota di riserva, Sez. 1, n. 01259/2016, Bisogni, Rv. 638493.
La Corte ha quindi ribadito quanto affermato da Sez. 1, n. 06855/2015, Dogliotti, Rv. 634861, e pertanto che l'instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto - costituzionalmente tutelata ai sensi dell'art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell'individuo - è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l'altro coniuge, il quale non può che confidare nell'esonero definitivo da ogni obbligo, Sez. 6-1, n. 02466/2016, Bisogni, Rv. 638605.
In tema di separazione personale dei coniugi, l'attitudine al lavoro dei medesimi, quale elemento di valutazione della loro capacità di guadagno, può assumere rilievo, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell'assegno di mantenimento, solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un'attività retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata che, nel quantificare l'assegno di mantenimento riconosciuto alla moglie, aveva valutato il titolo di studio universitario e l'abilitazione professionale da lei posseduti ma anche le sue presumibili difficoltà nell'inserimento nel mondo del lavoro dovute all'età ed alla mancanza di precedenti esperienze professionali, Sez. 6-1, n. 6427/2016, Mercolino, Rv. 639189.
La corresponsione dell'assegno divorzile in unica soluzione su accordo tra le parti, soggetto a verifica giudiziale, ha chiarito il giudice di legittimità, è satisfattivo di qualsiasi obbligo di sostentamento nei confronti del beneficiario, il quale, quindi, non può avanzare successivamente ulteriori pretese di contenuto economico, né può essere considerato, all'atto del decesso dell'ex coniuge, titolare dell'assegno di divorzio, avente, come tale, diritto di accedere alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, a una sua quota, Sez. L, n. 09054/2016, Doronzo, Rv. 639581.
In tema di spese straordinarie sostenute nell'interesse dei figli, la Corte ha specificato che il mancato preventivo interpello del coniuge divorziato può essere sanzionato nei rapporti tra i coniugi ma non comporta l'irripetibilità delle spese, nel caso di specie relative all'iscrizione ad un corso sportivo ed all'attività scoutistica, effettuate nell'interesse del minore e compatibili con il tenore di vita della famiglia, Sez. 6-1, n. 02467/2016, Bisogni, Rv. 638634.
In materia di separazione personale dei coniugi, la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, ha deciso la Suprema Corte, pur non determinando automaticamente una riduzione degli oneri di mantenimento dei figli nati dalla precedente unione, deve essere valutata dal giudice come circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni originariamente stabilite in quanto comporta il sorgere di nuovi obblighi di carattere economico, Sez. 6-1, n. 14175/2016, Bisogni, Rv. 640498.
La Corte ha escluso la validità del riconoscimento di figlio naturale contenuto in una scrittura privata che non possa qualificarsi come un testamento olografo, non evincendosi univocamente da essa la volontà del de cuius di voler determinare l'effetto accertativo della filiazione dopo la propria morte. È stato perciò ribadito che l'atto contenente disposizioni di carattere esclusivamente non patrimoniale può essere qualificato alla stregua di un testamento, purché di questo abbia contenuto, forma e funzione, la quale ultima, in particolare, consiste nell'esercizio, da parte dell'autore, del proprio generale potere di disporre mortis causa. L'autore della dichiarazione, nel caso di specie, si era limitato a scrivere che una certa persona era sua figlia, Sez. 2, n. 01993/2016, Scarpa, Rv. 638788.
Il termine annuale per la proposizione della domanda di disconoscimento della paternità naturale è assoggettato alla sospensione per il periodo feriale di cui all'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, applicabile anche ai termini di decadenza di carattere sostanziale, ma con rilevanza processuale, quale quello ex art. 244 c.c., qualora la possibilità di agire in giudizio costituisca, per il titolare che deve munirsi di una difesa tecnica, l'unico rimedio idoneo a far valere il suo diritto, senza che assuma rilievo la maggiore o minore brevità del termine decadenziale di volta in volta sancito per intraprendere l'azione, Sez. 1, n. 01868/2016, Lamorgese, Rv. 638489.
Le unioni di fatto, quali formazioni sociali rilevanti ex art. 2 Cost., ha spiegato la Corte, sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale e si configurano come adempimento di un'obbligazione naturale, ove siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza. Ne consegue che, in un tale contesto, l'attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente more uxorio assume una siffatta connotazione quando sia espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività di fatto esistenti, alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, benché non possa escludersi che, talvolta, essa trovi giustificazione proprio in quest'ultimo, del quale deve fornirsi prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione, riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva negato la natura di obbligazione naturale al contributo lavorativo della donna all'azienda del convivente, in quanto fonte di arricchimento esclusivo dello stesso in luogo di quello dell'intera famiglia cui detto apporto lavorativo era preordinato, Sez. 1, n. 01266/2016, Valitutti, Rv. 638320.
La sofferenza provata dal convivente more uxorio, in conseguenza dell'uccisione del figlio unilaterale del partner, ha chiarito il giudice di legittimità, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se sia dedotto e dimostrato che tra la vittima e l'attore sussistesse un rapporto familiare di fatto, il quale non si esaurisce nella mera convivenza, ma consiste in una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione, Sez. 3, n. 08037/2016, Rossetti, Rv. 639520.
L'annullamento delle dimissioni del lavoratore perché presentate in stato di incapacità naturale presuppone non solo la sussistenza di un quadro psichico connotato da aspetti patologici ma anche l'incidenza causale tra l'alterazione mentale e le ragioni soggettive che hanno spinto il lavoratore al recesso. La Corte ha, pertanto, cassato con rinvio la sentenza di appello che non aveva ammesso la consulenza tecnica di ufficio richiesta dal dipendente di una ASL, non valutando adeguatamente un certificato medico, di poco precedente le dimissioni, rilasciato da altra ASL, dal quale risultava che il dimissionario era affetto da patologia psicotica con marcata disabilità neurologica e relazionale, Sez. L., n. 01070/2016, Balestrieri, Rv. 638516.
La Corte ha deciso che risponde, ai sensi dell'art. 2047, comma 1, c.c., dei danni cagionati dall'incapace maggiorenne non interdetto, colui che abbia liberamente scelto di accogliere l'incapace nella propria sfera personale, convivendo con esso ed assumendone spontaneamente la sorveglianza, sicché, per dismettere tale responsabilità, è necessaria una determinazione di volontà uguale e contraria, che può essere realizzata anche trasferendo su altro soggetto l'obbligo di sorveglianza, sì da sostituire all'affidamento volontario preesistente un altro quanto meno equivalente, la cui idoneità va verificata dal giudice con valutazione prognostico-ipotetica ex ante riferita al momento "del passaggio delle consegne". È stato perciò confermato il provvedimento impugnato, che aveva riconosciuto il trasferimento del dovere di sorveglianza su un incapace maggiorenne da un genitore all'altro nella decisione della madre di non proseguire la convivenza con il figlio e nella contestuale libera e consapevole decisione del padre di portarlo con sé a vivere in campagna, in luogo astrattamente idoneo all'esercizio della sorveglianza in condizioni addirittura preferibili a quelle in precedenza offerte dalla madre, Sez. 3, n. 01321/2016, Rubino, Rv. 638648.
In tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica (nella specie, demenza senile grave), la S.C. ha statuito che, accertata la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza di tale condizione è presunta, iuris tantum, anche nel periodo intermedio, sicché la parte che sostiene la validità dell'atto compiuto è tenuta a provare che il soggetto ha agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia, Sez. 2, 04316/2016, Scarpa, Rv. 639411.
L'adozione del minore, recidendo ogni legame con la famiglia di origine, costituisce una misura eccezionale (una extrema ratio), cui è possibile ricorrere non già per consentirgli di essere accolto in un contesto più favorevole, così sottraendolo alle cure dei suoi genitori biologici, ma solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, positive e negative, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici, ivi compreso l'affidamento familiare di carattere temporaneo, ai fini della tutela del superiore interesse del figlio, Sez. 1, n. 07391/2016, Lamorgese, Rv. 639328. Nella stessa decisione la Corte ha specificato che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore è consentito solo in presenza di fatti gravi ed indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono, morale e materiale, che devono essere specificamente dimostrati in concreto, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale, seppure espressi da esperti della materia, non basati su precisi elementi fattuali idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il figlio e di cui il giudice di merito deve dare conto, Sez. 1, n. 07391/2016, Lamorgese, Rv. 639327. Inoltre, ai fini dell'accertamento dello stato di abbandono quale presupposto della dichiarazione di adottabilità, non basta che risultino insufficienze o malattie mentali, anche permanenti, o comportamenti patologici dei genitori, essendo necessario accertare la capacità genitoriale in concreto di ciascuno di loro, a tal fine verificando l'esistenza di comportamenti pregiudizievoli per la crescita equilibrata e serena dei figli e tenendo conto della positiva volontà dei genitori di recupero del rapporto con essi, Sez. 1, n. 07391/2016, Lamorgese, Rv. 639329.
In tema di adozione, il prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell'ambito della propria famiglia, sancito dall'art. 1 della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha chiarito la S.C., impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, ai fini del perseguimento del suo superiore interesse, potendo quel diritto essere limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono - la cui dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia, come extrema ratio - a causa dell'irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per loro totale inadeguatezza. È stata, pertanto, disposta la revocazione di una sua precedente decisione e, procedendo al giudizio rescissorio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva desunto l'inadeguatezza dei genitori da un singolo episodio di abbandono della figlia minore nell'auto parcheggiata sotto casa, benché fosse stata successivamente esclusa qualsivoglia situazione di pericolo derivata da tale situazione, nonché da un riferimento, affatto generico, all'avanzata età dei genitori, Sez. 1, n. 13435/2016, Nazzicone, Rv. 640326.
In tema di adozione in casi particolari, ha statuito il giudice di legittimità, l'art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 183 del 1994, integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l'adozione del minore tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed adottando, come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, con l'unica previsione della condicio legis della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo», che va intesa, in coerenza con lo stato dell'evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva, come impossibilità "di diritto" di procedere all'affidamento preadottivo e non di impossibilità "di fatto", derivante da una situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore in senso tecnico-giuridico. La mancata specificazione di requisiti soggettivi di adottante ed adottando, inoltre, implica che l'accesso a tale forma di adozione non legittimante è consentito alle persone singole ed alle coppie di fatto, senza che l'esame delle condizioni e dei requisiti imposti dalla legge, sia in astratto (l'impossibilità dell'affidamento preadottivo) che in concreto (l'indagine sull'interesse del minore), possa svolgersi dando rilievo, anche indirettamente, all'orientamento sessuale del richiedente ed alla conseguente relazione da questo stabilita con il proprio partner, Sez. 1, n. 12962/2016, Acierno, Rv. 640133.
Nel caso di cd. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, ha deciso la S.C., dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all'identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall'art. 93, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278) e l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta, Sez. 1, n. 15024/2016, Bisogni, Rv. 641021.
La S.C. ha pure precisato che il diritto del figlio adottivo a conseguire l'informazione circa l'identità dei genitori biologici concerne l'attuazione dello sviluppo della personalità individuale, in relazione al profilo del completamento dell'identità personale, ed è pertanto tutelato ai sensi dell'art. 2 della Costituzione. Il diritto all'oblio della madre, che abbia domandato di non essere nominata in occasione del parto, non si estingue completamente con la morte, ma a seguito di quest'evento non è più possibile interpellarla per accertare che la sua determinazione non sia cambiata. In una simile evenienza il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini deve essere valutato prevalente e deve essergli riconosciuta la possibilità di conoscere l'identità della madre biologica, Sez. 1, n. 22838/2016, Acierno.
La Corte ha deciso che il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa, per aver la prima donato l'ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, non contrastano con l'ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, del superiore interesse del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla conservazione dello status filiationis, validamente acquisito all'estero, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641310.
Nella medesima decisione la S.C. ha affermato che l'atto di nascita straniero, validamente formato, da cui risulti la nascita di un figlio da due madri, per avere l'una donato l'ovulo e l'altra partorito, non contrasta, di per sé, con l'ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utilizzata non sia riconosciuta nell'ordinamento italiano dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40, rappresentando quest'ultima una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641311. Ancora nella stessa sentenza, la Corte ha pure statuito che la procedura di maternità assistita tra due donne legate da un rapporto di coppia, con donazione dell'ovocita da parte della prima e conduzione a termine della gravidanza ad opera della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, non costituisce una fattispecie di maternità surrogata o di surrogazione di maternità, ma integra un'ipotesi di genitorialità realizzata all'interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641312.
In tema di delazione ereditaria, è stato chiarito da Sez. 2, n. 14566/2016, Scarpa, Rv. 640378, come configuri patto successorio, vietato ex art. 458 c.c., l'accordo con il quale i contraenti ripartiscono fra di loro le quote di proprietà di un immobile oggetto dell'altrui futura successione morti causa, con l'intesa di restare in comunione ai sensi dell'art. 1111, comma 2, c.c.
Sono state emesse, in materia, alcune interessanti pronunce di carattere processuale.
Così è stato chiarito da Sez. 2, n. 08104/2016, Cosentino, Rv. 639459, che, in pendenza della procedura concorsuale di liquidazione dell'eredità beneficiata, il divieto di promuovere procedure individuali riguarda solo le azioni esecutive, sicché i creditori ereditari possono esercitare contro l'erede azioni di accertamento e di condanna al fine di ottenere un titolo giudiziale azionabile per soddisfarsi sul residuo della procedura concorsuale.
Inoltre, Sez. 6-2, n. 13820/2016, Falaschi, Rv. 640211, ha precisato che il decreto con cui il tribunale, accertata la difficoltà dei coeredi di completare la liquidazione, autorizzi la vendita concorsuale non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, in ragione della sua natura non decisoria e non definitiva.
Sez. 6-2, n. 08519/2016, Giusti, Rv. 639634, ha ribadito che, per l'impugnazione della rinunzia ereditaria, è richiesto il solo presupposto oggettivo del prevedibile danno ai creditori che si verifica quando, al momento dell'esercizio dell'azione, fondate ragioni, come l'intervenuta dichiarazione di fallimento, facciano apparire i beni personali del rinunziante insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori.
Con riferimento alla rinuncia all'azione di riduzione ad opera del legittimario totalmente pretermesso, Sez. 2, n. 03389/2016, Picaroni, Rv. 638782, ha chiarito che questa diverge dalla rinuncia all'eredità, non potendo il riservatario essere qualificato chiamato all'eredità prima dell'accoglimento della domanda di riduzione. Se ne ricava che il creditore del summenzionato legittimario che intenda esperire l'azione ex art. 524 c.c. deve prima impugnare tale rinunzia all'azione di riduzione.
Merita del pari di essere menzionata Sez. 2, n. 04445/2016, Lombardo, Rv. 638994, la quale ha stabilito che, per determinare la porzione disponibile e le quote riservate, occorre avere riguardo alla massa dei beni appartenenti al defunto al tempo della morte, senza che sia possibile distinguere tra donazioni anteriori e posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario e fra la posizione dei figli e quella del coniuge del de cuius. Pertanto, il coniuge sopravvenuto rispetto ai figli può domandare la riduzione di tutte le donazioni poste in essere in favore di questi ultimi, pur se precedenti al matrimonio e concernenti figli nati da altro coniuge o fuori dal matrimonio.
Inoltre, Sez. 2, n. 05320/2016, D'Ascola, Rv. 639182, ha precisato che, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell'asse ereditario, stabilire l'esistenza e l'entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell'integrazione spettante al legittimario leso, per cui quest'ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro, nonostante l'esistenza nell'asse di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene, riferito al tempo dell'ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali.
Infine, Sez. 2, n. 04721/2016, Lombardo, Rv. 639177, ha specificato che l'ordine da seguire nella riduzione delle disposizioni lesive della quota legittima è tassativo ed inderogabile, con la conseguenza che può procedersi alla riduzione delle donazioni, dalla più recente alla più risalente, solo dopo avere ridotto tutte le disposizioni testamentarie ed avere verificato che tale riduzione non è sufficiente a soddisfare il diritto del legittimario leso.
Sono state emesse alcune pronunce di particolare rilievo concernenti l'istituto del legato.
Così Sez. 2, n. 01720/2016, D'Ascola, Rv. 638591, ha affermato che il legato di azienda ha ad oggetto, salvo diversa volontà del testatore, il complesso unitario dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, compresi i rapporti di debito-credito, con la conseguenza che il legatario è tenuto al pagamento dei debiti aziendali, ancorché nei limiti del valore dell'azienda medesima.
Quanto al legato in sostituzione di legittima, Sez. 2, n. 01996/2016, Scarpa, Rv. 638786, ha chiarito che, poiché la mancata rinuncia al lascito rappresenta un atto di gestione del rapporto successorio da parte del beneficiario, confermativo dell'attribuzione patrimoniale già verificatasi, è inammissibile l'azione surrogatoria proposta dal creditore dell'istituito per ottenere la legittima. Ciò perché tale azione postula l'inerzia del debitore, che va esclusa in presenza di un comportamento positivo, pur se pregiudizievole per le ragioni creditorie, tramite cui il debitore manifesti la volontà di gestire il suo patrimonio.
In tema di legato modale, secondo Sez. 2, n. 04444/2016, Migliucci, Rv. 639401, l'inadempimento del modus ad opera del legatario legittima il beneficiario, al pari dei prossimi congiunti, benché eredi, a proporre, oltre all'azione di adempimento, quella di risoluzione, ex art. 648, comma 2, c.c., avendo egli interesse, ove sia anche erede, a conseguire il vantaggio patrimoniale derivante dalla restituzione della res e a soddisfare le esigenze morali perseguite dal de cuius rimaste irrealizzate a causa dell'inadempimento dell'onerato.
In ordine alla redazione del testamento, Sez. 2, n. 01993/2016, Scarpa, Rv. 638788, ha stabilito che l'atto contenente disposizioni di carattere esclusivamente non patrimoniale può essere qualificato alla stregua di un testamento purché ne abbia il contenuto, la forma e la funzione; quest'ultima, in particolare, consiste nell'esercizio, ad opera dell'autore, del proprio generale potere di disporre mortis causa, con la conseguenza che non può essere considerata un testamento olografo una scrittura privata che contenga il riconoscimento di figlio naturale.
Relativamente ai profili processuali, Sez. 2, n. 04452/2016, Criscuolo, Rv. 639106, ha ribadito che, nel giudizio di impugnazione di un testamento olografo per nullità, sussiste litisconsorzio necessario anche nei confronti di tutti gli eredi legittimi, atteso che l'eventuale accoglimento della domanda porterebbe alla dichiarazione di invalidità del testamento ed alla conseguente apertura della successione legittima.
Per ciò che riguarda la forma del testamento, Sez. 2, n. 10613/2016, Falabella, Rv. 640050, ha precisato che l'inesatta indicazione della data, dovuta ad errore materiale del testatore, può, benché la stessa sia impossibile, essere rettificata dal giudice, ricorrendo ad altri elementi intrinseci alla scheda testamentaria.
Infine, Sez. 2, n. 12241/2016, Scarpa, Rv. 640057, si è occupata delle funzioni dell'esecutore testamentario, chiarendo che il termine annuale previsto dall'art. 703 c.c. riguarda solo il possesso dei beni ereditari, ma non l'amministrazione degli stessi, la cui gestione egli deve proseguire finché non siano esattamente attuate le disposizioni testamentarie, salvo contraria volontà del legislatore od esonero giudiziale.
Sez. 2, n. 03933/2016, Criscuolo, Rv. 638975, ha confermato che, passata in giudicato la sentenza che ha disposto lo scioglimento della comunione, determinando i lotti, questi entrano da tale momento nel patrimonio di ciascun ex comunista, benché ne sia stato disposto il sorteggio; sicché, pur se la loro individuazione in concreto avverrà solo dopo l'adempimento di detto incombente formale, gli eventi successivi che dovessero interessare i beni rientranti in ogni lotto produrranno da subito i loro effetti nei confronti di colui al quale lo stesso verrà poi assegnato in sede di sorteggio, senza dare luogo ad ulteriori aggiustamenti o conguagli.
È stato pure ribadito da Sez. 2, n. 05603/2016, Abete, Rv. 639280, che il giudice, ai sensi dell'art. 720 c.c., può attribuire per l'intero un bene non comodamente divisibile non solo nella porzione del coerede con quota maggiore ma, altresì, in quelle di più coeredi che tendano a rimanere in comunione, come titolari della maggioranza delle quote.
Inoltre, secondo Sez. 2, n. 05869/2016, Abete, Rv. 639208, e Sez. 2, n. 06931/2016, Parziale, Rv. 639451, il principio dell'universalità della divisione ereditaria non è inderogabile, essendo possibile una divisione parziale sia quando, al riguardo, esista un accordo fra le parti, sia qualora tale divisione sia stata domandata da una delle parti e le altre non amplino la domanda, chiedendo, a loro volta, la divisione dell'intero asse.
La sentenza della Sez. 2, n. 06931/2016, Parziale, Rv. 639452, ha ulteriormente precisato che la somma dovuta dal condividente assegnatario di un immobile non facilmente divisibile a titolo di conguaglio in favore di quello non assegnatario ha natura di debito di valore sicché, sorgendo al momento dell'assegnazione del bene, va rivalutata, anche d'ufficio, all'epoca della decisione della causa di divisione, senza che ne derivi l'alterazione del petitum della controversia, poiché la rivalutazione incide soltanto sulla concreta quantificazione della quota in termini monetari.
Sempre in un'ottica processuale, Sez. 2, n. 10856/2016, Falabella, Rv. 639962, ha chiarito che la richiesta di attribuzione di beni determinati non costituisce domanda nuova e può essere avanzata per la prima volta in appello, salvo che non sia stata formulata da uno dei condividenti nel corso del giudizio di primo grado, eventualità che ne precluderebbe agli altri la proposizione successiva.
Al riguardo, Sez. 2, n. 14756/2016, Criscuolo, Rv. 640573, ha specificato che l'istanza di attribuzione ex art. 720 c.c., pur se soggetta alle preclusioni processuali, può essere avanzata per la prima volta in corso di causa e pure in appello, ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa denotino l'insorgere di una situazione di non comoda divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta la extrema ratio voluta dal legislatore.
Con un'ulteriore pronuncia concernente i profili processuali riconnessi alla divisione, Sez. 2, n. 16802/2016, Falabella, Rv. 640839, ha stabilito che la divisione, anche transattiva, può essere impugnata solo con l'azione di annullamento per dolo o violenza ovvero con quella di rescissione per lesione, fatti salvi i limiti di cui all'art. 764, comma 2, c.c., e non anche per errore sulle qualità di un cespite.
Per Sez. 2, n. 17520/2016, Criscuolo, Rv. 641099, la domanda di retratto successorio ex art. 732 c.c. nei confronti degli acquirenti di una quota non è preclusa dal precedente esercizio dell'azione di divisione giudiziale verso gli stessi soggetti, poiché entrambe le azioni sottendono la validità dell'atto traslativo ed il giudicato sulla domanda divisoria non preclude l'esame dell'istanza del retrattante, il cui accoglimento determina un fenomeno di surrogazione soggettiva legale con efficacia ex tunc, assimilabile, quanto agli effetti, rispetto all'esito del giudizio divisionale, ad una sorta di confusione.
Con riferimento ai presupposti del retratto successorio, Sez. 2, n. 05865/2016, Falaschi, Rv. 639410, ha affermato che la denuntiatio dell'alienazione della quota al coerede ex art. 732 c.c. costituisce una proposta contrattuale nei confronti dello stesso e, quindi, va realizzata in forma scritta e notificata con modalità idonee a documentarne il giorno della ricezione da parte del destinatario, ai fini dell'esercizio della prelazione.
Nel caso in cui uno degli eredi alieni ad un estraneo la quota indivisa dell'unico cespite ereditario, Sez. 2, n. 08692/2016, Falaschi, Rv. 639757, ha ribadito che deve presumersi che l'alienazione concerna la quota che lo riguarda. Ne consegue che il coerede può esercitare il diritto di prelazione ex art. 732 c.c., salvo che il retrattato dimostri, in base ad elementi concreti della fattispecie ed intrinseci al contratto, che la vendita ha ad oggetto un bene a sé stante, non assumendo alcun valore il comportamento del retraente, estraneo al contratto medesimo.
Infine, Sez. 2, n. 16314/2016, Giusti, Rv. 641007, ha confermato che il coerede può rinunciare alla prelazione ex art. 732 c.c. non solo dopo la denuntiatio, ma anche preventivamente e, pertanto, in epoca precedente rispetto ad una alienazione solo genericamente progettata.
In materia di collazione Sez. 2, n. 03932/2016, Criscuolo, Rv. 638875, ha affermato che i beni oggetto di trasferimento a titolo oneroso sono soggetti a collazione solo se sia accertata la natura simulata del relativo atto traslativo in accoglimento di specifica domanda in tal senso del coerede che chiede la divisione. In questo caso, il termine di prescrizione dell'azione di simulazione inizia a decorrere in maniera diversa a seconda dell'oggetto della domanda. Infatti, se essa è proposta dall'erede nella qualità di legittimario che faccia valere il suo diritto alla riduzione della donazione lesiva della sua quota di riserva, detto termine decorre dall'epoca dell'apertura della successione. Se, al contrario, l'azione è esperita al solo fine di acquisire il bene donato alla massa ereditaria e senza addurre alcuna lesione di legittima, la prescrizione decorre dal compimento dell'atto che si assume simulato, subentrando l'erede, anche ai fini delle limitazioni probatorie ex art. 1417 c.c., nella medesima posizione del defunto.
Inoltre, Sez. 2, n. 20041/2016, Falabella, Rv. 641699, ha stabilito che, ove il relictum sia costituito da un unico bene, i prelevamenti devono essere effettuati stralciando dallo stesso la quota corrispondente al valore dei beni oggetto del conferimento per imputazione, atteso che la mancanza, nell'asse ereditario, di beni della stessa natura di quelli che sono stati così conferiti dagli eredi donatari, non esclude il diritto degli eredi non donatari al prelevamento, che si attua, ex art. 725 c.c., solo per quanto possibile, con oggetti della stessa natura e qualità di quelli non conferiti in natura.
Per ciò che riguarda il pagamento dei debiti e pesi ereditari, Sez. 2, n. 01994/2016, Scarpa, Rv. 638787, ha confermato che le spese per onoranze funebri rientrano tra i pesi ereditari, con la conseguenza che colui che ha anticipato tali spese ha diritto ad ottenerne il rimborso da parte degli eredi, sempre che non si tratti di spese eccessive, sostenute contro la loro volontà.
In un'ottica processuale, Sez. 2, n. 04199/2016, Criscuolo, Rv. 639278 e Sez. 6-2, n. 08487/2016, Scalisi, Rv. 639756, hanno chiarito che l'azione per il pagamento di un debito ereditario non determina, in presenza di una pluralità di eredi, una situazione di litisconsorzio necessario, non sussistendo un rapporto unico ed inscindibile, poiché ogni coerede è tenuto a soddisfare i debiti ereditari pro quota.
Innanzitutto, Sez. U, n. 05068/2016, Petitti, Rv. 638985, ha precisato che la donazione di cosa anche solo in parte altrui è nulla per difetto di causa. Se ne ricava che la donazione del coerede avente ad oggetto la quota di un bene indiviso compreso nella massa ereditaria è nulla e, qualora nell'atto di donazione sia affermato che il donante è consapevole dell'altruità del bene, vale come donazione obbligatoria di dare.
Quindi, in tema di contratto atipico di vitalizio alimentare, Sez. 2, n. 08209/2016, Falabella, Rv. 639695, evidenzia come la relativa alea comprenda anche l'aggravamento delle condizioni del vitaliziante. Pertanto, il trasferimento all'onerato di un ulteriore bene, mediante la conclusione di un successivo contratto c.d. di mantenimento, quale compenso per la maggiore gravosità sopravvenuta dell'assistenza morale e materiale da prestare, è privo di causa. Infatti, tale ulteriore attribuzione patrimoniale elimina il rischio, connaturale al precedente contratto, di sproporzione tra le due prestazioni, con la conseguenza che la causa di scambio finisce per dissimulare quella di liberalità.
Sempre in materia di vitalizio improprio o assistenziale, Sez. 2, n. 15904/2016, Manna, Rv. 640569, ha confermato che la differenza fra questo ultimo contratto e la donazione è da cogliere nell'elemento della aleatorietà, in quanto caratterizzato dall'incertezza obiettiva iniziale circa la durata di vita del beneficiario ed il rapporto tra valore complessivo delle prestazioni dovute dall'obbligato e valore del cespite patrimoniale ceduto in corrispettivo. Ne deriva che l'originaria macroscopica sproporzione del valore del cespite rispetto a quello delle prestazioni fa presumere lo spirito di liberalità tipico della donazione, eventualmente gravata da un modus.
Inoltre, Sez. 2, n. 10262/2016, Falabella, Rv. 639822, ha ribadito che la donazione remuneratoria consiste in un'attribuzione gratuita, compiuta spontaneamente e nella consapevolezza di non dovere adempiere alcun obbligo giuridico, morale o sociale, e con il fine di compensare i servizi resi dal donatario.
In particolare, Sez. 2, n. 19578/2016, Cosentino, Rv. 641356, ha chiarito che la donazione rimuneratoria differisce dall'obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., la quale sussiste qualora siano accertati la ricorrenza di un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e lo spontaneo adempimento di tale dovere con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso.
Con riferimento alla compravendita di un bene ad un prezzo inferiore a quello effettivo, Sez. 2, n. 10614/2016, Scalisi, Rv. 640051, ha escluso che questa realizzi, di per sé, un negotium mixtum cum donatione, occorrendo non solo una sproporzione tra le prestazioni di entità significativa, ma pure la consapevolezza, da parte dell'alienante, dell'insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, così da porre in essere un trasferimento volutamente funzionale all'arricchimento della controparte acquirente della differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto.
Secondo Sez. 2, n. 22013/2016, Grasso, Rv. 641570, l'ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, in base alla coscienza comune, dovrebbero, invece, improntarne l'atteggiamento, e costituisce formula aperta ai mutamenti dei costumi sociali.
Infine, è stato affermato da Sez. 2, n. 18280/2016, D'Ascola, Rv. 641076, che la liberalità d'uso prevista dall'art. 770, comma 2, c.c., trova fondamento negli usi invalsi a seguito dell'osservanza di un certo comportamento nel tempo, di regola in occasione di festività e ricorrenze anche celebrative, nelle quali sono comuni le elargizioni. La relativa individuazione deve avvenire tenendo conto, in particolare, dei legami esistenti fra le parti, il cui vaglio, sotto il profilo della proporzionalità, va operato pure in base alla loro posizione sociale ed alle condizioni economiche dell'autore dell'atto.
Gli interventi della Corte in materia hanno coinvolto, principalmente, l'individuazione del regime giuridico applicabile a singole categorie di beni.
Così, in tema di sdemanializzazione, Sez. 2, n. 04827/2016, Abete, Rv. 639183, esaminando il caso di una "trazzera" di Sicilia, mai destinata al passaggio degli armenti (come evincibile dalla mancata rilevazione, sui luoghi di causa, di tracce della stessa sede stradale), ha ribadito il principio, costante nella giurisprudenza di legittimità, per cui la perdita del carattere demaniale può avvenire anche tacitamente, indipendentemente - cioè - da un formale atto di sclassificazione, quale conseguenza della cessazione della destinazione del bene al passaggio pubblico, in virtù di atti univoci ed incompatibili con la volontà di conservare quella destinazione; nella medesima occasione la Corte ha altresì chiarito che il relativo accertamento da parte del giudice di merito è - ove immune da vizi logici e giuridici - incensurabile in sede di legittimità.
Si è occupata, poi, della cd. "accessione fluviale", Sez. U, n. 04013/2016, Chiarini, Rv. 638597, la quale ha osservato che, affinché tale modo di acquisto a titolo originario operi a favore de proprietari latistanti alle rive di un corso d'acqua, sia ex art. 941 c.c. (alluvione cd. "propria", consistente nell'incremento dei fondi posti lungo le rive dei fiumi con particelle di terra staccate da altri fondi lentamente e impercettibilmente dalla forza naturale dell'acqua), sia ex art. 942 c.c. (alluvione cd. "impropria", consistente nell'abbandono lento da parte del fiume di una parte del terreno facente parte dell'alveo, con ritiro da una riva e incremento dell'altra), nella formulazione anteriore alla l. n. 37 del 1994, «l'incremento di superficie della proprietà rivierasca è escluso se costituisce effetto, ancorché lento, di attività antropica, in quanto, pur se a causa del tempo trascorso sia cessata la funzione pubblica di protezione delle aree golenali e di supporto e contenimento del fiume (ma non il rischio di aumento della velocità dell'acqua e d'impoverimento delle falde acquifere), è rimesso al titolare del demanio idrico il potere di disporre la sdemanializzazione del terreno già appartenente all'alveo per acquisirlo al patrimonio disponibile».
Quanto, invece, alle caratteristiche necessarie affinché un bene, appartenente ad ente pubblico, possa essere ricondotto al patrimonio indisponibile dello stesso, in quanto destinato ad un pubblico servizio, ex art. 826, comma 3, c.c., Sez. U., n. 06019/2016, De Chiara, Rv. 638987, ha evidenziato la necessità, a tal fine, della compresenza del doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio) e dell'effettiva e attuale destinazione del bene medesimo al pubblico servizio, specificando altresì che, in difetto di tali condizioni, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta a un rapporto di concessione amministrativa ma, «inerendo ad un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del "nomen iuris" che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrasi nello schema privatistico della locazione, con la conseguente devoluzione della cognizione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario».
Di particolare interesse il principio affermato da Sez. 2, n. 21298/2016, Abete, in corso di massimazione, che, in materia sanitaria, chiarisce che, a seguito della soppressione delle USL., i beni già di proprietà dei disciolti enti ospedalieri ed oggetto di trasferimento, ex art. 66, della legge 23 dicembre 1978, n. 833, al patrimonio del Comune ove detti beni sono ubicati, con vincolo di destinazione in favore delle USL medesime, concorrono a formare il patrimonio delle A.O. subentrati agli enti originariamente espropriati, stante la previsione dell'art. 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (applicabile ratione temporis) che, in attuazione dell'art. 1 della legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 e diversamente dal richiamato art. 66, non sancisce alcun criterio territoriale per il trasferimento della relativa proprietà.
Si occupa, infine, della cd. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, Sez. 1, n. 04851/2016, Lamorgese, Rv. 639095, che ne individua le caratteristiche, chiarendo che essa «consiste nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima».
Sul versante processuale, Sez. 2, n. 15938/2016, Criscuolo, Rv. 640718, ha chiarito che nei giudizi ove si controverta in ordine all'accertamento ed all'esistenza di usi civici o di demanio comunale, qualunque cittadino appartenente alla collettività interessata a detto accertamento può intervenire in giudizio, anche in grado d'appello, giacché la sentenza emananda fa stato anche nei suoi confronti, in quanto partecipe della comunità titolare degli usi o delle terre demaniali oggetto di contestazione; nella medesima occasione la Corte ha altresì precisato che, trattandosi di intervento volontario, l'interveniente è sempre legittimato a proporre ricorso per cassazione.
Sotto diverso profilo, invece, Sez. 1, n. 13858/2016, Terrusi, Rv. 640302, partendo dalla premessa per cui, a fronte delle decisioni assunte dalla P.A. in materia di viabilità urbana, il cittadino che non sia beneficiario di uno specifico provvedimento concessorio, può vantare solo un interesse di fatto all'uso del bene demaniale in conformità alla sua destinazione, ha perciò negato la sussistenza di un diritto, giuridicamente tutelabile, all'utilizzazione di una strada nelle medesime condizioni che la caratterizzavano in precedenza, laddove un Comune - nell'esercizio delle proprie competenze amministrative e, dunque, in vista di finalità pubblico interesse, inerenti la manutenzione, il controllo e la regolamentazione delle strade pubbliche - abbia proceduto all'apposizione di una barriera spartitraffico con funzione di contenimento e protezione delle semicarreggiate.
Peculiare, poi, il caso affrontato da Sez. 3, n. 04902/2016, Spirito, Rv. 639387, che risolve l'interferenza tra rapporti di stampo privatistico e pubblicistico aventi ad oggetto beni demaniali nel senso per cui, pacifico che questi ultimi possono formare oggetto di un contatto di locazione, l'eventuale carattere abusivo dell'occupazione, ad opera del locatore, del terreno demaniale concesso in locazione non comporta l'invalidità del contratto, che vincola reciprocamente le parti contraenti all'adempimento delle obbligazioni assunte, pur dovendosi escludere qualsivoglia pregiudizio per la P.A., cui spettano le eventuali iniziative a tutela della particolare destinazione del bene.
Ha infine affrontato la sorte delle limitazioni al diritto di proprietà, quale conseguenza della ricerca di beni di interesse archeologico, Sez. 1, n. 14177/2016, Campanile, Rv. 640494, la quale, evidenziato come l'occupazione temporanea a fini di ricerca archeologica sia diretta a realizzare l'interesse pubblico alla conservazione del patrimonio storico-artistico e la promozione della cultura e della ricerca, costituendo, pertanto, attività lecita della P.A., esclude che, in tal caso, il privato possa invocare l'integrale ristoro del pregiudizio subito, giacché la proprietà del bene che riveste interesse storico, artistico ed archeologico nasce già conformata in ragione del superiore interesse della cultura.
Per quanto concerne, anzitutto, le ipotesi di esenzione dal rispetto delle distanze legali, Sez. 2, n. 00144/2016, Lombardo, Rv. 638534, chiarisce che la nozione di "costruzione", agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore".
Nella specificazione, pertanto, del concetto di "corpo di fabbrica" Sez. 2, n. 18282/2016, D'Ascola, Rv. 641075, ha escluso da esso (e, al contempo, dall'osservanza della normativa sulle distanze) gli "sporti" - elementi, cioè, con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda) - e ricomprendendovi, invece, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni (come i balconi), costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza. Sulla scorta di tale ultima considerazione, peraltro, Sez. 2, n. 05594/2016, Manna, Rv. 639403, in fattispecie disciplinata dalla l. n. 1150 del 1942, come modificata dalla l. n. 765 del 1967, ha osservato che «poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 2 aprile 1968 [...] stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte»; analogamente, poi, Sez. 2, n. 00859/2016, Scarpa, Rv. 638365, ricomprende, tra gli elementi da considerare ai fini del computo delle distanze tra costruzioni, i pianerottoli di collegamento dei balconi ed i cd. "setti", in quanto strutture accessorie di un fabbricato, non meramente decorative, ma dotate di dimensioni consistenti e stabilmente incorporate al resto dell'immobile.
Delimita - in via generale - il campo di applicabilità dell'art. 873 c.c. ai soli fabbricati che, sorgendo da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggiano, anche solo in minima parte, Sez. 2, n. 09649/2016, Migliucci, Rv. 639696, la quale, da un lato, fonda tale conclusione sulla ratio della richiamata disposizione codicistica (consistente nell'evitare intercapedini dannose) e, dall'altro, ne fa discendere, quale conseguenza, la necessità di misurazione della distanza tra i fabbricati in maniera lineare e non radiale, come invece previsto per le vedute.
Del pari, esclude l'applicabilità dell'art. 873 c.c. all'ipotesi di ristrutturazione edilizia realizzata mediante trasformazione di una finestra in porta-finestra per accedere al lastrico solare dell'edificio, Sez. 2, n. 10873/2016, Scarpa, Rv. 639895, che motiva tale conclusione sulla scorta della considerazione per cui detto intervento, non comportando aumenti di superficie o di volume, non configura una "nuova costruzione".
Sono, infine, ugualmente sottratte al rispetto dell'art. 873 c.c. le costruzioni erette su suolo pubblico, in confine con i fondi dei proprietari frontisti (nella specie, un'edicola realizzata su di un marciapiede, in attuazione di un piano comunale di localizzazione prescrivente una distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 9, del d.m. n. 1444 del 1968), essendo le stesse soggette, come chiarito da Sez. 2, n. 02863/2016, Lombardo, Rv. 639279), solo alle disposizioni delle leggi e dei regolamenti che specificamente le riguardano.
Quanto, poi, alle deroghe all'applicazione della normativa sulle distanze, Sez. 2, n. 01989/2016, Orilia, Rv. 638774, affrontando il caso di tubi del riscaldamento posizionati, all'interno di un edificio condominiale e rispetto alle unità immobiliari di proprietà esclusiva aliena, a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 889 c.c., si sofferma sui rapporti tra norme sulle distanze e disciplina del condominio, evidenziando come le prime trovano applicazione solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica, di per sé, il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini.
In tema di realizzazione di parcheggi sulla base della cd. "legge Tognoli", inoltre, Sez. 2, n. 11998/2016, Scalisi, Rv. 640213, precisa che la deroga alla disciplina delle distanze ex art. 9 della l. n. 122 del 1989 vale solo per le autorimesse e i parcheggi realizzati, per l'intera altezza, al di sotto dell'originario piano di campagna, tutelando le prescrizioni urbanistiche in tema di altezze, distanze e volumetria degli edifici valori specifici, quali aria, luce e vista.
Quanto, invece, alle ipotesi di applicazione della normativa sulle distanze, Sez. 2, 21755/2016, Parziale, in corso di massimazione, individua nel programma di fabbricazione l'atto normativo regolatore a carattere generale, integrativo del regolamento edilizio a decorrere dalla sua pubblicazione mediante affissione nell'albo pretorio, che rappresenta, fino all'approvazione del piano regolatore generale, lo strumento tipico e normale di sistemazione urbanistica e del territorio: ne discende che i vincoli imposti dallo stesso perimetrano il piano di lottizzazione che, ove se ne discosti, risulta adottato in deroga del primo, senza il rispetto delle modalita' di approvazione cui quest'ultimo soggiace.
Laddove, poi, il regolamento locale non preveda distanza alcuna ovvero contempli distanze inferiori a quelle minime prescritte per le zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, Sez. 2, n. 15458/2016, Lombardo, Rv. 640709, chiarisce che la disciplina prevista dal d.m. citato deve ritenersi automaticamente inserita nello strumento locale, con immediata sua operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento medesimo rispetto all'art. 873 c.c..
Ove, infine, le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, Sez. 2, n. 23136/2016, Scarpa, Rv. 641684, rileva che la disciplina sulle relative distanze non è recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
In tema di sopraelevazione, invece, Sez. 2, n. 09646/2016, Oricchio, Rv. 639697, specifica che, ove determini un incremento della volumetria del fabbricato, essa va qualificata come nuova costruzione e, pertanto, deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima.
Si occupa della diversa disciplina applicabile a "ricostruzioni" e "nuove costruzioni" Sez. 2, n. 00472/2016, Oricchio, Rv. 638211 che evidenzia come, laddove ove lo strumento urbanistico locale non contenga una norma espressa che estenda alle prime le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le seconde, la disciplina dettata per queste ultime trova applicazione solo relativamente a quella parte del fabbricato ricostruito che eccede i limiti di quello preesistente.
Si soffermano, infine, sugli effetti delle sopravvenienze normative in materia di distanze legali due pronunzie: anzitutto Sez. 2, n. 15298/2016, Lombardo, Rv. 640596, la quale, partendo dalla generale considerazione per cui la valutazione del carattere restrittivo dello ius superveniens va effettuata non in astratto, ma in concreto, verificando le conseguenze che all'edificante derivano dall'applicazione della nuova disciplina, chiarisce che la nuova disciplina, ove escluda il principio della prevenzione ed imponga una distanza dal confine, non si applica al convenuto che risulti costretto, per l'effetto, ad arretrare il fabbricato; quindi, Sez. 3, n. 12987/2016, Frasca, Rv. 640426, per cui lo ius superveniens più favorevole al costruttore non si applica in presenza di una sentenza passata in giudicato che, accertata la violazione delle distanze legali, abbia conseguentemente ordinato la demolizione dell'edificio, giacché la nuova normativa - a meno che non affermi espressamente di voler incidere sui rapporti processuali definiti - non può avere effetto sulla statuizione demolitoria da eseguire in forza del giudicato.
La probatio diabolica che accompagna l'esercizio dell'azione di rivendicazione trova una mitigazione nell'ipotesi, esaminata da Sez. 2, n. 08215/2016, Falabella, Rv. 639670, in cui convenuto spieghi una domanda ovvero un'eccezione riconvenzionale, invocando un possesso ad usucapionem iniziato successivamente al perfezionarsi dell'acquisto ad opera dell'attore in rivendica (o del suo dante causa): in tal caso, infatti, l'onere probatorio gravante su quest'ultimo si riduce alla prova del suo titolo d'acquisto, nonché della mancanza di un successivo titolo di acquisto per usucapione da parte del convenuto, attenendo il thema disputandum all'appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell'invocata usucapione e non già all'acquisto del bene medesimo da parte dell'attore.
Ancora in tema di attenuazione dell'onere della prova gravante sull'attore in rivendicazione, Sez. 2, n. 00694/2016, Picaroni, Rv. 638681, sottolinea che, laddove il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l'attore è tenuto a provare solamente l'esistenza di un valido titolo di acquisto da parte sua, l'appartenenza del bene al suo dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, nonché che tale appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto.
La tematica dell'onere della prova e delle modalità di suo assolvimento è approfondita, inoltre, da Sez. 2, n. 06740/2016, Falabella, Rv. 639454, che, in tema di azione di regolamento di confini e con specifico riferimento all'ipotesi di due fondi limitrofi costituenti lotti separati di un appezzamento originariamente unico, afferma che la fonte primaria di valutazione è rappresentata dall'esame dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà e del frazionamento agli stessi allegato, potendo il giudice di merito ricorrere ad ogni altro mezzo di prova solo qualora, sulla base delle risultanze dei predetti elementi, il confine risulti comunque incerto.
In proposito, tuttavia, le contestazioni relative alle risultanze catastali possono originare un "doppio binario" di giurisdizione: ed infatti, confermando il consolidato orientamento di legittimità, Sez. U, n. 02950/2016, Virgilio, Rv. 638359, osserva che, mentre appartengono alla giurisdizione del G.O. le controversie tra privati, o tra privati e P.A., aventi ad oggetto l'esistenza ed estensione del diritto di proprietà, controversie nelle quali le risultanze catastali possono essere utilizzate a fini probatori, qualora tali risultanze siano contestate per ottenerne la variazione, anche al fine di adeguarle all'esito di un'azione di rivendica o regolamento di confini, la giurisdizione è devoluta al giudice tributario, ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, in considerazione diretta incidenza degli atti catastali sulla determinazione dei tributi.
Quanto al petitum che qualifica l'azione di regolamento di confini, Sez. 2, n. 14131/2016, Manna, Rv. 640183 chiarisce, giacché essa mira ad un accertamento qualificato ed al recupero della porzione di terreno illegittimamente occupata e non già ad imporre il compimento di opere, ne consegue che, ove ai fini recuperatori si renda necessaria la demolizione di un muro, il giudice non può, in difetto di una domanda ad hoc, imporre la ricostruzione del muro stesso sulla linea di confine accertata.
È invece insito nell'accertamento sotteso a tale azione il rilascio della porzione di fondo indebitamente occupata: sicché - osserva Sez. 2, n. 06148/2016, Manna, Rv. 639399 - l'attore è dispensato dall'avanzare un'espressa domanda in tal senso. Diversamente è da dirsi, invece, nel caso in cui sia il convenuto che, oltre a resistere alla domanda altrui, intenda anche ottenere la restituzione del terreno ingiustificatamente occupato in eccedenza dall'attore: in tal caso - precisa Sez. 2, n. 00852/2016, Migliucci, Rv. 638680, egli ha l'onere di formulare tempestivamente apposita domanda riconvenzionale che, anche sotto il profilo probatorio, ha contenuto analogo e reciproco a quella proposta dall'attore.
Quanto all'onere della prova che connota l'actio negatoria servitutis, Sez. 2, n. 00476/2016, Scarpa, Rv. 638639, rimarca che il proprietario del fondo servente che ammetta l'esistenza legittima della servitù, deducendo solo che la stessa debba esercitarsi con determinate modalità ed entro certi limiti, deve provare l'esistenza delle une e degli altri.
Esclude la ricorrenza di un atto emulativo, nella richiesta di ripristino dell'impianto di riscaldamento centralizzato, Sez. 2, n. 01209/2016, Migliucci, Rv. 638683, osservando che l'atto vietato ex art. 833 c.c. presuppone lo scopo esclusivo di nuocere o di recare pregiudizio ad altri, in assenza di una qualsiasi utilità per il proprietario, mentre non è riconducibile a tale categoria un atto comunque rispondente ad un interesse del proprietario, essendo comunque preclusa al giudice una valutazione comparativa discrezionale fra gli interessi in gioco o la formulazione di un giudizio di meritevolezza e prevalenza fra gli stessi.
Si sono interessate, infine, dell'ambito di operatività dell'art. 844 c.c., tre pronunzie: Sez. 2, n. 16074/2016, Cosentino, Rv. 640687, estende la tutela contemplata dalla richiamata disposizione anche ai fondi rustici, non rilevando, ai fini dell'apprezzamento della tollerabilità delle immissioni sonore, l'accatastamento dell'immobile, giacché anche un fabbricato rurale può essere adibito ad uso abitativo di chi coltiva il fondo e, in ogni caso, pur se destinato esclusivamente a lavorazioni agrarie, resta comunque imprescindibile l'esigenza di tutelare le persone che in esso svolgono le suddette attività; quindi, Sez. 3, n. 20198/2016, Vincenti, in corso di massimazione, che, pronunziandosi in tema di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni sonore prodotte dalla movimentazione di vagoni ferroviari, effettuata sulla base di un apprezzamento in concreto ancorato al criterio del c.d. "differenziale", di cui alla disciplina "generale" dettata dall'art. 4, comma 1, del decreto del Presidente del consiglio dei ministri 14 novembre 1997, e non sulla base dei criteri previsti dalla disciplina "specifica" in materia di inquinamento acustico da traffico ferroviario, chiarisce che la differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa mantiene la sua attualità anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6-ter del decreto legge 30 dicembre 2008, n. 208, conv. con modificazioni in legge 27 febbraio 2009, n. 13, al quale non può , dunque, aprioristicamente attribuirsi una portata derogatoria e limitativa dell'art. 844 c.c., con l'effetto di escludere l'accertamento in concreto del superamento del limite della normale tollerabilita', dovendo comunque ritenersi prevalente, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, il soddisfacimento dell'interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione; infine, Sez. 2, n. 23245/2016, Orilia, Rv. 641663, la quale, nel delineare gli strumenti a disposizione del proprietario del fondo danneggiato da immissioni intollerabili provenienti dal fondo altrui, chiarisce che l'azione, di natura reale, per l'accertamento della illegittimità delle immissioni e l'eliminazione, mediante modifiche strutturali, delle cause originanti le stesse, va proposta nei confronti del proprietario del fondo dal quale tali immissioni provengono e la stessa può essere cumulata con la domanda, proponibile verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., volta a conseguire il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionato.
Si occupa delle conseguenze derivanti dalla ricostruzione conseguente al sisma del 1968 nel Belice, Sez. 2, n. 01722/2016, D'Ascola, Rv. 638590, la quale chiarisce che il fabbricato ricostruito da uno solo degli originari comproprietari di un edificio distrutto in detto cataclisma è di esclusiva proprietà di costui, giacché l'assegnazione dell'area sostitutiva e del contributo statale al comproprietario, ex art. 4, del d.l. n. 79 del 1968, conv. in l. n. 241 del 1968, non implica ipso iure, in caso di estraneità degli altri comunisti all'attività edificatoria, l'acquisto da parte di costoro della comproprietà del nuovo immobile, generando, al più, rapporti creditori tra le parti.
Ribadendo, poi, un principio costante in materia di locazione della cosa comune, Sez. 2, n. 01986/2016, Saclisi, Rv. 638785, afferma che, in simile ipotesi, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, rilevando l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione, pertanto, nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non potendo essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi appariva agire per tutti.
Fermi gli approfondimenti del caso nei capitoli specificamente dedicati alla comunione ed alla disciplina delle successioni, meritano menzione alcuni arresti della Corte di carattere squisitamente processuale.
Seguendo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, enunziato anche nel corso dell'anno 2016 da Sez. 2, n. 03925/2016, Matera, Rv. 638833 e per cui, proposta un'azione, di natura reale, volta alla demolizione di un immobile in comunione, la domanda va indirizzata nei confronti di tutti i comproprietari, quali litisconsorti necessari dal lato passivo, giacché, stante l'unitarietà del rapporto dedotto in giudizio, la sentenza pronunziata solo nei confronti di alcuni è inutiliter data, Sez. 2, n. 08468/2016, Scarpa, Rv. 639705, afferma il medesimo principio in caso di domanda di demolizione di un bene rientrante nel regime di comunione legale tra coniugi, benché formalmente acquistato o venduto da uno solo di essi: l'azione reale, infatti, va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, litisconsorti necessari dal lato passivo, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli.
Particolarmente copiosa, poi, la giurisprudenza in materia di scioglimento della comunione. Anzitutto Sez. 2, n. 14756/2016, Criscuolo, Rv. 640573, chiarisce che l'istanza di attribuzione ex art. 720 c.c., pur tendenzialmente soggetta alle preclusioni processuali, può essere avanzata per la prima volta in corso di giudizio, e anche in grado di appello, ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa denotino l'insorgere di una situazione di non comoda divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta l'extrema ratio voluta dal legislatore.
Allorché si verta in ipotesi di divisione ereditaria, poi, Sez. 2, n. 05603/2016, Rv. 639280, evidenzia come il giudice possa attribuire, per l'intero, un bene non comodamente divisibile, ai sensi dell'art. 720 c.c., non solo nella porzione del coerede con quota maggiore, ma anche nelle porzioni di più coeredi che tendano a rimanere in comunione, come titolari della maggioranza delle quote.
Sempre riguardo alla medesima tematica, invece, Sez. 2, n. 15466/2016, Criscuolo, Rv. 640589, individua nella sentenza che approva il progetto di divisione, disponendo il sorteggio dei lotti, un provvedimento di natura definitiva quanto alla domanda di scioglimento della comunione, giacché risolve tutte le questioni ad essa relative, senza che assuma contrario rilievo l'omessa pronuncia sulle spese di giudizio.
Si occupano di usufrutto due pronunzie della Seconda sezione: anzitutto Sez. 2, n. 08911/2016, Falabella, Rv. 639894, la quale, sulla scorta della premessa per cui la durata dell'usufrutto non può eccedere la vita dell'usufruttuario o, qualora sia concesso pro quota ad una pluralità di soggetti (e in assenza di usufrutto congiuntivo, che comporta l'accrescimento a favore dei superstiti), quella di ciascuno di essi per la quota attribuita l'usufruttuario, ai sensi degli artt. 979 e 980 c.c., osserva che, laddove con atto inter vivos l'usufruttario ceda il suo proprio (o la quota a spettantegli) per un certo tempo o per tutta la sua durata, in tal caso il diritto limitato di godimento è suscettibile di successione mortis causa, ove il cessionario deceda prima del cedente, perdurando fino a quando rimanga in vita quest'ultimo; quindi, Sez. 2, n. 07710/2016, Scarpa, Rv. 639450 che afferma l'ammissibilità dell'usufrutto successivo cd. "improprio" - configurabile allorché il costituente trasferisca, per atto inter vivos diverso dalla donazione, la nuda proprietà di un immobile, riservando a sé e, per il periodo successivo alla propria morte, ad uno o più terzi, l'usufrutto sul bene, così da farne coincidere la durata con la vita del più longevo degli usufruttuari - il quale non viola il divieto ex art. 698 c.c., giacché la fattispecie negoziale costitutiva dei diversi usufrutti si perfeziona con la conclusione del contratto, rappresentando la premorienza del costituente un fatto puramente accidentale e non causale rispetto alla produzione degli effetti.
Va anzitutto segnalata Sez. 2, n. 02853/2016, Falabella, Rv. 638969 che, occupandosi in linea generale dei modi di costituzione delle servitù prediali, ne afferma la tipicità, per l'effetto chiarendo, da un lato, che il riconoscimento, da parte del proprietario di un fondo, della fondatezza dell'altrui pretesa circa la sussistenza di una servitù mai costituita è irrilevante ove non si concreti in un negozio idoneo a far sorgere la servitù in via convenzionale; dall'altro, che è ugualmente inidonea a costituire la servitù la confessione di uno dei comproprietari del fondo servente circa l'esistenza della stessa, non essendo ipotizzabile l'estensione a terzi di effetti inesistenti.
Indugia, più nello specifico, sulla costituzione delle servitù per destinazione del padre di famiglia, Sez. 2, n. 02853/2016, Falabella, Rv. 638968, la quale osserva che essa non è invocabile allorché separazione dei due fondi sia operata da chi è proprietario esclusivo di uno di essi e solo comproprietario dell'altro, mancando in tal caso il requisito dell'appartenenza di entrambi i fondi al medesimo proprietario.
È, invece, Sez. U, n. 02949/2016, Chiarini, Rv. 638356 a chiarire quali sono, relativamente all'ambito applicativo dell'art. 1062 c.c., gli elementi necessari per la costituzione della servitù di presa d'acqua, occorrendo che l'originario unico proprietario abbia impresso un'oggettiva situazione di subordinazione o servizio tra i fondi, mediante collocazione nel fondo servente di tubazioni di conduzione dell'acqua che, fuoriuscendo dalla fonte o dallo sbocco ed essendo idonee ad irrigare il fondo dominante nel quale confluiscono, siano visibili e stabilmente destinate a soddisfare le esigenze idriche del fondo dominante.
Tanto, in accordo con il principio generale - indicato anche da Sez. 2, n. 06592/2016, Scarpa, Rv. 639605 in tema di servitù di veduta - per cui la costituzione di una servitù prediale per destinazione del padre di famiglia postula che le opere permanenti (consistenti, nella specie esaminata dalla S.C., nell'apertura e nelle opere di asservimento) destinate al suo esercizio, predisposte dall'unico proprietario, preesistano al momento il cui il fondo viene diviso fra più proprietari.
Sempre in tema di modalità di costituzione delle servitù, poi, Sez. 2, n. 11563/2016, Migliucci, Rv. 640339, ha ritenuto inammissibile l'imposizione coattiva di una servitù di gasdotto, atteso il carattere tipico delle servitù coattive e la non estensibilità a tale ipotesi dell'art. 1033 c.c., dettato in tema di servitù di acquedotto coattiva, trattandosi di situazioni non assimilabili sotto il profilo strutturale e funzionale per la pericolosità (non ricorrente per il trasporto delle acque) insita nell'attraversamento sotto terra della fornitura di gas.
Restando in tema di costituzione coattiva di servitù, con particolare riferimento al passagio coattivo, Sez. 2, n. 10269/2016, Giusti, Rv. 639969, osserva che l'indennità dovuta al proprietario del fondo servente dal proprietario del fondo dominante non rappresenta il corrispettivo dell'utilità conseguita da quest'ultimo quanto, piuttosto, un indennizzo risarcitorio da ragguagliare al danno cagionato al primo: conseguentemente la sua determinazione non può avvenire facendo esclusivamente riferimento al valore della superficie di terreno assoggettata alla servitù, dovendosi - piuttosto - tenere altresì conto di ogni altro pregiudizio subìto dal fondo servente in relazione alla sua destinazione a causa del transito di persone e di veicoli. Sempre in tema di passaggio coattivo, Sez. 2, n. 25352/2016, Grasso, Rv. 642154, rileva che, all'atto della costituzione della servitù deve aversi riguardo non tanto alla maggiore o minore lunghezza del percorso, bensì alla sua onerosità in rapporto alla situazione materiale e giuridica dei fondi, con la conseguenza che può risultare meno oneroso un percorso più lungo quando esso sia già in gran parte transitabile e richieda solo l'allargamento in brevi tratti per consentire il passaggio.
Ampia e varia, poi, è stata la giurisrudenza della Corte in tema di modalità di esercizio delle servitù: meritano menzione, in particolare, due pronunzie.
Innanzitutto Sez. 2, n. 09031/2016, D'Ascola, Rv. 639893, per cui, la maggiore gravosità, per il fondo servente, dell'esercizio della servitù, che costituisce condizione per il trasferimento del peso in luogo diverso da quello originariamente fissato, ex art. 1068, comma 2, c.c., «può dipendere, oltre che da un fatto estraneo all'attività dei proprietari dei fondi interessati, anche dall'utilizzazione del fondo servente da parte del suo proprietario e dal modificarsi della percezione di gravosità che sia obbiettivamente verificabile, attribuendo rilievo la norma, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata, principalmente alla condizione del proprietario del fondo servente. Nella valutazione, rimessa al suo apprezzamento, della maggiore gravosità, il giudice di merito deve tenere conto di quella umana e ragionevole tolleranza che dovrebbe presiedere all'esercizio di ogni diritto».
Quindi, Sez. 2, n. 10604/2016, Scalisi, Rv. 639956, per cui «una innovazione apportata al fondo servente non può essere considerato di per sè costitutivo di una limitazione della servitù se non costituisca anche un danno effettivo per il fondo dominante, in quanto l'esercizio della servitù è informato al criterio del minimo mezzo, nel senso che il titolare di essa ha il diritto di realizzare il beneficio derivantegli dal titolo o dal possesso senza appesantire l'onere del fondo servente oltre quanto sia necessario ai fini di quel beneficio».
Con riferimento, infine, alle modalità di estinzione delle servitù e, in specie, di quelle negative e continue, accomunate dalla peculiarità per cui il loro esercizio non implica lo svolgimento di alcuna specifica attività da parte del relativo titolare, Sez. 2, n. 03857/2016, Falaschi, Rv. 638834 individua il dies a quo di decorrenza del relativo termine di prescrizione nel giorno in cui è stato compiuto un fatto impeditivo dell'esercizio del diritto medesimo.
Confermando la consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, Sez. 6-2, n. 06622/2016, Rv. 639635, chiarisce che tanto l'actio confessoria quanto la negatoria servitutis danno luogo a litisconsorzio necessario passivo solo se, appartenendo il fondo servente pro indiviso a più proprietari, le azioni predette siano dirette anche ad una modificazione della cosa comune, che non potrebbe essere disposta od attuata pro quota in assenza di uno dei contitolari del diritto dominicale; diversamente ove una delle azioni predette sia volta a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l'esercizio, l'esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non è configurabile un litisconsorzio necessario, né dal lato attivo, né da quello passivo.
Aggiunge, inoltre, Sez. 2, n. 25342/2016, Falaschi, Rv. 641959-02, che la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell'azione al fine di esigere l'osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c. e, pertanto, ove la parte convenuta per l'eliminazione di vedute poste a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 905 c.c. affermi il diritto a mantenerle, la stessa ha l'onere di provare l'avvenuto acquisto, a titolo negoziale od originario, della relativa servitù, a nulla rilevando la mera preesistenza di fatto di tali aperture.
La S.C. si è soffermata più volte sull'istituto dell'accessione del possesso, ex art. 1146, comma 2, c.c.., non solo per ribadire - come fatto da Sez. 2, n. 19724/2016, Cosentino, Rv. 641210 - la necessità, ai fini della sua operatività, di un titolo astrattamente idoneo al passaggio della proprietà od altro diritto reale sul bene, ma soprattutto per affermarne - come operato da Sez. 2, n. 19788/2016, Falaschi, Rv. 641211 - la compatibilità, nella sussistenza di tale imprescindibile condizione, con il sistema tavolare.
Il possesso (o la detenzione), inoltre, può essere conservato solo animo, purché - osserva Sez. 2, n. 01723/2016, D'Ascola, Rv. 638592, il possessore (o il detentore) sia in grado di ripristinare ad libitum il contatto materiale con la cosa pena, ove tale possibilità sia di fatto preclusa da altri o da una obiettiva mutata situazione dei luoghi, perdita del possesso (o della detenzione) nel momento stesso in cui è venuta meno l'effettiva disponibilità della cosa.
Esclude, poi, che la mera convivenza configuri, in capo alle persone che convivono con chi possiede il bene, un potere sulla cosa che possa essere qualificato come possesso sulla medesima, Sez. 2, 12023/2016, Scalisi, Rv. 641688.
In tema di possesso utile ai fini dell'usucapione, Sez. 2, n. 08213/2016, Orilia, Rv. 639669 esclude che la mera mancata riconsegna del bene al comodante, nonostante le reiterate richieste di questi, a seguito di estinzione del comodato sia idonea a determinare l'interversione della detenzione in possesso, traducendosi, piuttosto, nell'inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, suscettibile, in sé, di integrare un'ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale all'obbligo restitutorio gravante per legge sul comodatario.
Del pari, allorché nella promessa di vendita venga convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, Sez. 2, n. 05211/2016, Lombardo, Rv. 639209 esclude che si realizzi un'anticipazione degli effetti traslativi, fondandosi la disponibilità conseguita dal promissario acquirente sull'esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori: conseguentemente, la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem ove non sia dimostrata una interversio possessionis nei modi previsti dall'art. 1141 c.c.
In senso opposto, invece, Sez. 2, n. 04945/2016, Giusti, Rv. 639599, ha evidenziato che la relazione di fatto esistente tra la res e colui che ne abbia conseguito la disponibilità a seguito di contratto di vendita concluso con il falsus procurator va configurata in termini di possesso e non di detenzione, giacché in tal caso il negozio, benché inefficace, è comunque volto a trasferire la proprietà del bene ed è, pertanto, idoneo a far ritenere sussistente, in capo all'accipiens, l'animus rem sibi habendi ai fini dell'usucapione ordinaria; nella stessa occasione è stato però chiarito che tale conclusione non vale ove si intenda far valere l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., possibile solo se l'inidoneità del titolo derivi dall'avere alienante disposto di un immobile altrui e non anche dalla sua invalidità od inefficacia.
D'altra parte, Sez. 2, n. 15927/2016, Lombardo, Rv. 640720, in conformità con il consolidato orientamento di legittimità sul punto, ribadisce che gli atti di diffida e di messa in mora (come, nella specie esaminata dalla S.C., la richiesta per iscritto di rilascio dell'immobile occupato) sono idonei ad interrompere la prescrizione unicamente dei diritti di obbligazione, ma non anche del termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale.
Di particolare rilievo Sez. 2, n. 19720/2016, Abete, Rv. 641096 che, analiticamente affrontando la questione, delinea il regime applicabile ai provvedimenti possessori emessi all'esito della fase interdittale, cui non faccia seguito il giudizio di merito: la Corte, infatti, prendendo esplicitamente posizione sul punto afferma che essi, pur restando, ex art. 669-octies, ultimo comma, c.p.c., sono tuttavia inidonei ad acquisire efficacia di giudicato, non avendo carattere decisorio, come le misure cautelari per le quali opera detta disposizione, e stante l'omesso richiamo, compiuto invece per altre ipotesi di procedimenti a cognizione sommaria, agli effetti di cui all'art. 2909 c.c..
Del pari, Sez. 2, n. 02300/2016, Matera, Rv. 638830, chiarisce che la sentenza resa sulla domanda possessoria non può avere autorità di cosa giudicata nel giudizio petitorio caratterizzato da diversità di petitum e causa petendi, giacché l'esame dei titoli costitutivi dei diritti fatti valere dalle parti è compiuto nel procedimento possessorio al solo fine di dedurre elementi sulla sussistenza del possesso, restando impregiudicata ogni questione sulla conformità a diritto della situazione di fatto oggetto di tutela.
Quanto, invece, ai presupposti per l'esperimento dell'azione di manutenzione, ove l'azione sia esperita in via preventiva, Sez. 2, n. 02291/2016, Parziale, Rv. 638831 esclude da essi l'"astratto" pericolo di pregiudizio al possesso occorrendo pur sempre, anche in tal caso, un comportamento che ponga in serio e concreto pericolo il preesistente stato di fatto.
In linea con i precedenti di legittimità sul punto, infine, Sez. 2, n. 04198/2016, Matera, Rv. 639277, la quale osserva come l'eccezione feci, sed iure feci è ammessa, nel giudizio possessorio, solo ove tenda a far valere lo ius possessionis e non anche lo ius possidendi, non potendosi la prova del possesso desumere, in seno a tale procedimento, dal regime, legale o convenzionale, del corrispondente diritto reale.
In relazione, da ultimo, ai procedimenti nunciatori, vanno segnalate due interessanti pronunzie della Corte: nella prima, occasione, Sez. 2, n. 05336/2016, Scalisi, Rv. 639407, ha chiarito che, esperita l'azione di danno temuto, il legittimato passivo va individuato, non solo, nel titolare del diritto reale, ma anche nel possessore ed in colui che, in ogni caso, abbia la disponibilità del bene da cui si assume che derivi la situazione di pericolo di danno grave, in quanto l'obbligo di custodia e manutenzione sussiste in ragione dell'effettivo potere fisico sulla cosa; e Sez. 2, n. 21301/2016, Falabella, in corso di massimazione, la quale, in considerazione, della struttura unica, ancorché bifasica, dei procedimenti nunciatori - pur dopo la novella di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353 - ha osservato che «le domande possessorie di merito proposte oltre il termine annuale fissato ex artt. 1168 e 1170 c.c. non sono soggette alla decadenza ivi prevista, alla duplice condizione che l'interessato, che abbia agito ai sensi degli artt. 1171 o 1172 c.c., abbia tempestivamente chiesto, in tale sede, l'adozione di provvedimenti provvisori e le successive domande possessorie concernano la medesima lesione del possesso trattata con la denuncia di nuova opera o con quella di danno temuto; tanto, ancorché il giudice, nel definire il solo procedimento nunciatorio, manchi di rinviare la causa per il merito possessorio e quest'ultimo costituisca oggetto di un procedimento successivamente introdotto, a iniziativa di chi lamenti lo spoglio o la turbativa del possesso».
La materia della comunione e del condominio negli edifici, oggetto di significative pronunce della S.C. anche nel 2016, rivela all'attualità particolare interesse alla luce dell'entrata in vigore, a decorrere dal 18 giugno dell'anno 2013, della legge 11 dicembre 2012, n. 220, la quale ha introdotto Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici, intervenendo, in particolare, sugli artt. 1117, 1118, 1119, 1120, 1122, 1124, 1129, 1130, 1131, 1134, 1136, 1137, 1138 e 2659 c.c., nonché sugli artt. 63, 64, 66, 67, 68, 69 e 70 disp. att. c.c., sull'art. 2, comma 1, della legge 9 gennaio 1989, n. 13, sull'art. 26, comma 2, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, sull'art. 2-bis, comma 13, del decreto legge 23 gennaio 2001, n. 5 (convertito in legge 20 marzo 2001, n. 66) e sull'art. 23, comma 1, c.p.c.; risultano, inoltre, inseriti gli artt. 1117bis, 1117-ter, 1117-quater, 1122-bis, 1122-ter, 1130-bis c.c., gli artt. 71-bis, 71-ter, 71-quater e 165-bis disp. att. c.c., e l'art. 30 della medesima l. n. 220 del 2012, il quale rimane a sé stante.
Fermo il regime transitorio, dettato dall'art. 32 l. n. 220 del 2012, è utile confrontare gli approdi giurisprudenziali degli ultimi mesi con le prospettive interpretative determinate dalla vigenza della disciplina novellata.
In forza delle disposizioni dedicate alla comunione ordinaria, ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Ai sensi dell'art. 1102, comma 2, c.c., il comunista non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri comunisti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune, ai sensi dell'art. 1104, comma 1, c.c. Con riferimento all'amministrazione della cosa comune, regolata dall'art. 1105 c.c., tutti i partecipanti hanno diritto di concorrervi in via disgiuntiva. Le innovazioni dirette al miglioramento della cosa comune o a renderne più comodo o redditizio il godimento possono essere disposte con la maggioranza prescritta dall'art. 1108, comma 1, c.c., purché non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa. Infine, ciascuno dei partecipati può sempre domandare lo scioglimento della comunione ai sensi dell'art. 1111 c.c.
In applicazione dei principi innanzi esposti in ordine all'uso della cosa comune, Sez. 2, n. 01986/2016, Scalisi, Rv. 638785, ha precisato che, qualora il contratto di locazione abbia ad oggetto un immobile in comproprietà indivisa, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, sicché l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi appariva agire per tutti.
Secondo Sez. 2, n. 03925/2016, Matera, Rv. 638833, l'azione, di natura reale, volta alla demolizione di un immobile in comunione va proposta nei confronti di tutti i comproprietari, quali litisconsorti necessari dal lato passivo, giacché, stante l'unitarietà del rapporto dedotto in giudizio, la sentenza pronunziata solo nei confronti di alcuni è inutiliter data. Pertanto, ove il litisconsorte pretermesso proponga opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di condanna alla demolizione resa in grado di appello, il giudice che accerti la fondatezza dell'opposizione deve provvedere ex artt. 406 e 354 c.p.c.
In tema di sospensione del processo, Sez. 6-1, n. 04183/2016, De Chiara, Rv. 638863, ha ritenuto che tra due giudizi riguardanti, rispettivamente, lo scioglimento di una comunione immobiliare e l'usucapione di uno degli immobili da dividere, non sussiste un rapporto di pregiudizialità ai sensi dell'art. 295 c.p.c., che va intesa in senso non meramente logico, ma tecnico giuridico, in quanto determinata da una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell'altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo si riflette necessariamente, condizionandola, su quella del secondo.
Con riguardo all'aspetto delle spese, Sez. 2, n. 10864/2016, Scarpa, Rv. 639964, ha sostenuto che esula dall'ambito di operatività dell'art. 1110 c.c., che attiene alle sole spese necessarie per la conservazione della cosa comune, la domanda di rimborso delle spese derivanti dalla prestazione di un servizio condominiale di fornitura di acqua potabile a vantaggio di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva ed alla conseguente ripartizione interna del consumo unitario dell'intero complesso, come fatturato dall'ente erogatore, sulla base dei contatori di sottrazione installati nelle singole porzioni ovvero dei rispettivi valori millesimali.
Al condominio quale ente di gestione è riferito un arresto che si è soffermato sulla negazione dell'imputazione della responsabilità aquiliana in conseguenza dell'integrazione di condotte riconducibili al portiere dello stabile.
Al riguardo, Sez. 3, n. 11816/2016, De Stefano, Rv. 640238, ha evidenziato che il condominio non è responsabile, ex art. 2049 c.c., per le lesioni personali dolose causate da un pugno sferrato dal portiere dell'edificio condominiale ad un condomino (o ad un inquilino) in occasione dell'accesso del primo nell'appartamento del soggetto leso per ispezionare tubature ed escludere guasti ai beni comuni o limitare i danni da essi producibili, difettando il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le mansioni esercitate, posto che in queste non rientra alcuna ipotesi di coazione fisica sulle persone presenti nell'edificio condominiale, né tali condotte corrispondono, neanche sotto forma di degenerazione ed eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse al loro ordinario espletamento.
In tema di condominio, l'art. 1117 c.c. individua specifici beni di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio. Tale elenco non è né tassativo né omogeneo. Infatti, il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso ovvero nel fatto che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune. Pertanto, accanto ai beni necessariamente o strutturalmente condominiali si collocano i beni solo funzionalmente ed occasionalmente condominiali. La presunzione di comproprietà si riferisce esclusivamente ai beni la cui destinazione al servizio collettivo non si ponga in termini di assoluta necessità. Solo in questi casi la loro qualificazione in termini di beni comuni può essere derogata da un titolo da cui risulti il contrario. Per converso, il diritto sulle parti comuni necessarie o strutturali non può essere oggetto di abdicazione, ai sensi dell'art. 1118 c.c.
In primo luogo, Sez. 2, n. 01989/2016, Orilia, Rv. 638774, ha stabilito che, in tema di condominio, le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione, rispetto alle singole unità immobiliari, solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, sicché il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette disposizioni non sia irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini. Ne deriva che, anche con riferimento ai tubi dell'impianto di riscaldamento, l'art. 889 c.c. è derogabile solo ove la distanza prevista sia incompatibile con la struttura degli edifici condominiali.
Ancora, Sez. 2, n. 03858/2016, Picaroni, Rv. 639063, ha rilevato che, in tema di eliminazione delle barriere architettoniche, la l. n. 13 del 1989 costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell'interesse generale, l'accessibilità agli edifici, sicché il diritto al mantenimento ed all'uso dei dispositivi antibarriera (nella specie, un dispositivo servo scale), installati (anche provvisoriamente) in presenza di un soggetto residente portatore di handicap, non costituisce un diritto personale ed intrasmissibile del condomino disabile, che si estingue con la morte dello stesso.
Sez. 2, n. 04127/2016, Falabella, Rv. 639402, ha puntualizzato che sussiste condominio parziale ex lege, in base alla previsione di cui all'art. 1123, comma 3, c.c., ogni qualvolta un bene, rientrante tra quelli ex art. 1117 c.c., sia destinato, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, al servizio e/o godimento esclusivo di una parte soltanto dell'edificio condominiale; tale figura risponde alla ratio di semplificare i rapporti gestori interni alla collettività condominiale, sicché il quorum, costitutivo e deliberativo, dell'assemblea nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti la comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, va calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate.
Secondo Sez. 2, n. 05551/2016, Matera, Rv. 639340, in materia di condominio degli edifici, lo spazio aereo sovrastante a cortili comuni - la cui funzione è di fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano - non può essere occupato dai singoli condomini con costruzioni proprie in aggetto, non essendo consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri, ai sensi dell'art. 840, comma 3, c.c., l'utilizzazione, ancorché parziale, a proprio vantaggio, della colonna d'aria sovrastante ad area comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti compromessa.
Sez. 2, n. 06154/2016, Scarpa, Rv. 639400, ha rilevato che lo spazio sottostante il suolo di un edificio condominiale, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, va considerato di proprietà comune, per il combinato disposto degli artt. 840 e 1117 c.c., sicché, ove il singolo condomino proceda, senza il consenso degli altri partecipanti, a scavi in profondità del sottosuolo, così attraendolo nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, si configura uno spoglio denunciabile dall'amministratore con l'azione di reintegrazione.
Inoltre, Sez. 2, n. 06143/2016, Parziale, Rv. 639396, ha chiarito che, per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicché, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all'uso comune o all'esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117, comma 1, c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva all'esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall'umidità l'appartamento dell'ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento.
Sez. 2, n. 09035/2016, Orilia, Rv. 639879, ha affermato che, nel caso in cui si discuta della natura condominiale di un bene immobile successivamente sottoposto a sequestro, ai sensi degli artt. 2-ter e 2-quater della l. n. 575 del 1965, trova applicazione il principio secondo il quale la rivendicazione dell'esistenza di diritti sorti su un bene oggetto di un provvedimento ablativo, privi di collegamento con l'attività dell'indiziato di appartenenza a consorteria mafiosa, camorristica o similare ovvero in collusione con esso, deve essere fatta valere in sede civile, non potendo il terzo intervenire nel procedimento di prevenzione o in sede di esecuzione davanti al giudice penale.
Ancora, Sez. 2, n. 13450/2016, Scarpa, Rv. 640127, ha specificato che, in tema di condominio negli edifici, il corridoio di accesso alle singole unità immobiliari si presume comune ex art. 1117, n. 1, c.c., sicché è onere del condomino che ne vanti la proprietà esclusiva indicare il titolo relativo nell'atto costitutivo del condominio.
Sempre in tema di beni comuni, Sez. 2, n. 19215/2016, Falaschi, Rv. 641289, ha chiarito che l'utilizzazione in via esclusiva di un bene comune da parte del singolo condomino in assenza del consenso degli altri condomini, ai quali resta precluso l'uso, anche solo potenziale, della res, determina un danno in re ipsa, quantificabile in base ai frutti civili tratti dal bene dall'autore della violazione.
Sez. 6-2, n. 22285/2016, Scalisi, Rv. 641693, ha precisato che l'art. 1118 c.c., come modificato dalla l. n. 220 del 2012, consente al condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato - di riscaldamento o di raffreddamento - condominiale, ove una siffatta condotta non determini notevoli squilibri di funzionamento dell'impianto stesso o aggravi di spesa per gli altri condomini, e dell'insussistenza di tali pregiudizi quel condomino deve fornire la prova, mediante preventiva informazione corredata da documentazione tecnica, salvo che l'assemblea condominiale abbia autorizzato il distacco sulla base di una propria, autonoma valutazione del loro non verificarsi.
Sez. 2, n. 25775/2016, Parziale, in corso di massimazione, ha osservato che, con riferimento ad un edificio unico sul piano strutturale-costruttivo, al cui interno sussistano due diversi ed autonomi condominii, confinanti e con distinti accessi, è illegittima l'opera di collegamento effettuata dal proprietario di immobili tra loro attigui, ma ciascuno collocato in uno dei due diversi condominii, poiché l'esistenza di due distinti condominii implica che il muro che divide i due immobili (almeno per una parte di esso) deve essere ritenuto perimetrale, sicché esso è comune ai condomini facenti parte di ciascun condominio e non rientra nella proprietà esclusiva delle due unità attigue.
In ultimo, Sez. 2, n. 27360/2016, Grasso, in corso di massimazione, ha puntualizzato la distinzione tra condominio, anche se minimo, e comunione ordinaria, chiarendo che nel condominio sono individuabili in via peculiare due situazioni soggettive affatto dissimili: per un verso, il condomino gode della piena ed esclusiva proprietà del volume costituito dalla propria unità (abitativa o meno); per altro verso, le parti comuni - cioè quelle che rendono indissolubile la struttura e ne assicurano la permanenza in vita (fondamenta, tetto, muri di chiusura, scarichi, ecc.) o che a questa sono asservite (corti, aiuole, accessi, recinzioni, ecc.) - sono soggette a comunione funzionale indissolubile. Per contro, nella comunione (situazione, questa, precaria, in quanto condizionata al non esercizio del diritto alla divisione da parte dei comunisti, salvo l'eccezione di cui all'art. 1112 c.c.) il singolo comproprietario gode di una quota del tutto. (In applicazione di tale criterio distintivo, la S.C. ha riformato la sentenza impugnata, ritenendo la sussistenza del condominio minimo con riferimento ad un unico corpo di fabbrica, dotato di fondamenta unitarie, all'interno del quale prendono vita due appartamenti a schiera, separati per linea verticale, da terra al soffitto della mansarda, da una parete divisoria, in assenza di giunto di dilatazione, con la conseguente applicazione della diciplina del condominio quanto ai lavori riguardanti il rifacimento del muro di contenimento dell'area sulla quale insiste il fabbricato e la corte collocata a piano terra, posta a livello superiore rispetto alla restante area, al cui fondo insiste altra corte).
Il vincolo di destinazione da cui sono avvinti i beni e servizi comuni, in ragione dell'accentuata preminenza dell'interesse collettivo sugli interessi individuali dei singoli condomini, connota altresì la disciplina in tema di innovazioni. La S.C. si è occupata, al riguardo, dell'ampiezza del concetto di innovazioni di cui all'art. 1120 c.c., volte al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, purché non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non ne alterino il decoro architettonico e non rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.
In questa prospettiva, Sez. 2, n. 11034/2016, Falabella, Rv. 639944, ha puntualizzato che, in tema di condominio, costituisce innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c., l'assegnazione, in via esclusiva e per un tempo indefinito, di posti auto all'interno di un'area condominale, in quanto determina una limitazione dell'uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune, con conseguente nullità della relativa delibera.
Sez. 6-2, n. 17350/2016, Falaschi, Rv. 640894, ha poi rilevato che, in materia di condominio negli edifici, le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista.
Il vincolo di destinazione innanzi evocato, quanto alla regolamentazione delle innovazioni, governa inoltre i criteri di ripartizione delle spese di manutenzione. Infatti, con riferimento alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, l'art. 1123, comma 1, c.c. prevede che esse sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione.
Al riguardo, Sez. U, n. 09449/2016, Petitti, Rv. 639821, ha rilevato che, in tema di condominio negli edifici, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio.
Ancora, Sez. 2, n. 22573/2016, Cosentino, Rv. 641639 ha evidenziato che, in tema di condominio negli edifici, le spese del riscaldamento centralizzato sono legittimamente ripartite in base al valore millesimale delle singole unità immobiliari servite, ove manchino sistemi di misurazione del calore erogato in favore di ciascuna di esse, che ne consentano il riparto in proporzione all'uso.
Inoltre, secondo Sez. 2, n. 18759/2016, Cosentino, Rv. 641283, il condomino che, in mancanza di autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, abbia anticipato le spese di conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso purché ne dimostri, ex art. 1134 c.c., l'urgenza, ossia che le opere, per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, dovevano essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto il diritto al rimborso delle spese sostenute per opere di tinteggiatura e di intervento sugli impianti tecnologici, ritenendole, al contrario, non urgenti ma volte solo ad un miglioramento dell'immagine "commerciale" del condominio).
All'amministratore compete l'esecuzione delle deliberazioni dell'assemblea nonché tutta l'attività di ordinaria amministrazione. La S.C. si è occupata specificamente dei temi relativi alla nomina e revoca dell'amministratore, all'individuazione dei suoi poteri ed attribuzioni nonché alla determinazione della sua rappresentanza.
In particolare, Sez. 2, n. 02242/2016, Migliucci, Rv. 638829, ha precisato che la nomina dell'amministratore del condominio è soggetta all'applicazione dell'art. 1392 c.c., sicché, salvo siano prescritte forme particolari e solenni per il contratto che il rappresentante deve concludere, la procura di conferimento del potere di rappresentanza può essere verbale o tacita, e può risultare, indipendentemente dalla formale investitura assembleare e dall'annotazione nello speciale registro di cui all'art. 1129 c.c., dal comportamento concludente dei condomini, che abbiano considerato l'amministratore tale a tutti gli effetti, rivolgendosi a lui abitualmente in detta veste, senza metterne in discussione i poteri di gestione e di rappresentanza del condominio. (Fattispecie relativa a nomina anteriore all'entrata in vigore della legge n. 220 del 2012).
Inoltre, Sez. 2, n. 10865/2016, Scarpa, Rv. 639968, ha rilevato che l'amministratore di condominio, per conferire procura al difensore al fine di costituirsi in giudizio nelle cause che rientrano nell'ambito delle proprie attribuzioni, non necessita di alcuna autorizzazione assembleare che, ove anche intervenga, ha il significato di mero assenso alla scelta già validamente compiuta dall'amministratore medesimo.
Nello stesso senso, Sez. 2, n. 16260/2016, Scarpa, Rv. 641005, ha affermato che l'amministratore di condominio, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea, può proporre opposizione a decreto ingiuntivo, nonché impugnare la decisione del giudice di primo grado, per tutte le controversie che rientrino nell'ambito delle sue attribuzioni ex art. 1130 c.c., quali quelle aventi ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento di un'obbligazione assunta dal medesimo amministratore per conto dei partecipanti, ovvero per dare esecuzione a delibere assembleari, erogare le spese occorrenti ai fini della manutenzione delle parti comuni o l'esercizio dei servizi condominiali.
L'assemblea dei condomini è l'organo deliberativo del condominio. L'art. 1135 c.c. ne regola le attribuzioni, oltre a quelle stabilite dagli artt. precedenti. In particolare, l'assemblea provvede all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e alla relativa ripartizione tra i condomini nonché all'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e all'impiego del residuo attivo della gestione.
Il successivo art. 1136 c.c. disciplina, invece, la costituzione dell'assemblea e la validità delle sue deliberazioni.
In proposito, Sez. 2, n. 10865/2016, Scarpa, Rv. 639967, ha precisato che, in tema di condominio negli edifici, il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione, rimessi all'iniziativa dell'amministratore nell'esercizio delle proprie funzioni e vincolanti per tutti i condomini ex art. 1133 c.c., ed atti di amministrazione straordinaria, al contrario bisognosi di autorizzazione assembleare per produrre detto effetto, salvo quanto previsto dall'art. 1135, comma 2, c.c., riposa sulla "normalità" dell'atto di gestione rispetto allo scopo dell'utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che, pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della delibera dell'assemblea condominiale.
Sempre Sez. 2, n. 10865/2016, Scarpa, Rv. 639966, ha sostenuto che, in tema di condominio negli edifici, la delibera assembleare che abbia ad oggetto un contenuto generico e programmatico (quale, nella specie, la ricognizione del riparto dei poteri tra singoli condomini, amministratore ed assemblea) non necessita, ai fini della sua validità, che il relativo argomento sia tra quelli posti all'ordine del giorno nell'avviso di convocazione, trattandosi di contenuti non suscettibili di preventiva specifica informativa ai condomini e, comunque, costituenti possibile sviluppo della discussione e dell'esame di ogni altro punto all'ordine del giorno.
Ai sensi dell'art. 1137 c.c., le deliberazioni prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria, chiedendone l'annullamento, nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. Tuttavia, nessun termine è stabilito per far valere la radicale nullità di tali delibere, vizio che può essere rilevato anche d'ufficio dal giudice.
Sul tema, Sez. 2, n. 00305/2016, Criscuolo, Rv. 638022, ha puntualizzato che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità d'ufficio dell'invalidità delle sottostanti delibere non opera allorché si tratti di vizi implicanti la loro nullità, trattandosi dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda.
Per converso, Sez. 2, n. 03354/2016, Migliucci, Rv. 638789, ha affermato che l'ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, ex art. 63 disp. att. c.c., è limitato alla verifica dell'esistenza ed efficacia della sottostante delibera assembleare di approvazione e riparto della spesa e non si estende alle questioni concernenti la validità della stessa.
In ordine a tale aspetto, Sez. 2, n. 22573/2016, Cosentino, Rv. 641638, ha ulteriormente rilevato che l'annullamento della delibera assunta dall'assemblea dei condomini, derivante dall'omessa convocazione di uno di essi, può ottenersi solo con il tempestivo esperimento di un'azione ad hoc, non potendo tale doglianza formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo chiesto per il pagamento delle spese deliberate dall'assemblea medesima.
Sez. 6-2, n. 00751/2016, Giusti, Rv. 638362, ha sostenuto che è legittima la deliberazione dell'assemblea condominiale che addebiti integralmente al condomino moroso le spese legali liquidate a suo carico nel decreto ingiuntivo emesso in favore del condominio, ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., trattandosi di atto ricognitivo di un provvedimento giudiziale provvisoriamente esecutivo.
Ancora, Sez. 2, n. 02859/2016, Lombardo, Rv. 639108, ha chiarito che, in tema di condominio, l'impugnativa di una delibera assembleare proposta da una pluralità di condomini determina una situazione di litisconsorzio processuale tra gli stessi, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della deliberazione, sicché, ove la sentenza che ha statuito su tale impugnativa venga appellata da alcuni soltanto di tali condomini, il giudice di secondo grado deve disporre, ex art. 331 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, quali parti di una causa inscindibile.
Sez. 2, n. 16081/2016, Scarpa, Rv. 640789, ha ritenuto che la produzione delle delibere assembleari condominiali a corredo di una domanda monitoria avverso un condomino non è idonea a soddisfare l'onere di comunicazione agli assenti ex art. 1137 c.c., né comporta il sorgere della presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., che postula il recapito all'indirizzo del condomino del verbale contenente le decisioni dell'assemblea, né, comunque, obbliga quest'ultimo ad attivarsi per acquisire e conoscere il testo delle deliberazioni stesse, la cui conoscibilità, pertanto, non è ancorata alla data di notificazione del decreto ingiuntivo.
Inoltre, Sez. 2, n. 05814/2016, Picaroni, Rv. 639417, ha osservato che, in tema di condominio, poiché le attribuzioni dell'assemblea sono limitate alla verifica ed all'applicazione dei criteri stabiliti dalla legge, è nulla, anche se assunta all'unanimità, la delibera che modifichi il criterio legale di ripartizione delle spese di riparazione del lastrico solare stabilito dall'art. 1126 c.c., ove i condomini non abbiano manifestato l'espressa volontà di stipulare un negozio dispositivo dei loro diritti in tal senso: tale nullità può essere fatta valere, ex art. 1421 c.c., da chiunque vi abbia un concreto interesse, compreso il condomino che abbia partecipato, con il suo voto favorevole, alla formazione di detta delibera.
Infine, Sez. 2, n. 25791/2016, Orilia, in corso di massimazione, ha precisato che, ove il verbale dell'assemblea sia spedito al condomino assente a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento ed il destinatario non sia reperito, il termine di trenta giorni per la proposizione dell'impugnazione decorre dal decimo giorno successivo alla data del rilascio dell'avviso di giacenza ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore.
In base alla previsione dell'art. 1138 c.c., è prescritta l'adozione di un regolamento condominiale quando il numero dei condomini sia superiore a dieci. Il regolamento, che costituisce espressione dell'autonomia organizzativa nel condominio, deve contenere le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione. Il regolamento condominiale si distingue dal regolamento contrattuale, che postula una "convenzione" intervenuta tra tutti i condomini in via contestuale ovvero mediante adesione di tutti gli acquirenti, attraverso i loro "atti di acquisto", ad un testo di regolamento predisposto dall'originario proprietario alienante.
In proposito, Sez. 2, n. 13184/2016, Migliucci, Rv. 640181, ha rilevato che il condomino può dividere il suo appartamento in più unità ove da ciò non derivi concreto pregiudizio agli altri condomini, salva eventuale revisione delle tabelle millesimali; non osta che il regolamento contrattuale del condominio preveda un certo numero di unità immobiliari, qualora esso non ne vieti la suddivisione.
Ancora, Sez. 2, n. 21024/2016, Manna, Rv. 641640, ha ritenuto che la previsione, contenuta in un regolamento condominiale convenzionale, di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull'estensione ma sull'esercizio del diritto di ciascun condomino, va ricondotta alla categoria delle servitù atipiche e non delle obbligazioni propter rem, difettando il presupposto dell'agere necesse nel soddisfacimento d'un corrispondente interesse creditorio; ne consegue che l'opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti va regolata secondo le norme proprie delle servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l'indicazione, nella nota di trascrizione, delle specifiche clausole limitative, ex artt. 2659, comma 1, n. 2, e 2665 c.c., non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale.
Sez. 2, n. 21307/2016, Criscuolo, Rv. 641656, ha altresì sostenuto che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l'individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti. (Nella specie, la S.C. ha riformato la decisione impugnata che, dalla presenza di una clausola del regolamento di condominio espressamente limitativa della destinazione d'uso dei soli locali cantinati e terranei a specifiche attività non abitative, aveva tratto l'esistenza di un vincolo implicito di destinazione, a carattere esclusivamente abitativo, per gli appartamenti sovrastanti, uno dei quali era stato invece adibito a ristorante-pizzeria, mediante scala di collegamento interna ad un vano ubicato al piano terra).
Inoltre, Sez. 2, n. 25790/2016, Orilia, in corso di massimazione, ha puntualizzato che, secondo la formulazione dell'art. 69 disp. att. c.c., il diritto di chiedere la revisione delle tabelle millesimali è condizionato alla ricorrenza di uno o di entrambi i presupposti indicati, ossia di un errore ovvero di un'alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano, con la conseguenza logica che, in base alla regola generale di distribuzione dell'onere probatorio, la prova della sussistenza delle condizioni che legittimano la modifica incombe su chi intende modificare le tabelle, quanto meno con riferimento agli errori oggettivamente verificabili.
In applicazione del criterio basato sulla distinzione tra carenza di potere e illegittimo esercizio del potere, ai fini della corretta ricognizione delle situazioni giuridiche soggettive conoscibili dal giudice ordinario e da quello amministrativo nell'ambito delle rispettive giurisdizioni, Sez. U, n. 08062/2016, Vivaldi, Rv. 639449, dando seguito al consolidato indirizzo di legittimità (Sez. U, n. 08987/1990, Lipari, Rv. 469141; Sez. 1, n. 24041/2006, Ceccherini, Rv. 593187), ha affermato che l'incompetenza del sindaco che ha emesso il provvedimento di occupazione d'urgenza in luogo del presidente della giunta regionale è censurabile davanti al giudice amministrativo e non davanti al giudice ordinario, trattandosi di incompetenza relativa e non di carenza assoluta di potere, in quanto il vizio non priva l'atto della capacità di degradare il diritto soggettivo a interesse legittimo.
Ancora in relazione alla legittimità del provvedimento ablativo, Sez. 1, n. 10720/2016, Sambito, Rv. 639814, ribadendo anche in questo caso consolidati principi (Sez. U, n. 10362/2009, Salvago, Rv. 607608), ha chiarito che la doglianza relativa all'ammontare dell'indennizzo e ai criteri della relativa quantificazione non attiene alla legittimità del provvedimento ablativo, ma si concreta in un'opposizione alla stima che, in base all'art. 54 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità - Testo A»), appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e, quindi, alla speciale competenza in unico grado della corte di appello.
Dirimendo un conflitto negativo di giuridizione in fattispecie relativa alla domanda risarcitoria e indennitaria avanzata (in via alternativa e cumulativa) dai proprietari frontisti di un'area espropriata per la realizzazione della linea ferroviaria dell'alta velocità, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 02052/2016, Frasca, Rv. 638281-638282), interrogandosi sul concetto di "comportamento" della P.A. e sulla sua riconducibilità all'esercizio del potere amministrativo (a tale specifico riguardo v. Sez. U, n. 10879/2015, Di Amato, Rv. 635545, e Sez. U, n. 12179/2015, Mammone, Rv. 635540, entrambe nella Rassegna 2015), hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. ove, nella prospettazione attorea, fonte del danno non siano né il "se" né il "come" dell'opera progettata, ma le sue concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda su un comportamento della P.A. (o del suo concessionario) che non sia semplicemente occasionato dall'esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione e, cioè, risulti necessario, considerate le sue caratteristiche in relazione all'oggetto del potere, al raggiungimento del risultato da perseguire. Quanto poi alle controversie sulle indennità dovute dalla P.A. al titolare del bene non espropriato (ex artt. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Disciplina delle espropriazioni per causa di utilità pubblica», e 44 del d.P.R. n. 327 del 2001), esse non rientrano nella giurisdizione esclusiva in materia urbanistica. Per un verso, infatti, nei confronti del beneficiario, terzo proprietario, confinante con l'opera pubblica ed estraneo al procedimento espropriativo, non è configurabile un rapporto diretto con l'amministrazione-autorità, nel cui ambito possa individuarsi una posizione d'interesse legittimo soggetta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo; per altro verso, anche tenendo conto del carattere indennitario della prestazione, comunque collegata ad un procedimento espropriativo, l'art. 34, comma 3, lett. b), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 98 (recante «Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59») prevede una riserva di giurisdizione ordinaria per la determinazione delle indennità conseguenti all'adozione di atti di natura espropriativa. Sempre con riferimento al concetto di comportamento posto in essere dalla P.A. in carenza di potere, ovvero in via di mero fatto, in fattispecie di sconfinamento nell'esecuzione di opere pur presidiate da una valida dichiarazione di pubblica utilità (ma limitatamente ai terreni che ne formavano oggetto), Sez. U, n. 25044/2016, Manna, Rv. 641778, ha dichiarato la giurisidizione del giudice ordinario, configurandosi un'occupazione cd. usurpativa e precisando altresì l'irrilevanza, su tale sistema di riparto, dell'istituto della cd. acquisizione sanante.
In tema di acquisizione sanante ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (su cui v. oltre, § 7.1), si è già dato conto nella Rassegna 2015 delle questioni di giurisdizione agitatesi a seguito dell'entrata in vigore della citata norma che, come è noto, ha superato il vaglio di costituzionalità di cui a Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71 (v. l'ordinanza interlocutoria Sez. 6-1, n. 15816/2015, Cristiano, non massimata), nonché di Sez. U, n. 22096/2015, Di Palma, Rv. 638169, che, sulla scorta della ritenuta natura indennitaria del ristoro ex art. 42bis cit., ha affermato in subiecta materia la giurisdizione del giudice ordinario. Orbene, Sez. U, n. 15283/2016, De Chiara, Rv. 640701-640702, decidendo sulle questioni poste dalla citata ordinanza interlocutoria, ha ulteriormente chiarito che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario non solo la controversia relativa alla determinazione e corresponsione dell'indennizzo previsto in relazione alla fattispecie di acquisizione sanante ex art. 42-bis cit., ma anche quella avente ad oggetto l'interesse del cinque per cento del valore venale del bene, dovuto, ai sensi del comma 3, ultima parte, di detto articolo, «a titolo di risarcimento del danno», giacché esso, ad onta del tenore letterale della norma, costituisce solo una voce del complessivo «indennizzo per il pregiudizio patrimoniale» di cui al precedente comma 1, secondo un'interpretazione imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori. Da tale principio le Sezioni Unite ne hanno tratto il corollario sistematico della devoluzione delle controversie relative alla determinazione e corresponsione dell'indennizzo, globalmente inteso, previsto per l'acquisizione sanante alla competenza in unico grado della corte di appello, che costituisce la regola generale prevista dall'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità dovute, nell'ambito di un procedimento espropriativo, a fronte della privazione o compressione del diritto dominicale dell'espropriato, dovendosi interpretare in via estensiva l'art. 29 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69»), tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto - quale quello dell'acquisizione sanante - introdotto nell'ordinamento solo in epoca successiva.
Infine, ancora con riferimento al tema della riconducibilità del comportamento della P.A. all'esercizio del potere amministrativo - e sulla scorta delle già citate Sez. U, n. 10879/2015, Di Amato, Rv. 635545, e Sez. U, n. 12179/2015, Mammone, Rv. 635540 - Sez. U, n. 15284/2016, De Chiara, Rv. 640700, chiamata a pronunciarsi in fattispecie di dichiarazione di pubblica utilità illegittima in quanto priva dei termini iniziali e finali dei lavori e delle procedure di esproprio, ha dichiarato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla controversia avente ad oggetto la restituzione di un suolo, ovvero il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del medesimo, occupato d'urgenza, per l'esecuzione di un intervento di edilizia residenziale pubblica in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, ancorché illegittima, «stante il collegamento della realizzazione dell'opera fonte di danno con la dichiarazione suddetta, senza che rilevi la qualità del vizio da cui sia affetta quest'ultima».
Per il resto, in fattispecie di cessione in proprietà di lotti inclusi in un piano di zona per l'edilizia economica e popolare e correlato conguaglio dei costi di espropriazione delle aree ricadenti nel piano, Sez. U, n. 20419/2016, Giancola, Rv. 641219, avuto riguardo al criterio del petitum sostanziale per il contenuto meramente patrimoniale della controversia e dando continuità all'insegnamento di Sez. U, n. 17142/2011, Salmè, Rv. 618577, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie, ex art. 10 della l. 18 aprile 1962, n. 167 (recante «Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare»), su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, sulla quantificazione di tale corrispettivo, nonché sull'individuazione del soggetto debitore, allorché non siano in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e in ordine alla determinazione del predetto corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della P.A.
In una fattispecie di espropriazione "sostanziale" atipica (rilascio di concessioni edilizie in favore di cooperative incaricate degli interventi di edilizia residenziale pubblica con privazione dei proprietari degli altri lotti, non materialmente ablati, dei rispettivi diritti di edificabilità per le volumetrie comprese nel piano di lottizzazione), Sez. U, n. 25039/2016, De Chiara, Rv. 641775, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario atteso che la pretesa aveva riguardato un indennizzo da attività lecita, non un risarcimento da espropriazione illegittima.
In generale sul tema della determinazione dell'indennità di espropriazione, dando continuità all'indirizzo espresso da Sez. 6-1, n. 20457/2013, Cristiano, Rv. 627878, e in applicazione dei principi fissati dalla fondamentale Sez. U, n. 00173/2001, Morelli, Rv. 546235, la Corte (Sez. 1, n. 01613/2016, Campanile, Rv. 638442; v. anche, sui vincoli stabiliti dagli strumenti urbanistici di secondo livello, Sez. 1, n. 20230/2016, Campanile, Rv. 642047), ha ribadito che «la destinazione ad usi collettivi di determinate aree assume aspetti conformativi ove sia concepita, nel quadro della ripartizione generale del territorio, in base a criteri predeterminati ed astratti, ma non quando sia limitata e funzionale all'interno di una zona urbanistica omogenea a diversa destinazione generale, e venga, dunque, ad incidere, nell'ambito di tale zona, su beni determinati, sui quali si localizza la realizzazione dell'opera pubblica, assumendo in tal caso portata e contenuti direttamente ablatori ininfluenti sulla liquidazione dell'indennità». La pronuncia ha pertanto chiarito che, ove sia accertata l'inclusione del terreno espropriato in "zona omogenea edificabile" prevista dal vigente strumento urbanistico, tale accertamento è da ritenersi sufficiente per attribuire al fondo il requisito della edificabilità legale, a meno che non sia dimostrato che il bene ricada in una sottozona avente natura pubblicistica.
Ancora in relazione al tema della zonizzazione, Sez. 1, n. 01621/2016, Campanile, Rv. 638750, pronunciando sulla riduzione dell'indennità nella misura del venticinque per cento del valore venale del bene ai sensi dell'art. 37, comma 1, d.P.R. n. 327 del 2001 in caso di espropriazione finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale e riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 02774/2012, Macioce, Rv. 621306, ha affermato che, ove il procedimento sia adottato per realizzare un "piano di zona per l'edilizia economica e popolare", non sussiste il presupposto dell'intervento di riforma economico-sociale ai fini della detta riduzione del venticinque per cento del valore venale del bene, dovendo esso riguardare l'intera collettività o parti di essa geograficamente o socialmente predeterminate ed essere, quindi, attuato in forza di una previsione normativa che in tal senso lo definisca.
Con riferimento alla destinazione di aree a "edilizia scolastica", Sez. 1, n. 05247/2016, Campanile, Rv. 639101, dando continuità all'indirizzo espresso al riguardo da Sez. 1, n. 14347/2012, Campanile, Rv. 624005, ha ribadito che ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio (o del risarcimento del danno da occupazione appropriativa), la detta destinazione - nella cui nozione devono ricomprendersi tutte le opere e attrezzature che hanno la funzione di integrare il complesso scolastico -, nell'ambito della pianificazione urbanistica comunale, ne determina il "carattere non edificabile", avendo l'effetto di configurare un "tipico vincolo conformativo", come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro di una ripartizione in base a criteri generali ed astratti. La pronuncia soggiunge poi che non può esserne ritenuta per altro verso l'edificabilità, sotto il profilo di una realizzabilità della destinazione ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, giacché l'edilizia scolastica è riconducibile ad un servizio strettamente pubblicistico, connesso al perseguimento di un fine proprio ed istituzionale dello Stato, su cui non interferisce la parità assicurata all'insegnamento privato.
Sulla stessa linea, Sez. 1, n. 12818/2016, Sambito, Rv. 640111-640112, ha affermato che la destinazione di un'area a "parco urbano" nell'ambito della pianificazione urbanistica comunale, avendo l'effetto di configurare un "tipico vincolo conformativo" e non espropriativo, ne determina il "carattere non edificabile", pur quando la destinazione prevista sia realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata. Ciò sulla scorta del principio (già affermato da Sez. 1, n. 11503/2014, Salvago, Rv. 631431) per cui va ritenuta non edificabile l'area che, al momento della vicenda ablativa, sia concretamente vincolata dallo strumento urbanistico vigente ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità, ecc.), rimanendo, invece, irrilevante che tale destinazione possa essere realizzata anche da privati, a seguito di convenzione con l'ente pubblico.
Analogo principio risulta applicato - in tema di suoli ricadenti, secondo la previsione di piano regolatore generale, in "zona destinta a servizi ospedalieri-parcheggio" - da Sez. 1, n. 13172/2016, Sambito, Rv. 640217, che esclude la natura edificatoria di tali suoli, atteso che il detto vincolo all'utilizzo meramente pubblicistico «comporta un vincolo di destinazione preclusivo ai privati di tutte le forme di trasformazione del suolo riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, quale estrinsecazione dello ius aedificandi connesso con il diritto di proprietà ovvero con l'edilizia privata esprimibile dal proprietario dell'area, come tali, soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia».
Circa la specifica destinazione a "verde pubblico", Sez. 1, n. 10325/2016, Campanile, Rv. 639975-639976, in conformità ai principi a suo tempo espressi, tra le altre, da Sez. 1, n. 21707/2015, Campanile, Rv. 637322 (sulla scia della già citata Sez. U, n. 00173/2001, Morelli, Rv. 546235), e da Sez. 1, n. 19072/2015, Campanile, Rv. 636757, nel cassare la sentenza di merito che aveva riconosciuto carattere conformativo alla variante al piano regolatore generale che destinava un'area a parcheggio e verde pubblico, ha ulteriormente chiarito che la destinazione del piano regolatore generale a verde pubblico, pur ordinariamente di carattere conformativo, può rivelarsi, in via eccezionale, come vincolo preordinato all'esproprio - restando quindi irrilevante ai fini della determinazione dell'indennità - purché concorra un triplice ordine di presupposti: in primo luogo, che si traduca in un'imposizione a titolo particolare incidente su beni determinati al precipuo fine della precisa e puntuale localizzazione di un intervento edilizio che, per natura e scopo, sia di esclusiva appropriazione e fruizione collettiva; in secondo luogo, che la relativa realizzazione risulti incompatibile con la proprietà privata e, perciò, presupponga ineluttabilmente, per il suo compimento, l'espropriazione del bene; in terzo luogo, che l'imposizione determini l'inedificabilità del bene colpito e, dunque, lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul suo godimento, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio. Ciò nel quadro del più generale principio - ribadito dalla pronuncia ora in esame - secondo cui «la variante al piano regolatore generale che miri ad una (nuova) zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo più spaziale) con un'opera pubblica, ha carattere conformativo ed è rilevante ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio, mentre ove imponga solo un vincolo particolare incidente su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, lo stesso va qualificato come preordinato alla relativa espropriazione e da esso deve, dunque, prescindersi nella qualificazione dell'area».
In tema di cd. "aree bianche", Sez. 1, n. 12268/2016, Sambito, Rv. 640061, ha ribadito i principi da ultimo affermati da Sez. 1, n. 09488/2014, Benini, Rv. 631154, chiarendo a sua volta che l'avvenuta decadenza del vincolo preordinato all'esproprio rende l'area - non la zona - priva di regolamentazione urbanistica, sicché in tale ipotesi non è consentito farne rivivere la condizione preesistente, ma opera la disciplina prevista per le cd. aree bianche di cui all'art. 4, ultimo comma, della legge 20 gennaio 1977, n. 10, recante «Norme per la edificabilità dei suoli» (ora art. 9 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, «Testo unico in materia edilizia»), la quale, peraltro, non comporta un automatico riconoscimento della natura edificabile dell'area occupata, dovendo essere apprezzata la ricorrenza di tale carattere in base al criterio dell'edificabilità di fatto, che impone un metodo di valutazione incentrato sulla verifica della funzionalità dell'area in termini di naturale ed armonico completamento di quelle, ad essa contigue, che siano destinate all'edificazione in base alle scelte legislative e a quelle pianificatorie dei comuni.
Con riferimento alle "opere di viabilità" indicate nel piano regolatore generale, Sez. 1, n. 13425/2016, Campanile, Rv. 640950 e 640951, richiamando il principio da ultimo espresso da Sez. 1, n. 19924/2007, Giuliani, Rv. 600649, ha ribadito che detta indicazione comporta, di regola, un "vincolo di inedificabilità" delle parti del territorio interessate e "non ha carattere espropriativo", comportando una limitazione di ordine generale ricadente su una pluralità indistinta di beni e per una finalità di interesse pubblico trascendente i singoli interessi dei proprietari delle aree (in tema v. anche Sez. 1, n. 19204/2016, Giancola, Rv. 641835, nonché - con riferimento al profilo della reiterazione dei vincoli di carattere conformativo, come tali non indennizzabili ex art. 39 del d.P.R. n. 327 del 2001 - Sez. 1, n. 25401/2016, Campanile, Rv. 642143-02). Ancora in punto di apprezzamento della natura edificatoria o meno dell'area ablata, la pronuncia - resa in fattispecie relativa ad un suolo con destinazione a verde agricolo con ridotta possibilità edificatoria - non ha mancato di reiterare l'insegnamento (Sez. 1, n. 14058/2007, Panebianco, Rv. 598060) secondo cui l'"indice di fabbricabilità" (sulla cui valenza v. anche Sez. 1, n. 18841/2016, Campanile, Rv. 641827-01), definisce solo l'entità dell'edificazione che può gravare sulla superficie della zona, ma non è idoneo a determinare la natura agricola o edificatoria del suolo, dovendosi piuttosto far riferimento alla destinazione prevista per gli edificandi edifici, sicché vanno comunque considerate agricole quelle aree in cui sono consentite unicamente costruzioni a carattere rurale ed utilizzabili a tali fini. In tema, mette conto citare anche Sez. 1, n. 19687/2016, Campanile, Rv. 641336, secondo cui il "piano di recupero edilizio" e il "vincolo stradale" costituiscono entrambi varianti al piano regolatore generale e, anche se adottati contestualmente, mantengono la loro autonomia logico-giuridica: il primo ha finalità di recupero del patrimonio edilizio esistente, piuttosto che quella di determinare una complessiva trasformazione del territorio (sicché non è assimilabile al piano per l'edilizia economica e popolare, che conferisce il requisito dell'edificabilità a tutte le aree in esso inserite); il secondo, ove non imposto a titolo particolare, comporta di regola un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio interessato e non ha carattere espropriativo.
Sulla problematica del vincolo per la realizzazione degli "interporti" si rinvia a Sez. 1, n. 19193/2016, Salvago, Rv. 641834, e a Sez. 1, n. 20228/2016, Campanile, Rv. 642046.
Sul "vincolo cimiteriale", quale vincolo assoluto di inedificabilità nella relativa fascia di rispetto che si impone ex se in quanto vincolo legale, diffusamente Sez. 1, n. 26326/2016, Campanile, Rv. 642762.
Sul tema generale della determinazione dell'indennità di espropriazione alla luce degli effetti della sentenza della Corte costituzionale 10 giugno 2011, n. 181, Sez. 1, n. 26193/2016, Terrusi, Rv. 642760, ha ribadito, tra l'altro, l'insegnamento di Sez. U, n. 17868/2013, Botta, Rv. 627217, secondo cui qualora l'espropriato contesti, sotto qualunque profilo, la quantificazione operata dalla corte di appello con il criterio del valore agricolo medio, dichiarato incostituzionale dalla sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, la stima dell'indennità deve essere effettuata utilizzandosi il criterio generale del valore venale pieno ex art. 39 l. n. 2359 del 1865.
Da ultimo, merita menzione Sez. 1, n. 15626/2016, Sambito, Rv. 640668, che, riprendendo i principi espressi da Sez. 1, n. 08662/2014, Campanile, Rv. 631072, in tema di disciplina dell'indennizzo "salvo conguaglio" di cui agli artt. 1, comma 1 e 2, e 2 della legge 29 luglio 1980, n. 385, recante «Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457 e 15 febbraio 1980, n. 25» (norme dichiarate incostituzionali da Corte cost., 19 luglio 1983, n. 223), ha affermato - in risalente fattispecie in cui si controverteva circa la prescrizione del diritto del comune a ottenere il rimborso delle somme versate per l'acquisizione di aree nell'ambito di programmi per l'edilizia economica e popolare (in tema v. anche Sez. 1, n. 20691/2016, Giancola, Rv. 642051) - che il momento dal quale far decorrere il termine decennale di prescrizione del diritto a conseguire il conguaglio dell'indennità di espropriazione per una vicenda ablativa perfezionatasi nel vigore della legge n. 385 del 1980 coincide con la pubblicazione della citata sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 1983, quale momento in cui il diritto viene ad esistenza. Ancora con riferimento agli effetti della pronuncia n. 223 del 1983 della Corte costituzionale, Sez. 1, n. 16059/2016, Sambito, Rv. 641321, ha puntualizzato che il criterio indennitario applicabile per la determinazione del corrispettivo per la cessione volontaria del bene ablato, pattuito in epoca antecedente alla declaratoria di incostituzionalità dei criteri di cui alla l. n. 385 del 1980, deve ritenersi quello del valore venale del bene di cui all'art. 39 della l. n. 2359 del 1865 (ma senza che al valore venale possa applicarsi la maggiorazione del cinquanta per cento concordata dalle parti in sede di cessione volontaria, stante l'identità di fine tra tale strumento privatistico e il provvedimento ablativo pubblicistico, ancorché alternativi, «ma al prezzo correlato in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per l'espropriazione del bene, senza che sia in alcun modo possibile discostarsene»: così Sez. 1, n. 24652/2016, Sambito, Rv. 642038).
In tema di interessi (nella specie dovuti sull'indennità di occupazione legittima), Sez. 1, n. 09329/2016, Lamorgese, Rv. 639613, ha affermato - riprendendo Sez. 1, n. 09410/2006, Forte, Rv. 590411, e Sez. 1, n. 01113/1997, Verucci, Rv. 502239 - che detti interessi, «in quanto diretti a compensare il proprietario della mancata disponibilità dei frutti che avrebbe percepito periodicamente, decorrono dalla scadenza di ciascuna annualità, a partire dal giorno in cui è emesso il decreto di occupazione, che segna l'immediata ed automatica compressione del diritto dominicale, quale momento di maturazione del relativo diritto, restando irrilevante l'eventuale posteriorità della materiale apprensione del bene».
Conformemente all'insegnamento di Sez. 1, n. 07288/2013, Salvago, Rv. 625861, e di Sez. 1, n. 03034/2005, Benini, Rv. 579938, Sez. 6-1, n. 06243/2016, Mercolino, Rv. 639266, ha ribadito il principio di effettività del valore stimato dei fondi ablati affermando, quanto alle aree edificabili, la tendenziale fungibilità del metodo cd. sintetico-comparativo (volto ad individuare il prezzo di mercato dell'immobile attraverso il confronto con quelli di beni aventi caratteristiche omogenee), con quello cd. analitico-ricostruttivo (fondato sull'accertamento del costo di trasformazione del fondo), non potendosi stabilire tra i due criteri un rapporto di regola ad eccezione, «restando pertanto rimessa al giudice di merito la scelta di un metodo di stima improntato, per quanto possibile, a canoni di effettività» (sul tema v. anche Sez. 1, n. 20232/2016, Salvago, Rv. 642049).
In particolare, sul metodo cd. analitico-ricostruttivo per la determinazione dell'indennità dei suoli edificabili ex art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, Sez. 1, n. 14187/2016, Sambito, Rv. 640505, nel cassare la sentenza di merito che aveva determinato l'indennizzo di un suolo edificabile facendo riferimento alla cubatura di una preesistente costruzione poi demolita, senza dedurre dall'importo così ottenuto alcun costo, ha puntualizzato - riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 06036/2014, Di Amato, Rv. 630536, sulla rilevanza, ai fini della determinazione del valore venale di un edificio, delle potenzialità edificatorie dell'area non assorbite dalla costruzione - che l'adozione del metodo analitico-ricostruttivo consiste nella determinazione del valore di mercato degli insediamenti costruibili sul suolo che siano consentiti dalla destinazione urbanistica della zona, tenendo altresì conto di tutti gli elementi che concorrono, in concreto, alla determinazione del costo di trasformazione del terreno e, quindi, del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione.
Circa le questioni relative alle aree su cui insista una "costuzione abusiva", pendente la procedura finalizzata alla sanatoria ai sensi dell'art. 38, comma 2-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, Sez. 1, n. 18694/2016, Di Marzio, Rv. 641212, ha affermato che «il diritto all'indennità non è escluso dall'originaria abusività dell'edificazione, ove l'immobile, alla data dell'esproprio, sia stato fatto oggetto di una domanda di sanatoria non ancora scrutinata dalla P.A., dovendo, in tal caso, quest'ultima effettuare una valutazione prognostica circa la sua condonabilità; il cui esito, se positivo, impone di tener conto di esso nella quantificazione di quella indennità, altrimenti restando la stessa rapportata non già alle caratteristiche oggettive del bene sottoposto ad esproprio, ma ad una circostanza affatto casuale ed insignificante, quale l'avere la P.A. deciso o meno sull'istanza di condono, anche se - per ipotesi - in violazione dei termini all'uopo previsti».
Sull' "indennità spettante all'affittuario coltivatore diretto" del fondo espropriato ex artt. 17 della legge n. 865 del 1971 e 37, comma 9, del d.P.R. n. 327 del 2001, mette conto segnalare Sez. 1, n. 11464/2016, Campanile, Rv. 639788, che ha affermato il "carattere autonomo e aggiuntivo" di detta indennità rispetto a quella di espropriazione, fondandosi essa nella diretta attività di prestazione d'opera sul terreno espropriato e nella situazione privilegiata che gli artt. 35 e ss. Cost. assicurano alla posizione del lavoratore. Proprio in ragione di siffatta natura, l'indennità in esame «non va detratta da quella di espropriazione, non potendo escludersi, anche in base alla giurisprudenza della CEDU, che, in presenza della necessità di tener conto della particolare posizione del coltivatore espropriato, l'espropriante possa andare incontro ad esborsi - preventivamente valutabili - complessivamente superiori al valore di mercato del bene ablato, senza che ciò costituisca violazione del limite previsto dall'art. 42 Cost.». La pronuncia si segnala in quanto, muovendo dalla ricostruzione sistematica dell'istituto in relazione al mutato quadro normativo conseguito all'abrogazione, per via di incidente di costituzionalità (Corte cost., 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349), dell'art. 5-bis della legge 8 agosto 1992, n. 359, di conversione del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante «Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica», nonché dalla ricognizione della giurisprudenza CEDU (con particolare riferimento a Corte europea dei diritti dell'uomo, 11 aprile 1992, Lallement c. Gov. Francia, secondo cui è ammissibile un indennizzo superiore al valore venale del bene, in presenza della necessità di tener conto della particolare posizione del coltivatore espropriato) e della Corte costituzionale (ivi richiami, in particolare, a Corte cost., 24 febbraio 1988, n. 262), ha ritenuto che il valore venale del bene non costituisca - in particolari ipotesi - un limite a favore dell'espropriante, così rimeditando l'opposto indirizzo (della detraibilità dell'indennità aggiuntiva da quella spettante al proprietario espropriato, ove quest'ultima dovesse essere determinata in base al valore venale del bene espropriato), da ultimo affermato da Sez. 1, n. 14782/2014, Giancola, Rv. 631811, e da Sez. 1, n. 21434/2007, Benini, Rv. 600669, pur sulla scorta di Corte cost., 9 novembre 1988, n. 1022.
In tema di speciale indennizzo ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865 (norma oggi trasfusa nell'art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001; v. al riguardo Sez. U, n. 11782/1992, Favara, Rv. 479225, e Sez. 1, n. 19972/2009, Salvago, Rv. 610573), Sez. 1, n. 06926/2016, Sambito, Rv. 639267, premesso in generale che, in presenza di un'unica vicenda espropriativa, non sono concepibili due distinti crediti, l'uno a titolo di indennità di espropriazione e l'altro a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento che abbiano subito le parti residue del bene espropriato, atteso che l'indennità riguarda, per definizione, l'intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto espropriato, ha chiarito che diversa è l'ipotesi prevista dall'indennizzo di cui all'art. 46 cit., «che prescinde dall'esistenza di un provvedimento ablativo ed anzi postula che non sia intervenuto esproprio e che il privato abbia conservato la titolarità dell'immobile, subendo, per effetto dell'esecuzione dell'opera pubblica, la menomazione, la diminuzione o la perdita di una o più facoltà inerenti al proprio diritto dominicale, con pregiudizio permanente».
Ancora in tema di obbligazione indennitaria ex art. 46 cit., Sez. U, n. 25038/2016, De Chiara, Rv. 641774, ha affermato che detta obbligazione sorge con l'esecuzione dell'opera produttiva del pregiudizio alla vicina proprietà e, in caso di concessione traslativa dell'opera pubblica (sul punto specifico v., al § 8, anche Sez. 1, n. 12260/2016, Sambito, Rv. 640055), nasce in capo a chi sia concessionario alla relativa data, restando a tali fini irrilevante il successivo provvedimento di chiusura della concessione, non avente effetto retroattivo.
Sull'"indennità di asservimento", Sez. 1, n. 15629/2016, Sambito, Rv. 640672, traendo coerenti conclusioni dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del criterio del cd. valore agricolo medio di cui a Corte cost., 10 giugno 2011, n. 181, ha affermato che l'indennità di asservimento per servitù di elettrodotto, commisurata a quella di esproprio, va determinata in base al valore venale del bene. Al riguardo, Sez. 1, n. 19686/2016, Di Marzio, Rv. 641330 e 641331, trattando il tema del rapporto tra decreto di autorizzazione provvisoria per la costruzione di elettrodotto e decreto di asservimento definitivo ai fini della costituzione del vincolo reale, ha escluso - riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 03751/2012, Salvago, Rv. 621901 - che dall'installazione dell'elettrodotto possa farsi discendere, in via automatica, un deprezzamento collegato alla non provata nocività dei campi magnetici.
Per quanto riguarda l'espropriazione parziale, oltre a Sez. 1, n. 18697/2016, Di Marzio, Rv. 641825 e Sez. 1, n. 20241/2016, Salvago, Rv. 641845-02, che ribadiscono principi consolidati sui requisiti necessari ai fini della configurabilità dell'istituto, mette conto menzionare Sez. 1, n. 19689/2016, Campanile, Rv. 641839, che, decidendo su fattispecie relativa all'espropriazione di terreno con destinazione aziendale e dando continuità all'orientamento già formatosi in materia, ha ribadito che l'art. 40 della l. n. 2359 del 1865 va interpretato nel senso che «la conservazione dell'originaria funzione aziendale in tanto va valutata, in quanto inerisce al valore del bene espropriato, e non all'azienda in sé considerata», sicché le costruzioni esistenti sull'area vanno considerate nel loro valore in sé, non per il diverso valore che possono avere in rapporto alla particolare destinazione connessa all'attività d'impresa (Sez. 1, n. 18229/2009, Panzani, Rv. 607694).
Sez. 1, n. 01622/2016, Campanile, Rv. 638485, pronunciando sull'eccezione di inammissibilità della domanda relativamente all'indennità di occupazione ex art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (recante «Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica. Norme sull'espropriazione per pubblica utilità. Modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847. Autorizzazione di spesa per gli interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata») e richiamando Sez. 1, n. 07993/2014, Lamorgese, Rv. 630942, nonché Sez. 1, n. 23966/2010, Salvago, Rv. 614811, ha ribadito che la "decadenza dall'azione" per proporre l'opposizione alla stima relativa all'indennità di occupazione legittima nel termine di trenta giorni può essere rilevata a condizione che dagli atti risultino compiuti gli adempimenti che ne costituiscono il presupposto.
Sul tema è intervenuta anche Sez. 1, n. 02193/2016, Sambito, Rv. 638350-638351, che - conformemente a Sez. 1, n. 20527/2011, Giancola, Rv. 619854, e a Sez. 1, n. 21886/2011, Salvago, Rv. 620074 - ha, a sua volta, precisato che, con riferimento al termine per proporre opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione, la notificazione del decreto ablativo, nel quale l'indennità venga indicata come definitiva e determinata in misura corrispondente a quella già qualificata come provvisoria, non basta a far decorrere il termine di trenta giorni per proporre opposizione da parte dei proprietari espropriati, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 865 del 1971, occorrendo anche il deposito della relazione di stima nella segreteria del comune, l'inserzione dell'avviso di deposito nel foglio annunci legali della provincia e la notifica agli stessi della determinazione concreta dell'indennità definitiva. La pronuncia si segnala anche per aver ribadito gli assetti sistematici del diritto di azione spettante all'espropriando: a questi sono concesse "due azioni" per chiedere la determinazione della giusta indennità, a seconda che sia stata calcolata, o meno, da parte della commissione provinciale, quella definitiva di cui all'art. 16 della legge n. 865 del 1971: nel primo caso, l'opposizione alla stima va proposta nel breve termine di decadenza di cui all'art. 19 della legge n. 865 cit.; ove invece sia stata soltanto offerta dall'espropriante l'indennità provvisoria, all'espropriando è consentito - a seguito di Corte cost., 22 febbraio 1990, n. 67 - chiedere la determinazione giudiziale del giusto indennizzo di cui all'art. 42 Cost., pur quando venga emesso tardivamente o non venga emesso il provvedimento di stima da parte della commissione. Pertanto, la provvisorietà o definitività dell'indennità non dipende dalla qualifica attribuitale dal decreto di esproprio, ma dalla diversa funzione assegnata alla relativa stima dal legislatore, che nel subprocedimento previsto dall'art. 11 della legge n. 865 cit., relativo alla stima provvisoria, si esaurisce con l'offerta in misura congrua all'espropriando ed il tentativo di addivenire alla cessione volontaria dell'immobile che ne sostituisce comunque l'ammontare, mentre nel prosieguo, se non venga accettata dal proprietario, tale sostituzione è richiesta dall'espropriante dopo l'adozione del decreto di esproprio alla commissione provinciale che la determina in via definitiva, rendendola incontestabile in mancanza di tempestiva impugnazione davanti alla corte di appello nel termine di decadenza stabilito dalla norma. Per la decorrenza del termine di decadenza per l'espropriante nell'opposizione alla stima regolata ora dall'art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001 v. Sez. 1, n. 21731/2016, Campanile, Rv. 642058.
Per l'insussistenza del diritto di prelazione del comune sulle aree espropriate rimaste inutilizzate, ex art. 21 l. n. 865 del 1971, qualora vi sia coincidenza tra comune ed ente espropriante, v. Sez. 1, n. 24784/2016, Sambito, Rv. 642137.
Sulla "speciale competenza funzionale della corte di appello" in unico grado, Sez. 1, n. 02533/2016, Campanile, Rv. 638637, pronunciando su questione risarcitoria da occupazione cd. appropriativa e dando continuità all'indirizzo di cui a Sez. 1, n. 25966/2009, Salvago, Rv. 610890, ha ribadito che qualora il tribunale abbia proceduto anche alla determinazione dell'indennità di occupazione temporanea legittima, pur non essendo competente in materia, la corte di appello, dinanzi alla quale la sentenza sia stata impugnata anche per altre questioni, può, in quanto giudice funzionalmente competente a liquidarla in unico grado ex art. 20 della legge n. 865 del 1971, confermare la stima dell'indennità effettuata dalla decisione di primo grado, a fronte di espressa richiesta dell'espropriato. In generale, ancora sul profilo dell'individuazione del giudice competente, Sez. 1, n. 10723/2016, Sambito, Rv. 639810, riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 02619/2005, Giuliani, Rv. 579890, e decidendo su questione relativa alla decadenza dall'opposizione alla stima, ha a sua volta ribadito il principio secondo cui «stante la pluralità dei procedimenti ablatori previsti dall'ordinamento in relazione alle finalità da perseguire con l'esproprio, la disciplina applicabile in tema di determinazione dell'indennità, nonché l'individuazione del giudice competente a conoscere della corrispondente domanda del proprietario espropriato, è legata al modello procedimentale utilizzato, di volta in volta, dalla P.A., sicché la stessa va ricavata unicamente dalla normativa in concreto applicata (nella specie, l'art. 19 della legge n. 865 del 1971), senza che assuma rilevanza l'astratta assoggettabilità del rapporto espropriativo ad una diversa disciplina (nella specie, la legge n. 2359 del 1865)». Sulla sussistenza - anche nel vigore delle nuove norme degli artt. 42 e 54 d.P.R. n. 327 del 2001 - della speciale competenza della corte di appello per l'indennità aggiuntiva ex art. 17, comma 2, della l. n. 865 del 1971 in favore del fittavolo, mezzadro, colono o compartecipe costretti ad abbandonare il terreno espropriato, v. Sez. 6-1, n. 23767/2016, Scaldaferri, Rv. 642846.
Sui rapporti tra il giudizio di determinazione delle indennità e l'eventuale giudizio impugnatorio amministrativo sulla dichiarazione di pubblica utilità è intervenuta, in sede di regolamento di competenza su declaratoria di sospensione del giudizio, Sez. 1, n. 11462/2016, Campanile, Rv. 639793, affermando - come già Sez. 1, n. 05272/2007, Macioce, Rv. 596032 - che la pronuncia sull'indennità di occupazione legittima presuppone la legittimità dell'occupazione d'urgenza, sicché l'impugnazione davanti al giudice amministrativo della dichiarazione di pubblica utilità, dal cui annullamento discenderebbe l'invalidazione degli atti conseguenti, tra i quali anche il decreto di occupazione d'urgenza, si traduce in una pregiudizialità di tale controversia su quella indennitaria, con conseguente sospensione di quest'ultima in attesa della definizione della prima.
Sui rapporti tra espropriazione e usucapione, Sez. 1, n. 26327/2016, Campanile, Rv. 642763-02, pronunciando su una vicenda nella quale l'espropriato allegava di aver esercitato il possesso ultraventennale sul bene ablato, di cui chiedeva pertanto accertarsi l'intervenuta usucapione, ha ribadito (previa affermazione di insussistenza di atti di interversione del possesso da parte dell'espropriato-detentore) che tanto la proposizione di un giudizio di opposizione alla stima, quanto la domanda di retrocessione del bene già espropriato costituiscono atti comportanti il riconoscimento del diritto del proprietario del bene e quindi sono incompatibili con un possesso ad usucapionem (così già Sez. 1, n. 00954/1993, Vignale, Rv. 480459).
Circa le "parti" del giudizio, Sez. 1, n. 04262/2016, Sambito, Rv. 638880, dalla considerazione dell'oggetto dei giudizi di opposizione alla stima delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea (circoscritto alle questioni relative all'ammontare di dette indennità e a quelle accessorie di pagamento degli interessi e dell'eventuale maggior danno per il ritardato adempimento, nei soli rapporti tra il soggetto espropriante e quello espropriato) ha tratto la conseguenza che nella fattispecie scrutinata (relativa a un'espropriazione promossa dal comune su istanza di un consorzio costituito per l'edificazione di un comparto edilizio, ai danni dei proprietari delle aree in esso comprese), i proprietari consorziati, pur dovendo sopportare il peso economico dell'intervento ablativo, non sono litisconsorti necessari. In particolare, sulla "legittimazione passiva" Sez. 1, n. 10530/2016, Sambito, Rv. 639843, conformemente a Sez. 1, n. 01242/2013, Salvago, Rv. 625350, ha ribadito che parte del rapporto espropriativo e obbligato al pagamento dell'indennità e, come tale, legittimato passivo nel giudizio di opposizione alla stima proposto dall'espropriato, è il soggetto espropriante, ossia quello a cui favore è pronunciato il decreto di espropriazione, anche nell'ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell'opera pubblica, nella quale deve ugualmente aversi riguardo, a detti fini, esclusivamente al soggetto che nel provvedimento ablatorio risulta beneficiario dell'espropriazione, «salvo che dal decreto stesso non emerga che ad altro ente, in virtù di legge o di atti amministrativi e mediante figure sostitutive di rilevanza esterna, siano stati conferiti il potere ed il compito di procedere all'acquisizione delle aree occorrenti e di promuovere e curare direttamente, agendo in nome proprio, le necessarie procedure espropriative, ed addossati i relativi oneri».
In ordine al profilo delle "produzioni documentali", Sez. 1, n. 03817/2016, Giancola, Rv. 638837, ha affermato - in conformità a Sez. 1, n. 14080/2009, Salvago, Rv. 608984, e in coerenza con Sez. U, n. 04241/2004, Vittoria, Rv. 570736 (sulla qualificazione del "decreto di espropriazione quale condizione dell'azione" per la determinazione dell'indennità) - che nel giudizio di opposizione alla stima la produzione del decreto di esproprio, che sia intervenuto dopo la definizione del procedimento d'appello o dopo la proposizione del ricorso per cassazione, può essere validamente effettuata nel giudizio di legittimità, non trovando ostacolo nell'art. 372 c.p.c. poiché il provvedimento ablatorio ha natura giuridica di condizione dell'azione, la cui sopravvenienza è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello di legittimità, fino al termine della discussione orale. Analogamente, Sez. 1, n. 11261/2016, Sambito, Rv. 639789, ha affermato che «il principio per il quale la pronuncia del decreto di espropriazione costituisce una condizione dell'azione per la determinazione della corrispondente indennità - sicché il giudice non può esaminare il merito della causa senza che esso venga ad esistenza - resta valido anche con riferimento alla disciplina introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001, atteso che il menzionato decreto continua a costituire la fonte del credito indennitario: sia nel senso che non è possibile addivenire ad una statuizione definitiva sull'indennità in assenza del provvedimento ablatorio, sia nel senso che, emanato quest'ultimo, sorge ed è azionabile il diritto del proprietario a percepire l'indennizzo, da determinarsi con riferimento alla data del trasferimento coattivo».
Sui criteri di imputazione delle spese per la nomina della terna di esperti ex art. 21 d.P.R. n. 327 del 2001 ai fini della determinazione dell'indennità provvisoria di esproprio non accettata v. Sez. 6-1, n. 17795/2016, Ragonesi, Rv. 641859.
Sui caratteri del "decreto di occupazione", Sez. 1, n. 04850/2016, Lamorgese, Rv. 639102, in continuità con Sez. 1, n. 01387/1999, Reale, Rv. 523374, nel vagliare una fattispecie in cui il decreto di occupazione era stato notificato a un soggetto diverso dal proprietario del bene da espropriare a causa dell'erronea indicazione della particella nel decreto di occupazione, mentre la dichiarazione di pubblica utilità identificava esattamente il bene da espropriare, ha ribadito l'autonomia formale e sostanziale del decreto di occupazione rispetto a quello di espropriazione, «con la conseguenza che eventuali vizi inficianti la validità del primo non incidono sulla legittimità del secondo, che, ove intervenuto nei termini stabiliti dalla dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi validamente emanato indipendentemente dalla scadenza del termine di occupazione legittima».
Sui "termini di scadenza" delle occupazioni di urgenza si segnala Sez. 1, n. 05240/2016, Campanile, Rv. 639096, che, muovendo dall'insegnamento di Sez. U, n. 07068/1992, Rocchi, Rv. 477618, ha ritenuto la vigenza (ex artt. 27, comma 3, della legge n. 865 del 1971 e 28, comma 12, della legge 14 maggio 1981, n. 219, recante «Conversione in legge del decreto-legge 19 marzo 1981, n.75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti») del termine decennale nell'ipotesi di occupazione per la realizzazione del "piano per gli insediamenti produttivi", piano avente efficacia appunto decennale, attesa la complessità degli adempimenti che la sua realizzazione richiede e considerato che per gli insediamenti produttivi non è necessaria l'indicazione del termine per l'inizio ed il compimento dei lavori per le espropriazioni. A sua volta, sulle "proroghe dei termini di scadenza" delle occupazioni di urgenza stabilite da disposizioni di legge, Sez. 1, n. 11481/2016, Sambito, Rv. 639790, in continuità con Sez. 1, n. 03672/2014, Ceccherini, Rv. 629955, e Sez. 1, n. 10394/2012, Salvago, Rv. 623155, ha ribadito che dette proroghe si applicano, con effetto retroattivo, anche ai procedimenti espropriativi in corso alle scadenze previste dalle singole leggi e si intendono efficaci anche in assenza di atti dichiarativi delle amministrazioni precedenti, ciò in considerazione sia della lettera (nella specie, l'art. 22 della legge 20 maggio 1991, n. 158, recante «Differimento di termini previsti da disposizioni legislative», nonché l'art. 4 della legge 1 agosto 2002, n. 166, recante «Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti»), sia della ratio della legge, essendo diversamente inconcepibile il legittimo perdurare di un regime occupatorio temporaneo senza il corrispondente slittamento dei termini utili per l'emissione del decreto definitivo di esproprio. In argomento, Sez. 1, n. 19601/2016, Lamorgese, Rv. 641329, ha puntualizzato - conformemente a Sez. 1, n. 00556/2010, Giancola, Rv. 611130 - che «la proroga legale del termine dell'occupazione d'urgenza opera nonostante si sia già verificata l'irreversibile trasformazione dell'area occupata, sicché, fino a quando tale termine originario o prorogato non sia spirato, il proprietario null'altro può pretendere se non la corresponsione della relativa indennità ed è sempre possibile l'emanazione del decreto di espropriazione di un'area che continua ad appartenere all'originario proprietario».
Infine, sull'"indennità di occupazione", Sez. 1, n. 05916/2016, Mercolino, Rv. 639054-639055, dando continuità all'insegnamento di Sez. U, n. 00408/2000, Criscuolo, Rv. 537275, e di Sez. U, n. 10165/2003, Vitrone, Rv. 564602, ha ribadito, in fattispecie relativa all'occupazione attuata a seguito del sisma del 1980, che «l'indennità di occupazione temporanea e di urgenza deve essere liquidata in misura corrispondente ad una percentuale di quella dovuta per l'espropriazione dell'area occupata e, pertanto, ben può corrispondere al saggio corrente degli interessi legali; la scelta di tale saggio non ha, peraltro, carattere obbligato, restando devoluta al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, ove ritenga di farvi ricorso in assenza di elementi comprovanti un pregiudizio maggiore, nemmeno è tenuto a motivare la propria decisione, trattandosi di criterio fondato sulle caratteristiche oggettive dell'immobile ed idoneo a fungere, in via presuntiva, da parametro pienamente reintegrativo del pregiudizio subito dal proprietario». Sullo specifico profilo della sussistenza del diritto del privato all'indennità da occupazione temporanea per ricerche archeologiche - profilo da tenersi affatto distinto rispetto a quello relativo all'incidenza del vincolo archeologico (d'indole conformativa) sulla determinazione dell'indennità espropriativa e della correlata occupazione d'urgenza preespropriativa - v. Sez. 1, n. 21733/2016, Giancola, Rv. 642059.
Nel corso del 2016 sono intervenute numerose decisioni in tema di illegittima occupazione, per lo più concernenti il profilo dell'individuazione dei soggetti tenuti al risarcimento.Così, Sez. 1, n. 12260/2016, Sambito, Rv. 640055-640056, scrutinando una fattispecie di "concessione cd. traslativa" (che trova la sua fonte in norme di legge) e riprendendo l'insegnamento di Sez. U, n. 06769/2009, Salvago, Rv. 607788, e di Sez. 1, n. 22523/2011, Cristiano, Rv. 620396, ha ribadito che «la legittimazione appartiene esclusivamente al concessionario, il quale agisce come organo indiretto dell'Amministrazione concedente e la cui azione produce, nei confronti dei terzi, gli stessi effetti che determinerebbe l'azione diretta della P.A., alla quale il concessionario viene sostituito per effetto della concessione, restando, pertanto, obbligato al pagamento dell'indennità per l'occupazione d'urgenza dei suoli, nonché, atteso il carattere personale della responsabilità da illecito aquiliano, al risarcimento dei danni per il protrarsi sine titulo dell'occupazione stessa». La pronuncia si segnala altresì dal punto di vista sistematico in quanto - richiamata la nota distinzione tra occupazione cd. acquisitiva (istituto di genesi pretoria: Sez. U, n. 01464/1983, Bile, Rv. 426292) e occupazione cd. usurpativa, caraterizzata dalla mancanza di dichiarazione di pubblica utilità e costituente un illecito permanente (Sez. 1, n. 01814/2000, Benini, Rv. 534012), distinzione venuta meno a seguito di Sez. U, n. 00735/2015, Di Amato, Rv. 634017 (su cui diffusamente la Rassegna 2015), che ha escluso in entrambi i casi l'acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica - ha affermato che «la domanda risarcitoria da occupazione cd. usurpativa può essere proposta oltre il termine di cui all'art. 183 c.p.c. in un giudizio originariamente instaurato per risarcimento del danno conseguente ad occupazione appropriativa, atteso che in entrambi i casi, a prescindere dalla presenza, o meno, della dichiarazione di pubblica utilità, inidonea a comportare l'acquisizione del bene occupato alla mano pubblica, la causa petendi giuridicamente significativa è rappresentata da un illecito, a carattere permanente, sanzionato dall'art. 2043 c.c.». Sul tema v. anche Sez. 1, n. 19195/2016, Di Marzio, non massimata, su fattispecie di occupazione di un terreno per sconfinamento da aree legittimamente occupate per la realizzazione dell'opera di pubblica utilità (su tale specifica tematica si rinvia anche alla già citata Sez. U, n. 25044/2016, Manna, Rv. 641778, su cui retro, § 1), che ha ribadito il principio di cui a Sez. 1, n. 23266/2014, Lamorgese, Rv. 633126, nonché Sez. 1, n. 20231/2016, Campanile, Rv. 642048.
Ancora in tema di affidamento mediante concessione della realizzazione di opera pubblica con delega da parte dell'ente degli oneri della procedura ablatoria, Sez. 1, n. 03619/2016, Campanile, Rv. 638816, sulla scia della già citata n. 06769/2009, Salvago, Rv. 607788, ha puntualizzato che, in caso di occupazione appropriativa, l'ente che ha posto in essere le attività materiali di apprensione del bene e di esecuzione dell'opera pubblica, cui consegue il mutamento del regime di appartenenza del bene stesso, risponde sempre dell'illecito, potendo solo residuare, qualora il medesimo (come delegato, concessionario od appaltatore) abbia solo curato la realizzazione dell'opera di pertinenza di altra amministrazione, la responsabilità concorrente di quest'ultima, da valutare sulla base della rilevanza causale delle singole condotte.
Per l'ipotesi di collaborazione di più enti alla realizzazione di un'opera pubblica per la quale l'occupazione sia risultata ab initio illegittima, Sez. 1, n. 01870/2016, Lamorgese, Rv. 638382, conformemente alla già citata Sez. 1, n. 01814/2000, Benini, Rv. 534012, ha affermato che «tutta l'attività svolta nel corso dell'occupazione, da chiunque esplicata, risulta illegittima, ove causalmente collegata al danno, nonché fonte di responsabilità per gli enti autori, i quali sono tenuti al risarcimento, ai sensi degli artt. 2043 e 2055 c.c., avendo perseverato nell'occupazione del terreno e nella costruzione dei manufatti, pur essendo (o dovendo ritenersi) a conoscenza della illegittimità del loro comportamento, a prescindere dal fatto che l'opera eseguita rientri, o meno, nel patrimonio dell'autore della condotta illecita». In fattispecie di successione tra enti pubblici (successione a titolo particolare tra province a seguito di costituzione di una nuova) v. Sez. 1, n. 23639/2016, Sambito, Rv. 642800-01.
In generale, sulla latitudine degli effetti dell'occupazione acquisitiva, Sez. 1, n. 01270/2016, Lamorgese, Rv. 638429, pronunciando su fattispecie di occupazione acquisitiva coinvolgente non solo l'area di sedime, ma anche le aree circostanti non edificate, rappresentanti lo "spazio vitale" per l'opera pubblica, nonché quelle residuali non più suscettibili di utilizzazione autonoma e riprendendo principi fissati da Sez. U, n. 00394/1999, Criscuolo, Rv. 528585, ha affermato che gli effetti dell'occupazione acquisitiva possono determinarsi anche in presenza di un'opera la cui realizzazione prescinda, almeno in parte, da iniziative di tipo edificatorio, cioè rispetto alle parti di suolo che, pur non avendo subito un rilevante mutamento del loro aspetto materiale, rappresentino tuttavia una componente essenziale dell'opera pubblica, perché ritenuta dall'occupante indispensabile per il suo completamento e la sua funzionalità.
Infine, Sez. 1, n. 05442/2016, Sambito, Rv. 639016, conformemente a Sez. 1, n. 15835/2010, Salvago, Rv. 613957, ha affermato che ove il danno da occupazione espropriativa, sia stato liquidato in primo grado con il criterio riduttivo ex art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto legge n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992, «l'impugnazione di tale capo della decisione ad opera soltanto delle parti ritenute responsabili dell'illecito e condannate al risarcimento, e non anche del privato danneggiato, produce un effetto preclusivo che, pur se non costituisce giudicato, impedisce comunque, in ossequio al divieto di riforma in peius in pregiudizio delle controparti, l'applicazione dei criteri più favorevoli di commisurazione del risarcimento conseguenti alla pronuncia della Corte costituzionale n. 349 del 2007».
Sulla quantificazione del risarcimento da occupazione acquisitiva, Sez. 1, n. 19805/2016, Lamorgese, Rv. 641842, ha ribadito l'insegnamento (Sez. 1, n. 06009/2003, Salvago, Rv. 562178) secondo cui detto risarcimento non può soffrire alcuna limitazione in dipendenza dei vantaggi che derivano al fondo residuo dalla realizzazione dell'opera (cd. compensatio lucri cum damno), poiché il danno patito dal proprietario spossessato consegue direttamente e immediatamente al fatto illecito costituito dall'occupazione illegittima. Per altro verso, giova altresì richiamare il principio generale - ribadito da Sez. 1, n. 20234/2016, Campanile, Rv. 641843 - secondo cui il giudicato formatosi sulla qualificazione del terreno, quale antecedente logico-giuridico della statuizione sulla indennità di occupazione legittima, calcolata secondo il criterio degli interessi legali sul valore del suolo, preclude ogni diversa qualificazione e valutazione del terreno medesimo nel giudizio risarcitorio per occupazione appropriativa, costituendo l'accertamento in fatto del valore del bene il comune punto di partenza per la stima sia dell'indennità di occupazione sia del danno risarcibile.
Sul tema (v. retro, § 1), Sez. U, n. 06017/2016, De Chiara, Rv. 638986, ha innanzi tutto chiarito la portata dell'istituto disciplinato dall'art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 individuandone la ratio nel «consentire all'autorità occupante di acquisire l'immobile per attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico mediante uno speciale procedimento semplificato. Ne consegue che le "ragionevoli alternative", la cui assenza è richiesta dal comma 4 per l'adozione del provvedimento acquisitivo, sono le alternative all'acquisizione coattiva del bene, cioè la restituzione al proprietario o l'acquisizione consensuale, non già l'acquisizione mediante rinnovo della procedura espropriativa; fermo che l'eventuale abuso dell'istituto rileva ai sensi del comma 7, ove è prevista la comunicazione del provvedimento di acquisizione alla Corte dei conti».
Nel solco delle Sezioni Unite testé richiamate, Sez. 1, n. 11258/2016, Lamorgese, Rv. 639787, anche raccordandosi alla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia (Cons. Stato, Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 2), ha affermato che l'emanazione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante delle aree oggetto di occupazione illegittima determina l'improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno. La pronuncia ora in esame - attenta, come quella delle Sezioni Unite, al profilo del possibile uso "strumentale" dell'istituto da parte della P.A. - ha fondato le affermazioni che precedono sulla considerazione che «il provvedimento ex art. 42-bis è volto a ripristinare (con effetto ex nunc) la legalità amministrativa violata - costituendo, pertanto, una extrema ratio per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico e non già il rimedio rispetto ad un illecito -, sicché è necessario che venga adottato tempestivamente e, comunque, prima che si formi un giudicato anche solo sull'acquisizione del bene o sul risarcimento del danno, venendo altrimenti meno il potere attribuito dalla norma all'Amministrazione».
Il panorama delle pronunce sulle fonti dell'obbligazione si è arricchito, nel 2016, di decisioni concernenti quelle contemplate dalla seconda parte dell'art. 1173 c.c. (cd. fonti atipiche), particolarmente con riguardo alle promesse unilaterali di cui all'art. 1988 c.c.
Sez. L, n. 17713/2016, Esposito L., Rv. 640821, ha ribadito che in tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito, una volta che il debitore abbia fornito la prova dell'inesistenza o dell'estinzione del debito relativo al rapporto fondamentale indicato, spetta a chi si afferma comunque creditore l'indicazione di un diverso rapporto sottostante che giustifichi il credito, in quanto il principio dell'astrazione processuale della causa, posto dall'art. 1988 c.c., che esonera colui a favore del quale la promessa o la ricognizione è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale, non può intendersi nel senso che al debitore compete l'impossibile prova dell'assenza di qualsiasi altra ipotetica ragione di debito, ulteriore rispetto a quella di cui abbia dimostrato l'insussistenza.
Sempre in relazione ad entrambe le figure, Sez. 3, n. 11790/2016, Scrima, Rv. 640172 e Sez. 2, n. 13039/2016, Correnti, Rv. 640174, hanno statuito che la rinuncia al vantaggio probatorio derivante dalla promessa o dalla ricognizione richiede un'inequivoca manifestazione di volontà abdicativa, non essendo sufficiente che la parte sollevata dall'onere di provare il rapporto fondamentale ne offra egualmente la prova.
Con specifico riferimento alla ricognizione di debito, infine, per un verso, Sez. 1, n. 14533/2016, Nazzicone, Rv. 640496, ha affermato che la dichiarazione relativa all'importo dell'altrui debito, la quale non precisi il fatto giuridico dei pagamenti effettuati o da effettuare, non integra una confessione, ma un negozio unilaterale recettizio, da cui derivano a favore del debitore destinatario della dichiarazione effetti analoghi a quelli previsti dall'art. 1988 c.c.; per altro verso Sez. 1, n. 20689/2016, Mercolino, in corso di massimazione, ha statuito che la ricognizione di debito può offrire elementi di prova anche nei confronti di un soggetto diverso da quello dal quale proviene ove contenga un espresso riferimento al rapporto fondamentale, del quale il primo sia parte, nonché la menzione di fatti da cui possa evincersi, in concorso con altri elementi istruttori, la dimostrazione della pretesa azionata.
Sotto il profilo dell'oggetto dell'obbligazione (art. 1174 c.c.), nel 2016 sono stati affermati principi in ordine alla buona fede oggettiva e alla diligenza quali criteri fondamentali di determinazione della prestazione debitoria (artt. 1175 e 1176 c.c.), nonché in ordine alle obbligazioni pecuniarie (artt. 1277 e ss. c.c.).
Si è confermata in rilevanti pronunce la valenza generale della buona fede in senso oggettivo (o correttezza) e della diligenza quali criteri legali di determinazione della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio.
In materia di obbligazioni professionali, Sez. 3, n. 13007/2016, Barreca, Rv. 640402, ha statuito che il dottore commercialista incaricato di una consulenza ha l'obbligo - a norma dell'art. 1176, comma 2, c.c. - non solo di fornire tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e rientrino nell'ambito della sua competenza, ma anche di individuare le questioni che esulino dalla stessa, informando il cliente dei limiti della propria competenza e fornendogli gli elementi necessari per assumere le proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente. In base a tale principio è stata dunque affermata la responsabilità di un commercialista, incaricato di fornire una consulenza tecnico-giuridica a seguito dell'esito infausto di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, per non aver informato il cliente della possibilità di ricorrere per cassazione avverso la sentenza sfavorevole e della necessità di rivolgersi ad un avvocato al fine di proporre tempestivamente l'impugnazione.
In tema di rapporti contrattuali concernenti le utenze telefoniche, Sez. 3, n. 11914/2016, Armano, Rv. 640534, ha affermato che i doveri di diligenza e buona fede nell'esecuzione del contratto impongono all'impresa esercente servizi di telefonia di comunicare tempestivamente al proprio cliente l'impossibilità di eseguire la prestazione e di adottare gli opportuni provvedimenti al fine del contenimento dei danni.
In tema di fideiussione per obbligazioni future, infine, se da un lato Sez. 1, n. 02902/2016, Didone, Rv. 638550, ha ribadito che il socio fideiussore di una società a responsabilità limitata, il quale abbia esonerato l'istituto bancario creditore dall'osservanza dell'onere impostogli dall'art. 1956 c.c., non può invocare in funzione liberatoria la violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte del creditore per avere quest'ultimo concesso ulteriore credito alla società benché avvertito dallo stesso fideiussore della sopravvenuta inaffidabilità di quest'ultima a causa della condotta dell'amministratore, dall'altro lato Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640915, ha statuito che la persistente erogazione di finanziamenti da parte della banca creditrice a favore di una società, debitore principale, senza chiedere al garante (nella specie, né socio, né amministratore) la necessaria autorizzazione pur in presenza di un peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie del debitore garantito in ragione delle perdite notevolmente superiori al capitale sociale e di un saldo di conto corrente permanentemente in passivo, costituisce comportamento non improntato al rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, idoneo a determinare la liberazione del fideiussore dalle obbligazioni future.
Un primo ordine di pronunce, ribadendo la natura di debiti di valore delle obbligazioni di risarcimento del danno derivante da illecito aquiliano e da inadempimento contrattuale, non solo ha riaffermato per entrambi l'operatività del principio del cumulo tra rivalutazione monetaria e interessi compensativi (rispettivamente Sez. 3, n. 22607/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione e Sez. 3, n. 13225/2016, Olivieri, Rv. 640418), ma ha statuito, con riguardo alle prime, che nel caso di liquidazione in sede di merito degli interessi compensativi al tasso legale, gli interessi per l'ulteriore danno da mancata tempestiva disponibilità dell'equivalente monetario del pregiudizio patito decorrono non dalla pubblicazione della decisione, ma dai singoli momenti nei quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio (Sez. 3, n. 12288/2016, Olivieri, Rv. 640256); e, con riguardo alle seconde, che qualora si provveda all'integrale rivalutazione del credito relativo al maggior danno fino alla data della liquidazione, secondo gli indici di deprezzamento della moneta, gli interessi legali sulla somma rivalutata dovranno essere calcolati dalla data della liquidazione, poiché altrimenti si produrrebbe l'effetto di far conseguire al creditore più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento dell'obbligazione (Sez. 2, n. 09039/2016, Falabella, Rv. 639930).
Un secondo ordine di pronunce è tornato sulle conseguenze dell'inadempimento delle comuni obbligazioni pecuniarie di valuta, consistenti nella corresponsione degli interessi moratori (quale liquidazione forfetaria minima del danno per il ritardo nel pagamento: art. 1224, comma 1, c.c.), e, eventualmente, del maggior danno (suscettibile di risarcimento, in aggiunta a quello minimo liquidato con gli interessi moratori, ove provato: art. 1224, comma 2, c.c.), stigmatizzandone - nel solco del tradizionale orientamento inaugurato da Sez. U, n. 01712/1995, Sgroi, Rv. 490480 - la differenza rispetto ai debiti di valore, in relazione ai quali è invece dovuta la rivalutazione monetaria.
In questa prospettiva la Suprema Corte, con Sez. 5, n. 11943/2016, Locatelli, Rv. 640142, pur movendo da una fattispecie concernente un'obbligazione tributaria, ha tuttavia affermato il principio generale secondo il quale nel caso di ritardato adempimento di un'obbligazione pecuniaria, il danno da svalutazione monetaria non è in re ipsa ma deve essere provato dal creditore, quantomeno deducendo e dimostrando che il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato di durata annuale è stato superiore, nelle more, agli interessi legali. In tal modo la pronuncia in esame si è posta in linea di continuità con l'orientamento espresso da Sez. U, n. 19499/2008, Amatucci, Rv. 604419, la quale, con particolare riferimento al maggior danno, aveva statuito che esso è determinato in via presuntiva nell'eventuale differenza, durante la mora, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali, indipendentemente dalla qualità soggettiva del (o dall'attività svolta dal) creditore.
Un terzo ordine di pronunce è infine tornato sul tema degli interessi e dell'anatocismo.
In particolare, Sez. U, n. 12324/2016, D'Ascola, Rv. 639973, ha statuito che il ritardo nel pagamento della sanzione amministrativa determina per il primo semestre l'obbligo di corrispondere gli interessi legali secondo i principi generali sulla fecondità delle obbligazioni pecuniarie, a prescindere da un'esplicita enunciazione del provvedimento sanzionatorio, salva la maggiorazione per il ritardo ultrasemestrale, avente finalità sanzionatoria e coercitiva.
Sez. 2, n. 18292/2016, Correnti, Rv. 641074, ha ribadito che in tema di obbligazioni pecuniarie, gli interessi, contrariamente a quanto avviene nell'ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno di cui essi integrano una componente necessaria, hanno fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono, sicché gli stessi - siano corrispettivi, compensativi o moratori - possono essere attribuiti, in applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., soltanto su espressa domanda della parte.
Sez. 1, n. 03480/2016, Dogliotti, Rv. 638842, ha affermato che il requisito della forma scritta per la determinazione degli interessi extralegali (art. 1284, comma 3, c.c.) non postula necessariamente che la corrispondente convenzione contenga una puntuale indicazione in cifre del tasso così stabilito, ben potendo essere soddisfatto attraverso il richiamo, per iscritto, a criteri prestabiliti e ad elementi estrinseci al documento negoziale, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione, anche unilaterale, del relativo saggio, la quale, pur nella previsione di variazioni nel tempo e lungo la durata del rapporto, risulti capace di venire assicurata con certezza al di fuori di ogni margine di discrezionalità rimessa all'arbitrio del creditore, sulla base di una disciplina legata ad un parametro centralizzato, fissato su scala nazionale e vincolante, come il tasso unico di sconto o il tasso di cambio di una valuta.
In tema di anatocismo, infine, da un lato, sotto il profilo processuale, è stato ribadito che il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato esige che la parte richieda specificamente in giudizio la condanna al pagamento degli interessi prodotti da interessi già dovuti almeno per sei mesi (Sez. 6-1, n. 08156/2016, Acierno, Rv. 6396109); dall'altro lato, sotto il profilo sostanziale, è stato riaffermato che nell'ipotesi in cui il correntista abbia esercitato l'azione di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici in relazione ad un contratto di apertura di credito bancario negoziato in data anteriore al 22 aprile 2000, il giudice, dichiarata la nullità della clausola per violazione del divieto di antocismo stabilito dall'art. 1283 c.c., deve calcolare gli interessi a debuito del correntista senza operare alcuna capitalizzazione (Sez. 1, n. 17150/2016, Genovese, Rv. 6396109).
La Suprema Corte è tornata più volte sui temi della legittimazione ad adempiere e a ricevere (artt. 1180 e 1188 c.c.), del pagamento al legittimato apparente (art. 1189 c.c.), dell'imputazione di pagamento (artt. 1193-1195 c.c.), della quietanza (art. 1199 c.c.) e della mora credendi (art. 1206 e ss. c.c.). Rilevanti pronunce, inoltre, si sono soffermate sul tempo (art. 1183 e ss. c.c.) e sul luogo (art. 1182 c.c.) dell'adempimento.
La nozione di legittimazione ad adempiere (quale competenza ad eseguire la prestazione, che può sussistere indipendentemente dalla titolarità del debito, se il creditore non abbia un apprezzabile interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione: art. 1180 c.c.) costituisce il presupposto di due pronunce in tema di adempimento del terzo.
Con una prima pronuncia, dalla premessa che il pagamento del terzo integra presuntivamente un atto a titolo gratuito, si è tratta la conseguenza che nel giudizio avente ad oggetto la dichiarazione di inefficacia di tale atto, ai sensi dell'art. 64 l.fall., incombe sul creditore beneficiario l'onere di provare, con ogni mezzo previsto dall'ordinamento, che il disponente abbia ricevuto un vantaggio in seguito all'atto che ha posto in essere, in quanto questo perseguiva un suo interesse economicamente apprezzabile (Sez. 1, n. 04454/2016, Di Virgilio, Rv. 639019).
Con un seconda pronuncia, si è affermato che, in tema di revocatoria fallimentare, non costituisce pagamento del terzo ma adempimento diretto del debitore - e, come tale, revocabile nel concorso di tutti i necessari presupposti - il pagamento eseguito mediante l'invio, fatto da quest'ultimo al proprio creditore, di un assegno bancario tratto da un terzo, consegnato e trasferito al debitore poi dichiarato insolvente, il quale, divenutone proprietario, ha legittimamente esercitato i diritti incorporati nel titolo (Sez. 6-1, n. 13611/2016, Genovese, Rv. 640364).
La nozione di legittimazione a ricevere (quale competenza ad accettare la prestazione con effetto liberatorio per il debitore, che può sussistere indipendentemente dalla titolarità del credito: art. 1188 c.c.) costituisce il presupposto di alcune decisioni in tema di pagamento al creditore apparente (art. 1189 c.c.).
Un primo ordine di pronunce (Sez. 1, n. 03405/2016, Nappi, Rv. 638760 e Sez. 1, n. 14777/2016, Bisogni, Rv. 640809) ha affermato che la disciplina della responsabilità per il pagamento di un assegno non trasferibile a persona diversa dal beneficiario (contenuta nell'art. 43, comma 2, r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736) deroga alla regola generale di cui all'art. 1189 c.c., che dispone la liberazione del debitore di buona fede in favore del creditore apparente, sicché la banca non è liberata dalla propria obbligazione finché non paghi nuovamente al prenditore esattamente individuato l'importo dell'assegno, a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sull'identificazione di quest'ultimo.
Da un'altra decisione (Sez. 3, n. 14445/2016, Rubino, Rv. 640524) è stato ribadito il principio secondo cui il conduttore che, alla morte del locatore, continui in buona fede a versare i canoni nelle mani dell'erede legittimo e legittimario, che si trovi nel possesso dei beni ereditari, è liberato dalla propria obbligazione, senza che rilevi né che esista controversia tra i coeredi sull'attribuzione dell'eredità, né che alcuno degli eredi abbia fatto pervenire copia del testamento al conduttore, rimanendo a carico del creditore, legittimato a conseguire il pagamento, l'onere di dimostrare il colpevole affidamento del conduttore.
Un'ultima sentenza (Sez. 3, n. 20010/2016, Sestini, in corso di massimazione) è tornata infine sull'azione di ripetizione di indebito ex art. 1189, comma 2, c.c., per statuire che il creditore che non sia stato ammesso al riparto in sede esecutiva e che abbia esperito vittoriosamente l'opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso l'ordinanza di riparto, rimanendo tuttavia insoddisfatto del proprio credito, non può esercitare la predetta azione nei confronti dei creditori soddisfatti, non ricorrendo gli estremi del conflitto fra creditore apparente e vero creditore che costituisce il presupposto indefettibile per l'applicazione di tale norma.
Si è posto il pronblema dei limiti dell'operatività del principio di cui all'art. 1194 c.c. - secondo cui ogni pagamento deve essere imputato prima agli interessi e poi al capitale salvo un diverso accordo con il creditore - in relazione alla fattispecie del rapporto di conto corrente bancario. Al riguardo Sez. 1, n. 10941/2016, Di Virgilio, Rv. 639862, movendo dalla premessa che il richiamato principio postula che il credito sia liquido ed esigibile, non potendo altrimenti ritenersi produttivo di interessi ex art. 1282 c.c., ha statuito che esso è di norma inapplicabile al suddetto rapporto, nella cui struttura unitaria le operazioni di prelievo e versamento non integrano distinti ed autonomi rapporti di debito e credito reciproci tra banca e cliente, per i quali, nel corso dello svolgimento del rapporto, si possa configurare un credito della banca rispetto a cui il pagamento del cliente debba essere imputato agli interessi. Peraltro, il principio è utilizzabile se al conto acceda un'apertura di credito, ex art. 1842 c.c., ove il correntista abbia effettuato versamenti o su conto cd. scoperto, destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento, o su conto in passivo a cui non acceda l'apertura di credito.
Con riguardo alla quietanza si intrecciano questioni di carattere sostanziale legate alla sua natura di dichiarazione di scienza con questioni di carattere processuale e probatorio legate alla sua funzione di prova documentale precostituita con valore di confessione stragiudiziale.
Sotto il primo profilo, il tradizionale principio secondo cui la quietanza a saldo, in quanto mera dichiarazione di scienza e non di volontà, non assume il significato negoziale della rinuncia o della transazione e non produce quindi efficacia dispositiva del diritto di credito, ha trovato una mitigazione, con riguardo al rapporto di lavoro, in Sez. L, n. 18321/2016, Spena, Rv. 641266, la quale, ha dato continuità all'orientamento secondo cui la quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, contenente una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione a condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze, che sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi.
Sotto il secondo profilo, ancora in materia di rapporto di lavoro, Sez. L, n. 13150/2016, Leo, Rv. 640406, ha affermato che le buste paga, ancorché sottoscritte dal lavoratore con la formula per ricevuta, costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna ma non anche dell'effettivo pagamento, della cui dimostrazione è onerato il datore di lavoro, attesa l'assenza di una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto da esse risulta e la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore.
Sempre sotto il profilo probatorio, in tema di intermediazione finanziaria, Sez. 1, n. 21737/2016, Di Marzio M., ha statuito che spetta all'intermediario finanziario la prova di aver agito in assenza di colpa, ma spetta al cliente l'onere di provare il danno, nella specie consistente nella perdita di una somma di denaro consegnata ad un promotore finanziario e da questi indebitamente trattenuta senza essere investita. In questo contesto, nell'azione del cliente per ottenere il risarcimento del danno subìto intentata nei confronti dell'intermediario finanziario, quest'ultimo deve considerarsi terzo rispetto al promotore autore dell'illecito, con la conseguenza che la quietanza rilasciata dal promotore finanziario riguardante la ricezione del denaro da parte del cliente deve considerarsi per l'intermediario finanziario alla stregua di una scrittura privata proveniente da un terzo (priva dell'efficacia probatoria che ha fra le parti secondo l'art. 2702 c.c.), e possiede dunque un valore probatorio meramente indiziario, sicché può essere liberamente contestata da parte dell'intermediario finanziario.
Sempre sotto il medesimo profilo, infine, Sez. 3, n. 12386/2016, Cirillo F.M., Rv. 640320, ha affermato che nel caso di affitto di fondo rustico da parte di una pluralità di affittanti, uno dei quali sia abilitato a ricevere il pagamento per conto di tutti, la quietanza totalmente liberatoria rilasciata dallo stesso al conduttore per un importo inferiore al canone pattuito fa presumere, a fronte della contestuale diminuzione dell'ampiezza del terreno affittato, per intervenuta alienazione di parte di esso a terzi, la riduzione del canone, avendo ciascuno degli affittanti, indipendentemente dalla natura solidale o meno della loro obbligazione, pari e disgiunti poteri gestori sulla cosa, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri.
La Suprema Corte si è pronunciata sull'offerta formale, la quale, a differenza dell'offerta non formale (che consente al debitore di evitare la mora: art. 1220 c.c.), permette, mediante l'osservanza delle forme stabilite dalle legge, di costituire in mora il creditore, accollandogli il rischio dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore, nonché l'obbligo di risarcire a quest'ultimo il danno derivante dal ritardo (art. 1206 e ss. c.c.).
In proposito, con riguardo all'offerta reale di adempimento di obbligazioni pecuniarie (art. 1209 c.c.), Sez. 2, n. 10605/2016, Scalisi, Rv. 639954, ha ribadito il principio secondo cui, quando il pagamento mediante offerta reale deve avvenire entro un determinato termine, è sufficiente che entro tale termine sia formulata l'offerta, non essendo necessario che entro il predetto termine intervengano anche gli adempimenti previsti dall'art. 1212 c.c. (in particolare, la notifica al creditore del giorno e dell'ora in cui la somma sarà depositata e, in caso di mancata comparizione di quest'ultimo, la notifica del processo verbale di deposito), atteso che le formalità relative al deposito sono solo eventuali e successive alla mancata accettazione dell'offerta reale, ben potendo perciò il debitore procedere alla suddetta offerta nell'ultimo giorno utile per effettuare il pagamento.
Con riguardo all'offerta per intimazione di ricevere la consegna di un immobile (art. 1216 c.c.), Sez. 3, n. 00890/2016, Vincenti, Rv. 638651, ha statuito che nelle locazioni di immobili urbani adibiti ad attività commerciali, disciplinate dagli artt. 27 e 34 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (e, in regime transitorio, dagli artt. 68, 71 e 73 della stessa legge), il conduttore che, alla scadenza del contratto, rifiuti la restituzione dell'immobile in attesa che il locatore gli corrisponda la dovuta indennità di avviamento, è esonerato solo dal risarcimento del maggior danno ex art. 1591 c.c., restando comunque obbligato al pagamento del corrispettivo convenuto per la locazione, salvo che offra al locatore, con le modalità dell'offerta formale ex artt. 1216, comma 2, e 1209 c.c., la riconsegna del bene condizionandola al pagamento dell'indennità di avviamento medesima, atteso il forte legame strumentale che lega le due prestazioni.
Con riguardo al tempo in cui la prestazione deve essere eseguita (art. 1183 e ss. c.c.), la Suprema Corte, con Sez. L, n. 23093/2016, De Gregorio, in corso di massimazione, pronunciando in ordine alla particolare fattispecie del mancato pagamento da parte del lavoratore delle rate oggetto di una conciliazione, ha escluso che esso costituisse ex se condizione sufficiente per il verificarsi della decadenza di cui all'art. 1186 c.c., traendone il principio più generale secondo il quale, ai fini dell'operatività della decadenza dal beneficio del termine, l'interruzione dei pagamenti rateali non integra le condizioni richieste dalla norma suddetta e non legittima pertanto il creditore ad esigere immediatamente l'intera prestazione, essendo altresì necessario che il debitore sia divenuto insolvente o che siano diminuite le garanzie date o che non siano state conferite quelle promesse.
Con riguardo al luogo nel quale la prestazione deve essere eseguita (art. 1182 c.c.), la Suprema Corte, con Sez. U, n. 17989/2016, De Chiara, Rv. 640601, ha composto il contrasto interpretativo formatosi sui rapporti tra la disposizione di cui al comma 3 e quella di cui al comma 4 dell'art. 1182 c.c., e sul tema dei limiti del reciproco ambito di applicazione, in ordine al quale talune pronunce avevano ritenuto che l'obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore soltanto ove sia stato convenzionalmente predeterminato il quantum della somma da pagare (in tal senso, ad es., Sez. 6-3, n. 21000/2011, Vivaldi, Rv. 619404), mentre altre decisioni avevano affermato il diverso principio secondo cui il luogo dell'adempimento deve identificarsi nel domicilio del creditore in tutti i casi in cui questi abbia chiesto in giudizio il pagamento di una somma specifica da lui puntualmente indicata, sebbene l'entità dell'importo non sia stato predeterminato nel contratto (in tal senso, ad es., Sez. 6-3, n. 10837/2011, Lanzillo, Rv. 617804). Le Sezioni Unite hanno dunque chiarito che le obbligazioni portables sono - agli effetti sia della mora ex re sia del forum destinatae solutionis - soltanto quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l'ammontare o indichi criteri determinativi non discrezionali.
Si segnalano pronunce in relazione agli istituti della novazione (art. 1230 e ss. c.c.) e della compensazione (art. 1241 e ss. c.c.).
La ribadita necessità, in funzione dell'efficacia estintiva della novazione oggettiva, della compresenza dei due requisiti dell'intento novativo (animus novandi) e della diversità, per oggetto o per titolo, della obbligazione sostitutiva (aliquid novi) costituisce la premessa della decisione emessa da Sez. L, n. 21366/2016, De Gregorio, Rv. 641433, la quale, confermando la sentenza di merito che aveva escluso la novazione in autonomo di un rapporto di lavoro subordinato, ha statuito che la sopravvenuta trasformazione di un rapporto di lavoro subordinato in un diverso rapporto di lavoro, con il conseguente svolgimento della prestazione sulla base di un diverso titolo, deve essere provata dalla parte che deduce la trasformazione a seguito di uno specifico negozio novativo, il quale presuppone che risulti la chiara ed univoca volontà delle parti di mutare il regime giuridico del rapporto.
Nella medesima prospettiva, sebbene con riguardo ad una fattispecie diversa, Sez. 1, n. 23064/2016, Mercolino, in corso di massimazione, ha affermato che l'efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall'accordo transattivo, in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti devono ritenersi oggettivamente diverse da quelle preesistenti, con la conseguenza che, al di fuori dell'ipotesi in cui sussista un'espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso, il giudice di merito deve accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni.
Sotto il profilo processuale, Sez. L, n. 23434/2016, Manna A., in corso di massimazione, ha infine ribadito che, a differenza della compensazione, la novazione non forma oggetto di eccezione in senso proprio, per modo che il giudice può rilevare d'ufficio il fatto corrispondente se ritualmente introdotto nel processo.
Numerose e rilevanti, anche nel 2016, sono state le pronunce in tema di compensazione.
In primo luogo è stata ribadita - con Sez. 3, n. 12302/2016, Sestini, Rv. 640321 - la distinzione tra compensazione propria, che presuppone la reciproca autonomia dei due debiti che si estinguono per le quantità corrispondenti (art. 1241 c.c.) e che deve formare oggetto di eccezione di parte (art. 1242 c.c.), e compensazione impropria, fondata su una relazione di debito-credito che trae origine da un unico rapporto e di cui il giudice può tenere conto officiosamente. In proposito, Sez. 3, n. 10750/2016, Travaglino, Rv. 640120, ha altresì chiarito che la disciplina della compensazione ex art. 1241 c.c. è applicabile nelle ipotesi in cui le reciproche ragioni di credito, pur avendo il loro comune presupposto nel medesimo rapporto, siano fondate su titoli di diversa natura, l'una contrattuale e l'altra extracontrattuale.
In secondo luogo, la Suprema Corte è tornata sui presupposti di operatività della compensazione, consistenti nella reciprocità, omogeneità, certezza, liquidità (o facilità di liquidazione, nella compensazione giudiziale) ed esigibilità dei debiti (art. 1243 c.c.).
Con particolare riguardo al requisito della certezza, da intendersi non solo in senso sostanziale (così da doversi escludere, ad es., con riguardo alle obbligazioni derivanti da contratti soggetti a condizione sospensiva) ma pure in senso processuale (così da doversi ritenere necessaria la non contestazione in giudizio del debito da opporre in compensazione), si era posta la questione se il giudice possa dichiarare la compensazione, ai sensi dell'art. 1243, comma 2, c.c. allorché l'esistenza del credito oggetto dell'eccezione sia controversa nello stesso o in altro giudizio. Su tale questione si era determinato un contrasto, in quanto al tradizionale orientamento secondo cui la compensazione, quale mezzo di estinzione ope legis delle reciproche obbligazioni, presuppone il definitivo accertamento delle medesime, non essendo applicabile a situazioni provvisorie (in tal senso già Sez. 3, n. 04074/1974, Bacconi, Rv. 372688; successivamente, tra le tante, Sez. 3, n. 08338/2011, De Stefano, Rv. 617667 e Sez. 3, n. 09668/2013, Campanile, Rv. 626309), si era contrapposto il diverso indirizzo secondo cui può essere opposto in compensazione anche il credito ancora sub iudice in un altro giudizio, salve le diverse modalità di coordinamento dei due procedimenti secondo che il diverso giudizio penda dinanzi allo stesso giudice e nel medesimo grado oppure penda presso un altro ufficio giudiziario o in grado di impugnazione (Sez. 3, n. 23573/2013, Frasca, Rv. 628728). Rimessa la questione alle Sezioni Unite, queste, componendo il contrasto e pronunciando ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c., hanno affermato i seguenti principi: se l'esistenza del controcredito opposto in compensazione è controversa nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente (art. 35 c.p.c.), il giudice non può pronunciare la compensazione, né legale né giudiziale; se l'esistenza del controcredito è ancora sub judice in un separato procedimento, non può avere luogo la compensazione giudiziale, ex art. 1243, comma 2, c.c., la quale presuppone l'accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale è invocata e non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall'esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo, senza possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale o di invocare la sospensione contemplata in via generale dagli artt. 295 o 337, comma 2, c.p.c., attesa la prevalenza della disciplina speciale di cui al citato art. 1243 c.c. (Sez. U, n. 23225/2016, Chiarini, in corso di massimazione).
In terzo luogo, la Suprema Corte si è pronunciata sui limiti all'applicabilità dell'istituto con riguardo ai casi contemplati dall'art. 1246 c.c., nonché sulla speciale compensazione di cui all'art.56 l.fall.
Sotto il primo profilo, con riguardo ai crediti del lavoratore, Sez. L, n. 21646/2016, Manna A., Rv. 641461, ha statuito che la compensazione del t.f.r. con crediti del datore di lavoro è legittima, posto che il divieto previsto dall'art. 1246, n. 3, c.c., in relazione ai crediti impignorabili, non opera con riguardo alla compensazione impropria, nella quale si inquadrano le reciproche ragioni di debito-credito derivanti dall'unico rapporto di lavoro.
Sotto il secondo profilo, scostandosi da un precedente orientamento (per il quale cfr. Sez. 1, n. 10208/2007, Salvato, Rv. 597407), Sez. 1, n. 00512/2016, Nappi, Rv. 638260, sulla premessa che la compensazione tra i saldi attivi e passivi di più rapporti di conto corrente tra banca e cliente, prevista dall'art. 1853 c.c., presuppone solo che siano esigibili i contrapposti crediti, ha affermato che, in caso di giroconto da un rapporto con saldo attivo (come tale, immediatamente disponibile per il cliente, salvo patto contrario ex art. 1852 c.c.), ad uno ancora aperto ma con saldo passivo già esigibile per la banca, l'estinzione di tale debito non consegue ad un pagamento revocabile ai sensi dell'art. 67 l.fall. ma alla compensazione, ammessa dall'art. 56 l.fall., tra il credito della banca verso il cliente poi fallito ed il debito della stessa banca nei confronti di quest'ultimo.
In quarto luogo, sotto il profilo processuale, la Suprema Corte, con Sez. 2, n. 23759/2016, Scarpa, in corso di massimazione, ha dato conto delle differenze tra eccezione di compensazione ed eccezione di inadempimento, con le conseguenti implicazioni in tema di distribuzione dell'onere probatorio. Secondo questa pronuncia, precisamente, l'eccezione di compensazione rileva quale fatto estintivo dell'obbligazione e presuppone che due persone siano obbligate l'una verso l'altra in forza di reciproci crediti e debiti, sicché grava sulla parte che la solleva l'onere della prova circa l'esistenza del proprio controcredito; l'eccezione di inadempimento, invece, funziona come fatto impeditivo dell'altrui pretesa di pagamento avanzata, nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di inadempimento dello stesso creditore, con la conseguenza che il debitore eccipiente può limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento, gravando sul creditore agente l'onere di provare il proprio adempimento ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione.
Nel 2016 diverse pronunce hanno affrontato le problematiche connesse con le vicende che comportano la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato attivo, particolarmente in tema di cessione del credito.
È stato riaffermato il principio generale della libera cedibilità dei crediti (art. 1260 c.c.), salvo che il credito abbia carettere strettamente personale o sussista un divieto legale o negoziale di cessione (artt. 1260, 1261 e 447 c.c.).
In proposito, Sez. 2, n. 12631/2016, Lombardo, Rv. 640092, ha statuito che il diritto di credito nascente dalla cessione di cubatura attiene alla qualità fondiaria oggetto del rapporto obbligatorio e non alla persona dei suoi titolari, sicché, non avendo carattere strettamente personale, può essere trasferito senza il consenso del debitore a norma dell'art. 1260 c.c.
Sotto altro profilo, ma sempre sulla premessa della libera cedibilità dei crediti, Sez. 5, n. 12552/2016, Cricenti, Rv. 640077, ha affermato che il divieto di cessione dei crediti d'imposta vigente in materia tributaria integra un'eccezione al suddetto principio, sicché è applicabile esclusivamente ove il trasferimento sia l'oggetto del negozio concluso e non allorché, come nell'ipotesi di cessione di azienda, ne integri un mero effetto.
La Suprema Corte si è poi pronunciata sull'oggetto della cessione del credito ai sensi dell'art. 1263 c.c.
Al riguardo, Sez. 1, n. 02978/2016, Scaldaferri, Rv. 638677, ha statuito che la previsione del comma 1 del predetto articolo, secondo cui il credito è trasferito al cessionario, oltre che con i privilegi e le garanzie reali e personali, anche con gli altri accessori, va intesa nel senso che nell'oggetto della cessione è ricompresa la somma delle utilità che il creditore può trarre dall'esercizio del diritto ceduto, ossia ogni situazione direttamente collegata con il diritto stesso, la quale, in quanto priva di profili di autonomia, integri il suo contenuto economico o ne specifichi la funzione; in tale previsione rientrano, dunque, anche gli interessi scaduti dopo la cessione (e non, salvo patto contrario, quelli scaduti prima), alle condizioni e nella misura in cui, secondo la legge, essi erano dovuti al creditore cedente, sicché solo ove fossero stati concordati, per iscritto in base all'art. 1284, comma 3, c.c., in misura extralegale, in tale misura sono dovuti al cessionario anche per il periodo di mora ex art. 1224, comma 1, c.c., mentre, in difetto di tale pattuizione tra le parti originarie del rapporto obbligatorio, gli stessi spettano al tasso legale.
Sempre in relazione all'oggetto della cessione, Sez. 1, n. 07960/2016, Terrusi, Rv. 639315, ha affermato che la cessione di un credito fondiario vantato nei confronti di un imprenditore poi fallito, operata da un istituto di credito in favore di una società finanziaria appartenente al proprio gruppo, comporta l'automatico trasferimento alla cessionaria dei privilegi e delle garanzie esistenti in capo al cedente, ivi compresa l'esenzione dalla revocatoria fallimentare di cui all'art. 67, comma 3, l.fall., nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui al decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80.
La Suprema Corte si è infine pronunciata sulla natura dell'accettazione della cessione da parte del debitore ceduto e sulle sue implicazioni, statuendo, con Sez. 3, n. 03184/2016, Esposito A.F., Rv. 638945, che essa non costituisce ricognizione tacita del debito, trattandosi di una dichiarazione di scienza priva di contenuto negoziale, sicché, il ceduto non viola il principio di buona fede nei confronti del cessionario, se non contesta il credito, pur se edotto della cessione, né il suo silenzio può costituire conferma di esso, perché, per assumere tale significato, occorre un'intesa tra le parti negoziali cui il ceduto è estraneo.
Riguardo alle vicende che comportano la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato passivo si segnalano due decisioni che hanno interessato, rispettivamente, il tema della delegazione (art. 1268 c.c.) e quello dell'accollo (art. 1273 c.c.).
In un'ipotesi di vendita immobiliare con patto di riscatto in cui il prezzo di compravendita era stato in parte pagato dalla società acquirente mediante il ripianamento di precedenti debiti dei venditori verso terzi e verso l'amministratore della società, mentre per l'altra parte era stata prevista una rateizzazione del residuo prezzo da versare eventualmente a terze società in ipotesi di inadempimento di obbligazioni degli stessi venditori non ancora esigibili alla data della vendita, Sez. 2, n. 01075/2016, Matera, Rv. 638764, confermando la sentenza di merito che aveva escluso nella fattispecie la sussistenza di un patto commissorio, ha ricostruito la pattuita rateizzazione in termini di delegazione di pagamento delle obbligazioni da parte del debitor debitoris, escludendone la natura di finanziamento diretto della società acquirente in favore dei venditori.
La nozione di accollo (esterno) quale contratto a favore di terzo che determina una modificazione soggettiva dell'originaria obbligazione, facendo assumere all'accollante il debito verso il creditore, costituisce il presupposto implicito della decisione emessa da Sez. 6-3, n. 12173/2016, Rubino, Rv. 640316, la quale ha statuito che, nell'ipotesi di subentro dell'accollante nella posizione del mutuatario di un mutuo edilizio, l'accollante subentra nelle sole obbligazioni sostanziali del debitore originario, non anche nell'intera posizione, traendone il corollario per cui, in tale ipotesi, diversamente da quanto previsto in tema di mutuo fondiario, la notifica dell'atto di precetto va eseguita ex art. 480 c.p.c. nei confronti dell'accollante personalmente ex artt. 137 ss. c.p.c., ossia nel suo indirizzo di residenza ovvero nel domicilio eletto nell'atto di accollo, ma non nel domicilio suppletivo indicato dal mutuatario originario nel contratto di mutuo, giacché, l'elezione di domicilio compiuta da quest'ultimo non produce effetti nei confronti dell'accollante.
La Suprema Corte è tornata con diverse decisioni sul tema delle obbligazioni solidali (art. 1292 e ss. c.c.) e si è pronunciata anche sulle obbligazioni parziarie (art. 1314 c.c.).
Con riguardo alle obbligazioni soggettivamente complesse ex latere debitoris, per le quali vige il principio della solidarietà passiva (art. 1294 c.c.), la Suprema Corte ha affrontato per due volte le problematiche processuali connesse con il fallimento di uno o più coobbligati.
Al riguardo se, per un verso, Sez. 1, n. 02902/2016, Didone, Rv. 638549, ha ribadito che l'autonomia delle azioni proponibili da un creditore verso più soggetti solidalmente obbligati nei suoi confronti, opera anche nel caso del fallimento di uno di essi (con la conseguenza che l'azione verso il fallito comporta il ricorso alla procedura speciale dell'insinuazione al passivo del credito e, quindi, l'improcedibilità della domanda proposta, mentre l'azione nei confronti del coobbligato in bonis può proseguire in sede ordinaria), per altro verso, Sez. 1, n. 14936/2016, Didone, Rv. 640741, ha affermato che il creditore di più coobbligati solidali può essere ammesso al passivo del fallimento di uno dei condebitori pur essendo già insinuato al concorso nel fallimento di altro coobbligato per lo stesso credito.
Sempre sotto il profilo processuale, mentre Sez. 2, n. 02854/2016, Falabella, Rv. 638857, ha confermato il consolidato principio secondo cui l'obbligazione solidale passiva si traduce in cause scindibili consentendo la delibazione dell'impugnazione proposta da (o contro) uno solo dei coobbligati, senza dover integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, Sez. L, n. 19186/2016, Venuti, Rv. 641199, ha statuito che l'esclusione del vincolo di solidarietà passiva costituisce un'eccezione in senso stretto, soggetta alle relative decadenze.
Con riguardo alla transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido, Sez. 1, n. 23418/2016, Nazzicone, in corso di massimazione, ha dato continuità al principio secondo cui l'art. 1304, comma 1, c.c. si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l'intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata, giacché è la comunanza dell'oggetto della transazione stessa a far sì che possa avvalersene il condebitore solidale pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e, quindi, in deroga al principio per cui il contratto produce effetti soltanto tra le parti.
La medesima pronuncia ha chiarito che se, invece, la transazione conclusa tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l'ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduceinmisura corrispondente all'importo pagato dal condebitore che ha transatto.
Infine, Sez. 1, n. 15417/2016, Genovese, Rv. 640948, e Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641158, si cono occupate delle implicazioni connesse con l'estensione, secundum eventum litis, degli effetti della sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori solidali: la prima pronuncia ha affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta da uno dei condebitori solidali non impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri intimati, condebitori in solido, rispetto ai quali il decreto ingiuntivo da essi non impugnato acquista efficacia di giudicato senza che possano più giovarsi della disposizione di cui all'art. 1306 c.c.; la seconda pronuncia ha statuito che il decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto sia nei confronti della società di persone che dei singoli soci illimitatamente responsabili, acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all'eventuale accoglimento dell'opposizione avanzata dalla società o da altro socio.
In tema di debiti ereditari, è stato ribadito il carattere carattere parziario dell'obbligazione dei coeredi: infatti, Sez. 6-2, n. 8487/2016, Scalisi, Rv. 639756, ha dato continuità al principio secondo cui in caso di successione mortis causa di una pluralità di eredi nel lato passivo del rapporto obbligatorio, il debito del de cuius si fraziona pro quota tra gli aventi causa, sicché il rapporto che ne deriva non è unico e inscindibile e, in caso di giudizio instaurato per il pagamento del debito ereditario, non sussiste, neppure sotto il profilo della dipendenza di cause, litisconsorzio necessario tra gli eredi del defunto, né in primo grado, né nella fase di gravame.
Alcune pronunce sono tornate sui presupposti della responsabilità contrattuale, esplorando i classici temi dell'inadempimento imputabile, della ripartizione dell'onere della prova in caso di esercizio dell'azione di risarcimento del danno e degli altri rimedi contrattuali (art. 1218 c.c.), della mora debendi (art. 1219 e ss. c.c.) e della responsabilità per il fatti degli ausiliari (art. 1228 c.c.).
Altre pronunce sono invece tornate sulle conseguenze della responsabilità contrattuale e, precisamente, sulle regole di determinazione del danno risarcibile contenute nell'art. 1227, comma 1, c.c. (concorso di colpa del creditore) e nell'art. 1227, comma 2, c.c. (dovere del creditore di evitare il danno).
In conformità con il principio che l'imputabilità dell'inadempimento esige la colpa del debitore e che l'impedimento liberatorio, ex art. 1218 c.c., è quello non prevedibile né superabile con la dovuta diligenza, Sez. 3, n. 11914/2016, Armano, Rv. 640533, ha ritenuto che la mancata attivazione del servizio telefonico da parte di un'impresa esercente servizi di telefonia (nella specie, a seguito di distacco dal vecchio gestore nell'ambito di procedura di migrazione unilaterale) integri inadempimento contrattuale, senza che rilevi, quale factum principis liberatorio, la sopravvenuta delibera interdittiva dell'AGCOM a non procedere con tali modalità al rientro dei clienti in precedenza abbonati presso altri gestori ove tale provvedimento autoritativo sia stato colposamente provocato dall'impresa e fosse ragionevolmente prevedibile secondo la comune diligenza.
Anche nel 2016 si è data continuità, facendosene applicazione in fattispecie peculiari e complesse, all'ormai consolidato orientamento (prevalso a seguito del contrasto composto da Sez. U, n. 13533/2001, Preden, Rv. 549956, e consolidatosi nella giurisprudenza successiva), secondo cui, in tema di prova dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) di una obbligazione, il creditore che azioni rimedi contrattuali (azione di adempimento, di risoluzione del contratto, di risarcimento del danno) deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'esatto adempimento.
Precisamente, Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio M., Rv. 641164, ha statuito che la responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l'azione sia proposta ex art. 146 l.fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l'osservanza dei doveri previsti dal nuovo testo dell'art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003, con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) - ferma l'applicazione della business judgement rule, secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti - rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell'art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, comma 2, c.c.
Con riguardo ad altra fattispecie ma in applicazione del medesimo principio generale, Sez. 1, n. 00810/2016, Nazzicone, Rv. 638346, ha affermato che in tema di intermediazione finanziaria, il riparto dell'onere probatorio nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall'investitore - in cui deve accertarsi se l'intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, dal decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e dalla normativa secondaria - impone innanzitutto all'investitore stesso di allegare l'inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell'intermediario, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l'inadempimento, anche sulla base di presunzioni, mentre l'intermediario deve provare l'avvenuto esatto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico.
In ordine ai presupposti della mora del debitore, Sez. 3, n. 06545/2016, Ambrosio, Rv. 639519, ha chiarito che il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro, liquidate a titolo risarcitorio, decorrono dalla data in cui il danno si è verificato, è applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale in quanto, ai sensi dell'art. 1219, comma 2, c.c., il titolare dell'obbligazione risarcitoria da fatto illecito è in mora (mora ex re) dal giorno della consumazione dello stesso, mentre, se l'obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l'atto idoneo a porre in mora il debitore ai sensi dell'art. 1219, comma 1, c.c. (mora ex persona).
Con riguardo all'atto di costituzione in mora, Sez. 3, n. 06549/2016, Olivieri, Rv. 639338, ha affermato che esso non richiede l'uso di formule solenni, né l'osservanza di particolari adempimenti, sicché l'invio di una fattura commerciale - sebbene, di per sé, insufficiente ai fini ed agli effetti di cui all'art. 1219, comma 1, c.c. - può risultare idoneo a tale scopo allorché l'emissione del documento di natura fiscale sia intervenuta in relazione all'esecuzione di un contratto che preveda pagamenti ripetuti a scadenze predeterminate e purché lo stesso risulti corredato dall'indicazione di un termine per il pagamento e dall'avviso che, se lo stesso non interverrà prima della scadenza, il debitore dovrà ritenersi costituito in mora.
Con riguardo alla responsabilità del debitore per i fatti dolosi o colposi posti in essere dai terzi della cui opera si avvale nell'adempimento dell'obbligazione (art. 1228 c.c.) assume particolare rilevanza l'ordinanza interlocutoria (Sez. 3, n. 03361/2016, Rossetti) con cui, in una fattispecie di trasporto aereo di cose affidate ad una società di handling aeroportuale - ponendosi in discussione il consolidato orientamento che individua nell'attività dell'handler una prestazione distinta e autonoma da quella che forma oggetto del contratto di trasporto concluso tra mittente e vettore (in quanto svolta in esecuzione del diverso contratto di deposito a favore di terzo stipulato tra vettore e handler (cfr., ad es., Sez. 3, n. 18074/2003, Di Nanni, Rv. 568488 e Sez. 3, n.14593/2007, Fico, Rv. 597993) -, è stata rimessa all'eventuale decisione delle Sezioni Unite la soluzione della questione di massima di particolare importanza se nel trasporto aereo di merci, la prestazione svolta dall'impresa esercente il cosiddetto servizio di handling aeroportuale (alla quale siano consegnate - dal mittente o dal suo spedizioniere - le cose destinate ad essere caricate sull'aeromobile) abbia carattere accessorio rispetto al contratto di trasporto o sia svolta in esecuzione di un autonomo e distinto contratto, con conseguente possibilità, in ipotesi di perdita delle cose prima della consegna al vettore, di qualificare o meno l'handler quale ausiliario del vettore e con conseguente applicabilità o meno, nei suoi confronti, della disciplina sulla responsabilità prevista dalle convenzioni internazionali sul trasporto aereo.
In dottrina, il fondamento della regola contenuta nell'art. 1227, comma 1, c.c. è stato rinvenuto talora nel principio di autoresponsabilità, talaltra in quello di stretta causalità. Prevalsa questa seconda tesi, il dato normativo esige comunque che il fatto posto in essere dal creditore danneggiato dall'inadempimento sia connotato da colpa, da intendersi quale requisito legale della rilevanza causale del fatto medesimo.
Tenuto conto di ciò, in tema di intermediazione finanziaria, Sez. 1, n. 09892/2016, Valitutti, Rv. 639655, ha statuito che, qualora l'intermediario abbia dato corso all'acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente, e quest'ultimo non rientri in alcuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste dalla normativa di settore, non è configurabile un concorso di colpa del medesimo cliente nella produzione del danno, neppure per non essersi lo stesso informato della rischiosità dei titoli acquistati.
Nella medesima prospettiva, in tema di contratto di fornitura di energia elettrica, Sez. 3, n. 12148/2016, Vincenti, Rv. 640290, ha affermato che, in caso di danni subiti da coltivazioni in serra per congelamento, a seguito di una non preavvisata interruzione dell'erogazione del servizio e del conseguente venir meno del riscaldamento, la mancata tempestiva chiusura manuale delle finestre di areazione della serra non integra una causa da sola efficiente a determinare l'evento dannoso attesa l'assenza, in capo al danneggiato, di un obbligo legale o contrattuale (neppure in relazione alla clausola di buona fede) per l'adozione di misure idonee a neutralizzare il disservizio, restando, inoltre, tale contegno omissivo privo di rilievo causale ai fini dell'art. 1227, comma 1, c.c., posto che nella causazione del danno presenta carattere assorbente il mancato adempimento, da parte del soggetto erogatore del servizio, dell'obbligo contrattuale di dare comunicazione agli utenti della programmata interruzione dell'energia elettrica.
La netta distinzione operata dal codice civile tra la regola di cui all'art. 1227, comma 1, c.c. (che dà rilievo alla partecipazione del creditore alla produzione del danno attraverso un comportamento obiettivamente colposo) e la regola di cui al comma 2 dello stesso articolo (che invece sanziona l'inerzia del creditore il quale non si attivi per evitare, limitare od attenuare il danno che ha causa esclusiva nell'inadempimento del debitore) ha trovato riscontro nella nota tesi dottrinale, condivisa anche di recente dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., ad es., Sez. 2, n. 26639/2013, Nuzzo, Rv. 628544), secondo cui l'obbligo di cooperare per limitare le conseguenze dannose dell'inadempimento trova fondamento nel generale dovere di buona fede in senso oggettivo o correttezza, inteso come canone di salvaguardia dell'interesse della controparte nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio personale o economico.
In conformità con tali premesse dogmatiche, Sez. L, n. 04865/2016, Tria, Rv. 639114, in tema di risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo, ha affermato che l'obbligo del creditore di cooperazione e di attivazione volto ad evitare l'aggravarsi del danno, ex art. 1227, comma 2, c.c., riguarda solo le attività non gravose, né eccezionali, o tali da non comportare notevoli rischi o sacrifici, sicché non sono imputabili al lavoratore le conseguenze dannose derivanti dal tempo da questi impiegato per la tutela giurisdizionale, tutte le volte che le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la la tutela dei propri diritti e la riduzione del danno.
In tema di contratti atipici, nel corso dell'anno 2016 la Suprema Corte ha avuto occasione di approfondire alcuni aspetti del contratto di vitalizio improprio o assistenziale, in particolare evidenziando il rilievo che l'aleatorietà assume in tale rapporto e le differenze dal contratto di donazione.
In proposito, Sez. 2, n. 08209/2016, Falabella, Rv. 639694 e Rv. 639695, ha ribadito la configurabilità, in base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c., di un contratto atipico di "vitalizio alimentare", individuandone le differenze dal contratto nominato di rendita vitalizia, di cui all'art. 1872 c.c., nel carattere più marcato dell'alea che lo riguarda, inerente non solo la durata del rapporto, connessa alla vita del beneficiario, ma anche l'obbiettiva entità delle prestazioni (di fare e di dare) dedotte nel negozio, suscettibili di modificarsi nel tempo in ragione di fattori molteplici e non predeterminabili (quali le condizioni di salute del beneficiario), nonchè nella natura accentuatamente spirituale di tali prestazioni, eseguibili unicamente da un vitaliziante specificatamente individuato alla luce delle sue peculiari qualità personali. La medesima pronuncia, proprio sul presupposto che l'alea del contratto atipico di vitalizio alimentare comprende anche l'aggravamento delle condizioni del vitaliziante, ha conseguentemente osservato che il trasferimento all'onerato di un ulteriore bene, mediante la conclusione di un successivo contratto cd. di mantenimento, quale compenso della maggiore gravosità sopravvenuta dell'assistenza materiale e morale da prestare, è privo di causa, giacché tale ulteriore attribuzione patrimoniale elimina il rischio che è invece connaturale al precedente contratto: in siffatta ipotesi, dunque, la causa di scambio, non essendo giustificata da un diverso corrispettivo, dissimula quella di liberalità.
Sulla stessa scia si pone anche Sez. 2, n. 15904/2016, Manna F., Rv. 640569, la quale, esaminando il differente caso in cui vi sia un'originaria macroscopica sproporzione del valore del cespite rispetto al minor valore delle prestazioni, ha affermato che tale situazione fa presumere lo spirito di liberalità tipico della donazione, eventualmente gravata da modus: a tale conclusione la sentenza è pervenuta osservando che l'elemento che differenzia il contratto atipico di vitalizio assistenziale dalla donazione è proprio l'aleatorietà, essendo il primo caratterizzato dall'incertezza obiettiva iniziale circa la durata di vita del beneficiario e il conseguente rapporto tra valore complessivo delle prestazioni.
Di particolare interesse, per la frequente ricorrenza della fattispecie, è inoltre la decisione di Sez. 1, n. 10710/2016, Bisogni, Rv. 639852 relativa all'ipotesi di emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia, nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento: un tale assegno, si legge nella sentenza, è contrario alle norme imperative contenute negli artt. 1 e 2 del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume, enunciato dall'art. 1343 c.c., sicché, non viola il principio dell'autonomia contrattuale sancito dall'art. 1322 c.c. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all'art. 1988 c.c.
Sulla operatività della presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. meritano di essere segnalate due pronunce, tra loro discordanti, relative agli effetti della spedizione di una lettera raccomandata.
Ad avviso di Sez. L, n. 12822/2016, Berrino, Rv. 640371, la presunzione di conoscenza di un atto, del quale sia contestato il pervenimento a destinazione, non è integrata dalla sola prova della spedizione della raccomandata, essendo necessaria, attraverso l'avviso di ricevimento o l'attestazione di compiuta giacenza, la dimostrazione del perfezionamento del procedimento notificatorio.
Di segno opposto, ma in linea di continuità con altre più risalenti decisioni, è il principio affermato da Sez. 1, n. 17204/2016, Di Marzio M., Rv 641040, secondo il quale la lettera raccomandata, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione attestata dall'ufficio postale attraverso la ricevuta, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo dell'atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 c.c. dello stesso; sulla base di tale presupposto, la decisione citata ha ritenuto gravare sul destinatario l'onere di dimostrare di essersi trovato senza sua colpa nell'impossibilità di acquisire la conoscenza dell'atto.
Con riferimento al momento di conclusione del contratto, nel caso in cui si abbia un documento sottoscritto da una sola parte e si verta in una ipotesi di contratto per il quale la legge richiede la forma scritta ad substantiam, Sez. 1, n. 05919/2016, Di Marzio M., Rv. 639062, ha affermato che la produzione in giudizio della scrittura da parte del contraente che non l'ha sottoscritta realizza un equivalente della sottoscrizione, precisando però che il conseguente perfezionamento del contratto avviene con effetti ex nunc e non ex tunc, essendo necessaria la formalizzazione delle dichiarazioni di volontà che lo creano; da siffatta individuazione del momento di conclusione del contratto, la sentenza in discorso ha tratto l'importante conseguenza che tale meccanismo non opera se l'altra parte abbia medio tempore revocato la proposta, ovvero se colui che aveva sottoscritto l'atto incompleto non sia più in vita nel momento della produzione, determinando la morte, di regola, l'estinzione automatica della proposta (art. 1329 c.c.), non più impegnativa per gli eredi. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il contratto quadro di investimento mobiliare formalmente non sottoscritto dalla banca si era perfezionato solo dal momento della produzione nel giudizio intrapreso dall'investitore nei confronti dell'intermediario, con conseguente inefficacia del pregresso ordine di acquisto del cliente).
Ancora in tema di contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam (nella specie, preliminare di vendita immobiliare), Sez. 2, n. 07543/2016, Correnti, Rv. 639491 e Rv. 639492, ha opportunamente precisato che l'operatività del principio secondo cui il perfezionarsi del negozio può avvenire anche in base ad un documento firmato da una sola parte, ove risulti una successiva adesione, anche implicita, del contraente non firmatario, contenuta in atto scritto diretto alla controparte, presuppone che quest'ultimo documento abbia tutti i requisiti necessari ad integrare una volontà contrattuale, ivi compresa l'individuazione o quantomeno l'individuabilità del destinatario della dichiarazione, e che, inoltre, tale volontà non sia stata revocata dal proponente prima che lo stesso abbia avuto notizia, anche in forma verbale o per facta concludentia, purché in modo idoneo a giungere a conoscenza dell'altra parte, dell' accettazione della controparte.
A tale riguardo la sentenza chiarisce infatti che l'art. 1328, comma 1, c.c., il quale prevede che la proposta contrattuale può essere revocata finché il contratto non sia concluso, va inteso in correlazione con la diversa disciplina dettata per la revoca dell'accettazione dal comma 2, nonché tenendo conto del carattere recettizio di entrambi gli atti; ne deriva che la revoca si perfeziona quando sia spedita all'indirizzo dell'accettante prima che l'accettazione sia giunta a conoscenza del proponente, mentre resta irrilevante che l'accettante ne abbia notizia in un momento successivo a quello in cui l'accettazione sia giunta a conoscenza del preponente, posto che in tale evenienza l'affidamento dell'accettante resta tutelato dalla previsione di un indennizzo a carico del proponente per le spese e le eventuali perdite subite per l'iniziata esecuzione del contratto.
Quanto all'ipotesi di conclusione del contratto mediante esecuzione, Sez. 1, n. 11392/2016, Di Marzio M., Rv. 639820, ha sottolineato che la disciplina di cui all'art. 1327 c.c., secondo la quale il contratto, nelle tassative ipotesi indicate dal comma 1 della norma (richiesta del proponente, natura dell'affare ed usi commerciali), può intendersi concluso nel tempo e nel luogo dell'iniziata esecuzione senza la preventiva accettazione della proposta, presuppone una prestazione che palesi l'insorgenza del vincolo contrattuale; sulla base di tale premessa, la Corte ha coerentemente ritenuto che la mancata riscossione degli interessi dovuti sui debiti maturati non può configurarsi come esecuzione prima della risposta dell'accettante tale da determinare la conclusione di un contratto avente ad oggetto la rinuncia agli interessi stessi, trattandosi di una condotta meramente passiva.
Nella peculiare ipotesi di esercizio del diritto di prelazione agraria, le modalità di conclusione del contratto sono affrontate in una interessante pronuncia di Sez. 3, n. 12883/2016, Sestini, Rv. 640281, che ha ricondotto la fattispecie allo schema normativo di cui agli artt. 1326 e 1329 c.c., escludendo pertanto la revocabilità della denuntiatio durante il termine di trenta giorni previsto per l'accettazione della proposta; tale ricostruzione è basata dalla duplice considerazione che, da un lato, la trasmissione del preliminare ha tutti i connotati della proposta contrattuale e, dall'altro, la possibilità di revoca mal si concilierebbe con la natura della stessa denuntiatio, la quale è un atto unilaterale, di adempimento di obbligo legale, destinato a rendere attuale l'altrui diritto soggettivo.
Il profilo attinente alla conclusione del contratto è stato esaminato anche con riferimento ad un'altra particolare ipotesi, qual è quella dell'offerta pubblica di strumenti finanziari di cui agli artt. 94 e 95 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.
In tali casi, come chiarito da Sez. 1, n. 03625/2016, Nazzicone, Rv. 638799, l'investitore stipula con l'offerente un contratto consensuale ad effetti reali che si perfeziona attraverso un procedimento a formazione progressiva di cui la volontà del proponente, manifestata attraverso il prospetto informativo approvato dalla Consob ed immodificabile in ragione della sua rilevanza pubblicistica, costituisce il primo atto e l'adesione dell'investitore, espressa in forma adeguata, integra l'accettazione. Sulla base di tale inquadramento, la citata pronuncia osserva che il promotore finanziario - il quale, in ragione della sua collocazione nell'organizzazione dell'impresa dell'intermediario, non ha il potere di rappresentanza di quest'ultimo - non partecipa alla determinazione del contenuto negoziale e, pertanto, non è in grado, di propria iniziativa, di introdurre clausole che determinino una deviazione dalla disciplina del modello invariabile predisposto nel prospetto informativo, sicchè, ove prometta rendimenti più vantaggiosi rispetto a quelli indicati nel prospetto pubblicato, il terzo contraente non può invocare i principi dell'apparenza del diritto e, in particolare, la propria condizione di buona fede, per farne discenderne conseguenze a sé favorevoli, vincolando ad essi l'offerente, vertendo egli in una condizione di colpa inescusabile.
Con riferimento infine ai contratti stipulati dalla P.A., il panorama delle pronunce di legittimità si è arricchito di decisioni concernenti il modo di atteggiarsi del requisito della forma scritta, l'efficacia del verbale di aggiudicazione e il valore del collaudo nei contratti di appalto di opera pubblica.
Quanto al primo profilo, Sez. 3, n. 12540/2016, Tatangelo, Rv. 640379, dopo aver ricordato che i contratti conclusi dalla P.A. richiedono la forma scritta ad substantiam e devono essere consacrati in un unico documento, ha sottolineato che ciò esclude il loro perfezionamento attraverso lo scambio di proposta ed accettazione tra assenti (salva l'ipotesi eccezionale prevista ex lege di contratti conclusi con ditte commerciali), mentre tale requisito di forma deve ritenersi soddisfatto nel caso di cd. elaborazione comune del testo contrattuale, e cioè mediante la sottoscrizione - sebbene non contemporanea, ma avvenuta in tempi e luoghi diversi - di un unico documento contrattuale il cui contenuto sia stato concordato dalle parti.
Riguardo al verbale di aggiudicazione definitiva formato a seguito di incanto pubblico o licitazione privata, al quale l'art. 16, comma 4, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, attribuisce efficacia equivalente a quella del contratto, Sez. U, n. 15204/2016, Ambrosio, Rv. 640609, ha affermato che la citata norma non ha carattere imperativo, per cui la P.A. può discrezionalmente prevedere, nel bando di gara o nel verbale suddetto, di rinviare ad un momento successivo l'instaurazione del vincolo negoziale. Sulla base di tale presupposto, la Corte ha quindi ritenuto che, qualora il bando di una gara pubblica per la ricerca di un complesso immobiliare ne preveda, altresì, l'acquisto attraverso una locazione finanziaria erogata da soggetto da individuarsi con un'ulteriore apposita gara pubblica, l'aggiudicazione in favore del fornitore dell'immobile non produce gli effetti della conclusione di un accordo negoziale, sicché le controversie afferenti la procedura di selezione del concedente della locazione finanziaria spettano alla cognizione del giudice amministrativo perchè relative ad una fase antecedente all'esaurimento della procedura amministrativa.
In relazione al contratto di appalto di opera pubblica, Sez. 1, n. 02307/2016, Sambito, Rv. 638477, ha avuto modo di precisare che un tale contratto può ritenersi ultimato solo a seguito del collaudo, il quale rappresenta l'unico atto attraverso il quale la P.A. può verificare se l'obbligazione dell'appaltatore sia stata regolarmente eseguita ed è indispensabile ai fini dell'accettazione dell'opera da parte della stazione appaltante, mentre resta estraneo, e non rileva, il momento della consegna, come disciplinato, in generale, dagli artt. 1665 e 1667 c.c. (In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata perchè aveva valorizzato, quale prova del completamento di un contratto di appalto di opera pubblica, la mancanza di specifiche eccezioni della P.A. circa la sua regolare esecuzione, così evocando una sorta di accettazione tacita, e l'emissione della fattura, benchè il collaudo non fosse stato effettuato).
Una importante precisazione in tema di integrazione del contratto in virtù di norme sopravvenute alla sua conclusione è offerta da Sez. 1, n. 17150/2016, Genovese, Rv. 641048, con specifico riguardo alle norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell'usura (introdotte con l'art. 4 della l. 7 marzo 1996, n. 108): tali disposizioni, chiarisce la sentenza citata, pur non essendo retroattive, comportano l'inefficacia ex nunc delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in vigore, e ciò sulla base del semplice rilievo, operabile anche d'ufficio dal giudice, che il rapporto giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito.
Il tema della responsabilità precontrattuale è affrontato in termini di assoluta novità da Sez. 1, n. 14188/2016, Valitutti, Rv. 640485, la quale è giunta a sovvertire l'orientamento, assolutamente maggioritario sia in dottrina che in giurisprudenza, che fino a tale pronuncia aveva ricondotto la responsabilità per culpa in contraendo nell'alveo della responsabilità extracontrattuale, configurandola quale estrinsecazione del più generale principio del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c.
La vicenda esaminata dalla Corte concerneva un contratto di appalto stipulato con la P.A., in relazione al quale non era però intervenuta l'approvazione ministeriale ai sensi dell'art. 19 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440: la S.C., premesso che il perfezionamento del vincolo contrattuale doveva ritenersi subordinato a detta approvazione ministeriale, non essendo all'uopo sufficiente né la mera aggiudicazione né la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica, affermava che in tale situazione l'eventuale responsabilità della P.A. poteva essere configurata solo come responsabilità precontrattuale. In ordine poi alla riconducibilità di tale tipo di responsabilità nell'ambito dell'illecito o del contratto, la sentenza, all'esito di una attenta analisi storica e giurisprudenziale, rileva che elemento qualificante della culpa in contraendo, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede, la quale, sulla base dell'affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti; da tale rilievo ne trae la conclusione che tale responsabilità, "in quanto ha la sua derivazione nella violazione di specifici obblighi (buona fede, protezione, informazione) precedenti quelli che deriveranno dal contratto, se ed allorquando verrà concluso, e non nel generico dovere del neminem laedere, non può che essere qualificata come responsabilità contrattuale". Una responsabilità, specifica la Corte, da contatto sociale "qualificato", ossia connotato da uno scopo che le parti intendono perseguire, nonchè tale da instaurare un rapporto caratterizzato da obblighi preesistenti alla lesione, ancorchè non si tratti di obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì di obblighi di protezione correlati all'obbligo di buona fede giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.
Tale sentenza, come evidenziato nella motivazione della stessa, sviluppa e porta a compimento principi già espressi dalla Corte di cassazione non solo con riferimento ad altre fattispecie, ma anche nella specifica questione della configurabilità della responsabilità precontrattuale come responsabilità da contatto sociale qualificato.
Ulteriori interessanti problematiche esaminate nel corso del 2016 nell'ambito della responsabilità contrattuale hanno riguardato il caso in cui alla stipulazione del contratto preliminare non segua la conclusione del definitivo, nonché l'ipotesi di una configurabilità di tale responsabilità anche nel caso in cui alle trattative abbia fatto seguito la valida conclusione del contratto.
In particolare, Sez. 2, n. 07545/2016, Scarpa, Rv. 639457, ha affermato che, ove alla stipulazione del contratto preliminare non segua la conclusione del definitivo, la parte non inadempiente può agire nei confronti di quella inadempiente facendone valere esclusivamente la responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale e non anche, in via alternativa, la responsabilità precontrattuale da supposta malafede durante le trattative, giacché queste ultime, cristallizzate con la stipula del preliminare, perdono ogni autonoma rilevanza, convergendo nella nuova struttura contrattuale che rappresenta la sola fonte di responsabilità risarcitoria.
A sua volta Sez. 1, n. 05762/2016, Lamorgese, Rv. 639093, ha tuttavia precisato che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c., assume rilievo in caso non solo di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche di contratto validamente concluso quando, all'esito di un accertamento di fatto rimesso al giudice di merito, alla parte sia imputabile l'omissione, nel corso delle trattative, di informazioni rilevanti le quali avrebbero altrimenti, con un giudizio probabilistico, indotto ad una diversa conformazione del contratto stesso.
In materia di condizioni generali di contratto, Sez. 2, n. 07403/2016, Criscuolo, Rv. 639511, ha avuto modo di chiarire che, qualora le parti contraenti richiamino, ai fini dell'integrazione del rapporto negoziale, uno schema contrattuale predisposto da una di loro in altra sede (nella specie, un disciplinare-tipo adottato dalla Regione con decreto assessoriale) non è configurabile un'ipotesi di contratto concluso mediante moduli o formulari, assumendo la disciplina richiamata (nella specie, una clausola compromissoria, peraltro integralmente riprodotta dai contraenti) per il tramite di relatio perfecta il valore di clausola concordata, sicché resta sottratta all'esigenza dell'approvazione specifica per iscritto di cui all'art. 1341 c.c.
Con riferimento contratto di assicurazione della responsabilità civile, Sez. U, n. 09140/2016, Amendola A., Rv. 639703 si è occupata della clausola che subordina l'operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (cd. clausola claims made mista o impura): la sentenza citata ha escluso la vessatorietà di siffatta clausola, precisando però che, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero - ove applicabile la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; la relativa valutazione va effettuata dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando congruamente motivata.
La produzione giurisprudenziale del 2016, con riferimento all'oggetto contrattuale, fornisce importanti chiarimenti in relazione a specifiche tipologie negoziali, segnatamente con riferimento al contratto di lavoro a progetto, al contratto di lavoro pubblico, al preliminare di vendita di immobile ed al contratto di appalto.
Riguardo al contratto di lavoro a progetto, disciplinato dall'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003, Sez. L, n. 17636/2016, Balestrieri, Rv. 640817, osserva che tale negozio prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione; conseguentemente, tale sentenza esclude che il progetto concordato possa consistere nella mera riproposizione dell'oggetto sociale della committente, e dunque nella previsione di prestazioni, a carico del lavoratore, coincidenti con l'ordinaria attività aziendale.
Sez. 6-L, n. 16094/2016, Marotta, Rv. 640722, si è invece occupata del lavoratore pubblico, precisando che quest'ultimo ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive purché i compiti, espletati in concreto, integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; la decisione ha quindi chiarito che "mansione ulteriore" è quella che esuli dal profilo professionale salvo che, in presenza di un inquadramento che comporti una pluralità di compiti nell'ambito del normale orario, il datore di lavoro non abbia esercitato il proprio potere di determinare l'oggetto del contratto assegnando prevalenza all'uno o all'altro compito riconducibile alla qualifica di assunzione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di appello, che aveva escluso il diritto a compenso per straordinario di alcuni dipendenti di ente locale, inquadrati nel profilo di operatore dei servizi socio-educativi, cat. B, del c.c.n.l. 31 marzo 1999, ritenendo che le attività di pulizia rientrassero nel loro mansionario).
In relazione ad un preliminare di vendita di immobile, Sez. 2, n. 11237/2016, Orilia, Rv. 640046, ha ritenuto che il requisito della determinatezza o determinabilità dell'oggetto non postula la specificazione dei dati catastali, trattandosi di indicazione rilevante ai fini della trascrizione, ma non indispensabile per la sicura identificazione del bene, evincibile anche da altri dati.
Una ipotesi di nullità per illiceità dell'oggetto, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., è stata individuata da Sez. 1, n. 07961/2016, Sambito, Rv. 639609, nel contratto di appalto per la costruzione di un'opera senza la concessione edilizia, con la conseguenza che un simile contratto non è suscettibile di convalida, stante il disposto di cui all'art. 1423 c.c., né la sua nullità è sanabile retroattivamente in virtù di condono edilizio, onde l'appaltatore non può pretendere, in forza di quel contratto, il corrispettivo pattuito.
In tema di causa del contratto, con riferimento alle ipotesi di collegamento negoziale, alcune utili puntualizzazioni si possono leggere nella pronuncia di Sez. L, n. 18585/2016, Boghetich, Rv. 641188, laddove precisa che il collegamento negoziale non dà luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo negozio ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, ancorché ciascuno sia finalizzato ad un'unica regolamentazione dei reciproci interessi, sicché il vincolo di reciproca dipendenza non esclude che ciascuno di essi si caratterizzi in funzione di una propria causa e conservi una distinta individualità giuridica, spettando i relativi accertamenti sulla natura, entità, modalità e conseguenze del collegamento negoziale al giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Con riguardo al requisito della forma scritta ad substantiam nei contratti, Sez. 1, n. 05919/2016, Di Marzio M., Rv. 639060, ha ritenuto la sussistenza di tale requisito anche se le sottoscrizioni delle parti siano contenute in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile tra questi ultimi, così da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell'accordo.
Sez. 1, n. 03480/2016, Dogliotti, Rv. 638842 si è invece pronunciata sul requisito della forma scritta prevista dall'art. 1284, ultimo comma, c.c. per la determinazione degli interessi extralegali, precisando che tale disposizione non postula necessariamente una puntuale indicazione in cifre del tasso stabilito, ben potendo tale requisito essere soddisfatto attraverso il richiamo, per iscritto, a criteri prestabiliti e ad elementi estrinseci al documento negoziale, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione, anche unilaterale, del relativo saggio, la quale risulti capace di venire assicurata con certezza al di fuori di ogni margine di discrezionalità rimessa all'arbitrio del creditore, sulla base di una disciplina legata ad un parametro centralizzato, fissato su scala nazionale e vincolante, come il tasso unico di sconto o il tasso di cambio di una valuta.
Con riferimento invece alla compravendita di un bene immobile, Sez. 2, n. 07055/2016, Matera, Rv. 639659, ha avuto occasione di affermare che non può ritenersi idoneo un negozio di mero accertamento, il quale può eliminare incertezze sulla situazione giuridica, ma non sostituire il titolo costitutivo, essendo necessario, invece, un contratto con forma scritta dal quale risulti la volontà attuale delle parti di determinare l'effetto traslativo, sicché è irrilevante che una delle parti, anche in forma scritta, faccia riferimento ad un precedente rapporto qualora questo non sia documentato.
Si segnalano inoltre alcune pronunce sul requisito della forma scritta nei contratti di intermediazione finanziaria.
In primo luogo Sez. 1, n. 00612/2016, Scaldaferri, Rv. 638276, ha valutato la portata dell'art. 60 del regolamento CONSOB n. 11522/98, che impone alla banca intermediaria di registrare su nastro magnetico, o altro supporto equivalente, gli ordini inerenti alle negoziazioni in valori mobiliari impartiti telefonicamente dal cliente: tale registrazione, afferma la citata sentenza, costituisce uno strumento atto a garantire agli intermediari, mediante l'oggettivo ed immediato riscontro della volontà manifestata dal cliente, l'esonero da ogni responsabilità quanto all'operazione da compiere, ma non impone, in assenza di specifica previsione, un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti, restando inapplicabile la preclusione di cui all'art. 2725 c.c.
Inoltre, Sez. 1, n. 03950/2016, Lamorgese, Rv. 638817, ha chiarito che, l'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, laddove impone la forma scritta, a pena di nullità, per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce ai contratti quadro, e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengano poi impartiti dal cliente all'intermediario, la cui validità non è, invece, soggetta a requisiti formali, salvo che lo stesso contratto quadro li preveda anche per quelli; in quest'ultimo caso, infatti, il principio di cui all'art. 1352 c.c., secondo cui la forma convenuta dalle parti per la futura stipulazione di un contratto si presume pattuita ad substantiam, è estensibile, giusta il richiamo operato dall'art. 1324 c.c., agli atti che seguono a quella stipulazione, come nell'ipotesi degli ordini suddetti.
Conclude la rassegna delle più rilevanti decisioni afferenti la forma del contratto di intermediazione finanziaria la pronuncia di Sez. 1, n. 08395/2016, Acierno, Rv. 639486, la quale ha ritenuto che, nel contratto di intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall'investitore non soddisfa l'obbligo della forma scritta ad substantiam imposto, a pena di nullità, dall'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998 e, trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall'investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto a mezzo dei quali è stato data esecuzione al contratto viziato.
Con riferimento alla forma dei contratti stipulati dalle ASL, di particolare interesse è la decisione di Sez. 3, n. 24640/2016, Vivaldi, Rv. 642329, la quale ha precisato che la natura di ente pubblico economico acquisita dall'Azienda sanitaria ai sensi dell'art. 3, comma 1-bis del d.lgs. n. 502 del 1992, pur consentendo alla stessa di operare mediante il ricorso a strumenti di diritto privato per il raggiungimento delle finalità istituzionali alle quali è preposta, non esclude la sua soggezione alle disposizioni del d.lgs n. 163 del 2006, sia in tema di scelta del contraente che di forma del contratto, in considerazione della sua qualità di "organismo di diritto pubblico" e "amministrazione aggiudicatrice". Infine, meritano attenzione due pronunce che hanno escluso la necessità della forma scritta, rispettivamente, per il contratto di appalto e per l'autorizzazione di cui all'art. 1956 c.c. in tema di liberazione del fideiussore.
In particolare, si ricorda Sez. 1, n. 16530/2016, Di Marzio M., Rv. 641027, secondo la quale la stipulazione del contratto d'appalto non richiede la forma scritta ad substantiam, né ad probationem, potendo lo stesso essere concluso anche per facta concludentia; da tale premessa, la pronuncia ha tratto la conseguenza che, ove venga contestata l'effettiva esecuzione delle prestazioni per il cui corrispettivo la parte committente, che se ne assuma creditrice, chieda l'ammissione al passivo del fallimento dell'appaltatore, ben possono assumere rilevanza la prova testimoniale e il verbale "informale" di ricognizione delle opere incompiute dal fallito, se non specificamente contestato dalla curatela, neppure quanto alla sua opponibilità per carenza di data certa.
Altra ipotesi peculiare è stata esaminata da Sez. 1, n. 04112/2016, Terrusi, Rv. 638860, in tema di liberazione del fideiussione, pervenendo ad escludere che l'autorizzazione di cui all'art. 1956 c.c. richieda la forma scritta ad substantiam, non essendo tale autorizzazione configurabile come accordo a latere del contratto bancario cui la garanzia accede; conseguentemente, prosegue la sentenza, la stessa può essere ritenuta implicitamente e tacitamente concessa dal garante, in applicazione del principio di buona fede nell'esecuzione dei contratti, laddove emerga perfetta conoscenza, da parte sua, della situazione patrimoniale del debitore garantito. (Nella specie, la S.C. ha confermato le decisione impugnata, che aveva considerato irrilevante la mancata richiesta della suddetta autorizzazione da parte della banca, atteso che la conoscenza delle condizioni economiche doveva ritenersi comune a debitore e fideiusssore, ovvero presunta in ragione del vincolo coniugale tra essi esistente e dello stato di loro convivenza).
In tema di contratto preliminare, Sez. 1, n. 07584/2016, Nappi, Rv. 639308, ha puntualizzato che la consegna dell'immobile, effettuata prima della stipula del definitivo, non determina la decorrenza del termine di decadenza per opporre i vizi noti, né comunque di quello di prescrizione, presupponendo l'onere della tempestiva denuncia l'avvenuto trasferimento del diritto, sicché il promissario acquirente, anticipatamente immesso nella disponibilità materiale del bene, risultato successivamente affetto da vizi, può chiedere l'adempimento in forma specifica del preliminare, ai sensi dell'art. 2932 c.c., e contemporaneamente agire con l'azione quanti minoris per la diminuzione del prezzo, senza che gli si possa opporre la decadenza o la prescrizione.
L'esperibililità dell'esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. nei confronti degli eredi del promittente venditore, deceduto prima della stipula del definitivo, è stata invece esclusa da Sez. 2, n. 15906/2016, Picaroni, Rv 640575, nel peculiare caso di un contratto preliminare avente ad oggetto la vendita della nuda proprietà, in quanto per gli eredi medesimi risulta venuta meno l'utilità rappresentata dalla riserva di usufrutto.
Inoltre, Sez. 1, n. 12462/2016, Genovese, Rv. 639960, ha esaminato l'ipotesi di un contratto preliminare avente ad oggetto un bene da acquistarsi in comunione, ritenendo che a fronte di un tale accordo si deve presumere, salvo che risulti il contrario, che le parti lo abbiano considerato un unicum inscindibile; da tale premessa, la citata decisione ha tratto l'importante conseguenza secondo la quale la scelta del curatore del fallimento del promissario coacquirente di scioglimento dal rapporto ex art. 72 l.fall. determina la caducazione complessiva del vincolo contrattuale e preclude al promittente venditore la possibilità di esercitare l'azione di esecuzione in forma specifica nei confronti degli altri.
Con riguardo alla prestazione dovuta dal promissario acquirente che, a norma dell'art 2932 c.c., chieda l'esecuzione specifica di un contratto preliminare di vendita, Sez. 2, n. 10605/2016, Scalisi, Rv. 639953, ha evidenziato che tale parte contrattuale è tenuta ad eseguire la prestazione a suo carico o a farne offerta nei modi di legge se la prestazione medesima sia già esigibile al momento della domanda giudiziale, mentre non è tenuta a pagare il prezzo quando, in virtù delle obbligazioni nascenti dal preliminare, il pagamento dello stesso (o della parte residua) risulti dovuto all'atto della stipulazione del contratto definitivo: in quest'ultima evenienza, prosegue la citata sentenza, solo con il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica sorge l'obbligazione, e l'eventuale successivo mancato saldo del prezzo, al quale è subordinato l'effetto traslativo della proprietà, rende applicabile l'istituto della risoluzione per inadempimento ma non la condizione risolutiva ex art. 1353 c.c.
Infine, Sez. 1, n. 09994/2016, Di Virgilio, Rv. 639800, ha evidenziato che, nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di immobili futuri, la forma scritta è necessaria solo per la stipulazione del contratto ad effetti obbligatori e non anche per l'individuazione del bene, la cui proprietà è trasferita non appena lo stesso viene ad esistenza. (In applicazione di tale principio la Corte ha confermato la decisione impugnata, che, con riguardo ad un contratto di permuta di cosa futura, aveva trasferito agli acquirenti beni diversi da quelli scelti nel progetto originario, sebbene con caratteristiche ad essi analoghe).
Con riferimento al contratto di agenzia, di particolare interesse è la qualificazione, offerta da Sez. L, n. 17770/2016, Spena, Rv. 640999, della clausola contrattuale che prevede la facoltà della società mandante di tenere l'agente vincolato al divieto di concorrenza nei suoi confronti ed il correlato obbligo della medesima società di corrispondere un corrispettivo in caso di esercizio di tale facoltà: la pronuncia citata precisa che una siffatta clausola non integra una condizione meramente potestativa, in quanto l'efficacia dell'obbligazione non dipende dalla volontà dello stesso debitore, ossia dell'agente sul quale grava l'obbligo di non-concorrenza, bensì da quella della parte creditrice, ovvero della casa mandante, sicché tale patto non rientra nella previsione di nullità di cui all'art. 1355 c.c., ma va qualificato come patto di opzione ex art. 1331 c.c.
Al tema dell'interpretazione del contratto sono anzitutto dedicate alcune pronunzie relative alle regole che governano l'applicazione dei criteri ermeneutici.
Fra queste si segnala Sez. 3, n. 14432/2016, Vincenti, Rv. 640528, ove si afferma che tali criteri, pur in presenza un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, non riconoscono una preminenza assoluta al dato testuale del contratto, che può non essere in sé decisivo ai fini della ricostruzione dell'accordo, poiché il significato delle dichiarazioni negoziali è comunque l'esito di un processo interpretativo che deve considerare tutti gli elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore.
Una significativa applicazione di tale impostazione è rinvenibile in Sez. 3, n. 00668/2016, Rossetti, Rv. 638509, in materia di assicurazione, ove si afferma che il giudice non può attribuire a clausole polisenso uno specifico significato senza prima ricorrere agli altri criteri ermeneutici previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., e, in particolare, a quello dell'interpretazione contro il predisponente, di cui all'art. 1370 c.c..
Ed ancora - e sempre con riferimento al medesimo tipo contrattuale - Sez. 3, n. 03275/2016, Tatangelo, Rv. 638886, ha ritenuto che una polizza stipulata da un ente a copertura della responsabilità civile per danni dei quali lo stipulante non può rispondere per legge impone al giudice del merito di utilizzare i fondamentali canoni ermeneutici tenendo conto, nel dubbio, del criterio sussidiario di cui all'art. 1367 c.c. (cd. interpretazione utile).
Con riferimento al criterio di interpretazione secondo buona fede, di sicuro interesse è l'applicazione che se ne rinviene in Sez. 1, n. 17291/2016, Genovese, Rv. 640946, in tema di recesso della banca da un rapporto di apertura di credito in cui non sia stato superato il limite dell'affidamento concesso, benché pattiziamente previsto anche in difetto di giusta causa; tale recesso, infatti, deve considerarsi illegittimo in applicazione del richiamato criterio ermeneutico ove in concreto abbia assunto connotati imprevisti ed arbitrari, così contrastando con la ragionevole aspettativa di chi abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto.
Di particolare pregio, infine, è Sez. 3, n. 23701/2016, Scarano, Rv. 642983, secondo cui fra i criteri legali di interpretazione soggettiva quello cd. di interpretazione funzionale del contratto di cui all'art. 1369 c.c. consente di accertare il significato dell'accordo in coerenza con la relativa ragione pratica (o "causa concreta") dell'affare.
L'applicazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto ha ispirato due pronunzie di rilievo in tema di fideiussione.
Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640915, ha ritenuto contrario a tale principio il comportamento del creditore che, in presenza di una fideiussione per obbligazioni future, eroghi in modo persistente finanziamenti al debitore principale senza chiedere al garante la necessaria autorizzazione, pur in presenza di un peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie del debitore garantito.
Sez. 1, n. 02902/2016, Didone, Rv. 638550, ha invece ritenuto inapplicabile il principio al socio che abbia prestato fideiussione per ogni obbligazione futura di una società a responsabilità limitata, esonerando l'istituto bancario creditore dall'osservanza dell'onere impostogli dall'art. 1956 c.c., e chieda poi di ottenere la propria liberazione dolendosi del fatto che quest'ultimo abbia concesso ulteriore credito alla società benché da lui stesso avvertito della sopravvenuta inaffidabilità di questa in tale situazione, infatti, per un verso non è ipotizzabile alcun obbligo del creditore di informarsi a sua volta e di rendere edotto il fideiussore, già pienamente informato, delle peggiorate condizioni economiche del debitore e, per altro verso, la qualità di socio del fideiussore consente a quest'ultimo di attivarsi per impedire che continui la negativa gestione della società o per non aggravare ulteriormente i rischi assunti.
D'interesse è anche Sez. 3, n. 11914/2016, Armano, Rv. 640534, in tema di contratti conclusi dal consumatore, che ha fondato sul dovere di eseguire il contratto secondo buona fede l'obbligo dell'impresa esercente servizi di telefonia di comunicare tempestivamente al proprio cliente l'impossibilità di eseguire la prestazione e di adottare gli opportuni provvedimenti al fine del contenimento dei danni.
Un profilo conseguente alla relazione di strumentalità fra clausola penale e danno da inadempimento contrattuale - per il caso in cui ne sia previsto il risarcimento - è quello che secondo Sez. 1, n. 12956/2016, Di Virgilio, Rv. 640130, conduce a qualificare la prima come liquidazione anticipata del danno, destinata a rimanere assorbita nella liquidazione complessiva dei danni ulteriori, la cui prova compete alla parte non inadempiente.
In relazione alla caparra confirmatoria, invece, nel ribadirne la funzione di liquidazione convenzionale del danno da inadempimento in favore della parte che intenda esercitare il potere di recesso conferitole ex lege, Sez. 2, n. 08417/2016, Orilia, Rv. 639546, ha affermato che quest'ultima è legittimata a ritenere la caparra ricevuta ovvero ad esigere il doppio di quella versata, ma se preferisce agire per la risoluzione o l'esecuzione del contratto essa deve dare prova del danno nell'an e nel quantum.
In tema di rappresentanza, degna di particolare rilievo è Sez. 1, n. 04113/2016, Terrusi, Rv. 638864, che affronta il tema della cd. rappresentanza tollerata; secondo la Corte tale fattispecie, caratterizzata dal fatto che il rappresentato, pur consapevole dell'attività del falso rappresentante, non interviene per farne cessare l'ingerenza, configura un'ipotesi di rappresentanza apparente, donde l'efficacia degli atti compiuti dal rappresentante nei confronti del rappresentato che ha dato causa alla situazione di apparente legittimazione in cui il terzo ha confidato senza colpa.
Circa gli effetti del contratto concluso dal rappresentante dopo la revoca della procura, Sez. L, n. 04099/2016, Patti, Rv. 639206, ha precisato che in tal caso il rappresentato non diviene terzo rispetto al contratto stipulato e non può quindi riversare sulle altre parti l'onere di provare che il contratto si è perfezionato nella data indicata e prima della suddetta revoca, essendo invece tenuto a fornire la prova della non veridicità della data apposta rimanendo - in difetto - vincolato dalla predetta indicazione.
In punto alla forma della procura, e sullo specifico aspetto del conferimento di procura all'amministratore condominiale in regime anteriore all'entrata in vigore della legge 11 dicembre 2012, n. 220, Sez. 2, n. 02242/2016, Migliucci, Rv. 638829, ha precisato che - fatta salva la prescrizione di forme particolari per il contratto da concludere - questa può essere verbale o tacita e può risultare, indipendentemente dalla formale investitura assembleare e dall'annotazione nello speciale registro di cui all'art. 1129 c.c., dal comportamento concludente dei condomini che abbiano considerato l'amministratore tale a tutti gli effetti, rivolgendosi a lui abitualmente in detta veste e senza metterne in discussione i poteri di rappresentanza.
Infine, e con riferimento allo specifico tema del falsus procurator, va anzitutto segnalata Sez. 2, n. 10600/2016, Cosentino, Rv. 639951, che - richiamando un orientamento ormai risalente - ha affermato che l'azione per la declaratoria di inefficacia del contratto nei confronti del preteso rappresentato non è soggetta alla prescrizione quinquennale prevista dall'art. 1442 c.c., che colpisce solo l'azione di annullamento, ed è invece imprescrittibile.
Su un peculiare profilo di efficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri si segnala poi Sez. 2, n. 04945/2016, Giusti, Rv. 639599, secondo cui l'acquisto di un bene da quest'ultimo determina il possesso - e non la mera detenzione qualificata - poiché il negozio, sebbene inefficace, è comunque volto a trasferire la proprietà del bene.
Esso è pertanto idoneo a far ritenere sussistente, in capo all'accipiens, l'animus rem sibi habendi ai fini dell'usucapione ordinaria, ma non anche per l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., che è possibile solo se l'inidoneità del titolo derivi dall'avere alienante disposto di un immobile altrui e non anche dalla sua invalidità od inefficacia.
Da ultimo, affronta il tema della ratifica Sez. 1, n. 02403/2016, Acierno, Rv. 638587, rilevando che essa sana sempre con efficacia retroattiva il difetto di potere rappresentativo del falsus procurator e che tale regime giuridico, in mancanza di clausole o condizioni che ne conformino diversamente l'efficacia, non è modificabile in via interpretativa.
Il meccanismo del contratto a favore di terzi è richiamato da Sez. 2, n. 09320/2016, Scarpa, Rv. 639919, per il caso in cui un soggetto interessato a stipulare un mutuo ipotecario con una banca conferisca un incarico (nella specie: a notaio) di effettuare le visure del bene oggetto di ipoteca e redigere la relativa relazione; l'incaricato, infatti, assume in tal caso un obbligo nei confronti non solo del mutuatario, ma anche della banca mutuante quale terzo ex art. 1411 c.c..
Allo stesso schema Sez. L, n. 04920/2016, Manna A., Rv. 639116, ha poi ricondotto il cd. rendimento di polizza, liquidato al dipendente all'atto della cessazione del rapporto di lavoro in virtù del contratto di assicurazione stipulato ex art. 4 del r.d.l. 8 gennaio 1942, n. 5, rilevando la diversità del relativo credito da quello vantato a titolo di TFR, e quindi la non estensibilità dell'eventuale giudicato formatosi su quest'ultimo.
Diverse pronunzie hanno riguardato il tema della simulazione, affrontandone, in particolare, i risvolti sul piano processuale.
In merito all'opponibilità della simulazione ai terzi, Sez. 2, n. 16080/2016, Scarpa, Rv. 640680, ha ribadito che ad integrare il requisito della mala fede per opporre la simulazione al terzo acquirente non è sufficiente la relativa consapevolezza da parte del terzo, occorrendo anche che costui abbia proceduto all'acquisto per effetto della stessa, accordandosi con il titolare apparente al fine di favorire il simulato alienante e consolidare, rispetto agli altri terzi, lo scopo pratico perseguito con la simulazione, ovvero abbia voluto personalmente profittare di questa in danno del simulato alienante.
Circa la prova della simulazione, due pronunzie hanno affrontato lo specifico tema dell'ammissibilità della prova per testi.
La prima, Sez. 1, n. 11467/2016, Lamorgese, Rv. 639842, ha stabilito che il principio di prova scritta che la consente ex art. 2724, n. 1, c.c. dev'essere diverso dalla scrittura le cui risultanze si intendono sovvertire e deve contenere un qualche riferimento al patto che si deduce in contrasto con il documento; esso non può dunque desumersi dallo stesso atto impugnato per simulazione, non ricorrendo alcun riferimento o collegamento logico, in contrasto con il documento, tra il negozio asseritamente simulato e quello sottostante.
La seconda - Sez. 1. n. 13857/2016, Lamorgese, Rv. 640447 - ha invece precisato che le limitazioni alla prova testimoniale nei rapporti tra le parti contraenti non si estendono all'interrogatorio formale, non essendo prevista per la confessione una disposizione il cui contenuto corrisponda all'art. 1417, comma 2, c.c. ed attraverso il cui espletamento può essere utilmente acquisita sia la prova piena della simulazione, in caso di confessione piena e completa, sia un principio di prova, se le risposte sono tali da rendere verosimile la simulazione, sì da rendere ammissibile la prova testimoniale, a norma dell'art. 2724, comma, 1, n. 1, c.c..
In tema di prescrizione dell'azione di simulazione, infine, si segnala anzitutto Sez. 2, n. 09401/2016, Scalisi, Rv. 639923, che ha ribadito l'imprescrittibilità ai sensi dell'art. 1422 c.c. dell'azione di simulazione, sia assoluta che relativa, in quanto diretta ad accertare la nullità del negozio apparente perché, in ogni caso, privo di causa.
Tale principio deve ritenersi applicabile anche all'ipotesi di interposizione fittizia di persona, quando la relativa domanda sia diretta ad identificare il vero contraente celato dall'interposto e non a far riconoscere gli elementi costitutivi di un diverso negozio, poiché si tratta di azione con carattere dichiarativo.
Sez. 2, n. 03932/2016, Criscuolo, Rv. 638875, individua poi il dies a quo del termine di prescrizione dell'azione di simulazione del trasferimento di beni a titolo oneroso ai fini del successivo assoggettamento a collazione ereditaria. Detto termine, si afferma in sentenza, varia in rapporto all'oggetto della domanda: se questa è proposta dall'erede quale legittimario che fa valere il proprio diritto alla riduzione per lesione della quota di riserva, esso decorre dall'apertura della successione; mentre se l'azione è esperita al solo scopo di acquisire il bene oggetto di donazione alla massa ereditaria per determinare le quote dei condividenti e senza addurre alcuna lesione di legittima, il termine di prescrizione decorre dal compimento dell'atto che si assume simulato, subentrando in tal caso l'erede, anche ai fini delle limitazioni probatorie ex art. 1417 c.c., nella medesima posizione del de cuius.
Sulla nullità del contratto si segnala una particolare attenzione della giurisprudenza di legittimità al tema del rilievo officioso da parte del giudice.
Richiamando il principio - ribadito, fra le altre, da Sez. 1, n. 15408/2016, Bisogni, Rv. 640705 - secondo cui il giudice davanti al quale sia proposta una domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l'esistenza di una causa di quest'ultima diversa da quella allegata dall'istante, essendo tale domanda pertinente ad un diritto autodeterminato e perciò individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio, Sez. 1, n. 08795/2016, Bernabai, Rv. 639560, ne ha data coerente applicazione, nel sottosistema societario, alle impugnazioni delle deliberazioni assembleari.
La Corte, in particolare, ha affermato che il rilievo officioso della relativa nullità costituisce espressione di un potere volto alla tutela di interessi generali dell'ordinamento, afferenti a valori di rango fondamentale per l'organizzazione sociale, che trascendono gli interessi particolari del singolo.
Sez. 1, n. 02910/2016, Terrusi, Rv. 638554 ha consentito il rilievo officioso della nullità parziale del contratto da parte del giudice investito dell'azione di nullità integrale, e ciò anche in sede di gravame, fatta salva l'ipotesi in cui le parti, all'esito del rigetto della domanda di nullità totale in primo grado, abbiano omesso indicazioni al riguardo, con conseguente formazione del giudicato preclusivo anche del rilievo di nullità parziale.
Ancora, Sez. 6-3, n. 12253/2016, Cirillo F.M., Rv. 640267, ha ritenuto che il giudice possa rilevare d'ufficio la nullità di un contratto del quale era stata proposta domanda di risoluzione (la fattispecie concerneva un contratto di locazione stipulato dalla P.A. in forma verbale); Sez. 3, n. 12996/2016, Vincenti, Rv. 640305, infine, ha affermato che il rilievo officioso della nullità non è consentito solo nelle azioni di impugnativa negoziale, ma investe anche la domanda di risarcimento danni per inadempimento contrattuale che sia stata proposta, in via autonoma, da quella di impugnazione del contratto.
Affronta il tema della cd. nullità virtuale, con specifico riferimento al divieto di pattuire interessi usurari di cui all'art. 1815, comma 2, c.c., Sez. 1, n. 12965/2016, Ferro, Rv. 640109, che estende la portata del divieto a tutti i contratti che prevedono la messa a disposizione di denaro dietro remunerazione, compresa l'apertura di credito in conto corrente, osservando che la relativa clausola deve ritenersi affetta da nullità parziale per contrarietà a norme imperative.
Sullo specifico tema riveste poi particolare interesse Sez. 2, n. 03926/2016, Scarpa, Rv. 638874, che ha ritenuto la nullità del contratto di affidamento di incarico professionale ad uno studio associato organizzato in forma societaria per violazione del divieto di costituzione di società aventi ad oggetto l'espletamento di professioni intellettuali protette, sancito dall'art. 2, della l. 23 novembre 1939, n. 1815, applicabile ratione temporis.
Tale nullità, secondo la Corte, non è sanata dalla successiva abrogazione del menzionato divieto, disposta dall'art. 24 della l. 21 aprile 1997, n. 266, difettando una previsione che determini la retroattività di tale disposizione; l'invalidità del contratto, dunque, va riferita alle norme vigenti al momento della sua conclusione.
Con riguardo alla nullità parziale, Sez. 1, n. 02314/2016, Lamorgese, Rv. 638558, ha affermato che essa si estende all'intero contratto ove l'interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha esistenza autonoma, nè persegue un risultato distinto, poichè i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità.
Sul medesimo tema, un'interessante applicazione nella disciplina della vendita con patto di riscatto è rinvenibile in Sez. 2, n. 06144/2016, Picaroni, Rv. 639397, ove è affermato che la nullità, per l'eccedenza, della clausola con cui le parti subordinano l'esercizio del riscatto al pagamento di un prezzo superiore a quello fissato per la vendita colpisce anche la pattuizione relativa agli interessi sul prezzo, quand'anche a titolo compensativo di utilità che il venditore abbia potuto trarre in ragione di particolari accordi intervenuti con l'acquirente, giacché tale utilità deve ritenersi ragionevolmente scontata nel prezzo originario fissato dalle parti.
In relazione ai vizi della volontà negoziale, si segnalano due pronunzie che affrontano la problematica del consenso viziato da errore.
Per l'ipotesi in cui l'azione di annullamento per errore sia esercitata dagli eredi del contraente, Sez. 2, n. 18248/2016, Criscuolo, Rv. 641095, ha affermato che il relativo termine di prescrizione decorre dalla scoperta, da parte di costoro, del vizio inficiante la volontà del proprio dante causa ove l'errore si sia manifestato successivamente alla morte del de cuius, rimastone ignaro.
Traccia invece il confine fra errore invalidante ed errore di calcolo, idoneo a provocare la rettifica del contratto ai sensi dell'art. 1430 c.c., Sez. 3, n. 03178/2016, Sestini, Rv. 638927, che rileva come quest'ultimo sussista quando in operazioni aritmetiche, posti come chiari e sicuri i termini da computare ed il criterio matematico da seguire, si commette un errore materiale di cifra che si ripercuote sul risultato finale ed è rilevabile ictu oculi, mentre non è tale l'errore che attiene alla stessa individuazione di uno dei termini da computare.
Un interessante rilievo attinente al contratto concluso dall'incapace di intendere e volere si coglie in quanto affermato da Sez. 1, n. 10329/2016, Acierno, Rv. 639668, secondo cui il giudicato formatosi sull'insussistenza dell'incapacità richiesta per l'annullamento contrattuale ex art. 428 c.c. è inopponibile nel giudizio volto a far dichiarare la nullità del medesimo contratto per circonvenzione di incapace, occorrendo nel primo caso l'accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità ed essendo invece sufficiente, ai fini dell'art. 643 c.p., che l'autore dell'atto versi in una situazione soggettiva di fragilità psichica derivante dall'età, dall'insorgenza o dall'aggravamento di una patologia neurologica o psichiatrica anche connessa a tali fattori o dovuta ad anomale dinamiche relazionali che consenta all'altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, critica e giudizio.
Con riferimento alla domanda di risoluzione, Sez. 2. n. 12466/2016, Abete, Rv. 640087, ha stabilito che ove si accerti la scarsa importanza dell'inadempimento, il rigetto della stessa non comporta necessariamente quello della contestuale domanda di risarcimento, giacché anche un inadempimento inidoneo ai fini risolutori può aver cagionato un danno risarcibile.
Per il caso di contrapposte domande di risoluzione per inadempimento, Sez. 1, n. 02984/2016, Di Virgilio, Rv. 638555, ha poi precisato che il giudice non può respingere entrambe e dichiarare l'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti.
Con riguardo alle ipotesi di risoluzione stragiudiziale, due pronunzie concernono lo specifico tema della rinunziabilità degli effetti risolutori della diffida ad adempiere, già oggetto di un vivo dibattito nel recente passato.
Si esprime affermativamente in tal senso Sez. 2, n. 09317/2016, Falabella, Rv. 639889, precisando che la rinunzia può intervenire anche dopo la scadenza del termine indicato in diffida e mediante comportamenti concludenti.
Nel senso della predicabilità della rinunzia si attesta anche Sez. 2, n. 04205/2016, Criscuolo, Rv. 639383, laddove, per il caso in cui vengano reiterate le diffide, si stabilisce che il termine previsto dall'art. 1454 c.c. decorre dall'ultima di esse, e che, tuttavia, la reiterazione della diffida non esclude che l'inadempimento del diffidato si sia già manifestato alla scadenza del termine assegnato con la prima diffida, potendosi individuare nella rinnovazione un interesse del diffidante ad un tardivo adempimento della controparte, con la concessione di un nuovo termine che impedisca l'effetto risolutorio di diritto collegato alla prima diffida.
All'operatività di tale meccanismo risolutorio è riferita anche Sez. 2, n. 15070/2016, Matera, Rv. 640588, secondo cui in difetto di clausola risolutiva espressa la risoluzione del contratto per inadempimento può essere ottenuta solo nelle forme di cui all'art. 1454 c.c., essendo privo di effetto l'atto unilaterale con cui la parte dichiari risolto il contratto.
Infine, con riguardo al termine essenziale, la Corte ha ritenuto con Sez. 2, n. 04314/2016, Correnti, Rv. 639412, che il mancato rispetto del termine che non sia valutato come essenziale precluda la risoluzione di diritto ma non escluda la risolubilità del contratto ex art. 1453 c.c. se il ritardo supera ogni ragionevole limite di tolleranza, traducendosi in un inadempimento di non scarsa importanza.
La valutazione di essenzialità costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e - come ha precisato Sez. 3, n. 14426/2016, Cirillo F.M., Rv. 640579 - va condotto alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e soprattutto, della natura e dell'oggetto del contratto di modo che risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l'utilità economica del medesimo con l'inutile decorso del termine, senza che rilevi il semplice uso dell'espressione "entro e non oltre", riferita al tempo di esecuzione della prestazione, se non emerga, dall'oggetto del negozio o da specifiche indicazioni delle parti, che queste hanno inteso considerare perduta, decorso quel lasso di tempo, l'utilità prefissatasi.
Anche nel 2016 nella produzione giurisprudenziale in materia di contratti tipici si segnalano interessanti novità e numerose conferme di principi elaborati negli anni pregressi, soprattutto in materia di appalto (sia privato che di opere pubbliche), assicurazione, locazione e vendita.
Si darà conto nei §§ che seguono di tale giurisprudenza, esaminando in ordine alfabetico i più importanti contratti tipici.
Va segnalato che anche per questo anno nella rassegna i contratti bancari e quelli finanziari sono stati collocati nella parte dedicata al diritto del mercato per un ordine sistematico.
Nutrita ed articolata, al solito, è la produzione in materia di appalto privato.
In ordine alla qualificazione del tipo contrattuale, Sez. 2, n. 11234/2016, Scalisi, Rv. 640094, affronta la tematica del contratto avente ad oggetto l'impegno a trasferire la proprietà di un'area in cambio di una o più unità immobiliari da costruire, qualificandolo come preliminare di permuta di cosa futura ove l'intento concreto delle parti abbia ad oggetto il reciproco trasferimento dei beni cui è strumentale l'obbligo di erigere i fabbricati, e come appalto se tale obbligazione assume rilievo preminente e ad essa corrisponde quella di versare il corrispettivo, eventualmente sostituito, nella forma atipica del do ut facias, dal trasferimento dell'area, anche in compensazione rispetto al prezzo per la vendita immobiliare funzionalmente collegata.
Ribadendo la nullità per illiceità dell'oggetto dell'appalto in caso di costruzione di un'opera senza la concessione edilizia, Sez. 1, n. 07961/2016, Sambito, Rv. 639609, precisa che in detta ipotesi il contratto non è suscettibile di convalida né di sanatoria retroattiva in virtù di condono edilizio, con conseguente impossibilità per l'appaltatore di pretendere il corrispettivo pattuito.
In relazione alla determinazione del corrispettivo, Sez. 2, n. 17959/2016, Giusti, Rv. 640889, ha affermato che può provvedervi il giudice ai sensi dell'art. 1657 c.c. solo ove non si controverta sulle opere eseguite dall'appaltatore, atteso che, in tal caso, spetta a quest'ultimo dimostrarne entità e consistenza.
Sul medesimo tema opera un'importante distinzione Sez. 2, n. 09767/2016, Scalisi, Rv. 640200, per il caso in cui il committente abbia richiesto nuove opere; queste ultime, si afferma in sentenza, costituiscono semplici varianti in corso d'opera ove, pur non comprese nel progetto originario, siano necessarie per l'esecuzione a regola d'arte dell'appalto, e devono invece intendersi come lavori extracontratto se possiedano un'individualità distinta da quella dell'opera originaria, ovvero ne integrino una variazione quantitativa o qualitiva oltre i limiti di legge.
Il dibattuto tema della distinzione fra accettazione, verifica e collaudo dell'opera è all'attenzione di Sez. 2, n. 04051/2016, Falabella, Rv. 639384.
La Corte, in particolare, definisce l'accettazione come l'atto negoziale con cui il committente esprime - anche per facta concludentia - il gradimento dell'opera, esonerando l'appaltatore dalla responsabilità per vizi; ed in tal senso la differenzia dalla verifica, che si risolve nelle attività materiali di accertamento della qualità dell'opera, e dal collaudo, che consiste nel successivo giudizio sull'opera stessa. Diverse pronunzie, poi, concernono la responsabilità dell'appaltatore responsabilità per vizi e difformità dell'opera.
Fra queste assume specifico rilievo Sez. 2, n. 03199/2016, Giusti, Rv. 639207, che estende i termini di prescrizione e decadenza di cui all'art. 1667 c.c. anche all'azione di risoluzione del contratto di cui al successivo art. 1668, comma 2, nell'ottica di un contemperamento fra l'esigenza della tutela del committente a conseguire un'opera immune da vizi con l'interesse dell'appaltatore ad un accertamento sollecito di eventuali contestazioni in ordine all'esecuzione della prestazione.
In relazione ai rimedi spettanti al committente in caso di vizi, di particolare interesse è Sez. 1, n. 00815/2016, Di Virgilio, Rv. 638614, che estende all'ipotesi in cui un immobile presenti i gravi difetti di cui all'art. 1669 c.c. la possibilità di invocare, oltre al previsto rimedio risarcitorio, anche tutti quelli contemplati dall'art. 1668 c.c., purché non sia ancora maturata la decadenza stabilita dal comma 2 di quest'ultimo, configurandosi le relative ipotesi l'una (art. 1669 c.c.) come sottospecie dell'altra (art. 1667 c.c.).
Il contenuto della responsabilità per gravi difetti è compiutamente descritto da Sez. 2, n. 04319/2016, Scarpa, Rv. 639374, che, in mancanza di limitazioni legali, lo fa coincidere con quello generale della responsabilità extracontrattuale, così ricomprendendovi l'obbligo di rifondere tutte le spese necessarie per eliminare definitivamente i difetti medesimi, anche mediante la realizzazione di lavori diversi e più onerosi di quelli originariamente previsti, purchè necessari a che l'opera possa fornire la normale utilità propria della sua destinazione.
Sempre con riferimento ai vizi dell'opera, infine, vanno richiamate le pronunzie che più significativamente hanno affrontato il tema dell'individuazione del soggetto responsabile quando alla realizzazione dell'opera concorra l'apporto del committente, se del caso coadiuvato dal proprio progettista o direttore dei lavori.
Sez. 2, n. 08700/2016, Orilia, Rv. 639746, delinea i contorni della responsabilità del direttore dei lavori che, per le sue capacità tecniche, assume nei confronti del committente precisi obblighi correlati alla particolare diligenza richiestagli.
Si tratta, osserva la Corte, di obblighi che attengono all'accertamento della conformità della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, al capitolato ed alle regole della tecnica, dalla quale ben può discendere una responsabilità per omessa vigilanza o per mancato controllo dell'ottemperanza dell'appaltatore alle istruzioni impartitegli, nonché per mancata successiva comunicazione di tanto al committente.
Nel medesimo solco si attesta Sez. 2, n. 18285/2016, Manna F., Rv. 641077, secondo cui il direttore dei lavori per conto del committente esercita gli stessi poteri di controllo sull'attuazione dell'appalto che questi ritiene di non poter svolgere di persona, restando così soggetto alle correlate responsabilità per omissione; da tale attività, tuttavia, non deriva una sua corresponsabilità con l'appaltatore per i difetti dell'opera derivanti da vizi progettuali, salvo che il committente non lo abbia espressamente incaricato di svolgere anche l'ulteriore attività di verifica della fattibilità e dell'esattezza tecnica del progetto.
Particolarmente variegato è il panorama delle pronunzie concernenti l'appalto di opere pubbliche.
Sez. 1, n. 17146/2016, Valitutti, Rv. 640902, ha affermato che per l'ipotesi in cui l'Amministrazione richieda lavori in variante per un importo di oltre un quinto rispetto a quello globalmente stabilito - e non in relazione al prezzo di singole categorie di lavori - in forza dell'art. 344 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, nonché dell'art. 14 del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, non sussiste un obbligo dell'appaltatore, che in tal caso resta dunque libero di scegliere se recedere dal contratto o proseguire i lavori, se del caso dichiarando per iscritto a quali condizioni.
In ordine alla misura del corrispettivo ed alla problematica della revisione prezzi, Sez. 1, n. 02186/2016, Dogliotti, Rv. 638754, ha affermato che la quantificazione dell'importo invocato per la revisione costituisce requisito necessario della corrispondente pretesa, in conformità ai principi di giustizia, efficienza e buon andamento della P.A., cui va consentito di conoscere tempestivamente l'entità delle somme richieste al fine dei necessari controlli.
Sullo stesso tema, Sez. 1, n. 11577/2016, Di Marzio M., Rv. 639915, ha specificato che l'art. 33 della l. 28 febbraio 1986, n. 41, in forza del quale la revisione dei prezzi è ammessa a decorrere dal secondo anno successivo all'aggiudicazione, si riferisce all'aggiudicazione definitiva e non a quella provvisoria, che ai fini della norma indicata non riveste alcun rilievo.
Ed ancora, con riferimento alla determinazione del corrispettivo Sez. 1, n. 10165/2016, Salvago, Rv. 639815, assoggetta le spese relative alle cd. opere provvisionali alla previsione di cui all'art. 16 del d.P.R. n. 1063 del 1962 (ed ora art. 5 del d.m. 19 aprile 2000, n. 145), che le pone a carico dell'appaltatore, includendole fra quelle che devono determinare la formazione del prezzo dell'appalto, sul rilievo che afferiscono ai costi di impianto in cantiere e dunque all'organizzazione dei mezzi di cui all'art. 1655 c.c..
Di particolare interesse è Sez. 1, n. 13434/2016, Giancola, Rv. 640377, che ha ritenuto inidonea a giustificare l'applicazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 1063 del 1962 la sospensione dei lavori per originaria assenza di autorizzazione all'esecuzione dell'opera; ha escluso, al riguardo, che possa ricondursi al concetto di forza maggiore un'omissione dovuta da una carenza preesistente alla stipula del contratto, atteso che la diligenza in tal caso richiesta all'appaltante, tenuto ad assicurare la possibilità giuridica dell'opera, deve estendersi - onde conservare integre le ragioni della controparte - fino al punto di astenersi dalla stipula del contratto, e ciò quantunque l'appaltatore conoscesse o potesse conoscere l'originaria mancanza dell'autorizzazione e non abbia a sua volta segnalato al committente la necessità di sollecitarne il rilascio.
Alla tematica delle riserve sono dedicate Sez. 1, n. 09328/2016, Lamorgese, Rv. 639615 - che ha ritenuto soggette all'onere di riserva non solo tutte le possibili richieste inerenti a partite di lavori eseguite, ma anche e soprattutto le pretese risarcitorie conseguenti allo svolgimento anomalo dell'appalto, assolvendo l'onere della riserva alla funzione di consentire la tempestiva e costante evidenza di tutti i fattori che siano oggetto di contrastanti valutazioni tra le parti e perciò suscettibili di aggravare il compenso complessivo - e Sez. 1, n. 14190/2016, Valitutti, Rv. 640483, che ha ritenuto tempestiva la formulazione di riserva nel verbale di ripresa dei lavori successivo ad una sospensione divenuta illegittima per la sua eccessiva protrazione, poiché la rilevanza causale del fatto ingiusto dell'appaltante rispetto ai maggiori oneri derivati all'appaltatore è accertabile solo al momento della ripresa, ferma restando la facoltà dell'appaltatore di precisare l'entità del pregiudizio subìto entro la chiusura del conto finale.
Icastica, nel principio affermato, è Sez. 1, n. 02307/2016, Sambito, Rv. 638477, secondo cui l'appalto di opera pubblica si considera ultimato solo a seguito del collaudo, che costituisce l'unico atto attraverso il quale la P.A. può verificare se l'obbligazione dell'appaltatore sia stata regolarmente eseguita, ed è indispensabile ai fini dell'accettazione dell'opera, nessun rilievo assumendo a tale riguardo la consegna.
Due pronunzie si segnalano per l'affronto di problematiche afferenti all'assunzione del rapporto da parte di associazione temporanea di imprese e conseguente designazione di un'impresa mandataria.
Sez. 1, n. 03808/2016, Lamorgese, Rv. 638846, ha affermato che quest'ultima, pur essendo l'unica interlocutrice dell'amministrazione in rappresentanza delle imprese associate, è legittimata ad agire anche in proprio per la tutela delle ragioni di credito relative alla quota dei lavori eseguiti; Sez. 2, n. 08407/2016, Cosentino, Rv. 639740, ha precisato che la designazione dell'impresa mandataria non impedisce a quest'ultima di nominare un procuratore per farsi rappresentare in determinati affari del raggruppamento, né di sceglierlo tra i partecipanti al raggruppamento stesso, derivando il potere gestorio dell'impresa mandataria e quello rappresentativo del suo legale rappresentante non direttamente dalla legge ma dalla designazione, libera e volontaria, delle imprese raggruppate.
Nel 2016 la Corte è intervenuta insistentemente in materia di assicurazione, con consueta prevalente attenzione al tema della assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione di veicoli (r.c.a.).
In tema di assicurazione contro gli infortuni, la Corte è intervenuta sulla decorrenza del termine di prescrizione del diritto all'indennizzo. In particolare, Sez. 3, n. 14420/2016, Frasca, Rv. 640578, sgombrando il campo da equivoci interpretativi, ha affermato che quanto al termine di prescrizione indicato dall'art. 2952, comma 2, c.c., il riferimento al verificarsi dell'evento lesivo previsto dalla polizza va ricondotto al momento in cui emerga lo stato di invalidità permanente coperto da essa. Da questo chiarimento la pronuncia fa conseguire che l'assicuratore che voglia opporre la prescrizione del diritto fatto valere dall'assicurato deve provare non già la data di verificazione del sinistro, ma quella in cui si sia manifestato lo stato di invalidità dell'assicurato, conseguente al sinistro medesimo.
Altrettanto importante è il principio affermato da Sez. 3, n. 09386/2016, Rossetti, Rv. 639829, in tema di diritto di recesso nella ipotesi di assicurazione pluriennale, avvenuto ai sensi dell'art. 5, comma 4, del d.l. 31 gennaio 2007, n. 7, convertito dalla l. 2 aprile 2007, n. 40, qualora il contratto sia intervenuto anteriormente alle modifiche apportate dalla legge di conversione. Sul punto la pronuncia mostra di aderire all'orientamento secondo il quale gli effetti caducatori ex tunc delle norme intertemporali del decreto legge riguardano le sole ipotesi di emendamenti soppressivi o sostitutivi che accompagnano la legge di conversione, mentre qualora l'emendamento si limiti solo a modificare la norma del decreto legge, i rapporti sorti nel vigore intertemporale del decreto legge restano impregiudicati, ancorchè con la legge di conversione le regole siano implementate dalle modificazioni. Mostrando dunque adesione a tale orientamento interpretativo, la sentenza afferma che resta valido ed efficace il recesso dell'assicurato da un contratto di assicurazione pluriennale, quand'anche non siano trascorsi tre anni dalla sua esistenza in vita, condizione invece divenuta esseziale solo con le modifiche portate in sede di conversione all'art. 5, comma 4, cit., perché nel caso di specie si trattava di contratto perfezionatosi prima dell'entrata in vigore delle modifiche suddette (disciplina poi ulteriormente modificata con la l. 23 luglio 2009, n. 99).
A proposito poi della interpretazione del contratto assicurativo, Sez. 3, n. 00668/2016, Rossetti, Rv. 638509, in una fattispecie in cui le società coassicuratrici contestavano la copertura assicurativa di un sinistro, nel quale era scoppiata la caldaia utilizzata per la produzione di calcestruzzo - sull'assunto che il cedimento strutturale del meccanismo di chiusura della macchina non rientrasse nel concetto di scoppio causato da eccesso di pressione - ha avuto modo di chiarire che in presenza di clausole polisenso il giudice non può attribuire uno specifico significato, pur compatibile con la lettera della clausola, senza prima ricorrere all'ausilio di tutti i criteri di ermeneutica previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., compreso in particolare quello della interpretazione contro il predisponente, di cui all'art. 1370 c.c. A tale ultima norma ha fatto ricorso la S.C. ai fini dell'interpretazione del contratto assicurativo.
Particolare importanza assume la pronuncia delle Sez. U, n. 09140/2016, Amendola A., Rv. 639703, in tema di disciplina, vessatorietà e validità della clausola "claims made". Si tratta di una clausola assicurativa, sorta e sviluppatasi prima nei paesi anglosassoni e poi in quelli di civil law, compresa l'Italia, imponendosi a tal punto da sostituire del tutto il classico schema contrattuale denominato "loss occurrence" ("insorgenza del danno"), coerente con il modello assicurativo per r.c. previsto dall'art. 1917 c.c. Con la clausola assicurativa "claims made", letteralmente traducibile in "a richiesta fatta", l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi durante il periodo di efficacia del contratto, o anche di quelli commessi prima della stipula del contratto se anteriori di qualche anno (generalmente due o tre), purchè la richiesta di risarcimento sia pervenuta durante il tempo della assicurazione.
La clausola, del tutto estranea alla struttura del contratto assicurativo prima degli anni ottanta, si diffonde celermente nelle assicurazioni per responsabilità civile, soprattutto nell'area dei cd. rischi lungo-latenti e con particolare riguardo ai prodotti difettosi e ai danni ambientali. Successivamente trova ingresso nell'area dei danni ai diritti della persona, incoraggiata dalla constatazione che con essa le compagnie hanno a disposizione un prodotto assicurativo più sostenibile sul piano economico, atteso che con la claims made si circoscrive l'operatività della assicurazione solo a quei sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richiede all'assicurato il risarcimento del danno subìto. Presto tuttavia sorgono dubbi sulla natura vessatoria della clausola, e sulla sua stessa validità. A questi interrogativi, oggetto di numerose dispute dottrinali e difformi indirizzi giurisprudenziali, soprattutto negli uffici di merito, danno infine risposta le Sezioni Unite, che negano la sua natura vessatoria, quando limitativa dell'oggetto della garanzia assicurativa e non della responsabilità dell'assicuratore. Quanto invece alla sua validità, la pronuncia sostiene che la clausola, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza oppure, se applicabile la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi contrattuali. Si tratta però di valutazioni che vanno fatte con riguardo alle singole fattispecie portate all'attenzione del giudice di merito, incensurabili in sede di legittimità se congruamente motivate.
Ai fini della disciplina delle spese di resistenza sostenute dall'assicurato, Sez. 3, n. 00667/2016, Armano, Rv. 638220, circoscrive l'obbligo di rimborso nelle ipotesi di procedimento penale. In particolare, in una fattispecie in cui gli amministratori e i sindaci di una società, indagati in un procedimento penale, che tuttavia non era stato attivato su istanza di parte e si era concluso con l'archiviazione, l'assicuratrice aveva negato il rimborso delle spese sostenute dagli indagati nella fase delle indagini. La sentenza di legittimità ha cassato quella di merito, che aveva ritenuto rimborsabili quelle spese, affermando che l'obbligazione dell'assicuratore della responsabilità civile di tenere indenne l'assicurato delle spese erogate per resistere all'azione del danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 3, c.c., ha natura accessoria rispetto alla obbligazione principale e trova limite nel perseguimento di un risultato utile per entrambe le parti, perché interessate a respingere l'azione. Da tale principio la Corte fa discendere l'ulteriore regola interpretativa, secondo cui l'assicuratore è obbligato al rimborso delle spese del procedimento penale promosso nei confronti dell'assicurato solo quando intrapreso a seguito di denuncia o querela del terzo danneggiato o nel quale questi si sia costituito parte civile.
Nell'identificazione degli elementi essenziali del contratto di assicurazione inoltre, Sez. 3, n. 03173/2016, Rossetti, Rv. 639075, esclude la necessità di determinazione del massimale. Nella sentenza si afferma infatti che il contratto può essere validamente stipulato senza la relativa pattuizione, poiché non costituisce né elemento essenziale del contratto né fatto generatore del credito assicurato, configurandosi piuttosto quale elemento limitativo dell'obbligo dell'assicuratore. Valorizzando dunque questo profilo, la pronuncia ne fa conseguire che l'onere di provare l'esistenza e la misura del massimale grava sulla società assicuratrice, dovendosi altrimenti accogliere la domanda di garanzia proposta dall'assicurato, a prescindere da qualunque limite del massimale.
Altrettanto interessante è quanto affermato da Sez. 3, n. 03275/2016, Tatangelo, Rv. 638886, in tema di copertura assicurativa contratta da ente che non può essere chiamato a rispondere di eventuali danni, perché per legge già individuato il soggetto legittimato passivamente. La fattispecie in particolare riguardava una Direzione didattica, che aveva stipulato una polizza a copertura della responsabilità civile per danni, cui è chiamato a rispondere invece il solo Ministero (per fatto dei suoi dipendenti). La pronuncia tuttavia non pone nel nulla il rapporto assicurativo, ma afferma che al giudice di merito debba essere demandato il dovere di una scelta interpretativa, dopo aver utilizzato i fondamentali canoni ermeneutici, che nel dubbio tenga conto del sussidiario criterio della cd. interpretazione utile, secondo quanto prescritto dall'art. 1367 c.c., la quale, compatibilmente con la volontà delle parti, tenda ad attribuire al contratto un qualche effetto, anche quale negozio assicurativo per conto altrui o per conto di chi spetta, ricorrendo dunque alla previsione normativa disciplinata dall'art. 1891 c.c. In tal modo non si nega ogni utilità ed effetto al negozio sottoscritto dall'ente esonerato da legittimazione passiva in occasione della azione risarcitoria introdotta dal terzo danneggiato.
Quanto alla esclusione del diritto all'indennizzo assicurativo, Sez. 3, n. 20011/2016, Sestini, (in corso di massimazione), trattando degli obblighi e delle conseguenze previste dall'art. 1898 c.c. in ordine ai mutamenti che aggravano il rischio, chiarisce come la norma, non imponendo l'avviso del mutamento di qualunque circostanza, ma solo di quelle che, se conosciute dall'assicuratore, l'avrebbero indotto a non concludere il contratto o a concluderlo con la previsione di un premio più elevato, consente l'operatività del comma 5 della norma solo se da un accertamento concreto e specifico emerga la prova che, conosciuto il nuovo stato delle cose, l'assicuratore non avrebbe concluso il contratto.
Deve infine segnalarsi Sez. 3, n. 26104/2016, Scrima, (in corso di massimazione), che, riprendendo un antico e mai disatteso principio, relativo all'ipotesi di sinistro accaduto nel termine di tolleranza, successivo alla scadenza annuale della polizza (cd. periodo di ultrattività della polizza), afferma che il mancato pagamento da parte dell'assicurato di un premio, successivo al primo, determina, ai sensi dell'art. 1901, secondo comma, c.c., la sospensione della garanzia assicurativa non immediatamente, ma solo dopo il decorso del periodo di tolleranza di quindici giorni. Né la legge subordina questo ulteriore periodo di efficacia del contratto al fatto che il premio sia poi pagato entro il termine medesimo, sicchè, nella ipotesi che l'inadempienza dell'assicurato si protragga, sino alla risoluzione del contratto, a norma del terzo comma dell'art. 1901 c.c., l'effetto retroattivo della risoluzione di produrrà non dalla scadenza del premio, ma dallo spirare del periodo di tolleranza.
Anche nel 2016 una posizione prioritaria, per numero di pronunce e questioni emerse, occupa l' assicurazione obbligatoria della r.c.a.
Alcune pronunce hanno prestato attenzione ai sinistri stradali in cui sono coinvolte autovetture straniere o tali considerate. Così Sez. 3, n. 04669/2016, Esposito A.F., Rv. 639376, per l'ipotesi di danni cagionati alla circolazione nel territorio dello Stato italiano da veicoli immatricolati negli stati esteri, ha definito l'oggetto della garanzia assicurativa. In particolare la pronuncia ha affermato che l'Ufficio Centrale Italiano è tenuto alla copertura assicurativa non solo dei danni alle persone ma anche alle cose trasportate. Ciò perché l'obbligo assicurativo dell'UCI, previsto dall'art. 6 della l. 24 dicembre 1969, n. 990 con riferimento alla fattispecie oggetto di causa (ora dall'art. 125 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) è riconducibile a quanto previsto dall'art. 2054 c.c., che contempla anche il danno alle cose oltre che alle persone.
Quanto ai profili processuali altrettanto interessante si rivela Sez. 3, n. 12729/2016, Graziosi, Rv. 640276, in tema di tempestività della eccezione sollevata dal Fondo di Garanzia per le vittime della strada ai fini della identificazione dell'ente competente al risarcimento. Sul punto la pronuncia ha affermato che, in caso di sinistro causato da veicolo con targa straniera risultata rubata, non costituisce una eccezione in senso stretto, ma una mera difesa, come tale proponibile anche nella comparsa conclusionale d'appello, l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sostanziale sollevata dal convenuto F.G.V.S., ai sensi del d.lgs. n. 209 del 2005, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs 6 novembre 2007, n. 197, assumendo che il predetto veicolo debba considerarsi non già "sconosciuto", bensì "abitualmente stazionante" nel territorio dello Stato membro dell'Unione europea che ha rilasciato la targa, con la conseguenza che il risarcimento dei danni derivanti dal sinistro compete all'Ufficio Centrale Italiano, ai sensi dell'art. 1, del d.m. 12 ottobre 1972. Tali conclusioni sono raggiunte dalla S.C. alla stregua dell'interpretazione dell'art. 1, par. 4, della Direttiva 72/166/CE, modificata dalla Direttiva 84/5/CEE, fornita dalla Corte di Giustizia CE 12 novembre 1992, in C-73/89.
Nel più limitato ambito applicativo delle convenzioni bilaterali, infine, va menzionata Sez. 6-3, n. 09086/2016, Rossetti, Rv. 639717, secondo cui, in caso di sinistro stradale occorso in territorio italiano a un cittadino svizzero, l'assicuratore che abbia indennizzato la vittima del sinistro in relazione al danno da invalidità temporanea assoluta, ai sensi della legge federale elvetica del 20 marzo 1981 sull'assicurazione contro gli infortuni, ha diritto a surrogarsi nella pretesa risarcitoria azionabile dal danneggiato, in forza di quanto stabilito dall'art. 21-bis della Convenzione italo-svizzera sulla sicurezza sociale del 14 dicembre 1962, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 31 ottobre 1963, n. 1781.
Con riguardo poi alla stabilizzazione processuale e sostanziale, quale soggetto passivo dell'instaurato giudizio risarcitorio, della società assicuratrice designata dal FGVS, di particolare rilievo si presenta Sez. 3, n. 23710/2016, Vincenti, (in corso di massimazione), secondo cui, ai fini del risarcimento del danno causato da veicolo o natante non identificato, previsto già dall'art. 19 della l. 24 dicembre 1969, n. 990, ed ora dall'art. 283 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, la circostanza che nel corso del giudizio venga identificato il veicolo, prima sconosciuto, che abbia causato il sinistro, è indifferente ai fini della persistenza della legittimazione processuale passiva in capo alla società designata. In particolare la pronuncia afferma che nel caso di sinistro cagionato da veicolo non identificato, il danneggiato, esaurito lo spatium deliberandi previsto dalla legge, potrà agire nei confronti dell'impresa designata per conto del FGVS allegando e provando, oltre al fatto che il sinistro si è verificato per condotta dolosa o colposa del conducente di un altro veicolo, che quest'ultimo non era identificabile in forza di circostanze obiettive, non dipendenti da sua negligenza. Sussistendo tali presupposti, la legittimazione passiva processuale e sostanziale dell'impresa designata rispetto a tale sinistro rimarrà stabilizzata rispetto a tutto il corso del giudizio, anche nel caso in cui successivamente si accerti l'identità del responsabile, nei cui confronti l'impresa designata, adempiuta la sentenza di condanna al risarcimento del danno, potrà agire in via di regresso.
Esaminando poi le altre pronunce in materia, la S.C. si è soffermata sulle conseguenze ricollegabili al sinistro coinvolgente l'autovettura con certificato assicurativo fraudolentemente retrodatato. In particolare Sez. 3, n. 06974/2016, Rossetti, Rv. 639334, afferma che nella ipotesi di sinistro stradale causato da veicolo munito di un certificato assicurativo, formalmente valido, ma in concreto rilasciato dopo il sinistro e fraudolentemente retrodatato, la circostanza non è opponibile al terzo danneggiato, quando la falsità provenga dall'agente per il tramite del quale sia stato stipulato il contratto. In tale ipotesi tuttavia l'assicuratore, adempiuta la propria obbligazione nei confronti del terzo, potrà agire contro l'intermediario infedele e in regresso nei confronti dell'assicurato.
Altrettanto importante nella definizione dell'area applicativa della garanzia assicurativa è Sez. 6-3, n. 06403/2016, Cirillo F.M., Rv. 639622, intervenuta in una fattispecie in cui l'assicuratore contestava l'operatività della copertura assicurativa per i danni cagionati dal conducente, mutilato, alla guida di autovettura priva dei necessari adattamenti tecnici richiesti per la sua condizione. Esaminando la vicenda, la Corte ha affermato il principio secondo cui nella assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore, la previsione di una clausola di esclusione della garanzia assicurativa per danni cagionati dal conducente non abilitato alla guida, non è idonea ad escludere l'operatività della polizza, e il conseguente obbligo risarcitorio dell'assicuratore, quando il conducente, legittimamente abilitato e in possesso di patente non sospesa, revocata o scaduta, abbia solo omesso di rispettare prescrizioni e cautele imposte dal codice della strada. Le conclusioni sono motivate dalla considerazione che l'inosservanza alle cautele tecniche, pur imposte all'invalido, non si traduce in una limitazione della validità ed efficacia del titolo abilitativo alla guida dei veicoli a motore, integrando invece solo una ipotesi di mera illiceità.
Quanto alla responsabilità per mala gestio dell'assicuratore, vanno segnalate due pronunce intervenute in merito, che possono definirsi complementari. Con Sez. 3, n. 03014/2016, Amendola A., Rv. 639076, la Corte evidenzia le differenze tra mala gestio propria e impropria, inquadrandone la responsabilità in due differenti forme, cui conseguono distinte conseguenze in termini di risposta oltre il massimale pattuito. La prima di esse è quella dipendente dal colpevole ritardo dell'assicuratore nei confronti del danneggiato, definita mala gestio impropria e fondata sulla costituzione in mora ex art. 22, l. n 990 del 1969 (ed ora ex art. 145 del d.lgs n. 209 del 2005). Se alla costituzione in mora l'assicuratrice non esegue il pagamento, essa risponde a titolo di interessi e rivalutazione, pur oltre il limite del massimale, senza che il danneggiato sia obbligato a formulare una specifica domanda per essere sufficiente la mera richiesta di integrale risarcimento del danno. La seconda è quella riconducibile a condotte contrarie agli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto, e dunque si tratta di responsabilità nei confronti dell'assicurato, definita come mala gestio propria. In questo caso l'assicuratore risponderà anche oltre il massimale, non solo a titolo di interessi e rivalutazione ma rispetto allo stesso limite d'importo dell'assicurazione, a condizione che il danneggiato-assicurato proponga specifica damanda.
Sez. 3, n. 04892/2016, Pellecchia, Rv. 639443, con riferimento alla cd. mala gestio impropria per ritardo nel pagamento dell'assicurato danneggiato dal sinistro, ribadisce che la responsabilità della società assicuratrice oltre il limite del massimale comprende gli interessi e il maggior danno, che può includere anche la svalutazione monetaria ma mai riferirsi al capitale entro il quale è stato pattuito il contratto assicurativo.
Sempre in tema di obblighi della società assicuratrice conseguenti al sinistro, Sez. 3, n. 04765/2016, Tatangelo, Rv. 639363, si occupa dell'ipotesi del danno a più persone. In tale ipotesi si afferma che la società deve procedere, secondo la normale diligenza, alla identificazione di tutti i danneggiati, attivandosi anche con la loro congiunta chiamata in causa e procedendo alla liquidazione del risarcimento nella misura proporzionalmente ridotta. La conseguenza di una diversa condotta e di un diverso modo di procedere alla liquidazione, comporta che quando l'assicuratore, che sia convenuto in giudizio da uno dei danneggiati con azione diretta, non può opporre ai fini dell'indennizzo la somma già concordata e versata in sede stragiudiziale ad un altro danneggiato, pur nella consapevolezza che nel sinistro erano rimaste coinvolte più persone, dovendo imputare a propria negligenza il non aver provveduto (o richiesto che in sede giudiziale si provvedesse) alla congiunta disamina delle pretese risarcitorie dei danneggiati per la riduzione proporzionale dei correlativi indennizzi.
Degno infine di menzione è il principio, già affermato nel 2015 (n. 11154/2015, Rv. 635465), e riaffermato da Sez. 3, n. 03266/2016, Sestini, Rv. 638791, in tema di risarcibilità dei compensi legali sostenuti dall'assicurato. Sul punto infatti la Corte ribadisce che per l'ipotesi di accettazione della somma offerta dall'impresa di assicurazione, l'art. 9, comma 2, del d.P.R. 18 luglio 2006, n. 254, prevedendo l'esclusione dell'obbligo di corresponsione delle spese sostenute dal danneggiato per i compensi di assistenza professionale diversi da quelli medico-legali per i danni alla persona, va interpretato nel senso che sono comunque dovute la spese di assistenza legale sostenute dalla vittima perché il sinistro presentava particolari problemi giuridici, ovvero quando essa non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore. A tali conclusioni perviene anche la pronuncia del 2016, affermando che una diversa interpretazione porterebbe a ritenere nulla quella previsione normativa, per contrasto con l'art. 24 Cost., dunque da disapplicare, ove volta ad impedire del tutto la risarcibilità del danno consistito nell'erogazione di spese legali effettivamente necessarie.
In materia di comodato, mette conto segnalare Sez. 3, n. 00664/2016, Scrima, Rv. 638404, che affronta il tema del comodato di immobile stipulato dall'alienante in epoca anteriore al suo trasferimento, affermando che esso non è opponibile all'acquirente del bene, non estendendosi a rapporti diversi dalla locazione le disposizioni eccezionali di cui all'art. 1599 c.c.; l'acquirente, d'altro canto, non subisce alcun pregiudizio dall'esistenza del comodato, potendo far cessare in qualsiasi momento il godimento del bene da parte del comodatario ed ottenere la piena disponibilità del bene.
Sez. 2, n. 27044/2016, Criscuolo, Rv. 642174, ha invece ritenuto che nel contratto di comodato senza determinazione di durata il comodatario possa essere costituito in mora per la restituzione del bene anche mediante la notifica dell'atto di citazione in giudizio, e perciò senza la necessità di preventiva richiesta stragiudiziale, salve le conseguenze sul piano della regolazione delle spese di un'eventuale immediata consegna con adesione alla domanda.
In relazione all'esercizio della prelazione, Sez. 3, n. 15757/2016, Esposito A.F., Rv. 641151, ha precisato che l'esistenza del relativo diritto dev'essere di regola accertata con riferimento al momento della denuntiatio della proposta di vendita del fondo e, in difetto della comunicazione di tale proposta, con riferimento al momento della stipula del negozio traslativo; è infatti in tale ultimo momento che sorge il diritto di riscatto e che si rende così necessario riscontrare le condizioni soggettive ed oggettive che legittimano il coltivatore diretto confinante a riscattare il fondo.
Sempre in ordine alle modalità di esercizio della prelazione, Sez. 3, n. 12883/2016, Sestini, Rv. 640281, ha richiamato lo schema normativo di cui agli artt. 1326 e 1329 c.c., affermando che la denuntiatio non è revocabile durante il termine di trenta giorni previsto per l'accettazione della proposta, poiché la trasmissione del contratto preliminare ha tutti i connotati della proposta contrattuale e la possibilità di revoca sarebbe inconciliabile con la natura di atto unilaterale di adempimento d'obbligo legale, destinato a rendere attuale l'altrui diritto soggettivo.
In tema di riscatto, Sez. 3, n. 14827/2016, Cirillo F.M., Rv. 642091, ha affrontato il tema del relativo diritto esercitato con atto di citazione in giudizio poi dichiarato nullo per vizio di natura processuale, affermando che tale vizio non si riverbera sugli effetti sostanziali dell'atto, restando valida la dichiarazione unilaterale recettizia.
Sul medesimo tema, Sez. 3, n. 20638/2016, Cirillo F.M., Rv. 642920, ha specificato che in caso di attività agrituristica l'esercizio del riscatto è ammissibile solo ove si accerti che l'attività di coltivazione prevale su quella commerciale.
Con riferimento al termine per l'esercizio del retratto di cui all'art. 8, comma 10, della l. 26 maggio 1965, n. 590, Sez. 3, n. 13002/2016, Cirillo F.M., Rv. 640404, ha specificato che, ove abbia ad oggetto un fondo divenuto comune in via ereditaria, esso decorre dall'apertura della successione a meno che risulti provato che la partecipazione di uno dei componenti alla conduzione colonica fosse cessata già prima del nascere della comunione ereditaria.
In tema di affitto di fondi rustici, Sez. 3, n. 07633/2016, Esposito A.F., Rv. 639527, ha precisato che la prestazione del relativo consenso produce effetto indipendentemente dal diritto di proprietà della persona del concedente, purchè questi abbia la disponibilità del bene e sia così in grado di trasferirne all'affittuario la detenzione e il godimento.
Nel medesimo ambito contrattuale, infine, si segnala Sez. 3, n. 12518/2016, Cirillo F.M., Rv. 640350, che ha precisato come il risarcimento del danno derivante dall'inosservanza di un obbligo manutentivo da parte del conduttore sia soggetto alla prova della condizione di partenza dell'immobile e della sua restituzione in condizioni peggiori rispetto a quelle della consegna, in quanto il concetto di manutenzione fa riferimento ad un'evenienza che sopravviene durante lo svolgimento del rapporto contrattuale.
In materia di fideiussione, si segnala anzitutto la permanenza di un contrasto in ordine agli indici che rilevano ai fini della qualificazione di un contratto come appartenente al detto tipo anziché come contratto autonomo di garanzia.
Richiamandosi all'opzione ermeneutica che appare oggi prevalente, Sez. 1, n. 16825/2016, Didone, Rv. 640904, ha ritenuto che la clausola di pagamento "a prima richiesta", o altra equivalente, non sia in tal senso decisiva, potendo essa riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi autonome), sia a garanzia di tipo fideiussorio, caratterizzata da un vincolo di accessorietà più o meno accentuato, sia, infine, alla mera intenzione dei contraenti di derogare alla disciplina dettata dall'art. 1957 c.c..
Secondo tale pronunzia, infatti, la clausola in questione assolve unicamente ad un'esigenza di protezione del fideiussore che, prescindendo dall'esistenza di un vincolo di accessorietà tra garanzia e debito principale, è meritevole di tutela anche quando tale collegamento sia assente; essa non è, pertanto, in sé incompatibile con l'applicazione dell'art. 1957 c.c., spettando al giudice di merito di accertare la concreta volontà delle parti con la sua stipulazione.
Appare in linea con tale impostazione Sez. 3, n. 12152/2016, Vincenti, Rv. 640289, laddove osserva che la previsione in seno ad un contratto autonomo di garanzia della clausola "a prima richiesta e senza eccezioni" fa presumere l'assenza dell'accessorietà della garanzia, ma che tale requisito può tuttavia desumersi, in difetto, anche dal complessivo tenore dell'accordo.
Con riferimento a profili più generali della relativa disciplina, si è espressa nel senso dell'ammissibilità del concorso di una fideiussione con una garanzia reale rispetto al medesimo credito Sez. 1, n. 02540/2016, Genovese, Rv. 638464.
Sez. 3, n. 08944/2016, Pellecchia, Rv. 639910, ha affrontato il tema della fideiussione omnibus senza limitazione di importo (stipulata anteriormente alla data di entrata in vigore dell'art. 10 della l. 17 febbraio 1992, n. 154), ritenendone l'efficacia limitatamente ai debiti sorti a carico del garantito prima della data predetta; perché tali effetti si producano sui debiti successivi occorre che le parti fissino l'importo massimo garantito con la rinnovazione della convenzione di garanzia, che, risolvendosi in un accordo diverso dal precedente con efficacia ex nunc, non costituisce un'ipotesi di convalida del contratto nullo.
Per l'ipotesi di cofideiussione sul medesimo debito, Sez. 1, n. 03628/2016, Valitutti, Rv. 638629, ravvisando l'esistenza di un collegamento necessario tra le obbligazioni assunte dai singoli fideiussori, determinate dal comune interesse di garantire lo stesso debito ed il medesimo creditore, ha affermato che vi è divisione dell'obbligazione nei soli rapporti interni in virtù del diritto di regresso spettante a colui che ha pagato per l'intero.
Di particolare interesse è poi Sez. 1, n. 04112/2016, Terrusi, Rv. 638860, che ha specificato come l'autorizzazione di cui all'art. 1956 c.c., non configurandosi come accordo a latere del contratto bancario cui la garanzia accede, non richiede la forma scritta per la sua validità e può essere ritenuta implicitamente e tacitamente concessa dal garante, in applicazione del principio di buona fede nell'esecuzione dei contratti, ove si accerti che egli fosse a conoscenza della situazione patrimoniale del debitore garantito.
Infine, sull'applicabilità al contratto di fideiussione della normativa in materia di tutela del consumatore, Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640914, ha specificato che il requisito soggettivo della qualità di consumatore deve riferirsi all'obbligazione garantita; di conseguenza, difettando tale condizione, è valida l'eventuale clausola derogativa della competenza territoriale contenuta nel contratto di fideiussione per le esposizioni bancarie di una società di capitali stipulato da un socio o da un terzo.
Due sono le sentenze da segnalare in materia. La prima tratta della ipotesi del mancato pagamento di una vincita e dell'eventuale coobbligazione del concedente per i debiti contratti dal concessionario. Nel caso di specie si era verificato che ad una vincita derivata da giocate multiple su partite del campionato di calcio, non pagate dal concessionario del servizio, era stato chiesto il pagamento anche al CONI Servizi s.p.a. quale coobbligato. Sul punto Sez. 3, n. 06219/2016, Di Marzio F., Rv. 639321, afferma che nel caso di inadempimento del contratto di scommessa su eventi sportivi, stipulato tra il concessionario del servizio e lo scommettitore e consistente nel macato pagamento della vincita realizzata, non è configurabile, unitamente a quella del concessionario, una coobbligazione dell'ente concedente, per i debiti contratti dal primo. Il principio è motivato dalla considerazione che dall'esame della normativa che regola il rapporto tra i menzionati soggetti non si evince nessuna disposizione, esplicita o implicita, derogatoria della efficacia del contratto, ex art. 1372 c.c., o fondante una obbligazione di garanzia a carico del concedente, né una analoga disposizione è ricavabile dalla convenzione che regola i rapporti tra l'ente concedente e il concessionario, alla quale è estraneo lo scommettitore.
Alla riconoscibilità della sentenza straniera contenente una condanna al pagamento di un debito per gioco d'azzardo è invece destinata la decisione assunta da Sez. 6-1, n. 12364/2016, Genovese, Rv. 640010, secondo cui non produce effetti contrari all'ordine pubblico, e quindi può essere riconosciuta in Italia ex artt. 64 e 67 della l. 31 maggio 1995, n. 218, la sentenza straniera di condanna al pagamento di un debito che trovi fonte nel giuoco d'azzardo, perché in ambito nazionale e comunitario non esiste un disfavore dell'ordinamento giuridico nei confronti del giuoco d'azzardo in quanto tale, ove esso non sfugga ai controlli degli organismi statuali e non si esponga pertanto alle infiltrazioni criminali.
Fra le pronunzie rilevanti in punto alla disciplina generale della locazione, merita menzione Sez. 3, n. 04902/2016, Spirito, Rv. 639387, che ha ritenuto sussistere la possibilità che i beni demaniali formino oggetto di locazione - potendo gli stessi formare oggetto di diritti obbligatori tra privati - senza che l'eventuale carattere abusivo dell'occupazione del terreno da parte del locatore comporti l'invalidità del contratto, che vincola reciprocamente le parti, residuando per la P.A. il diritto di tutelarsi in relazione alla particolare destinazione del bene.
Sullo specifico tema delle garanzie prestate da terzi alle obbligazioni derivanti da proroghe della durata del contratto, Sez. 3, n. 15781/2016, Vincenti, Rv. 641147, ha specificato che l'inestensibilità prevista dall'art. 1598 c.c. si riferisce alle ipotesi fisiologiche di rinnovazione o prosecuzione del rapporto e non al caso in cui il conduttore sia rimasto in mora dopo la scadenza del contratto, essendo così tenuto a versare il corrispettivo sino alla riconsegna; tale ultimo obbligo, infatti, deriva dall'inadempimento del rapporto originario e prescinde del tutto dall'attuazione fisiologica del rapporto locatizio, non essendo così consentito al garante di giovarsi del concetto di "proroga del contratto".
Per l'ipotesi in cui la posizione di locatore sia in contitolarità fra più soggetti, Sez. 3, n. 27021/2016, Frasca, in corso di massimazione, ha affermato il principio secondo cui tutti i diritti nascenti dal contratto verso il conduttore, e quindi anche quello di pretendere il pagamento del canone od attivarsi all'uopo giudizialmente, sono esercitabili dai colocatori tanto congiuntamente quanto disgiuntamente secondo le regole generali della comunione dei diritti.
Con riferimento alla locazione ad uso abitativo, Sez. 3, n. 15361/2016, De Marchi Albengo, Rv. 641293, affronta il tema dell'obbligo del locatore di mantenere l'immobile in buono stato locativo, affermando che la presunzione di cui all'art. 1590, comma 2, c.c. - secondo la quale, in mancanza di descrizione delle condizioni dell'immobile alla data della consegna, si presume che il conduttore abbia ricevuto la cosa in buono stato - può essere vinta solo attraverso una prova rigorosa del contrario, non raggiungibile attraverso meri elementi indiziari, quali il verosimile deterioramento d'uso.
Due pronunzie concernono invece lo specifico argomento della disdetta da parte del locatore.
Sez. 3, n. 11808/2016, Frasca, Rv. 640197, specifica che l'onere formale di cui all'art. 2, comma 1, della l. 9 dicembre 1998, n. 431, a mente del quale la disdetta al termine del secondo periodo di durata contrattuale va effettuata in forma scritta ed inviata a mezzo raccomandata, non è previsto a pena di nullità dell'atto, restando così ammissibili forme equipollenti purchè idonee ad evidenziare all'altra parte la volontà negoziale, e non occorrendo il conferimento di mandato scritto all'eventuale rappresentante del locatore.
Per l'eventualità che il locatore abbia esercitato il diritto di diniego del rinnovo del contratto di locazione per una finalità non più realizzata (in base all'art. 31 della l. 27 luglio 1978 n. 392 ed all'art. 3, commi 3 e 5, della l. n. 431 del 1998), Sez. 3, n. 01050/2016, Pellecchia, Rv. 638655, ha affermato che le sanzioni del ripristino della locazione o del risarcimento del danno non si applicano ove la tardiva o mancata destinazione dell'immobile all'uso dichiarato siano giustificate da esigenze, ragioni o situazioni non riconducibili al comportamento doloso o colposo del locatore stesso.
Con riferimento alla locazione ad uso non abitativo, si segnalano due decisioni afferenti all'esercizio del diritto di prelazione da parte del conduttore.
Sez. 3, n. 12536/2016, Tatangelo, Rv. 640250, ha ritenuto che in caso di offerta di vendita "cumulativa" di immobili sia efficace la denuntiatio al conduttore per l'esercizio del diritto di prelazione; quest'ultima può essere esercitata, se del caso, per il solo immobile locato, senza che rilevi che l'offerta sia condizionata all'acquisto contestuale di tutti i beni.
Secondo Sez. 3, n. 14833/2016, Sestini, Rv. 641277, poi, il conduttore è abilitato a manifestare la propria volontà di riscatto con qualsiasi atto scritto, purché ricevuto dal compratore entro il termine di sei mesi dalla trascrizione della compravendita; ne consegue che, ove la dichiarazione di riscatto sia contenuta nell'atto introduttivo del giudizio finalizzato a farlo valere, occorre che in tale termine l'atto venga notificato al compratore, non trovando applicazione, nella specie, il principio di scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario.
Infine, va segnalata Sez. 3, n. 15377/2016, Tatangelo, Rv. 641148, che per l'ipotesi di locazione di immobili convenzionalmente destinati ad una attività il cui esercizio richieda specifici titoli autorizzativi il locatore va ritenuto inadempiente ove il mancato rilascio di tali titoli dipenda da situazioni intrinseche o caratteristiche proprie del bene locato, salvo che il conduttore abbia conosciuto e consapevolmente accettato l'assoluta impossibilità di ottenerli.
Alcune interessanti pronunce sono dedicate al mandato. In particolare Sez. L, n. 02828/2016, Ghinoy, 638716, nel tracciare la linea di confine ai fini della qualificazione di un rapporto come di mandato oppure come di agenzia, afferma che la distinzione va operata avendo riguardo principalmente al criterio della stabilità ed alla natura dell'incarico, che nel contratto di agenzia ha ad oggetto la promozione di affari, con la conseguenza che un'attività promozionale può rientrare nello schema del mandato, e non dell'agenzia, solo se è episodica e occasionale, con le caratteristiche del procacciamento di affari. Il principio ha trovato applicazione in un caso in cui il giudice di merito aveva escluso la riconducibilità al contratto di agenzia di alcuni rapporti di lavoro di promotori finanziari, che presentavano gli elementi tipici del mandato, senza però approfondire l'aspetto della stabilità dell'incarico. Ciò è stato ritenuto sufficiente a cassare la sentenza impugnata.
Sez. 2, n. 00474/2016, Scarpa, Rv. 638640, si occupa invece dei poteri del mandatario investito di procura generale o speciale ad negotia. In tal caso la Cassazione afferma che questi può esercitare tutti i poteri e le facoltà spettanti al mandante, che siano inerenti e necessarie all'esecuzione del mandato ricevuto, compresa quella di instaurare un giudizio di legittimità e di conferire procura speciale al difensore, senza che rilevi che il mandato sia anteriore alla sentenza avverso la quale si ritiene utile proporre ricorso per cassazione.
E ancora, a proposito degli effetti dell'esecuzione di un mandato non conforme alle istruzioni ricevute, o eccedente i suoi limiti, Sez. 2, n. 00861/2016, Scarpa, Rv. 638671, afferma che l'approvazione tacita dell'esecuzione del mandato, ai sensi dell'art. 1712, comma 2, c.c., presuppone la precisa indicazione, nella comunicazione fatta dal mandatario, dell'operazione compiuta al di fuori del mandato, essendo a tal fine necessaria la conoscenza da parte del mandante del superamento dei limiti del mandato.
Altrettanto interessante, a proposito di imputabilità degli effetti dell'atto compiuto dal mandatario in capo al mandante, è quanto afferma Sez. 1, n. 09775/2016, De Chiara, Rv. 639612, secondo cui il principio della diretta imputazione al rappresentato degli effetti dell'atto posto in essere in suo nome dal rappresentante non comporta, nel caso di riscossione di somme da parte del mandatario, pur munito di rappresentanza, l'acquisto automatico delle stesse da parte del mandante, e ciò in ragione della natura fungibile del denaro, che indentifica nel detentore materiale di esso il dominus della somma consegnata. La pronuncia peraltro afferma che la legittimazione del rappresentante a ricevere dal terzo debitore il pagamento, con efficacia liberatoria nei confronti del rappresentato, non esclude che i rapporti interni con quest'ultimo siano disciplinati dalle regole del mandato, quale contratto ad effetti obbligatori, da cui deriva l'obbligo del mandatario di rimettere al mandante, previo rendiconto, le somme riscosse.
In riferimento al contratto di mediazione merita di essere segnalata la pronuncia emessa da Sez. 2, n. 01735/2016, Rv. 638643, Scalisi, in ordine al diritto alla provvigione ed alle sue condizioni. A tal fine viene affermato che, ove l'iscrizione all'albo dei mediatori professionali sia intervenuta dopo l'inizio dell'attività, il mediatore ha diritto al compenso solo dal momento della iscrizione medesima. A tale principio la sentenza fa logicamente seguire l'altra affermazione, ossia che il mediatore è tenuto a restituire l'acconto percepito quando ancora non possedeva la qualifica, non potendo la sopravvenienza della stessa nel corso del rapporto, né l'unitarietà del compenso spettante al mediatore, legittimare ex post un pagamento non consentito dalla legge al momento della sua effettuazione.
Tra le poche pronunce dedicate al contratto di mutuo meritano di essere segnalate alcune di esse per i peculiari aspetti trattati. Tra esse Sez. 3, n. 09389/2016, Olivieri, Rv. 639901, in tema di mutuo fondiario e distribuzione dell'onere della prova. La pronuncia afferma che nel caso di stipulazione del contratto di mutuo fondiario regolato dall'art. 3 del d.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7, l'onere della prova dell'erogazione della somma data a mutuo è assolto dall'istituto di credito mutuante mediante la produzione in giudizio dell'atto pubblico notarile di erogazione e quietanza. In questo caso spetta peraltro al debitore che si opponga all'azione esecutiva del creditore dare la prova della restituzione della somma mutuata e degli accessori, ovvero della esistenza di altre cause estintive dell'obbligazione restitutoria.
Alcune pronunce dirigono poi l'attenzione sulla disciplina degli interessi nei contratti di mutuo.
Sez. 1, n. 12965/2016, Ferro, Rv. 640109, afferma che il divieto di pattuire interessi usurari, previsto per il mutuo dall'art. 1815 c.c., è applicabile a tutti i contratti che prevedono la messa a disposizione di denaro dietro remunerazione, compresa l'apertura di credito in conto corrente, sicchè è nulla per contrarietà a norme imperative la clausola, ivi contenuta, che preveda l'applicazione di un tasso sugli interessi con fluttuazione tendenzialmente aperta con la correzione dell'automatica riduzione in caso di superamento del cd. tasso soglia usurario. Ciò trova giustificazione nella considerazione che, così altrimenti agendo, si assicurerebbe la sola astratta affermazione del diritto alla restituzione del supero in capo al correntista.
E ancora in tema di interessi applicati ai mutui, Sez. 1, n. 00801/2016, De Chiara, 638458, chiarisce che i criteri fissati dalla l. 7 marzo 1996, n. 108 per la determinazione del carattere usurario degli interessi non si applicano alle pattuizioni di questi ultimi, che siano anteriori all'entrata in vigore di quella legge, siano esse contenute in mutui a tasso fisso o variabile, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, comma 1, del d.l. 29 dicembre 2000, n. 394 - poi convertito con modifiche dalla l. 28 febbraio 2001, n. 24 - che non reca una tale distinzione.
In tema di rendita, mette conto anzitutto segnalare Sez. 2, n. 22009/2016, Falabella, Rv. 641568, ove è tracciata con chiarezza la distinzione fra detto tipo contrattuale ed il contratto atipico di cd. "vitalizio alimentare", caratterizzandosi tale ultimo per l'accentuata spiritualità delle prestazioni assistenziali che ne costituiscono il contenuto, come tali eseguibili solo da un vitaliziante specificamente individuato per le sue qualità personali, e per l'alea più marcata che lo riguarda, correlata non solo alla durata della vita del beneficiario ma anche alla variabilità e discontinuità delle prestazioni suddette, suscettibili di modificarsi secondo i suoi bisogni.
Proprio in relazione al tema dell'alea che caratterizza questi contratti, una particolare attenzione è stata dedicata alle fattispecie realizzate mediante il trasferimento di un bene immobile in favore dell'obbligato al versamento periodico.
A tale riguardo, Sez. 2, n. 04825/2016, Migliucci, Rv. 639418, ha specificato che l'aleatorietà del contratto, che sussiste a fronte di un'effettiva incertezza sui vantaggi ed i sacrifici derivanti reciprocamente alle parti dalle prestazioni, va verificata tenuto conto del valore dell'immobile trasferito al vitaliziante rispetto all'importo della rendita da erogare per la probabile durata della vita del vitaliziato, e resta così esclusa ove si accerti l'esistenza di un'obiettiva sproporzione.
Sez. 2, n. 08209/2016, Falabella, Rv. 639695, ha invece precisato che l'alea del contratto comprende anche l'aggravamento delle condizioni del vitaliziante, per cui il trasferimento all'onerato di un ulteriore bene mediante la conclusione di un successivo contratto cd. di mantenimento, quale compenso della maggiore gravosità sopravvenuta dell'assistenza da prestare, è privo di causa, poiché elimina il rischio di sproporzione tra le due prestazioni, finendo per dissimulare unacausa di liberalità.
In relazione alla stessa figura contrattuale, poi, Sez. 2, n. 19214/2016, Falaschi, Rv. 641563 ha ritenuto la nullità del contratto di vitalizio alimentare concluso da beneficiario affetto da malattia che, per natura e gravità, renda estremamente probabile un esito letale e ne provochi la morte dopo breve tempo, ovvero di età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere oltre un arco di tempo determinabile.
Un'importante precisazione in ordine alla nullità del contratto di transazione è quella contenuta in Sez. 1, n. 02413/2016, Valitutti, Rv. 638647, che - richiamando l'art. 1972, comma 1, c.c. - ribadisce che essa va limitata all'ipotesi di transazione su titolo nullo per illiceità della causa o del motivo comune ad entrambe le parti; la pronunzia esclude dunque la relativa azione per il caso in cui manchi uno degli altri requisiti previsti dall'art. 1325 c.c. o per altre ragioni, limitando poi l'ipotesi di invalidità conseguente alla nullità di singole clausole del contratto al caso in cui delle stesse risulti l'essenzialità rispetto al contratto stesso, ai sensi dell'art. 1419 c.c..
Sul tema della cd. transazione con funzione traslativa, poi, Sez. 3, n. 14432/2016, Vincenti, Rv. 640529, ha specificato che essa deve ritenersi consentita soltanto con riguardo a rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti, non essendo concepibile il trasferimento tra le parti in lite, mediante transazione, di un diritto la cui appartenenza sia incerta perché oggetto di contestazione.
Rilevante, per i suoi risvolti in tema di diritti del trasportato, è quanto affermato da Sez. 3, n. 12143/2016, Scrima, Rv. 640214, che fa carico all'acquirente del titolo di viaggio che domandi all'agente di viaggi il risarcimento del danno non patrimoniale cd. "da vacanza rovinata" di allegare gli specifici elementi di fatto donde si desume il pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.
In materia di controversie risarcitorie relative al trasporto aereo internazionale, poi, va segnalata Sez. 6-3, n. 08901/2016, Rossetti, Rv. 639710, riferita alla disposizione di cui all'art. 33 della Convenzione di Montreal (ratificata e rese esecutiva in Italia con legge 10 gennaio 2004, n. 12); la Corte ha chiarito che tale disposizione ha la sola funzione di regolare il riparto di giurisdizione, sicché il riferimento al "tribunale", contenuto nel suo testo, non vale ad individuare una competenza funzionale di detto ufficio giudiziario, trovando applicazione gli ordinari criteri di riparto stabiliti dal codice di rito.
Le pronunce sul contratto di vendita sono numerose come di consueto, toccando molte delle principali questioni giuridiche del tipo negoziale in esame.
Anche nel 2016 la Corte è intervenuta, come di consueto, in materia di garanzia per vizi, con puntualizzazioni e chiarimenti. Di particolare interesse è Sez. 2, n. 11046/2016, Abete, Rv. 640058, in ordine alla identificazione del momento in cui ha inizio la decorrenza del termine decadenziale previsto dall'art. 1495 c.c. La pronuncia afferma in particolare che, quanto alla garanzia per i vizi della cosa venduta, il termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta del vizio occulto decorre dal momento in cui il compratore ne abbia acquisito certezza obiettiva e completa. Da tale principio discende però l'ulteriore precisazione secondo cui, quando la scoperta del vizio avvenga gradatamente ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sulla consapevolezza della sua entità, occorre far riferimento al momento in cui si sia completata la relativa scoperta.
Sez. 2, n. 08420/2016, Orilia, Rv. 639755, sempre in tema di decadenza dalla garanzia, sostiene che il riconoscimento dei difetti da parte del venditore, che ai sensi dell'art. 1495, comma 2, c.c., esonera il compratore dall'onere della tempestiva denuncia, deve tradursi in una manifestazione di scienza circa la sussistenza della situazione lamentata dall'acquirente, che, pur non richiedendo un'assunzione di responsabilità né forme particolari, deve essere univoca, convincente e provenire dal venditore. Ne consegue che, ove il riconoscimento provenga da un terzo, quand'anche produttore del bene difettato, che sia estraneo al rapporto contrattuale ancorchè edotto dall'alienante delle lamentele formulate dall'acquirente, questi non è esonerato dall'onere della tempestiva denunzia dei vizi nei confronti del venditore.
Sebbene riferibile al contratto preliminare, è opportuno collocare in questo contesto Sez. 1, n. 07584/2016, Nappi, Rv. 639308, secondo cui la consegna dell'immobile, effettuata prima della stipula del contratto definitivo, non determina la decorrenza del termine di decadenza per opporre i vizi noti, né comunque di quello di prescrizione, presupponendo l'onere della tempestiva denuncia l'avvenuto trasferimento del diritto, sicchè il promissario acquirente, anticipatamente immesso nella disponibilità materiale del bene, risultato successivamente affetto da vizi, può chiedere l'adempimento in forma specifica del preliminare, ai sensi dell'art. 2932 c.c., e contemporaneamene agire con l'azione quanti minoris per la diminuzione del prezzo, senza che gli si possa opporre la decadenza o la prescrizione.
Con riguardo poi alla ipotesi della esclusione pattizia della garanzia, Sez. 2, n. 09651/2016, Lombardo, Rv. 639885, nel circoscrivere l'ambito applicativo del comma 2 dell'art. 1490 c.c., afferma che, laddove la norma prevede che il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto se il venditore abbia in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa, presupponendo che il venditore abbia raggirato il compratore con il tacere consapevolmente i vizi della cosa venduta dei quali era a conoscenza, così inducendolo ad accettare l'esonero o la limitazione dalla garanzia altrimenti mai accettata, non si applica all'ipotesi in cui lo stesso venditore sia all'oscuro (non ha importanza se anche per colpa grave), dell'esistenza dei vizi.
Sempre in materia di vizi va segnalata inoltre Sez. 2, n. 06596/2016, Scarpa, Rv. 639637, che, nel marcare la differenza tra i vizi redibitori e la mancanza delle qualità promesse, e tra questi istituti e la vendita di aliud pro alio, afferma che in tema di compravendita il vizio redibitorio previsto dall'art. 1490 c.c. e la mancanza delle qualità promesse ed essenziali del bene, previsto dall'art. 1497 c.c., pur presupponendo l'appartenenza della cosa al genere pattuito, si differenziano in quanto il primo riguarda le imperfezioni e i difetti inerenti il processo di produzione, fabbricazione o formazione o ancora conservazione della cosa, mentre la seconda è inerente alla natura della merce, e concerne tutti gli elementi essenziali e sostanziali che influiscono, nell'ambito di un medesimo genere, sull'appartenenza ad una specie piuttosto che a un'altra. Prosegue poi la pronuncia chiarendo che entrambe le ipotesi differiscono dalla consegna di aliud pro alio, che invece si ha quando la cosa venduta appartenga ad un genere del tutto diverso o presenti difetti che le impediscano di assolvere alla sua naturale funzione o a quella ritenuta essenziale dalle parti.
Il tema dei difetti di qualità apparenti nella vendita è trattato anche in Sez. 2, n. 12465/2016, Cosentino, Rv. 640089, in riferimento a cose trasportate. Sul punto la pronuncia afferma che la decorrenza del termine di denunzia dal giorno del ricevimento è stabilita dall'art. 1511 c.c. solo per le qualità essenziali all'uso cui la cosa è destinata, mentre per le qualità promesse il termine stesso decorre unicamente dalla scoperta del difetto, poiché l'affidamento generato dalla promessa del venditore solleva il compratore dall'onere di verifica alla consegna.
Infine non va sottaciuta Sez. 1, n. 02313/2016, Sambito, Rv. 638699, che, con riferimento alla contestazione della efficacia del patto di esclusione della garanzia prevista dall'art. 1490, comma 2, c.c., per essere stati sottaciuti in mala fede vizi della cosa venduta, afferma che si tratta di una eccezione in senso stretto, come tale preclusa in appello, in quanto con essa la parte intende far valere l'esistenza di raggiri impiegati per indurla ad accettare la clausola esonerativa di responsabilità, sicchè, denunciando la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede al momento della conclusione del contratto, necessita di una manifestazione di volontà di chi intenda avvalersene.
In merito agli effetti dei negozi traslativi di un bene, meritevole di menzione è la sentenza emessa da Sez. 2, n. 09769/2016, Scarpa, Rv. 639886, che ha chiarito come la compravendita di un terreno su cui insistano delle costruzioni comporta, a titolo negoziale e non in base al principio della accessione, il trasferimento anche dei relativi immobili, ancorchè non espressamente menzionati nell'atto. Tale effetto va tuttavia escluso qualora il venditore, contestualmente alla cessione, riservi a sé stesso o ad altri la proprietà del fabbricato, costituendo formalmente sul terreno alienato un diritto di proprietà superficiaria ai sensi dell'art. 952 c.c.
Interessante è anche Sez. 2, n. 10614/2016, Scalisi, Rv. 640051, in relazione alla vendita di un immobile ad un prezzo inferiore a quello effettivo. Nella ipotesi in cui ciò avvenga, la pronuncia afferma che la compravendita non realizza di per sé un negotium mixtum cum donatione, poiché per la configurabilità di tale istituto non è solo necessaria la sproporzione significativa tra le prestazioni, ma anche la consapevolezza, da parte dell'alienante, dell'insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, così da porre in essere un trasferimento volutamente funzionale all'arricchimento della controparte acquirente della somma corrispondente alla differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto.
Quanto poi alla funzione della forma del contratto di vendita, Sez. 1, n. 09994/2016, Di Virgilio, 639800, afferma che nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di immobili futuri, la forma scritta è necessaria solo per la stipulazione del contratto ad effetti obbligatori e non anche per l'individuazione del bene, la cui proprietà è trasferita non appena lo stesso viene ad esistenza. Il principio assume notevole rilevanza pratica, come dimostra la fattispecie per la quale è stato affermato, ossia relativamente ad una ipotesi di contratto di permuta di cosa futura, in cui erano stati trasferiti agli acquirenti, che ne erano risultati assegnatari "di fatto", di beni diversi da quelli scelti nel progetto originario, sebbene con caratteristiche ad essi analoghe.
Invece in tema di assegnazione di alloggi economici e popolari con patto di futura vendita, Sez. 1, n. 17042/2016, Dogliotti, Rv. 640916, afferma che, perseguendo lo specifico scopo di soddisfare le esigenze abitative degli aventi diritto, così consentendo l'accesso alla casa a prezzi di favore a soggetti comunque bisognevoli di sostegno, il trasferimento definitivo dell'immobile è subordinato al requisito della persistente utilizzazione abitativa dello stesso.
Infine, sempre con riguardo a fattispecie peculiari, e con riferimento alla ipotesi di successione di contratti sino alla stipula del contratto definitivo di compravendita, Sez. 2, n. 07064/2016, Scarpa, Rv. 639679, chiarisce che in caso di costituzione progressiva di un rapporto giuridico attraverso la stipulazione di una pluralità di atti successivi, quali la compravendita di un terreno edificabile, un contratto preliminare, in ultimo la successiva transazione definitiva (che rispetto al primo atto non conteneva più una clausola penale per il caso di mancato ottenimento della concessione edilizia), tutti soggetti alla forma scritta ad substantiam, la fonte esclusiva dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto va comunque individuata nel contratto definitivo, restando superati i negozi precedenti dalla nuova manifestazione di volontà, che può anche non conformarsi del tutto agli impegni già assunti, senza che assuma rilievo un eventuale consenso formatosi fuori dell'atto scritto, trattandosi di atti vincolati.
Alcune pronunce si sono occupate di specifiche forme di vendita. In tema di vendita a campione di cui all'art. 1522 c.c., Sez. 2, n. 06162/2016, Criscuolo, Rv. 639453, afferma che qualora sia il campione che la cosa compravenduta presentino identici vizi o mancanza di qualità e, al momento dell'accettazione del campione medesimo, gli uni e le altre non siano rilevabili dal compratore, è applicabile la disciplina ordinaria in tema di garanzia per vizi o mancanza di qualità della cosa venduta.
E sotto il profilo processuale Sez. 2, n. 09968/2016, Abete, Rv. 639751, sostiene che il giudice può vagliare qualsiasi risultanza probatoria al fine di accertare eventuali difformità della merce rispetto al campione convenuto, utilizzando al riguardo anche documenti nella disponibilità della parte acquirente.
Sez. 6-2, n. 08491/2016, Scalisi, Rv. 639604, occupandosi della vendita a prova, afferma che essa costituisce un contratto perfetto nei suoi elementi costitutivi ma sospensivamente condizionato all'esito positivo della prova, il cui accertamento attiene alla verifica obiettiva circa le qualità pattuite del bene compravenduto o la sua idoneità all'uso cui è destinato. Chiarisce che a tal fine è sufficiente dimostrare che la prova sia stata oggettivamente superata, senza necessità di accertare, all'esito della valutazione comparativa, che solo quel bene possa assicurare il risultato programmato dalle parti.
Infine meritevole di segnalazione è Sez. 2, n. 06144/2016, Picaroni, Rv. 639397, secondo cui, in tema di vendita con patto di riscatto, la nullità, per eccedenza, della clausola con cui le parti subordinano l'esercizio del riscatto al pagamento di un prezzo superiore a quello fissato per la vendita colpisce anche la pattuizione relativa al pagamento degli interessi sul prezzo medesimo, quand'anche a titolo compensativo di utilità che il venditore abbia potuto trarre in ragione di particolari accordi intervenuti con l'acquirente, giacchè tale utilità, secondo un criterio di ragionevolezza, deve ritenersi scontata nel prezzo originario fissato dalle parti.
Non mancano, come di consueto, le pronunce in tema di preliminare di vendita. Deve segnalarsi Sez. 2, n. 05211/2016, Lombardo, Rv. 639209, in ordine agli effetti della anticipata consegna del bene rispetto alla stipula del definitivo. La pronuncia chiarisce che in questa ipotesi non si realizza una anticipazione degli effetti traslativi, fondandosi la disponibilità conseguita dal promissario acquirente sull'esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al negozio preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Ne discende che la relazione tra il promissario acquirente e la cosa è qualificabile esclusivamente come di detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem ove non sia dimostrata una interversio possessionis nei modi previsti dall'art. 1141 c.c.
Sempre con riguardo alle vicende che possano coinvolgere il bene durante la vigenza del rapporto obbligatorio, Sez. 2, n. 03390/2016, Orilia, Rv. 638762, afferma che in tema di preliminare di vendita il pericolo di evizione del bene a fronte del quale, ai sensi dell'art. 1481 c.c., il promittente acquirente ha la facoltà di rifiutarsi di concludere il contratto definitivo, deve essere concreto e attuale. Tale stato non ricorre, di per sé, nell'ipotesi di fallimento del dante causa del promissario venditore, per l'eventualità, solo astratta, che venga proposta una azione revocatoria.
Quanto alle conseguenze risarcitorie per l'ipotesi di condotta inadempiente del promissario acquirente, Sez. 2, n. 04713/2016, Lombardo, Rv. 639356, chiarisce che al promittente venditore è dovuto il risarcimento del danno causatogli dall'inadempimento del promissario acquirente, che si sia ingiustificatamente sottratto alla stipulazione del definitivo, anche quando non dimostri di aver perduto, nelle more del termine pattuito per la stipula del definitivo, concrete possibilità di vendere l'immobile compromesso. Infatti la sostanziale incommerciabilità del bene, nella vigenza del preliminare fino alla proposizione della domanda di risoluzione, integra gli estremi del danno, la cui sussistenza è in re ipsa e quindi non necessitante di prova.
Sempre in ordine alla risarcibilità dei danni conseguenti all'inadempienza del promissario acquirente, Sez. 3, n. 19403/2016, Spirito, (in corso di massimazione), afferma che il danno da occupazione dell'immobile, nella ipotesi di recesso dal contratto da parte del promittente venditore, per la condotta inadempiente del promissario acquirente, va distinto dalla caparra confirmatoria versata da quest'ultimo per l'ipotesi di risoluzione del preliminare per fatti addebitabili all'obbligato acquirente, che costituisce solo una preventiva liquidazione del danno per il mancato versamento del prezzo, sicchè l'aver trattenuto la caparra non esclude il diverso ed ulteriore diritto risarcitorio del promittente acquirente al risarcimento dei danni dovuti alla occupazione dell'immobile dalla data di immissione nella sua detenzione sino al rilascio.
Sugli obblighi gravanti sul promissario acquirente ai fini della domanda di esecuzione in forma specifica, Sez. 2, n. 10605/2016, Scalisi, Rv. 639953, chiarisce che, quando questi promuova l'azione ex art. 2932 c.c., è tenuto ad eseguire la prestazione a suo carico o a farne offerta nei modi di legge se tale prestazione sia già esigibile al momento della domanda giudiziale, mentre non è tenuto a pagare il prezzo quando, in virtù delle obbligazioni nascenti dal preliminare, il pagamento dello stesso risulti dovuto all'atto della stipulazione del contratto definitivo. In tale evenienza, prosegue la pronuncia, solo con il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica sorge l'obbligazione, e l'eventuale successivo mancato saldo del prezzo, al quale è subordinato l'effetto traslativo della proprietà, rende applicabile l'istituto della risoluzione per inadempimento ma non la condizione risolutiva ex art. 1353 c.c.
Proseguendo nella segnalazione della giurisprudenza della Corte sul contratto preliminare di vendita, in ordine ai requisiti necessari del negozio, Sez. 2, n. 11237/2016, Orilia, Rv. 640046, afferma che il requisito della determinatezza o determinabilità dell'oggetto del preliminare di vendita di immobile non postula la specificazione dei dati catastali, trattandosi di indicazione rilevante ai fini della trascrizione, ma non indispensabile per la sicura identificazione del bene, che può essere evinta anche da altri dati.
Quanto poi all'interesse alla stipula del definitivo, Sez. 2, n. 15906/2016, Picaroni, Rv. 640575, sostiene che il contratto preliminare di vendita della nuda proprietà non è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. nei confronti degli eredi del promittente venditore deceduto prima della stipula del definitivo, in quanto per gli eredi medesimi è venuta meno l'utilità rappresentata dalla riserva di usufrutto.
Alcune pronunce colgono infine aspetti peculiari del contratto preliminare, sotto il profilo sostanziale o processuale.
Al fine di identificare il negozio che investe il preliminare, Sez. 2, n. 11234/2016, Scalisi, Rv. 640094, afferma che il contratto avente ad oggetto l'impegno a trasferire la proprietà di una porzione di un'area in cambio di una o più unità immobiliari da costruire sulla residua porzione dell'area, è qualificabile come preliminare di permuta di cosa futura ove l'intento concreto delle parti abbia ad oggetto il reciproco trasferimento dei beni (quello presente e quello futuro), restando meramente strumentale l'obbligo di erigere i fabbricati, mentre integra un contratto di appalto se tale obbligazione assume rilievo preminente e ad essa corrisponda quella di versare il corrispettivo (sostituito, nella forma tipica del do ut facias, dal trasferimento dell'area), anche in compensazione rispetto al prezzo per la vendita immobiliare funzionalmente collegata.
Infine, Sez. 2, n. 08693/2016, Oricchio, Rv. 639745, afferma che nella esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto di compravendita, l'esecutività provvisoria ai sensi dell'art. 282 c.p.c. della sentenza costitutiva emessa all'esito della domanda di cui all'art. 2932 c.c. è limitata ai capi della decisione che sono compatibili con la produzione dell'effetto costitutivo in un momento successivo, e non si estende a quelli che si collocano in rapporto di stretta sinallagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale, sicchè non può essere riconosciuta al capo decisorio relativo al trasferimento dell'immobile contenuto nella sentenza di primo grado, né alla condanna implicita al rilascio dell'immobile, poiché l'effetto traslativo della proprietà del bene scaturente dalla stessa sentenza si produce solo al momento del suo passaggio in giudicato, con la contemporanea acquisizione dell'immobile al patrimonio del destinatario della pronuncia.
Per unanime opinione dottrinale la negotiorum gestio (che può essere rappresentativa o non rappresentativa secondo che il gestore agisca in nome del gerito o in nome proprio) deve essere ricondotta allo schema del mandato, in quanto la relativa disciplina codicistica trova fondamento proprio nell'esigenza di estendere le regole del mandato alle fattispecie in cui manca un incarico espresso da parte del dominus.
Movendo da tale premessa dogmatica - e dopo aver rammentato che i presupposti della gestione sono la c.d. absentia domini (da intendersi non in senso tradizionale ma nel senso di contingente impedimento a provvedere personalmente all'affare), la consapevolezza del gestore di curare un interesse altrui in assenza di un obbligo giuridico di provvedervi, la mancanza di una prohibitio domini e l'utilità iniziale della gestione (cd. utiliter coeptum) - Sez. 2, n. 22302/2016, Bucciante, in corso di massimazione, ha ritenuto che concreti una gestione non rappresentativa il conferimento ad un avvocato dell'incarico di tutelare i diritti di una persona che versi in una situazione transitoria di incapacità naturale, trandone il corollario per cui il professionista può essere tenuto a restituire alla persona difesa le somme indebitamente corrispostegli dal soggetto che lo ha incaricato, atteso che, in applicazione della regola che consente al mandante, sostituendosi al mandatario, di esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato (art. 1705 c.c.), deve riconoscersi al gerito la legittimazione attiva a ripetere nei confronti dell'accipiens il pagamento indebito eseguito dal gestore.
In tema di indebito oggettivo, movendo dalla formulazione letterale dell'art. 2033 c.c. che collega la genesi dell'obbligazione restitutoria al pagamento non dovuto, Sez. 1, n. 25170/2016, Di Marzio M., in corso di massimazione, discostandosi consapevolmente dall'orientamento dottrinale secondo il quale il soggetto passivo dell'obbligazione va individuato non nell'accipiens materiale ma nel soggetto che ha effettivamente ricevuto l'incremento patrimoniale, ha ribadito il consolidato principio secondo cui la legittimazione passiva all'azione di ripetizione compete esclusivamente al soggetto che ha ricevuto la somma che si assume essere non dovuta.
In tale prospettiva è stato peraltro chiarito (da Sez. 6-3, n. 17705/2016, Rossetti, Rv. 641422) che il pagamento dell'indebito a persona defunta, ma ritenuta vivente dal solvens, fa sorgere l'obbligo di restituzione in capo a colui che di fatto si avvalga di quella somma, essendo solo quest'ultimo il soggetto che, con la materiale apprensione del pagamento, acquista la qualità di accipiens e, con essa, l'obbligo di restituire quanto acquisito. In base a questo principio, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che - in relazione alla domanda di ripetizione proposta da un istituto di credito, il quale per anni aveva erogato, per conto dell'INPS, la pensione ad un soggetto defunto mediante accredito su un conto corrente cointestato a quest'ultimo e ad un terzo - aveva ritenuto l'obbligo restitutorio trasferito dal beneficiario defunto ai suoi eredi, anziché sorto direttamente ed esclusivamente in capo al terzo cointestatario che aveva prelevato le somme indebitamente erogate.
In ordine ai presupposti dell'azione, Sez. L, n. 25270/2016, Manna A., in corso di massimazione, ha affermato che essa presuppone sempre una prestazione positiva (un facere o un dare) in precedenza indebitamente eseguita dal solvens che agisce in ripetizione, per escludere che possa essere qualificata in tali termini la domanda di pagamento di somme di danaro (corrispondenti agli incentivi all'esodo precedentemente erogati) proposta dai dipendenti contro la società datrice di lavoro, la quale abbia esercitato, mediante compensazione impropria operata all'atto della corresponsione del TFR, l'asserito diritto di ottenere la restituzione dei predetti incentivi. La pronuncia precisa che la domanda in parola va piuttosto qualificata come azione di inesatto adempimento del debito per TFR gravante sul datore di lavoro, ed è come tale assoggettata al termine di prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, n. 5, c.c. e non al termine decennale previsto per l'azione di cui all'art. 2033 c.c.
In tema di prescrizione dell'azione di indebito oggettivo, Sez. 1, n. 10713/2016, Lamorgese, Rv. 639791, ha statuito che l'azione restitutoria proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti sono stati eseguiti in pendenza del rapporto, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.
Sempre in tema di prescrizione, Sez. 3, n. 07749/2016, Carluccio, Rv. 639493, ha affermato che in caso di nullità di un contratto per impossibilità giuridica originaria del suo oggetto, l'azione di ripetizione dell'indebito, esperibile in relazione all'avvenuto versamento del corrispettivo, deve essere esercitata entro dieci anni dalla data del pagamento, non ostando al decorso della prescrizione l'assenza di un giudicato in ordine alla nullità contrattuale.
Sotto il profilo dei limiti all'esperibilità dell'azione di ripetizione in relazione alle prestazioni spontaneamente eseguite in esecuzione di doveri morali o sociali, Sez. 2, n. 19578/2016, Cosentino, Rv. 641356, si è soffermata sui caratteri dell'obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., che si distingue dalla liberalità fatta per riconoscenza nei confronti del beneficiario (cd. donazione rimuneratoria) e la cui sussistenza postula una duplice indagine, finalizzata ad accertare se ricorra un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso.
Ai fini del dies a quo della decorrenza degli interessi spettanti al solvens che agisce fondatamente in ripetizione, Sez. 6-3, n. 23543/2016, Scrima, in corso di massimazione, ha ritenuto che la buona fede dell'accipiens, rilevante per limitare la predetta decorrenza alla data della domanda, va intesa in senso soggettivo, quale ignoranza dell'effettiva situazione giuridica, derivante da un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non essendo applicabile l'art. 1147, comma 2, c.c., relativo alla buona fede nel possesso; la pronuncia in rassegna ha inoltre chiarito che, poiché la buona fede è presunta, grava sul solvens, che intenda conseguire gli interessi dal giorno del pagamento, l'onere di dimostrare la malafede dell'accipiens all'atto della ricezione della somma non dovuta, quale consapevolezza dell'insussistenza di un suo diritto a conseguirla.
Sotto il profilo processuale, Sez. 3, n. 19631/2016, Olivieri, in corso di massimazione, ha statuito che nell'ipotesi di azione di ripetizione di somme per indebito oggettivo, fondato sull'affermazione che, pur nella sussistenza di uno specifico rapporto obbligatorio tra le parti, le somme richieste in ripetizione non sono dovute per mancata giustificazione del pagamento eccedente la causa di scambio, la difesa del convenuto assume natura di mera difesa se volta a negare il fatto costitutivo della domanda, mentre si atteggia quale eccezione riconvenzionale di merito se rivolta ad individuare un autonomo titolo contrattuale giustificativo del pagamento contestato. Ne consegue che nella seconda ipotesi, ampliandosi il thema decidendum, l'eccezione riconvenzionale deve essere fatta valere nel rispetto delle preclusioni processuali.
La Suprema Corte, con Sez. U, n. 01837/2016, Iacobellis, Rv. 638223, ha infine affermato un importante principio in tema di imposta di consumo per il gas metano, statuendo che la domanda di ripetizione proposta dal consumatore verso il fornitore per quanto indebitamente pagato a causa della mancata applicazione dell'aliquota ridotta per usi industriali può essere accolta con decorrenza dalla data di presentazione della relativa istanza all'autorità finanziaria e non da un momento anteriore, posto che il godimento del beneficio è subordinato alla dimostrazione della sussistenza dei presupposti da parte del contribuente e alla verifica dei medesimi da parte dell'autorità competente, ciò che riverbera i suoi effetti anche nel rapporto privatistico tra consumatore e fornitore.
Con riguardo ai presupposti dell'azione generale di arricchimento (identificati, ai sensi dell'art. 2041, comma 1, c.c., nell'arricchimento di un soggetto, nel correlativo impoverimento di un altro soggetto e nella mancanza di una giusta causa), Sez. 2, n. 07331/2016, Falabella, Rv. 639455, ha statuito che quest'ultimo presupposto non è invocabile allorché l'arricchimento (nella specie, l'assegnazione di un alloggio realizzato da una cooperativa edilizia) dipenda da un atto di disposizione volontaria (nella specie, la cessione, in favore dell'assegnatario, delle quote della società cooperativa), finché questo conservi la propria efficacia obbligatoria.
Con riguardo agli effetti dell'ingiustificato arricchimento (consistenti nell'obbligo di indennizzo o in quello di restituzione, ai sensi dell'art. 2041, commi 1 e 2, c.c.), Sez. 1, n. 14526/2016, De Chiara, Rv. 640504, ha affermato che, ove l'arricchimento sia conseguito all'assenza di un valido contratto di appalto, l'indennità prevista dall'art. 2041, comma 1, c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita da chi ha eseguito la prestazione, con esclusione di quanto questi avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace.
Avuto riguardo al carattere sussidiario dell'azione di arricchimento (art. 2042 c.c.), Sez. 6-3, n. 12242/2016, De Stefano, Rv. 640266, ha ritenuto l'inammissibilità di quella proposta nei confronti dell'aggiudicatario dal debitore esecutato, in ragione delle opere eseguite sul bene pignorato durante il processo esecutivo, dovendo le relative questioni essere tempestivamente dedotte con gli strumenti propri di tale processo.
Sotto il profilo processuale, infine, Sez. 1, n. 18693/2016, Campanile, Rv. 611346, ha statuito che in caso di rigetto della domanda di arricchimento senza causa, proposta per la prima volta dal creditore opposto nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, emesso con riguardo alla sua domanda di adempimento, senza che la relativa statuizione sia stata impugnata con ricorso incidentale da parte del preteso arricchito, unico soggetto interessato alla sua eventuale censurabilità, si forma il giudicato implicito sulla questione pregiudiziale relativa alla proponibilità della domanda ex art. 2041 c.c., costituendo la mancata impugnazione sintomo di un comportamento incompatibile con la volontà di far valere in sede di impugnazione la questione pregiudiziale (che dà luogo ad un capo autonomo della sentenza e non costituisce un mero passaggio interno della decisione di merito, come si desume dall'art. 279, comma 2, n. 2 e 4, c.p.c.), verificandosi il fenomeno dell'acquiescenza per incompatibilità, con le conseguenti preclusioni sancite dagli artt. 324 e 329, comma 2, c.p.c., in coerenza con i principi dell'economia processuale e della durata ragionevole del processo, di cui all'art. 111 Cost.
La Suprema Corte, con la pronuncia di Sez. L, n. 00583/2016, Bronzini, Rv. 638512, è tornata sulla questione attinente alla risarcibilità di plurime voci di danno non patrimoniale, ritenendola possibile purché tali voci siano allegate e provate nella loro specificità, risolvendosi tale soluzione in una ragionevole mediazione tra l'esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all'integrità psico-fisica della persona con tratti unitari suscettibili di essere globalmente considerati, e quella di valutare l'incidenza dell'atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del "cittadino-lavoratore", protetti non solo dalle fonti costituzionali interne, ma anche da quelle internazionali e comunitarie, incombendo sul lavoratore la prova che un particolare e specifico aspetto della sua personalità ed integrità morale, anche dal punto di vista professionale, non sia stato già risarcito a titolo di danno morale. In applicazione di tale principio la S.C. ha quindi confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di danno esistenziale, richiesta a seguito di danno da grave trauma di schiacciamento della mano sinistra e in relazione all'asserita diminuzione delle attività sportive e relazionali, per essere stata detta componente già riconosciuta a titolo di danno morale.
Peraltro, Sez. 3, n. 00336/2016, D'Amico, Rv. 638611, ha ribadito che non è ammissibile nel nostro ordinamento l'autonoma categoria del "danno esistenziale", in quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., sicché la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una non consentita duplicazione risarcitoria; ove, invece, si intendesse includere nella categoria i pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, la stessa sarebbe illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili alla stregua dello stesso articolo 2059 c.c.. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito di non liquidare, con voce autonoma, il danno esistenziale da morte del congiunto, per essere stato già liquidato il relativo danno non patrimoniale comprensivo sia della sofferenza soggettiva che del danno costituito dalla lesione del rapporto parentale e del conseguente sconvolgimento dell'esistenza.
Con riferimento al danno morale in caso di incidente stradale, Sez. 3, n. 00339/2016, D'Amico, Rv. 638731, ha affermato che ne è dovuta la liquidazione, ancorché conseguente a lesioni di lieve entità (micropermanenti), purchè si tenga conto della lesione in concreto subita, non sussistendo alcuna automaticità parametrata al danno biologico, e il danneggiato è onerato dell'allegazione e della prova, eventualmente anche a mezzo di presunzioni, delle circostanze utili ad apprezzare la concreta incidenza della lesione patita.
Una peculiare decisione è intervenuta in tema di danno non patrimoniale derivante dal reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di cui all'art. 684 c.p. commesso dopo la conclusione delle indagini preliminari (ossia quando, in base all'art. 114, comma 7, c.p.p., gli atti non sono più segreti ma ne è vietata la pubblicazione testuale): in proposito, Sez. U, n. 03727/2016, Amendola A., Rv. 640409, ha affermato che la portata della violazione, sotto il profilo della limitatezza e della marginalità della riproduzione testuale di un atto processuale, va apprezzata dal giudice di merito, in applicazione del principio penalistico di necessaria offensività della concreta condotta ascritta all'autore, nonché, sul piano civilistico, di quello della irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità, espressione del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. di tolleranza della lesione minima; la stessa sentenza ha altresì precisato che la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
Infine, da un punto di vista più generale, Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640308, ha chiarito che la diversa natura del danno non patrimoniale rispetto a quello patrimoniale persiste anche a seguito della sua liquidazione, che ha la sola funzione di tradurre il pregiudizio sofferto in un'entità economicamente valutabile.
Per quanto concerne il danno non patrimoniale da perdita della vita, assume rilievo la decisione di Sez. L, n. 14940/2016, Doronzo, Rv. 640733, che ha ritenuto tale danno non indennizzabile ex se, escludendo altresì che possa essere invocato il "diritto alla vita" di cui all'art. 2 CEDU, norma che, pur di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene vita, non detta specifiche prescrizioni sull'ambito ed i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, né, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l'attribuzione della tutela risarcitoria; peraltro, osserva la citata sentenza, riconoscimento di una simile tutela, in numerosi interventi normativi, ha comunque carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull'evento lesivo in sé considerato.
Con riferimento alla tutela della salute del lavoratore, Sez. L, n. 03291/2016, Tria, Rv. 639004, ha arricchito la casistica giurisprudenziale delineando la rilevanza delle condizioni lavorative "stressogene".
In proposito, tale sentenza, ha affermato che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" (cd. straining); pertanto, ha quindi concluso la pronuncia di cui si discorre, il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno.
Ancora in tema di salute del lavoratore, è di sicuro interesse ed attualità Sez. L, n. 18503/2016, Riverso, Rv. 641194, in tema di patologie correlate all'amianto. In particolare, la pronuncia citata, partendo dal rilievo che il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, ha chiarito il contenuto dell'obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, all'art. 21 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza: in particolare, la sentenza ha affermato che il suddetto obbligo comporta che non sia sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità, l'affermazione dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, threshold limit value) poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte.
Nel diverso ambito della responsabilità professionale del medico, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 02998/2016, Vincenti, Rv. 638979, che si è occupata dell'ipotesi in cui, a fronte di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute del paziente, al quale non fosse stata in precedenza fornita un'adeguata informazione circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili; secondo la Corte, in tale caso il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.
La Corte è tornata anche nel corso dell'anno 2016 ad occuparsi del danno da rottura del vincolo parentale.
Con una prima pronuncia, Sez. 3, n. 12146/2016, Vincenti, Rv. 640287, ha ribadito, nel solco tracciato dall'impianto motivazionale della pronuncia Sez. 3, n. 04253/2012, Carluccio, Rv. 621634, l'affermazione secondo cui il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. In tale ambito, la Corte ha ritenuto la irrilevanza, per l'operare della presunzione, del requisito della convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro, posto che al momento del sinistro la vittima era in Italia e i congiunti in Ucraina.
Con una seconda pronuncia, Sez. 3, n. 21060/2016, Scarano, Rv. 642934, ha riaffermato il principio secondo cui il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art.2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì in fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte, dando continuità all'orientamento già espresso da Sez. 3, n. 10527/2011, Scarano, Rv. 618210, richiamato espressamente dalla decisione di merito, ne confermava la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento del danno esistenziale formulata in conseguenza del decesso del congiunto in quanto l'onere di allegazione, lungi dall'essere stato adempiuto in modo circostanziato, si era risolto in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.
In tema di diritto all'identità personale, Sez. 1, n. 15024/2016, Bisogni, Rv. 641021, si è occupata del caso di cd. parto anonimo, sancendo che sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all'identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall'art. 93, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196; l'applicazione di tale norma determinerebbe, infatti, la cristallizzazione della scelta della madre anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost. n. 278 del 2013), nonchè l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta.
In tema di diritto di critica, Sez. 3, n. 12522/2016, Barreca, Rv. 640275, ha sottolineato che il requisito della continenza si atteggia non solo come correttezza formale delle espressioni adoperate ma anche come corretta manifestazione delle proprie opinioni, sicché l'aggressione all'altrui reputazione non scriminata dal diritto di critica, e perciò fonte di responsabilità, si riscontra, pur in assenza di espressioni in sé offensive, anche in caso di accostamento allusivo di fatti ed opinioni tale da non consentire di distinguere gli uni dalle altre e da alterare la portata ed il significato dei primi al fine di corroborare surrettiziamente le seconde.
Sotto altro profilo, Sez. 6-3, n. 09424/2016, Sestini, Rv. 639920, ha evidenziato che la circostanza che il giudice penale abbia escluso l'elemento della condotta consistente nella divulgazione a più persone di circostanze offensive, con ciò pervenendo all'affermazione dell'insussistenza del relativo reato, non osta alla possibilità che il fatto dell'avvenuta pronuncia di espressioni offensive (pacificamente accertato dal giudice penale) possa essere valutato di per sé dal giudice civile come fatto generatore della responsabilità ex art. 2043 c.c.
La S.C., con Sez. 3, n. 12143/2016, Scrima, Rv. 640214, ha statuito che l'acquirente di biglietto aereo, il quale chieda la condanna dell'agente di viaggi al risarcimento del danno non patrimoniale da "vacanza rovinata" ha l'onere di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.
In materia di danno ambientale, Sez. 3, n. 03259/2016, Vincenti, Rv. 638767, ha esaminato le fattispecie sussumibili ratione temporis nell'art. 2043 c.c. (e non nell'art. 18 della l. 8 luglio 1986, n. 349), statuendo che in tali ipotesi il comportamento idoneo ad integrare l'illecito consiste in una condotta dolosa o colposa di danneggiamento dell'ambiente (non richiedendosi anche la "violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge", secondo le previsioni della suddetta lex specialis), destinata a persistere sino a quando il suo autore mantenga - in base a libera determinazione, sempre reversibile - le condizioni di lesione ambientale, con la conseguenza che la prescrizione del diritto al risarcimento decorre solo dalla cessazione di tale contegno, sia essa volontaria ovvero dipendente dalla perdita di disponibilità del bene danneggiato.
Quanto al profilo della liquidazione del danno ambientale, Sez. 1, n. 14935/2016, Didone, Rv. 640804, ha osservato che la liquidazione per equivalente è ormai esclusa dalla data di entrata in vigore della l. 6 agosto 2013, n. 97, ma il giudice può ancora conoscere della domanda pendente alla data di entrata in vigore della menzionata legge in applicazione del nuovo testo dell'art. 311 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (come modificato prima dall'art. 5-bis, comma 1, lett. b, del d.l. 25 settembre 2009, n. 135 del 2009, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, e poi dall'art. 25 della l. n. 97 del 2013), individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.
Riveste un certo interesse, anche per la ricorrente frequenza della fattispecie, la decisione di Sez. 6-3, n. 09942/2016, Scrima, Rv. 639833, in tema di risarcimento dei danni subiti da un autoveicolo in conseguenza di un incidente stradale: premesso che il danno patrimoniale ha la funzione di reintegrare il patrimonio del danneggiato nella esatta misura della sua lesione, la citata pronuncia ha affermato che le spese sostenute per le riparazioni dell'autoveicolo sono rimborsabili solo per la parte che corrisponde ai correnti prezzi di mercato, a meno che il maggiore esborso non sia giustificato da particolari circostanze oggettive (quale l'esistenza nella zona di una sola autofficina qualificata) e queste siano state provate dall'interessato, che non può di conseguenza, a fondamento della sua pretesa risarcitoria, limitarsi a produrre la documentazione di spese, da lui sostenute, non corrispondenti ai costi correnti, secondo una valutazione del giudice di merito, fondata su nozioni di comune esperienza o su dati acquisiti con consulenza tecnica di ufficio.
Un'altra fattispecie peculiare è stata esaminata da Sez. 3, n. 13283/2016, Olivieri, Rv. 640394, con riguardo al caso di risoluzione, per inadempimento del mutuatario, di un contratto di mutuo cui acceda una clausola in forza della quale costui si era impegnato, per la durata del rapporto negoziale, a preferire il mutuante nel caso di sottoscrizione di polizze assicurative; in tale ipotesi, la sentenza citata ha precisato che l'agente del mutuante non può agire ai sensi dell'art. 2043 c.c. nei confronti del mutuatario a tutela del proprio credito, non vantando egli alcun interesse giuridicamente rilevante, ma una semplice aspettativa di fatto a maturare ulteriori provvigioni, come tale inidonea a costituire in capo allo stesso un'entità di natura patrimoniale tutelabile erga omnes, neppure sotto il profilo di danno da perdita di chances.
Peraltro, come precisato da Sez. 1, n. 19604/2016, Valitutti, Rv. 641334, la perdita di "chance" può costituire un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, solo qualora sussista un pregiudizio certo, anche se non nel suo ammontare, consistente nella perdita di una possibilità attuale, con la conseguenza che tale categoria di danno esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza.
La liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale. Infatti, come statuito da Sez. 6-3, n. 08896/2016, Rossetti, Rv. 639896, il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell'art. 137 c.ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell'infortunio godeva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato.
In caso di infortuni sul lavoro, Sez. L, n. 04025/2016, Boghetich, Rv. 639165, ha inoltre precisato che il datore di lavoro risponde dei danni occorsi al lavoratore infortunato nei limiti del cd. danno differenziale che non comprende le componenti del danno biologico coperte dall'assicurazione obbligatoria, sicché, per le fattispecie anteriori all'ambito temporale di applicazione dell'art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, il datore risponde dell'intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtati gli importi percepiti a titolo di rendita INAIL, corrispondenti, nel regime allora vigente, solo al danno patrimoniale legato al pregiudizio alla capacità lavorativa generica.
In tema di danno patrimoniale futuro, Sez. 3, n. 07774/2016, Rossetti, Rv.639494, ha statuito che nella liquidazione del danno patrimoniale consistente nelle spese che la vittima di lesioni personali deve sostenere per l'assistenza domiciliare, il giudice deve detrarre dal credito risarcitorio sia i benefici spettanti alla vittima a titolo di indennità di accompagnamento (ex art. 5 della l. 12 giugno 1984, n. 222), sia quelli previsti dalla legislazione regionale in tema di assistenza domiciliare, posto che dell'insieme di tali disposizioni il giudice - in virtù del principio iura novit curia - dovrà fare applicazione d'ufficio se i presupposti di tale applicabilità risultino comunque dagli atti.
Degne di menzione le considerazioni espresse da Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640308, che, decidendo nell'interesse della legge ex art. 363, comma 1, c.p.c., ha rimarcato l'erroneità della motivazione resa dal giudice di merito il quale, pur qualificando correttamente il danno di natura non patrimoniale, aveva ritenuto che lo stesso divenisse patrimoniale in sede di liquidazione. Secondo la Corte, in sostanza, il danno non patrimoniale diverge, per natura, da quello patrimoniale e tale diversità persiste anche all'atto della liquidazione, che ha la sola funzione di tradurre il pregiudizio sofferto in un'entità economicamente valutabile.
In tema di integrale risarcimento del danno conseguente a fatto illecito, Sez. 3, n. 03173/2016, Rossetti, Rv. 639074, ha affermato che la liquidazione in moneta attuale ristora la perdita patrimoniale o non patrimoniale patita dal danneggiato, ma non necessariamente copre l'intero pregiudizio da quest'ultimo subito, potendo residuare un ulteriore danno, conseguente al ritardato pagamento dell'importo dovuto a titolo di risarcimento, il quale tuttavia non è in re ipsa, essendo onere del creditore allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici, che il tempestivo pagamento gli avrebbe consentito remunerativi investimenti.
In tema di liquidazione degli interessi, Sez. 3 n. 12140/2016, Cirillo F.M., Rv. 640243, ha sottolineato come gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall'art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente; ne consegue che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, che il giudice di merito, anche in sede di giudizio di rinvio, deve attribuire, senza per ciò solo incorrere nel vizio di ultrapetizione. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 12288/2016, Olivieri, Rv. 640256, ha ritenuto che ove il giudice di merito abbia riconosciuto sulla somma capitale dovuta al danneggiato e liquidata nella sentenza di primo grado gli interessi compensativi al tasso legale, gli interessi per l'ulteriore danno da mancata tempestiva disponibilità dell'equivalente monetario del pregiudizio patito decorrono non dalla pubblicazione della decisione, ma dai singoli momenti nei quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio.
Sempre in tema di interessi, appaiono di sicuro rilievo due ulteriori pronunce, da un lato, Sez. 3 n. 11899/2016, Rubino, Rv. 640204, secondo cui sono dovuti sia la rivalutazione della somma liquidata ai valori attuali, al fine di rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, che deve essere adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale, sia gli interessi compensativi sulla predetta somma, che sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, dall'altro, la già citata Sez. 3, n. 12140/2016, Cirillo F.M., Rv. 640242, secondo cui l'ulteriore danno da ritardato adempimento dell'obbligo di risarcimento causa al creditore, rappresentato dalla perduta possibilità di investire la somma dovutagli e ricavarne un lucro finanziario, va liquidato dal giudice in via equitativa, anche facendo ricorso ad un saggio di interessi (cd. interessi compensativi) non costituenti frutto civile dell'obbligazione principale ma mera componente dell'unico danno da fatto illecito.
In tema di lesione del diritto all'immagine ed alla reputazione, è stato chiarito da Sez. 1, n. 01091/2016, Lamorgese, Rv. 638494, che la quantificata entità del corrispondente danno non patrimoniale risarcibile non può essere automaticamente ridotta per effetto della pubblicazione della sentenza su un quotidiano, costituendo tale misura, oggetto di un potere discrezionale del giudice, una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all'ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell'illecito, diversamente dal risarcimento del danno per equivalente che mira al ristoro di un pregiudizio già verificatosi.
Anche nel corso dell'anno 2016, resta confermato l'orientamento secondo cui la categoria generale del danno non patrimoniale - posta a presidio degli interessi inerenti la persona di tipo aredittuale - ha una natura complessa rispetto alla quale i singoli aspetti del pregiudizio subìto assumono una funzione meramente descrittiva della quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva del danno. Con le sentenze delle Sezioni Unite dell'11 novembre 2008 (v. in particolare Sez. U., n. 26972/2008, Preden, Rv. 605495) il danno non patrimoniale è stato ricondotto ad una nozione unitaria, escludendosi, in particolare, al fine di evitare indebite duplicazioni risarcitorie, la possibilità di un'autonoma liquidazione del danno morale in aggiunta al danno biologico e salva, tuttavia, la necessità di tenere conto di tutti i pregiudizi subiti dalla vittima nel caso concreto nonché dell'effettiva consistenza delle sofferenze da lei patite, in funzione dell'integralità del ristoro, da salvaguardare attraverso l'eventuale personalizzazione della liquidazione.
In tale solco, si pone Sez. 3, n. 00336/2016, D'Amico, Rv. 638611, che ha ribadito la non ammissibilità nel nostro ordinamento dell'autonoma categoria del cd. danno esistenziale (cfr. § 1.).
Di sicuro rilievo, in termini generali, quanto affermato da Sez. 3, n. 12284/2016, Scrima, Rv. 640375, secondo cui l'obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito contrattuale o extracontrattuale ha per oggetto l'integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato, sicché in caso di distruzione e danneggiamento di alcuni alberi di ulivo a causa di un incendio va riconosciuto non solo il danno (lucro cessante) per la perdita del reddito prodotto dagli ulivi, protratta per la loro prevedibile vita residua, ma anche quello (danno emergente) per la perdita degli stessi alberi e consistente nel valore in sé dei beni.
In via di principio, è pacifico in giurisprudenza che l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare. Il potere discrezionale si sostanzia in un giudizio caratterizzato dall'equità correttiva od integrativa, a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile nell'an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata o infine debba ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa, nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova del quantum debeatur.
L'esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito, così Sez. 1, n. 05090/2016, Nappi, Rv. 639029.
Con riferimento all'onere della prova, Sez. 3, n. 00127/2016, Ambrosio, Rv. 638248, ha ritenuto che grava sulla parte interessata l'onere di provare non solo l'an debeatur del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi in re ipsa, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso.
In tema di quantificazione equitativa del danno morale, Sez. 3, n. 03260/2016, Carluccio, Rv. 638890, ha precisato che l'utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico individuato nelle tabelle in uso, prima della sentenza delle Sez.U. n. 26972 del 2008, non comporta che, provato il primo, il secondo non necessiti di accertamento, perché altrimenti si incorre nella duplicazione del risarcimento; invece deve prima accertarsi, con metodo presuntivo, il pregiudizio morale subito, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo, allegando i fatti dai quali emerge la sofferenza morale di chi ne chiede il ristoro, e successivamente, se provato, può ricorrersi al suddetto metodo percentuale come parametro equitativo.
Viene riaffermato anche nel corso dell'anno 2016 il valore di parametro di conformità della valutazione equitativa operata dal giudice alle disposizioni di cui agli artt.1226 e 2056 c.c. attribuito alle tabelle milanesi in tema di danno non patrimoniale alla persona. Il rilievo dato a tali criteri di liquidazione è volto a garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi (in tal senso: Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618048). In conformità a questo orientamento sono intervenute diverse pronunce che, per un verso, hanno chiarito la natura delle tabelle e, per l'altro, riaffermato le esigenze sia di uniformità di trattamento su base nazionale sia di personalizzazione del risarcimento in base alle circostanze del caso concreto.
Quanto alla natura delle tabelle, rilevante è la precisazione contenuta nella pronuncia della Sez. 3, n. 09367/2016, Frasca, Rv. 639902, che ne ha negato il valore di fonti normative affermando che qualora - dopo la deliberazione della decisione e prima della sua pubblicazione - sia intervenuta una loro variazione, deve escludersi che l'organo deliberante abbia l'obbligo di riconvocarsi e di procedere ad una nuova operazione di liquidazione del danno in base alle nuove tabelle, la cui modifica non integra uno jus superveniens né in via diretta «né in quanto dette tabelle assumano rilievo, ai sensi dell'art. 1226 c.c., come parametri doverosi per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona».
Di sicuro interesse pure quanto affermato da Sez. 3 n. 07768/2016, Scarano, Rv. 639497, che ha ritenuto doversi consentire - allorquando in corso di causa (ivi compresa la fase di gravame) sia sopravvenuto il principio giurisprudenziale enunciato dalla S.C. con sentenza n. 12408/2011, secondo cui la mancata adozione delle cd. tabelle di Milano integra un vizio di violazione di legge - a chi agisce per il risarcimento del danno, di chiederne l'applicazione, per la prima volta, anche in fase di precisazione delle conclusioni.
È stato ribadito, inoltre, che il riferimento a tabelle diverse da quelle elaborate dal tribunale di Milano, comportante una liquidazione di entità inferiore a quella risultante dall'applicazione di queste ultime, può essere fatta valere come vizio di violazione di legge, soltanto ove la questione sia stata già posta nel giudizio di merito ed il ricorrente abbia versato in atti le tabelle milanesi, anche a mezzo della loro riproduzione negli scritti difensivi conclusionali, Sez. 1, n. 17678/2016, De Chiara, Rv. 641368.
Quanto alle esigenze di uniformità di trattamento e di personalizzazione del danno, Sez. 3, n. 03505/2016, Tatangelo, Rv. 638919, ha affermato che in tema di danno non patrimoniale, qualora il giudice, nel soddisfare esigenze di uniformità di trattamento su base nazionale, proceda alla liquidazione equitativa in applicazione delle tabelle predisposte dal tribunale di Milano, nell'effettuare la necessaria personalizzazione di esso, in base alle circostanze del caso concreto, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all'oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'id quod plerumque accidit, dando adeguatamente conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate.
In tema di liquidazione del danno biologico, è stato osservato, allorquando la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, che l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto. In particolare, la Corte ha confermato la sentenza di merito, la quale, dopo avere escluso che la morte del danneggiato fosse riconducibile con certezza, o anche con congrua probabilità, al trattamento sanitario ricevuto dallo stesso danneggiato due anni prima del decesso, dal quale era conseguita una menomazione permanente, aveva ritenuto che il danno biologico trasmissibile iure hereditatis dovesse calcolarsi non sulla base della aspettativa di vita media, bensì dell'effettiva vita residua goduta dal danneggiato, Sez. 3, n. 00679/2016, Ambrosio Rv. 638672. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 10897/2016, De Stefano, Rv. 640126, la liquidazione del danno biologico va parametrata alla durata effettiva della vita, se questa è più breve - per cause indipendenti dal sinistro oggetto del giudizio - rispetto a quella attesa o corrispondente alla vita media e tenendo in debito conto la maggiore intensità del patema d'animo nei primi tempi successivi all'evento, assumendo esclusiva rilevanza soltanto la sofferenza effettivamente patita per il residuo tempo di durata della vita, nel rispetto del fondamentale principio di contenimento di qualunque forma di risarcimento all'effettivo pregiudizio arrecato.
In tema di liquidazione del danno biologico temporaneo, Sez. 3, n. 18773/2016, Vincenti, Rv. 642106, ha annullato la decisione di merito che ne aveva escluso la risarcibilità nonostante il referto medico avesse diagnosticato contusioni alla spalla, al torace e alla regione cervicale, guaribili in sette giorni che, pertanto, non potevano essere ritenute, come ritenuto dal giudice di merito, affezioni asintomatiche di modesta entità non suscettibili di apprezzamento obiettivo clinico alla persona a seguito di sinistro derivante dalla circolazione stradale; ha in proposito chiarito la Corte che l'art. 32, commi 3-ter e 3-quater, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, esplica criteri scientifici di accertamento e valutazione del danno biologico tipici della medicina legale, conducenti a una obiettività dell'accertamento riguardante le lesioni e i relativi postumi qualora esistenti e si applica ai giudizi in corso, ancorchè si riferisca a sinistri verificatisi in data anteriore alla loro entrata in vigore, trattandosi di disposizioni non attinenti alla consistenza del diritto, ma solo al momento, successivo, del suo accertamento in concreto.
Infine, Sez. 6-3, n. 22862/2016, Rossetti, Rv. 642998, ha statuito che il calcolo del cd. danno biologico differenziale deve avvenire sottraendo dal credito risarcitorio l'importo dell'indennizzo versato alla vittima dall'INAIL per il medesimo pregiudizio e, qualora tale indennizzo sia costituito da una rendita, come avviene quando i postumi permanenti siano superiori al 16%, va sottratto l'importo capitalizzato della rendita stessa, tenendo conto delle variazioni che quest'ultima può subire in relazione alle condizioni di salute dell'infortunato, ove intervengano prima che il diritto al risarcimento del danno diventi "quesito"; ha precisato, peraltro, che nel caso in cui il danneggiato deduca in appello che, a causa di una guarigione parziale, si sia ridotto il valore dell'indennizzo e sia di conseguenza aumentato il risarcimento dovutogli a titolo di danno differenziale, ha l'onere di dedurre e dimostrare che tale guarigione, a causa della non coincidenza tra le tabelle usate dall'INAIL e quelle utilizzate in ambito civilistico per la stima dell'invalidità permanente, abbia ridotto solo la misura dell'indennizzo dovuto dall'assicuratore sociale, ma non abbia inciso sul danno biologico e sul relativo credito risarcitorio, dovendo altrimenti presumersi che anche quest'ultimo si sia ridotto e che quindi non sia mutato il danno differenziale.
Nell'anno 2016 l'ambito di applicazione dell'art. 1227 c.c. è stato affrontato dalla giurisprudenza della Suprema Corte in diverse pronunce, le quali offrono una interessante e variegata casistica.
Con riguardo alla responsabilità per fatto illecito doloso, Sez. 3, n. 05679/2016, Travaglino, Rv. 639388, ha affermato che l'art. 1227 c.c., concernente la diminuzione della misura del risarcimento in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato, in quanto la determinazione dell'autore del delitto di tenere la condotta illecita costituisce causa autonoma del danno, non potendo ritenersi che la consecuzione del delitto al fatto della provocazione esprima una connessione rispondente ad un principio di regolarità causale. In virtù di tale principio è stata quindi negata la riduzione del risarcimento del danno conseguente a lesioni personali subite all'interno di una discoteca e consumate da un "buttafuori".
In materia di responsabilità da sinistro stradale, Sez. 3, n. 09241/2016, Pellecchia, Rv, 639708 ha statuito che l'omesso uso del casco protettivo da parte di un motociclista vittima di incidente può essere fonte di corresponsabilità del medesimo, a condizione che tale infrazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, ed ha altresì precisato che quest'ultima circostanza può essere accertata anche d'ufficio dal giudice, giacché riconducibile alla previsione di cui all'art. 1227, comma 1, c.c.
Ancora con riferimento ad una ipotesi di sinistro stradale, è stata invece esclusa l'applicabilità dell'art. 1227 c.c. in caso di danni derivanti dall'urto tra un autoveicolo ed un animale. Al riguardo, Sez. 3, n. 04373/2016, Chiarini, Rv. 639473, ha osservato che la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore dell'animale concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., che ha portata generale, applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione; ne consegue che, ove il danneggiato sia il conducente e non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso - sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico dimostrando, quanto al conducente, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto al proprietario dell'animale, il caso fortuito - il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c..
Il peculiare caso della applicabilità dell'art. 1227 c.c. nelle ipotesi di responsabilità dell'intermediatore finanziario è stato affrontato da Sez. 1, n. 04037/2016, Cristiano, Rv. 638800, la quale, in linea generale, ha ritenuto che l'intermediario non può invocare, quale causa di esclusione della responsabilità per i danni arrecati a terzi ex art. 23 del d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (applicabile ratione temporis) nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari, la semplice allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore le somme di denaro di cui quest'ultimo si è illecitamente appropriato con modalità difformi da quelle che sarebbero legittime ai sensi dei vigenti regolamenti Consob (nella specie, versate con assegno bancario recante, in bianco, il nome del prenditore invece che con assegni non trasferibili intestati al soggetto abilitato per conto del quale il promotore operava); un tal fatto, precisa la pronuncia citata, non può essere addotto dall'intermediario neppure come concausa del danno subito dall'investitore al fine di ridurre l'ammontare del risarcimento dovuto, atteso che le disposizioni regolamentari emanate dalla Consob, anche se inserite nel documento contrattuale sottoscritto dal cliente, sono dirette unicamente a porre a carico del promotore finanziario un obbligo di comportamento a tutela dell'interesse del risparmiatore, sicché non possono tradursi in un onere di diligenza a carico di quest'ultimo, tale da risolversi in un addebito di colpa nei confronti del danneggiato dall'altrui atto illecito. Peraltro, la medesima sentenza aggiunge che a tale principio non trova applicazione nel diverso caso in cui la condotta dell'investitore presenti connotati, se non di collusione, quanto meno di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, diventando, così, rilevante ai fini dell'art. 1227 c.c..
Nell'ambito del diritto lavoristico, con specifico riguardo al risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo Sez. L, n. 04865/2016, Tria, Rv. 639114, ha affermato che l'obbligo del creditore di cooperazione e di attivazione volto ad evitare l'aggravarsi del danno, secondo l'ordinaria diligenza ex art. 1227, comma 2, c.c., riguarda solo le attività non gravose, né eccezionali, o tali da non comportare notevoli rischi o sacrifici, sicché non sono imputabili al lavoratore le conseguenze dannose derivanti dal tempo da questi impiegato per la tutela giurisdizionale, sia che si tratti di inerzia endo che preprocessuale, tutte le volte che le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la tutela dei propri diritti e la riduzione del danno. Nel caso concreto la Suprema Corte ha pertanto escluso il concorso di colpa del lavoratore in un'ipotesi di instaurazione del giudizio a distanza di due anni e mezzo dall'intimazione del licenziamento, laddove il datore non aveva dimostrato la riconducibilità del ritardo a dolo o colpa del lavoratore.
Sempre nell'ambito della materia del lavoro, Sez. L, n. 06708/2016, Esposito L., Rv. 639250, con riferimento al risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, ha ritenuto che l'omessa ricerca di un'altra occupazione non può incidere sull'entità risarcitoria, quale concorso colposo del creditore ai sensi dell'art. 1227 c.c., in quanto all'illegittimità del termine consegue l'invalidità parziale della clausola e la permanenza dell'interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto.
Merita infine di essere segnalata una pronuncia afferente al contratto di fornitura di energia elettrica e relativa ad un caso di danni subiti da coltivazioni in serra per congelamento, a seguito di una non preavvisata interruzione dell'erogazione del servizio e del conseguente venir meno del riscaldamento: al riguardo Sez. 3, n. 12148/2016, Vincenti, Rv. 640290, ha statuito che la mancata tempestiva chiusura manuale delle finestre di areazione della serra non integra una causa da sola efficiente a determinare l'evento dannoso, attesa l'assenza, in capo al danneggiato, di un obbligo legale o contrattuale (neppure in relazione alla clausola di buona fede) per l'adozione di misure idonee a neutralizzare il disservizio; inoltre, precisa la citata sentenza, tale contegno omissivo del danneggiato è privo di rilievo causale ai fini dell'art. 1227, comma 1, c.c., posto che nella causazione del danno presenta carattere assorbente il mancato adempimento, da parte del soggetto erogatore del servizio, dell'obbligo contrattuale di dare comunicazione agli utenti della programmata interruzione dell'energia elettrica.
In tema di culpa in contrahendo la Corte ha ribadito, per un verso, la piena equiparazione dell'amministrazione pubblica ad ogni contraente privato e per l'altro, è tornata a occuparsi dei diversi ambiti nei quali sussiste l'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.
Quanto al primo profilo, Sez. 3, n. 04539/2016, Graziosi, Rv. 639460, ha affermato che il contratto per la formazione del personale stipulato fra la P.A. ed il privato, pur essendo già perfetto nei suoi elementi costitutivi, richiede per la sua operatività l'approvazione dell'autorità di controllo (che agisce come condicio iuris sospensiva dell'efficacia del negozio), con la conseguenza che il diniego dell'autorità tutoria lo rende non più eseguibile. In tal caso, tuttavia, il comportamento dell'amministrazione medesima, la quale abbia preteso l'adempimento della prestazione prima dell'approvazione del contratto stesso da parte della competente autorità di controllo, è suscettibile di dar luogo, ove tale approvazione non sia intervenuta, a responsabilità precontrattuale, secondo la previsione dell'art 1337 c.c. in considerazione dell'affidamento ragionevolmente ingenerato nell'altra parte per violazione dei principi di correttezza e buona fede che informano i rapporti con qualunque parte contraente. Nello stesso solco, la pronuncia Sez. L, n. 02327/2016, Esposito L., Rv. 638993, ha ribadito che, nell'accertare se il privato abbia confidato senza colpa nella validità ed efficacia del contratto con la P.A., agli effetti dell'art. 1338 c.c., il giudice di merito deve verificare in concreto se l'invalidità o inefficacia del rapporto fosse conoscibile dal contraente, tenuto conto dell'univocità dell'interpretazione della norma stessa e della conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità. Nella specie, si verteva in una ipotesi di pretesa responsabilità dell'INPS per aver ricevuto, e poi annullato, la contribuzione da subordinazione versata per il socio di maggioranza e membro del consiglio di amministrazione di una società, il quale si era ritrovato carente dei requisiti per la pensione di anzianità, ma doveva ritenersi consapevole dell'invalidità della contribuzione per essere stato previamente accertato in sede processuale il difetto di subordinazione.
Nello stesso ambito dei contratti tra amministrazione e privati, di sicuro rilievo quanto affermato da Sez. 1, n. 14188/2016, Valitutti, Rv. 640485, che riguardo ad un caso di mancata approvazione ministeriale di un contratto ad evidenza pubblica stipulato tra un privato e un'amministrazione, ha qualificato l'eventuale responsabilità di quest'ultima, in pendenza dell'approvazione ministeriale, come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., inquadrandola nella responsabilità di tipo contrattuale da «contatto sociale qualificato», inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall'art. 2946 c.c.
Quanto al secondo profilo concernente l'ambito dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative, Sez. 2, n. 04718/2016, Falabella, Rv. 639072, riguardo al cd. interesse negativo da responsabilità precontrattuale, ha riaffermato il principio secondo cui esso ricomprende tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto sino ad estendersi al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto ancorchè avente un contenuto diverso rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse.
È stato pure riaffermato da Sez. 1, n. 05762/2016, Lamorgese, Rv. 639003, dando continuità ad un principio già espresso da Sez. 3, n. 21255/2013, Travaglino, Rv. 628701, che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c., assume rilievo in caso non solo di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche di contratto validamente concluso quando, all'esito di un accertamento di fatto rimesso al giudice di merito, alla parte sia imputabile l'omissione, nel corso delle trattative, di informazioni rilevanti le quali avrebbero altrimenti, con un giudizio probabilistico, indotto ad una diversa conformazione del contratto stesso. La violazione dell'affidamento è stata nella specie ravvisata, per un verso, nella mancata informazione durante le trattative dell'esistenza di ulteriori registrazioni dei marchi e, per l'altro, nell'aver indotto la controparte a credere che quelle indicate nel contratto fossero le sole esistenti.
In tema di presupposti della responsabilità precontrattuale è stato ribadito da Sez. 2, n. 07545/2016, Scarpa, Rv. 639456, che per ritenere integrata tale specie di responsabilità occorre che tra le parti siano in corso trattative; che queste siano giunte ad uno stadio idoneo ad ingenerare, nella parte che invoca l'altrui responsabilità, il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; che esse siano state interrotte, senza un giustificato motivo, dalla parte cui si addebita detta responsabilità; che, infine, pur nell'ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto. Secondo la Corte, la verifica della ricorrenza di tutti questi elementi si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivato.
È stato precisato, inoltre, Sez. 3 n. 10156/2016, Demarchi Albengo, Rv. 639754, che non si può configurare colpa contrattuale a carico dell'altro contraente che abbia omesso di far rilevare all'altra parte l'esistenza di norme imperative o proibitive di legge, cioè tali da dover essere note alla generalità dei cittadini e conosciute attraverso un comportamento di normale diligenza.
In un peculiare caso concernente trattative per la compravendita di un immobile ove era stata accordata preferenza ad una proposta irrevocabile temporalmente poziore ed economicamente meno vantaggiosa, è stata esclusa, da Sez. 3, n. 27017/2016, Scarano, Rv. 642342, la configurabilità di una responsabilità precontrattuale in capo all'oblato per mancata accettazione della proposta irrevocabile formulata dal proponente.
Infine, Sez. 2, n. 07545/2016, Scarpa, Rv. 639457, ha ritenuto che nella ipotesi in cui alla stipulazione del contratto preliminare non segua la conclusione del definitivo, la parte non inadempiente (nella specie, il promittente alienante) può agire nei confronti di quella inadempiente (nella specie, il promissario acquirente) facendone valere esclusivamente la responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale e non anche, in via alternativa, la responsabilità precontrattuale da supposta malafede durante le trattative, giacché queste ultime, cristallizzate con la stipula del preliminare, perdono ogni autonoma rilevanza, convergendo nella nuova struttura contrattuale che rappresenta la sola fonte di responsabilità risarcitoria.
In una fattispecie riguardante la pretesa responsabilità dello Stato in tema di borse di studio per i medici specializzandi, e relativi meccanismi di rivalutazione automatica (istituite dall'art. 6 del d.lgs. 8 agosto 1991, n. 257, e finanziate dal ministero dell'Economia e delle Finanze, sulla base di un decreto interministeriale adottato dal ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca e dai ministeri della Salute e dell'Economia) Sez. L, n. 18710/2016, Boghetich, Rv. 641191, ha stabilito che sussiste carenza di legittimazione passiva in senso sostanziale dell'Università degli studi che ha provveduto alla mera corresponsione materiale, senza che le possa essere imputato alcun comportamento inerte in tema di violazione degli obblighi di attuazione e recepimento delle direttive comunitarie in materia. Pertanto la Corte, trattandosi di questione attinente alla titolarità del rapporto controverso, rilevabile anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del giudizio, fermi i limiti del giudicato, qualora detto ente sia stato l'unico soggetto convenuto in giudizio, ha dichiarato l'improseguibilità dell'azione. Nell'ambito della medesima responsabilità, importante precisazione è stata formulata da Sez. 6-3, n. 24353/2016, Frasca, Rv. 641927, secondo cui «in tema di domanda di un medico specializzato, volta ad ottenere l'adempimento da parte dello Stato italiano dell'obbligo del risarcimento del danno derivato dall'inadempimento da parte del detto Stato delle direttive CEE 75/363 e 82/76, l'obbligazione in relazione alla quale dev'essere determinato il foro erariale ai sensi dell'art. 25 c.p.c. ed agli effetti dei fori concorrenti di cui all'art. 20 c.p.c., tanto quanto all'individuazione del luogo di insorgenza dell'obbligazione quanto all'individuazione del forum destinatae solutionis, non è quella risarcitoria, bensì quella rimasta inadempiuta e che dà luogo a quella risarcitoria. Ne consegue che l'uno e l'altro foro si situano in Roma, dove sorse l'obbligazione statuale in quanto da adempiere con l'attività legislativa attuativa e dove essa doveva essere adempiuta sempre con quella attività». Sotto altro profilo, Sez. U, n. 23581/2016, Giancola, Rv. 641765, ha disposto di sottoporre alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in via pregiudiziale ex art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea, tra l'altro, la seguente questione ermeneutica: «se la direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, debba essere interpretata nel senso che rientrino nel suo ambito di applicazione anche le formazioni di medici specialisti sia a tempo pieno che a tempo ridotto, già in corso e proseguite oltre il 31 dicembre 1982, termine fissato agli Stati membri dall'art. 16 della direttiva n. 82/76/CEE per adottare le misure necessarie per conformarsi;».
In una diversa fattispecie inerente il diritto di stabilimento degli avvocati, Sez. 3, n. 19384/2016, Olivieri, Rv. 642585, ha ritenuto che la responsabilità dello Stato italiano per mancata tempestiva attuazione della direttiva comunitaria 48/89/CEE determina la risarcibilità dei soli danni patrimoniali conseguenti al mancato esercizio della professione, imposto ad un avvocato proveniente da altro Stato membro, ma non anche del danno non patrimoniale da lesione dell'onore e della reputazione, conseguente alla sottoposizione del legale a procedimenti disciplinari e giudizi penali per aver violato le vigenti norme statali di divieto, incompatibili con l'ordinamento comunitario, essendo tale danno causalmente riconducibile non al comportamento inadempiente dello Stato, che ne costituisce solo un antecedente, bensì all'ulteriore condotta di un organo giudiziario, ove si deduca una grave negligenza di quest'ultimo per omessa disapplicazione delle norme statali incompatibili (da farsi valere, dunque, unicamente ai sensi dalla l. n. 117 del 1988), ovvero alla condotta dello stesso interessato, il quale avrebbe potuto impedire il pregiudizio chiedendo all'organo giudiziario di sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme statali incompatibili (Corte di Giustizia, 7 marzo 2002, in C-145/99).
Rilevantissima in tema di libertà della funzione politica legislativa, la decisione assunta da Sez. 3, n. 23730/2016, Di Amato, Rv. 642991, che ha ritenuto non ravvisabile una ingiustizia che possa qualificare il danno in termini di illecito e quindi una responsabilità in capo alla Regione nella ipotesi in cui la norma regionale sia stata dichiarata incostituzionale per violazione di potestà legislativa statale. In proposito, non è stato ritenuto applicabile alla fattispecie il medesimo schema ricostruttivo della violazione, da parte del legislatore statale, dei vincoli derivanti dall'ordinamento sovranazionale comunitario in quanto sul versante interno non è consentito distinguere dal punto di vista dell'unitario ordinamento nazionale quello derivante dalle leggi statali e quello enucleabile dalla legislazione regionale.
Le Sezioni Unite, n. 10499/2016, Didone, Rv. 639689, dando continuità ad un orientamento già espresso (tra le più recenti, v. Sez. 1, n. 14609/2012, Campanile, Rv. 623746), hanno affermato che riguardo al risarcimento del danno in forma specifica in tema di diritti reali, in considerazione del carattere assoluto dei medesimi, non sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina risarcitoria, come l'eccessiva onerosità di cui all'art. 2058, comma 2, c.c., previsti in materia di obbligazioni, salvo che lo stesso titolare danneggiato chieda il risarcimento per equivalente.
La Suprema Corte, Sez. 1, n. 09337/2016, Valitutti, Rv. 639966, ha affermato che il superamento della presunzione di responsabilità gravante ex art. 2048 c.c. sull'insegnante per il fatto illecito dell'allievo postula, per un verso, la dimostrazione da parte di questi di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo dopo l'inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, e, per l'altro, di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di quella serie, commisurate all'età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto, dovendo la sorveglianza dei minori essere tanto più efficace e continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età. Il principio è stato affermato con riguardo ad una peculiare fattispecie in cui lo stato dei luoghi era connotato dalla presenza di un manufatto in grado di ostacolare la piena e totale visibilità dello spazio da controllare e le misure organizzative adottate consistite nella mera presenza delle insegnanti in loco e nell'avere impartito agli alunni la generica raccomandazione «di non correre troppo durante la ricreazione» non erano state ritenute idonee ad integrare il superamento della presunzione, senza l'adozione di interventi correttivi immediati, diretti a prevenire e ad evitare il verificarsi di eventi dannosi.
In un'altra fattispecie di risarcimento danni conseguente ad un infortunio sportivo subito da uno studente all'interno della struttura scolastica durante le ore di educazione fisica, Sez. 3, n. 06844/2016, Vincenti, Rv. 639332, ha ritenuto che incombe sullo studente l'onere della prova dell'illecito commesso da altro studente, quale fatto costitutivo della sua pretesa, mentre è a carico della scuola la prova del fatto impeditivo, cioè l'inevitabilità del danno nonostante la predisposizione di tutte le cautele idonee a evitare il fatto, sicché non integra i presupposti del fatto illecito la condotta di gioco tenuta durante il normale sviluppo dell'azione di una partita (nella specie, di calcio) se non è in concreto connotata da un grado di violenza ed irruenza incompatibili col contesto ambientale, con l'età e la struttura fisica dei partecipanti al gioco.
È stata esclusa, da Sez.3, n. 01322/2016, Pellecchia, Rv. 638853, inoltre, la responsabilità dell'insegnante e del Ministero competente (già della Pubblica Istruzione) per i danni subiti da un terzo, colpito, in occasione di una partita di pallavolo tenuta nel cortile di una scuola, da una palla lanciata, per rimetterla in campo, con un calcio anziché con le mani, ove sia assente una finalità lesiva e sussista, invece, un collegamento funzionale tra l'azione dell'alunno ed il gioco in atto, senza che assuma rilievo la violazione delle regole del gioco stesso, che esclude lanci con i piedi.
Viceversa, Sez. 3, n. 14701/2016, Pellecchia, Rv. 641446, ha affermato la responsabilita' della scuola per le lesioni riportate da un alunno minore all'interno dell'istituto in conseguenza della condotta colposa del personale scolastico anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto al di fuori dell'orario delle lezioni, in quanto il dovere di organizzare la vigilanza degli alunni mediante l'adozione, da parte del personale addetto al controllo degli studenti, delle opportune cautele preventive, sussiste sin dal loro ingresso nella scuola e per tutto il tempo in cui gli stessi si trovino legittimamente nell'ambito dei locali scolastici. In particolare, la fattispecie ineriva al danno subito da un alunno caduto a causa di una spinta dei compagni anche se il fatto era accaduto prima dell'inizio dell'orario delle lezioni ma, comunque, sotto l'osservanza del personale scolastico.
In tema di contratto di appalto, Sez. 2, n. 01234/2016, Orilia, Rv. 638645, ha ritenuto che l'autonomia dell'appaltatore comporta che, di regola, egli deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall'esecuzione dell'opera, potendo configurarsi una corresponsabilità del committente soltanto in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 c.c., ovvero nell'ipotesi di riferibilità dell'evento al committente stesso per culpa in eligendo per essere stata affidata l'opera ad un'impresa assolutamente inidonea ovvero quando l'appaltatore, in base a patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente, agendo quale nudus minister dello stesso.
Inoltre, con Sez. 3, n. 10757/2016, Spirito, Rv. 640123, si è affermato che in tema di responsabilità dei preposti, il fatto dannoso deve essere illecito sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo ed in particolare si è precisato che «sotto il profilo soggettivo, l'illecito del preposto può essere sia doloso che colposo, ma deve trattarsi di fatto che cagioni un danno a terzi, non essendo invocabile l'art. 2049 c.c. per far valere la responsabilità del preponente in ordine al danno che il preposto abbia cagionato al preponente medesimo o a se stesso. Ai fini della responsabilità, infine, non è necessario che sia identificato l'autore del fatto, essendo sufficiente l'accertamento che quest'ultimo, anche se rimasto ignoto, sia legato da rapporto di preposizione (ad es. rapporto di lavoro) con il preponente. Il principio è stato affermato in una peculiare fattispecie concernente l'azione risarcitoria esperita dal gestore di un'area di servizio autostradale per la sottrazione del contante da una cassa continua ivi installata nei confronti della società affidataria del servizio di prelievo e trasporto valori attesa la compartecipazione dolosa al fatto di taluni suoi dipendenti infedeli, senza che assumesse rilievo che l'affidamento del servizio derivasse da una convenzione tra gestore e un istituto di credito, alla quale la società affidataria era estranea.
Con Sez. 3, n. 12283/2016, Scarano, Rv. 640297, è stato ritenuto responsabile ex art. 2049 c.c. un soggetto che per la consegna di merce presso un condominio si era avvalso di un'impresa di trasporti, il cui dipendente, conducente di un furgone, aveva determinato un danno ad un bene condominiale durante la consegna della merce stessa. La Corte in proposito ha affermato che Ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2049 c.c., è sufficiente che il fatto illecito sia commesso da un soggetto legato da un rapporto di preposizione con il responsabile, ipotesi che ricorre non solo in caso di lavoro subordinato ma anche quando per volontà di un soggetto (committente) un altro (commesso) esplichi un'attività per suo conto.
Sez. 3, n. 11816/2016, De Stefano, Rv. 640238, ha, infine, escluso la responsabilità ex art. 2049 c.c. di un condominio per le lesioni personali dolose causate da un pugno sferrato dal portiere dell'edificio condominiale ad un condomino in occasione dell'accesso del primo nell'appartamento del soggetto leso per ispezionare tubature ed escludere guasti ai beni comuni o limitare i danni da essi producibili, difettando il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le mansioni esercitate, posto che in queste non rientra alcuna ipotesi di coazione fisica sulle persone presenti nell'edificio condominiale, né tali condotte corrispondono, neanche sotto forma di degenerazione ed eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse al loro ordinario espletamento.
Rimane confermato il consolidato orientamento, circa l'individuazione delle attività pericolose, ai sensi dell'art. 2050 c.c., nel senso che devono ritenersi tali non solo quelle che così sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi usati, comportano la rilevante probabilità del verificarsi del danno. In conformità a tale orientamento e con riguardo allo svolgimento del servizio ferroviario, Sez. 3, n. 10422/2016, Tatangelo, Rv. 10422, ha riconosciuto la presunzione di colpa per l'esercizio di attività pericolosa quando il danno che ne derivi si ricolleghi ad uno specifico aspetto o momento del servizio stesso, il quale presenti connotati di pericolosità eccedenti il livello normale del rischio, sì da richiedere particolari cautele preventive. Nella specie, è stata ravvisata la pericolosità in concreto del servizio, per un verso, nella mancata preventiva comunicazione all'addetta al passaggio al livello ove ebbe luogo la collisione tra un convoglio ferroviario ed un'autovettura, del transito di altro convoglio straordinario e, per l'altro, nel carattere "aperto" del sistema di comunicazione radio tra gli operatori ferroviari, tale da indurre tale addetta - ascoltando la conversazione tra i colleghi preposti alla gestione di passaggi a livello "a monte" di quello teatro del sinistro, che discutevano del ritardo con cui viaggiava il predetto convoglio straordinario - a ritenere, erroneamente, che la segnalazione riguardasse il treno di cui attendeva l'arrivo, tanto da alzare le sbarre per consentire il passaggio delle vetture.
In tema di accertamento della responsabilità dell'esercente un'attività pericolosa, Sez. 3, n. 15113/2016, Esposito A.F., Rv. 641278, ha sottolineato come essa presupponga che si accerti un nesso di causalità tra l'attività svolta e il danno patito dal terzo, a tal fine dovendo ricorrere la duplice condizione che l'attività costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le sue conseguenze normali ed ordinarie, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento, e ciò anche quando esso sia attribuibile ad un terzo o allo stesso danneggiato. In applicazione di tale principio è stata cassata la sentenza impugnata che aveva ritenuto concausa di un incendio, dolosamente appiccato da terzi, la mera presenza nell'immobile incendiato di acetilene, utilizzato per la deverdizzazione delle arance, senza considerare, invece, che il fatto del terzo presentava i caratteri della imprevedibilità, della inevitabilità e della eccezionalità, idonei ad escludere altri fattori causali.
La S.C. è tornata ad occuparsi della natura pericolosa dell'attività di trattamento dei dati personali in una fattispecie in cui si lamentava l'abusiva utilizzazione delle credenziali informatiche di un correntista mediante illegittime disposizione di bonifico on line; in proposito, Sez. 3, n. 10638/2016, Terrusi, Rv. 639861 ha sottolineato che in tema di ripartizione dell'onere della prova, al correntista spetta soltanto la prova del danno siccome riferibile al trattamento del suo dato personale, mentre l'istituto creditizio risponde, quale titolare del trattamento di dato, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico mediante la captazione dei codici d'accesso del correntista, ove non dimostri che l'evento dannoso non gli sia imputabile perché discendente da trascuratezza, errore o frode del correntista o da forza maggiore.
In tema di responsabilità ex art. 2051 c.c. di particolare interesse sono alcune pronunce che hanno esaminato l'aspetto attinente ai delicati rapporti tra tale norma ed il comportamento cauto, disattento o imprevedibile del danneggiato.
In particolare, Sez. 3, n. 12895/2016, Carluccio, Rv. 640508, ha ritenuto che, qualora venga accertato, anche in relazione alla mancanza di intrinseca pericolosità della cosa oggetto di custodia, che la situazione di possibile pericolo, comunque ingeneratasi, sarebbe stata superabile mediante l'adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, deve escludersi che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell'evento, e ritenersi, per contro, integrato il caso fortuito. Peculiare è il caso concreto che ha dato occasione alla Corte di emettere tale pronuncia: un soggetto era rovinosamente caduto uscendo da un ascensore che si era arrestato con un dislivello di circa 20 centimetri rispetto al piano ed il sinistro è stato ritenuto causalmente attribuibile alla disattenzione dello stesso danneggiato, in considerazione delle buone condizioni di illuminazione e della presenza di una doppia porta di apertura dell'ascensore, circostanze che avrebbero reso superabile il pericolo creato dal detto dislivello tenendo un comportamento ordinariamente cauto.
Differente è il caso affrontato e la soluzione raggiunta, da Sez. 3, n. 13222/2016, Scarano, Rv. 640417, relativamente alla caduta di un soggetto avvenuta all'interno di un esercizio commerciale a causa del pavimento bagnato (per lo sgocciolamento degli ombrelli dei clienti): in tale ipotesi la Corte ha affermato che la mera disattenzione della vittima non integra caso fortuito ex art. 2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa divenuta pericolosa per la situazione atmosferica e per la contestuale presenza di numerose persone nei locali.
Nell'ipotesi di sinistri riconducibili alla struttura e manutenzione delle strade, Sez. 3, n. 15761/2016, Ambrosio, Rv. 641162, ha statuito che l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze, indipendentemente dalla loro riconducibilità a scelte discrezionali della P.A.; la sentenza ha tuttavia precisato che su tale responsabilità può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell'art. 1227 c.c.. Nel caso specifico, la Corte ha conseguentemente escluso che lo stato di una strada comunale - risultata "molto sconnessa" e contraddistinta dalla presenza di "buche e rappezzi" - costituisse esimente della responsabilità dell'ente per i danni subiti da un pedone, caduto a causa di una delle buche presenti sul manto stradale, ritenendo che il comportamento disattento dell'utente non è astrattamente ascrivibile al novero dell'imprevedibile.
Analogamente, Sez. 3, n. 11802/2016, Scarano, Rv. 640205, ha affermato che il danneggiato che agisca per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di una caduta avvenuta mentre circolava sulla pubblica via alla guida del proprio ciclomotore a causa di una grata o caditoia d'acqua, è tenuto alla dimostrazione dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, non anche dell'imprevedibilità e non evitabilità dell'insidia o del trabocchetto, né della condotta omissiva o commissiva del custode, gravando su quest'ultimo, in ragione dell'inversione dell'onere probatorio che caratterizza la responsabilità ex art. 2051 c.c., la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire che il bene demaniale presentasse, per l'utente, una situazione di pericolo occulto, nel cui ambito rientra anche la prevedibilità e visibilità della grata o caditoia.
Nel caso di danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c. originati da un bene immobile condotto in locazione, Sez. 3, n. 11815/2016, Tatangelo, Rv. 640516, ha ritenuto sussistente la responsabilità sia del proprietario dell'immobile che del conduttore ove i pregiudizi siano derivati non solo dal difetto di costruzione dell'impianto (nella specie, idraulico) conglobato nelle strutture murarie, ma anche da una negligente utilizzazione di esso (nella specie, della caldaia) da parte del conduttore.
Infine, Sez. U, n. 09449/2016, Petitti, Rv. 639821, ha deciso un caso relativo ad un bene condominiale, in particolare affermando che, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio, quest'ultimo in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4), c.c., nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4), c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria. La medesima pronuncia ha altresì precisato che il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio.
La Corte torna con due pronunce sul tema dei danni cagionati agli utenti della strada dalla fauna selvatica, delimitando l'ambito della responsabilità degli enti cui sono stati affidati i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata.
Con Sez. 3, n. 16642/2016, Carluccio, Rv. 641488, è stata esclusa la responsabilità di una Provincia, cui sono attribuiti i poteri di protezione e gestione della fauna selvatica dalla legislazione regionale (l.r. Toscana 12 gennaio 1994, n. 3), in considerazione del fatto che tali poteri non determinano l'assunzione di specifici doveri di diligenza al di là di quello generale assolto con la segnaletica stradale, non potendo discendere in capo all'ente delegato altri doveri che non si traducano in specifiche disposizioni normative. Resta così confermata la decisione del giudice di merito che aveva escluso la legittimazione della Regione interessata la quale, in relazione al danno subito da un'autovettura a seguito dell'impatto con un cinghiale, aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta nei confronti della Provincia di Siena, risultando che questa si era attivata per l'installazione lungo la strada di un segnale stradale di pericolo, attestante l'attraverso di animali selvatici.
Con Sez. 3, n. 12727/2016, Scarano, Rv. 640258, è stato precisato che la responsabilità in esame deve essere imputata all'ente cui siano stati affidati i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sicché si deve indagare, di volta in volta, se l'ente delegato sia stato posto in condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o sia un nudus minister, senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa. Ne consegue che per i danni a coltivazioni nel territorio emiliano-romagnolo provocati da caprioli, sono responsabili le aziende venatorie di cui all'art. 43 della l.r. Emilia-Romagna 15 febbraio 1994, n. 8, trattandosi di animali "cacciabili", mentre le Province sono responsabili dei danni provocati nell'intero territorio da specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse.
In merito al limite della responsabilità del proprietario, o di chi si serve di un animale, costituito dal caso fortuito, Sez. 3, n. 10402/2016, Chiarini, Rv. 640035, ha precisato che la responsabilità di cui trattasi si fonda non su un comportamento o un'attività - commissiva od omissiva - ma su una relazione intercorrente tra i predetti e l'animale; da ciò discende che la prova del caso fortuito - a carico del convenuto - può anche avere ad oggetto il comportamento del danneggiato, purché avente carattere di imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità. In applicazione di tale principio, è stata confermata la sentenza di merito di condanna del proprietario di un cane che aveva morso un'amica di famiglia, introdottasi in casa, e che gli aveva dato una carezza, nonostante l'invito della moglie del proprietario ad allontanarsi, dando rilievo al fatto che la danneggiata conosceva l'animale fin da cucciolo. Secondo Sez. 3, n. 12392/2016, Vincenti, Rv. 640319, la sussistenza del caso fortuito, quale causa di esclusione della responsabilità del proprietario, attiene al profilo probatorio sicchè, non costituendo oggetto di eccezione in senso proprio, è rilevabile d'ufficio.
Anche nell'anno in corso, numerose sono state le pronunce in tema di responsabilità civile da incidente stradale. Alcune hanno avuto occasione di riaffermare principi e regole in ordine al contenuto degli obblighi di cautela richiesti e dei profili della colpa del conducente, altre si sono pronunciate su profili strettamente probatori e sul termine di prescrizione.
In tema di contenuto degli obblighi di cautela richiesti al conducente e di colpa, Sez. 3, n. 08897/2016, Rossetti, Rv. 639716, ha ritenuto, in un caso di sinistro stradale in cui si sia verificata la morte di un militare trasportato su di un mezzo di proprietà del ministero della Difesa, la condotta della vittima - che non abbia impedito la guida pericolosa del conducente, proprio sottoposto - si pone come concausa dell'evento lesivo, giustificando la limitazione della pretesa risarcitoria azionata dai suoi eredi.
Con riferimento ad una diversa fattispecie, Sez. 3, n. 09241/2016, Pellecchia, Rv. 639708, ha ritenuto che l'omesso uso del casco protettivo da parte di un motociclista vittima di incidente può essere fonte di corresponsabilità del medesimo, a condizione che tale infrazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, circostanza che può essere accertata anche d'ufficio dal giudice, giacché riconducibile alla previsione di cui all'art. 1227, comma 1, c.c.
È stato affermato, sotto altro profilo, da Sez. 3 n. 14699/2016, Graziosi, Rv. 641444, che colui il quale, in possesso di patente di guida, affidi una vettura nella propria disponibilità a un soggetto dotato solo del cd. "foglio rosa", salendo contestualmente a bordo della medesima vettura, non assume un ruolo diverso da quello di trasportato, sicchè l'affidamento della vettura di per sé non lo grava di cooperazione colposa nel caso in cui successivamente si verifichi un sinistro stradale per l'imperita condotta del guidatore affidatario.
Con riferimento ad un un caso di tamponamento tra veicoli, Sez. 3, n. 08051/2016, Graziosi, Rv. 639523, ha ribadito che la presunzione de facto di mancato rispetto della distanza di sicurezza posta dall'art. 149, comma 1, cod. strada supera la presunzione di pari responsabilità ex art. 2054, comma 2, c.c. e grava sul conducente del veicolo tamponante il quale ha l'onere l'onere di provare che il tamponamento è derivato da causa in tutto o in parte a lui non imputabile, che può consistere anche nel fatto che il veicolo tamponato abbia costitutio un ostacolo imprevedibile ed anomalo rispetto al normale andamento della circolazione stradale.
Sez. 3 n. 03503/2016, Tatangelo, Rv. 638917, riguardo la specificazione del parametro normativo contenuto nella disposizione di cui all'art. 177, comma 2, cod. strada, relativa all'obbligo dei conducenti dei cd. mezzi di soccorso, che eseguano servizi urgenti di istituto con attivazione dei dispositivi acustici e di segnalazione visiva, di rispettare comunque le regole di comune prudenza e diligenza, ha ritenuto che essa debba avvenire da parte del giudice di merito mediante l'individuazione della regola di condotta da osservare nel caso concreto. Tale valutazione di adeguatezza della velocità di marcia del mezzo di soccorso, e comunque della condotta di guida che eviti ingiustificati pericoli agli altri utenti che percorrano quella strada o quelle che con essa si incrociano, secondo il parametro normativo individuato, e da commisurarsi all'urgenza del servizio da espletare, è censurabile in sede di legittimità per violazione di legge, non anche per il giudizio di fatto sulla dinamica del sinistro e l'esistenza o l'esclusione del rapporto causale tra l'evento e le rispettive condotte di guida.
Peraltro, Sez. 3, n. 04373/2016, Chiarini, Rv. 639473, in tema di responsabilità per danni derivanti dall'urto tra un autoveicolo ed un animale, ha affermato che la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore di quest'ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., che ha portata generale, applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione, sicché, ove il danneggiato sia il conducente e non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso - sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico dimostrando, quanto al conducente, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto al proprietario dell'animale, il caso fortuito - il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c.
Sotto il profilo strettamente probatorio, Sez. 3, n.04755/2016, Armano, Rv. 639445, ha chiarito che le risultanze del pubblico registro automobilistico (p.r.a.) costituiscono prova presuntiva in ordine al proprietario dell'autovettura obbligato a risarcire i danni da circolazione stradale, che può essere vinta da prova contraria, ma non dal mero generico riferimento al rapporto dei Carabinieri, senza la specificazione della documentazione da essi presa in visione al fine di rilevare un diverso proprietario del veicolo.
Sez. 3 n. 18773/2016, Vincenti, Rv. 642106, ha ribadito che il danno da "fermo tecnico" del veicolo incidentato non è risarcibile in via equitativa - cui è possibile ricorrere solo ove sia certa l'esistenza dell'an - ove la parte non abbia provato di aver sostenuto di oneri e spese per procurarsi un veicolo sostitutivo, né abbia fornito elementi (quali i costi assicurativi o la tassa di circolazione) idonei a determinare la misura del pregiudizio subito.
Infine, Sez. 3, n. 05894/2016, Tatangelo, Rv. 639293, ha ritenuto che la prescrizione breve del risarcimento dei danni di cui all'art. 2947, comma 2, c.c., si applica non solo quando i danni siano derivati, secondo uno stretto rapporto di causa ed effetto, dalla circolazione dei veicoli, ma anche se vi sia solo un nesso di dipendenza, per il quale l'evento si colleghi, nel suo determinismo, alla circolazione medesima, rispondendo tale estensiva interpretazione all'esigenza che l'accertamento della dinamica dell'incidente stradale avvenga con una azione sollecitamente proposta. Nella fattispecie, ha ritenuto l'applicabilità della prescrizione breve all'azione risarcitoria intentata da un automobilista, rimasto danneggiato a seguito di un incidente tra veicoli determinato da insidia stradale, nei confronti di un Comune per omessa vigilanza nel tratto stradale in cui era avvenuto l'incidente.
Il "sottosistema" della responsabilità civile elaborato dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito medico-chirurgico, anche nel corso dell'anno 2016, è stato oggetto di numerose pronunce che hanno riguardato una serie diversa di temi: dal rapporto tra il paziente e la struttura sanitaria all'interno della cui organizzazione funzionale si svolge l'attività del professionista medico, alla delicata questione della ripartizione degli oneri probatori, a quello estremamente complesso dell'accertamento del nesso causale tra condotta del sanitario e della struttura e danno lamentato dal paziente.
Si è venuta arricchendo, inoltre, la casistica in merito alla responsabilità del medico per violazione degli obblighi di informazione lesivi del diritto di autodeterminazione del paziente.
Quanto al rapporto tra paziente e struttura ospedaliera, Sez. 3, n. 07768/2016, Scarano, Rv. 639496, ha ribadito la natura contrattuale della responsabilità della struttura presso la quale il paziente risulti ricoverato che risponde della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall'esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, atteso che la diretta gestione della struttura sanitaria identifica il soggetto titolare del rapporto con il paziente. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che, in relazione alla condotta di due medici, pur dipendenti di un'azienda sanitaria locale, aveva ravvisato la responsabilità del nosocomio privato presso i cui locali risultava ospitato il "presidio di aiuto materno" ove i sanitari avevano operato, e ciò sul presupposto che detta struttura - per il semplice fatto del ricovero di una gestante - era tenuta a garantire alla medesima la migliore e corretta assistenza, non solo sotto forma di prestazioni di natura alberghiera, bensì di messa a disposizione del proprio apparato organizzativo e strumentale.
Nello stesso ambito, è stato precisato da Sez. 3, n. 13919/2016, Rubino, Rv. 640523, che in caso di intervento chirurgico d'urgenza la struttura ospedaliera non può invocare lo stato di necessità di cui all'art. 2045 c.c., il quale implica l'elemento dell'imprevedibilità della situazione d'emergenza, la cui programmazione rientra nei compiti di ogni struttura sanitaria e, con riguardo alle risorse ematiche, deve tradursi in un approvvigionamento preventivo o nella predeterminazione delle modalità per un rifornimento aggiuntivo straordinario, sicché grava sulla struttura la prova di aver eseguito, sul sangue pur somministrato in via d'urgenza, tutti i controlli previsti all'epoca dei fatti. Il caso riguardava un paziente che aveva contratto epatite post-trasfusionale in conseguenza di emotrasfusioni alle quali era stato sottoposto con particolare urgenza, essendo giunto in ospedale con una ferita da arma da fuoco e con una grave emorragia in corso.
In materia di emotrasfusione e contagio da virus HBV, HIV, HCV, è stato chiarito da Sez. 3, n. 03261/2016, Carluccio, Rv. 638929, che non risponde per inadempimento contrattuale la singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell'epoca, esulando in tal caso dalla diligenza a lei richiesta il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale (con riferimento all'indennizzo da danno trasfusionale v. amplius infra CAP. XVII).
Per quanto concerne il rapporto tra medico e paziente, Sez. 3, n. 19670/2016, Amendola A., Rv. 642601, in continuità con il consolidato orientamento in tema di responsabilità civile derivante da attività medico-chirurgica, ha riaffermato il principio secondo cui ogni intervento del medico non può avere un contenuto diverso da quello avente come fonte un comune contratto d'opera professionale, sicché anche il "contatto sociale" meramente fortuito ed informale intercorso tra medico e paziente è idoneo a far scattare i presidi della responsabilità contrattuale. In applicazione di tale principio, la Corte ha qualificato in termini di "contratto" il rapporto instauratosi a seguito del comportamento di un medico di base che, nel corso di un incontro occasionale con un suo assistito in procinto di partire per il Kenia, gli aveva suggerito una profilassi antimalarica, poi rivelatasi inefficace. In particolare, è stata confermata la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del sanitario per la morte dell'assistito causata dalla malaria, in considerazione della aderenza della profilassi consigliata ai principi della buona pratica medica.
In tema di ripartizione degli oneri probatori, Sez. 3, n. 06209/2016, Sestini, Rv. 639386, ha ribadito che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente. Così statuendo ha cassato la decisione del giudice di merito che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nonostante non risultassero per sei ore annotazioni sulla cartella clinica di una neonata, nata poi con grave insufficienza mentale causata da asfissia perinatale, così da rendere incomprensibile se poteva essere più appropriata la rilevazione del tracciato cardiotocografico rispetto alla mera auscultazione del battito cardiaco del feto.
Nello stesso ambito e con riferimento all'accertamento del nesso causale, una interessante decisione assunta da Sez. 3, n. 11789/2016, Rubino, Rv. 640196, ha rilevato che l'affermazione della responsabilità del medico per i danni celebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova - che deve essere fornita dal danneggiato - della sussistenza di un valido nesso causale tra l'omissione dei sanitari ed il danno, prova da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall'altro, appaia più probabile che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato; una volta fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell'art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta.
Sez. 3, n. 02998/2016, Vincenti, Rv. 638979, ha ritenuto - in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute - ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, che il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.
Quanto al profilo della colpa, è stato ribadito da Sez. 3, n. 12516/2016, Esposito A.F., Rv. 640259, in un caso di prestazione professionale medico-chirurgica cd. di routine, cui siano seguite delle complicanze, che al professionista spetta superare la presunzione di responsabilità, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento.
Sul versante dell'accertamento dell'efficienza concausale, Sez. 3, n. 03893/2016, Scarano, Rv. 639350, ha ritenuto che ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente (nella specie, in una sua peculiare condizione genetica: sindrome di Down) un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l'accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell'unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l'evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire - sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto - solamente ad una delimitazione del quantum del risarcimento. Restando in tema, Sez. 3, n. 12516/2016, Esposito A.F., Rv. 640260, ha rilevato che l'incidenza di un fattore naturale può costituire causa esclusiva dell'evento pregiudizievole ove il danneggiante provi che lo stesso derivi da una circostanza a sé non imputabile. In applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito che, in un caso di amputazione di un dito subìta dalla paziente per la complicanza di un intervento chirurgico, non aveva accolto la domanda risarcitoria poiché era emerso che le lesioni erano derivate da una evoluzione fibrocicatriziale più abbondante dell'usuale, senza che, peraltro, il giudice di merito avesse valutato, in base alle risultanze istruttorie, se la reazione fibrocicatriziale o altri fattori naturali fossero stati causa esclusiva dell'evento.
È stato rimarcato, infine, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, da Sez. 3, n. 08035/2016, Scarano, Rv. 639501, che, l'assoluzione dell'imputato secondo la formula "perché il fatto non sussiste" non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all'affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell'elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità. In conformità al principio enunciato, la Corte ha annullato la decisione con cui il giudice di merito - sul presupposto dell'intervenuta assoluzione in via definitiva di due medici dal delitto di lesioni personali - ne aveva per ciò solo escluso ai sensi dell'art. 652 c.p.p. la responsabilità civile, omettendo di valutare l'incidenza del loro contegno rispetto sia alla lamentata lesione dell'autonomo dritto del paziente ad esprimere un consenso informato in ordine al trattamento terapeutico praticatogli, sia all'accertata mancata disinfezione della camera operatoria, all'origine della contaminazione ambientale individuata come causa del danno alla salute dal medesimo subìto.
Con riferimento al contenuto dell'obbligo del medico di informare il paziente, Sez. 3, n. 02177/2016, Vincenti, Rv. 639069, ha precisato che il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell'intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all'uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell'informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone. Nella fattispecie esaminata la Corte ha ritenuto non adeguata l'informazione sui rischi connessi ad un intervento di cheratomia radiale, fornita ad una paziente mediante consegna di un depliant redatto dallo stesso oculista, che peraltro non riportava l'eventuale regressione del visus, statisticamente conseguente ad un simile intervento, anche quando correttamente eseguito.
Nello stesso ambito, meritevole di menzione appare anche Sez. 3, n. 04540/2016, Vincenti, Rv. 637375, secondo cui l'obbligo gravante sulla struttura sanitaria e sul medico di informare la paziente, che ad essi si sia rivolta per i controlli ecografici sul feto ai fini della relativa diagnosi morfologica (in particolare, nel caso in cui la visualizzazione del feto sia parziale), della possibilità di ricorrere a centri di più elevata specializzazione, sorge unicamente ove la struttura abbia assunto la relativa obbligazione di spedalità pur non disponendo di attrezzature all'uopo adeguate.
Da menzionare, in ambito eminentemente processuale, Sez. 6-3, n. 18536/2016, Rubino, Rv. 642127, che ha escluso l'applicabilità del foro del luogo di residenza del consumatore (art. 33, comma 2, lett. u), d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) ai rapporti tra pazienti e strutture ospedaliere pubbliche o private operanti in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale; esclusione giustificata per un duplice ordine di ragioni, da un lato, perché, pur essendo l'organizzazione sanitaria imperniata sul principio di territorialità, l'assistito può rivolgersi a qualsiasi azienda sanitaria presente sul territorio nazionale, sicchè se il rapporto si è svolto al di fuori del luogo di residenza del paziente tale circostanza è frutto di una sua libera scelta, che fa venir meno la ratio dell'art. 33 cit., dall'altro, perché la struttura sanitaria non opera per fini di profitto e non può essere qualificata come imprenditore o professionista.
Sul contenuto dell'obbligo di diligenza del professionista avvocato meritano menzione tre decisioni pronunciate nel 2016.
In primo luogo, di sicuro rilievo è quanto affermato da Sez. 3, n. 11906/2016, Barreca, Rv. 640093, che in tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, ha ritenuto configurabile la imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità. Quanto, invece, alla scelta di una determinata strategia processuale, la Corte ha sottolineato che essa può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito ex ante e non ex post, sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente.
In secondo luogo, Sez. 3, n. 11907/2016, Pellecchia, Rv. 640201, ha ravvisato un comportamento negligente dell'avvocato che abbia omesso di attivare tempestivamente la pretesa risarcitoria del proprio assistito, da cui sia derivato il decorso della prescrizione del credito verso taluni dei condebitori solidali, comportamento dal quale discende un danno risarcibile ex art. 1223 c.c. consistente nella perdita della possibilità di avvalersi di più coobbligati, e, quindi, di agire direttamente nei confronti di quelli presumibilmente più solvibili, quali sono in particolare - in caso di crediti derivanti da un sinistro stradale - le società assicuratrici rispetto alle persone fisiche.
Infine, in tema di liquidazione del danno, è stato precisato da Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640309, che il pregiudizio di carattere non patrimoniale patito dal condannato a causa della tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna da parte dell'avvocato, cui consegua l'impossibilità per il cliente di ottenere una riduzione della pena detentiva in sede di gravame (nella specie, per non potere accedere al cd. patteggiamento in appello), non può essere risarcito applicando automaticamente i criteri elaborati dalla giurisprudenza penale per il ristoro del danno da ingiusta detenzione - trattandosi di condanna legalmente data e, quindi, di detenzione legittima - ma va liquidato in via equitativa.
Di notevole rilievo, appaiono tre ulteriori pronunce assunte in tema di regole generali di correttezza e buona fede dell'agire o resistere nel giudizio di cassazione, con cui sono state stigmatizzate alcune condotte processuali tali da risolversi in un uso strumentale e illecito del processo e ritenute idonee ad integrare gli estremi della responsabilità aggravata.
Con la prima, Sez. 3, n. 15017/2016, De Stefano, Rv. 641449, è stato ravvisato un abuso del processo nella impugnazione pretestuosa e strumentale volta a procrastinare la pendenza del giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo e quindi la correlata sospensione del processo di espropriazione di crediti intentato dalla creditrice, con indebito aggravamento delle ragioni di quest'ultima, nonostante la lampante evidenza, se non altro parziale e per importo anche ingente, della sussistenza ab origine del credito pignorato.
Con la seconda, Sez. 6-3, n. 03376/2016, Rossetti, Rv. 638887, è stata ritenuta indice di colpa grave la proposizione di un ricorso con il quale veniva chiesta una valutazione delle prove diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, così prospettando, senza addurre argomenti volti a confutare il diritto vivente, un motivo inammissibile per consolidato orientamento pluridecennale, e comunque più consentito dal novellato art. 360, n. 5, c.p.c.. È stato osservato, in particolare, che il ricorrente - e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. - ben conosceva l'insostenibilità della propria impugnazione; nella specie, è stato affermato in proposito che il ricorrente o ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata,(condotta che, ovviamente, l'ordinamento non può consentire) ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile - in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176, comma 2, c.c. - da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare. In motivazione viene dato conto anche dell'orientamento consolidato secondo cui la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. (Sez. U, n. 25831/2007, Finocchiaro M., Rv. 600837), precedente giurisprudenziale che dalla stessa pronuncia è stato ritenuto, per un verso, non applicabile al caso esaminato e, per l'altro, anche superato. Sarebbe non applicabile in quanto nel caso de quo non si ravvisa una mera infondatezza ma piuttosto una totale «insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso». Sarebbe superato perché «non più coerente né con la natura e la funzione del giudizio di legittimità, né col quadro ordinamentale». Sotto il primo profilo, osserva che tale orientamento non tiene conto del progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Corte perseguito dal legislatore con l'introduzione dell'art. 360-bis c.p.c., del novellato art. 363 comma 1 c.p.c. e con l'introduzione dell'art. 374 comma 3 c.p.c.. Sotto il secondo profilo non tiene conto del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., degli orientamenti in tema di abuso del processo e del principio secondo cui le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali (nello stesso senso tra le più recenti: v. Sez. 3, n. 20732/2016, Rossetti, Rv. 642925; Sez. 3, n. 04930/2015, Rossetti, Rv. 634773 e Sez. 3, n. 00817/2015, Rossetti, Rv. 634642).
Con la terza pronuncia, Sez. 3, n. 19285/2016, Graziosi, Rv. 642115, è stato ribadito - ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. - che costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante "colpa grave", la proposizione di un ricorso per cassazione fondato su motivi manifestamente infondati, o perchè ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, o perchè assolutamente irrilevanti, o assolutamente generici, o perche', comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata; in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale in conformita' con la sentenza della Corte Cost. 26 giugno 2016, n. 152 che ha confermato la funzione sanzionatoria della norma in riferimento alle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo cosi' ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti.
Nel corso dell'anno 2016 degne di menzione in tema di responsabilità notarile appaiono due decisioni che si sono occupate, l'una della natura della responsabilità professionale gravante sul notaio e l'altra, dei termini prescrizionali dell'azione risarcitoria.
Sulla natura della responsabilità, Sez. 2, n. 09320/2016, Scarpa, Rv. 639919, ha ritenuto che in un caso in cui un soggetto interessato a stipulare un mutuo ipotecario con una banca incarichi un notaio di effettuare le visure del bene destinato ad essere l'oggetto dell'ipoteca e a redigere la relativa relazione, ciò determina l'assunzione di obblighi in capo al notaio non soltanto nei confronti del mutuatario, ma pure nei confronti della banca mutuante, e ciò sia che si intenda l'istituto bancario quale terzo ex art. 1411 c.c., che beneficia del rapporto contrattuale di prestazione professionale concluso con il cliente mutuatario, sia che si individui un'ipotesi di responsabilità da "contatto sociale" fondato sull'affidamento che la banca mutuante ripone nel notaio quale esercente una professione protetta. In tal caso, spiega la Corte, l'eventuale danno dovrà essere parametrato in base alla colposa induzione dell'istituto di credito ad accettare in ipoteca, con riguardo al finanziamento, un bene non idoneo a garantire la restituzione del credito erogato. Nella specie si trattava di un vincolo archeologico che, seppure non astrattamente qualificabile come assoluto, concorreva ad incidere negativamente sul valore di mercato del bene.
In tema di termini prescrizionali dell'azione risarcitoria, Sez. 3, n. 03176/2016, Vincenti, Rv. 639073, ha affermato che ai fini del momento iniziale di decorrenza del termine prescrizionale si deve aver riguardo all'esistenza del danno risarcibile ed al suo manifestarsi all'esterno come percepibile dal danneggiato alla stregua della diligenza di quest'ultimo esigibile ai sensi dell'art. 1176 c.c. secondo standards obiettivi e in relazione alla specifica attività del professionista, in base ad un accertamento di fatto rimesso al giudice del merito. La Corte, in un caso in cui veniva contestato al notaio di aver erroneamente asseverato l'inesistenza di pesi e vincoli sul bene oggetto di una compravendita, ha cassato la sentenza di merito che aveva ancorato la decorrenza del dies a quo alla mera stipula dell'atto, senza procedere alla doverosa indagine sul momento in cui si era prodotto e reso concoscibile il danno lamentato dagli acquirenti, i quali avevano subìto la risoluzione di un successivo contratto di compravendita, dagli stessi concluso con terzi, in quanto l'immobile era risultato gravato da ipoteca.
Secondo Sez. 3, n. 13007/2016, Barreca, Rv.640402, il dottore commercialista - quale professionista incaricato di una consulenza - ha l'obbligo a norma dell'art. 1176, comma 2, c.c. non solo di fornire tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e rientrino nell'ambito della sua competenza, ma anche, tenuto conto della portata dell'incarico conferito, di individuare le questioni che esulino dalla stessa, informando il cliente dei limiti della propria competenza e fornendogli gli elementi necessari per assumere le proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte ha ritenuto la responsabilità di un commercialista, incaricato di fornire una consulenza tecnico-giuridica a seguito dell'esito infausto di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, per non aver informato il cliente della possibilità di ricorrere per cassazione avverso la sentenza sfavorevole e della necessità di rivolgersi ad un avvocato al fine di proporre tempestivamente l'impugnazione.
Sez. 3, n. 13010/2016, Cirillo F.M., Rv. 640396 - riaffermando un orientamento già enunciato da Sez. 3, n. 18313/2015, Scrima, Rv. 636725 - ha precisato che il perito di stima del bene pignorato nominato dal giudice dell'esecuzione risponde nei confronti dell'aggiudicatario, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per il danno da questi patito in virtù dell'erronea valutazione dell'immobile staggito, solo ove il comportamento doloso o colposo nello svolgimento dell'incarico, tale da determinare una significativa alterazione della situazione reale del bene destinato alla vendita, idonea ad incidere casualmene nella determinazione del consenso dell'acquirente. Nella specie, la Corte ha escluso la responsabilità del perito in relazione ai costi sostenuti dall'aggiudicatario per la regolarizzazione urbanistica dell'immobile acquistato, maggiori rispetto a quelli indicati in perizia, evidenziando come gli stessi fossero ricollegabili ad una disattenzione dell'acquirente, che non aveva considerato la mancanza, pur rappresentata dall'ausiliario nel proprio eleborato, di alcuni documenti ai fini della valutazione di tali oneri.
Per ragioni di omogeneità, la peculiare forma di responsabilità civile degli intermediari finanziari verrà trattata nel successivo cap. XXI dedicato al diritto dei mercati finanziari.
Le pronunce in rassegna si concentrano, in prevalenza, sulla delimitazione del corretto ambito applicativo di alcuni privilegi generali mobiliari.
Sul privilegio accordato dall'art. 2751-bis, n. 5-bis, c.c. alle società cooperative agricole e ai loro consorzi per i corrispettivi della vendita dei prodotti, si è espressa Sez. 1, n. 17046/2016, Ferro, Rv. 641034: premesso il superamento normativo della distinzione tra cooperative (e consorzi) di produzione e lavoro in agricoltura e cooperative di imprenditori agricoli per la trasformazione e alienazione dei prodotti (con conseguente irrilevanza della dimensione quantitativa dell'impresa e della struttura organizzativa), la S.C. ascrive la ratio giustificatrice del privilegio non alla mera qualifica soggettiva del creditore (cooperativa o consorzio agrario iscritto nel relativo registro), ma alla natura oggettiva del credito, ovvero alla circostanza che esso scaturisca dall'attività nella quale si esplica la funzione cooperativa specialmente tutelata dal legislatore, concretamente collegata con finalità solidaristiche.
Altre decisioni definiscono l'estensione del privilegio generale mobiliare per i crediti tributari degli enti locali sancito dall'art. 2752, comma 3, c.c.: individuato lo scopo della norma nella volontà di assicurare agli enti la provvista dei mezzi economici necessari per l'adempimento dei loro compiti istituzionali ed interpretata la locuzione «legge per la finanza locale» come riferita a tutte le disposizioni che disciplinano i tributi comunali e provinciali (e non già ad una legge specifica istitutiva della singola imposta), si è ritenuto il privilegio de quo assistere il credito per:
- la tassa rifiuti (cd. TARI), quale entrata pubblica costituente "tassa di scopo", mirante a fronteggiare una spesa di carattere generale, con ripartizione dell'onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio, senza rapporto sinallagmatico tra la prestazione da cui scaturisce l'onere ed il beneficio che il singolo riceve (Sez. 1, n. 12275/2016, Ferro, Rv. 640011);
- la tassa automobilistica provinciale istituita dall'art. 4 della l.p. Trento 11 settembre 1998, n. 10, avente natura tributaria ed afferente a risorse essenziali di un ente locale a previsione costituzionale (Sez. 1, n. 03134/2016, Didone, Rv. 638527).
Concerne invece il privilegio speciale sui mobili a tutela di crediti per tributi dello Stato Sez. 1, n. 17087/2016, Terrusi, Rv. 640936, che ha riconosciuto l'operatività dello stesso per i crediti IRAP anche per il periodo antecedente alla modifica operata dall'art. 39 del D.L. 1° ottobre 2007 n. 159, convertito dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, alla stregua di un'interpretazione estensiva dell'originario testo dell'art. 2752, comma 1, c.c., giustificata da un'esigenza di certezza nella riscossione del credito per il reperimento dei mezzi necessari per consentire allo Stato e agli altri enti pubblici di assolvere i loro compiti istituzionali, nonché dalla causa del credito, avente ad oggetto un'imposta erariale e reale, introdotta in sostituzione dell'ILOR e soggetta alla medesima disciplina per quanto riguarda l'accertamento e la riscossione.
Sulla (invero scarsamente esplorata) materia dei privilegi sui beni immobili si segnala Sez. 3, n. 26101/2016, Barreca, in corso di massimazione: posto il principio secondo cui il privilegio ex art. 2770 c.c. spetta solo in relazione alle spese utili alla conservazione del patrimonio del debitore nell'interesse di tutti i creditori e non anche per quelle sostenute dal creditore per il riconoscimento, in sede di giudizio di merito, della fondatezza del proprio diritto, la S.C. limita la collocazione privilegiata al credito per spese di giustizia occorrenti per ottenere ed eseguire il sequestro conservativo poi convertito nel pignoramento utile all'intero ceto creditorio, escludendo invece analoga preferenza per le spese per il giudizio di cognizione finalizzato alla sentenza di condanna necessaria per la conversione del sequestro.
Nello stesso ambito, ancora Sez. 3, n. 26101/2016, Barreca, Rv. 642338, definisce i presupposti di applicabilità dell'art. 2776 c.c., nella parte in cui prevede la collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili (cioè con preferenza rispetto ai creditori chirografari) dei crediti aventi privilegio generale sui mobili nel caso di infruttuosa esecuzione su questi ultimi: la pronuncia grava il creditore che chiede l'applicazione del beneficio dell'onere di provare di essere rimasto incapiente nell'esecuzione direttamente promossa e di non essere potuto intervenire nelle precedenti esecuzioni perché il suo credito non era ancora certo, liquido ed esigibile, ovvero che il suo intervento era stato o sarebbe stato superfluo per la insufficienza del patrimonio mobiliare del debitore a soddisfare il credito anche se privilegiato.
Tra le possibili interferenze tra cause legittime di prelazione, il conflitto tra ipoteca e privilegio speciale immobiliare ex art. 2775-bis c.c. a tutela del credito del promissario acquirente per mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto è fattispecie di rilievo sistematico e frequente ricorrenza concreta.
Conformandosi all'orientamento già espresso da precedenti decisioni, Sez. 1, n. 17141/2016, Terrusi, Rv. 641041, ha ribadito che il menzionato privilegio immobiliare, siccome subordinato ad una particolare forma di pubblicità costitutiva (prevista dall'ultima parte dell'art. 2745 c.c.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza dei privilegi sull'ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dall'art. 2748, comma 2, c.c., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti; da ciò ha fatto conseguire che, qualora il curatore del fallimento della società costruttrice dell'immobile opti per lo scioglimento del contratto preliminare ex art. 72 l.fall., il conseguente credito del promissario acquirente, benché assistito da privilegio speciale, deve essere collocato, in sede di riparto, con grado inferiore rispetto a quello dell'istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull'immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice.
Riguardo agli strumenti di tutela dei creditori in sede di procedure concorsuali, Sez. 1, n. 16618/2016, Terrusi, Rv. 641033, ha esaminato il pegno di saldo di conto corrente bancario costituito a favore della banca depositaria, configurandolo come pegno irregolare soltanto quando sia espressamente conferita alla banca la facoltà di disporre della relativa somma; nel caso in cui difetti il conferimento di tale facoltà, invece, esso integra un pegno regolare, ragion per cui la banca garantita non acquisisce la somma portata dal saldo, né ha l'obbligo di restituire al debitore il tantundem, sicché, mancando i presupposti per la compensazione dell'esposizione passiva del cliente con una corrispondente obbligazione pecuniaria della banca, l'incameramento della somma conseguente all'escussione del pegno è atto assoggettabile a revocatoria fallimentare, in applicazione dell'art. 67 l.fall..
L'ipoteca è diritto reale di garanzia che si costituisce mediante iscrizione nei pubblici registri immobiliari a salvaguardia di un credito specificamente indicato, nel suo importo e nella sua fonte, su beni immobili esattamente individuati.
A mente dell'art. 2846 c.c., le spese per l'iscrizione ipotecaria sono (salvo patto contrario) a carico del debitore, ma con onere di anticipazione gravante sul creditore.
Sull'argomento, Sez. 3, n. 12410/2016, Rubino, Rv. 640410, ha chiarito che le spese per la iscrizione di ipoteca giudiziale non costituiscono credito accessorio al principale né accessorio di legge alle spese processuali (come, ad esempio, le spese per atti successivi e conseguenti alla sentenza: notificazione, registrazione et similia) e, pertanto, non possono essere legittimamente autoliquidate nel precetto; il creditore può ripetere detti esborsi soltanto all'esito della espropriazione utilmente promossa sui beni ipotecati, a titolo di spese di procedura esecutiva liquidate dal G.E. e collocate in riparto con il grado del beneficio ipotecario ai sensi dell'art. 2855 c.c..
Una volta iscritte, le ipoteche (legali o giudiziali) devono essere ridotte, su domanda degli interessati, se la somma determinata dal creditore nell'iscrizione ecceda di un quinto quella che l'autorità giudiziaria dichiara dovuta, o se i beni compresi nella iscrizione hanno un valore che eccede la cautela da somministrarsi (art. 2874 c.c.): ad avviso di Sez. 1, n. 05082/2016, Di Virgilio, Rv. 639008, il valore dei beni eccede la cautela se, tanto alla data di iscrizione della ipoteca quanto successivamente, esso superi di un terzo l'importo dei crediti iscritti comprensivo di accessori.
Circa le possibili modificazioni soggettive dal lato attivo del rapporto ipotecario, l'annotazione dell'atto di cessione a margine della iscrizione ipotecaria ha carattere necessario e costitutivo, rappresentando un elemento integrativo indispensabile della fattispecie del trasferimento del diritto ipotecario, con l'effetto di sostituire al cedente o surrogante il cessionario o surrogato, non solo nella pretesa di credito, ma altresì nella prelazione nei confronti dei creditori concorrenti; in conseguenza dell'adempimento formale, il credito del surrogante prende lo stesso grado dell'ipoteca iscritta, ma, secondo Sez. 3, n. 01671/2016, Rubino, Rv. 638541, il privilegio ipotecario non si estende alle spese necessarie per l'annotazione, avendo quest'ultima solo funzione di opponibilità ai terzi della modifica soggettiva del credito e non partecipando della funzione di costituzione o di mantenimento della ipoteca.
L'ipoteca attribuisce al creditore garantito il diritto di far vendere coattivamente l'immobile nello stato giuridico in cui esso si trova al momento dell'iscrizione, ovvero, secondo la icastica formulazione dell'art. 2812 c.c., «far subastare la cosa come libera», stante la inopponibilità di diritti reali minori trascritti e di alcuni diritti personali di godimento costituiti dopo l'iscrizione.
Sulla dibattuta questione degli effetti rispetto all'ipoteca della assegnazione della casa familiare (ovvero dell'idoneità di questa a costituire per il coniuge beneficiario valido titolo di godimento del cespite, in pregiudizio dei diritti del titolare della garanzia reale), si è pronunciata, con esemplare chiarezza argomentativa, Sez. 3, n. 07776/2016, Barreca, Rv. 639499: dall'esegesi, testuale e sistematica, dell'art. 155-quater c.c. (e, segnatamente, dal richiamo al regime della trascrizione degli atti di cui all'art. 2643 c.c.), la S.C. ha desunto che i provvedimenti di assegnazione (e di revoca) della casa familiare non hanno effetto nei riguardi del creditore ipotecario che abbia iscritto la sua ipoteca anteriormente alla trascrizione di detti provvedimenti il quale, pertanto, può far vendere coattivamente l'immobile come libero.
Connotazione essenziale dell'ipoteca è lo jus sequelae in caso di successivi trasferimenti del bene garantito.
Nel regolare gli effetti dell'ipoteca rispetto al terzo acquirente del bene ipotecato che abbia trascritto il suo acquisto, l'art. 2864, comma 2, c.c., riconosce al terzo il diritto di far separare dal prezzo di vendita (cioè a dire dal ricavato dall'espropriazione forzata del bene) la parte corrispondente ai miglioramenti eseguiti dopo la trascrizione del suo titolo, fino a concorrenza del valore degli stessi al tempo della vendita.
Una compiuta disamina dell'istituto (di rara applicazione) si rinviene in Sez. 3, n. 06542/2016, Barreca, Rv. 639522: ispirato all'esigenza di evitare un ingiustificato arricchimento a favore del creditore ipotecario (il quale si avvantaggerebbe altrimenti dell'incremento patrimoniale del cespite garantito derivante dall'attività migliorativa posta in essere dal terzo), condizione necessaria e sufficiente del diritto di separazione è che, al momento della vendita forzata, i miglioramenti apportati alla res da soggetto diverso dal debitore, dopo la trascrizione del suo acquisto, siano sussistenti, autonomamente apprezzabili e tali comunque da incrementarne il valore rispetto all'epoca di concessione della garanzia, prescindendo dallo stato soggettivo (di buona o mala fede) di chi li abbia realizzati; il terzo che subisce l'espropriazione, inoltre, può cumulare il valore dei incrementi apportati dai suoi danti causa (o da estranei), purché si tratti di soggetti diversi dal debitore concedente ipoteca.
Nei rapporti con i terzi acquirenti dell'immobile ipotecato (e solo nei riguardi di costoro) l'art. 2880 c.c. disciplina una fattispecie estintiva dell'ipoteca per prescrizione (con il decorso di venti anni dalla data di trascrizione del titolo di acquisto del terzo) che, secondo la ricostruzione offerta da Sez. 3, n. 13940/2016, Barreca, Rv. 640532, opera, in deroga al principio generale dell'accessorietà, in via autonoma rispetto al diritto di credito garantito, sancendo una scissione tra la garanzia reale, azionabile nei confronti del terzo e che si estingue per prescrizione, e il diritto di credito che, indifferente alle sorti dell'ipoteca, resta in capo al creditore nei confronti del debitore originario. Da questa distinzione deriva che il creditore, per evitare la prescrizione dell'ipoteca verso il terzo acquirente, è tenuto a rivolgere a quest'ultimo atti costituenti estrinsecazione della volontà di avvalersi della garanzia reale, ovvero ad esercitare il diritto di espropriazione del bene ipotecato promuovendo nei termini il processo esecutivo individuale contro il terzo, non costituendo valido atto interruttivo del diritto di garanzia l'ammissione al passivo del fallimento del debitore iscritto che di quel bene abbia perduto la disponibilità prima della dichiarazione di fallimento. La regola, precisa ancora la S.C., non soffre eccezione nemmeno nel disposto dell'art. 20 del r.d. 16 luglio 1905, n. 646, secondo cui, in base al principio della cd. indifferenza del trasferimento dell'immobile gravato da ipoteca per mutuo fondiario, in ipotesi di mancata notificazione del subentro dei successori a titolo universale o particolare e degli aventi causa al creditore, gli atti giudiziari, compresi quelli di rinnovazione di ipoteche e di interruzione della prescrizione di esse, possono essere diretti contro il debitore iscritto: in tal caso, infatti, il privilegio riconosciuto al creditore fondiario è dato dalla possibilità di promuovere l'azione esecutiva individuale direttamente nei confronti del debitore, rivolgendo a quest'ultimo gli atti relativi, anche quando il bene sia stato venduto a terzi.
Le pronunce di maggiore interesse hanno investito l'apposizione del patto di prova, l'atteggiarsi della subordinazione in alcune situazioni peculiari (dirigenza, lavoro giornalistico) e le correlazioni e distinzioni tra la subordinazione ed il lavoro a progetto.
Sez. L, n. 16214/2016, Ghinoy, Rv. 640860, ha puntualizzato che il datore di lavoro che si ritenga leso dalla mancata proroga del patto di prova determinata da dolo del lavoratore deve provare gli artifizi e i raggiri che abbiano avuto efficienza causale sul suo consenso, restando il dedotto dolo comunque irrilevante ove cada non sulla stipulazione del contratto di lavoro o sull'individuazione dei suoi elementi essenziali ma solo sul patto di prova, che costituisce elemento accidentale del contratto. Nel caso di specie, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dal datore di lavoro che deduceva la natura dolosa del comportamento di una lavoratrice, assunta in prova, che non aveva sottoscritto la mail aziendale contenente la proroga del patto di prova, al solo fine di avvalersi della conversione del contratto per scadenza del periodo di esperimento.
Sez. 1, n. 09463/2016, Di Virgilio, Rv. 639632, ha avuto modo di precisare che, ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un alter ego dell'imprenditore (preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è necessario - ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente - verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro (e, in particolare, dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso), nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale.
Di indubbio interesse Sez. L, n. 01542/2016, Ghinoy, Rv. 638343, ha chiarito che il mero conferimento dell'incarico di direttore responsabile di un periodico, ai sensi dell'art. 3, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, con la relativa indicazione dello stesso nel periodico, comporta l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato solo se l'incarico si cumuli con altri e diversi compiti di svolgimento dell'attività giornalistica, e, in ispecie, di funzione direttoriale esercitata in regime di subordinazione, tali da dimostrare l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione editoriale, sicché, in tale evenienza, anche il direttore responsabile dello stampato resta assoggettato al potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro.
In un'ottica sovrapponibile, Sez. L, n. 03647/2016, Cavallaro, Rv. 638950, ha escluso la necessaria correlazione tra l'incarico di direttore responsabile di testata giornalistica e l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato con l'azienda proprietaria della stessa, evidenziando la necessità, a tal fine, del cumulo in capo alla medesima persona, chiamata ad assolvere detta funzione di carattere pubblicistico, di altri e diversi compiti, svolti in modo tale da dimostrare l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa, con le caratteristiche essenziali della subordinazione e della collaborazione.
Di notevole incidenza la precisazione resa da Sez. L, n. 12820/2016, D'Antonio, Rv. 640230, in tema di contratto di lavoro a progetto, secondo cui, il regime sanzionatorio articolato dall'art. 69 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, pur imponendo in ogni caso l'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di cd. conversione del rapporto ope legis, restando priva di rilievo l'appurata natura autonoma dei rapporti in esito all'istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l'ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti.
Dal canto suo, Sez. L, n. 17127/2016, Lorito, Rv. 640919, in tema, ha osservato che l'evocato art. 69, comma 1, del d.lgs n. 276 del 2003 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui all'art. 1, comma 23, lett. f) della legge 28 giugno 2012, n. 92), va interpretato nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell'autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso.
La maggior parte delle pronunce concerne, in linea di continuità con i dati registrati negli anni passati, la tipologia del contratto a tempo determinato, segnalandosi, comunque, alcune pronunce di rilievo sul contratto di somministrazione di lavoro.
La normativa di settore - ivi compresa la disciplina sulla decadenza dalla facoltà di impugnare il contratto a termine e sull'indennità risarcitoria già prevista nell'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183 - è ormai contenuta negli artt. 19-29 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81.
Con l'eliminazione del requisito della causalità per la legittima apposizione del termine (già in conseguenza delle modifiche apportate al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, dal d.l. 20 marzo 2014, n. 34, conv. con modif. nella legge 16 maggio 2014, n. 78) il contenzioso classico - vertente, in prevalenza, sulla sussistenza, o meno, delle ragioni giustificative - è destinato a venir meno. Diverse sono invece le pronunce sulla legittimità, natura ed ambito di applicazione dell'indennità risarcitoria. Di particolare rilievo, infine, le sentenze che, nell'anno, hanno definito alcuni aspetti fondamentali per il cosiddetto "precariato pubblico".
Con riferimento alle ragioni sostitutive, in continuità con l'indirizzo più elastico aperto da Sez. L, n. 01576/2010, Di Cerbo, Rv. 611548, Sez. L, n. 01246/2016, Lorito, Rv. 638315, ha ribadito che l'onere di specificazione è soddisfatto, nelle situazioni aziendali complesse, dall'indicazione di elementi ulteriori, quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto, che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, e, quindi, di verificare la sussistenza delle condizioni di legittimità per l'apposizione del termine. L'assunto - ormai consolidato - è stato ulteriormente suffragato con il richiamo sia alla sentenza della Corte cost. n. 107 del 2013, che ha rigettato la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, sia alla sentenza della Corte di Giustizia UE del 24 giugno 2010, in C-98/09, che ha riconosciuto la compatibilità comunitaria della stessa normativa con la clausola 8.3 dell'accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE.
Sul piano dell'effettività della causale, Sez. L, n. 17774/2016, Esposito, Rv. 640813, richiamandosi ad un principio espresso nella vigenza della legge n. 18 aprile 1962, n. 230 (Sez. L, n. 03492/1988, Ponzetta, Rv. 458841), ha qualificato come irrilevante la circostanza che il lavoratore sia stato adibito in via marginale a mansioni non strettamente inerenti alla causale indicata nel contratto a tempo determinato, purché la prestazione complessivamente resa risulti coerente con la giustificazione addotta per l'assunzione a termine. Di rilievo che, nel caso di specie, la compatibilità delle ulteriori mansioni svolte dal lavoratore assunto per l'esecuzione di spettacoli teatrali programmati è stata apprezzata in riferimento ad una dimensione essenzialmente quantitativa (soli sette giorni sui quarantanove di durata complessiva del rapporto).
La legittimità della disposizione in esame era stata revocata in dubbio dalla Sezione Lavoro (Sez. L, n. 18782/2015, Bandini), sotto il profilo della compatibilità con la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, con parti- colare riferimento alla violazione della clausola 5 dell'accordo citato, in tema di prevenzione degli abusi. In particolare, a seguito della sentenza della Corte di giustizia, 3 luglio 2014, C-362/13, C-363/13 e C-407/14, in tema di successione di contratti di arruolamento a tempo determinato ai sensi dell'art. 326 cod. nav., la Sezione Lavoro aveva rimesso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite la questione se sia adeguata la misura della previsione di una durata massima dei contratti a tempo determinato successivi (36 mesi) ovvero si renda necessario rispettare - fra la stipula di un contratto a termine e l'altro, a norma della disposizione in commento - anche l'intervallo minimo previsto in via generale per il caso di riassunzione dall'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 368 del 2001.
La questione è stata risolta dal Supremo consesso (Sez. U, n. 11374/2016, Curzio, Rv. 639827) nel senso della legittimità della disposizione in commento valorizzando il limite dei trentasei mesi per la durata massima complessiva previsto dall'art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001 - che impone di considerare tutti i contratti a termine stipulati tra le parti, a prescindere dai periodi di interruzione tra essi intercorrenti - quale misura idonea ad assicurare la conformità della fattispecie alla clausola 5 dell'accordo quadro sulla prevenzione degli abusi da successione. Inoltre, in coerenza con l'orientamento già maturato in riferimento all'omologa fattispecie di cui all'art. 2, comma 1, in tema di trasporto aereo, la pronuncia ha delineato, rispetto alla disciplina applicabile ratione temporis, due regole autonome, che operano in parallelo, per il ricorso al termine: in via generale è consentito se si indicano le ragioni di ordine produttivo, tecnico, organizzativo o sostitutivo della scelta; nel trasporto aereo e nel settore postale è consentito in presenza di alcuni requisiti (temporali e quantitativi) specificamente indicati, in quanto la valutazione in ordine alla sussistenza della giustificazione è stata fatta ex ante dal legislatore. Infine, la sentenza ha ribadito l'orientamento già espresso in ordine alla legittimità della norma anche nel regime transitorio, considerato che l'art. 1, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 ha attratto - nel conteggio finalizzato al rispetto del limite di durata massima - anche i contratti a termine già conclusi, prevedendo che se, in forza del computo complessivo, il limite massimo viene superato, si avrà la trasformazione del rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato.
Va, infine, osservato che anche il contenzioso sulla disposizione in questione è destinato a diventare "ad esaurimento", posto che l'art. 55, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015 dispone l'abrogazione dell'intero art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001 a decorrere dal 1° gennaio 2017.
Con riferimento ai lavoratori disabili, era stato affermato il principio secondo cui la disciplina prevista per l'assunzione ai sensi dell'art. 11, comma 2, della legge n. 12 marzo 1999, n. 68, si ponesse in rapporto di specialità rispetto a quella generale di costituzione del rapporto di lavoro a termine, sicché non era richiesta l'indicazione nel contratto di lavoro delle ragioni giustificative già prescritte dall'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 34 del 2014, conv. con modif. nella l. n. 78 del 2014 (Sez. L, n. 13285/2010, Ianniello, Rv. 613788). Tale interpretazione è stata però superata (Sez. L, n. 17867/2016, Bronzini, Rv. 641140) sul rilievo che l'art. 11 della l. n. 68 del 1999 si limita a prevedere che l'assunzione dei soggetti disabili possa avvenire anche con contratti a termine, cosicché, in assenza di espressa clausola di esclusione nel d.lgs. n. 368 del 2001, non sussistono elementi per ritenere che il legislatore del 1999 abbia voluto esentare l'assunzione "tramite convenzione" a termine dal rispetto delle regole di ordine generale in materia; la nuova linea interpretativa, peraltro, è stata ritenuta doverosa per prevenire il rischio che il sistema delle assunzioni dei disabili si ponga in contrasto con la direttiva 2000/78/CE e con l'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (che vieta ogni forma di discriminazione in relazione all'handicap), oltre che con l'art. 5 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18.
L'art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 non chiariva - come del resto neppure l'art. 21 del d.lgs. n. 81 del 2015 attualmente vigente - se il requisito della forma scritta prescritto per l'apposizione del termine si estendesse o meno anche alla proroga. Secondo Sez. L, n. 01058/2016, Balestrieri, Rv. 638515, la norma non impone la forma scritta per la proroga del contratto a tempo determinato, pur evidenziando come, ai sensi del successivo art. 5, siano prescritte maggiorazioni retributive per il caso della prosecuzione del rapporto oltre il termine iniziale o successivamente prorogato nonché - nell'ipotesi di superamento di venti o trenta giorni la durata iniziale del contratto - la trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Tale apparato sanzionatorio, valutato unitamente all'onere per il datore di lavoro di provare le ragioni obiettive che giustifichino la proroga (nella formulazione applicabile ratione temporis) ed al termine di durata massima complessiva di trentasei mesi, è stato ritenuto conforme alla clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che, secondo l'interpretazione resa dalla Corte di Giustizia UE (sentenza 26 gennaio 2012, C-586/10), mira a limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti a tempo determinato.
Sui problemi interpretativi insorti in merito all'introduzione del regime decadenziale ex art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010, la soluzione già espressa da Sez. 6-L, n. 25103/2015, Mancino, Rv. 637925, è stata ribadita da Sez. U, n. 04913/2016, Amoroso, Rv. 639067, nel senso che la proroga prevista dall'art. 32, comma 1-bis, della l. n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, conv. con modif. nella legge 26 febbraio 2011, n. 10, (secondo cui "in sede di prima applicazione" l'entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento è differita al 31 dicembre 2011) si applica a tutti i contratti ai quali è esteso il regime di decadenza, ivi compresi quelli con termine scaduto e per i quali la decadenza sia già maturata nell'intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore della l. n. 183 del 2010) ed il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta giorni dall'entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale). Tale interpretazione è stata ritenuta coerente con la ratio legis di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all'introduzione del nuovo termine di decadenza.
La legittimità dell'indennità omnicomprensiva di cui all'art. 32, commi 5-7, della l. n. 183 del 2010, già positivamente vagliata con particolare riferimento all'ordinamento sovranazionale da Sez. L, n. 06735/2014, Bandini, Rv. 629999, rispetto all'art. 6 CEDU, è stata riaffermata da Sez. L, n. 16545/2016, Ghinoy, Rv. 640854, secondo cui la norma in questione non contrasta con la giurisprudenza della Corte EDU (e segnatamente con la sentenza 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia) in quanto giustificata da ragioni di "pubblica utilità", suscettibili di legittimare limitazioni al diritto di proprietà, la cui valutazione compete, prioritariamente, alle autorità nazionali, avuto riguardo a quanto affermato da Corte cost. n. 303 del 2011, in ordine alla finalità perequativa di semplificazione e certezza applicativa perseguita dal legislatore con l'introduzione dell'indennità.
In continuità con l'indirizzo già espresso da Sez. L, n. 03027/2014, Balestrieri, Rv. 630469, è stato ribadito (Sez. L, n. 03062/2016, Mammone, Rv. 639081) il principio secondo cui l'indennità non ha natura retributiva e su di essa non spettano la rivalutazione monetaria e gli interessi legali se non dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa dell'illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato. In particolare, va evidenziato che nel caso di specie la nullità del termine (con la ricostituzione del rapporto ed il risarcimento del danno) era stata disposta in primo grado (2006) in epoca anteriore all'approvazione della l. n. 183 del 2010, sicché la decorrenza di rivalutazione ed interessi è stata collegata alla pronuncia della sentenza di secondo grado, che ha liquidato il danno ai sensi della disciplina sopravvenuta.
Quanto all'ambito di applicazione dell'indennità, è stato chiarito (Sez. L, n. 09468/2016, Torrice, Rv. 639684) che essa si estende anche al lavoro nautico, sul rilievo che la formulazione letterale della norma è riferibile indistintamente a tutti i casi di conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato.
Il tema più controverso è, però, senz'altro rappresentato dai limiti di applicabilità della disposizione in questione, come ius superveniens, ai giudizi pendenti, con particolare riferimento al processo in cassazione. Infatti, con ordinanza interlocutoria n. 14340/2015, Bandini, la Sezione Lavoro aveva rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione di massima di particolare importanza circa la possibilità (e le relative modalità di esercizio del diritto di impugnazione in sede di legittimità) di ottenere il riconoscimento in cassazione dello ius superveniens, espressamente dichiarato applicabile ai giudizi in corso, la cui entrata in vigore sia successiva alla pronuncia resa in appello, ma anteriore alla proposizione del ricorso. Nell'ordinanza si segnalava in proposito un contrasto riscontrato all'interno della Sezione fra chi riteneva sufficiente la proposizione di uno specifico motivo di ricorso - ancorché unico - nel quale si chiedesse l'applicazione della normativa sopravvenuta (quale mezzo idoneo ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza sul punto) e chi, invece, reputava necessario che il ricorso investisse specificamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità della clausola di durata. Nell'ambito della questione principale, veniva altresì evidenziato un secondo aspetto controverso, concernente la corretta individuazione del giudicato interno sul capo della sentenza che provvede a regolare le conseguenze risarcitorie dell'illegittima apposizione del termine: infatti, secondo alcune pronunce la proposizione di doglianze relative alla dichiarata nullità del termine sarebbe sufficiente ad escludere il giudicato anche in assenza di specifica impugnazione delle (dipendenti) statuizioni sulle poste economiche; viceversa, secondo altre decisioni l'applicabilità dello ius superveniens sarebbe condizionata dall'esito delle censure proposte sull'illegittimità del termine, in quanto solo nell'ipotesi di accoglimento delle stesse la conseguente decisione sul quantum verrebbe ad essere travolta.
Entrambe le questioni prospettate sono state risolte in senso favorevole ad ampliare l'applicabilità della normativa sopravvenuta da Sez. U, n. 21691/2016, Curzio, Rv. 641723.
Infatti, quanto al primo tema sollevato, è stato osservato che la questione si risolve nel problema di stabilire se la violazione di norme di diritto, cui fa riferimento il n. 3 dell'art. 360 c.p.c., concerna solo quelle vigenti al momento della decisione impugnata o invece anche norme emanate in seguito ma dotate dal legislatore di efficacia retroattiva; quesito cui la Corte ha risposto reputando che la legge retroattiva costituisce il parametro del giudizio sulla violazione di legge ai sensi dell'art. 360 n. 3, c.p.c., cosicché può essere proposto ricorso per cassazione anche solo per denunziare la violazione della legge nuova: in tal senso, la pronuncia giunge a precisare che la nuova legge retroattiva deve trovare applicazione dalla Corte nei processi in corso anche qualora sia intervenuta dopo la notifica del ricorso per cassazione e quindi senza che il ricorrente abbia potuto formulare uno specifico motivo di ricorso, in quanto anche la Corte di cassazione deve applicare il principio iura novit curia.
Quanto, poi, al secondo tema sollevato - relativo al rapporto tra legge retroattiva e giudicato interno - è stato evidenziato che l'impugnazione della parte della sentenza che ha affermato l'illegittimità del termine esprime la volontà di caducare anche la parte, strettamente collegata da un nesso causale, sul risarcimento del danno derivante dall'illegittimità. Partendo da tale assunto, valorizzato in relazione al disposto di cui all'art. 336 c.p.c. (secondo cui «la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata o cassata»), la Corte perviene alla conclusione che l'impugnazione contro la parte della sentenza che dispone sull'illegittimità del termine impedisce il passaggio in giudicato anche delle parti dipendenti della sentenza, ed anche qualora queste parti non siano state oggetto di uno specifico motivo di ricorso.
Infine, in conformità all'interpretazione già resa da Sez. L, n. 21069/2015, Nobile, Rv. 637360, è stato ribadito (Sez. L, n. 17866/2016, Ghinoy, Rv. 641013) che i criteri di quantificazione dell'indennità di cui all'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2015 si applicano solo ai contratti stipulati successivamente alla sua entrata in vigore, avendo la nuova disciplina carattere innovativo e difettando una specifica disposizione transitoria.
La questione centrale è senz'altro quella che era stata posta con l'ordinanza interlocutoria Sez. L., n. 16363/2015, Blasutto, che aveva trasmesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, il tema della definizione, portata applicativa e parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, evidenziando altresì il contrasto registrato sui criteri di liquidazione da adottare. Quanto al primo aspetto, nell'ordinanza interlocutoria erano state richiamate le indicazioni della Corte di giustizia, 7 settembre 2006, proc. C-53/04, circa l'astratta compatibilità della normativa interna - preclusiva della costituzione del rapporto a tempo indeterminato per i contratti a termine abusivi alle dipendenze di una pubblica amministrazione - purché sia assicurata altra misura effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste nell'ordinamento interno per situazioni analoghe. Quanto al secondo profilo, nell'ordinanza interlocutoria erano stati esposti i diversi parametri di liquidazione del danno adottati nella giurisprudenza di merito (essenzialmente, quello ex art. 18, commi 4 e 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012) ed in alcune decisioni della Sezione (Sez. L, n. 19371/2013, Manna A., Rv. 628401, che ha ancorato la determinazione del risarcimento all'art. 32, commi 5-7, l. n. 183/2010, e Sez. L, n. 27481/2015, Tria, Rv. 634073, che ha utilizzato come criterio di liquidazione quello indicato dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604), prospettando la necessità di un intervento nomofilattico.
Le questioni sono state decise dalle Sezioni Unite civili con articolata pronuncia (Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639065 e Rv. 639066), secondo cui il danno risarcibile ex art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto - legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei - bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c. Quanto, poi, al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), è stato affermato che - nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine - per determinare la misura risarcitoria può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo. Infine, nell'ottica di salvaguardare il canone di equivalenza pure postulato dalla Corte europea, è stato chiarito che la soluzione adottata non attribuisce una posizione di maggior favore al lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito.
L'approdo ermeneutico di Sez. U, n. 05072/2016 è stato pienamente condiviso dalla Sezione Lavoro in sede di esame del contenzioso sul cosiddetto "precariato scolastico", con le pronunce (v. per tutte Sez. L, n. 22552/2016, Torrice, Rv. 641608) emesse a seguito delle sentenze della Corte di giustizia (sentenza 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13) e della Corte cost. n. 187 del 2016. In particolare, all'esito di ampia ricostruzione della normativa di settore (specialità della legge 3 maggio 1999, n. 124 rispetto al sistema del d.lgs. n. 368 del 2001 ed evoluzione della disciplina sino alla legge 13 luglio 2015 n. 107), i giudici della Corte di legittimità hanno ritenuto che per la configurabilità dell'abuso da successione, ai sensi dell'interpretazione resa dalla Corte di giustizia europea, deve aversi riguardo alla reiterazione ultratriennale di supplenze su organico cosiddetto di diritto, mentre non rileva di norma - salvo specifica deduzione - la mera successione di contratti a termine su organico cosiddetto di fatto. Quanto, poi, alle ricadute sanzionatorie dell'accertata illegittima reiterazione, è stata ritenuta misura adeguata, ai sensi e per gli effetti della giurisprudenza europea, la stabilizzazione conseguita dai docenti per effetto della legge n. 107 del 2015 così come la stabilizzazione comunque intervenuta, anche in favore degli A.T.A., in virtù della pregressa disciplina sull'assunzione, atteso che, in tal modo, i soggetti interessati hanno conseguito il bene della vita, ben più soddisfacente del risarcimento per equivalente riconoscibile in virtù dell'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001. A tali fini, alla stabilizzazione è stata equiparata la certezza di fruire, in tempi certi e ravvicinati, di un accesso privilegiato in ruolo ai sensi della l. n. 107 del 2015, non risultando a ciò sufficiente la mera chance. In applicazione dei principi espressi da Sez. U, n. 05072/2016, è stata comunque riconosciuta la possibilità per il lavoratore di offrire la prova del maggior danno non coperto dall'intervenuta assunzione in ruolo. Infine, nell'ipotesi di mancata stabilizzazione o di seria prospettiva di immissione in ruolo, nei termini sopra indicati, il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno, da liquidare secondo i criteri affermati da Sez. U, n. 05072/2016.
Sempre in relazione al cosiddetto "precariato scolastico" la Corte (Sez. L, n. 22558/2016, Di Paolantonio, Rv. 641598-641599) ha affrontato anche la questione della computabilità dei periodi di supplenza ai fini del riconoscimento della progressione stipendiale, esprimendo il principio secondo cui la clausola 4 dell'accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva 99/70/CE - di diretta applicazione - impone di riconoscere l'anzianità di servizio maturata dal personale del comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini dell'equiparazione del trattamento ai dipendenti a tempo indeterminato in base ai c.c.n.l. succedutisi nel tempo, mentre non è stato ritenuto applicabile l'art. 53 della legge 11 luglio 1980, n. 312 - che prevedeva scatti biennali di anzianità per il personale non di ruolo - la cui perdurante vigenza è stata affermata, ex artt. 69, comma 1, e 71 del d.lgs n. 165 del 2001, dal c.c.n.l. 4 agosto 1995 e dai contratti successivi limitatamente agli insegnanti di religione.
Il principio di non discriminazione - di cui alla clausola 4 dell'accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva 99/70/CE - è stato pure invocato in riferimento all'inquadramento spettante ai dipendenti stabilizzati per effetto della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Infatti, Sez. L, 24025/2016, Blasutto, Rv. 641705, nel pronunciarsi ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c., ha espresso il seguente principio di diritto "La stabilizzazione prevista dalla legge n. 269/2006, art. 1, comma 558, costituisce una misura di favore prevista dal legislatore per coloro che abbiano già prestato servizio alle dipendenze dell'ente locale, il quale può procedervi solo nel rispetto delle regole del patto di stabilità interno e nei limiti dei posti disponibili in organico. Essa consente a tale personale, in deroga alla regola generale dell'accesso mediante concorso pubblico, di essere assunto a tempo indeterminato nella qualifica da ultimo rivestita alle dipendenze dell'ente locale. La pretesa ad un inquadramento diverso da quello adottato dall'Ente per le proprie dichiarate esigenze di stabilizzazione può correlarsi alla violazione del principio di non discriminazione di cui alla direttiva 1999/70/CE soltanto nell'ipotesi che la qualifica di inquadramento in sede di stabilizzazione sia inferiore a quella che sarebbe spettata al lavoratore se l'Ente locale non avesse fraudolentemente operato il frazionamento in più segmenti di un rapporto di lavoro connotato da un'intrinseca unitarietà; l'onere di allegazione e di prova di tale preordinazione in frode grava sul lavoratore che ne assume l'esistenza".
Infine, va segnalata Sez. 6-L, n. 14467/2016, Marotta, Rv. 640581, che ha escluso la configurabilità di un rapporto di lavoro a tempo determinato tra i volontari del Corpo dei Vigili del fuoco e la P.A., trattandosi di personale che svolge una funzione non suppletiva ma emergenziale, collegata ad eventi eccezionali e di durata ed entità non prevedibili, con conseguente esclusione degli stessi dall'ambito di applicazione dell'accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE e della disciplina nazionale in materia. Su un diverso piano, merita di essere evidenziata la pronuncia (Sez. L, n. 26166/2016, Paolo Negri Della Torre, Rv. 642247) con la quale è stata esclusa la possibilità per l'ANAS di avvalersi della deroga all'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 in tema di utilizzo di contratti di lavoro flessibile prevista dalla normativa di emergenza emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in occasione del sisma che ha colpito l'Abruzzo - con conseguente illegittimità della seconda proroga apposta al contratto a termine impugnato dal lavoratore - atteso che il rapporto di lavoro intrattenuto con il personale dipendente dell'ente è disciplinato dalle norme di diritto privato e dalla contrattazione collettiva.
Sul tema corre l'obbligo di segnalare un contrasto sostanzialmente interno alla Sezione Lavoro circa l'estensione o meno della decadenza introdotta dall'art. 32 della l. n. 183 del 2010 ai contratti di somministrazione già scaduti alla data del 24 novembre 2010. Infatti, secondo un primo orientamento (già Sez. 6-L, n. 21916/2015, Arienzo, Rv. 637486, confermata da Sez. 6-L, n. 02462/2016, Arienzo, Rv. 638727), in assenza di una specifica disciplina derogatoria, analoga a quella dettata dall'art. 32, comma 4, lett. b) per i contratti a termine, la decadenza in questione opera solo per i contratti di somministrazione a termine in corso o stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della legge, e non anche per quelli il cui termine sia già scaduto il 24 novembre 2010; a conforto dell'assunto è stata addotta la sentenza della Corte cost. n. 155 del 2014, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, comma 4, lett. b), della l. n. 183 del 2010, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., proprio sul rilievo che il contratto di lavoro con una clausola appositiva del termine viziata non può essere assimilato ad altre figure illecite, quali - fra l'altro - la somministrazione di lavoro irregolare.
In consapevole contrasto con tale soluzione, Sez. L, n. 02420/2016, Manna A., Rv. 638725, ha ritenuto invece applicabile la decadenza anche ai contratti di somministrazione a termine scaduti alla data di entrata in vigore della legge, sul rilievo che, nella sentenza n. 155 del 2014, la Corte costituzionale si è limitata ad effettuare lo scrutinio di legittimità costituzionale della norma come interpretata dall'ordinanza di rimessione; inoltre, non si comprenderebbe la ratio della proroga introdotta all'art. 32, comma 1-bis, della l. n. 183 del 2010, se la stessa non fosse destinata ad attenuare gli effetti della nuova disciplina anche per i contratti cessati prima dell'entrata in vigore della legge; infine, la norma non avrebbe efficacia retroattiva, in quanto limitata a disciplinare una situazione che, pur costituendo l'effetto di un pregresso fatto generatore, è distinta ontologicamente e funzionalmente e suscettibile di una nuova regolamentazione. Tale pronuncia afferma altresì che il termine di decadenza decorre dalla data di scadenza originariamente predeterminata, senza che il potenziale rinnovo per un numero indefinito di volte legittimi un corrispondente affidamento del lavoratore e renda indispensabile una comunicazione contraria del somministratore.
Ancora sul tema della decadenza è da segnalare l'interpretazione (Sez. L, n. 17969/2016, Torrice, Rv. 641175), secondo cui, nell'ipotesi di somministrazione irregolare e di costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore ai sensi dell'art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è onere del lavoratore impugnare il licenziamento intimato dal somministratore ai sensi dell'art. 6 della l. n. 604 del 1966, quale atto di gestione del rapporto che produce effetto anche nei confronti dell'utilizzatore.
In materia si segnalano importanti pronunce che ulteriormente chiariscono i passaggi del procedimento di accertamento e valutazione operato dal giudice e la distribuzione degli oneri probatori. Numerosi sono, inoltre, gli interventi, in ordine all'inquadramento del personale e in materia di interpretazione dei c.c.n.l. al riguardo.
In tema di accertamento del diritto ad una qualifica superiore, Sez. L, n. 18943/2016, Negri Della Torre, Rv. 641208, ha chiarito che, nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento del lavoratore, l'imprescindibile osservanza del cd. criterio "trifasico", non postula necessariamente il rispetto di una rigida sequenza nello schema procedimentale, purché risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni.
Con riguardo agli autoferrotranvieri Sez. L, n. 12601/2016, Boghetich, Rv. 640334 in tema di svolgimento di mansioni superiori, ha chiarito che, pur non applicandosi l'art. 2103 c.c. sulla cd. promozione automatica, ma vigendo ancora l'art. 18 dell'allegato A del r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, la pluriennale copertura del posto da parte del lavoratore con qualifica inferiore costituisce elemento presuntivo della relativa vacanza, dell'assenza di una riserva datoriale di provvedervi mediante concorso e dell'idoneità del dipendente all'esercizio delle mansioni superiori. Ne consegue che, in linea con l'attenuazione della specialità del rapporto di lavoro in questione e in graduale avvicinamento alla disciplina del rapporto di lavoro privato, al lavoratore può essere riconosciuto il diritto all'inquadramento superiore.
In ordine, invece, al demansionamento e alla ripartizione degli oneri probatori, Sez. L, n. 04211/2016, De Gregorio, Rv 639195, ha confermato che incombe sul datore di lavoro l'onere di provare l'esatto adempimento dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c., o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Sotto il diverso profilo risarcitorio è stato riconosciuto da Sez. L, n. 08709/2016, Riverso, Rv 639584, che il diritto all'immagine professionale del lavoratore demansionato anche per un breve periodo rientra tra quelli fondamentali tutelati dall'art. 2 Cost. la cui risarcibilità va riconosciuta.
Deve, invece, essere esclusa la violazione dell'art. 2103 c.c, secondo Sez. L, n. 04496 2016, Amendola F., Rv. 639225, nei casi di assunzione di uno stesso dipendente con diversi contratti, causalmente e temporalmente distinti, con pattuizione, all'inizio di ciascun rapporto, di differenti inquadramenti.
In caso di sopravvenuta inidoneità fisica, Sez. L, n. 13511/2016, Negri Della Torre, Rv. 640471, ha precisato che è a carico del datore di lavoro l'obbligo di ricercare, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede, le soluzioni che, nell'ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore, nonché l'onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l'attuazione dei detti diritti. In proposito, infatti, l'art. 42 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, nel prevedere che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o inferiori, nell'inciso "ove possibile" contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell'impresa.
Per i dipendenti delle poste italiane, per Sez. L, n. 01064/2016, Tria, Rv. 638693, l'art. 77, commi 2 e 3, del c.c.n.l. dell' 11 luglio 2007 impone al datore di lavoro la preventiva ricerca di una soluzione transattiva personalizzata, la cui assenza determina l'illegittimità del trasferimento.
Con riguardo al tema della classificazione del personale per i dipendenti ferroviari, Sez. 6-L, n. 03547/2016, Marotta, Rv. 638939, ha chiarito che, nell'interpretazione delle clausole di un contratto collettivo, in particolare aziendale, ai fini della classificazione del personale, ha rilievo preminente la considerazione degli specifici profili professionali, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie. Le parti collettive, infatti, classificano il personale sulla base delle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, ordinandole in una scala gerarchica, e successivamente elaborano le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l'inquadramento di figure professionali atipiche o nuove. Nello stesso senso, Sez. L, n. 03216/2016, Di Paolantonio, Rv. 638938, che, con riferimento, invece, al personale A.N.A.S., ha tratto la conclusione che, a fronte di profili professionali espressamente tipizzati, per l'individuazione della specifica e maggiore professionalità, che ne caratterizza uno rispetto ad altro, non si può prescindere dall'esame della declaratoria di livello, che, pur non avendo valore assorbente, svolge funzione interpretativa nella sussunzione dei compiti all'uno o all'altro di essi.
Sotto il diverso profilo delle procedure di selezione per l'accesso alla qualifica superiore, nell'azione di risarcimento del danno da perdita di chance, Sez. L, n. 04014/2016, Mammone, Rv. 639086, ha nuovamente ribadito che l'onere della prova del mancato rispetto dei principi di correttezza e buona fede, incombe sul lavoratore, tenuto a dimostrare, seppure in via presuntiva e probabilistica, il nesso causale tra l'inadempimento e l'evento dannoso, ossia la sua concreta e non ipotetica possibilità di conseguire la promozione, qualora la comparazione tra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto e trasparente.
L'affidamento di una procedura di selezione per il riconoscimento della qualifica dirigenziale ad una società esterna, al fine di operare una valutazione del personale con attribuzione di punteggio e formazione di una graduatoria, secondo Sez. L, n. 04031/2016, Patti, Rv. 639085, non elimina la discrezionalità del committente nell'utilizzazione della selezione, salva l'ipotesi in cui l'interessato dimostri che il datore di lavoro si era obbligato a ritenerla vincolante.
Con riguardo ai dipendenti postali, Sez. L, n. 04090/2016, Torrice, Rv. 639144, ha precisato che la nullità di patti contrari al divieto di declassamento di mansioni, pur trovando applicazione anche alla contrattazione collettiva, non esclude che un nuovo contratto collettivo possa prevedere il riclassamento del personale. In particolare, è consentito un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni, purché sia salvaguardata la tutela della professionalità già raggiunta dal lavoratore. È di conseguenza da ritenere legittima l'attribuzione della nuova qualifica al lavoratore le cui mansioni siano rimaste immutate, viceversa, è illegittima l'assegnazione di nuove mansioni non coerenti con la professionalità di quest'ultimo, anche se equivalenti ad altre rientranti nella nuova qualifica attribuita.
In tema di esatto inquadramento Sez. L, n. 02528/2016, Blasutto, Rv. 638958 ha chiarito che, sempre per i dipendenti postali il lavoratore addetto ai compiti di consulenza, analisi, studio e collocazione di prodotti finanziari ha diritto all'inquadramento in area quadri.
Sullo stesso tema, ma per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato Sez. L, n. 14576/2016, Balestrieri, Rv. 640583, ha operato un importante chiarimento nell'interpretazione della contrattazione collettiva; in particolare, l'autonomia esecutiva, richiesta per i profili di terza area, ha riguardo alla scelta delle concrete modalità con cui realizzare una determinata operazione, sia essa tecnica, amministrativa o di altro tipo, nel rispetto delle direttive impartite e delle regole stabilite; la scelta si risolve, in altri termini, nel "come fare". La nozione di autonomia operativa, richiesta per i profili di quarta area, invece, riguarda anche scelte di merito e di opportunità, suscettibili di superare il singolo segmento del processo produttivo ed incidenti sul funzionamento di strutture connesse, con le quali occorre coordinarsi, e si risolve, quindi, nella scelta di "che cosa fare".
È stata, infine, ritenuta possibile da Sez. L, n. 03981/2016, Blasutto, Rv. 638954, la configurabilità di plurimi livelli dirigenziali, nelle imprese di rilevanti di dimensioni, purché sia riconosciuta al dirigente di grado inferiore un'ampia autonomia decisionale tale da incidere sugli obiettivi aziendali, anche se circoscritta dal potere generale di massima del dirigente di livello superiore.
In tema di trasferimento, ad avviso di Sez. L, n. 11126/2016, Esposito L., Rv. 639825, il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell'impresa e non può essere ampliato al merito della scelta operata dall'imprenditore. Questa, in linea con quanto già espresso da Sez. L, n. 09921/2009, Balletti, Rv. 607978, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento realizzi una delle ragionevoli scelte adottabili sul piano tecnico, organizzativo e produttivo.
Il lavoratore ha il diritto di chiedere l'accertamento giudiziale, anche in via d'urgenza, dell'illegittimità del suo trasferimento, ma, secondo Sez. L, n. 18866/2016, Berrino, Rv. 641205, non può rifiutarsi aprioristicamente di eseguire la prestazione lavorativa. L'eccezione d'inadempimento potrà, infatti, essere invocata ex art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro.
A tale proposito Sez. L, n. 03959/2016, Ghinoy, Rv. 638851, ha precisato che, anche in presenza di un trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell'art. 2103 c.c., il rifiuto del lavoratore deve essere proporzionato all'inadempimento datoriale, ai sensi dell'art. 1460, comma 2, c.c.. Il lavoratore dovrà dimostrare una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, configurandosi altrimenti l'arbitrarietà della sua assenza dal lavoro.
Contratto collettivo. In tema di repressione della condotta antisindacale, Sez. L, n. 03837/2016, Blasutto, Rv. 638953, contiene la riaffermazione del principio secondo cui, ai sensi dell'art. 28 st.lav., il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale.
In materia di diritto sindacale, Sez. L, n. 19695/2016, Boghetich, Rv. 641348, ha contribuito a cristallizzare il principio in base al quale l'assunzione di una carica elettiva nell'ambito di un'associazione sindacale è compatibile con la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra l'associazione medesima e l'eletto (anche se tale carica comporti funzioni dirigenziali e rappresentative) per lo svolgimento di specifiche mansioni affidate al soggetto stesso (nella specie di contabilità). L'indagine in ordine alla effettiva sussistenza o meno del suddetto rapporto di lavoro va compiuta, da parte del giudice di merito, tenendo conto del concreto atteggiarsi del rapporto.
Sez. L, n. 00355/2016, Esposito L., Rv. 638376, si è occupata di fissare rilevanti principi in materia di contrasto fra contratti collettivi di diverso, ritenendo che, in tema di pubblico impiego privatizzato (nella specie, a tempo determinato presso la regione Sicilia quale forestale), detto contrasto debba essere risolto, non già in base al criterio della gerarchia (ossia riconoscendo prevalenza alla disciplina di livello superiore), o temporale (quindi assegnando prevalenza al contratto più recente), ma secondo il principio di autonomia (e, reciprocamente, di competenza), alla stregua del collegamento funzionale che le associazioni sindacali pongono, con statuti o altri idonei atti di limitazione, fra i vari gradi o livelli della struttura organizzativa e della corrispondente attività.
Sempre in ambito di rapporti fra contratti di diverso livello, Sez. L, n. 01843/2016, Buffa, Rv. 638812, ha incisivamente chiarito che il trattamento economico complessivamente più favorevole previsto da un contratto aziendale ha una portata sostitutiva rispetto al trattamento deteriore di cui al contratto collettivo nazionale, sicché va escluso il diritto ad una applicazione cumulativa dei benefici rispettivamente previsti. In applicazione di tale principio, la la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva accertato, a mezzo c.t.u. contabile, l'assorbimento nella più elevata maggiorazione prevista per il lavoro turnario della mancata incidenza della stessa su alcuni istituti di retribuzione indiretta.
Proficua si mostra anche l'indicazione, resa da Sez. L, n. 03296/2016, Buffa, Rv. 638966, sull'interdipendenza fra l'uso aziendale e lo strumento contrattuale collettivo: la pronuncia osserva che l'uso anzidetto costituisce fonte di un obbligo unilaterale, di carattere collettivo, che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo, sicché, salvaguardati i diritti quesiti, esso può essere modificato da un successivo accordo anche in senso peggiorativo per i lavoratori.
In un contesto settoriale di notevole importanza si è inscritta Sez. L, n. 13677/2016, Blasutto, Rv. 640436, ad avviso della quale, a seguito della trasformazione dell'Agenzia del demanio in ente pubblico economico, ai fini dell'individuazione delle sigle sindacali da ammettere alla stipula del nuovo contratto collettivo di lavoro di diritto privato il criterio della maggiore rappresentatività, individuato dall'art. 9 dello statuto dell'ente, da interpretarsi alla luce del parametro fornito dall'art. 19 della l. n. 300 del 1970, ha carattere cogente, sicché, nella fase di avvio delle trattative, tale requisito è posseduto dalle associazioni sindacali firmatarie del c.c.n.l. Agenzie Fiscali, applicabile in via transitoria al personale rimasto alle dipendenze dell'ente con un rapporto di lavoro di diritto privato, ex art. 3, comma 5, del d.lgs. 3 luglio 2003, n. 173.
In un settore specifico, ma di estremo interesse, Sez. L, n. 26339/2016, De Gregorio, ha dato continuità al principio già cristallizzato, secondo cui, l'accertamento dell'eventuale persistenza dell'efficacia di clausole contrattuali collettive (nella specie, accordo aziendale del 1973 per i dipendenti dell'ACEA in tema di indennità di presenza) originariamente valide, ma successivamente divenute nulle per contrasto con le sopravvenute norme imperative sul cosiddetto blocco di contingenza di cui al decreto legge 1 febbraio 1977, n. 12 (conv. con modif. dalla legge 31 marzo 1977, n. 91), norme, queste ultime, dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale con sentenza n. 124 del 1981, limitatamente al periodo successivo all'entrata in vigore della legge 26 febbraio 1986, n. 38 (28 febbraio 1986), non pone un problema di reviviscenza, in quanto gli accordi o contratti collettivi, ancora "vigenti" a tale data (tra cui l'accordo aziendale citato), e non conformi al disposto di cui all'art. 1, primo comma, seconda parte, della legge n. 38 del 1986, debbono ritenersi nulli, a norma del secondo comma del medesimo art. 1 di detta legge. Da che si è ritenuta la fondatezza della pretesa dell'ACEA di ripetizione della contingenza maturata fino al 28 febbraio 1986, anche per il periodo posteriore circa l'indennità di presenza, quale istituto peculiare della normativa collettiva inerente ai rapporti di lavoro dei dipendenti di ACEA.
Di rilievo anche la precisazione contenuta in Sez. L, n. 25919/2016, Lorito, secondo cui i contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività sino ad un nuovo regolamento collettivo - secondo la disposizione dell'art. 2074 c.c. - ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall'art. 39 Cost. Pertanto, a seguito della naturale scadenza del contratto, collettivo, in difetto di una regola di ultrattività del contratto medesimo, la relativa disciplina non è più applicabile, ed il rapporto di lavoro da questo in precedenza regolato resta disciplinato dalle norme di legge, salvo che le parti abbiano inteso, anche solo per facta condudentia, proseguire l'applicazione delle norme precedenti.
Nel solco di un orientamento pacifico si inserisce Sez. L, n. 18195/2016, Bronzini, Rv. 641146, che, in caso di esercizio del diritto costituzionale di sciopero per più giorni senza soluzione di continuità, ha escluso la spettanza della retribuzione con riferimento alle festività cadenti nel periodo, evidenziando la sospensione delle reciproche obbligazioni contrattuali.
Di considerevole impatto anche la statuizione, contenuta in Sez. L, n. 00286/2016, Negri Della Torre, Rv. 638337, secondo cui, nell'ipotesi di più contratti di lavoro a termine illegittimamente posti in essere e sostituiti da un contratto a tempo indeterminato, la sospensione dell'obbligo retributivo negli intervalli non lavorati viene meno allorché il lavoratore, deducendo l'invalidità del termine e l'unicità del rapporto, si offra di riprendere il lavoro mettendo a disposizione del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa.Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto prova idonea di tale disponibilità, rilevante ai fini della decorrenza del diritto al pagamento delle retribuzioni, la comunicazione del lavoratore indirizzata ad un terzo - nella specie, l'Ufficio di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro - ma portata a conoscenza del datore di lavoro nell'ambito della procedura di conciliazione obbligatoria, contenente l'espressa dichiarazione della propria volontà di riprendere l'attività lavorativa.
Una precisazione "di sistema" è rintracciabile in Sez. L, n. 04286, Torrice, Rv. 639156, ad avviso della quale l'art. 2120, comma 2, c.c., nella formulazione attualmente vigente, nel definire la nozione di retribuzione ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, non richiede, a differenza del vecchio testo della norma, la ripetitività regolare e continua e la frequenza delle prestazioni e dei relativi compensi, disponendo che questi ultimi vanno esclusi dal suddetto calcolo solo in quanto sporadici ed occasionali, per tali dovendosi intendere solo quelli collegati a ragioni aziendali del tutto imprevedibili e fortuite, e dovendosi all'opposto computare gli emolumenti riferiti ad eventi collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione del lavoro. Nel caso sottoposto al suo vaglio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto la computabilità, ai fini del suddetto calcolo, delle somme corrisposte a titolo di festività non fruite in quanto cadenti di domenica.
Una regola d'applicazione tendenzialmente generalizzata si coglie in Sez. 6-L, n. 14120/2016, Fernandes, Rv. 640462, secondo cui, al fine di ritenere illegittimamente escluse dalla base di calcolo del compenso per lavoro straordinario, indennità, emolumenti ed altre voci non è rilevante la continuità della relativa corresponsione, quanto piuttosto la verifica se le stesse siano incluse nella retribuzione "normale", secondo quanto stabilito dal c.c.n.l., dovendo rimanere escluse, dalla detta base di calcolo, quelle voci che, per la relativa funzione e caratteristiche, siano rivolte a compensare particolari prestazioni e disagi specifici, ovvero situazioni particolari, meritevoli di tutela, anche se di fatto corrisposte con continuità.
Di ampio respiro applicativo si palesa anche il principio esplicitato da Sez. 6-L, n. 04545/2016, Fernandes, Rv. 639194, teso a disciplinare le ipotesi di passaggio lavoratori a diversa amministrazione o a settori diversi della stessa amministrazione: ad avviso della pronuncia, in tema di lavoro pubblico, nel caso di transito ad altra amministrazione, come pure di mutamento di posizione all'interno della stessa amministrazione con assegnazione a settori diversi da quelli di provenienza, dev'essere assicurata la continuità giuridica del rapporto e il mantenimento del trattamento economico, il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l'ente o il settore di destinazione, opera secondo la regola del riassorbimento degli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti a seguito del trasferimento. Il principio è stato affermato dalla Corte in una fattispecie relativa alla modifica della posizione lavorativa all'interno della medesima amministrazione comunale per effetto dell'affidamento del servizio di trasporto pubblico a un soggetto privato, con facoltà per il personale di optare per il mantenimento del rapporto alle dipendenze del Comune.
Di elevato interesse si profila poi Sez. L, n. 18586/2016, Manna A., Rv. 641186, secondo la quale, accertata in giudizio l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in contrasto con la qualificazione operatane dalle parti quale autonomo, il principio dell'assorbimento non trova applicazione per le indennità di fine rapporto, che maturano pur sempre al momento della cessazione del rapporto stesso e non a quello dei singoli accantonamenti, sicché, ai fini della determinazione dell'importo dovuto a tale titolo, non può operare l'assorbimento con le eventuali eccedenze sulla retribuzione minima contrattuale corrisposta durante il rapporto di lavoro e detto emolumento dovrà essere determinato sulla base delle retribuzioni che risultano annualmente dovute in applicazione dei parametri previsti dalla contrattazione collettiva, o, se superiore, in ragione di quanto effettivamente corrisposto nel corso del rapporto di lavoro.
Più settoriale, ma tutt'altro che scevra da salienti riflessi operativi, appare Sez. L, n. 00196/2016, D'Antonio, Rv. 638426, dalla quale si ricava che il compenso incentivante di cui all'art. 32 del c.c.n.l. enti pubblici non economici 1999-2001, legato al raggiungimento di determinati e specifici obbiettivi, non è incompatibile con la natura determinata del rapporto di lavoro, sicché la mancata corresponsione anche ai dipendenti a tempo determinato (nella specie, della Croce Rossa Italiana) si pone in contrasto con la disciplina contrattuale di settore e, data l'assenza di ragioni oggettive che giustifichino il trattamento differenziato, con il divieto di discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato sancito dall'art. 6 del d.lgs n. 368 del 2001, in attuazione della clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato oggetto della direttiva n. 99/70/CEE.
Un'importante ripercussione pratica si scorge, altresì, in Sez. L., n. 02737/2016, Balestrieri, Rv. 638723, secondo la quale, ai sensi dell'art. 34 del c.c.n.l. comparto Sanità 1998/2001, il compenso per il lavoro straordinario, prestato nell'ambito di un rapporto di lavoro con una azienda sanitaria locale, compete solo in presenza di una preventiva autorizzazione del dirigente responsabile, non assumendo rilievo la mera controfirma da questi apposta sui prospetti riepilogativi dello straordinario già espletato dal dipendente.
Un'applicazione di grande interesse del principio di c.d. "onnicomprensitivà della retribuzione" risulta scolpita in Sez. 1, n. 03819/2016, Genovese, Rv. 639026, la quale osserva che, in tema di progetti di formazione oggetto di convenzioni stipulate da istituti superiori ed un ente pubblico, datore di lavoro dei dirigenti scolastici di quegli istituti nonchè utilizzatore di contributi del Fondo Sociale Europeo, i suddetti dirigenti agiscono, nell'attuazione di tali progetti, non già come privati, bensì nella qualità di organi degli istituti stessi, sicché, stante il principio sopra evocato che informa il sistema retributivo pubblico, nessun maggiore compenso è loro dovuto in relazione all'attività aggiuntiva svolta.
Di ragguardevole peso si rivela anche Sez. L, n. 10354/2016, Patti, Rv. 639646, nella misura in cui descrive il quadro della responsabilità solidale del committente con l'appaltatore di servizi, spiegando che la locuzione "trattamenti retributivi" di cui all'art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, dev'essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti. Nella specie, la Corte, con riferimento agli artt. da 63 a 78 del c.c.n.l. attività ferroviarie del 16 aprile 2003, ha cassato, sul punto, la sentenza di appello, escludendo che rientrassero nella retribuzione le somme per buoni pasto e indennità sostitutiva ferie, ritenendo, viceversa, rientrarvi gli importi ROL per riduzione orario di lavoro.
Ulteriore sedimentazione ha ottenuto - in virtù di Sez. L, n. 13472/2016, Tria, Rv. 640235 - il saliente principio in base al quale, in tema di occupazione in lavori socialmente utili o per pubblica utilità, per le prestazioni che, per contenuto, orario e impegno, si discostino da quelle dovute in base al programma cui si riferisce il contratto originario e che vengano rese in contrasto con norme poste a tutela del lavoratore, trova applicazione la disciplina sul diritto alla retribuzione, in relazione al lavoro effettivamente svolto, prevista dall'art. 2126 c.c., applicabile nei confronti della Pubbliche Amministrazioni, assoggettate al regime del lavoro pubblico contrattualizzato.
Una cruciale "catalogazione" ha ricevuto - in forza di Sez. L, n. 13581/2016, Ghinoy, Rv. 640470 - elemento distinto della retribuzione (EDR), previsto per i dipendenti delle ferrovie dello Stato dall'accordo nazionale dell'8 novembre 1995, successivamente modificato dall'accordo del 6 febbraio 1998, come risultante dall'interpretazione dell' art. 73, comma 3, del c.c.n.l. del 6 febbraio 1998. La pronuncia ha chiarito che il predetto elemento assolve alla mera funzione di trasferire una parte degli importi delle competenze accessorie nella retribuzione base, in modo da renderli pensionabili, senza, tuttavia, creare una lievitazione del costo del lavoro e, dunque, con il meccanismo del "riassorbimento". Da ciò consegue, con ogni evidenza, che l'ampliamento della retribuzione base pensionabile, conseguito mediante il riconoscimento di un 14° rateo EDR, in incremento della retribuzione base e quindi anche dell'assegno personale pensionabile, è destinato ad essere riassorbito in varie indennità accessorie decurtate nella stessa misura, sicché va escluso che debba essere effettivamente erogato.
Del trattamento estero di occupa, invece, Sez. L, n. 15217/2016, Manna A., Rv. 640736, riconducendovi natura retributiva, tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosità del disagio morale e ambientale, quanto nel caso di sua correlazione alle qualità e condizioni personali concorrenti a formare la professionalità indispensabile per prestare lavoro fuori dai confini nazionali; la pronuncia ascrive, di contro, natura riparatoria al rimborso spese per la permanenza all'estero, che costituisce la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale derivante da una spesa effettiva sopportata dal lavoratore nell'esclusivo interesse del datore, restando normalmente collegato ad una modalità della prestazione lavorativa richiesta per esigenze straordinarie, priva dei caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità) e fondata su una causa autonoma rispetto a quella retributiva.
La stessa sentenza in massima Rv. 640737 si è poi soffermata su una peculiare forma di retribuzione, rappresentata dalla distribuzione di azioni ai dipendenti mediante l'utilizzo delle c.d. "stock option". La decisione, nel rilevare la rispondenza di detta distribuzione ad una finalità di incentivazione della produttività con la possibilità di realizzare una plusvalenza e la partecipazione agli utili, ne chiarisce la piena legittimità ai sensi dell'art. 2099, ultimo comma, c.c., ricavandone il corollario in base al quale ogni controversia - fra la società ed il suo dipendente - in ordine alla spettanza di dette azioni rientra nella competenza del giudice ordinario, secondo il rito speciale, ed è compromettibile in arbitri, ai sensi dell'art. 806 c.p.c., solo se i contratti collettivi lo prevedano.
Del trattamento retributivo degli insegnanti di scuola secondaria in astensione facoltativa di maternità si è occupata Sez. L, n. 17173/2016, D'Antonio, Rv. 640898, la quale ha ritenuto - in linea con un orientamento già consolidato - che, se il periodo di detta astensione, anche quando il rapporto di lavoro subordinato sia a tempo determinato, è computato nell'anzianità di servizio, nondimeno sconta l'esclusione degli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità. In tal senso, viene meno anche il corrispondente diritto di retribuzione, senza che si possa configurare alcun contrasto con i principi costituzionali e comunitari, posta la ragionevole differenziazione rispetto al corrispondente periodo di astensione obbligatoria.
Sez. L, 23645/2016, Torrice, in corso di massimazione, ha fatto applicazione, con riferimento ai giornalisti assunti come addetti stampa di un ente pubblico, del pacifico insegnamento secondo cui un rapporto di lavoro subordinato sorto con un ente pubblico non economico per i fini istituzionali dello stesso, nullo perché non assistito da un regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra pur sempre sotto la sfera di applicazione dell'art. 2126 c.c., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo per il tempo in cui abbia avuto materiale esecuzione. Nella specie, la Corte ha cassato senza rinvio, riconoscendo il diritto alla retribuzione, la pronuncia d'appello che quel diritto aveva escluso, reputando ostativa la nullità del rapporto di lavoro posto in essere dalla Presidenza della Regione Sicilia, con l'assunzione di un giornalista senza concorso.
Sez. L, n. 25761/2016, Garri, in corso di massimazione, contiene l'incisiva riaffermazione del principio in base al quale, la retribuzione corrisposta per prestazioni continuative e sistematiche di lavoro straordinario deve essere ricompresa nella base di calcolo dell'indennità di anzianità ai sensi degli artt. 2120 e 2121 c.c., nel loro tenore originario, e del trattamento di fine rapporto (T.F.R.), così come disciplinato dall'art. 1 della legge n. 297 del 1982 (stante la non occasionalità del compenso), in difetto di contrarie previsioni della contrattazione collettiva. Invece, lo stesso compenso - non facendo parte della retribuzione normale anche se corrisposto in maniera fissa e continuativa - non rileva ai fini del trattamento retributivo per le festività infrasettimanali, poiché l'art. 5 della legge 27 maggio 1949 n. 260, nel testo di cui alla legge 31 marzo 1954 n. 90, fa riferimento alla "normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio".
In relazione al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato Sez. L, n. 17307/2016, Di Paolantonio, Rv. 641012, nell' affrontare la questione concernente la permanenza del potere disciplinare della Pubblica Amministrazione nei confronti dei dipendenti cessati dal servizio e delle condizioni che devono ricorrere affinché tale potere possa essere utilmente esercitato, rileva che il principio di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione legittima l'intervento disciplinare posteriore ogni qualvolta il comportamento del dipendente abbia leso l'immagine della P.A. che è, quindi, abilitata e, anzi, tenuta ad intervenire a salvaguardia di interessi collettivi di rilevanza costituzionale ( il richiamo è, in ordine a tale necessità, a C.d.s. n. 477 del 2006).
Osserva il Collegio che l'intervento legislativo di cui al d.lgs 27 ottobre 2009, n. 150, - che ha introdotto il comma 9 dell'art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 - è chiaro nell'affermare la permanenza del potere disciplinare in capo alla P.A. non solo nella ipotesi in cui la pregressa sospensione cautelare del dipendente renda necessaria la regolazione degli aspetti economici connessi alla sospensione e, quindi, l'accertamento sulla sussistenza dell'illecito che aveva dato causa alla sospensione medesima, ma anche nei casi di comportamenti di gravità tale da giustificare il licenziamento, in considerazione degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione. Si tratta di conseguenze riconducibili alla necessità di accertare se sussista o meno la responsabilità disciplinare per impedire, in caso di accertamento positivo, che il dipendente dimessosi possa essere riammesso in servizio, possa partecipare a successivi concorsi pubblici, possa fare valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della P.A..
Conclude, quindi, la Corte, che la norma, nella parte in cui prevede che in caso di dimissioni il procedimento disciplinare ha egualmente corso, non distingue l'iniziativa disciplinare già avviata da quella non ancora in essere e legittima l'avvio del procedimento anche nei confronti del dipendente rispetto al quale il rapporto di lavoro sia già cessato.
L'annosa vicenda della reiterazione del ricorso ai contratti a tempo determinato nel settore Poste ha evidenziato nell'anno in corso la questione relativa alle dimissioni relative ad un singolo contratto ed al rapporto con i precedenti. Al riguardo, Sez. L, n. 01534/16, Lorito, Rv. 638345, premette che, in ordine alla efficacia delle dimissioni rassegnate nel contesto di rapporti di lavoro a termine, è stato più volte affermato che la dichiarazione di recesso è idonea ex se a produrre l'effetto della estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi che abbiano determinato le dimissioni e salvo che esse siano viziate come atto di volontà e dalla eventuale esistenza di una giusta causa, atteso che, anche in tal caso, l'effetto risolutorio si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento illegittimo o ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un'azione intesa alla conservazione del rapporto stesso (il richiamo è, fra le altre, a Sez. L, n. 06342/2016, Arienzo, in tema di contratti a termine con la RAI). Ritiene, quindi, il Collegio condivisibili le premesse della Corte territoriale nella parte in cui ha evidenziato che le dimissioni rassegnate ante tempus dal secondo contratto inter partes, costituivano un negozio unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momentodella conoscenza del datore di lavoro, ma errate le conclusioni cui il giudice d'appello era pervenuto con riferimento alla dedotta nullità del termine apposto al primo dei contratti stipulati tra le parti. Deve escludersi, infatti, secondo il Collegio, che la volontà di non proseguire oltre nel rapporto implichi altresì il venir meno per il dipendente del proprio diritto all'accertamento della invalidità del termine apposto al primo rapporto di lavoro stipulato fra le parti, con tutte le conseguenze di carattere economico derivanti. La Corte richiama la propria consolidata giurisprudenza (in particolare, Sez. 3, n. 19156/2005, Trifone, Rv. 584074) secondo cui la previsione contenuta nell'art. 1419, comma 2, c.c., in base al quale la nullità di singole clausole contrattuali non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative; ciò determina, nel caso di specie, che la pronuncia impugnata abbia determinato un vulnus evidente al diritto del lavoratore a conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato di giuridica incertezza inerente alla dedotta invalidità del termine apposto.
Si è prospettata, poi, la questione inerente l'annullamento delle dimissioni del lavoratore per il caso di incapacità naturale dello stesso. Al riguardo, Sez. L, n. 01070/2016, Balestrieri, Rv. 638516, premette l'annullabilità dell'atto delle dimissioni in base alla disposizione generale di cui al comma 1 dell'art. 428 c.c., nell'ipotesi in cui il dichiarante provi di trovarsi, nel momento in cui l'atto è stato compiuto, in uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive, anche qualora tale privazione sia soltanto parziale, ma purchè sia tale da impedire la formazione di una volontà cosciente. Il Collegio osserva, tuttavia, che, pur dovendosi valutare l'incapacità naturale al compimento dell'atto, non risulta indifferente il quadro psichico generale, specie ove si tratti, come nella specie, di grave patologia psichiatrica (schizofrenia di tipo paranoide). La Corte richiama, allora i precedenti di legittimità in cui si è ritenuta insufficiente la motivazione della sentenza di merito nella quale il giudice, in caso di dimissioni rassegnate in stato di incapacità naturale, non aveva valutato l'incidenza causale tra l'alterazione mentale del lavoratore e le ragioni soggettive che lo avevano spinto al recesso (Sez. L, n. 00515/2004, Amoroso, Rv. 569441).
Proprio per questa ragione la Corte ritiene di cassare con rinvio l'impugnata sentenza, che aveva omesso di esaminare compiutamente il contenuto del certificato medico di struttura pubblica di soli due giorni successivo alle rassegnate dimissioni - attestante che in quella data il lavoratore si trovava in cura presso il Centro di salute mentale territoriale in quanto affetto da "schizofrenia cronica di tipo paranoide"- e di altro certificato attestante la grave patologia psichiatrica.
Una delle questioni più significative riguardanti l'estinzione del rapporto per mutuo consenso, riguarda l'espressione di volontà in senso estintivo che possa arguirsi per facta concludentia. In merito, Sez. L, 06900/2016, Lorito, Rv. 639247, premette che, nel giudizio di impugnazione del licenziamento, qualora non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del lavoratore, un determinato comportamento da lui tenuto può essere tale da esternare esplicitamente, ma anche da lasciar presumere, in base al principio dell'affidamento, una sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro, con preclusione di ogni censura in sede di legittimità del relativo accertamento ove congruamente motivato. Il Collegio sottolinea, poi, la natura dell'eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, quale fatto estintivo di diritti che può essere accertato anche d'ufficio.
Rileva, a questo punto, l'interpretazione del comportamento del titolare della situazione creditoria o potestativa, da valutarsi alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c. c., qualora lo stesso per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell'abbandono della relativa pretesa, in quanto idoneo come tale a determinare la perdita della medesima situazione (il richiamo è a Sez. L, n. 09924/2009, Roselli, Rv. 607985). Ne consegue la preclusione di un'azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di diritto stricto sensu, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l'abbandono.
È sulla base di questo orientamento che la Corte reputa corretta la decisione impugnata, che aveva ritenuto rilevante l'inerzia del lavoratore il quale, in seguito ad intervento chirurgico, aveva lasciato trascorrere un mese prima di rientrare al lavoro, senza inviare alla parte datoriale alcuna certificazione sanitaria concernente le proprie condizioni fisiche e senza comunicare oralmente alcuna notizia al riguardo, in modo da determinare nel datore di lavoro un ragionevole affidamento in ordine alla propria volontà di non proseguire nel rapporto lavorativo.
Sempre con riferimento all'inerzia del lavoratore, ma con particolare riguardo all'ipotesi di reiterazione di contratti a tempo determinato, Sez. L, n. 02732/2016, Mammone, Rv. 638934, premette che la giurisprudenza della Corte di cassazione ritiene che è configurabile la risoluzione del rapporto per mutuo consenso ove sia accertata, per il periodo di tempo trascorso in seguito alla conclusione dell'ultimo contratto, ovvero per le modalità di tale conclusione, per il comportamento tenuto dalla parti ed anche per altre eventuali circostanze significative, una chiara e certa comune volontà di porre fine ad ogni rapporto lavorativo. Aggiunge, poi, che la valutazione del significato e della portata di tali elementi, compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, salva la sussistenza di vizi logici o errori di diritto. Passando ad esaminare il caso sottopostogli, il Collegio osserva come il giudice di merito si sia attenuto ai principi considerati, valutando, ai fini dell'individuazione del mutuo consenso, le circostanze significative emergenti dagli atti. Sono quindi venuti in rilievo in primo luogo la rilevante durata del lasso temporale intercorso tra la cessazione dell'ultimio contratto e la contestazione in sede stragiudiziale della legittimità del termine, pari a circa cinque anni, ma anche il contegno della lavoratrice successivamente al periodo relativo al rapporto di lavoro a tempo determinato, dal momento che la ricorrente, prima dell'inizio della causa, non aveva proposto alcuna contestazione o richiesta e, anzi, era stata assunta con contratto a tempo indeterminato, in essere al momento dela decisione, alle dipendenze di altro datore di lavoro. Congruamente, quindi, secondo il Collegio, la Corte di appello era giunta alla conclusione che nel caso di specie il decorso temporale si era associato ad un insieme di comportamenti e situazioni atti ad esprimere per facta concludentia il disinteresse della lavoratrice rispetto alla ripresa del rapporto di lavoro con la società datrice e la sua intenzione, anzi, di porre fine al rapporto di lavoro.
Collocato nell'ambito dei tre poteri riconosciuti al datore di lavoro - accanto a quello direttivo ed a quello disciplinare - il potere di controllo del datore di lavoro, da cui consegue quello di contestare ai dipendenti tempestivamente l'infrazione riscontrata in modo da evitarne un aggravamento, rappresenta, secondo Sez. L, n. 10069/2016, Manna A., Rv. 639647, non un obbligo stricto sensu per la parte datoriale, ma esclusivamente, alla luce del carattere fiduciario rivestito dal rapporto di lavoro subordinato, un potere.
Un obbligo in tal senso, infatti, secondo il Collegio, non è previsto dalla legge né può reputasi desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Nella specie, relativa ad un caso di frequente richiesta da parte del lavoratore di rimborsi indebiti, la Corte ha ritenuto integrare una mera congettura - non consentita a fini motivazionali in quanto non fondata sull'id quod plerumque accidit e, pertanto, insuscettibile di verifica empirica - l'ipotesi, sostenuta dalla corte territoriale, che la società datrice avesse atteso che il contegno illecito del proprio dipendente superasse la soglia della tollerabilità per poterlo licenziare. Con riguardo alla tempestività della contestazione, la Sezione Lavoro, andando di contrario avviso rispetto al giudice d'appello, afferma che quest'ultima non deve essere valutata alla luce di un preteso obbligo in capo al datore di lavoro di controllare continuamente e tempestivamente l'opeato dei propri dipendenti, trattandosi di obbligo non connaturato alla posizione datoriale. L'esclusione di tale corollario discende anche dall'insussistenza di una corrispondente posizione attiva di vantaggio in capo all'altra parte, non potendo in alcun modo configurarsi un diritto del lavoratore ad essere controllato ed altresì tempestivamente informato del fatto che le proprie infrazioni siano state scoperte dal datore di lavoro. In conclusione, insito nella posizione del datore di lavoro è il suo potere di controllo, non l'obbligo. Quest'ultimo non può essere ricostruito nemmeno come onere da assolvere per il conseguente esercizio del potere disciplinare di cui all'art. 2126 c.c., che si ponga in sostituzione o aggiunta all'onere della tempestiva contestazione non appena divenga nota una infrazione commessa dal dipendente; esso, infatti, ha lo scopo di impedire un esercizio del potere disciplinare pretestuoso od anche strumentale rispetto alla lesione del diritto di difesa del lavoratore, l'altro sarebbe privo di qualsivoglia fondamento ed anche contrario, come la Corte ha premesso, alla stessa natura fiduciaria del rapporto di lavoro.
Concerne i limiti soggettivi ed oggettivi che il potere di controllo incontra, in quanto non assoluto ma circoscritto dalla necessità che esso sia esercitato in modo tale da non ledere diritti fondamentali del lavoratore, come la dignità e la riservatezza, Sez. L, n. 09904/2016, Patti, Rv. 639733. Al centro della pronunzia, la compatibilità del rilevamento delle presenze tramite badge con il divieto di controllo a distanza dei lavoratori sancito dall'art. 4 della l. n. 300 del 1970, in assenza di accordo scritto - nell'inidoneità di uno a forma tacita - con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna ovvero di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.
Secondo la Corte, in ipotesi di assenza di accordo con le rappresentanze sindacali, ovvero di apposita autorizzazione ispettiva, la rilevazione dei dati concernenti l'entrata e l'uscita dall'azienda per mezzo di una apparecchiatura predisposta dal datore di lavoro, pur essendo prevista a vantaggio dei dipendenti, assume anche una funzione di controllo del rispetto dei doveri di di diligenza in relazione all'orario di lavoro e della correttezza dell'esecuzione della prestazione lavorativa, risolvendosi in un controllo sull'orario di lavoro ed in una verifica concernente il quantum della prestazione rientrante nell'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 4 st.lav.. La Sezione Lavoro sottolinea come l'esigenza di evitare condotte illcite da parte dei dipendenti non possa assumere una portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e della riservatezza del lavoratore, aspetto, questo, che rileva, però, quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, qualora essi attengano all'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso; ne consegue che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere accertamenti volti a verificare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale.
Nel caso di specie, la corte territoriale, secondo il Collegio, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto enunciato, avendo ritenuto, con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente e logicamente argomentato, che il badge in questione configurasse uno strumento di controllo a distanza e non un mero rilevatore di presenza, tenuto conto anche del fatto che il sistema in esame consentiva di comparare immediatamente i dati di tutti i dipendenti, realizzando così un controllo continuo, permanente e globale.
In ambito diverso dalla tematica dei controlli a distanza di cui all'art. 4 della l. n. 300 del 1970 e anche del controllo di dati desunti dal computer aziendale, si pone la questione inerente al controllo da parte del datore di lavoro sull'utilizzo dello strumento elettronico presente sul luogo di lavoro ed in uso al lavoratore per l'esercizio della prestazione, aspetto che involge il procedimento disciplinare.
Nella decisione Sez. L, n. 22313/16, Ghinoy, Rv. 641427, in cui la contestazione aveva ad oggetto la cancellazione da parte del lavoratore del disco del computer onde evitarne il controllo ispettivo, la Corte muove dalla legittimità dell'accertameto effettuato sugli strumenti lavorativi, fra cui i personal computer, al fine di verificarne il corretto utilizzo (artt. 2086, 2087 e 2104 c.c.). La pronuncia evidenzia, tuttavia, come nell'esercizio di tale prerogativa occorra rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori ed inoltre, con particolare riguardo alla protezione dei dati personali di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori) di pertinenza e non eccedenza di cui all'art. 11, comma 1, del codice, in quanto tali controlli possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti, o di dati di carattere sensibile. Nel caso di specie, secondo la Corte, il giudice d'appello avrebbe dovuto procedere ad un controllo fattuale circa le modalità concrete con cui l'ispezione era stata eseguita, anche allo scopo di accertarne la conformità ad eventuali policies aziendali. L'utilizzazione di modalità invasive era stata invece ritenuta ravvisabile tout court dalla Corte territoriale che aveva confermato che gli ispettori avevano preteso di aprire pubblicamente i files; ciò il Collegio aveva fatto senza richiamare le fonti del proprio convincimento, nonostante lo specifico motivo d'appello sul punto.
Con riferimento alla violazione dell'art. 4 della l. n. 300 del 1970, Sez. L, n. 19922/16, Bronzini, si è occupata del controllo difensivo attraverso il sistema satellitare GPS sulle vetture in uso ai dipendenti: secondo la Corte, diverse concomitanti ragioni, nel caso di specie, avrebbero dovuto condurre ad escludere che si trattasse di legittimi controlli difensivi.
In primo luogo, la circostanza che il sistema di rilevamento era stato predisposto ex ante ed in via generale ben prima che si potessero avere sospetti su eventuali violazioni, trattandosi di un meccanismo generalizzato di controllo che, unitamente al sistema petrol manager, era in uso presso l'azienda indipendentemente da sospetti o reclami dei clienti, quindi il fatto che i sindacati ne avevano autorizzato l'uso anche nell'interesse dell'incolumità dei lavoratori, ma avevano escluso che esso potesse essere utilizzato per controllare la loro attività lavorativa. Il collegio ritiene, d'altro canto, di dare continuità all'orientamento secondo cui ai c.d. controlli difensivi trovano applicazione le garanzie di cui all'art. 4 st.lav., talché, se, per esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi il datore di lavoro può installare impianti o apparecchi di controllo che rilevino anche dati relativi all'attività lavorativa dei dipendenti, nondimeno, tali dati, non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale dei lavoratori medesimi (il richiamo è a Sez. L, 16622/2012, Tricomi I., Rv.624112). Infine, secondo la Corte, l'accertamento permesso dal sistema GPS sulle autovetture della società consentiva un controllo a distanza dell'ordinaria prestazione lavorativa, non la tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, non potendosi accedere alla tesi secondo cui fossero a rischio il patrimonio e l'immagine dell'azienda in quanto eventuali pregiudizi agli stessi sarebbero, in realtà, derivati solo dalla non corretta esecuzione degli obblighi contrattuali e non invece da una condotta specifica come appropriazione indebita o lesione della riservatezza dei dati societari. Diversamente opinando, secondo la Corte, si finirebbe per estendere senza ogni ragionevole limite il concetto di controlli "difensivi", in quanto qualsiasi violazione degli obblighi contrattuali può generare danni alla società, ma si tratta di un "rischio naturale" correlato all'attività imprenditoriale che la legge non consente di limitare attraverso strumenti invasivi della dignità e, comunque, senza autorizzazione sindacale.
Con riguardo all'esercizio del diritto di difesa in sede disciplinare, Sez. L, n. 19697/2016, Balestrieri, Rv 641364, ha escluso che esso possa o debba comportare l'ammissione dei fatti contestati, in quanto da tale corollario discenderebbe la violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Tale mancato esercizio in sede extraprocessuale, secondo il Collegio, sebbene possa essere valutato dal datore di lavoro, non può impedire il pieno diritto di azione in sede processuale, né la Corte ha mai affermato che esso possa essere reputato equivalente all'ammissione dei fatti contestati. Si evidenzia, al riguardo, che soltanto la non contestazione in sede processuale può, eventualmente, produrre tali effetti, dal momento che in materia di lavoro, in sede giudiziale, la parte cuI sia stato mosso un addebito riferito a fatti circostanziati non può limitarsi ad una contestazione generica, ma deve rispondere a sua volta in maniera specifica, contrapponendo specifici elementi diversi tali da escludere quelli posti a fondamento dell'addebito, ai sensi dell'art. 416 c.p.c.
In tema di procedimento disciplinare nei confronti di pubblici dipendenti, Sez. L, n. 17373/2016, Di Paolantonio, Rv. 641011, ha affermato che l'art. 25, comma 7, del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, che prevede la sospensione fino a sentenza definitiva quando l'amministrazione venga a conoscenza dell'esistenza di un procedimento penale a carico del dipendente per i medesimi fatti, vada interpretato in modo estensivo. Secondo il Collegio, infatti, non si può ritenere che la sospensione possa essere disposta solo nei casi di rinvio a giudizio del dipendente e non anche per l'ipotesi di mera pendenza delle indagini preliminari, ricomprendendo il procedimento penale tutti gli atti successivi alla iscrizione della notizia di reato e, quindi, anche l'attività condotta dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, che si conclude con l'esercizio dell'azione penale o, nei casi di ritenuta infondatezza della notitia criminis, con la richiesta di archiviazione. Osserva la Corte che senza alcun dubbio l'art. 25 del c.c.n.l. ha inteso subordinare la sospensione alla pendenza del "procedimento" e non del "processo" in senso tecnico, né può pervenirsi ad un diverso corollario valorizzando il richiamo, contenuto sempre nell'art. 25, alla "sentenza definitiva". Il termine, ad avviso della Sezione Lavoro, è stato utilizzato impropriamente dalle parti collettive per involgere tutti i provvedimenti che definiscono il procedimento penale, atteso che questo, anche in caso di esercizio dell'azione, non necessariamente conduce alla pronuncia di una sentenza. Fra le varie forme di definizione vi è anche quella prevista e disciplinata dagli artt. 459 e ss. c.p.p., ossia il "procedimento per decreto" che, ove il decreto stesso non venga opposto, comporta la condanna dell'imputato anche in assenza di "sentenza".
Il rapporto fra il principio di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva e l'esercizio del recesso per giusta causa del datore di lavoro in pendenza di procedimento penale è affrontato da Sez. L, n. 18513/2016, Boghetich, Rv. 641187. La Corte premette il consolidato principio secondo cui la nozione di giusta causa di licenziamento ha la sua fonte direttamente nella legge e, quindi, l'elencazione contenuta nei contratti collettivi ha valenza soltanto esemplificativa e non già tassativa. D'altro canto, la valutazione della gravità del comportamento del dipendente ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa va condotta tenendo conto della peculiare incidenza del fatto sul rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva, nonché delle finalità delle regole di disciplina postulate dalla organizzazione, talché lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o no gli estremi di una giusta causa di licenziamento riveste carattere autonomo rispetto al giudizio che dello stesso fatto sia necessario compiere a fini penali (il richiamo è, in particolare, a Sez. L, n. 12163/1997, Foglia, Rv. 510598).
È alla luce di tali principi generali che, secondo la Corte, il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall'art. 27 Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato; ovviamente occorre che i fatti ascritti siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna. Ciò non esclude, tuttavia, l'obbligo del giudice, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore, con l'imputazione di gravi reati in grado di incidere sul rapporto fiduciario - nonostante non siano stati commessi nello svolgimento del rapporto - di accertare l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, in quanto atti ad evidenziare l'adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, non potendo ritenersi integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e della incidenza di questo sul rapporto fiduciario e sull'immagine della azienda (il richiamo è, fra le altre, a Sez. L., n. 29825/2008, Nobile, Rv. 606162). Nel caso di specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione di appello che aveva omesso la disamina della sussistenza dell'addebito, della gravità della condotta tenuta e dell'intensità dell'elemento soggettivo, pervenendo al convincimento circa la sussistenza di una irreversibile lesione del vincolo di fiducia, sulla base della sola valutazione del dato processuale del rinvio a giudizio in sede penale, con una laconicità della motivazione che contrasta, secondo il Collegio, anche con i doveri motivazionali discendenti dall'art. 6 CEDU e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Sulla sempre viva questione inerente l'omessa o comunque ritardata affissione del codice disciplinare, Sez. L, n. 21032/2016, Blasutto, Rv 641410, osserva che con riguardo non solo alle sanzioni espulsive, ma anche alle sanzioni disciplinari conservative, deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, in quanto contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, potendo il lavoratore rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta. Nella specie, relativa all'attestazione, nei rapporti con i terzi, di una qualità, quella di ufficiale di polizia giudiziaria, in realtà revocata, ed alla utilizzazione di un timbro non autorizzato, si rileva, anzi, che la "percepibilità" dalla coscienza sociale di un fatto quale "minimo etico" deve ritenersi applicabile non solo alle sanzioni disciplinari espulsive, per le quali sussiste il potere di recesso del datore di lavoro, in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, ma anche per le sanzioni cosiddette conservative. Deve quindi concludersi che i comportamenti del lavoratore che costituiscano violazioni dei doveri fondamentali siano sanzionabili a prescindere dalla loro inclusione o meno all'interno del codice disciplinare, ed anche in difetto di affissione dello stesso. Tali principi, che la Corte ha affermato in fattispecie relative a rapporti di lavoro privato, devono ritenersi, ad avviso del Collegio, sicuramente estensibili ai rapporti di pubblico impiego, nel cui ambito peraltro non può prescindersi, ai fini dell'individuazione del nucleo di doveri costituenti tale "minimo etico", dal Codice di comportamento di cui all'art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001 costituiscono specificazioni esemplificative degli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa del dipendente pubblico. Osserva, anzi il Collegio come la disposizione anzidetta sia stata collocata dal legislatore prima dell'art. 55) che ha demandato alla contrattazione collettiva la definizione delle infrazioni e delle relative sanzioni, proprio in modo da evidenziare il valore preminente attribuito all'individuazione dei doveri fondamentali cui deve conformarsi la condotta del pubblico dipendente. L'art. 1 del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con d.m. 28.11.2000 precisa, poi, che il dipendente pubblico si impegna ad osservare i principi e i contenuti del codice di comportamento sin dall'atto dell'assunzione in servizio.
Ancora in tema di pubblico impiego contrattualizzato, con riferimento alla data da cui decorre il termine per la contestazione disciplinare, Sez. L, n. 18517/2016, Torrice, Rv. 641135, premette che le disposizioni di legge e di contratto collettivo fanno decorrere il termine per la contestazione disciplinare o dal momento della conoscenza dei fatti da parte del responsabile della struttura, o capo struttura, per le sanzioni meno gravi, ovvero dal momento in cui l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, su segnalazione del responsabile del responsabile della struttura, ha avuto conoscenza del fatto. Il Collegio ritiene, in linea di continuità con l'orientamento giurisprudenziale della Corte (il richiamo è a Sez. L, n. 12108/2016, Blasutto, Rv. 640374) che la "segnalazione", che il capo della struttura invia all'Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, non costituisce ancora avvio del procedimento. Ciò che conta, secondo il Collegio, è la conoscenza effettiva delle condotte disciplinarmente rilevanti da parte degli uffici competenti e non da parte di qualsiasi organo della pubblica amministrazione datrice di lavoro.
La Corte conclude, poi, affermando che nel caso che la occupa, ai sensi dell'art. 24 del c.c.n.l. del 22 gennaio 2004 Enti Locali, la data di prima acquisizione della notizia dell'infrazione, dalla quale decorre il termine di venti giorni entro il quale deve essere effettuata la contestazione, coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all'ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia stessa è giunta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora, essendo irrilevante la conoscenza non formalmente acquisita dal responsabile della struttura ovvero dall'ufficio per i procedimenti disciplinari.
Con riguardo all'impiego pubblico contrattualizzato, poi, Sez. L, n. 18326/16, Boghetich, Rv. 641265, si è occupata dell'operatività della novella del 2009 e della sua incidenza sull'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, con particolare riguardo all'introduzione dell'art. 55-quater nel quale, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, sono state introdotte e tipizzate alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento. Tra queste è stata prevista l'ipotesi dell'assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiori a tre nell'arco di un biennio.
Secondo il Collegio, nella tipizzazione di fattispecie di illeciti disciplinari per i quali è previsto il licenziamento, è necessario verificare se, accertata la commissione di uno di essi, il licenziamento consegua automaticamente ovvero se l'amministrazione conservi il potere - dovere di valutare l'impatto dell'illecito alla luce delle circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare; ne conseguirebbe, infatti, che si possa procedere alla irrogazione della sanzione più grave soltanto qualora il fatto presenti i caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento. Secondo il Collegio, sul piano strettamente letterale, la nuova normativa evidenzia indicazioni in senso contrario; da un lato, infatti, si prevede che si applichi "comunque" il licenziamento ove ricorrano le fattispecie tipizzate ma, dall'altra parte, viene richiamato il generale principio di proporzionalità enunciato dall'art. 2106 c.c. (art. 55, comma 2, primo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001) e viene mantenuta ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, con ciò implicitamente richiamandosi il consolidato orientamento giurisprudenziale relativo alle c.d. norme elastiche ed alla verifica di legittimità demandata al giudice.
Secondo il Collegio, non apparendo dirimente il criterio letterale, come già evidenziato in altra occasione dalla Corte (il richiamo è a Sez. L, n. 01351/2016, Balestrieri, non massimata), l'esame della giurisprudenza costituzionale impone di privilegiare una interpretazione "morbida" che consenta di ritenere che, anche in presenza di uno degli illeciti elencati dalla disposizione, l'amministrazione sia tenuta comunque a svolgere il procedimento disciplinare all'esito del quale, valutate tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, la ricorrenza di circostanze influenti sull'intensità del dolo o la gravità della colpa in senso attenuante della responsabilità del dipendente, può decidere di irrogare anche una sanzione conservativa. Va, per conseguenza, esclusa la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, soprattutto qualora esse consistano nella massima sanzione, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale da sempre contraria agli automatismi espulsivi (da ultimo, Corte Cost. sentenza n. 170 del 2015). Secondo la Corte, quindi, la disposizione normativa "cristallizza", dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione, prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, e, tuttavia, consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell'elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi atti a scriminare la condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa.
Con riguardo all'impugnativa del lodo arbitrale in materia di sanzioni disciplinari, Sez. L, n. 20968/2016, Tria, Rv. 641413, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità (in particolare, Sez. U, n. 25253/2009, Amoroso, Rv. 610553) premette che essa può riguardare soltanto vizi idonei ad inficiare la determinazione degli arbitri per alterata percezione o falsa rappresentazione dei fatti, cui deve aggiungersi, tuttavia, quella per inosservanza delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accordi collettivi, che trova riscontro anche nell'art. 12 del c.c.n.q. del 23 gennaio 2001, secondo cui gli arbitri nel giudicare sono tenuti all'osservanza delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo. Con riferimento al caso di specie, il Collegio rileva che erano stati prospettati alcuni profili di illegittimità formale delle sanzioni, incidenti sull'efficacia e validità non solo delle sanzioni ma dei lodi stessi, comportandone la nullità per lesione del diritto di difesa, alla cui tutela è volto anche l'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, e che vertendosi in ambito di diritti costituzionalmente garantiti, non può non essere ricompreso tra le "norme inderogabili di legge" anche tale fondamentale diritto.
Relativamente ai rapporti fra irrogazione di sanzioni conservative e licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 17912/2016, Berrino, Rv. 641089 si è occupata del licenziamento intimato ad un direttore di supermercato, a causa di recidiva oltre la terza volta per mancanze punite con la sospensione ai sensi dell'art. 225 del c.c.n.l. delle Aziende del terziario, distribuzione e servizi. La Corte territoriale aveva ritenuto che, in mancanza di contestazione di una nuova infrazione, il datore di lavoro non avrebbe potuto riesaminare le precedenti mancanze, per le quali aveva già consumato il proprio potere disciplinare dopo aver irrogato le sanzioni della sospensione dalla retribuzione e dal servizio, e non avrebbe potuto, pertanto, applicare, per quelle stesse infrazioni, sia pure unitariamente considerate ai fini della recidiva, una più grave sanzione di carattere espulsivo. Secondo il Collegio, la Corte d'appello era giunta al convincimento, adeguatamente motivato ed esente da rilievi di legittimità, che il licenziamento è irrogabile a partire dalla quarta mancanza infrannuale per la quale sia prevista la sospensione, nel qual caso la parte datoriale dovrà provvedere a contestare la nuova specifica mancanza precisando che la stessa realizza la recidiva oltre la terza volta nell'anno solare rispetto a tre mancanze precedenti, e solo allora potrà intimare il licenziamento, sempre che non decida di irrogare una sanzione.
In realtà secondo la Corte, il giudice di secondo grado aveva accertato che la società datrice, pur potendo irrogare il licenziamento per "recidiva, oltre la terza volta nell'anno solare, in qualunque delle mancanze che prevedono la sospensione in occasione della quarta mancanza, non lo aveva fatto, scegliendo di irrogare una sanzione conservativa: in tal modo, tuttavia, aveva consumato definitivamente il proprio potere disciplinare. La Corte conferma, quindi, la propria giurisprudenza (il richiamo è, in particolare, a Sez. L, n. 07391/1991, Rv. 472936) in cui si afferma che il datore di lavoro, dopo aver esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, quel potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva.
Nel corrente anno sono intervenute rilevanti pronunce - di cui si darà per lo più conto al § 10.10 - concernenti la disciplina introdotta dalla cd. legge "Fornero", con particolare riguardo all'apparato sanzionatorio correlato alle singole tipologie di vizi afferenti il licenziamento. Non si registrano ancora sentenze della Suprema Corte riguardanti la normativa - riferita ai "nuovi assunti" - di cui al d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183».
Con una importante pronuncia incidente su aspetti "di sistema" inerenti all'applicabilità della disciplina del licenziamento a fattispecie peculiari, Sez. L, n. 17969/2016, Torrice, Rv. 641175, ha sottolineato che nell'ipotesi di costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore, ai sensi dell'art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è onere del lavoratore impugnare il licenziamento intimato dal somministratore nei confronti dell'utilizzatore medesimo, posto che, in virtù del subentro disposto ex lege, gli atti di gestione compiuti dal somministratore producono nei confronti dell'utilizzatore tutti gli effetti negoziali, anche modificativi del rapporto di lavoro, ivi incluso il licenziamento.
Molte le pronunzie meritevoli di menzione.
Con riguardo al profilo della decorrenza del termine per la proposizione dell'impugnativa stragiudiziale, Sez. L, n. 06256/2016, Berrino, Rv. 639548, ha evidenziato che qualora la comunicazione del provvedimento di recesso, spedita al domicilio del dipendente, non sia consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, essa si presume conosciuta dal momento della consegna del relativo avviso di giacenza presso l'ufficio postale, in virtù della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., sicché da quella data decorre il termine per impugnare, spettando al destinatario l'onere di dimostrare di essersi trovato senza colpa nell'impossibilità di acquisire la conoscenza dell'atto.
Di estremo rilievo il principio stabilito - con riguardo al "secondo" termine di decadenza di duecentosettanta giorni previsto dall'art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010 - da Sez. L, n. 13598/2016, Ghinoy, Rv. 640475: il termine in questione si applica anche ai licenziamenti intimati prima dell'entrata in vigore della citata l. n. 183 del 2010, che non ha posto delimitazioni temporali - ad eccezione di quanto disposto al comma 1-bis dell'art. 32 - per l'applicazione del nuovo regime di impugnativa del licenziamento, e non ha, inoltre, portata retroattiva, in quanto disciplina status, situazioni e rapporti che, pur derivando da un pregresso fatto generatore, ne sono ontologicamente distinti e, quindi, suscettibili di nuova regolamentazione mediante esercizio di poteri e facoltà non consumati nella precedente disciplina; né l'introduzione del nuovo termine di decadenza con efficacia ex nunc determina violazione dell'art. 24 Cost., dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE e degli artt. 6 e 13 CEDU, perché quantitativamente congruo per la conoscibilità della nuova disciplina, attesa anche la proroga disposta "in sede di prima applicazione" dal citato comma 1-bis.
A tale ultimo riguardo Sez. L, n. 24258/2016, Balestrieri, Rv. 641712, ha precisato che con riferimento ai licenziamenti individuali intimati ed impugnati prima del 24 novembre 2010 - data di entrata in vigore della l. n. 183 del 2010 - é applicabile il termine di decadenza sostanziale connesso al deposito del ricorso giudiziario, ma solo con decorrenza dal 1° gennaio 2011, risultando tale disciplina, come integrata dal d.l. n. 225 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 10 del 2011, conforme al principio di eguaglianza e di ragionevolezza, costituzionalmente tutelati.
Con riguardo alla delicata questione dell'individuazione degli atti idonei a conservare l'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, Sez. L, n. 14390/2016, Napoletano, Rv. 640467, ha chiarito che l'art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, nel testo modificato dall'art. 1, comma 38, della l. n. 92 del 2012, va interpretato, nel caso d'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 st.lav. e successive modificazioni, nel senso che è necessario che, nel termine previsto, venga proposto ricorso secondo il rito di cui all'art. 1, commi 48 e ss., della l. n. 92 del 2012, restando inidoneo allo scopo il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c.
Va peraltro segnalata - con riferimento a fattispecie concernente una delibera di esclusione di un socio lavoratore da una cooperativa - Sez. L, n. 10840/2016, Spena, Rv. 639850, secondo cui il rimedio cautelare, alla luce della nuova struttura del procedimento ex art. 700 c.p.c., e degli altri provvedimenti cautelari anticipatori, delineata nell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c., aggiunto dal d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. nella l. n. 80 del 2005, che ha introdotto una previsione di attenuata strumentalità rispetto al giudizio di merito, la cui instaurazione è facoltativa, ha assunto, ad ogni effetto, le caratteristiche di un'autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via definitiva pur senza attitudine al giudicato, sicché la proposizione del ricorso è idonea ad impedire il maturare di termini di decadenza di cui all'art. 2553 c.c.
Con una significativa sentenza - Sez. L, n. 05061/2016, Riverso, Rv. 639224 - è stata precisata, in relazione ad una fattispecie peculiare, la portata della distribuzione dell'onere della prova concernente l'avvenuto atto espulsivo, nel senso che qualora l'estinzione del rapporto per licenziamento sia circostanza incontroversa tra le parti, rimanendo dubbie le modalità dello stesso, si verifica un'inversione dell'onere probatorio, sicché è il datore di lavoro a dover dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti formali e di efficacia del recesso, che afferma di avere ritualmente intimato.
Sez. L, n. 17300/2016, Amendola F., Rv. 641015, ha rimarcato che la pronuncia giudiziale che, a fronte di una richiesta di tutela reale ai sensi dell'art. 18 st.lav. per nullità del licenziamento e, in via subordinata, di tutela obbligatoria di cui all'art. 8 della l. n. 604 del 1966 per carenza di giusta causa o giustificato motivo, esclusa la nullità del recesso datoriale, ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, incorre in violazione dell'art. 112 c.p.c., in quanto riconosce una tutela più ampia di quella richiesta dalla parte con il ricorso introduttivo.
Sez. L, n. 12898/2016, Riverso, Rv. 640459, ha affermato che qualora il lavoratore, impugnato il licenziamento, agisca in giudizio deducendo il motivo discriminatorio o ritorsivo, l'eventuale difetto di giusta causa, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d'ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda.
Sul tema della distribuzione dell'onere della prova, Sez. L, n. 17108/2016, Manna A., Rv. 640900, ha affermato che l'art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone inderogabilmente a carico del datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, sicché il giudice non può avvalersi del criterio empirico della vicinanza alla fonte di prova, il cui uso è consentito solo quando sia necessario dirimere un'eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi, oppure quando, assolto l'onere probatorio dalla parte che ne sia onerata, sia l'altra a dover dimostrare, per prossimità alla suddetta fonte, fatti idonei ad inficiare la portata di quelli dimostrati dalla controparte. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione con cui la corte di merito aveva rigettato l'impugnativa di un licenziamento, intimato contestando al lavoratore la natura privata di alcune telefonate, perché questi non ne aveva provato il carattere lavorativo).
Con riguardo al licenziamento intimato al dipendente assente dal servizio perché non presentatosi nella nuova sede di destinazione, Sez. L, n. 14375/2016, Spena, Rv. 640567, ha precisato che spetta al datore di lavoro l'onere di provare la legittimità dell'ordine di trasferimento, quale fondamento della giusta causa, mediante l'allegazione delle sottese esigenze organizzative che lo giustificano ai sensi dell'art. 2103 c.c., mentre il lavoratore può limitarsi ad impugnare il licenziamento, sostenendo l'illegittimità dell'ordine inadempiuto, senza alcun onere iniziale di contestazione di fatti la cui prova ed allegazione ricade sul datore di lavoro.
Molte le sentenze relative alla individuazione delle ipotesi costituenti giusta causa di licenziamento.
Sez. L, n. 13512/2016, Negri Della Torre, Rv. 640472, ha chiarito che non è necessario che l'elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto.
Sez. L, n. 13149/2016, Leo, Rv. 640521, ha affermato che costituisce giusta causa di licenziamento di un impiegato delle Poste la falsa autenticazione delle sottoscrizioni di clienti e l'erogazione di bonifici relativi a prestiti a soggetti diversi dagli aventi diritto, in acritica obbedienza agli ordini truffaldini del responsabile gerarchico, dovendosi escludere che tale condotta, incoerente con gli standards conformi ai valori dell'ordinamento desumibili dalla coscienza sociale, possa essere giustificata dalla situazione ambientale - pur caratterizzata da un ufficio di dimensioni assai ridotte e da un responsabile di ben più elevato rango professionale - perché l'art. 2104 c.c., nel prescrivere l'impiego di una diligenza adeguata alla natura della prestazione dovuta, impone al lavoratore di avere capacità di discernimento nel valutare gli ordini ricevuti.
Sez. L, n. 06901/2016, Manna A., Rv. 639251, ha precisato che costituisce giusta causa di recesso la condotta del dipendente di un istituto di credito che abbia effettuato abusive operazioni di addebito/accredito sui depositi di ignari correntisti, indipendentemente dal conseguimento di un utile personale e dalla sussistenza di un pregiudizio economico effettivo, trattandosi di comportamento, astrattamente sanzionabile anche in sede penale, idoneo a compromettere irrimediabilmente l'elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, posto in essere in violazione delle procedure interne, dei diritti dei correntisti e dello specifico interesse datoriale al mantenimento di una affidabile e trasparente organizzazione del lavoro.
Con riferimento alla sempre attuale problematica della idoneità, o meno, di determinate condotte ad integrare violazione dell'obbligo di diligenza o fedeltà, Sez. L, n. 01978/2016, Negri Della Torre, Rv. 638943, ha puntualizzato che «le condotte omissive non rientranti tra quelle contrattualmente dovute, o che, comunque, non risultino ad esse complementari o accessorie, ai fini di una più utile esecuzione della prestazione lavorativa, non integrano la violazione dell'obbligo di diligenza; né tali condotte costituiscono violazione dell'obbligo di fedeltà, inteso come generale dovere di leale cooperazione nei confronti del datore, qualora risultino connesse a superiori livelli di controllo e responsabilità, in un'impresa caratterizzata da un'accentuata complessità e articolazione organizzativa. (Nella specie, la S.C. ha escluso la giusta causa di licenziamento del dipendente, addetto ai magazzini, per non essersi astenuto dal porre in essere, durante l'orario di lavoro e nei locali aziendali, "avances, battute e toccamenti reciproci", nonché per non avere informato il datore circa la reiterata presenza, all'interno dei suddetti locali e in orario di lavoro, di una persona in evidente stato di bisogno e con gravi problemi psichici, che si intratteneva, con siffatte modalità, con altri dipendenti)».
Sullo stesso tema Sez. L, n. 24259/2016, Manna A., Rv. 641708, ha puntualizzato che «solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente, diversamente non configurandosi neppure obbligo alcuno di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, la sua ipotetica violazione sanzionabile ai sensi dell'art. 2106 c.c; condotte costituenti reato, sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, ed anche a prescindere da apposita previsione contrattuale, possono, tuttavia, integrare giusta causa di licenziamento, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino - attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto - incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza».
Quanto alla problematica concernente la misura della vincolatività delle previsioni dei contratti collettivi, è stato ribadito - da Sez. L, n. 06165/2016, Torrice, Rv. 639169 - che il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal c.c.n.l. in relazione ad una determinata infrazione.
Con riguardo alla questione del potere di qualificazione del giudice delle ragioni del licenziamento, Sez. L, n. 23735/2016, Amendola F, Rv. 642086 - nell'affermare che il licenziamento intimato per "mancanza di adeguamento alle esigenze (comportamentali, predittive, valutative, ecc.) che la evoluzione del mercato comporta" e "alle attuali esigenze del nostro settore", costituisce un licenziamento disciplinare - ha statuito che la sussunzione della fattispecie concreta all'ipotesi normativa del giustificato motivo soggettivo oppure a quella del giustificato motivo oggettivo non può essere rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, in virtù di un mero atto di qualificazione del recesso, svincolato dalla valutazione della concreta ragione posta a fondamento del licenziamento.
I profili di contrasto registrati nell'ultimo decennio - e concernenti, in particolare, l'esatta identificazione della fattispecie nonché l'onere probatorio concernente l'obbligo di repechage - sono stati, nell'anno corrente, oggetto di approfondito esame.
Sul primo aspetto, punto di approdo del dibattito è, allo stato, Sez. L, n. 13516/2016, Manna A., Rv. 640460, ove è affermato che il datore di lavoro, nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo il limite che il suo obbiettivo non può essere perseguito soltanto con l'abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell'organizzazione tecnico-produttiva ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni. Ne consegue, a giudizio della Corte, che in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, al quale l'art. 41 Cost., nei limiti di cui al comma 2, lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell'incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall'art. 3 della l. n. 604 del 1966 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività.
In senso analogo, Sez. L, n. 25201/2016, Amendola F., Rv. 642226, ha affermato che «Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa».
Quanto al delicato e connesso profilo del nesso di causalità tra riassetto aziendale e licenziamento, è stato precisato - da Sez. L, n. 19185/2016, Manna A., Rv. 641379 - che «il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 della l. n. 604 del 1966, è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale ultima evenienza il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, sicché non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato siano stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta».
Sul secondo aspetto, l'indirizzo incentrato sulla dissociazione tra oneri di allegazione e prova - da ultimo seguito, tra l'altro, da Sez. L, n. 10018/2016, Di Paolantonio, Rv. 639777, secondo cui «in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, questi è tenuto ad allegare l'esistenza di altri posti di lavoro presso cui poter essere ricollocato, inclusi quelli determinanti una dequalificazione, e a manifestare la disponibilità a ricoprire le mansioni di livello inferiore, anche in altre unità produttive, mentre sul datore grava l'onere di provare, solo nei limiti delle allegazioni della controparte, l'impossibilità di assegnarlo a mansioni diverse» - è in via di superamento, prevalendo attualmente quello tradizionale.
Al riguardo si segnalano Sez. L, n. 05592/2016, Patti, Rv. 639305 - ove è statuito che spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri - e Sez. L, n. 12101/2016, Manna A., Rv. 640388, ove è evidenziato che il lavoratore ha l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. repechage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore.
Con riferimento alla sfera di operatività del repechage vanno menzionate Sez. L, n. 22798/2016, Amendola F., e Sez. L, n. 26467/2016, Spena, Rv. 642251, ove è stato puntualizzato che l'onere del datore di lavoro di provare l'adempimento all'obbligo di repechage va assolto anche in riferimento a posizioni di lavoro inferiori, ove rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l'assetto organizzativo aziendale; il datore di lavoro, in conformità al principio di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto, è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento ed a fornire la relativa prova in giudizio.
Nella seconda sentenza citata, inoltre, è precisato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non si pone - salvi i soli casi in cui l'esigenza di riorganizzazione aziendale sia potenzialmente riferibile ad una pluralità di posizioni di lavoro - un problema di comparazione della posizione del dipendente licenziato con quella dei dipendenti addetti ad altre sedi aziendali, secondo un criterio di vicinanza territoriale; infatti, l'obbligo di comparazione può porsi soltanto nelle ipotesi di licenziamento collettivo, nelle quali la legislazione si ispira alla esigenza di garantire il minore impatto sociale possibile della riduzione del personale.
Per maggiori approfondimenti sul dibattito v. il contributo tematico.
Per il profilo sanzionatorio correlato alla illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo v. il § 10.10.
Con una significativa pronuncia - Sez. L, n. 06575/2016, Spena, Rv. 639245 - giunta all'esito di un acceso dibattito, è stato affermato che «la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della l. n. 604 del 1966, l'art. 15 st.lav. e l'art. 3 della l. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva la comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita)».
Con altra rilevante sentenza - Sez. L, n. 19695/2016, Boghetich, Rv. 641349 - è stato ribadito che ove il licenziamento sia stato determinato da motivo discriminatorio, va ordinata, anche nei confronti delle organizzazioni di tendenza, la reintegra del lavoratore, restando privo di rilievo il livello occupazionale dell'ente e la categoria di appartenenza del dipendente.
Con riguardo alla fattispecie di licenziamento collettivo è stato affermato - da Sez. L, n. 23149/2016, Amendola F, Rv. 641619 - che il riconoscimento dell'esistenza di un esubero di personale non individua di per sé un motivo legittimo del licenziamento collettivo e non contraddice la natura ritorsiva della scelta di individuare i licenziandi in violazione dei criteri di scelta. È pertanto onere del datore di lavoro, al fine di sottrarsi all'accertamento della natura ritorsiva del licenziamento, dedurre e dimostrare non solo l'esistenza delle ragioni oggettive del licenziamento collettivo, ma anche l'esatta individuazione dei lavoratori licenziati sulla base dei criteri di scelta legali o concordati, e quindi il nesso di causalità.
Sez. L, n. 15687/2016, Lorito, Rv. 640727 ha chiarito che i giorni di malattia di cui il lavoratore abbia fruito dopo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dichiarato illegittimo in sede giudiziale, non possono essere utilmente computati ai fini del superamento del periodo di comporto per giustificare un ulteriore recesso datoriale atteso che, per effetto del provvedimento espulsivo, il lavoratore non era più tenuto all'obbligo di presenza, ricostituito soltanto dalla statuizione giudiziale ripristinatoria della funzionalità del rapporto.
Sez. L, n. 22653/2016, Ghinoy, Rv. 641600, ha affermato che ai fini dell'operatività della tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della normale occupazione, il quale implica il riferimento all'organigramma produttivo o, in mancanza, alle unità lavorative necessarie, secondo la normale produttività dell'impresa, valutata con riguardo al periodo di tempo antecedente al licenziamento, senza darsi rilevanza alle contingenti ed occasionali contrazioni od anche espansioni del livello occupazionale aziendale. In mancanza di una previsione temporale espressa, l'ambito temporale rilevante non può quindi essere definito aprioristicamente, dovendosi avere riguardo alla concreta organizzazione produttiva ed alla sua collocazione nel mercato ed in tal senso al tempo necessario in concreto, e con riferimento a quello specifico momento, per configurare una ragionevole stabilizzazione occupazionale.
Con altra interessante pronuncia - Sez. L, n. 19557/2016, Manna A., Rv. 641395 - è stato affermato che ai fini dell'applicabilità della tutela reale di una società estera operante in Italia, il numero dei dipendenti va determinato con riferimento al solo territorio nazionale, dovendosi ritenere che l'una o più sedi secondarie ivi presenti, già assoggettate per plurimi aspetti all'applicazione della legge italiana ai sensi dell'art. 2508 c.c., siano dotate di autonoma rilevanza anche a tali fini, pur non avendo autonoma personalità giuridica, costituendo il criterio occupazionale un presupposto di applicazione della legge nazionale.
In fattispecie concernente il licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 18418/2016, Balestrieri, ha ribadito che l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 st.lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva reintegrato il lavoratore, cui era stato contestato di essere maleducato con il personale che aveva il compito di formare, di aver rifiutato di ridiscutere il trattamento di cd. superminimo e di aver lamentato il demansionamento, ritenendo tali condotte prive dei caratteri dell'antigiuridicità ed illiceità).
La tutela reintegratoria è stata riconosciuta in caso di recesso per mancato superamento del periodo di prova in presenza di patto nullo.
Sez. L, n. 16214/2016, Ghinoy, Rv. 640861, ha sul punto chiarito che il richiamo al mancato superamento di un patto di prova non validamente apposto è inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, prevista dall'art. 18, comma 4, st. lav, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, applicabile ratione temporis.
La medesima tutela è stata accordata in presenza di licenziamento disciplinare non preceduto dalla contestazione.
Sul punto Sez. L, n. 25745/2016, Balestrieri, Rv. 642444, ha affermato che il radicale difetto di contestazione dell'infrazione (elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare, e costituente espressione di un inderogabile principio di civiltà giuridica) determina l'inesistenza della procedura e non solo delle norme che la disciplinano, con applicazione della tutela della reintegra, del resto prevista anche dal comma 6, che richiama, per il caso di difetto assoluto di giustificazione del licenziamento, la tutela di cui al comma 4 dell'art.18 (reintegra ed indennità pari sino a 12 mensilità della retribuzione); «tale deve ritenersi il caso di un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebiti che dunque, ancorché teoricamente ipotizzabili, non potrebbero, anche per l'impossibilità di attivazione delle successive garanzie a difesa del lavoratore, in alcun caso ritenersi idonei a giustificare il licenziamento. Del resto il comma 4 del novellato art. 18, sanziona con la reintegra il licenziamento ontologicamente disciplinare ove sia accertata l'insussistenza del fatto contestato (e non semplicemente addebitato): nella specie il fatto contestato non esiste a priori, sicché, anche sotto tale profilo, ne consegue la reintegra nel posto di lavoro».
In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee dà luogo alla tutela indennitaria, dovendosi escludere ricorra, in tal caso, la manifesta insussistenza delle ragioni economiche poste a fondamento del recesso: Sez. L, n. 14021/2016, Amendola F., Rv. 640434, ha affermato, sul punto, che il nuovo regime sanzionatorio introdotto dalla l. n. 92 del 2012 prevede di regola la corresponsione di un'indennità risarcitoria, riservando il ripristino del rapporto di lavoro alle ipotesi residuali, che fungono da eccezione, nelle quali l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento è connotata di una particolare evidenza.
Sulla applicabilità, o meno, del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall'art. 7, comma 6, della l. n. 604 del 1966, nel testo sostituito dall'art. 1, commi 40 e 41, della l. n. 92 del 2012, al licenziamento per fine cantiere nel settore edilizio, Sez. L, n. 19703/2016, Ghinoy, Rv. 641363, si è espressa in senso negativo, avuto riguardo all'esclusione introdotta dal sesto comma del testo, come modificato dall'art. 7, comma 4, del d.l. 28 giugno 2013 n. 76, conv. con modif. dalla legge 9 agosto 2013, n. 99.
Sull'apparato sanzionatorio dettato in tema di licenziamenti collettivi vedi il successivo §.
Varie tipologie di illegittimità afferenti il licenziamento disciplinare sono state ricondotte nell'ambito dei vizi formali o procedimentali.
Sez. L, n. 16896/2016, Boghetich, Rv. 640843, ha chiarito che nell'ipotesi in cui la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore, è applicabile l'art. 18, comma 6, st.lav. (nella formulazione ratione temporis vigente, risultante dalla l. n. 92 del 2012), con riferimento alle ipotesi di vizi di forma attinenti alla motivazione del recesso, come ora disciplinata dall'art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966, con conseguente dichiarazione giudiziale di risoluzione del rapporto di lavoro e condanna del datore al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Sez. L, n. 17113/2016, Amendola F., Rv. 640786, ha affermato che la violazione del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva (nella specie, dall'art. 8, comma 4, del c.c.n.l. Metalmeccanici), è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all'art. 7 st.lav., tale da rendere operativa la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla l. n. 92 del 2012.
Con riferimento alla dibattuta questione circa la tutela da riconoscere ai licenziamenti intimati, privi di motivazione, nelle piccole aziende, Sez. L, n. 17589/2016, Patti, Rv. 641010, ha puntualizzato che nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1996, come modificato dall'art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, trova applicazione l'art. 8 della medesima legge, in virtù di un'interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella introdotta dalla legge "Fornero", che ha modificato anche l'art. 18 della l. n. 300 del 1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria.
La scissione dei profili di illegittimità concernenti il licenziamento pone il problema della ammissibilità di distinte domande per farli valere. Al riguardo Sez. L, n. 04867/2016, Tria, Rv. 639115, ha precisato che non è consentito frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di due distinti giudizi lamentando, in uno, solo vizi formali e, nell'altro, vizi di merito, con conseguente disarticolazione dell'unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto, trattandosi di una condotta lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, che si risolve in un abuso dello strumento processuale e si pone in contrasto con i principi del giusto processo.
I temi di maggior rilievo affrontati vertono, al pari di quanto accaduto nell'anno precedente, sulla delimitazione del criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità nonché sulla questione del rispetto delle procedure.
È stato sul punto affermato - da Sez. L, n. 17249/2016, Esposito L., Rv. 641018 - che il parametro dell'anzianità in servizio senza soluzione di continuità, adottato con accordo sindacale, ai sensi dell'art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, per individuare i lavoratori da collocare in mobilità, risponde a criteri oggettivi, perché applicabile all'intera platea di lavoratori con esclusione dunque in radice del carattere discriminatorio, e all'esigenza di prediligere i lavoratori che, non avendo mai interrotto il rapporto professionale nel settore, hanno acquisito un bagaglio culturale più consistente rispetto a chi abbia vissuto una esperienza nel comparto discontinua o risalente nel tempo, ancorché quantitativamente più rilevante.
Sez. L, n. 18190/2016, Balestrieri, Rv. 641145, ha ribadito che ove la ristrutturazione della azienda interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l'individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l'idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti della azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l'onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni.
Con specifico riguardo all'onere di informativa, concernente detti criteri di scelta, gravante sul datore, Sez. L, n. 18306/2016, Boghetich, Rv. 641267, ha affermato che l'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, secondo cui il datore di lavoro deve dare una "puntuale indicazione" dei criteri di scelta e delle modalità applicative, impone oltre all'individuazione dei criteri con cui selezionare il personale, anche la specificazione del concreto modo di operatività degli stessi, in modo che il lavoratore possa comprendere perché lui, e non altri, sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inidonei, alla formazione della graduatoria dei lavoratori con metodo obiettivo ed univoco, accordi sindacali che non precisavano la modalità in cui i vari criteri, pur razionali, concorressero tra loro, consentendo l'esplicazione di una discrezionalità non controllabile del datore di lavoro).
Quanto all'indicazione del numero degli esuberi, Sez. L, n. 18504/2016, Amendola F., Rv. 641193, ha precisato che una eventuale divergenza del predetto numero tra comunicazione preventiva, di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 223 del 1991, e comunicazione finale, di cui al comma 9 dello stesso articolo, non costituisce di per sé ragione di illegittimità della risoluzione del singolo rapporto di lavoro, potendo rappresentare proprio il risultato della procedura di esame congiunto prevista dalla legge; né la comunicazione preventiva deve enunciare i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, essendo la loro individuazione rimessa all'accordo sindacale o, sussidiariamente, alla legge, sicché solo la violazione dei criteri individuati da dette fonti può determinare l'illegittimità del recesso.
Sul tema dell'interesse a proporre domanda di annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'articolo 5 della legge n. 223 del 1991, nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche ex lege n. 92 del 2012, Sez. L, n. 24558/2016, Spena, Rv. 641970, ha affermato che detta domanda non può essere effettuata indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perchè avente rilievo determinante rispetto al licenziamento.
In generale, sul tema della verifica del rispetto delle regole procedurali, Sez. L, n. 22543/2016, Doronzo, Rv. 641605, ha evidenziato che la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all'art. 4, comma 3, della l. n. 223 del 1991, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l'organico dell'intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l'imprenditore può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell'azienda, senza che occorra l'indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all'esito della procedura che, nell'ambito delle misure idonee a ridurre l'impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione.
Con riguardo al termine - introdotto dall'art. 1, comma 44, della l. n. 92 del 2012, a modifica del comma 9 dell'art. 4 della l. n. 223 del 1991 - di sette giorni dalla comunicazione dell'atto di recesso per l'inoltro agli enti regionali per l'impiego e alle associazioni di categoria dell'elenco dei lavoratori licenziati con tutte le altre notizie relative all'attuazione della procedura di mobilità, Sez. L, n. 23736/2016, Venuti, in corso di massimazione, ha affermato che il termine in questione deve essere rispettato anche qualora l'impresa intenda cessare l'attività.
Sulla natura dell'azione promossa dal lavoratore che faccia valere l'inefficacia di un licenziamento collettivo per vizi del procedimento, nonché sulle conseguenti implicazioni, Sez. L, n. 10343/2016, Berrino, Rv. 639728, ha evidenziato che l'azione in questione va ricondotta a quelle di annullamento, sicché è soggetta sia all'onere dell'impugnativa stragiudiziale nel termine di decadenza di sessanta giorni, sia alla prescrizione quinquennale, il cui decorso determina l'estinzione del diritto di far accertare giudizialmente l'invalidità del recesso datoriale e, quindi, di azionare le conseguenti pretese reintegratore e risarcitorie.
Sul profilo sanzionatorio derivante dall'illegittimità del licenziamento collettivo intimato nell'area di applicazione della legge "Fornero", Sez. L, n. 12095/2016, Amendola F, Rv. 640030, ha affermato che in forza dell'art. 5, comma 3, della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall'art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, all'incompletezza della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991 - che integra una violazione delle procedure previste dallo stesso articolo - consegue l'applicazione, in favore del lavoratore licenziato, della sola tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 7, st.lav., nella misura tra 12 e 24 mensilità.
Inoltre, Sez. L, n. 18847/2016, Ghinoy, Rv. 641227, ha statuito che qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell'esigenza aziendale collegata all'appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina una violazione dei criteri di scelta, per la quale l'art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall'art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, prevede l'applicazione del comma 4 dell'art. 18 novellato della l. n. 300 del 1970, norma che riguarda tutte le modalità di applicazione dei suddetti criteri, e quindi non solo l'errata valutazione o applicazione dei punteggi assegnati, ma anche le modalità con cui essi sono attribuiti.
Infine, con una rilevante pronuncia - Sez. L, n. 22121/2016, Ghinoy, Rv. 641614 -, è stato affermato che la previsione di cui all'art. 7 del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, al comma 4-bis, introdotto dalla legge di conversione 28 febbraio 2008, n. 31 - secondo cui, tra l'altro, l'acquisizione del personale già impiegato nel medesimo appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, in materia di licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori riassunti dall'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative - comporta che l'invarianza delle condizioni economiche e normative deve rientrare nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la legittimità della procedura di irrogazione del licenziamento.
In materia di pubblico impiego la S.C. ha reso numerose pronunce in tema di procedimento disciplinare e di licenziamenti, ma anche sulle procedure concorsuali e sulle mansioni, risolvendo questioni a lungo dibattute in sede di merito.
In tema di riparto di giurisdizione, ove il lavoratore deduca un inadempimento dell'amministrazione, quale espressione di un fenomeno unitario e la fattispecie si protragga oltre il discrimine temporale del 30 giugno 1998, ad avviso di Sez. U, n. 11851/2016, Curzio, Rv. 639997, permane la giurisdizione del giudice ordinario anche per il periodo anteriore a tale data, dovendo essere egualmente unitario il giudizio sul danno conseguente. La pronuncia è stata resa in relazione ad una domanda di risarcimento del danno per patologie manifestatesi prima del 30 giugno 1998, ma dipendenti da un'unica causa, individuata nella esposizione professionale a radiazione ionizzanti.
Per Sez. U, n. 11387/2016, Giusti A., Rv. 639996, spetta invece alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia nella quale un dirigente, a seguito del mancato conferimento di un incarico, prospetti un pregiudizio professionale derivante dall'adozione di atti di macro-organizzazione correlati all'esercizio di poteri autoritativi, al fine di ottenerne l'annullamento, la rimozione degli effetti ed un nuovo esercizio del potere amministrativo. Nella fattispecie, trattandosi di atti diretti a ridefinire le strutture amministrative e a stabilire i criteri e le modalità di attribuzione degli incarichi dirigenziali, si è ritenuto che fossero in gioco deduzioni relative solo ad una posizione di interesse legittimo.
Rientra, di contro, nella giurisdizione del giudice ordinario, secondo quanto deciso da Sez. U, n. 19072/2016, Bianchini, Rv. 640928, la controversia avente ad oggetto la domanda della P.A. rivolta ad ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, posto che l'amministrazione creditrice ha titolo per richiedere l'adempimento dell'obbligazione senza doversi rivolgere alla Procura della Corte dei conti, la quale sarà notiziata soltanto ove possa prospettarsi l'esistenza di danni.
Di sicuro rilievo è l'ordinanza interlocutoria emessa da Sez. U, n. 06891/2016, Mammone, Rv. 639170, secondo cui, non è manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, in relazione all'art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000. La ragione posta a fondamento della pronuncia risiede nel potenziale contrasto della norma interna con l'art. 6 CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo con le sentenze 4 febbraio 2014, Mottola c. Italia e Staibano c. Italia.
In tema di procedure concorsuali, Sez. U, n. 05075/2016, Nobile, Rv. 639080, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario nel solo caso in cui la mancata assunzione avvenga in assenza di un provvedimento espresso, qualora la P.A., all'esito dell'approvazione della graduatoria, non provveda alla nomina del soggetto utilmente collocato. È stato chiarito che, ove sia del tutto omessa la forma prevista dalla legge, espressione del basilare principio di legalità dell'azione amministrativa, non sia possibile riconoscere l'esercizio di un potere autoritativo. Da tale principio consegue che, in assenza di un contrarius actus, la volontà dell'Amministrazione di annullare o revocare il bando non assume alcuna efficacia e l'autotutela risulta, quindi, esercitata in carenza di potere e con atti affetti da nullità per difetto dell'elemento essenziale della forma.
Restando in tema, Sez. U, n. 13531/2016, Curzio, Rv. 640439, ha fornito un'interpretazione estensiva del concetto di "assunzione" di dipendenti della P.A. di cui all'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, proponendo un'equiparazione, per ragioni di ordine sistematico e teleologico, dell'assunzione di lavoratori subordinati e di quella di lavoratori parasubordinati cui vengano attribuiti incarichi volti a realizzare identiche finalità. Ne deriva che appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia relativa ad una procedura concorsuale volta al conferimento di incarichi ex art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 cit., assegnati ad esperti, mediante contratti di lavoro autonomo di natura occasionale o coordinata e continuativa, per far fronte alle medesime esigenze cui ordinariamente sono preordinati i lavoratori subordinati della P.A.
In materia di concorsi interni da ultimo, Sez. U, n. 26270/2016, Manna, Rv. 64179801, ha fornito ulteriori precisazioni sull'interpretazione dell'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, in particolare ha ribadito che, in presenza di progressioni all'interno di ciascuna area professionale o categoria, secondo disposizioni di legge o di contratto collettivo, necessariamente ci si trova al di fuori dell'ambito delle attività amministrative autoritative e la procedura è retta dal diritto privato, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.
In ordine , infine, all'assunzione per effetto dello scorrimento delle graduatorie, Sez. U, n. 26272/2016, Manna, Rv. 641799-01, secondo cui, allorquando la controversia abbia ad oggetto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, nella specie di ricorrere all'istituto dello scorrimento, la situazione giuridica dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice cui spetta il controllo del potere amministrativo ai sensi dell'art. 103 Cost.
Di rilievo, inoltre, l'ordinanza interlocutoria emessa da Sez. L., n. 26934/2016, Di Paolantonio, sulla questione, ritenuta di massima di particolare importanza, relativa alla qualificazione privatistica o pubblicistica del rapporto dei cd. lettori di scambio ex l. n. 62 del 1967, nonché in ordine all'applicabilità del principio di non discriminazione di matrice eurounitaria, una volta che è stata esclusa la loro equiparazione al personale insegnante delle Università.
Nella stessa materia, infine, Sez. L, n. 26935/2016, Di Paolantonio, con ordinanza interlocutoria, ha posto le ulteriori questioni, ritenute di massima di particolare importanza, relative al rapporto degli ex lettori di lingua straniera di cui al d.P.R. n. 382 del 1980, aventi ad oggetto la riconducibilità all'art. 310 c.p.c. dell'estinzione dei giudizi disposta dall'art. 26 della l. n. 240 del 2010, sulla natura privatistica o pubblicistica del rapporto, nonché sulla resistenza dei giudicati già intervenuti alle sopravvenienze normative in materia.
È stato chiarito da Sez. L, n. 14592/2016, Boghetich, Rv. 640584, che le deroghe al principio generale del pubblico concorso necessitano di una previsione legislativa ad hoc, la cui ratio sia volta a contemperare il meccanismo di selezione dei migliori con l'esigenza di ricoprire posizioni di non rilevante contenuto professionale o con il principio della tutela delle categorie protette o - nel caso di conversione a tempo indeterminato di rapporti a tempo determinato - per l'opportunità di valorizzare l'esperienza lavorativa già maturata.
In ipotesi di procedura concorsuale indetta con norma dichiarata incostituzionale, secondo Sez. L, n. 13884/2016, Blasutto, Rv. 640477, la pronuncia spiega i suoi effetti anche rispetto agli atti successivi di approvazione della graduatoria e di instaurazione del rapporto di impiego. Si è chiarito, infatti, che, la mancata impugnazione della graduatoria non determina una situazione giuridica irrevocabile o esaurita, in quanto destinata a definire solo la fase prodromica alla costituzione del rapporto. Questo, infatti, anche successivamente, resta condizionato, quanto alla validità, dall'atto presupposto.
Ove ricorra una pluralità di procedure concorsuali, per il medesimo profilo, la P.A., qualora si avvalga del cd. scorrimento della graduatoria ha l'obbligo, per Sez. L, n. 00280/2016, Tria, Rv. 638376, di motivare le ragioni per cui non attinge da quella di data anteriore. L'omessa indicazione delle ragioni costituisce inadempimento contrattuale, suscettibile di risarcimento, per violazione dei criteri di correttezza e buona fede, applicabili alla stregua dei principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost.
Il candidato vincitore ha diritto, come ha affermato Sez. L, n. 12679/2016, Tria, Rv. 640333, all'inquadramento previsto dal bando di concorso. Tale diritto è, tuttavia, subordinato alla permanenza, al momento dell'adozione del provvedimento di nomina, dell'assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando è stato emesso. Nell'ipotesi in cui detto assetto sia mutato a causa dello ius superveniens, l'Amministrazione ha il potere-dovere di bloccare i provvedimenti dai quali possano derivare nuove assunzioni che non corrispondano più alle oggettive necessità di incremento del personale, quali valutate prima della modifica del quadro normativo, in base all'art. 97 Cost.
In tema di procedure selettive per l'assunzione con contratto di formazione e lavoro ad avviso di Sez. L, n. 18854/2016, Di Paolantonio, Rv. 641226, la disciplina di cui agli artt. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 e 3 del d.l. n. 726 del 1984, conv. con modif. dalla l. n. 863 del 1984, ratione temporis vigente, richiede il possesso del requisito anagrafico non solo per la partecipazione al concorso e alla selezione, ma anche al momento dell'assunzione che deve riguardare solo "giovani" da formare e immettere nel mondo lavorativo, sicché il contratto individuale stipulato in difetto dei requisiti richiesti è affetto da nullità per contrasto con norma imperativa.
In generale, in tema di mobilità da un'amministrazione ad un'altra, Sez. 6-L, n. 16846/2016, Fernandes, Rv. 640785, ha chiarito che il passaggio diretto ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, risolvendosi in una modificazione meramente soggettiva del rapporto, comporta il diritto alla conservazione dell'anzianità, della qualifica e del trattamento economico del dipendente. Ove quest'ultimo risulti superiore a quello spettante all'ente di destinazione, per Sez. 6-L, n. 04545/2016, Fernandes, Rv. 639194 trova applicazione la regola del riassorbimento degli assegni ad personam che sono riconosciuti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito.
La regola generale del riassorbimento, secondo Sez. 6-L, n. 04545/2016, Fernandes, Rv. 639193, opera in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti dell'amministrazione di arrivo, e non con riferimento a singole voci che compongono tale trattamento economico. Un autonomo rilievo alle singole voci può, tuttavia, essere espressamente previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva. A quest'ultima, in ogni caso, compete solo la definizione delle modalità applicative del principio, mentre le è preclusa la possibilità di escluderne l'operatività.
In linea con la pronuncia richiamata anche, Sez. L, n. 10007/2016, De Marinis, Rv. 639779, secondo cui l'art. 19, comma 5, del d.P.R. 8 agosto 2002, n. 207, prevede in favore del personale trasferito all'APAT il mantenimento del trattamento economico, da intendersi comprensivo di ogni voce retributiva qualunque ne sia la fonte contrattuale, nazionale o integrativa della singola amministrazione, inclusi eventuali rinnovi. La finalità della norma, infatti, è quella di regolare, fino all'emanazione del primo contratto integrativo proprio dell'ente cessionario, il rapporto del personale ivi trasferito, assoggettandolo alla disciplina collettiva tempo per tempo in vigore presso l'amministrazione di provenienza.
Compete all'ente di destinazione, poi, l'esatto inquadramento e la concreta disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti trasferiti, come ha chiarito Sez. L, n. 04088/2016, D'Antonio, Rv. 639146, in una fattispecie relativa al trasferimento di un lavoratore dall'ente Poste alla Corte dei Conti, presso la quale si trovava già in posizione di comando.
L'inquadramento superiore acquisito dopo la domanda, secondo Sez. L, n. 19925/2016, Tricomi I., Rv. 641351 è irrilevante, in quanto la domanda di passaggio non può essere scissa dalla qualifica per cui è chiesta in ragione delle disponibilità palesate dall'Amministrazione di destinazione.
In tema di passaggio dei segretari comunali e provinciali ad altra amministrazione è intervenuta Sez. U, n. 00784/2016, Curzio, Rv. 638055 per affermare che l'art. 1, comma 49, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che disciplina la possibilità del reinquadramento e dell'accesso alla dirigenza, a seguito del processo di mobilità, non si applica ai segretari comunali o provinciali trasferiti per effetto di procedure di mobilità già esaurite alla data di entrata in vigore della citata legge. La normativa richiamata, infatti, si riferisce ai soli processi di mobilità eventuali e futuri e non a quelli espletati in applicazione del c.c.n.l. di settore del 16 maggio 2001, dovendosi ritenere una diversa interpretazione lesiva del principio costituzionale dell'accesso alla P.A. per concorso pubblico, applicabile anche alla dirigenza.
Con riguardo, infine, al personale di amministrazione di comparto diverso dai Ministeri, Sez. L, n. 19916/2016, Torrice, Rv 641361, ha affermato che il distacco presso gli uffici giudiziari non fa sorgere il diritto all'indennità di amministrazione. Il distacco o il comando non mutano, infatti, il rapporto di lavoro, o la sua regolamentazione legale o contrattuale con l'ente distaccato.
Lo svolgimento di fatto di mansioni dirigenziali dà diritto al trattamento economico corrispondente, per Sez. L, n. 18712/2016, Tria, Rv. 641231, ove il dipendente assolva l'onere di allegazione e prova delle mansioni in concreto svolte; in proposito è stato ritenuto irrilevante l'atto di preposizione irregolare.
Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune, secondo Sez. L, n. 24266/2016, Blasutto, Rv. 641968, non è condizionato all'esistenza, né alla legittimità di un provvedimento del superiore gerarchico, salva l'eventuale responsabilità del dirigente che abbia disposto l'assegnazione con dolo o colpa grave. La S.C. ha precisato, tuttavia, che detto diritto trova un limite nei casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito o proibente domino), oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in tutti i casi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento.
In materia di inquadramenti è intervenuta Sez. L, n. 01241/2016, Tricomi I., Rv. 638329, precisando che il processo di delegificazione ha affidato alla contrattazione collettiva il potere di intervenire, con la particolarità che esso non incontra il limite della inderogabilità delle norme in materia di mansioni previsto per il lavoro subordinato privato. Ne consegue che le scelte della contrattazione collettiva sull'inquadramento del personale, e di corrispondenza tra le vecchie qualifiche e le nuove aree, sono sottratte al sindacato giurisdizionale, dovendosi escludere che il principio di non discriminazione di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 costituisca parametro di giudizio sulle eventuali differenziazioni operate in tale sede.
Con riferimento al personale delle cd. carriere speciali, soppresse dall'art. 147 del d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1077, Sez. L, n. 10008/2016, De Marinis, Rv. 639643, ha chiarito che l'azione perequativa perseguita dal legislatore, si è attuata ed esaurita nel consentire l'accesso alla qualifica iniziale dei ruoli delle carriere direttive ordinarie, subordinando la conseguente progressione in detto ambito alla disciplina susseguitasi in materia.
Nell'ambito, invece, delle procedure di riqualificazione riservate al personale dell'Avvocatura dello Stato, è stato precisato da Sez. L, n. 15981/2016, Di Paolantonio, Rv. 640682, che l'avanzamento per saltum da B1 a B3, previsto in conformità all'art. 15 del c.c.n.l. 1998/2001 per il personale dipendente del comparto Ministeri, non è in contrasto con l'art. 97 Cost., in ragione delle modalità con cui ad esso si perviene, consistenti nell'espletamento di procedure concorsuali mediante corsi di riqualificazione ed esame finale.
Con riferimento al c.c.n.l. del 16 febbraio 1999 comparto ministeri, secondo Sez. L, n. 01241/2016, Tricomi, Rv. 638330, il criterio differenziale tra le posizioni economiche C 1 e C 2 deve essere individuato nella capacità decisionale in ordine agli obbiettivi, cui si riconnette un livello più o meno elevato di responsabilità e non, invece, nell'autonomia operativa.
In caso di svolgimento di mansioni aggiuntive, secondo Sez. 6-L, n. 16094/2016, Marotta, Rv. 640722, il lavoratore pubblico ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive, purché i compiti in concreto espletati integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001. Tale requisito si realizza con lo svolgimento di una mansione che esuli dal profilo professionale salvo che, in presenza di un inquadramento che comporti una pluralità di compiti nell'ambito del normale orario, il datore di lavoro non abbia esercitato il proprio potere di determinare l'oggetto del contratto assegnando prevalenza all'uno o all'altro compito riconducibile alla qualifica di assunzione.
In materia di prerogative sindacali, è stato precisato da Sez. L, n. 14196/2016, Blasutto, Rv. 640476, che la normativa di cui all'accordo collettivo quadro del 7 agosto 1998 (per tutte le P.A., inclusi gli Enti locali) rinvia ai concetti generali di unità operativa e sede, che, in mancanza di una definizione espressa, vanno intesi nel significato desumibile dalle prescrizioni rinvenibili nel rispettivo ordinamento. Quanto alla tutela dei dirigenti sindacali degli enti locali si deve, pertanto, fare riferimento al d.P.R. 3 agosto 1990, n. 333 (abrogato dal d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. con modif. dalla legge 4 aprile 2012, n. 35) che condizionava al previo nulla osta del sindacato di appartenenza il trasferimento del dirigente sindacale in un'unità produttiva ubicata in diverso comune o circoscrizione comunale. In particolare, ove il livello territoriale di riferimento sia quello comunale, la locuzione "ubicazione in sede diversa" identifica la diversa circoscrizione e, dunque, la tutela opera in caso di trasferimento del dirigente sindacale da una circoscrizione ad un'altra.
In proposito, Sez. L, n. 12678 2016, Torrice, Rv. 640952, ha ribadito che, pur non essendo configurabile un diritto soggettivo a conservare, ovvero ad ottenere, un determinato incarico di funzione dirigenziale, in ogni caso la P.A. non ha un'assoluta potestà discrezionale nell'affidare o non affidare incarichi dirigenziali, in prima designazione, ovvero una volta che siano venuti a scadenza, e lasciare, in assenza di un giustificato motivo, il dirigente pubblico privo di incarico e di compiti di natura dirigenziale.
La preposizione ad un ufficio, secondo Sez. L, n. 06068/2016, Spena, Rv. 639160, comporta, in mancanza di espresse limitazioni, il conferimento di tutti i poteri di direzione dello stesso. In particolare, la mancanza di conferimento dell'incarico dirigenziale esclude solo le attribuzioni, propositive e gestorie, legate alla predeterminazione degli obiettivi.
Con riferimento allo spoil system, Sez. L, n. 03210/2016, D'Antonio, Rv. 639046, ha ritenuto che, a seguito della sopravvenuta pronuncia di illegittimità costituzionale delle norme di cui all'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, il dirigente generale illegittimamente rimosso va reintegrato nell'incarico per il tempo residuo di durata, senza che rilevi l'indisponibilità del posto a seguito della riforma organizzativa dell'amministrazione sopravvenuta nelle more, non essendo impossibile l'adempimento dell'obbligazione in base alla normativa contrattualcollettiva vigente; nella specie, l'art. 13 del c.c.n.l. 20 febbraio 2001 che assicura al dirigente l'attribuzione di un incarico equivalente nelle ipotesi di ristrutturazione e riorganizzazione comportanti la modifica o la soppressione delle competenze affidate all'ufficio.
L'atto di conferimento di incarico dirigenziale, secondo Sez. L, n. 13878/2016, Blasutto, Rv. 640455, quale atto di gestione del rapporto deve essere escluso dal campo di applicazione dell'art. 6, lett. d) del c.c.n.l. del personale del comparto delle Regioni e delle autonomie locali 2002/2005, in tema di disciplina dei rapporti sindacali e degli istituti della partecipazione. In particolare, la norma citata, ove fa riferimento all'andamento dei processi occupazionali, tra le materie oggetto di concertazione, non comprende gli atti di gestione, tra cui il conferimento dell'incarico di dirigente.
Con riguardo all'affidamento di funzioni dirigenziali, ad avviso di Sez. L, n. 21890/2016, Blasutto, Rv. 641596-01, l'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 109, che rinvia all'art. 107, comma 2 e 3, t.u.e.l. attiene al conferimento delle funzioni dirigenziali che possono essere attribuite ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale. Detto conferimento non comporta un mutamento del profilo professionale, ma solo un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione - nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto - è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva.
Sotto il diverso profilo delle funzioni di cui agli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 09630/2016, Blasutto, Rv. 639731, ha affermato che la competenza in materia di spesa appartiene solo ai titolari di uffici dirigenziali generali. Gli altri dirigenti la esercitano in via derivata, mediante apposita delega, adottando atti e provvedimenti amministrativi di rilevanza esterna nell'ambito dell'attuazione di progetti e delle gestioni loro assegnate dai dirigenti superiori. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva escluso la qualifica dirigenziale ritenendone un connotato indefettibile la gestione di un "budget" di spesa.
In generale, Sez. L, n. 12900/2016, Boghetich, Rv. 640424, ha negato che in caso di accordi conclusi in sede sindacale possa operare il principio generale dell'inderogabilità in peius, quale espressione del cd. favor lavoratoris. In tal caso, infatti, il confronto tra le parti sociali garantisce la migliore protezione degli interessi dei lavoratori e la loro composizione con le esigenze datoriali. È, pertanto, da escludere una concorrenza di fonti che consenta di ricorrere al principio del cd. favor lavoratoris nel caso di un sistema di classificazione del personale (nella specie, della Regione Sicilia) che risulti da accordo sindacale recepito in atto normativo (nella specie, decreto Presidente Regione Sicilia n. 10 del 2001).
Agli enti pubblici si applica, secondo, la Sez. L, n. 00991/2016, Tria, Rv. 638615, la normativa generale sull'efficacia probatoria delle buste paga propria del lavoro privato, sicché le quietanze dei compensi corrisposti al lavoratore, quali i prospetti-paga, le buste-paga e simili, stante l'obbligatorietà del loro contenuto e della corrispondenza di esso alle registrazioni eseguite e alla loro specifica normativa, fanno fede nei confronti del datore di lavoro per quanto riguarda gli elementi in essi indicati.
L'art. 2126 c.c., secondo la massima Rv. 638616 relativa alla stessa pronuncia, ha applicazione generale e riguarda tutte le ipotesi di prestazione di lavoro alle dipendenze di una P.A. compresa tra quelle di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, salvo il caso in cui l'attività svolta risulti illecita perché in contrasto con norme imperative e poste a tutela di diritti fondamentali della persona.
Con riguardo al compenso aggiuntivo per le festività civili coincidenti con la domenica, attribuito dall'art. 5, comma 3, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come modificato dall'art. 1 della legge 31 maggio 1954, n. 90, Sez. 6-L, n. 00328/2016, Marotta, Rv. 638340, ha precisato che esso, è stato escluso con un intervento legislativo, giudicato costituzionalmente legittimo da Corte cost. n. 150 del 2015, dall'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, che, con norma di interpretazione autentica ha espressamente compreso la citata disposizione tra quelle riconosciute inapplicabili dall'art. 69, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001 a seguito della seconda tornata di contratti collettivi in materia di lavoro con la P.A.
Un'importante precisazione per il personale dell'Amministrazione degli affari esteri è stata effettuata da Sez. L, n. 14112/2016, Di Paolantonio Rv. 640465, secondo cui l'indennità di servizio estero non ha natura retributiva, in quanto finalizzata a sopperire agli oneri derivanti dalla permanenza nella sede straniera. E', quindi, da escludere che la stessa possa concorrere a determinare il danno patrimoniale subito dal dipendente illegittimamente richiamato presso la sede centrale.
Per la determinazione della predetta indennità ex art.117 del d.P.R. n. 18 del 1967, ai fini degli inquadramenti nelle qualifiche funzionali, occorre, secondo Sez. L, n. 12344/2016, Spena, Rv. 640387, avere riguardo all'esercizio in concreto della funzione e non alla sua attribuzione formale.
In ordine alla retribuzione di posizione dei dirigenti del SSN, Sez. L, n. 22934/2016, Torrice, Rv. 641509-01, in linea con Sez. L, n. 12335/2009, Rv. 608438, Bandini, ha ribadito che l'art. 50 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 dell'area dirigenza dei ruoli sanitario, professionale tecnico ed amministrativo del S.S.N., nel prevedere, da parte delle aziende, la determinazione della graduazione delle funzioni dirigenziali, attribuendo ad ogni relativa posizione un valore economico complessivo, riconosce ai dirigenti una retribuzione di posizione complessiva, che, ai sensi dell'art. 53 del medesimo c.c.n.l. e dell'art. 40 del c.c.n.l. dell'8 giugno 2000, come autenticamente interpretato dall'art. 24, comma 11, del c.c.n.l. 3 novembre 2005, è composta da una quota stabilita tabellarmente in sede contrattuale, divisa in una parte fissa e in una variabile, nonché da un'ulteriore quota, parimenti variabile e definita in sede aziendale, collegata all'incarico conferito sulla base della graduatoria delle funzioni. Fino al conferimento degli incarichi, inoltre, deve essere corrisposta una retribuzione di posizione minima, costituita dalle componenti, fissa e variabile, della quota tabellare, destinata ad essere riassorbita nel valore economico complessivo successivamente attribuito all'incarico conferito, in quanto mera anticipazione prevista dal contratto collettivo.
La stessa pronuncia, Rv. 641510-01, soggiunge che i commi 1 e 2 dell'art. 41 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 dell'area dirigenza dei ruoli sanitario, professionale tecnico ed amministrativo del S.S.N. riconoscono ai dirigenti dei predetti ruoli, con incarico di direzione di struttura complessa ai sensi dell'art. 54, comma 1 fascia a) del c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, il pagamento di un incremento della retribuzione di posizione, condizionatamente alla disponibilità nel fondo di cui all'art. 50, comma 3, precisando che detta erogazione costituisce un emolumento ulteriore.
Con riguardo, invece, alla dirigenza medico-veterinaria Sez. L, n. 05465/2016, Di Paolantonio, Rv. 639226 ha precisato che l'art. 17, comma 5, del c.c.n.l. 3 novembre 2005 per la dirigenza medico-veterinaria, secondo cui sussiste il diritto del dirigente in reperibilità, chiamato a rendere la prestazione, a percepire, oltre alle indennità ivi stabilite, anche la maggiorazione per il lavoro straordinario, o, in alternativa, ad usufruire di un corrispondente recupero orario, non esclude che l'ASL debba, inoltre, garantire al medico, anche senza sua richiesta, il riposo settimanale, trattandosi di diritto indisponibile.
È stato, poi, precisato, da Sez. 6-L, n. 06962/2016, Arienzo, Rv. 639248 che, in materia di computo del beneficio previsto dall'art. 5 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 344, relativo al personale ex dipendente da organismi militari della Comunità atlantica (NATO), assume rilievo lo stipendio tabellare in godimento al momento dell'assunzione alle dipendenze dello Stato. Non deve, pertanto, essere inclusa l'indennità integrativa speciale, nella relativa base di calcolo, per il personale assunto in epoca anteriore all'inglobamento di tale indennità nel suddetto emolumento, disposto dall'art. 20, comma 3, del c.c.n.l. 2002/2005 comparto Ministeri solo a decorrere dal 1° gennaio 2003. In proposito, la S.C. ha chiarito che in tal caso, non sorgono dubbi di contrasto con l'art. 36 Cost., che richiede proporzionalità e adeguatezza della retribuzione nella sua globalità e non delle singole componenti.
Ai fini del calcolo dell'indennità premio di servizio, secondo Sez. 6-L, n. 15302/2016, Marotta, Rv. 640866, non sono computabili i versamenti effettuati dal datore di lavoro al fondo individuale integrativo di previdenza, in quanto la retribuzione contributiva, alla quale la stessa si commisura a norma dell'art. 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152, è costituita solo dagli emolumenti testualmente menzionati dall'art. 11, comma 5, legge cit., la cui elencazione ha carattere tassativo e il cui riferimento allo 'stipendio o salario' richiede un'interpretazione restrittiva, attesa la specifica ed esclusiva indicazione, quali componenti di tale voce, dei soli aumenti periodici della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura.
Con riguardo, invece, all'indennità integrativa speciale spettante ai medici medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena, Sez. L, n. 14957/2016, Blasutto, Rv. 640735, ha chiarito che, ai sensi dell'art. 39 della legge 9 ottobre 1970, n. 740, essa è soggetta ai limiti previsti nell'art. 1 della legge 27 maggio 1959, n. 324, richiamati dal predetto art. 39 che regola il rapporto libero-professionale parasubordinato dei sanitari presso tali strutture. Tale indennità, dunque, compete ad un solo titolo, con opzione per la misura più favorevole nei casi in cui sia consentito il cumulo di impieghi.
In relazione alla sospensione della retribuzione, durante il periodo di custodia cautelare in carcere, Sez. L, n. 20321/2016, Boghetich, Rv 641496, ha chiarito che non può trovare applicazione l'istituto della revoca previsto dall'art. 97 del T.U. n. 3 del 10 gennaio 1957. Si tratta di un'autonoma causa di esclusione dal diritto alla retribuzione che si sovrappone alla sospensione cautelare e che trova il fondamento nel generale principio per il quale, se la prestazione lavorativa non è resa per fatto imputabile al lavoratore, il datore di lavoro non è tenuto al pagamento della retribuzione.
In materia di ex lettori di lingua straniera, secondo Sez. L, n. 09907/2016, Lorito, Rv. 639778, all'esito della soppressione ex lege della tipologia contrattuale del lettore di madrelingua, non è configurabile una sorta di ruolo ad esaurimento per il rapporto di lettorato. Ai fini della fruizione del trattamento economico previsto dalla legge 5 marzo 2004, n. 63, come interpretata dalla legge 30 dicembre 2012, n. 240, quindi, è necessario l'accesso alla posizione di collaboratore esperto linguistico attraverso il superamento di una procedura selettiva, predisposta dai singoli ordinamenti universitari, e la stipula del relativo contratto.
In fattispecie diversa, relativa all'ipotesi di costituzione giudiziale del rapporto a tempo indeterminato degli ex lettori di lingua straniera, Sez. L, n. 19190/2016, Di Paolantonio, Rv. 641380 ha affermato, l'applicabilità del trattamento economico previsto per il collaboratore esperto linguistico.
Con riguardo al personale scolatico è di rilievo quanto espresso da Sez. L. n. 23868/2016, Di Paolantonio, Rv. 641704-01, secondo cui il personale scolastico non di ruolo deve essere equiparato al personale di ruolo relativamente all'anzianità di servizio ai fini retributivi.
È stata, infine, esclusa da Sez. L, n. 26348/ 2016, Blasutto, Rv. 642249-01, l'estensione dei benefici previsti dagli artt. 1 e 2 della l. n. 336 del 1970, Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed Enti pubblici ex combattenti ed assimilati, a tutte le categorie indicate dagli articoli citati. La pronuncia, dopo ampia ricostruzione sistematica, ha ritenuto, infatti, il beneficio applicabile solo alle categorie equiparate a quella dei profughi per l'applicazione del trattato di pace.
Da ultimo, in tema di ricostruzione della carriera, Sez. L, n. 20967/2016, Tria, Rv. 641408, ha precisato la portata applicativa dell'art. 29 del c.c.n.l. Ministeri 1998-2001, chiarendo che il relativo diritto sorge solo nel caso in cui il dipendente sia oggetto di una sentenza definitiva di assoluzione, senza che possa essere considerata tale quella dichiarativa dell'estinzione del reato per prescrizione. In tal senso, sussiste, infatti, l'interesse dell'imputato ad impugnare tale sentenza, o la facoltà dello stesso di rinunciare alla prescrizione, al fine di ottenere un'assoluzione nel merito.
Numerosi sono stati gli interventi della S.C. sull'interpretazione degli art. 55 e 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001.
Preliminarmente, in relazione all'individuazione della disciplina applicabile, Sez. L, n. 11627/2016, Napoletano, Rv. 640008, ha chiarito che la regola del tempus regit actum va riferita al tempo del procedimento, confermando la decisione di merito che, in un'ipotesi di illecito riguardante un'attività protrattasi fino al vigore della nuova disciplina, aveva ritenuto applicabile quella prevista dalla l. n. 15 del 2009 e dal d.lgs. n. 150 del 2009.
La novella da ultimo citata, secondo Sez. L, n. 11985/2016, Blasutto, Rv. 640028, ha individuato, quale momento determinante per l'applicazione della nuova disciplina, la data di acquisizione della notizia dell'infrazione acquisita dagli organi dell'azione disciplinare, con riguardo a fatti rilevanti a decorrere dal 16 novembre 2009.
Il termine a difesa, previsto dall'art. 55, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150 del 2009, secondo Sez. L, n. 12108/2016, Blasutto, Rv. 640374, di quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente si considera decorso "inutilmente", se in tale lasso temporale il lavoratore non abbia svolto le sue difese, mentre tale condizione non si realizza ove esse siano state spiegate. Solo nel primo caso, dunque, decorre, dall'intervenuta scadenza, l'ulteriore termine di quindici giorni entro il quale irrogare la sanzione, mentre la disposizione resta inapplicabile in presenza di giustificazioni del lavoratore, che possono implicare una valutazione ulteriore e richiedere un più ampio lasso di tempo.
In ordine alla natura dei termini del procedimento disciplinare, secondo Sez. L, n. 12213/2016, Blasutto, Rv. 640390, nella vigenza del c.c.n.l. comparto Ministeri del 16 maggio 1995, come modificato dall'art. 12 del successivo c.c.n.l. 12 giugno 2003, solo il termine iniziale e quello finale del procedimento disciplinare sono perentori, mentre quelli endoprocedimentali hanno carattere ordinatorio ancorché debbano essere applicati nel rispetto dei principi di tempestività ed immediatezza. Ne consegue che non si verifica la decadenza dall'azione disciplinare in caso di inosservanza del termine previsto dall'art. 55, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 per la trasmissione degli atti all'ufficio designato per i procedimenti disciplinari ad opera del capo della struttura di appartenenza del dipendente, che ravvisi fatti non rientranti nella propria competenza, nonché di quello di cinque giorni, di cui al comma 4-bis all'art. 24 del c.c.n.l. citato, per l'ipotesi in cui il responsabile della struttura si avveda nel corso del procedimento innanzi a lui avviato di una diversa e più grave rilevanza dei fatti contestati.
Nella medesima pronuncia, in massima Rv. 640391, si afferma anche che l'omessa comunicazione, nella vigenza del c.c.n.l. da ultimo citato (art. 24 comma 4), all'interessato della segnalazione del fatto illecito all'ufficio competente, non determina l'inefficacia del procedimento, in quanto, avendo una funzione meramente informativa, non arreca pregiudizio per le garanzie difensive.
Sulla stessa linea è stato precisato da Sez. L, n. 17245/2016, Boghetich, Rv. 640922, che l'art. 55-bis, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede un termine a difesa dell'incolpato, di dieci o, nel caso di provvedimenti più gravi, venti giorni di carattere meramente endoprocedimentale per la convocazione. La contrazione di tale termine, di conseguenza, può dare luogo alla nullità del procedimento, e della relativa sanzione, solo ove sia dimostrato, dall'interessato, un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa.
La concreta tutela del diritto costituzionale di difesa è alla base di Sez. L, n. 14106/2016, Blasutto, Rv. 640464, con riferimento all'art. 55-bis del d.lgs.n.165 del 2001, secondo cui, il procedimento disciplinare non è illegittimo, qualora il lavoratore incolpato, sebbene non convocato dal datore di lavoro, al fine di esporre le proprie difese, abbia comunque, in un congruo termine decorrente dalla conoscenza dell'addebito (nella specie, dieci giorni), esercitato il proprio diritto, mediante l'invio di una memoria scritta; la difesa scritta, infatti, è prevista quale forma alternativa rispetto all'audizione personale.
Sulla natura perentoria del termine previsto per la contestazione disciplinare per le Agenzie fiscali, ai sensi dell'art. 66 del c.c.n.l. del 28 maggio 2004, si è pronunciata anche Sez. L, n. 14198/2016, Di Paolantonio, Rv. 640474.
Ha affermato, invece, la natura ordinatoria del termine per la contestazione ex art. 61 del c.c.n.l. del 16 giugno 2003 dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato, Sez. L, n. 22930/2016, Ghinoy, Rv. 641506-01, sia in considerazione dell'utilizzo dell'espressione "di norma", sia dell'obbligo previsto di valutazione delle circostanze del caso concreto. La pro- nuncia si pone in linea con l'orientamento espresso Sez. L, n. 24529/2015, Doronzo, Rv. 638063 (con riferimento all'art. 24, comma 2, del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 maggio 1995), secondo cui in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali possono verificarsi solo in presenza di una loro espressa previsione normativa o contrattuale.
Sotto il profilo dell'organo competente ad instaurare il procedimento disciplinare, secondo Sez. L, n. 22487/2016, Nappi, Rv. 641520-01, l'art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n.165 del 2001, non postula un'istituzione ex novo dell'ufficio competente, né una sua individuazione espressa, essendo sufficiente, ai fini della sua legittimità, che all'organo che ha irrogato la sanzione sia stata attribuita, in modo univoco e chiaro, la potestà di gestione del personale. Nella specie la S.C., riformando la pronuncia di merito, ha dichiarato legittimo il licenziamento disposto dal direttore generale, ritenendo irrilevante la circostanza che, solo dopo il provvedimento espulsivo, l'ente si fosse dotato di un ufficio per i procedimenti disciplinari.
Tutte le fasi del procedimento disciplinare devono essere svolte dall'ufficio per i procedimenti disciplinari, competente anche, secondo Sez. L, n. 11632/2016, Torrice, Rv. 640005, all'irrogazione delle sanzioni, salvo quelle comprese fra il rimprovero scritto e la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino a dieci giorni. L'interferenza di organi esterni determina, dunque, l'illegittimità del procedimento, e la nullità della relativa sanzione, solo ove si sia tradotta in una compartecipazione sostitutiva e non meramente additiva.
Per i procedimenti avviati successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, Sez. L, n. 18128/2016, Di Paolantonio, Rv. 641087, ha chiarito che la natura perentoria dei termini del procedimento disciplinare stabiliti dalla contrattazione collettiva e dagli artt. 55bis e ss. del d.lgs. n. 165 del 2001, impedisce la rinnovazione del procedimento disciplinare che si sia concluso con sanzione annullata per vizio di forma, qualora la nuova iniziativa disciplinare venga intrapresa per i medesimi fatti, una volta spirati i termini.
Una precisazione è stata effettuata da Sez. L, n. 19183/2016, Di Paolantonio, Rv. 641384, a proposito dell'ambito di applicazione dell'art. 3 della legge 27 marzo 2001, n. 97, sulla sospensione del procedimento, una volta venuta meno la pregiudiziale penale. In particolare, la norma trova applicazione nei limitati casi di cui all'art. 55-ter, comma 1, del d.l.gs. n. 165 del 2001, in cui l'ufficio competente per il procedimento disciplinare decida, a causa della complessità degli accertamento, di sospendere il procedimento fino al passaggio ingiudicato della sentenza penale.
Non è, poi, stata ritenuta necessaria da Sez. L, n. 11628/2016, Tricomi I, Rv. 640006, alcuna comunicazione della sospensione del procedimento disciplinare, in mancanza di una espressa previsione nell'art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001. Tale articolo è da ritenersi di stretta interpretazione, in quanto ha introdotto una normativa procedimentale; né è stata ritenuta ravvisabile alcuna violazione del diritto di difesa, posto che la sospensione è prevista a favore dell'incolpato.
Ai fini della decadenza dall'azione disciplinare, ad avviso di Sez. L, n. 16900/2016, Torrice, Rv. 640924, occorre avere riguardo alla data in cui l'amministrazione datrice di lavoro esprime la propria valutazione in ordine alla rilevanza e consistenza disciplinare della notizia dei fatti e la consolida nell'atto di contestazione. L'eventuale ritardo nella comunicazione acquisisce rilievo solo allorché sia di entità tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa da parte dell'incolpato.
Per gli illeciti disciplinari di maggiore gravità, nella stessa pronuncia, con massima Rv. 640923, si afferma che la comunicazione all'interessato della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura amministrativa nella quale l'impiegato presta servizio, all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, prevista dall'art. 55-bis, comma 3, del d.lgs. citato, ha una funzione meramente informativa. L'omissione di tale adempimento non determina l'inefficacia del procedimento disciplinare, il quale può proseguire regolarmente.
Il fondamento dell'azione disciplinare evidenziato da Sez. L, n. 17307, Di Paolantonio, Rv. 641012, coincide con l'interesse dell'amministrazione ad accertare le responsabilità, al fine di impedire che il dipendente possa essere riammesso in servizio, partecipare a successivi concorsi pubblici, o far valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della p.a. L'azione disciplinare, pertanto, non si arresta neanche nelle ipotesi di dimissioni del lavoratore intervenute prima dell'avvio del procedimento.
L'assenza ingiustificata ex art. 55-quater, lett. b), del d.lgs. n. 165 del 2001, pur costituendo un'ipotesi di licenziamento disciplinare, secondo Sez. L, n.18326/2016, Boghetich, Rv. 641265, presuppone sempre un vaglio attraverso il procedimento disciplinare all'esito del quale, valutate tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, la ricorrenza di circostanze influenti sull'intensità del dolo o la gravità della colpa in senso attenuante della responsabilità del dipendente, si può irrogare anche una sanzione conservativa. Deve, quindi, escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione.
L'assenza per malattia, secondo Sez. L, n. 17335/2016, Torrice, Rv. 640876, per essere priva di rilievo disciplinare deve essere non solo esistente e comunicata, ma anche "giustificata" nelle forme, inderogabili, previste dall'art. 55 septies, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001; in altri termini, solo se sia stata attestata da certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale.
Secondo, Sez. L, n. 22550/2016, Tria, Rv. 641603-01, il rifiuto del dipendente di sottoporsi a visita medica di idoneità per almeno due volte costituisce un'ipotesi autonoma di licenziamento disciplinare ex art. 55-octies, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001.
Per l'individuazione del termine iniziale per la sospensione del procedimento disciplinare, previsto dall'art. 14, comma 2, del c.c.n.l. Ministeri 2002-2005, secondo Sez. L, n. 20813/2016, Boghetic, Rv. 641391, occorre avere riguardo al momento in cui l'amministrazione ha avuto conoscenza della trasmissione della "notitia criminis" e dell'iscrizione nel registro degli indagati, senza che sia necessario attendere l'esercizio dell'azione penale, in linea con quanto affermato da Sez. L, n. 17373/2016, Di Paolantonio, Rv. 641011.
Sul medesimo argomento Sez. L, n. 20544/2016, Blasutto, Rv. 641472, confermando quanto già affermato da Sez. L, n. 12560/2014, Nobile, Rv. 631037 per il Comparto Ministeri, ha chiarito che l'art. 29, comma 2, del c.c.n.l. Dirigenza Enti locali del 10 aprile 1996, deve interpretarsi nel senso che il datore di lavoro, cessato lo stato di restrizione della libertà personale del dipendente, può ulteriormente prolungare il periodo di sospensione dal servizio in presenza di fatti, oggetto dell'accertamento penale, che siano direttamente attinenti al rapporto di lavoro o, comunque, tali da comportare, se accertati, l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento, a prescindere dalla circostanza che nei confronti dello stesso sia stato, o meno, emesso un provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale.
In materia, infine, di rimborso per le spese legali, Sez. 6-L, n. 02366/2016, D'Antonio, Rv. 639052, ha affermato che il contributo, da parte della P.A., alle spese per la difesa del proprio dipendente, che sia imputato in un procedimento penale, presuppone l'esistenza di uno specifico interesse proprio dell'amministrazione, che sussiste ove l'attività sia imputabile alla P.A. e, dunque, si ponga in diretta connessione con il fine pubblico, dovendosi ritenere che il diritto al rimborso costituisca espressione di un principio generale di difesa volto, da un lato, a tutelare l'interesse personale del dipendente coinvolto nel giudizio nonché l'immagine della P.A. per cui lo stesso abbia agito, e, dall'altro, a riferire al titolare dell'interesse sostanziale le conseguenze dell'operato di chi agisce per suo conto.
In tema di licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 17304/2016, Torrice, Rv. 640878, ha chiarito la ripartizione degli oneri probatori nell'ipotesi di false dichiarazioni commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro, o di progressioni di carriera, ai sensi dell'art. 55-quater, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001. In particolare, la prova della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, a carico del datore di lavoro, ha ad oggetto solo la falsità delle attestazioni delle dichiarazioni nella loro oggettività, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare gli elementi che possono giustificare la falsa attestazione, e la sua dipendenza da causa a lui non imputabile, in quanto solo l'autore è in grado di provare che la sua condotta è frutto di un incolpevole errore circa il contenuto e la veridicità delle sue dichiarazioni.
Integra, inoltre, l'ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolenta, in forza dell'art. 55-quater citato, ad avviso di Sez. L, n. 17637/2016, Napoletano, Rv. 640818, la timbratura del cartellino marcatempo non corrispondente alla reale situazione di fatto, suscettibile altresì di integrare il reato di truffa aggravata, nel caso in cui il pubblico dipendente si allontani senza far risultare i periodi di assenza, sempre che siano economicamente apprezzabili.
In un'analoga ipotesi, Sez. L, n. 24574/2016, Torrice, Rv. 642037-01, ha colto l'occasione per precisare che l'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001 va interpretato nel senso che le fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo (c. 1 lett. da a) ad f) e c. 2), sono aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, le cui clausole, ove difformi, devono ritenersi sostituite di diritto ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. Una volta affermata la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale collettiva, si deve ritenere che il giudizio di adeguatezza delle sanzioni alle condotte ex lege tipizzate non è rimesso alla contrattazione collettiva, ma compete soltanto al giudice in sede di giudizio di proporzionalità ai sensi dell'art. 2106 c.c.
In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel rapporto degli autoferrotranvieri Sez. U, n. 15540/2016, Napoletano, Rv. 640793, a composizione di un contrasto sorto all'interno della S.C., ha chiarito che l'esonero dal servizio connesso a cessione di linee, a mutamento nei sistemi di esercizio ovvero a limitazione, semplificazione o soppressione di servizi è disciplinato dall'art. 26 del regolamento, allegato A al r.d. 8 gennaio 1931, n. 148. In tal caso è necessaria la preventiva autorizzazione dell'ente concedente e deve essere impossibile una utile ricollocazione del lavoratore, eventualmente anche in mansioni inferiori; viceversa, nelle ipotesi di esonero per motivi oggettivi differenti da quelle regolate dall'art. 26 cit., opera la normativa generale di cui all'art. 3, seconda parte, della l. n. 604 del 1966.
In tema, invece, di esonero dal servizio per inidoneità fisica o psichica, Sez. L, n. 14113/2016, Di Paolantonio, Rv. 640466, ha chiarito la portata applicativa dell'art. 22-ter del c.c.n.l. del 16 maggio 1995 comparto Ministeri che si esprime in termini di assoluta doverosità riguardo ai comportamenti richiesti alla P.A., la quale deve esperire ogni utile tentativo per il recupero del dipendente al servizio attivo, se del caso con mansioni diverse e, in carenza di posti e previo consenso dell'interessato, anche inferiori. L'obbligo di vagliare tutte le strade alternative, previste nello stesso c.c.n.l., prima di adottare il provvedimento di dispensa permane anche in assenza dell'iniziativa del lavoratore, non più idoneo alla mansione.
È stata esclusa da Sez. L, n. 19774/2016, Negri Della Torre, Rv. 641394, la risoluzione automatica del rapporto di lavoro nell'ipotesi di permanente inidoneità psico-fisica del lavoratore, sul presupposto che essa possa al più costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ove lo stesso non possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse. È stato chiarito, infatti, che l'art. 55 octies del d.lgs. n. 165 del 2001 attribuisce all'amministrazione un diritto potestativo di recesso che le consente in ogni caso di valutare la correttezza del procedimento attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, l'adeguatezza delle motivazioni addotte, nonché l'opportunità di un'ulteriore integrazione o approfondimento.
Di sicura rilevanza, inoltre, è la pronuncia di Sez. L, n. 11868/2016, Di Paolantonio, Rv. 640001, secondo cui le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 all'art. 18 della l. n. 300 del 1970 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato. La tutela del dipendente pubblico, quindi, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata l. n. 92, resta quella prevista dall'art. 18 st.lav. nel testo antecedente la riforma. A conforto di tale convincimento sono stati ritenuti elementi rilevanti: il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera dell'art. 1, comma 8, della l. n. 92 del 2012, l'inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, neppure richiamate al comma 6 dell'art. 18 nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all'art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato.
Con riguardo, poi, alla facoltà di collocamento a riposo d'ufficio, prevista dall'art. 72, comma 11, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in ragione del raggiungimento dell'anzianità massima contributiva di quaranta anni, ad avviso di Sez. L, n. 11595/2016, Tricomi, Rv. 640007, la P.A. è tenuta a fornire una motivazione, ancor più necessaria in difetto di un formale atto organizzativo, che consenta il controllo di legalità sull'appropriatezza della risoluzione del rapporto rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita. L'assenza di motivazione costituisce, quindi, violazione dei principi generali di correttezza e buona fede, dell'imparzialità e buon andamento della P.A., delle norme imperative che richiedono la rispondenza dell'azione amministrativa al pubblico interesse e dell'art.6, comma 1, della direttiva n. 78/2000/CE.
In tema di prepensionamento volontario dei dipendenti dell'ente Ferrovie dello Stato, Sez. L, n. 14210/2016, Amendola F., Rv. 640432, ha chiarito che, ai fini del computo del servizio effettivo utile alla pensione, l'art. 1, comma 4, della legge 1° giugno 1990, n. 141 distingue tra "i servizi computabili d'ufficio" e quelli relativi a periodi di servizio pregresso, per i quali, richiedendo che siano stati già "computati" sulla base della domanda dell'avente interesse, presuppone l'avvenuta adozione di un provvedimento di riconoscimento o di ricongiungimento formale.
Alcune importanti pronunce si segnalano in materia. In particolare, con riguardo all'assunzione, al fine di garantire l'ineludibile rispetto delle quote di riserva, secondo Sez. L, n. 12441/2016, Di Paolantonio, Rv. 640373, l'art. 16, comma 2, della l. n. 68 del 1999 va interpretato nel senso che la P.A. ha l'obbligo di assumere il disabile dichiarato idoneo, anche se non in possesso del requisito della disoccupazione prescritto dal combinato disposto degli artt. 7 e 8 della stessa legge, qualora, all'esito della procedura concorsuale, non vi siano idonei in possesso del requisito. In tal modo le quote di riserva possono restare non attribuite nelle sole ipotesi in cui non vi siano "riservisti in senso stretto", né altri disabili idonei ma non vincitori.
È stato affermato, inoltre, da Sez. L, n. 14388/2016, Tria, Rv. 640568, il diritto a che l'Amministrazione consenta la concreta fruibilità dei buoni pasto al lavoratore disabile, con conseguente possibilità di ottenere il diritto al risarcimento del danno in sua mancanza.
Con riferimento alla proposta di assunzione, secondo Sez. L, n. 20325/2016, Blasutto, Rv 641499, la falsa attestazione dello status di invalido, costituisce un'ipotesi di errore essenziale riconoscibile.
In materia di rapporti tra contratti collettivi di diverso ambito territoriale Sez. L, n. 00355/2016, Esposito L., Rv. 638376, ha ribadito il principio consolidato secondo cui, il contrasto va risolto non già in base al criterio della gerarchia, riconoscendo prevalenza alla disciplina di livello superiore, o temporale (criterio che, assegnando prevalenza al contratto più recente, è determinante solo nel caso di successione di contratti collettivi con identità di soggetti stipulanti, ossia del medesimo livello), ma secondo il principio di autonomia (e, reciprocamente, di competenza), alla stregua del collegamento funzionale che le associazioni sindacali pongono, con statuti o altri idonei atti di limitazione, fra i vari gradi o livelli della struttura organizzativa e della corrispondente attività.
In relazione ai rapporti tra la legge e la contrattazione collettiva e alla legittimità della deroga da parte di quest'ultima di previgenti disposizioni di legge, prevista dall'art. 2 comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 10064/2016, Riverso, Rv. 639644, ha chiarito che gli artt. 116 e 117 del c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007, fissando la durata dei periodi di permanenza degli insegnanti nelle scuole italiane all'estero e le cause di cessazione, disciplinano compiutamente la materia, derogando legittimamente al d.lgs. n. 297 del 1994.
Sotto il diverso profilo, invece, della denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro, ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, Sez. L, n. 07671/2016, Negri DellaTorre, Rv. 639470, ha chiarito che essa è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale, trattandosi di norma di stretta interpretazione. Nello stesso senso, Sez. L, n. 17716/2016, Napoletano, Rv. 641014, secondo cui l'interpretazione del contratto collettivo di ambito territoriale spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per vizio di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua.
Un'importante precisazione è stata effettuata da, Sez. L, n. 12591/2016, Spena, Rv. 640335, con riguardo alle patologie con eziologia multifattoriale, secondo cui la definizione di "causa di servizio" è quella generale di cui all'art. 64 del d.P.R. n. 1092 del 1973. E', quindi, inapplicabile il principio di equivalenza delle condizioni di cui all'art. 41 c.p. e il giudizio di adeguatezza della causa deve essere compiuto verificando ex ante l'astratta idoneità di un antecedente a produrre l'evento, tenuto conto di tutte le altre circostanze di fatto concorrenti in concreto. Nelle patologie ad eziologia multifattoriale, pertanto, ciascuna delle circostanze di fatto che, con giudizio prognostico appaiono adeguate, nel concorso con le altre, alla produzione dell'evento, è concausa della patologia.
Ragguardevole importanza riveste Sez. L, n. 00486/2016, Tria, Rv. 638520, in tema di indennità per cessazione del rapporto di agenzia. La pronuncia chiarisce che, a seguito della sentenza della CGUE, 23 marzo 2006, in causa C-465/04, interpretativa degli artt. 17 e 19 della direttiva 86/653, ai fini della quantificazione del predetto emolumento, nel regime precedente l'accordo economico collettivo (AEC) del 26 febbraio 2002 che ha introdotto l'"indennità meritocratica", ove l'agente provi di aver procurato nuovi clienti al preponente o di aver sviluppato gli affari con i clienti esistenti (ed il preponente riceva ancora vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti) ai sensi dell'art. 1751, comma 1, c.c., è necessario verificare - non secondo una valutazione complessiva ex ante dell'operato dell'agente, ma secondo un esame dei dati concreti ex post - se, fermi i limiti posti dall'art. 1751, comma 3, c.c., l'indennità determinata secondo l'accordo collettivo per gli agenti di commercio, tenuto conto di tutte le circostanze del caso e, in particolare, delle provvigioni che l'agente perde, sia equa e compensativa del particolare merito dimostrato, dovendosi, in difetto, riconoscere la differenza necessaria per ricondurla ad equità. Nella specie, la Corte ha cassato la pronuncia di appello per non aver effettuato alcun accertamento del carattere equo e compensativo dell'indennità calcolata sulla base dei criteri previsti dall'AEC del 1992, solo apparentemente adeguandosi al principio di diritto espresso dalla sentenza rescindente.
Un'importante "bussola" nel contesto della distinzione fra rapporto di mandato e rapporto di agenzia è offerta da Sez. L 02828/2016, Ghinoy, Rv. 638716. La pronuncia sottolinea come la qualificazione in un senso o nell'altro debba essere operata avendo riguardo principalmente al criterio della stabilità ed alla natura dell'incarico, tenendo presente che il contratto di agenzia ha ad oggetto tipicamente la promozione di affari, sicché un'attività promozionale può rientrare nello schema del mandato, e non dell'agenzia, solo se è episodica ed occasionale e, quindi, tale da esibire le caratteristiche del procacciamento di affari. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la decisione di merito che, senza approfondire l'aspetto della stabilità, aveva escluso che fossero riconducibili all'agenzia rapporti di lavoro di promotori finanziari che presentavano gli elementi tipici del mandato.
Di rilievo si mostra pure Sez. L, n. 05221/2016, Patti, Rv. 639045, secondo cui l'indennità per riduzione del portafoglio dell'agente, di cui all'art. 8-bis dell'Accordo Nazionale Agenti di Assicurazione del 28 luglio 1994, presuppone un ridimensionamento di esso disposto dal preponente, da intendersi quale diminuzione derivante da trasferimento (o frazionamento) in favore di altri agenti, come chiarito dalle eccezioni di cui ai commi 6 e 7 dello stesso articolo, relative ad ipotesi di limitata circolazione del portafoglio aziendale o di sua diversa allocazione interna, nell'ambito di eventi che non integrano perdita della disponibilità da parte del preponente.
Un'utile chiarificazione dogmatica non priva di una saliente ripercussione pratica è stata resa da Sez. L, n. 17770/2016, Spena, Rv. 640999: secondo la pronuncia, la clausola contrattuale che prevede la facoltà della società mandante di tenere l'agente vincolato al divieto di concorrenza nei suoi confronti ed il correlato obbligo della medesima società di corrispondere un corrispettivo in caso di esercizio di tale facoltà, non integra una condizione meramente potestativa, in quanto l'efficacia dell' obbligazione non dipende dalla volontà dello stesso debitore, ossia dell'agente sul quale grava l'obbligo di non-concorrenza, bensì da quella della parte creditrice, ovvero della casa mandante, sicché tale patto non rientra nella previsione di nullità di cui all'art. 1355 c.c., ma va qualificato come patto di opzione ex art. 1331 c.c.
Di rilievo si palesa Sez. L, n. 20047/2016, De Gregorio, Rv 641439, asserendo che la spettanza dell'indennità di cessazione del rapporto di agenzia, ai sensi dell'art. 1751 c.c. è condizionata alla sussistenza di una duplice condizione, occorrendo, per un verso, che l'agente abbia procurato nuovi clienti o abbia sviluppato sensibilmente gli affari con quelli preesistenti, per altro verso, che permangano per il preponente sostanziali vantaggi derivanti dagli affari correlati a tali clienti. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza d'appello, che aveva ritenuto non dovuta l'indennità reclamata da una promotrice finanziaria, osservando che i clienti presso i quali quest'ultima aveva collocato prodotti finanziari e assicurativi non erano stati da lei procurati e non erano rimasti clienti dell'istituto bancario a seguito della cessazione del rapporto di agenzia.
Sez. L, n. 21994/2016, Patti, in corso di massimazione, ha, poi, incisivamente osservato che l'obbligo di garanzia assunto con lo "star del credere", ossia del rischio di inadempimento del terzo, assume quale presupposto l'autonomia contrattuale dell'agente, tale che, la società preponente non gli possa imporre di curare o di concludere affari che reputi dannosi, se non esonerandolo dalla garanzia stessa. Nondimeno, l'autonoma e spontanea assunzione di garanzia dell'agente, in funzione della stipulazione di un contratto dallo stesso procurato con un cliente ritenuto non solvibile dal preponente, per tale ragione rifiutatosi di accedere alla conclusione contrattuale e ad essa determinatosi per la sola garanzia così prestata senza alcuna propria imposizione di un vincolo coercitivo, si iscrive nell'ambito dell'autonomia negoziale delle parti, ai sensi dell'art. 1322 c.c. Essa infatti accede, in funzione di prestazione accessoria quale autonoma garanzia, al contratto di agenzia, senza interferire nell'equilibrio sinallagmatico delle sue prestazioni.
Con particolare riferimento alla disciplina prevista dal d.m. Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 28 aprile 2000, n. 158, istitutivo, presso l'INPS, del "Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito, dell'occupazione e della riconversione e qualificazione professionale del personale dipendente dalle imprese di credito", Sez. L, n. 13873/2016, D'Antonio, Rv. 640456, ha affermato che, ai fini della determinazione della retribuzione utile, su cui deve essere calcolata la contribuzione per i periodi di erogazione straordinaria di sostegno al reddito, occorre fare riferimento alla regole previste dall'art. 10, commi 12 e 7, del d.m. medesimo (l'ultima mensilità di retribuzione percepita dall'interessato, secondo il criterio comune del 1/360 della retribuzione annua per ogni giornata) e non agli accordi raggiunti tra lavoratore ed istituto di credito.
Sez. L, n. 17162/2016, Berrino, Rv. 640895, sempre con riguardo alla disciplina di cui al citato d.m. n. 158 del 2000, ha ritenuto che la contribuzione figurativa, prevista nel quadro dei processi di agevolazione all'esodo del personale ammesso a fruirne, con erogazione in via straordinaria di assegni straordinari per il sostegno al reddito, è obbligatoria, perché come tale prevista nell'art. 2, lett. d), della legge 23 dicembre 1996, n. 662, espressamente richiamato dall'art. 5 del d.m. citato.
Secondo Sez. L, n. 13578/2016, De Gregorio, Rv. 640469, l'art. 12, comma 4, lett. c) della legge 30 aprile 1969, n. 153, che esclude dall'imponibile contributivo "i proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento danni" è norma speciale e, quindi, prevalente sulla disciplina fiscale di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, con la conseguenza che non sono assoggettabili a contribuzione previdenziale le somme corrisposte al lavoratore a titolo di risarcimento del danno da demansionamento.
Con riferimento al sistema contributivo dell'ENPAM, Sez. L, n. 11254/2016, Lorito, Rv. 639840, ha affermato che il contributo del due per cento, dovuto dalle società di capitali ai sensi dell'art.1, comma 39, della legge 23 agosto 2004, n. 243, ha come base di calcolo il fatturato annuo attinente le prestazioni specialistiche rimborsate dal S.S.N. ed effettuate con l'apporto di medici o odontoiatri operanti con le società in forma di collaborazione autonoma libero professionale, tenuto conto dell'abbattimento forfettario per costo dei materiali e spese generali ex d.P.R. nn. 119 e 120 del 23 marzo 1988 e con esclusione del fatturato attinente a prestazioni specialistiche rese senza l'apporto di medici o odontoiatri.
Il profilo temporale del criterio del cd. minimale retributivo – secondo cui l'obbligazione contributiva a carico del datore di lavoro va determinata in relazione al parametro minimo virtuale del c.c.n.l. di categoria – è stato esaminato da Sez. L, n. 04926/2016, Spena, Rv. 639153, che ha fissato al 1° gennaio 1989 la data di inizio del suo regime di applicabilità, e ciò in forza dell'art. 1, comma 2, della legge 7 dicembre 1989, n. 389, che ha disposto la salvezza degli effetti prodotti dai decreti legge non convertiti n. 548 del 30 dicembre 1988, n. 110 del 28 marzo 1989 e n. 279 del 29 maggio 1989.
Sez. L, n. 17531/2016, Berrino, Rv. 641180, ha ritenuto che il già richiamato principio del cd. minimo retributivo imponibile è applicabile anche alle società cooperative, i cui soci sono equiparati ai lavoratori subordinati ai fini previdenziali, sia nel caso in cui il datore di lavoro paghi di meno la prestazione lavorativa a pieno orario, sia nel caso di prestazione a orario ridotto, rispondendo tale parificazione alla finalità costituzionale di assicurare comunque un minimo di contribuzione dei datori di lavoro al sistema della previdenza sociale.
Con riferimento all'individuazione della base imponibile per la determinazione dei contributi dovuti in relazione alla posizione di lavoratori italiani che prestano attività lavorativa all'estero, Sez. L, n. 17646/2016, Ghinoy, Rv. 640998, ha affermato che deve aversi riguardo alla retribuzione effettivamente corrisposta e non alle retribuzioni convenzionali individuate con i d.m. richiamati dall'art. 4, comma 1, del d.l. 31 luglio 1987, n. 317, conv. con modif. in legge 3 ottobre 1987, n. 398, non essendo applicabile l'art. 48, comma 8-bis del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917(poi divenuto art. 51 per effetto del d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344) introdotto dall'art. 36, comma 1, della legge 21 novembre 2000, n. 42, che opera esclusivamente ai fini fiscali e non incide sulla determinazione della retribuzione imponibile.
In materia di retribuzione imponibile (e di diritto agli sgravi), Sez. L, n. 02112/2016, Esposito L., Rv. 638700, ha precisato che la fiscalizzazione degli oneri sociali, presupponendo la verifica in concreto dell'adempimento da parte del datore di lavoro, non compete in relazione alle retribuzioni corrisposte, e denunciate agli istituti previdenziali, in misura non inferiore a quella minima prevista dai contratti collettivi ma in ritardo rispetto alla scadenza, trattandosi d'inadempimento dell'obbligo contrattuale che incide sull'effettiva consistenza dell'emolumento.
Consolidando un orientamento settoriale, relativo all'edilizia, Sez. L, n. 22314/2016, Berrino, Rv. 641426, ha riaffermato che qualora l'Inps pretenda differenze contributive da impresa edile sulla retribuzione virtuale ai sensi dell'articolo 29 del d.l. 23 giugno 1995, n. 244, conv. con modif. in legge 8 agosto 1995, n. 341, il relativo onere probatorio è assolto mediante l'indicazione dell'attività edile espletata, e con l'invocazione dell'articolo 29 cit., con la conseguenza che è onere dell'impresa edile allegare, e provare, le ipotesi eccettuative dell'obbligo contributivo previste dallo stesso articolo 29 e dal d.m. cui esso rinvia, e il giudice di merito è tenuto a motivare con precisione l'ipotesi eccettuativa ricorrente nella specie.
Ai fini dell'individuazione del soggetto tenuto alla contribuzione, Sez. L, n. 06180/2016, Amendola F., Rv. 639161, ha, con riferimento ai lavoratori socialmente utili, statuito che la parte essenziale del compenso per l'opera prestata è a carico dello Stato in virtù di convenzioni tra le Regioni e il Ministero del lavoro, che dispongono il trasferimento di fondi statali vincolati alla realizzazione di misure di politica attiva dell'impiego, ai sensi dell'art. 45, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n. 144, cosicché, non essendo configurabile un rapporto di lavoro subordinato, l'ente beneficiario – utilizzatore della prestazione che legittima la pretesa creditoria nei confronti della Regione – è un mero delegato al pagamento, in quanto estraneo alla determinazione dell'emolumento e tenuto solo al rendiconto, all'eventuale restituzione di somme residue, all'importo integrativo per le ore eccedenti quelle così remunerate, nonché agli oneri relativi all'assicurazione obbligatoria presso l'INAIL e alla responsabilità civile verso terzi.
Secondo Sez. L, n. 03835/2016, Di Paolantonio, Rv. 638952, nelle società in accomandita semplice, in forza dell'art. 1, comma 203, della l. n. 662 del 1996, che ha modificato l'art. 29 della legge 3 giugno 1975, n. 160, e dell'art. 3 della legge 28 febbraio 1986, n. 45, la qualità di socio accomandatario non è sufficiente a far sorgere l'obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, essendo necessaria anche la partecipazione personale al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza, la cui prova è a carico dell'istituto assicuratore. All'orientamento ha dato continuità, ribadendo il richiamato principio di diritto, Sez. L, n. 23360/2016, Doronzo, che, con riferimento ad attività consistente nella mera riscossione dei canoni di un immobile affittato ha affermato che essa non costituisce di norma attività d'impresa, indipendentemente dal fatto che ad esercitarlo sia una società commerciale, salvo che sia data prova che costituisca attività commerciale d'intermediazione immobiliare, non potendo, l'eventuale impiego dello schema societario per attività di mero godimento, in implicito contrasto con il disposto dell'art. 2248 c.c., trovare una sanzione indiretta nel riconoscimento di un obbligo contributivo di cui mancano i presupposti propri.
Con riferimento alla materia dei servizi in house, Sez. L, n. 04274/2016, De Gregorio, Rv. 639000, ha ritenuto che la mera partecipazione di un ente pubblico ad una s.p.a., finalizzata alla gestione di un servizio pubblico secondo detta modalità (in house), non è sufficiente a determinare la natura pubblica dell'organismo ai fini previdenziali (nella specie è stata cassata la decisione di merito che aveva ritenuto sottratta all'obbligo del versamento dei contributi cd. minori una società a capitale pubblico che non prevedeva per statuto il divieto di cessione delle partecipazioni ai privati). Ugualmente, avuto riguardo ai profili pubblicistici dell'ente, Sez. L, n. 00600/2016, Napoletano, Rv. 638232, ha affermato che il carattere pubblico di una società, rilevante ai fini dell'esenzione contributiva, va individuato verificando la funzione ed i limiti del potere di controllo pubblico sulla gestione e, pertanto, le società a capitale misto sono tenute al versamento dei contributi cd. minori (per assegni familiari, malattia, maternità e tfr), in quanto in esse l'ente pubblico partecipante è soggetto alle evenienze della dialettica societaria, nell'esercizio del potere decisionale e nell'organizzazione aziendale, senza l'autonomia propria dei casi in cui detenga la totalità del pacchetto azionario.
In tema di "doppia iscrizione", Sez. 6-L, n. 00873/2016, Marotta, Rv. 638344, ha ritenuto che l'esercizio di attività in forma d'impresa ad opera di commercianti, di artigiani, ovvero di coltivatori diretti in contemporanea allo svolgimento di attività autonoma, per la quale è obbligatoriamente prevista l'iscrizione alla gestione previdenziale separata di cui all'art. 2, comma 26, della l. 8 agosto 1995, n. 335, impone, ai fini della "doppia iscrizione", l'effettiva "coesistenza" delle due distinte attività (quali il commercio e l'amministrazione societaria), ognuna delle quali dev'essere valutata, ai fini della sussistenza degli obblighi contributivi, secondo gli ordinari criteri, non applicandosi il parametro dell'attività "prevalente" di cui all'art. 1, comma 208, della l. n. 662 del 1996.
L'assoggettamento a contribuzione previdenziale di una società cooperativa non comporta – secondo Sez. L, n. 16356/2016, Berrino, Rv. 640853 – automaticamente la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra essa ed il socio, in quanto il riconoscimento, in favore dei soci delle cooperative, di una tutela previdenziale assimilabile a quella propria dei lavoratori subordinati, con il corrispondente obbligo della società di versare la contribuzione, presuppone che il giudice accerti che il lavoro svolto dai soci sia prestato in maniera continuativa e non saltuaria e non si atteggi quale prestazione di lavoro autonomo.
Circa l'applicabilità o meno della nuova disciplina degli ammortizzatori sociali, Sez. 6-L, n. 26016/2015, Pagetta, Riv. 638061, ha affermato che le società partecipate a capitale misto non beneficiano dell'esonero dall'obbligo contributivo per cig e cigs di cui all'art. 3 del d.lgs. C.p.S. 12 agosto 1947, n. 869 (ora abrogato ma) ratione temporis vigente, che resta riservato alle imprese industriali degli enti pubblici a partecipazione totalitaria, senza che assuma rilievo la disciplina di cui al d.lgs. 14 settembre 2015, n. 148, che ha introdotto un sistema di ammortizzatori sociali nuovo, unitario ed autonomo rispetto a quello previgente, avendo il legislatore ridefinito i criteri di concessione ed utilizzo della cig, con semplificazione delle procedure burocratiche ed introduzione di un meccanismo di responsabilizzazione delle imprese che vi ricorrono, a carico delle quali è previsto un contributo aggiuntivo, sicché dalla nuova disciplina non possono trarsi, neppure in via interpretativa, indicazioni sulla portata della normativa abrogata.
Sez. L, n. 12603/2016, Cavallaro, Rv. 640425, precisa che per le agevolazioni contributive di cui all'art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, di estensione a favore dei soggetti colpiti dagli eventi alluvionali del novembre 1994 dei benefici di cui all'art. 9, comma 17, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, il termine decadenziale del 31 luglio 2007 – per la presentazione delle domande, fissato a seguito di proroga di cui all'art. 3-quater del d.l. 28 dicembre 2006, n. 300, conv. con modif. nella legge 26 febbraio 2007, n. 17 – si applica anche alle imprese che abbiano già versato i contributi previdenziali, ritenendosi irragionevole una distinzione tra coloro che non li abbiano corrisposti e coloro che, invece, abbiano già effettuato il pagamento, in quanto la locuzione "regolarizzare la posizione", di cui all'art. 4, comma 90, della l. n. 350 del 2003, include sia l'ipotesi dell'esborso non ancora effettuato che quella in cui questo sia avvenuto, senza che rilevi che la definizione della posizione previdenziale intervenga mediante il pagamento (del dieci per cento del dovuto) ovvero il rimborso (del novanta per cento del versato), purché nel rispetto degli stessi termini di decadenza previsti dalla legge (l'orientamento è ribadito da Sez. L, n. 24988/2016, Doronzo, Rv. 642223).
Con riferimento alle dette agevolazioni di cui alla l. n. 350 del 2003, Sez. L, n. 13458/2016, Spena, Rv. 640271, ha precisato che esse, pur realizzando, secondo la Decisione della Commissione UE del 14 agosto 2014, aiuti di Stato, ai sensi dell'art. 107, par. 1, del T.F.U.E., possono essere ugualmente concesse qualora l'aiuto individuale rientri nei limiti del regolamento UE de minimis applicabile (nella specie, il n. 1407 del 2013) oppure possa rientrare nella deroga prevista dall'art. 107, par. 2, del T.F.U.E; in termini si veda anche Sez. L, n. 21895/2016, Cavallaro, Rv. 641616.
Sez. L, n. 24809/2016, Cavallaro, Rv. 641982, ha escluso che le agevolazioni di cui all'art. 4, comma 90, della l. n. 350 del 2003 possano applicarsi anche alle Pubbliche Amministrazioni, affermando che il termine "soggetti" sulla base di una lettura sistematica che lo rapporti non solo alle altre disposizioni del d.l. n. 646 del 1994 ma anche al complesso delle disposizioni che concernono gli interventi straordinari istituiti per fronteggiare le calamità naturali, non le include nel novero dei beneficiari.
In tema di contribuzione figurativa per servizio militare, Sez. L, n. 17312/2016, Doronzo, Rv. 640883, affrontando la materia a seguito delle modifiche di cui alla l. n. 335 del 1995, ha affermato che l'art. 2 di detta legge, pur estendendo l'assicurazione obbligatoria per la invalidità e vecchiaia ai lavoratori iscritti alla gestione separata, non ne comporta una assoluta equiparazione a quelli subordinati, rientrando nella discrezionalità del legislatore differenziare le posizioni attesa la loro radicale diversità, sicché, ai fini del riconoscimento della contribuzione figurativa per il periodo di svolgimento del servizio militare, sia volontario che obbligatorio, il tenore letterale dell'art. 49 della l. n. 153 del 1969 – che espressamente richiede l'iscrizione all'assicurazione obbligatoria per poter richiedere il computo del periodo in questione – non consente un'interpretazione estensiva in favore dei lavoratori parasubordinati, né, per il carattere eccezionale della norma citata – che ritiene utili ai fini di pensione periodi per i quali non sono stati versati contributi assicurativi – ne è possibile una interpretazione analogica.
Sez. L, n. 05318/2016, Cavallaro, Rv. 639098, ritiene che per la fruizione dei benefici contributivi in favore dei datori di lavoro che stipulano contratti di solidarietà, in relazione agli accordi di riduzione dell'orario di lavoro, di cui all'art. 5 del d.l. 20 maggio 1993, n. 148, conv. con modif. in legge 19 luglio 1993, n. 236, è necessaria un'apposita domanda amministrativa, distinta da quella di conguaglio con le somme anticipate a titolo di cigs, atteso che si tratta di un beneficio autonomo, di cui è titolare l'impresa e non, invece, il lavoratore, che avrà azione verso l'ente previdenziale nel caso in cui il datore di lavoro non gli anticipi il trattamento.
Con riferimento ai benefici contributivi in favore di perseguitati politici e razziali, Sez. L, n. 15633/2016, Berrino, Rv. 640723, ha ribadito, come da orientamento già affermato negli anni '90, che la possibilità di riconoscimento di una contribuzione figurativa, prevista dall'art. 5 della legge 10 marzo 1955, n. 96 (come sostituito dall'art. 2 della legge 22 dicembre 1980, n. 932) presuppone la preesistenza di un rapporto di lavoro e, dunque, di un rapporto assicurativo rimasto interrotto a causa degli atti persecutori.
Sullo stesso tema, Sez. L, n. 20054/2016, Cavallaro, Rv. 641441, afferma che fini della concessione del beneficio della contribuzione figurativa, di cui all'art. 5 della l. n. 96 del 1955, la deliberazione della commissione di cui all'art. 8 della stessa legge è un provvedimento di certazione di fatti giuridicamente rilevanti, in quanto attributiva al soggetto di una qualificazione giuridica destinata ad operare in altri rapporti giuridici intersoggettivi e, in quanto tale obbliga i partecipanti ad essi ad assumere come certo ciò che vi è enunciato, ma non ha un'efficacia vincolante nei confronti dell'INPS ai fini della ricostruzione della pensione, essendo comunque necessario il concorso degli ulteriori requisiti di cui alla legge 15 febbraio 1974, n. 36. La stessa pronuncia, Rv. 641442, ha precisato che la locuzione, di cui all'art. 8 della l. n. 36 del 1974, "superstiti aventi diritto" deve essere interpretata, per ragioni di ordine logico-sistematico – in quanto collocata in un insieme di precetti volti ad assicurare, a favore dei lavoratori il cui rapporto di lavoro fosse stato risolto per motivi politici o sindacali, la "ricostruzione del rapporto assicurativo obbligatorio" e dovendosi ricondurre la materia pensionistica ad un sistema unitario, caratterizzato da regole per quanto possibili uniformi –, nel senso di cui all'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 (quale risultante dalla modifica apportata dall'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903), quale ricomprendente il coniuge, i figli minori e quelli maggiorenni ma inabili al lavoro che fossero a carico del de cuius, e, quindi, in un significato più ristretto di quello di "eredi".
Sez. L, n. 10946/2016, Doronzo, Rv. 639781, ha affermato che ai fini del prepensionamento degli autoferrotramvieri, di cui all'art. 4 del d.l. 25 novembre 1995, n. 501, conv. con modif. in legge 5 gennaio 1996, n. 11, la maggiorazione contributiva va imputata alla quota di pensione maturata successivamente al 31 dicembre 1994, sicché ad essa deve essere applicata l'aliquota annua di rendimento del due per cento, prevista dalla normativa in vigore a tale momento.
Con orientamento innovatore (non risultando precedenti in termini), Sez. L, n. 08565/2016, Balestrieri, Rv. 639588, ha ritenuto, in tema di anzianità contributiva dei lavoratori a tempo parziale, che l'art 7, comma 1, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, conv. con modif. dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, in conformità al principio di non discriminazione di cui all'art. 4 della Direttiva n. 97/81/CE, come applicato dalla Corte di giustizia 10 giugno 2010 C-395/08 e C-396/08, va interpretato nel senso che, ai fini dell'acquisizione del diritto alla pensione, i lavoratori con orario part-time verticale ciclico hanno diritto all'inclusione anche dei periodi non lavorati, incidendo la contribuzione ridotta sulla misura della pensione e non sulla durata del rapporto di lavoro.
Per Sez. L, n. 24555/2016, Berrino, Rv. 641969, ribadendo orientamento oramai risalente (Sez. L, n. 02090/1998, Vidiri, Rv. 513055), l'impresa che chiede nei confronti dell'INPS l'accertamento della sua natura artigiana per ottenere il corrispondente inquadramento ai fini contributivi ha l'onere di provare la sussistenza degli elementi richiesti per tale inquadramento, senza potersi limitare ad invocare l'iscrizione nell'albo delle imprese artigiane che ha valore meramente indiziario e che, anche quando acquisisce valore costitutivo per effetto dell'art. 5 della l. n. 443 del 1985 può essere contestata a fini specifici, quale quello della classificazione dell'impresa agli effetti del regime previdenziale.
Sez 6-L, n. 26753/2016, Mancino, Rv. 642250 (ribadendo quanto a Sez. L, n. 03044/2012, Mancino, Rv. 620909), ha escluso che in tema di pensione di vecchiaia il requisito contributivo in regime di favore per i lavoratori discontinui possa essere esteso ai lavoratori domestici.
Numerose le pronunce in materia. Sez. L, n. 16552/2016, Berrino, Rv. 640845, ha ribadito che il beneficio di cui all' 3, comma 133, della l. n. 350 del 2003 in favore dei lavoratori esposti al rischio chimico da cloro, nitro e ammine dello stabilimento ex ACNA di Cengio spetta anche a coloro che, pur non essendo dipendenti di detta azienda, hanno lavorato in quel luogo, ivi comandati da imprese esterne, giacché la legge si riferisce ai "lavoratori" e non ai dipendenti, ed allo "stabilimento" e non alla società Acna, in conformità alla ratio legis di agevolare indistintamente coloro che sono stati esposti al rischio morbigeno, accelerando, in via generale, la maturazione dei requisiti di pensionamento.
Consolidando un orientamento risalente al decennio precedente, Sez. L, n. 16553/2016, Berrino, Rv. 640849, ha escluso che la maggiorazione del periodo lavorativo ai fini pensionistici di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, sia applicabile ai lavoratori autonomi, ribadendo che per essi non ha riscontro la finalità di agevolazione del prepensionamento a fronte del rischio di disoccupazione per cessazione dell'attività delle aziende obbligate alla dismissione dell'amianto del ciclo produttivo, non essendo essi vincolati ad una determinata attività ed in grado di sostituire, nell'espletamento del lavoro, i materiali contenenti la sostanza nociva con altri reperibili sul mercato. La stessa pronuncia ha escluso dubbi di costituzionalità della norma, in considerazione delle peculiarità che differenziano le due categorie di lavoratori e delle particolari condizioni in cui operano i prestatori di lavoro subordinato, costretti a svolgere la loro attività in ambienti e con orari stabiliti dal datore di lavoro ed impossibilitati a ricorrere a misure di protezione contro l'azione nociva dell'amianto, diverse da quelle apprestate dall'azienda.
In relazione agli oneri probatori per ottenere il riconoscimento dei benefici di cui all'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, Sez. L, n. 00588/2016, Mammone, Rv. 638236, ha affermato che il giudice di merito deve, accertare, nel rispetto dei criteri di ripartizione dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c., se colui che ha proposto la domanda, oltre ad aver provato la specifica lavorazione praticata, abbia anche dimostrato che nell'ambiente nel quale la svolgeva era presente una concentrazione di polveri di amianto superiore ai valori limite.
Sez. L, n. 17376/2016, Cavallaro, Rv. 640884, ha ritenuto sussistere ipotesi di mutatio libelli qualora l'istante dapprima rivendichi i benefici di cui all'art. 13 della l. n. 257 del 1992, allegando la qualità di lavoratore autonomo, e successivamente deduca quella di lavoratore subordinato, trattandosi di azione personale – in quanto volta al pagamento di una prestazione previdenziale – e, quindi, diversamente da quanto accade per le azioni reali, connessa ad un fatto insuscettibile di mutazione senza che muti la domanda, anche qualora il fatto costitutivo presupponga la sussistenza di una certa qualifica normativa.
Avuto riguardo all'arco temporale, Sez. L, n. 18863/2016, Berrino, Rv. 641206, ha interpretato l'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992 nel senso che ai fini della rivalutazione contributiva rileva il solo periodo di lavoro di effettiva e provata esposizione al rischio e non già l'intero periodo coperto da assicurazione obbligatoria contro l'amianto, sicché, in caso di lavoratori marittimi, non sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per l'applicazione analogica dell'art. 24 della legge 26 luglio 1984, n. 413 – che prevede l'accredito di una retribuzione figurativa per la concessione delle prestazioni pensionistiche per i giorni di sabato, domenica, festivi e di ferie trascorsi durante l'imbarco – dovendosi escludere che un periodo di tempo virtuale ai fini pensionistici possa essere equiparato a quello di effettiva esposizione all'amianto.
Sez. L, n. 17395/2016, Doronzo, Rv. 640677, in controversia concernente i benefici da esposizione all'amianto, ha affermato che il principio della rilevabilità d'ufficio della mancata presentazione della domanda amministrativa, posto a tutela dell'interesse pubblico, deve essere coordinato con quello della rituale e tempestiva allegazione dei fatti che determinano l'improponibilità della domanda, sicché la relativa questione non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di cassazione qualora implichi indagini di fatto non indicate nel ricorso. Sez. 6-L, n. 11201/2016, Mancino, Rv. 639835, fa decorrere il termine di decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 dalla data di presentazione della domanda diretta ad ottenere la maggiorazione contributiva e non da quella dell'erogazione della prestazione oggetto di rivalutazione
Il diritto alla rivalutazione monetaria sugli incrementi pensionistici tardivamente corrisposti, essendo necessaria la domanda amministrativa ai fini del riconoscimento del beneficio in oggetto, decorre, secondo Sez. 6-L, n. 08653/2016, Mancino, Rv. 639585, dal centoventesimo giorno dalla presentazione della stessa, allo spirare dello spatium deliberandi in favore dell'INPS di cui all'art. 7 della legge 11 agosto 1973, n. 533, fermo in ogni caso il divieto di cumulo di cui all'art. 16, comma 6, della l. n. 412 del 1991.
Diverse le pronunce in materia: con riferimento agli sgravi per le aziende industriali che impiegano dipendenti nei territori di cui all'art. 1 del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, Sez. L, n. 02208/2016, Tricomi I., Rv. 638656, ha escluso che possa usufruirne, ai sensi dell'art. 59 dello stesso d.P.R., una società farmaceutica che, pur impiegando informatori scientifici che operavano nelle regioni meridionali ed erano ivi residenti, aveva altrove i propri insediamenti produttivi.
Sez. L, n. 15688/2016, Doronzo, Rv. 640795, ha affermato che la concessione degli sgravi contributivi di cui all'art. 3, comma 6, della l. 23 dicembre 1998, n. 448, presuppone che il livello di occupazione raggiunto a seguito delle nuove assunzioni non subisca riduzioni nel periodo agevolato stante la finalità della legge di favorirne l'incremento, cosicché il venir meno di detta condizione determina l'integrale perdita del diritto al beneficio, avendo la norma natura eccezionale e, quindi, ove diversamente interpretata, si porrebbe in contrasto con i vincoli in tema di aiuti di Stato imposti dalla Commissione UE.
Ancora con riferimento all'incremento occupazionale, Sez. L, n. 18402/2016, Ghinoy, Rv. 641138, (riprendendo l'orientamento di Sez. L, n. 17071/2007, Miani Canevari, Rv. 599310) ha ritenuto che il riconoscimento dei benefici previsti dall'art. 8, commi 2 e 4, della l. n. 223 del 1991, in favore delle imprese che assumono personale licenziato a seguito di procedura di mobilità ex artt. 4 e 24 della stessa legge, presuppone che sia accertato che la situazione di esubero sia effettivamente sussistente e che l'assunzione di detto personale da parte di una nuova impresa risponda a reali esigenze economiche e non concreti condotte elusive finalizzate al solo godimento degli incentivi, sicché il diritto ai benefici va escluso ove tra le due imprese sia intervenuto un contratto di affitto del complesso dei beni aziendali, idoneo a configurare un trasferimento di azienda che, ai sensi dell'art. 2112 c.c., importa la continuazione dei rapporti di lavoro con l'acquirente, non avendo rilievo il disposto dell'art. 47, comma 5, della l. n. 428 del 1990, che, nell'escludere l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. in caso di trasferimento di azienda in crisi, disciplina la posizione contrattuale dei lavoratori nel passaggio alla nuova impresa, senza aver riguardo agli aspetti contributivi.
Sez. L, n. 07124/2016, Balestrieri, Rv. 639592, ha precisato che lo sgravio di cui all'art. 59, comma 9, del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 (già art. 14 della legge 2 maggio 1976, n. 183), in quanto concesso al fine dell'incremento occupazionale in zone svantaggiate, spetta anche ai lavoratori assunti con contratti di formazione e lavoro stipulati nei limiti temporali fissati dalla legge premiale, ma convertiti in rapporti a tempo indeterminato successivamente alla data ultima di stipula fissata dalla legge stessa.
Da segnalare Sez. L, n. 12683/2016, Doronzo, Rv. 640257, laddove afferma, con riferimento agli sgravi contributivi di cui all'art. 8, comma 9, della l. 24 dicembre 1990, n. 407, che l'omissione della comunicazione telematica (nella specie, modello "unificato lav") secondo le modalità di cui al d.m. 30 ottobre 2007, emanato in attuazione dell'art. 4-bis del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 181, introdotto dall'art. 6, comma 1, del d.lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, non comporta perdita del beneficio, non prevedendo le norme richiamate alcuna comminatoria di decadenza, ma solo, in forza dell'art. 19 del d.lgs. n. 276 del 2003, l'applicazione di una sanzione amministrativa.
Sez. L, n. 04032/2016, D'Antonio, Rv. 639164, di conferma della pronuncia di merito che aveva escluso la correttezza dell'iscrizione a ruolo effettuata dall'INAIL sulla base di un verbale di accertamento dell'INPS non esecutivo, in quanto impugnato in un giudizio ancora pendente nei confronti del solo ente accertatore, afferma che l'iscrizione a ruolo dei crediti degli enti previdenziali è subordinata, ai sensi dell'art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 46 del 1999, all'emissione di un provvedimento esecutivo del giudice ove l'accertamento su cui la pretesa creditoria si fonda sia impugnato davanti all'autorità giudiziaria, senza distinguere se esso sia eseguito dall'ente previdenziale ovvero da altro ufficio pubblico e senza richiedere la conoscenza, da parte dell'ente creditore, dell'impugnazione proposta.
Con riferimento alla procedura di accertamento Sez. L, n. 01974/2016, Ghinoy, Rv. 638606, ha ribadito che il verbale di accertamento relativo ad omissioni contributive, ritualmente notificato, vale a costituire in mora il contribuente e, ai sensi dell'art. 2943 c.c., interrompe il decorso del termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute.
I profili processuali risultano più specificamente affrontati dalle seguenti pronunce: Sez. L, n. 03486/2016, Manna A., Rv. 638963, ha ribadito che l'opposizione alla cartella esattoriale introduce un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto il rapporto previdenziale, sicché, intervenuta la decadenza per tardiva iscrizione a ruolo dei crediti, l'INPS, pur non potendo più avvalersi del suddetto titolo esecutivo, può chiedere la condanna al corrispondente adempimento nel medesimo giudizio, senza che ne risulti mutata la domanda; la precedente Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638246, ha affermato che nell'opposizione a cartella esattoriale relativa a contributi previdenziali proposta ai sensi dell'art. 615 c.p.c., sussiste la legittimazione passiva necessaria del concessionario allorché si deduca un vizio di notifica degli atti (nella specie, l'omessa tempestiva notifica della cartella determinante la prescrizione del credito) che, in caso di accoglimento dell'opposizione, potrebbe incidere sul rapporto con l'ente impositore, titolare della potestà sanzionatoria sottesa al conseguente inserimento nei ruoli trasmessi. Sez. 6-L, n. 25928/2016, Arienzo, Rv. 642284, ha affermato che il giudice di appello, a fronte di una modifica della prospettazione dell'opponente, che aveva precisato in sede di gravame la data di notifica della cartella esattoriale sulla base della documentazione già allegata in prime cure (non incorrendo, quindi, secondo la S.C., nei divieti di cui all'art. 345 c.p.c.), è tenuto ad attivare i poteri istruttori ufficiosi, con conseguente ammissibilità della produzione della stampa di una visura del percorso della raccomandata spedita dal concessionario, tratta dal sito internet di Poste italiane.
Sempre con riguardo ai profili processuali, e senza specifici precedenti in termini, Sez. L, n. 12450/2016, Riverso, Rv. 640372, ha ritenuto che nell'opposizione allo stato passivo fallimentare promossa dal concessionario dei servizi di riscossione di contributi previdenziali ex art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, qualora il debitore deduca fatti o circostanze che incidono sul merito della pretesa creditoria, o eccepisca in compensazione un proprio controcredito, sussiste il litisconsorzio necessario con l'ente impositore, unico reale legittimato a stare in giudizio, essendo quella del concessionario una legittimazione meramente processuale.
Sez. L, n. 06585/2016, Tria, Rv. 639243, ha affermato che la neutralizzazione dei periodi di sospensione del rapporto assicurativo previdenziale obbligatorio, di cui all'art. 37 del d.p.r. 26 aprile 1957, n. 818 per le obiettive situazioni impeditive ivi indicate, è espressione di un principio generale del sistema previdenziale, diretto ad impedire che il lavoratore perda il diritto alla prestazione previdenziale allorché il versamento contributivo sia carente per ragioni a lui non imputabili. Ne consegue che: 1) non è necessario che la causa impeditiva operi nel corso di un rapporto di lavoro, in atto sospeso; 2) in caso di mancata maturazione del requisito specifico, consistente nella contribuzione richiesta nell'ultimo quinquennio precedente la domanda per la pensione d'invalidità, è sufficiente il requisito contributivo cd. generico; 3) la normativa si applica anche nel caso di contratto a termine purché la causa di sospensione si verifichi dopo l'inizio del rapporto; 4) qualora la causa impeditiva sia la malattia, non è necessario che essa sia definitivamente invalidante.
Con riferimento ai contributi previdenziali dovuti alla gestione artigiani – ma con affermazione suscettibile di estensione generalizzata – Sez. L, n. 07980/2016, Esposito L., Rv. 639379, ha escluso che l'assicurato responsabile dell'omissione possa invocare l'esercizio dei poteri coercitivi dell'INPS al fine di pretendere, successivamente, la fruizione degli effetti della contribuzione omessa.
La successiva Sez. L, n. 07981/2016, Esposito L., Rv. 639249 ha statuito che la diversità dei periodi di debenza, pur nella identità dei termini di riferimento e di connotazione del rapporto, basta a far configurare quali diversi i rapporti contributivi ad essi afferenti, sicché il giudice non può stabilire, con efficacia di giudicato, che le norme sottoposte al suo esame debbano essere interpretate nel senso che anche per il futuro l'obbligo contributivo si atteggi in un determinato modo, in quanto per questa parte giudicherebbe di un rapporto del quale non si sono ancora realizzati tutti i presupposti e, pertanto, ha escluso che in un giudizio relativo al mancato versamento di contributi per la cig e mobilità avesse effetto preclusivo la sentenza passata in giudicato che, con riferimento ad un periodo antecedente, aveva negato ad una società, in quanto a capitale misto, l'esenzione prevista dall'art. 3 del d.lgs. C.p.S. n. 869 del 1947 per le imprese industriali degli enti pubblici.
In materia di emersione del lavoro irregolare, Sez. L, n. 03821/2016, Esposito L, Rv. 638960, ha ritenuto che l'art. 1 della legge 18 ottobre 2001, n. 383 è volto, in un'ottica costituzionale di tutela dei diritti previdenziali ed assistenziali, a dare continuità al lavoro irregolare svolto in epoca precedente alla denuncia di emersione, che mira a favorire, e presuppone la prosecuzione effettiva ed almeno annuale del rapporto regolarizzato, in uno alla regolarizzazione di venti mesi per ogni anno di lavoro successivo all'emersione, cosicché l'espletamento dell'attività lavorativa per il suddetto arco temporale dopo la denuncia, costituisce requisito indispensabile per il godimento dei benefici contributivi, non rilevando, tuttavia, la proposizione della domanda, da parte del lavoratore, in epoca precedente al maturarsi del periodo.
Il tema della sospensione dei termini per l'adempimento degli obblighi contributivi ha ancora occupato la giurisprudenza di legittimità e, con orientamento suscettibile di future applicazioni – stante, purtroppo, la notevole frequenza degli eventi sismici nel nostro paese – Sez. L, n. 02833/2016, Boghetich, Rv. 638932, ha ritenuto che il detto beneficio, per il periodo dall'ottobre 2002 al novembre 2005, disposto, a seguito del terremoto dell'ottobre-novembre 2002, dall'art. 4 del d.l. 4 novembre 2002, n. 245 conv. con modif. in legge 27 dicembre 2002, n. 286, nonché dall'art. 7 dell'ordinanza del Presidente del consiglio dei ministri n. 3253 del 2002 e dalle successive ordinanze omologhe, opera automaticamente in favore dei soggetti residenti o aventi sede operativa o legale nei territori colpiti, non costituendo la comunicazione all'INPS di volerne beneficiare una condizione per la fruizione del beneficio, né un elemento costitutivo del diritto.
A seguito di rimessione della Sez. 6-L, le Sez. U, n. 23397/2016, Tria, Rv. 641632-641633, su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato – superando così l'orientamento fatto proprio, da ultimo, da Sez. L, n. 05060/2016, Torrice, Rv. 639223 – che la scadenza del termine per proporre opposizione a cartella esattoriale, di cui all'art. 24, comma 5, del d.lgs. n.46 del 1999 – ritenuto pacificamente perentorio dalla giurisprudenza costituzionale e da quella di legittimità e di merito – determina la decadenza dalla possibilità di produrre impugnazione, con conseguente irretrattabilità del credito per i contributi previdenziali, ma non comporta alcun effetto di "conversione" del termine di prescrizione breve, nella specie quinquennale ai sensi dell'art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995, in quello ordinario (decennale). Ciò in quanto l'art. 2953 c.c., che prevede tale effetto, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la cartella esattoriale, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell'attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Le S.U. hanno ritenuto di escludere detta "conversione" del termine prescrizionale anche con riferimento all'avviso di addebito dell'INPS, che dal 1° gennaio 2011 ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale dello stesso Istituto. Nella stessa pronuncia si rimarca il peculiare carattere della prescrizione in materia contributivo-previdenziale, in quanto caratterizzata da un regime di "irrinunciabilità", non essendo ammessa – in forza dell'art. 55 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827 – la possibilità di effettuare versamenti a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che rispetto ad essi sia intervenuta la prescrizione, che nella materia in oggetto ha quindi, efficacia estintiva e non meramente preclusiva.
Sul detto termine per la proposizione dell'opposizione nel merito, ai sensi dell'art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, Sez. L, n. 11596/2016, Riverso, Rv. 640229, nel ribadirne la natura decadenziale, ha escluso che la sospensione della riscossione del credito, disposta ai sensi dell'art. 25, comma 2, dello stesso decreto possa incidere sul suo decorso.
L'INPS, secondo Sez. L, n. 08377/2016, Torrice, Rv. 639555, essendo subentrato, in forza dell'art. 19 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e dell'art. 9 sexies della legge 28 novembre 1996, n. 608, di conv. con modif. del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510, a titolo universale nella posizione del soppresso S.C.A.U., è legittimato ad avvalersi dell'effetto interruttivo della prescrizione dei contributi a seguito di verbale di constatazione di illecito amministrativo effettuato da detto ente.
In tema di iscrizione nell'elenco dei lavoratori agricoli, Sez. L, n. 02739/2016, Boghetich, Rv. 638722, – fermo restando che in una controversia avente ad oggetto la prestazione previdenziale lo status di lavoratore agricolo può essere accertato solo incidentalmente – ha ribadito che l'iscrizione suddetta svolge una funzione di agevolazione probatoria ai fini dell'attribuzione delle prestazioni previdenziali, suscettibile di venire meno quando l'INPS, a seguito di controllo, disconosca l'esistenza del rapporto di lavoro, esercitando la facoltà di cui all'art. 9 del d.lgs. 11 agosto 1993, n. 375.
Sez. L, n. 17095/2016, Riverso, Rv. 640787, con riferimento al regime prescrizionale dei contributi INAIL, ha ritenuto applicabile il termine quinquennale di cui all'art. 3, comma 9, della l. n. 335 del 1995, precisando che esso inizia a decorrere con riferimento alla prima rata, dall'inizio della lavorazione e, per quelle successive, dal 16 febbraio di ogni anno, in forza degli artt. 28 e 44 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, posto che alla detta data il datore di lavoro deve calcolare il premio anticipato per l'anno in corso, sulla base delle retribuzioni effettive dell'anno precedente, ed il relativo conguaglio.
In complessa fattispecie relativa a contributi dovuti da società fallita ed a seguito di opposizione alla cartella esattoriale della socia dichiarata fallita in estensione, Sez. L, n. 17412/2016, Spena, Rv. 640678, ha ritenuto che la presentazione da parte dell'INPS dell'istanza di insinuazione al passivo fallimentare, equiparabile alla domanda giudiziale, determina, ai sensi dell'art. 2945, comma 2, c.c., l'interruzione della prescrizione del credito, con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale, anche nei confronti del condebitore solidale del fallito, ex art. 1310, comma 1, c.c., escludendo che gli effetti permanenti dell'interruzione possano collegarsi non già alla presentazione della domanda, ma alla successiva ammissione al passivo
Con riferimento ai profili processuali, Sez. L, n. 23652/2016, Riverso, Rv. 642085, ha escluso l'attivabilità dei poteri istruttori del giudice ai fini dell'acquisizione, in grado di appello, di atti comprovanti l'interruzione della prescrizione da parte dell'INPS.
Sul punto non si segnalano mutamenti degli orientamenti consolidati. Sez. L, n. 02112/2016, Esposito L., Rv. 638701, ha ribadito che in controversia relativa alle sanzioni civili ed interessi per omesso versamento di contributi dovuti all'INPS resta escluso che possa rilevare lo ius superveniens di cui all'art. 116 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante norme di maggior favore per l'obbligato, atteso che nessuna delle disposizioni di detta legge induce a ritenerne la retroattività ed il riferimento del comma 18 dell'art. 116 ai crediti già accertati al 30 settembre 2000 esclude la deroga al principio di irretroattività quanto all'obbligo di immediato pagamento delle predette sanzioni, limitandosi la norma a disciplinare un meccanismo di conguagli per la differenza tra il dovuto e il calcolato ai sensi dei commi precedenti.
In tema di riduzione dell'ammontare delle sanzioni civili, di cui all'art. 116, comma 15, lett. a) della l. n. 388 del 2000, secondo Sez. 6-L, n. 04077/2016, Pagetta, Rv. 639078 – per l'ipotesi in cui il ritardato o mancato versamento dei contributi derivi da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi sulla ricorrenza dell'obbligo – l'integrale pagamento della contribuzione controversa costituisce un presupposto indefettibile ai fini dell'applicazione del più favorevole regime sanzionatorio.
Sez. L, n. 00838/2016, De Marinis, Rv. 638690, ha affermato che in caso di omesso o ritardato pagamento di contributi previdenziali all'INPGI, privatizzato ai sensi del d.lgs. n. 509 del 1994, la disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 116 della l. n. 388 del 2000 non si applica automaticamente poiché detto Istituto, per assicurare l'equilibrio del proprio bilancio, ha il potere di adottare autonome deliberazioni, soggette ad approvazione ministeriale, fermo l'obbligo, a norma dell'art. 76 della stessa legge, di coordinare l'esercizio di tale potere con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, ed ha ritenuto che il nuovo regime sanzionatorio è inapplicabile alle obbligazioni contributive riferite a periodi antecedenti al recepimento della disciplina da parte dell'INPGI.
Sez. L, n. 02327/2016, Esposito L., Rv. 638993, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso una responsabilità dell'INPS per aver ricevuto, e poi annullato, la contribuzione da subordinazione versata per il socio di maggioranza e membro del consiglio di amministrazione di una società – il quale si era ritrovato carente dei requisiti per la pensione di anzianità ma doveva ritenersi consapevole dell'invalidità della contribuzione per essere stato previamente accertato in sede processuale il difetto di subordinazione – affermando che in sede di accertamento sull'affidamento incolpevole, da parte del contraente, sulla validità ed efficacia del rapporto assicurativo con la P.A., il giudice di merito, al fine di escludere o affermare la responsabilità della stessa a norma dell'art. 1338 c.c., deve verificare in concreto se l'invalidità o inefficacia del rapporto assicurativo fossero conoscibili dall'interessato, tenuto conto dell'univocità dell'interpretazione delle norme e della conoscenza o conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità o inefficacia.
Con riferimento agli aspetti processuali, Sez. L, n. 00983/2016, Berrino, Rv. 638601, ha specificato che in caso di omesso versamento dei contributi assicurativi da parte del datore di lavoro e di avvenuta prescrizione dei medesimi, ai fini della costituzione della rendita di cui all'art. 13, comma 5, della legge 12 agosto 1962, n. 1338, sebbene la necessità della prova scritta riguardi solo l'esistenza del rapporto di lavoro mentre la durata e la retribuzione possono essere provati con ogni mezzo, deve logicamente escludersi che sia suscettibile di libera prova la risalenza del rapporto a un periodo antecedente a quello risultante da un attestato di addestramento professionale propedeutico. La stessa pronuncia, Rv. 638600, dando continuità a Sez. L, n. 03756/2003, ha precisato che il diritto del lavoratore di vedersi costituire, a spese del datore di lavoro, la rendita vitalizia è soggetto al termine ordinario di prescrizione, che decorre dalla data di prescrizione del credito contributivo dell'INPS, senza che rilevi la conoscenza o meno, da parte del lavoratore, della omissione contributiva.
Sez. L, n. 23282/2016, Berrino, Rv. 641580, ha affermato, richiamando orientamento già consolidato (Sez. 6-L, n. 01660/2012, Ianniello, Rv. 621088), che la responsabilità contrattuale dell'ente previdenziale per erronee od omesse informazioni da fornire all'assicurato può configurarsi solo ove queste siano rese od omesse su specifica domanda dell'interessato e si riferiscano a dati di fatto concernenti la sua posizione assicurativa, che sono gli unici che l'ente è tenuto a comunicare ex art. 54 della l. n. 88 del 1989.
Sez 6-L, n. 26666/2016, Arienzo, Rv. 642280 (ribadendo quanto a Sez. L., n. 10577/2005, Lamorgese A., Rv. 581901) ha affermato che "in caso di omesso versamento dei contributi assicurativi da parte del datore di lavoro e di avvenuta prescrizione dei medesimi, la necessità della prova scritta ai fini della costituzione della rendita vitalizia (prevista dall'art. 13, commi 4 e 5, della l. n. 1338 del 1962), è relativa solo all'esistenza del rapporto di lavoro, mentre l'estensione temporale di esso e l'importo delle retribuzioni possono essere provati con altri mezzi istruttori, anche orali. È tuttavia escluso il ricorso ad altri mezzi di prova per accertare che il rapporto di lavoro si sia costituito prima di quanto risulta dai versamenti effettuati, quando dal documento emerga con certezza la data della costituzione del rapporto di lavoro."
Riallacciandosi ad orientamento oramai stabile, Sez. 6-L, n. 09013/2016, Pagetta, Rv. 639682, ha ribadito che è inammissibile la domanda di accertamento dell'esistenza di un grado di invalidità finalizzata a fruire di prestazioni previdenziali o assistenziali, non essendo proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionati della fattispecie costitutiva di un diritto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva ritenuto ammissibile l'azione di mero accertamento del grado di invalidità, il cui interesse ad agire era stato specificato solo nel corso del giudizio di primo grado come volto a fruire del beneficio di cui all'art. 80, comma 3, della l. n. 388 del 2000 o dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario).
Sez. 6-L, n. 17461/2016, Arienzo, Rv. 640792, ha precisato con riferimento alla pensione d'inabilità civile, prevista dall'art. 12 della l. 30 marzo 1971, n. 118, che i requisiti relativi alle condizioni sanitarie e a quelle reddituali integrano fatti costitutivi del diritto, per cui, ove in primo grado la domanda sia stato negata in base all'esclusione del solo requisito economico, senza alcun esame di quello sanitario, l'ente convenuto, totalmente vittorioso, non ha alcun onere di impugnativa, stante il disposto dell'art. 346 c.p.c. che impone la riproposizione a pena di decadenza delle eccezioni in senso proprio e non delle mere difese – dirette ad evidenziare il difetto di un elemento costitutivo della domanda – con l'ulteriore conseguenza che, ove la corte d'appello abbia accolto la pretesa sull'esame del solo requisito reddituale, è ammissibile il ricorso per cassazione per l'omessa verifica di quello sanitario.
Nello stesso senso si veda Sez. 6-L, n. 20257/2016, Garri, Rv. 641467, secondo la quale, in presenza di una domanda volta al ripristino della pensione di inabilità di cui all'art. 12 della l. n. 118 del 1971, il giudice può riconoscere la minore prestazione dell'assegno d'invalidità, di cui all'art. 13 della stessa legge, ove ravvisi la sussistenza del requisito sanitario, dovendo, tuttavia, verificare che ne sussistano anche i requisiti socio economici ugualmente previsti.
Dando continuità ad orientamento risalente, Sez. L, n. 21528/2016, Doronzo, Rv. 641435, ha ribadito che, allorché il giudice di appello disponga una nuova (rispetto a quella eseguita in prime cure) ctu, l'eventuale accoglimento della tesi del secondo consulente d'ufficio presuppone necessariamente una comparazione critica delle due relazioni peritali che, peraltro, non postula, tassativamente, un'esplicita esposizione delle deduzioni dell'uno o dell'altro consulente, con analitica confutazione delle argomentazioni poste a base delle conclusioni del primo dei due ausiliari. È tuttavia necessario, precisa la pronuncia, che il giudice del merito non si limiti ad una acritica adesione al parere del secondo ausiliario, ma valuti le eventuali censure di parte, indicando le ragioni per cui ritiene di dover disattendere le conclusioni del primo consulente, così dimostrando di avere tenuto conto delle critiche mosse dalla parte.
In tema di accertamento tecnico preventivo di cui all'art. 445-bis c.p.c., secondo Sez. 6-L, n. 22721/2016, Pagetta, Rv. 641597, la dichiarazione di dissenso che la parte deve formulare al fine di evitare l'emissione del decreto di omologa – ai sensi dei commi 4 e 5 del citato articolo – può avere ad oggetto sia le conclusioni cui è pervenuto il c.t.u., sia gli aspetti preliminari che sono stati oggetto della verifica giudiziale e ritenuti non preclusivi dell'ulteriore corso, relativi ai presupposti processuali ed alle condizioni dell'azione, sicché, in mancanza di contestazioni anche per profili diversi da quelli attinenti l'accertamento sanitario, il decreto di omologa diviene definitivo e non è successivamente contestabile, né il provvedimento ricorribile ai sensi dell'art. 111 Cost. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall'INPS, avverso un decreto di omologa avente ad oggetto l'assegno di invalidità civile, in assenza di una espressa dichiarazione di dissenso per far valere la condizione ostativa del raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età alla data dell'istanza amministrativa).
Seguendo l'orientamento già manifestatosi all'inizio del corrente decennio, Sez. L, n. 00593/2016, Rv. 638229, Tricomi I., ha ribadito che il cittadino straniero, titolare del solo permesso di soggiorno, ha il diritto di vedersi attribuire l'indennità ove ne ricorrano le condizioni previste dalla legge per effetto delle pronunce n. 306 del 29 luglio 2008, n. 11 del 23 gennaio 2009, n. 187 del 2 maggio 2010 e n. 40 del 15 marzo 2013 della Corte cost., che hanno espunto l'ulteriore condizione della necessità della carta di soggiorno, in quanto, se è consentito al legislatore nazionale subordinare l'erogazione di prestazioni assistenziali alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, quando tali requisiti non siano in discussione, sono costituzionalmente illegittime, perché ingiustificatamente discriminatorie, le norme che impongono, nei soli confronti dei cittadini extraeuropei, particolari limitazioni al godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti ai cittadini italiani.
Sez. 6-L, n. 18443/2016, Pagetta, Rv. 641195, ha ritenuto che la provvidenza di cui all'art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 non è cumulabile con l'indennità per cecità totale, ai sensi dell'art.1, comma 2, lett. a), della legge 21 novembre 1988, n. 508 – salvo che il requisito sanitario sia integrato da infermità diverse – in quanto entrambe le prestazioni assistenziali assolvono alle medesime finalità di sopperire a bisogni primari di soggetti in condizioni di gravissima menomazione nello svolgimento della vita quotidiana e dei rapporti sociali.
In tema di indennità di accompagnamento per i ciechi civili, Sez. L, n. 17648/2016, Riverso, Rv. 640820, ha affermato che ai fini della determinazione dell'indennità di accompagnamento spettante ai ciechi civili assoluti, deve applicarsi la tabella E, lett. a), n. 1, allegata alla l. n. 656 del 1986, relativa all'indennità di accompagnamento prevista per le persone affette da cecità bilaterale assoluta per causa di guerra, stante il testuale richiamo contenuto nell'art. 1 della legge 31 dicembre 1991, n. 429 e nell'art. 2, comma 2, della l. n. 508 del 1988; sullo stesso tema, con riferimento all'adeguamento della prestazione, Sez. 6-L, n. 14723/2016, Garri, ha specificato che qualora la richiesta sia effettuata nella vigenza dell'art. 2, comma 1, della l. n. 429 del 1991, esso deve essere effettuato sulla base di quella prevista per le persone affette da cecità bilaterale assoluta e permanente per causa di guerra e non in relazione a quella di assistenza per i grandi invalidi di guerra, con esclusione, pertanto, del diritto all'assegno integrativo di cui al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834. Sez. L, n. 24982/2016, Riverso, Rv. 641985, ha ecluso che l'importo dell'indennità di accompagnamento per i ciechi civili assoluti possa esser equiparato a quello dell'assegno di superinvalidità per i ciechi di guerra, di cui all'art. 1 ed allegato 1 della l. 29 dicembre 1990, n. 422, in quanto la prestazione spettante ai ciechi civili comprende il solo importo base stabilito a titolo di indennità di accompagno e assistenza, oltre all'adeguamento, con esclusione dell'assegno di superinvalidità.
Secondo Sez. L, n. 26473/2016, Berrino, Rv. 642236, può affermarsi che l'interpretazione letterale e logica della norma di cui all'art. 14-septies, comma quarto, del d.l. n. 663 del 1979, conv. con modif. in l. n. 33 del 1980, consente di affermare che ai fini dell'individuazione del limite di reddito ivi previsto per il diritto alle prestazioni spettanti ai ciechi civili ed alle altre specificate categorie di invalidi va preso in considerazione il reddito effettivo, cioè quello imponibile agli effetti dell'imposta sul reddito delle persone fisiche al netto degli oneri deducibili.
Con riferimento ai profilli processuali – e con statuizione suscettibile di estensione alle altre prestazioni assistenziali – Sez. 6-L, n. 01221/2016, Pagetta, Rv. 638284, ha ritenuto che l'ordinanza di rinnovo della consulenza tecnica di ufficio, emanata dalla corte di appello, adita per ottenere la modifica della data di decorrenza della prestazione già riconosciuta dal tribunale, deve intendersi implicitamente revocata qualora, all'esito di successiva valutazione, il relativo motivo di gravame sia dichiarato inammissibile.
Sez. 6-L, n. 24184/2016, Marotta, Rv. 642276, ha poi ritenuto spettante a soggetto inva- lido prima dell'inizio del rapporto assicurativo la pensione di inabilità di cui all'art. 2 della l. n. 222 del 1984, reputando irrilevante la titolarità dell'indennità di accompagnamento.
Sez. L, n. 23443/2016, Doronzo, Rv. 642965, ha affermato che l'art. 3 della l. n. 18 del 1980, nel prevederne la decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione dell'istanza amministrativa, non pone una presunzione di sussistenza, a detta data, dei presupposti per il beneficio, ma un limite temporale alla riconoscibilità di esso, sicché lo stato di infermita' mentale o di incapacità naturale del soggetto richiedente, che non determina la perdita della capacità legale della persona di compiere gli atti per il riconoscimento della prestazione, non giustifica il riconoscimento della prestazione assistenziale perun periodo antecedente a quello fissato dalla legge.
Sez. 6-L, n. 03027/2016, Arienzo, Rv. 638659, ha ribadito che il giudice investito della domanda di pensione di inabilità (art. 12 della l. n. 118 del 1971), per la quale risulti carente il requisito sanitario, qualora, per la percentuale accertata, ricorrano le condizioni per l'attribuzione dell'assegno di invalidità (di cui all'art. 13 della stessa legge), può riconoscere, pur in mancanza di esplicita richiesta dell'interessato, quest'ultima prestazione se sussistano i necessari requisiti socio-economici, in quanto implicitamente compresa nella più ampia domanda di pensione.
In tema di pensione di inabilità, contribuendo a consolidare un precedente orientamento in materia, Sez. L, n. 12837/2016, Riverso, Rv. 640370, ha confermato che, in caso di malattie coesistenti, il danno globale non va computato addizionando le percentuali di invalidità risultanti dalla tabella di cui al d.m. Sanità del 5 febbraio 1992, bensì nella sua incidenza concreta sulla validità complessiva del soggetto, giusta previsione di cui all'art. 4 del d.lgs. 23 novembre 1988 n. 509.
Sez. L, n. 21529/2016, Ghinoy, Rv. 641436, ha precisato che il reddito cui fare riferimento per la pensione d'inabilità civile è quello "imponibile" e pertanto, secondo la formulazione dell'art. 3 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), la base imponibile da assoggettare a tassazione ai fini Irpef, costituita dal reddito complessivo del contribuente al netto degli oneri deducibili indicati nell'art. 10 del TUIR (quali tra gli altri le spese mediche, gli assegni periodici corrisposti al coniuge legalmente separato, i contributi)
Detta conclusione – afferma la pronuncia – posto che è il legislatore ad individuare quale debba essere il reddito rilevante per una determinata prestazione, è sostenuta dall'osservazione che nell'ambito del sistema previdenziale ed assistenziale l'art. 26 della l. n. 153 del 1969 ha escluso dal reddito computabile gli assegni familiari e il reddito della casa di abitazione, che proprio la funzione della prestazione assistenziale, di sostegno a fronte di una situazione di bisogno, impone, ove non previsto diversamente, di fare riferimento al reddito nell'effettiva disponibilità dell'assistibile, assumendo rilievo il grado di bisogno della persona, tutelato dall'art. 38 Cost., e la sua capacità contributiva, valevole in generale ai sensi dell'art. 53 Cost., che quando si è inteso includere nel reddito per una prestazione anche quello esente da imposta, ciò è stato oggetto di espressa previsione (come nel caso dell'art. 3, comma 6, l. n. 335 del 1995). Né induce a diverso avviso, conclude la S.C., l'art. 2 del d.m. n. 553 del 1992 – emanato in forza della delega di cui all'art. 3, comma 2 della l. n. 407 del 1990 – laddove prevede che debbano essere denunciati, al lordo degli oneri deducibili e delle ritenute fiscali, i redditi di qualsiasi natura, assoggettabili all'Irpef o esenti da detta imposta, trattandosi di disciplina individuativa di oneri formali, che non può, quindi, avere alcun carattere interpretativo in ordine al requisito reddituale.
Sempre in tema viene in considerazione Sez. 6-L, n. 01997/2016, Arienzo, Rv. 638713, secondo la quale, ai fini della sussistenza del requisito reddituale per l'erogazione della pensione di inabilità dal 28 giugno 2013 in poi è determinante " il solo reddito personale dell'invalido", mentre non rileva più quello degli altri componenti il nucleo familiare, giusta previsione di cui all'art. 10, comma 5, della legge 28 giugno 2013, n. 76.
Per quanto riguarda la prova del requisito reddituale, Sez. 6-L, n. 09010/2016, Pagetta, Rv. 639683, ha affermato che la stessa può essere soddisfatta solo attraverso la specifica attestazione fornita dall'ufficio finanziario, attestazione rilasciata ai sensi dell'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, posto che le autocertificazioni possono sostituire tale attestazione solo nell'ambito del correlato procedimento amministrativo.
Sul punto risulta di fondamentale importanza anche Sez. L, n. 22484/2016, Doronzo, Rv. 641617, secondo la quale pur non possedendo l'autocertificazione valore probatorio, nel senso che non può essere posta a fondamento della decisione neppure come indizio, ciò non esclude, tuttavia «che essa possa essere utilizzata dal giudice di merito nella sua realtà fenomenica», come "documento" idoneo a sollecitare il suo potere istruttorio d'ufficio.
Sez. 6-L, n. 24094/2016, Arienzo, Rv. 642271, ha affrontato la materia dei presupposti per la revoca dell'assegno di cui all'art. 12 l. n. 118 del 1971, – con riferimento alla legislazione vigente all'epoca della domanda amministrativa – e a precedente giudicato.
Sez. L, n. 22122/2016, Berrino, Rv. 641428, ha escluso la spettanza, in favore del sordomuto ultrasessantacinquenne, dell'assegno di cui all'art. 1, della legge 26 maggio 1970, n. 381, affermando trattarsi di beneficio avente funzione di integrare il presunto mancato guadagno dovuto alla condizione di minorità derivante dalla patologia, logicamente non riconoscibile ai minori degli anni diciotto ed agli ultrasessantacinquenni.
In materia, Sez. L, n. 20050/2016, Boghetich, Rv. 641440, ha affermato che la presentazione di istanza di fruizione della prestazione di cui all'art. 1 del d.lgs. 18 giugno 1998 n. 237, corredata da dichiarazione (di atto notorio) concernente una situazione reddituale, del nucleo familiare, non corrispondente al vero comporta l'applicabilità della fattispecie di cui all'art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 237 del 1998, che sanziona con la revoca e la restituzione delle somme il comportamento dei beneficiari che abbiano presentato dichiarazioni mendaci (nella specie, autodichiarazione sulla mancata percezione di redditi da parte del coniuge).
Sez. L, n. 08573/2016, Di Paolantonio, Rv. 639587, (dando continuità ad orientamento emerso in via generale già nel 2011 – Sez. L, n. 28540/2011, Bandini, Rv. 620366 –, in ordine alla disciplina dei lavori socialmente utili e di quelli di pubblica utilità) ha precisato che il rapporto tra il disposto di cui all'art. 2 del d.lgs.1 dicembre 1997, n. 468, che delinea i settori di attività per i "progetti di lavoro di pubblica utilità", e quello di cui all'art. 3 del d.lgs. 7 agosto 1997, n. 280 diretto ad individuare i "lavori di pubblica utilità", si configura in termini di specificazione all'interno di una medesima tipologia di attività e di un'unica finalità, connessa ad obiettivi di tutela dalla disoccupazione e di inserimento nel lavoro, sicché anche ai lavoratori di pubblica utilità, ove ne ricorrano i presupposti, va riconosciuto l'assegno per il nucleo familiare, spettante ai lavoratori socialmente utili per il richiamo contenuto nell'art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 468 del 1997 alle disposizioni in materia di indennità di mobilità, che ne prevedono il diritto all'art. 7, comma 10, della l. n. 223 del 1991.
In tema, Sez. 6-L, Garri, n. 17800/2016, Rv. 640814, ha affermato che l'esistenza di una soglia minima di indennizzabilità, costituita dalla presenza di una patologia causalmente ascrivibile ad una emotrasfusione – dalla quale sia derivato un danno irreversibile inquadrabile, per equivalente e non in via strettamente tabellare, in una delle infermità classificate nelle categorie previste dalla tabella B, annessa al T.U. approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834 – comporta che, ai fini della decorrenza del termine decadenziale di cui all'art. 3, comma 1, della l. 25 febbraio 1992, n. 210, sia decisiva la consapevolezza, da parte del richiedente l'indennizzo, del suo superamento.
Sez. L, n. 16842/2016, Blasutto, Rv. 640865, ha specificato che in tema di danni da vaccinazioni obbligatorie, gli artt. 1 e 4 della l. 29 ottobre 2005, n. 229 attribuiscono ai "soggetti danneggiati", rispettivamente, un ulteriore indennizzo aggiuntivo rispetto a quello già riconosciuto dalla l. n. 210 del 1992, nonché un assegno "una tantum" per il periodo compreso nel periodo tra il manifestarsi dell'evento dannoso e l'ottenimento dell'indennizzo, sicché entrambi operano retroattivamente attesa, quanto all'assegno, la chiara ratio della disposizione e, quanto all'ulteriore indennizzo, il suo carattere incrementale rispetto a quello di cui il soggetto è già titolare, concorrendo con questo con la medesima decorrenza.
Con affermazione di carattere innovativo, in assenza di specifici precedenti in termini, Sez. L, n. 11018/2016, Amendola F., Rv. 639824, ha riconosciuto l'indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 anche in favore di cittadino italiano il quale, a seguito di interventi chirurgici all'estero, si era ivi sottoposto ad emotrasfusione, sviluppando il virus dell'epatite B, affermando che l'intervento terapeutico effettuato all'estero, a causa della necessità di sopperire a deficienze del S.S.N., e da questo preventivamente autorizzato nella verificata sussistenza dei presupposti di legge, rientra nell'ambito della copertura predisposta da detta legge per la tutela della salute del cittadino italiano.
Sez. L, n. 18401/2016, Tricomi I., Rv. 641196, ha affermato che l'assegno una tantum, previsto dall'art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992, in favore dei superstiti qualora a causa delle vaccinazioni o delle patologie indicate dalla legge sia derivata la morte del soggetto danneggiato, ha come fatto costitutivo del diritto azionato iure proprio l'evento morte, ma presuppone necessariamente anche il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo ex art. 1, comma 1, della medesima legge, sicché il giudicato formatosi sulla carenza dei presupposti dell'indennizzo in favore del danneggiato spiega efficacia anche nei confronti del superstite.
Dando continuità all'orientamento già espresso (da Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077), Sez. L, n. 00597/2016, Buffa, Rv. 638234, ha ritenuto applicabile il termine triennale di decadenza, di cui alla legge 25 luglio 1997, n. 238, anche all'indennizzo previsto dall'art. 1, comma 6, della stessa legge in favore dei figli, danneggiati nella vita intrauterina, da madre affetta da epatite post-trasfusionale, affermando che esso non costituisce prestazione autonoma ma un'estensione di quella generale di cui alla l. n. 210 del 1992.
Sez. L, n. 22776/2016, Boghetich, Rv. 641601, ha affermato che l'art. 30 della legge 27 dicembre 1983, n. 730 – che per la prima volta ha menzionato le attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali – deve essere interpretato alla stregua della legge 23 dicembre 1978, n. 833, che prevede l'erogazione gratuita delle prestazioni a tutti i cittadini, da parte del S.S.N., entro i livelli di assistenza uniformi definiti con il piano sanitario nazionale. Ne consegue che gli oneri delle attività di rilievo sanitario, connesse con quelle socio-assistenziali, sono a carico del Fondo sanitario nazionale. In detta prospettiva si è consolidato l'indirizzo interpretativo, costituente diritto vivente, nel senso che, nel caso in cui oltre alle prestazioni socio-assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, l'attività va considerata comunque di rilievo sanitario e, pertanto di competenza del S.S.N. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di appello, che aveva escluso dall'ambito delle prestazioni socio-assistenziali – ritenendoli unicamente di carattere assistenziale – i trattamenti farmacologici somministrati con continuità a soggetto con grave psicopatologia cronica ospitato in struttura idonea all'effettuazione di terapie riabilitative, ed aveva, pertanto, accolto l'azione di rivalsa esperita dall'ASL, avente ad oggetto le somme spese per la quota alberghiera del ricovero).
Sez. L, n. 20558/2016, Cavallaro, Rv. 641392, ha escluso che nella formazione del reddito coniugale utile ai fini del calcolo della soglia massima consentita per l'accesso all'assegno sociale di cui all'art. 3 della l. n. 335 del 1995 possa rientrare anche l'importo dell'assegno sociale stesso con gli incrementi di cui agli artt. 67 della legge 23 dicembre 1988, n. 448 e 52 della legge 23 dicembre 1999, n. 488.
Secondo Sez. L, n. 22475/2016, Doronzo, Rv. 641522, il divieto di cumulo, posto dall'art. 1, comma 43, della l. n. 335 del 1995, delle prestazioni di invalidità a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti con la rendita vitalizia liquidata dall'INAIL per il medesimo evento invalidante, non incide sulla titolarità del diritto, ma determina solo l'impossibilità per l'assicurato di conseguire l'importo della quota della prestazione di invalidità sino alla concorrenza della rendita.
Sez. L, n. 23529/2016, Cavallaro, in corso di massimazione, ha ritenuto che la domanda amministrativa volta a conseguire l'assegno sociale di cui al detto art. 3 della l. n. 335 del 1995, erogato in via provvisoria salvo successivo conguaglio, a differenza di quanto previsto dall'art. 26, comma 11, della l. n. 153 del 1969 in tema di pensione sociale, non dev'essere corredata dalla certificazione degli uffici finanziari attestante le condizioni di indigenza dell'assistito, sicche' anche la successiva domanda giudiziale non puo' essere ritenuta improponibile per la suddetta omessa allegazione.
Sez. L, n. 17968/2016, Blasutto, Rv. 641079, ha affermato che il permesso ex art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104 è riconosciuto al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile, rispetto alla quale l'assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta, senza che il dato testuale e la ratio della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari.
Delimitando il perimetro di applicabilità del beneficio, Sez. L, n. 18950/2016, Tricomi I., Rv. 641207, ha affermato che la possibilità di usufruire di due ore di permesso giornaliero in alternativa al prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa è riservata, ai sensi dei commi 2 e 7 dell'art. 33 della l. n. 104 del 1992, ai lavoratori genitori, anche adottivi, di minori handicappati nonché agli affidatari di quest'ultimi, mentre i commi 3 e 7 attribuiscono tre giorni di permesso mensile retribuito – e non anche quello di due ore giornaliere – al lavoratore dipendente che assista persona con handicap in situazione di gravità e che di questi sia coniuge, parente, affine entro il secondo grado o affidatario, giustificandosi tale differenziazione di disciplina, ai sensi dell'art. 3 Cost., in relazione alla diversità delle situazioni messe a confronto.
Sez. U, n. 23300/2016, Curzio, Rv. 641631, ha precisato che in ordine ai benefici di cui all'art. 1, comma 565, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, in favore delle vittime del dovere, il legislatore ha configurato un diritto soggettivo, e non un interesse legittimo, in quanto, sussistendo i requisiti previsti, i soggetti di cui al comma 563 dell'art.1 della detta legge, o i loro familiari, hanno una posizione giuridica soggettiva nei confronti della P.A. priva di discrezionalità, sia in ordine alla decisione di erogare o meno le provvidenze che alla misura di esse. Detto diritto non rientra nell'ambito di quelli inerenti il rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici, potendo esso riguardare anche coloro che non abbiano con l'amministrazione un siffatto rapporto, ma abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio, e trattandosi di diritto di natura prevalentemente assistenziale la competenza è regolata dall'art. 442 c.p.c. e la giurisdizione è del giudice ordinario, quale giudice del lavoro e dell'assistenza sociale.
Sez. U, n. 23396/2016, Curzio, Rv. 641634, ha quindi affermato che al militare di leva rimasto ferito, con esiti permanenti, nel corso di un'azione di addestramento notturna, svolta accidentalmente – per errore commesso da altro militare – con armi cariche, competono i benefici di cui di cui all'art. 1, commi 563 e 564, della l. n. 266 del 2005, la cui attribuzione presuppone che i compiti, rientranti nella normale attività d'istituto, siano svolti in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, e si siano complicati per l'esistenza o per il sopravvenire di circostanze o eventi straordinari (quale, nella specie, l'uso di bomba a mano carica anziché inerte), ulteriori rispetto al rischio tipico ontologicamente e ordinariamente connesso all'ambiente militare.
Riprendendo un orientamento risalente, Sez. L, n. 02739/2016, Boghetich, Rv. 638721, ha ribadito che nel giudizio instaurato per ottenere l'accertamento negativo dell'obbligo di restituire quanto l'ente previdenziale ritenga indebitamente percepito, è a carico esclusivo dell'accipiens l'onere di provare i fatti costitutivi del diritto a conseguire la prestazione contestata, ovvero l'esistenza di un titolo che consenta di qualificare come adempimento quanto corrisposto.
Sez. L, n. 17417/2016, Spena, Rv. 640791, ha ritenuto insussistente l'errore imputabile all'ente erogatore, ai fini dell'applicazione dell'art. 13, comma 1, della l. n. 412 del 1991, qualora la liquidazione della pensione sia avvenuta sulla base dei dati contributivi trasmessi dal datore di lavoro, non essendo configurabile un onere dell'ente previdenziale di sottoporre a verifica tali dati prima di procedere all'erogazione della prestazione.
Sez. L, n. 18963/2016, Berrino, Rv. 641204, ha ritenuto che in caso di indebita percezione del trattamento pensionistico, per effetto della reintegra nel posto di lavoro a seguito di impugnativa di licenziamento, non è ravvisabile un comportamento doloso del pensionato, di cui alla speciale disciplina dettata dall'art. 1, comma 265, della l. n. 662 del 1996, pur nell'ipotesi di omessa comunicazione del provvedimento di reintegra, tenuto conto dell'originaria buona fede sussistente nel momento in cui il lavoratore ha iniziato ad usufruire del trattamento pensionistico ma che, tuttavia, l'obiettiva incompatibilità con il trattamento retributivo, in assenza di un titolo idoneo a giustificare l'erogazione dei ratei di pensione, rende applicabile la disciplina generale di cui all'art. 2033 c.c.
Le fonti normative che regolano la materia della previdenza sociale si caratterizzano per una estesa eterogeneità, che anche per il 2016 ha determinato nell'ambito giurisprudenziale l'affermarsi di significativi principi regolanti in via generale le prestazioni previdenziali rese dall'INPS.
Restringendo l'ambito di applicabilità della decadenza in materia di prestazioni previdenziali, Sez. L, n. 16549/2016, Riverso, Rv. 640846, seguita da Sez. L, n. 21319/2016, Riverso, Rv. 641501, hanno affermato che l'art. 47 del d.P.R. n. 639, del 1970, come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. d), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modif. in legge 15 luglio 2011, n. 111, non si applica alle domande di riliquidazione di prestazioni pensionistiche, aventi ad oggetto l'adeguamento di prestazioni già riconosciute, ma in misura inferiore a quella dovuta, liquidate prima del 6 luglio 2011, data di entrata in vigore della nuova disciplina.
In tema si veda anche Sez. L, n. 18097/2016, Di Paolantonio., che ha ritenuto applicabile alle prestazioni previdenziali in favore dei lavoratori socialmente utili la decadenza annuale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 (nel testo modificato dall'art. 4 del d.l. n. 384 del 1992, conv. con modif. in l. n. 438 del 1992), che non consente lo spostamento in avanti del dies a quo per l'inizio del computo del termine decadenziale, affermando che qualora l'azione giudiziaria sia iniziata decorso detto termine, risulta irrilevante l'omessa comunicazione all'interessato degli avvertimenti di cui al comma 5 del medesimo art. 47.
Su tematica di carattere generale, Sez. 6-L, n. 03990/2016, Garri, Rv. 638889, ha ribadito come la decadenza contemplata nell'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 e successive modificazioni, sanzionante la mancata proposizione dell'azione giudiziaria finalizzata al riconoscimento di determinate prestazioni previdenziali, sia dettata a tutela dell'interesse pubblico alla definitività e certezza dei provvedimenti concernenti l'erogazione di spesa e gravanti sui bilanci pubblici, con la conseguenza che la stessa è sottratta alla disponibilità delle parti, ed è rilevabile d'ufficio.
Sez. 6-L, n. 24104/2016, Fernandes, in corso di massimazione, con riferimento agli accessori dovuti sui ratei di prestazioni assistenziali o previdenziali ha chiarito, ribadendo orientamento costante, che quando il diritto ad una (maggiore) prestazione previdenziale sorga dalla data di entrata in vigore della legge che lo prevede, e non vi sia necessità di presentazione della domanda amministrativa per il suo conseguimento, gli interessi e la rivalutazione maturano, a norma dell'art. 442 c.p.c. come inciso dalla sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 1991, dopo il decorso del termine di centoventi giorni computato a partire dalla data stessa di entrata in vigore della nuova legge (Nella specie, la S.C. ha applicato detto principio a fattispecie in cui a decorrere dal 1 luglio 1997 – data di entrata in vigore dell'art. 3, comma 22, del d.lgs. 24 aprile 1997, n. 164 abrogativo della disciplina anticumulo – decorrevano i 120 giorni, trascorsi i quali era configurabile un ritardo dell'adempimento, ribadendo la necessità della domanda amministrativa prima dell'inizio dell'azione giudiziaria relativa al pagamento degli accessori prevista dall'art. 41, comma 1, del d.l. n. 269 del 2003 conv. con modifiche in l. n. 326 del 2003).
Sez. L, n. 26161/2016, Berrino, in corso di massimazione, ha ritenuto venuta meno la decadenza in tema di ricorso avverso rigetto dell'iscrizione negli elenchi lavoratori agricoli, a seguito dell'abrogazione dell'art. 22 del d.l. del 3 febbraio 1970 n. 7, conv. con. modif. nella l. 11 marzo 1970, n. 83, ad opera dell'art. 24 (e del richiamato allegato A) del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. nella l. 6 agosto 2008, n. 133.
Sez. L, n. 01186/2016, Tria, Rv. 638391, ha approfondito la problematica concernente la riduzione della capacità lavorativa necessaria per ottenere l'attribuzione dell'assegno di invalidità in relazione al carattere usurante dell'attività lavorativa, ed ha chiarito che costituisce lavoro usurante quello che accelera ed accentua il logoramento dell'organismo in quanto sproporzionato rispetto alla residua efficienza fisiopsichica di cui il lavoratore dispone.
Sez. L, n. 21708/2016, Riverso, in corso di massimazione, ha poi affermato che per l'assegno di invalidità ex art. 1 della l. n. 222 del 1984, riconosciuto per tre anni e rinnovabile a domanda per lo stesso periodo, l'INPS, in forza dell'art. 9 della stessa legge, è titolare di un autonomo potere di revisione, attivabile discrezionalmente anche prima della scadenza del triennio di durata della prestazione, tanto sia in base alla lettera della normativa richiamata, che non sottopone a limiti temporali il detto potere, né lo raccorda al periodo per il quale la prestazione è stata riconosciuta, sia in base ad una sua lettura logica e sistematica, in quanto i trattamenti previdenziali sono prestazioni temporanee correlate all'esistenza di requisiti sanitari, suscettibili di verifiche per accertarne la permanenza.
La coeva Sez. L, n. 21709/2016, Riverso, in corso di massimazione, ha specificato che, in tema di assegno di cui all'art. 1, della l. n. 222 del 1984, dal comma 7 di tale articolo, che ne prevede la conferma per tre periodi triennali consecutivi previa domanda del titolare – della quale la stessa legge regola termini ed effetti – deriva il principio dell'indispensabilità della domanda amministrativa in relazione a ciascuno dei tre periodi di fruizione triennali, precedenti quello di godimento automatico di cui al successivo comma 8. Ne consegue che la pendenza di un giudizio sulla spettanza dell'assegno per un triennio, su domanda dell'interessato, non può comportare né che l'assicurato non abbia l'onere di inoltrare domanda per il successivo triennio, né che l'accertamento giudiziario pendente si debba estendere automaticamente al triennio successivo.
Sul tema concernente la decorrenza del termine di prescrizione del diritto alla percezione della pensione di reversibilità del coniuge scomparso, si segnala Sez. L, n. 17133/2016, Cavallaro, Rv. 640896, in base alla quale viene affermato il principio secondo cui il diritto alla percezione della prestazione nasce dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di morte presunta, con la conseguenza che anteriormente a tale momento non decorre il relativo termine di prescrizione del diritto.
Sul rapporto intercorrente tra l'assegno divorzile e la pensione di reversibilità è di rilievo citare Sez. L, n. 09054/2016, Doronzo, Rv. 639581, secondo la quale la corresponsione dell'assegno divorzile in unica soluzione, a seguito di accordo tra le parti, essendo satisfattivo di qualsivoglia obbligo di sostentamento nei confronti del soggetto beneficiario, comporta l'impossibilità per quest'ultimo di avanzare ulteriori pretese di contenuto economico, comprese quelle correlate al decesso dell'ex coniuge, tra le quali si annovera il diritto alla pensione di reversibilità.
In tema, poi, di attribuzione di quota di reversibilità spettante per il figlio studente, la recentissima Sez. L, n. 23285/2016, Riverso, in corso di massimazione, ha affermato un importante principio, secondo il quale sia per avere diritto alla prestazione pensionistica " pro quota", sia per escludere la cumulabilità del reddito del beneficiario, è sufficiente che lo studente (infra ventunenne ) frequenti un istituto scolastico ( anche privato) che si occupi anche del recupero degli anni scolastici e della prosecuzione degli studi al fine del conseguimento di un diploma presso un istituto abilitato che abbia valore legale e permetta l'accesso a qualsiasi concorso e scuola universitaria.
Sull'istituto della pensione di reversibilità si segnala, inoltre, quanto affermato da Sez. L, n. 21707/2016, D'Antonio, Rv. 641421, secondo la quale è conforme agli orientamenti in materia assunti dalla Corte costituzionale, ritenere che il diritto al trattamento pensionistico ai superstiti debba essere ricondotto all'impossibilità per l'orfano studente di procurarsi un reddito, con la conseguenza che la prestazione di un lavoro retribuito, quale ragione di esclusione della quota di pensione, non può attenere ad attività lavorative precarie, saltuarie e con reddito minimo, bensì riguardare solo le normali prestazioni lavorative, durature e qualificate da adeguata retribuzione.
Va infine certamente annotata anche Sez. L, n. 20680/2016, Berrino, Rv. 641418, che, ai fini dell'individuazione della disciplina applicabile in tema di diritto all'integrazione al minimo della pensione di reversibilità, ha ribadito che quello previdenziale è un tipico rapporto di durata, che nasce in presenza dei presupposti previsti dalla legge per la sua insorgenza, e che perdura nel tempo, fino a quando non sopraggiungano altre condizioni di fatto previste dal legislatore per la sua estinzione, con la conseguenza che nell'ipotesi in cui nel corso del rapporto intervenga una successione di leggi, la nuova disciplina, mentre non può incidere negativamente sul fatto generatore del diritto alla prestazione previdenziale, le cui condizioni di esistenza sono definitivamente disciplinate dalla legge abrogata, può, invece, legittimamente regolamentare gli effetti giuridici che sono sorti sulla base del fatto generatore del diritto alla prestazione previdenziale.
In materia di ricongiuzione dei periodi assicurativi, Sez. L, n. 08726/2016, Torrice, Rv. 639554, ha chiarito che, ai fini della pensione di anzianità, costituisce presupposto indispensabile che il lavoratore sia titolare di contribuzione in almeno due gestioni pensionistiche differenti.
In tema di cumulo tra pensione e redditi di lavoro, Sez. L, n. 08067/2016, Negri Della Torre, Rv. 639572, ha stabilito che gli iscritti all'Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani non sono assoggettabili alla stessa disciplina prevista per gli iscritti all'AGO, dovendosi ai primi applicare l'art. 15 del regolamento dell' INPGI, con la conseguenza che la non comparabilità tra le due diverse discipline rende manifestamente infondata qualsiasi questione di legittimità costituzionale.
In materia di ricongiunzione tra periodi assicurativi, va annotata Sez. L, n. 00015/2016, Esposito L., Rv. 638386, secondo la quale il lavoratore dipendente o il lavoratore autonomo, già iscritto a forme di previdenza per liberi professionisti e cessato dall'iscrizione per avvenuta cancellazione dall'albo professionale, ai fini del conseguimento della pensione di anzianità presso l'INPS, può effettuare "la ricongiunzione" dei periodi di contribuzione maturati presso altre forme previdenziali nella gestione cui risulti iscritto in qualità di lavoratore dipendente, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge 5 marzo 1990, n. 46.
Secondo Sez. L, n. 00705/2016, Manna A., Rv. 638233, il lavoratore che sia titolare di due rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale cd. orizzontale, collocato in mobilità per uno dei due con prosecuzione dell'altro, ha diritto all'indennità di mobilità considerata la facoltà, contemplata per l'iscritto alle liste di mobilità, dall'art. 8, comma 6, della l. n. 223 del 1991, di svolgere lavoro a tempo parziale pur mantenendo la relativa iscrizione.
In tema di anticipazione della indennità di mobilità, Sez. L, n. 17174/2016, Doronzo, Rv. 640899, ha stabilito che, il lavoratore beneficiato della corresponsione anticipata dell'indennità di mobilità deve restituire la provvidenza, qualora assuma una occupazione alle altrui dipendenze nel settore privato o in quello pubblico, con decorrenza dal giorno in cui vi è stata l'effettiva corresponsione della suddetta prestazione, e non invece dal giorno della domanda volta ad ottenere il beneficio.
In riferimento all'assicurazione contro la disoccupazione, Sez. L, n. 17303/2016, Cavallaro, Rv. 640882, ha chiarito che la relativa indennità prevista dall'art. 34, comma 5, della l. n. 448 del 1998, non può essere erogata nell'ipotesi di dimissioni del lavoratore, quando lo stesso rinunci spontaneamente al posto, pur potendo proseguire il rapporto di lavoro, con la conseguenza che detta ipotesi deve, parimenti, ritenersi operante nel caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Sulle modalità procedimentali finalizzate ad ottenere l'attribuzione dell'indennità di disoccupazione si segnala Sez. L, n. 17404/2016, Doronzo, Rv. 641002, secondo cui la mancata presentazione della domanda di ammissione alla prestazione entro il termine di sessanta giorni previsto dall'art. 129, comma 5, del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, produce la decadenza dal diritto, essendo termine stabilito nell'interesse della certezza di una determinata situazione giuridica, la cui proroga, sospensione o interruzione può intervenire solo in casi eccezionali espressamente previsti dalla legge.
In tema di provvidenze per la maternità, assume particolare rilievo la pronuncia Sez. L, n. 11129/2016, Balestrieri, Rv. 639837, secondo la quale i diritti fondamentali tutelati dalla cd. Carta di Nizza possiedono efficacia precettiva solo quando una normativa nazionale ricada nell'ambito di applicazione del diritto dell' Unione; sulla base di tale principio ne deve escludersi, pertanto, l'immediata applicabilità in tema di diritto del padre libero professionista alla percezione dell'indennità di maternità di cui all'art. 70 del d.lgs. 26 marzo 2001, n.151.in alternativa alla madre biologica.
Sempre in tema di corresponsione dell'indennità di maternità ai liberi professionisti (notai), Sez. L, n. 09757, Spena, Rv. 639732, ha stabilito che, in base al regime giuridico di cui all'art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, come modificato dalla legge 15 ottobre 2003, n. 289, la Cassa Nazionale del Notariato, non è tenuta a motivare il mancato esercizio del potere discrezionale di aumento del massimale, atteso che tale facoltà si conforma a parametri esterni e certi, prefissati per legge.
Va segnalata infine Sez. L, n. 08594/2016, Bronzini, Rv. 639586, la quale ha specificato che l'indennità di maternità per le libere professioniste, disciplinata dall'art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 ha come scopo primario, oltre la protezione del nascituro e del nucleo familiare, anche l'ulteriore finalità di tutela della madre biologica, che nel periodo anteriore e successivo al parto assume una posizione non assimilabile a quella del genitore di sesso maschile, di conseguenza non risulta irragionevole nè discriminatoria la mancata estensione al padre della relativa provvidenza..
Il quadro del sistema della tutela infortunistica emerge dall'assetto complessivo, nel suo valore storico di dirittto vivente, attraverso l'indicazione delle varie pronunce dalle quali si possono trarre fondamentali indicazioni nomofilattiche.
In tema di contributi INAIL, viene in rilievo Sez. L, n. 05904/2016, Spena, Rv. 639051, secondo la quale, in base al disposto dell'art. 5 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, l'obbligo assicurativo per i lavoratori subordinati indicati nell'art. 49, comma 2, lett. a) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, opera soltanto a condizione che gli stessi svolgano le attività previste dall'art. 1 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, o in correlazione allo svolgimento di mansioni che richiedano in via non occasionale l'utizzo di veicoli a motore da essi personalmente condotti.
Sempre sul piano generale assume prioritaria rilevanza quanto stabilito da Sez. U, n. 13372/2016, Vivaldi, in corso di massimazione, che, sul tema dei limiti dell'azione di surrogazione esercitabile dall'istituto previdenziale, ha stabilito che la surrogabilità ed i suoi limiti rappresentano un posterius rispetto alla sussistenza dei presupposti costituiti dall'entità del danno e della sua risarcibilità, e ciò, anche ai fini dell'individuazione degli elementi necessari per l' applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, che è strettamente connesso con il tema della cumulabilità delle varie voci di danno e dell'applicazione del correlato principio del risarcimento del danno effettivo.
Sulla tematica centrale dell'infortunio in itinere, Sez. L, n. 07313/2016, Riverso, Rv. 639304, ha affermato che l'uso della bicicletta privata per il tragitto " luogo di lavoro – abitazione" è ammissibile sulla base del principio di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, anche per garantire un più intenso rapporto con la comunità familiare e per assicurare l'esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro, restando tuttavia escluso il cd. rischio elettivo, da intendersi, quale estraneo e non inerente all'attività lavorativa, e correlato ad una opzione arbitraria del lavoratore.
Sempre sull'istituto dell'infortunio in itinere, Sez. L, n. 13882/2016, Riverso, Rv. 640481, ha stabilito che, ai fini dell'indennizzabilità rappresenta occasione di lavoro rilevante ai sensi dell'art. 2 del d.P.R.. n. 1124 del 1965, anche la riunione promossa dal datore di lavoro presso la propria sede, ed avente ad oggetto l'organizzazione dell'impresa, con la conseguenza che la presenza del lavoratore lungo il percorso necessario per recarsi a tale riunione è sicuramente riferibile all'attività lavorativa, senza alcuna rilevanza per la qualità soggettiva di sindacalista rivestita dal lavoratore, che, in tale veste, ha partecipato alla riunione; ciò in quanto la tutela prevista dagli artt. 4 e 9 del d.P.R. n. 1124 del 1965 trova applicazione anche nei confronti dei dirigenti sindacali che non siano in aspettativa.
In ordiena alla rendita da malattia professionale, Sez. L, n. 14774/2016, Doronzo, Rv. 640732, ha chiarito che nell'ipotesi di soppressione della rendita la posizione dell'interessato al ripristino della provvidenza va equiparata a quella dell'assicurato nel giudizio di revisione, con la conseguente applicabilità nel giudizio di ripristino, del termine di decadenza annuale di cui all'art. 137, comma 7, del d.P.R. n. 1124 del 1965, con decorrenza dal giorno di maturazione del diritto (ovvero dalla data in cui è sorto il diritto alla rendita).
Sulla tematica generale concernente gli obblighi assicurativi del datore di lavoro deve segnalarsi Sez. L, n. 23146/2016, De Gregorio, in via di massimazione, secondo la quale deve escludersi la responsabilità del datore di lavoro in materia di tutela assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali in ragione dei limiti posti dall' art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre nell'ipotesi di eventi lesivi eccedenti la copertura assicurativa obbligatoria, verificatisi in danno del lavoratore e causalmente collegati alla nocività dell'ambiente di lavoro, opera l'art. 2087 c.c., quale norma di chiusura del sistema antifortunistico; disposizione che impone al datore di lavoro di adottare anche in difetto di una specifica norma preventiva tutte le necessarie misure generiche di prudenza e diligenza.
Di fondamentale importanza risulta anche Sez. L, n. 23653/2016, Riverso, in corso di massimazione, che, in relazione ed ai fini delle erogazioni delle prestazioni assicurative gestite dall'INAIL in materia di esposizione all'amianto, individua quale presupposto fondamentale che il lavoratore sia stato, comunque, esposto all'amianto per motivi professionali, con conseguente tutela dello stesso da parte del sistema assicurativo in caso di acclaramento della malattia professionale.
In materia di rendita ai superstiti, Sez. L, n. 13060/2016, Doronzo, Rv. 640249, ha dato continuità a precedenti pronunce sul punto, ribadendo che la fattispecie costitutiva del relativo diritto è data non solo dall'eziologia della malattia, ma, anche dalla sussistenza del nesso di causalità intercorrente tra la tecnopatia e la morte del lavoratore.
Sul tema concernente la classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi dovuti all'INAIL, Sez. L, n. 07429/2016, Boghetich, Rv. 639249, ha affermato che, qualora un'impresa sia organizzata su moduli lavorativi multipli, spetta al giudice di merito accertare in concreto, quale tra quelle svolte, possieda la connotazione di lavorazione principale e, quindi, se le altre lavorazioni si pongano in correlazione non solo tecnica, bensì funzionale con la prima, fornendo beni e servizi strettamente necessari per la lavorazione principale, sicchè solo all'esito di tale positivo riscontro potrà essere attribuita alle lavorazioni ausiliarie la voce tariffaria corrispondente alla lavorazione principale.
In riferimento ai postumi invalidanti da infortunio sul lavoro, nella fattispecie di danni composti, ovvero comprensivi di più lavorazioni, Sez. L, n. 11509/2016, Ghinoy, Rv. 639826, ha ribadito che ai fini della costituzione della rendita, l'incidenza della menomazione va valutata complessivamente, avuto conto dell'entità del pregiudizio effettivo dell'apparato e della funzione coinvolta, senza la sommatoria delle percentuali relative alle singole menomazioni secondo i criteri di cui al d.m. 12 luglio 2000.
Della tematica generale dell'azione di rivalsa dell'INAIL ai sensi degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, si è occupata, approfondendo un rilevante profilo processuale, Sez. L, n. 12198/2016, Negri Della Torre, Rv. 640329, secondo la quale, la prova che le erogazioni assicurative di cui l'Istituto chieda il rimborso siano nella fattispecie concreta superiori rispetto al risarcimento del danno conseguibile dal lavoratore infortunato, spetta al datore di lavoro, posto che trattasi di fatto impeditivo del diritto azionato dall'ente.
Sul fondamentale istituto del regresso all'interno del sistema assicurativo infortunistico, risulta di particolare rilievo il principio affermato da Sez. L, n. 04089/2016, D'Antonio, Rv. 639145, secondo cui le variazioni di ammontare del credito vantato dall'ente nei confronti del datore di lavoro responsabile dell'infortunio subito dal lavoratore, essendo conseguenti a quelle della rendita, non costituiscono domande nuove ma mere precisazioni del petitum originario, sicchè tale credito, in quanto di valore, va determinato con riferimento alla data di liquidazione definitiva, con l'ulteriore effetto che l'eventuale maggior ammontare rispetto a quanto dedotto in primo grado per effetto di svalutazione monetaria o di rivalutazione della rendita, può essere richiesto senza necessità di dover proporre appello incidentale sul punto.
In linea con un orientamento in via di consolidamento, Sez. L, n. 04225/2016, Blasutto, Rv. 639196, sul tema dei rapporti tra l'esercizio dell'azione penale e l'azione di regresso ha chiarito che nel caso di infortunio sul lavoro per il quale sia stata esercitata l'azione penale, ove il relativo processo si sia concluso con sentenza di non doversi procedere o in sede dibattimentale per essersi il reato estinto per intervenuta prescrizione, non essendovi stato accertamento sui fatti-reato, il termine triennale di decadenza per la proposizione dell'azione di regresso decorrerà solo dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale.
Sul piano processuale, con specifico collegamento con le problematiche inerenti l'azione di regresso, Sez. 6-L, n. 17387/2016, Arienzo, Rv. 640879, ha ribadito che la competenza territoriale a conoscere del giudizio avente ad oggetto l'azione di regresso nei confronti del datore di lavoro spetta al giudice del luogo in cui si trova la sede territoriale dell'ente previdenziale che ha istruito la pratica dell'infortunio ed ha disposto l'erogazione della relativa indennità.
Infine rileva quanto affermato da Sez. L, n. 13061/2016, Riverso, Rv. 640182, secondo la quale il datore di lavoro è uno dei soggetti del rapporto trilaterale instaurato con l' INAIL, di conseguenza, se convenuto in regresso, può declinare la pretesa recuperatoria provando che al lavoratore ed ai suoi eredi sono state erogate dall'ente prestazioni indebite.
Sulla tematica concernente il danno differenziale, si segnala Sez. L, n. 04025/2016, Boghetich, Rv. 639165, secondo la quale, il datore di lavoro risponde dei danni subiti dal lavoratore infortunato entro i limiti del cd. danno differenziale, che non comprende le componenti del danno biologico coperte dall'assicurazione obbligatoria, con la conseguenza che per le fattispecie antecedenti all'entrata in vigore dell'art. 13 del d.lgs n. 38 del 2000, il datore di lavoro risponde dell'intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtato quanto erogato a titolo di rendita INAIL.
L'istituto del cumulo dei contributi versati presso diverse gestioni previdenziali disciplinato dall'art. 1 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 42, che consente la ricongiunzione dei vari periodi contributivi, a condizione che gli stessi non siano coincidenti, secondo Sez. L, n. 08887/2016, Boghetich, Rv. 639583, non è applicabile agli agenti e rappresentanti di commercio il cui trattamento pensionistico gravante sul fondo di previdenza gestito dall' ENASARCO non sostituisce il regime generale con caratteri di esclusività ed autonomia, ma lo integra, con persistente e contemporanea obbligatorietà dell' iscrizione all'assicurazione generale dell'INPS.
Dando soluzione di continuità ad un orientamento ormai consolidato, Sez. L, n. 04296/2016, Tria, Rv. 639003, ha ribadito che l'art. 343, comma 6, del d.lgs. 7 settembre 2005, n.209, che ha previsto la non assoggettabilità all'obbligo di iscrizione all'ENASARCO degli agenti e sub-agenti assicurativi, non possiede natura interpretativa ad effetto retroattivo, o valore innovativo esclusivamente per il futuro, poichè trattasi di disposizione meramente ricognitiva di un'esclusione già operante al momento della sua entrata in vigore.
In materia di omesso o ritardato pagamento di contributi previdenziali all' INPGI, secondo Sez. L, n. 12897/2016, Riverso, Rv. 640369, il datore di lavoro che ritenesse sussistente l'obbligo contributivo con l' INPS anzichè con l' INPGI, non può invocare l'errore scusabile ai sensi dell' art. 1189 c.c., posto che il datore di lavoro, sul quale incombe il relativo onere probatorio, non può ignorare il contenuto dell'attività lavorativa espletata dai propri dipendenti.
In materia di iscrizione all' INPGI, Sez. L, n. 11407/2016, De Gregorio, Rv. 639932, ha affermato che l'art. 38 della legge 5 agosto 1981, come modificato dall'art. 76 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha esteso il regime sostitutivo dell' INPGI in favore dei giornalisti pubblicisti con correlata attribuzione della facoltà di optare per il mantenimento dell'iscrizione presso l' INPS entro il termine di sei mesi a decorrere dal 1° gennaio 2001, e con la conseguenza che il mancato esercizio di tale opzione determina l' automatica iscrizione alla gestione INPGI.
In ordine alla pensione di anzianità, Sez. L, n. 04092/2016, Blasutto, Rv. 639205, ha ribadito che l'art. 3 della legge 20 settembre 1980, n. 576, che prevede la corresponsione della pensione di anzianità a coloro che vantano trentacinque anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla cassa di previdenza ed assistenza per gli avvocati ed i procuratori, va interpretato nel senso che l'iscrizione per essere effettiva deve essere correlata al continuativo esercizio dell'attività professionale, con la conseguenza che la sola iscrizione, quale presupposto indefettibile, non è di per se stessa utile ai fini della maturazione del diritto alla prestazione.
Sez. L, n. 06701/2016, Torrice, Rv. 639298, ha ribaditto la legittimità dell' art. 10, comma 8, del regolamento della Cassa di Previdenza dei Dottori Commercialisti, approvato con decreto interministeriale del 10 luglio 2004, che ha modificato il sistema di gestione con passaggio dal modello di calcolo reddituale a quello contributivo in termini conformi all'obbligo di assicurare l'equilibrio di bilancio previsto dall'art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995.
Sul principio generale dell'intangibilità del trattamento pensionistico, risulta di notevole rilievo quanto affermato da Sez. L, n. 06702/2016, Torrice, Rv. 639927, la quale dopo aver premesso che in tema di pensione dei liberi professionisti, non si rinviene nel sistema un'espressa previsione di tale principio, ha ribadito l'illegittimità dell'art. 40 del regolamento della Cassa dei Ragionieri e Periti commerciali, che, con l'introduzione del contributo di solidarietà ha violato i limiti posti dall' art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995, imponendo una trattenuta incompatibile con il rispetto del principio del "pro rata" previsto in relazione alle anzianità già maturate, ed ulteriormente lesivo dell'affidamento dell'assicurato a conseguire una pensione proporzionale rispetto ai contributi versati.
In materia di previdenza integrativa Sez. L, n. 06004/2016, Spena, Rv. 639050, ha chiarito che i dipendenti del cd. parastato potevano far valere la responsabiltà per mancata ricongiunzione o riscatto della posizione pensionistica fino al 1° ottobre 1999, data di soppressione dei Fondi di previdenza integrativa degli enti parastatali, previa formale diffida da esperire nei conftonti del Ministero del lavoro, sul quale incombeva l'obbligo di emanare il decreto recante i necessari criteri attuativi sugli oneri di ricongiunzione o riscatto ai sensi dell' art. 18, comma 9, del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124.
Sull'istituto della portabilità della posizione individuale, ovvero del trasferimento dei contributi maturati da un dipendente cessato dal servizio prima di aver conseguito il diritto alla pensione complementare verso un fondo cui lo stesso dipendente acceda dopo aver intrapeso una nuova attività, Sez. L, n. 17960/2016, D'Antonio, in corso di massimazione, ha ribadito che la portabilità e la riscattabilità della posizione contributiva individuale trovano immediata applicazione anche ai fondi di previdenza preesistenti alla entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, ed indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, e quindi con riferimento non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, bensì, anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva.
In tema di intervento del Fondo di garanzia gestito dall'INPS, Sez. 6-L, n. 17801/2016, Garri, Rv. 640812, ha dato continuità a precedenti intervenuti in materia, chiarendo che, nel caso di insolvenza del datore di lavoro, gli importi inerenti le ultime tre retribuzioni spettanti ai lavoratori, sono esenti da contribuzione, e si calcolano con applicazione del limite del triplo del trattamento di integrazione salariale mensile, determinato al netto delle trattenute previdenziali ed assistenziali.
Sempre sul tema dell'insolvenza del datore di lavoro e delle tutele apprestate in favore del lavoratore dal Fondo di garanzia dell'INPS, si segnala Sez. L, n. 17593/2016, Cavallaro, Rv. 640886, la quale ha ribadito che, in caso di insolvenza del datore di lavoro non soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il lavoratore per poter accedere al Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, istituito presso l'INPS con l'art. 2, della legge 29 maggio 1982, n. 297, deve dimostrare che le garanzie patrimoniali della controparte sono risultate in tutto o in parte insufficienti a seguito dell' esperimento dell' esecuzione forzata; esperimento da espletarsi secondo l'uso della normale diligenza, attraverso la ricerca dei beni presso luoghi ricollegabili de jure alla persona del debitore.
Sempre nella subiecta materia, appare di rilievo quanto affermato da Sez. L, n. 08072/2016, Doronzo, Rv. 639603, secondo la quale, in caso di insolvenza del datore di lavoro non soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il lavoratore per ottenere, da parte del Fondo di garanzia, il pagamento del t.f.r. gravante sull'eredità giacente, dovrà dimostrare l'esistenza e la consistenza del credito risultante da un titolo anche giudiziale, nonchè l'insufficienza del patrimonio ereditario, che potrà essere attestata per mezzo dell'infruttuoso esperimento dell'esecuzione, con lo stato di graduazione dei crediti predisposto dal curatore dell'eredità giacente o con la dichiarazione del curatore sull'insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore.
Secondo Sez. L, n. 10543/2016, Patti, Rv. 639849, il commitente che, ai sensi dell'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, abbia corrisposto il trattamento retributivo ed il t.f.r. ai dipendenti dell'impresa appaltatrice, non subentra nella posizione del lavoratore avente diritto, in quanto adempie ad un'obbligazione propria nascente dalla legge, di conseguenza lo stesso è, invece, legittimato a surrogarsi nei diritti del lavoratore verso l'appaltatore ex art. 1203, n. 3, c.c., ma non ha titolo per attivare l'intervento del Fondo di garanzia gestito dall' INPS.
Secondo Sez. L, n. 17592/2016, Cavallaro, Rv. 640881, la domanda presentata per ottenere dal Fondo di garanzia dell'INPS la liquidazione delle retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, secondo le norme che disciplinano il conseguimento delle prestazioni previdenziali, costituisce atto interrutivo della prescrizione e segna l'apertura del relativo procedimento amministrativo finalizzato alla liquidazione della prestazione, con l'ulteriore conseguenza di determinare la sospensione del termine di prescrizione fino alla conclusione della procedura amministrativa.
In merito alla natura del Fondo di previdenza per gli impiegati esattoriali e delle ricadute di tale qualificazione sulle prestazioni erogabili dal fondo, Sez. L, n. 08892/2016, Torrice, Rv. 639553, ha chiarito che tale fondo possiede natura speciale obbligatoria a carattere integrativo, costituente, quindi, un sistema previdenziale autonomo ed autosufficiente, non essendo erogabili, durante il periodo di iscrizione ad esso, le prestazioni a carico dell' AGO ove non ne sussistano i prescritti presupposti, con la conseguenza che, una volta trasferita ed utlizzata la quota di contribuzione per la gestione suddetta presso la gestione generale dell'AGO, non è consentito ottenere le prestazioni a carico del Fondo, il cui presupposto è dato dall'unitarietà dei versamenti.
L'azione di contraffazione del marchio d'impresa, di natura reale, tutela il diritto assoluto all'uso esclusivo del segno distintivo come bene autonomo sulla base del riscontro della confondibilità dei marchi, sicché non è esperibile allorquando si lamenti la potenziale confondibilità tra prodotti generata dall'accostam ento, ai fini della vendita, tra quelli con un certo marchio ed altri di diversa o ignota provenienza. La maggior parte della pronunce in tema di marchi e brevetti hanno riguardato il tema dell'accertamento circa la non distinguibilità e la confondibilità, che costituiscono un presupposto comune delle azioni di nullità e contraffazione del marchio o del brevetto stesso, attività quest'ultima che non è configurabile in mancanza di registrazione e non sussiste neppure successivamente ad essa, ove l'attività del contraffattore preesista al marchio o al brevetto stesso (Sez. 1, n. 19174/2015, Scaldaferri, Rv. 637121).
È stato coerentemente affermato che è preclusa, per difetto di novità, la registrazione di un successivo marchio che riproduca il marchio anteriore, nonostante l'aggiunta di elementi differenziatori di contorno, potendosi determinare un rischio di confusione per il pubblico, quale rischio di un erroneo riferimento dell'attività dell'una all'altra impresa, soprattutto qualora tale eventualità sia resa altamente probabile dalla identità, o quantomeno affinità, dei prodotti e dei servizi resi, nonché dalla collocazione delle imprese (Sez. 1, n. 10519/2016, Ragonesi, Rv. 639857).
Sulla stessa lunghezza d'onda si colloca Sez. 1, n. 01276/2016, Ragonesi, Rv. 638428, secondo cui il divieto di usare nel marchio l'altrui ditta, posto sia dall'art. 14 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929, che dall'art. 12 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, non è assoluto, ma è sempre condizionato alla possibilità di confusione di prodotti.
Analogamente, è stato ritenuto che l'inserimento, in un marchio registrato, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l'abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l'abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in una ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all'attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona, che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa, ma senza trasformare la stessa in un'attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva (Sez. 1, n. 10826/2016, Genovese, Rv. 639860).
Secondo Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639807, la tutela del marchio non registrato (cd. marchio di fatto) trova fondamento nella funzione distintiva che esso assolve in concreto, per effetto della notorietà presso il pubblico, e, pertanto, presuppone la sua utilizzazione effettiva, con la conseguenza che la tutela medesima non è esperibile in rapporto a segni distintivi di un'attività d'impresa mai (o da lungo tempo non) esercitata dal preteso titolare. Prosegue la sentenza affermando che i segni distintivi di fatto possono articolarsi in maniera separata, sicché è astrattamente possibile che un imprenditore abbia preusato del segno per la ditta-denominazione sociale, senza aver fatto uso dello stesso come marchio, per contraddistinguere merci prodotte o servizi forniti, onde la necessità, in caso di affermazione del possesso di un marchio di fatto, che colui il quale chieda di affermare il conseguimento di un proprio diritto fornisca, al riguardo, una prova completa sia della ditta-denominazione sociale sia di quello del segno in funzione di marchio (e della conseguente notorietà di esso), atteso che l'uso di fatto di un segno in funzione di ditta/ denominazione sociale non ne comporta l'automatica e meccanica estensione in funzione di marchio e viceversa (Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639808).
Ha inoltre affermato Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639807, che l'art. 48 del r.d. n. 929 del 1942 , laddove prevede la cosiddetta convalidazione del marchio successivo e confondibile se usato in buona fede per cinque anni senza contestazioni, trova applicazione non soltanto nell'ipotesi di conflitto tra un marchio anteriore di fatto ed uno successivo registrato, ma anche in quella di conflitto tra due marchi ambedue registrati, ciò desumendosi, tra l'altro, dalla lettera della legge, che faceva riferimento ai marchi "conosciuti", i quali non sono soltanto quelli di fatto.
La Cassazione ha posto in evidenza come, in assenza di un marchio forte, la tutela di un marchio o in genere di un segno distintivo sia tendenzialmente circoscritta all'ambito merceologico in cui tale segno ha conosciuto una diffusione più o meno ampia e la confondibilità può essere esclusa in presenza di modifiche del segno significative ma non particolarmente rilevanti.
Secondo Sez. 1, n. 13170/2016, Genovese, Rv. 640226, la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non incide sull'attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull'intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio forte, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.
Analogamente, si è affermato che i marchi "deboli" sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata, la fantasia che li ha concepiti, oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l'uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo. Un marchio, tuttavia, può essere valido, benché "debole", per l'esistenza di un pur limitato grado di capacità distintiva, e la sua "debolezza" non incide sulla sua attitudine alla registrazione, ma soltanto sull'intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte, in ciò differenziandosi rispetto al marchio cd. "forte", per il quale sono illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo, che costituisce l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante (Sez. 1, n. 01267/2016, Ragonesi, Rv. 638432).
Secondo la S.C., la decadenza parziale del marchio è ammissibile pur se non prevista espressamente dalla legge e si realizza quando il marchio sia registrato per più di un prodotto o servizio e la decadenza avvenga con riguardo solo ad alcuni di essi (Sez. 1, n. 15027/2016, Nazzicone, Rv. 640807).
È stato inoltre stabilito che il marchio denominativo può ritenersi nullo quando i nomi utilizzati non siano idonei ad indicare la provenienza di un prodotto, oppure qualora, pur essendolo, non valgano a distinguerlo da altri prodotti simili (Sez. 1, n. 01277/2016, Nappi, Rv. 638500).
La decadenza del brevetto per marchio d'impresa, ai sensi dell'art. 41 del r.d. n. 929 del 1942, quando esso «sia divenuto denominazione generica di un prodotto», si verifica per il fatto obiettivo e nel momento dell'avvenuta "volgarizzazione", che consiste nell'acquisizione nel linguaggio comune dell'espressione oggetto del marchio, ovvero costituente un elemento del medesimo, come rappresentativa del tipo di prodotto, indipendentemente dal concorso dell'inattività del titolare del brevetto ed in esito ad un processo svoltosi nell'ambiente sociale, al quale lo stesso titolare non potrebbe opporsi, sicché la disposizione, atteso il carattere dichiarativo della sentenza di accertamento, si applica anche ai rapporti in corso alla data di entrata in vigore delle modifiche di cui all'art. 38 del d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 (Sez. 1, n. 15027/2016, Nazzicone, Rv. 640806).
Le Sezioni Unite hanno affermato che il principio di territorialità, vigente in tema di protezione di un marchio, comporta che l'accertamento giudiziale della contitolarità di quest'ultimo è, di regola, insuscettibile di estensione in uno Stato diverso da quello – nella specie, l'Italia – in cui è avvenuto, salvo che si tratti di marchio comunitario (registrato, cioè, per la prima volta in sede comunitaria, oppure nascente dalla registrazione ivi di un marchio già registrato in uno Stato membro, con conseguente estensione della protezione per tutti i paesi dell'Unione) o internazionale (la cui procedura di rilascio, ai sensi dell'Accordo di Madrid, sfocia nel conferimento di una pluralità di distinti marchi nazionali che producono, in ciascuno Stato ad esso aderente, gli stessi effetti della domanda di registrazione di un marchio nazionale che fosse lì direttamente depositato), per i quali, però, quell'effetto estensivo non deriva immediatamente dalla sentenza, ma dal suo successivo avvalimento che le parti riterranno di fare innanzi agli organismi comunitari o internazionali competenti (Sez. U, n. 13570/2016, Ragonesi, Rv. 640219).
Ha affermato Sez. 1, n. 16949/2016, Di Marzio, Rv. 640906, che l'invenzione industriale si fonda sulla soluzione di un problema tecnico, non ancora risolto, che la rende idonea ad avere concrete realizzazioni nel campo industriale, tali da apportare un progresso rispetto alla tecnica ed alle cognizioni preesistenti, mentre il modello di utilità, che pure richiede un carattere di intrinseca novità, opera sul piano dell'efficacia e della comodità di impiego di un oggetto preesistente, al quale conferisce, in certa misura, un'utilità nuova ed ulteriore. L'accertamento della sussistenza, in concreto, dell'una o dell'altra figura spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, salvo il vizio di motivazione.
La Cassazione ha ritenuto, con riferimento in genere al diritto d'autore, che la violazione di un diritto d'esclusiva che spetta all'autore ai sensi dell'art. 12 della legge 22 aprile 1941, n. 633, costituisce danno in re ipsa, analogamente a quella di un diritto assoluto o di un diritto personale, senza che incomba al danneggiato altra prova che non quella della sua estensione (Sez. 1, n. 12954/2016 Dogliotti, Rv. 640103).
È stato altresì chiarito che la proiezione sullo schermo televisivo del testo di canzoni contemporaneamente all'esecuzione in studio degli stessi brani musicali (nell'ambito di trasmissioni che seguono lo schema del cd. karaoke), costituisce atto di riproduzione che necessita dell'autorizzazione dell'autore, indipendentemente dalle finalità di profitto, atteso che presuppone la registrazione, anche transitoria, del testo su un supporto, qualunque esso sia; né il diritto di riproduzione del testo può ritenersi compreso nel diritto di rappresentazione, esecuzione, radiodiffusione del brano musicale per il quale l'autorizzazione sia stata eventualmente rilasciata, trattandosi di diritti separati, tanto più nel caso di canzoni, per le quali la legge distingue tra compositore della musica e paroliere (Sez. 1, n. 00873/2016 Lamorgese, Rv. 639914).
L'art. 124 del d.lgs. n. 30 del 2005, nella parte in cui attribuisce al giudice il potere di fissare, con la sentenza che accerta la contraffazione di un marchio, una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nella esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza stessa, non presuppone che con quest'ultima si sia provveduto anche alla liquidazione del danno, ma solo l'avvenuta adozione di provvedimenti inibitori. La collocazione della norma nel medesimo comma dedicato alla liquidazione del danno, giustificata dal riferimento di entrambe le disposizioni alle obbligazioni risarcitorie conseguenti alla commissione dell'illecito, non esclude, infatti, la distinzione tra le due forme di risarcimento, l'una riguardante i danni accertati, e quindi già verificatisi, l'altra eccezionalmente relativa ad un pregiudizio futuro, la cui incerta verificazione ed imprevedibile collocazione nel tempo comportano l'inutilizzabilità degli ordinari criteri di liquidazione del danno (Sez. 1, n. 10519/2016, Ragonesi, Rv. 639858).
Quanto alla valutazione equitativa del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un'opera dell'ingegno, non è precluso al giudice il potere-dovere di commisurarlo, nell'apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall'attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo (Sez. 1, n. 04048/2016, Ragonesi, Rv. 638807).
Secondo la S.C., la decisione sull'istanza di nullità del brevetto comunitario presentata all'Ufficio per l'armonizzazione del mercato interno (UAMI) ha carattere pregiudiziale rispetto alla domanda di concorrenza sleale basata sul medesimo brevetto, costituendo la validità della privativa l'elemento fondante di tale azione ed implicando, pertanto, la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. (Sez. 1, n. 07450/2016, Ragonesi, Rv. 639602).
La stessa pronuncia ha affermato che il provvedimento di sospensione del giudizio di contraffazione emesso in conseguenza dell'avvenuta presentazione, nel corso del processo ed a seguito di invito rivolto dal giudice alla parte convenuta che abbia ivi proposto domanda riconvenzionale di nullità del brevetto europeo, della medesima istanza di nullità innanzi all'UAMI ha carattere facoltativo ed è censurabile in sede di legittimità limitatamente alla completezza, correttezza e logicità delle argomentazioni ivi utilizzate, ma non anche avuto riguardo all'opportunità della sua adozione (Sez. 1, n. 07450/2016, Ragonesi, Rv. 639601).
Ha inoltre affermato la S.C. che la conversione prevista dall'art. 76, comma 3, del d.lgs. n. 30 del 2005 è applicabile anche al cd. brevetto europeo, il quale, risolvendosi in una sommatoria dei brevetti nazionali, non sottrae il giudice all'obbligo di fare applicazione della normativa interna al fine di vagliare la validità della frazione nazionale del medesimo (Sez. 1, n. 16949/2016, Rv. Di Marzio, Rv. 640907).
La questione dell'applicabilità delle regole poste dalla legge n. 287 del 1990 a soggetti che svolgono anche attività di rilevanza pubblicistica è affrontata da Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639767, che ha affermato che le norme in tema di tutela della concorrenza e del mercato non si applicano, ai sensi dell'art. 8, comma 2, della menzionata legge, ai Consigli notarili distrettuali che assumano l'iniziativa del procedimento disciplinare, atteso che, limitatamente all'esercizio della vigilanza, essi non regolano i servizi offerti dai notai sul mercato, ma adempiono una funzione sociale fondata su un principio di solidarietà, affidatagli dalla legge, ed esercitano prerogative tipiche dei pubblici poteri.
Lo stesso tema è affrontato, per pervenire in differente fattispecie a conclusioni opposte, da Sez. 1, n. 05763/2016, Genovese, Rv. 639088, che ha precisato che in tema di accertamento dell'esistenza di un danno derivante dall'abuso di posizione dominante, secondo la disciplina, nazionale e comunitaria, della concorrenza, la pratica dell'Agenzia del Territorio, svolta a latere delle sue funzioni istituzionali, e consistente nell'offerta al pubblico della cd. "ricerca continuativa", ossia nella possibilità di reperimento di ogni dato ed informazione relative alle formalità giornalmente riportate nei registri (catastali e immobiliari) da essa tenuti in regime di monopolio legale, oltre a quella di dare la cd. comunicazione dell'elenco dei detti soggetti risultanti dalle formalità accumulatesi in un solo giorno presso le proprie sedi territoriali, costituisce attività d'impresa vera e propria, esercitata in modo organizzato e durevole sul mercato, ed è, come tale, svolta in violazione della disciplina antimonopolistica, in riferimento al mercato dell'utilizzazione economica delle informazioni tratte, per fini commerciali, dalla consultazione di detti registri, considerato che l'Agenzia stessa è abilitata, per statuto, a consentire ad altri soggetti, previa stipula di convenzioni, alle condizioni da essa stabilite e dietro pagamento di tasse, l'utilizzazione di quei servizi.
Sotto il profilo più strettamente processuale, Sez. 6-1, n. 16272/2016, Bisogni, Rv. 641029, si è occupata del problema relativo alla connessione tra domande ordinarie e domande relative alle violazioni antitrust, statuendo che la controversia in cui la responsabilità contrattuale di una società di telecomunicazioni è dedotta come un aspetto della sua condotta abusiva ed anticoncorrenziale di cui la parte attrice chiede in primo luogo l'accertamento, appartiene alla competenza funzionale delle sezioni specializzate in materia di imprese, atteso che le disposizioni di cui all'art. 3, commi 1 e 3, del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, attribuiscono a tali sezioni anche le cause ed i procedimenti che presentino ragioni di connessione con quelli relativi alla verifica della violazione della normativa antitrust.
Sempre in tema di connessione, Sez. U, n. 15539/2016, Ragonesi, Rv. 640800, ha rimesso alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale ex art. 267 TFUE, la questione se, proposte domande di abuso di posizione dominante e concorrenza sleale nell'ambito di una controversia di accertamento negativo di contraffazione di disegno comunitario, cui sono connesse perché il loro accoglimento presuppone il preventivo esito favorevole di quest'ultima, ne sia possibile, o meno, la loro complessiva trattazione congiunta innanzi al medesimo giudice, e se quelle domande, ove ritenute costituire una fattispecie di illecito civile, incidano sull'applicabilità dell'art. 5, n. 3, del regolamento CE n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000, ovvero quello del regolamento CE n. 6/2002 del Consiglio del 12 dicembre 2001, per quanto concerne la competenza giurisdizionale.
Sotto il profilo del riparto di giurisdizione, Sez. U, n. 06020/2016, Scarano, Rv. 638988, ha statuito che la domanda con la quale il titolare di un distributore di carburanti chieda nei confronti della P.A. il risarcimento del danno cagionato da un'attività concorrenziale autorizzata con provvedimento amministrativo successivamente annullato rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto è in rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio di un potere amministrativo discrezionale.
Utili indicazioni per delineare l'ambito di applicazione oggettivo della fattispecie generale di cui all'art. 2598 c.c. possono essere tratte da Sez. 1, n. 06274/2016, Mercolino, Rv. 639213, che ha puntualizzato come, in materia di concorrenza sleale, integri gli estremi dello sviamento di clientela la condotta posta in essere da un imprenditore che, per il tramite di propri dipendenti già al servizio di un concorrente, si appropri di tabulati recanti i nominativi di clienti e distributori di quest'ultimo, essendo irrilevante la circostanza che detti nominativi fossero già noti al medesimo imprenditore ed a tali dipendenti, trattandosi di informazioni comunque riservate e, come tali, non divulgabili.
Sempre a proposito dell'ambito applicativo dell'art. 2598 c.c., secondo Sez. 1, n. 16948/2016, Di Marzio, Rv. 640908, costituisce atto di concorrenza sleale la commercializzazione di un whisky con una denominazione fuorviante (nella specie, Scottish Swordsman e Scottish Piper), tale, quindi, da suggerire, contro il vero, la provenienza del prodotto dalle tradizionali aree geografiche di produzione, e cioè dalla Scozia.
La fattispecie della concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell'impresa altrui (art. 2598, n. 2, c.c.), è stata invece esaminata da Sez. 6-1, n. 00100/2016, Genovese, Rv. 638572, secondo cui la condotta alla quale la norma fa riferimento non consiste nell'adozione, sia pur parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all'impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori. (Nella specie, è stata considerata concorrenza sleale l'aver presentato i propri prodotti come simili o identici a quelli di un concorrente noto, facendo espresso riferimento al marchio di quest'ultimo, sfruttandone la rinomanza tra i destinatari del messaggio e così facendo accreditare i propri prodotti presso la clientela senza sforzi di investimento).
In materia di concorrenza sleale riveste particolare interesse anche Sez. 1, n. 24658/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, la quale, ritenuta l'ammissibilità del cumulo con l'azione concessa a tutela del brevetto, ha escluso peraltro che la semplice deduzione da parte dell'attore della violazione della privativa industriale integri, di per sé, anche un atto rilevante ai fini di cui all'art. 2598, n. 1, c.c.
Secondo Sez. 1, n. 22042/2016, Lamorgese, in corso di massimazione, la diffusione di informazioni che arrecano discredito e pregiudizio all'azienda dell'impresa concorrente rientra nel legittimo esercizio del diritto di critica e non costituisce atto di concorrenza sleale per denigrazione allorquando tali informazioni siano veritiere e non costituiscano l'occasione per formulare vere e proprie offese ed invettive nei confronti del concorrente.
Del divieto di concorrenza, con particolare riferimento all'ambito applicativo dell'art. 2301 c.c., si è occupata Sez. 1, n. 10715/2016, Didone, Rv. 639795, che ha evidenziato come il divieto, posto dalla norma con riguardo ai soci di società in nome collettivo, sia applicabile anche nei confronti dei soli soci accomandatari di società in accomandita semplice, che, per il combinato disposto degli artt. 2315 e 2318 c.c., hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo, e non anche per i soci accomandanti, salvo che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con una disposizione contenuta nel contratto sociale.
Sulla nozione di professionista, tratteggiata in via generale dall'art. 3 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, interessante è il chiarimento reso da Sez. 6-3, n. 15391/2016, Sestini, Rv. 641154, riguardo al contratto sottoscritto da una parte nell'interesse o a nome della propria impresa individuale, che svolga un'attività non incompatibile con l'oggetto del contratto stesso; dovendo tale contratto ritenersi concluso per scopi professionali, nelle relative controversie lo speciale foro del consumatore non è applicabile, salva prova contraria da parte del contraente interessato.
Sempre a proposito della nozione di professionista, Sez. 6-2, n. 00780/2016, Giusti, Rv. 638267, ha precisato che nel procedimento di liquidazione dei compensi di avvocato non trovano applicazione le regole sul foro del consumatore ove la prestazione professionale sia stata resa in un giudizio inerente l'attività imprenditoriale e professionale svolta dal cliente. (Nella specie, l'avvocato aveva prestato patrocinio in un procedimento tributario avente ad oggetto la pretesa tributaria nei confronti del cliente in qualità di socio ed amministratore unico di una società di capitali).
Quanto al riscontro della qualifica soggettiva di consumatore in presenza di un contratto di fideiussione, ai fini dell'applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore di cui agli artt. 1469-bis e ss. c.c., nel testo vigente ratione temporis, il requisito soggettivo deve riferirsi all'obbligazione garantita, cui quella del fideiussore è accessoria: è quanto statuito da Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640914, per trarne la conseguenza che, difettando tale condizione, è valida la clausola derogativa della competenza territoriale contenuta nel contratto di fideiussione per le esposizioni bancarie di una società di capitali stipulato da un socio o da un terzo.
La protezione del consumatore, affidata all'assolvimento degli obblighi informativi da parte del professionista, è particolarmente valorizzata da Sez. 6-2, n. 18171/2016, Falaschi, Rv. 641097, che ha affermato che in tema di sicurezza ed etichettatura delle merci, il dettagliante che immette sul mercato prodotti privi delle informazioni prescritte è sanzionabile, alla stregua di un'interpretazione sistematica della relativa disciplina, per la violazione dell'art. 6 del d.lgs. n. 206 del 2005, senza che possa invocare la propria buona fede per aver acquistato i prodotti da rivenditori autorizzati o grossisti, trattandosi di errore di diritto non scusabile, stante la semplicità degli adempimenti richiesti, basati su una conoscenza minima e necessaria della legislazione nazionale ed europea, tanto più che il suo operato si colloca nella fase in cui è maggiore l'esigenza di tutelare la libera autodeterminazione del consumatore.
Con due importanti pronunce la Corte è poi intervenuta sul tema della tutela collettiva dei diritti dei consumatori.
Sez. U, n. 23304/2016, Didone, in corso di massimazione, ha ritenuto che se, giusta l'art. 3 della legge 30 luglio 1998, n. 281, le associazioni iscritte possono agire per la tutela collettiva degli stessi diritti (dichiarati fondamentali) riconosciuti ai consumatori, a maggior ragione possono intervenire nel giudizio promosso dal singolo consumatore.
Sez. 1, n. 23631/2016, Acierno, in corso di massimazione, ha statuito che l'ordinanza adottata dalla corte d'appello in sede di reclamo che ha dichiarato ammissibile l'azione di classe ex art. 140-bis del codice del consumo non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost.
La Suprema Corte è stata chiamata in tre occasioni a pronunciarsi in merito al tema dei limiti per gli amministratori di società di capitali del rispetto dell'oggetto sociale nel loro agire con i terzi. Entrambe le sentenze si sono interessate delle conseguenze dell'eccedenza dell'atto rispetto ai limiti dell'oggetto sociale (art. 2328, n. 3, e 2384 c.c.), ovvero del suo compimento al di fuori dei poteri conferiti all'amministratore. La Corte ha ritenuto che in tali ipotesi non si verifica un caso di nullità, ma, al più, soltanto di inefficacia e di opponibilità nei rapporti con i terzi, cui consegue, ma solo eventualmente, la responsabilità degli amministratori che lo hanno compiuto.
Il primo arresto (Sez. 1, n. 17761/2016, Ferro, Rv. 641173) ha sottolineato che ai fini della valutazione della pertinenza di un atto degli amministratori di una società di capitali all'oggetto sociale, e della conseguente efficacia dello stesso ai sensi dell'art. 2384 c.c., il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell'atto rispetto all'oggetto sociale, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell'atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio dell'ente. Non sono invece sufficienti, al predetto fine, né il criterio della astratta previsione, nello statuto, del tipo di atto posto in essere (la cui elencazione non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti, di vario tipo, funzionali all'esercizio di una determinata attività, né assicurando l'espressa previsione statutaria di un atto tipico che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quella attività), né il criterio della conformità dell'atto all'interesse della società (in quanto l'oggetto sociale costituisce, ai sensi dell'art. 2384 c.c., un limite al potere rappresentativo degli amministratori, i quali non possono perseguire l'interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale fatta dai soci nell'atto costitutivo).
La seconda decisione (Sez. 3, n. 12273/2016, Genovese, Rv. 640013) si pone invece nella prospettiva della necessità di offrire una adeguata tutela ai terzi, affermandosi che il principio dell'apparenza del diritto e dell'affidamento, traendo origine dalla legittima e quindi incolpevole aspettativa del terzo di fronte ad una situazione ragionevolmente attendibile, ancorché non conforme alla realtà, non altrimenti accertabile se non attraverso le sue esteriori manifestazioni, non è invocabile nei casi in cui la legge prescrive speciali mezzi di pubblicità mediante i quali sia possibile controllare con l'ordinaria diligenza la consistenza effettiva dell'altrui potere, come accade nel caso di organi di società di capitali regolarmente costituiti; tuttavia, anche in tale ipotesi, il principio dell'affidamento può essere invocato, qualora il potere sulla cui esistenza si assume di aver fatto incolpevolmente affidamento possa sussistere indipendentemente dalla sua regolamentazione statutaria e possa essere conferito per determinati atti e senza particolari formalità.
La terza pronuncia (Sez. 1, n. 24547/2016, Cristiano, Rv. 642662) riguarda specificamente il tema dell'eccedenza dell'atto rispetto ai poteri conferitigli, che non integra un'ipotesi di nullità, ma di inefficacia e di opponibilità dell'atto medesimo ai terzi; è dunque rimesso alla società, e solo ad essa, la decisione di respingere gli effetti dell'atto, sicchè deve correlativamente esserle riconosciuto il potere di assumere ex tunc quegli effetti, attraverso la ratifica, ovvero di farli preventivamente propri, attraverso una delibera autorizzativa, capace di rimuovere i limiti del potere rappresentativo dell'amministratore. Ne deriva che ogni questione relativa alla estraneità dell'atto compiuto dall'amministratore rispetto all'oggetto sociale è da ritenersi irrilevante a seguito e per effetto dell'adozione di una delibera di autorizzazione preventiva, o di ratifica successiva, adottata dalla società, posto che tale delibera impegna la società medesima alla condotta di essa esecutiva e ad essa conforme posta in essere dall'organo di gestione, idonea o meno che sia rispetto al perseguimento dell'oggetto sociale. Il rispetto dell'oggetto sociale, d'altro canto, non può ritenersi espressione di un interesse superiore a quello dei soci, se è vero che questi non trovano alcun limite nel loro potere di modificarlo in ogni tempo, senza che nessun creditore abbia diritto di esserne informato o il diritto di opporvisi. In ossequio a tale principio, la S.C. ha respinto la tesi dell'attore secondo cui la fideiussione rilasciata da una società per assicurare il finanziamento di altra società avrebbe dovuto essere dichiarata inefficace attesa la presunta nullità della delibera sociale che aveva ratificato l'operato dell'amministratore il quale, essendo allo stesso tempo anche socio della società garantita, agiva in palese conflitto di interesse.
Riprendendo un principio già enunciato a proposito delle società di capitali (Sez. 1, n. 16416/2002, De Chiara, Rv. 558636), è stato infine affermato in tema di società di persone che, ai fini della valutazione della pertinenza di un atto degli amministratori di una società all'oggetto sociale, il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell'atto rispetto all'oggetto sociale, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell'atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio dell'ente (Sez. 1, n. 25409/2016, De Chiara, Rv. 642146). Quest'ultima pronuncia precisa altresì che non sono invece sufficienti, al predetto fine, né il criterio della astratta previsione, nello statuto, del tipo di atto posto in essere (in quanto, da un lato, la elencazione statutaria di atti tipici non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti, di vario tipo, che possono essere funzionali all'esercizio di una determinata attività, e, dall'altro, anche la espressa previsione statutaria di un atto tipico non assicura che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quella attività), ne' il criterio della conformità dell'atto all'interesse della società (in quanto l'oggetto sociale costituisce, ai sensi dell'art. 2384 c.c., un limite al potere rappresentativo degli amministratori, i quali non possono perseguire l'interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale fatta dai soci nell'atto costitutivo), né infine l'affidamento in buona fede del terzo circa la validità dell'atto compiuto dagli amministratori.
La Corte sviluppa e precisa il principio, di origine nordamericana, della business judgement rule (temperato dal "nostro" principio di ragionevolezza), già espresso negli anni passati (ad esempio, Sez. 1, n. 03409/2013, Rordorf, Rv. 625022), secondo cui all'amministratore di una società non può essere imputato di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, e quindi, l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
La responsabilità degli amministratori di società per azioni delineata dal legislatore della riforma del 2003 può discendere non solo dalla violazione degli obblighi che hanno un contenuto specifico già delineato dalla legge e dallo statuto, ma anche dall'inadempimento all'obbligo generale di gestire l'impresa con la dovuta diligenza. Tuttavia l'attenzione della giurisprudenza si è focalizzata prevalentemente sulla violazione da parte degli amministratori di specifici obblighi previsti dalla legge o dallo statuto: a quelli di ampia portata – quali i divieti di agire in conflitto di interessi (art. 2391 c.c.) e di esercitare un'attività in concorrenza con quella della società in assenza di specifica autorizzazione da parte dell'assemblea (art. 2390 c.c.) – si affiancano disposizioni assai più specifiche, la cui violazione, se foriera di danno, è anch'essa idonea a determinare la responsabilità dell'organo di gestione. Sono i casi, fra gli altri, del precetto che impone agli amministratori di convocare l'assemblea su richiesta della minoranza, del regime dell'acquisto di azioni proprie, del dovere di verificare la congruità della stima dei conferimenti in natura, delle norme in materia di diritto di opzione, nonché dell'art. 2404-quater, comma 2, c.c., in tema di fusione. Le disposizioni che più di frequente vengono in rilievo a livello operativo sono poi gli artt. 2485 e 2486 c.c., i quali stabiliscono che, una volta verificatasi una causa di scioglimento, gli amministratori devono iscriverla senza indugio nel registro delle imprese, con il che sorge l'obbligo di limitare la gestione alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale.
Più raramente invece la S.C. ha riconosciuto che la responsabilità degli amministratori si riferisce anche al generico obbligo di amministrare con diligenza, pur se deve considerarsi che anche la gestione della società è un'attività contemplata dalla legge: l'art. 2380-bis, comma 1, c.c. stabilisce infatti che «la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale».
Del resto, l'esistenza di un generale principio di diligente amministrazione lo si evince anche dalla previsione, al comma 3 dell'art. 2381 c.c., di un obbligo di valutazione da parte del consiglio di amministrazione del generale andamento della gestione da parte degli amministratori delegati e di un obbligo specifico di vigilanza sul rispetto di tali principi in capo agli organi di controllo, anche se, per un difetto di coordinamento, la statuizione espressa si rinviene soltanto per il collegio sindacale (art. 2403 c.c.: «il collegio sindacale vigila (…) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione») e per il consiglio di sorveglianza (art. 2403 terdecies, comma 1, lett. c), ma non per il comitato per il controllo sulla gestione (art. 2403 octiesdecies); anche sul quale però si ritiene che, ricorrendone la stessa ratio, gravi in via analogica un obbligo di vigilanza sul rispetto di una condotta diligente e corretta da parte degli amministratori.
Il principio di corretta e diligente amministrazione, prima espressamente contemplato soltanto per le società quotate (cfr. art. 149, co. 1, lett. a) e b), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, secondo cui «il collegio sindacale vigila (…)» non solo «sull'osservanza della legge e dell'atto costitutivo», ma anche «sul rispetto dei principi di corretta amministrazione», è dunque assunto a clausola generale di comportamento degli amministratori di tutte le società di capitali. Il rispetto delle regole, anche tecniche e non solo giuridiche, di buona gestione è oggi, pertanto, norma di diritto comune, e come tale è riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità. Le regole organizzative escono dunque dall'area della tecnica aziendalistica, superano i confini dei settori vigilati (banche, assicurazioni, società quotate) e si estendono a tutte le società azionarie.
Occorre pertanto distinguere non tra l'attività degli amministratori prevista dalla legge e quella non prevista, ma, nell'ambito dell'attività degli amministratori (che è interamente prevista dalla legge), tra attività discrezionale e attività vincolata. In altre parole, ciò che cambia è la più o meno penetrante specificità dell'obbligo di legge, che altro non significa che nel caso di attività discrezionale è più difficile la prova della non diligenza dell'amministratore, non anche che egli possa tenere una diligenza inferiore e diversa da quella che accompagna l'esecuzione di obblighi specifici o possa non averne affatto.
L'attività di amministrare e gestire l'impresa con la dovuta diligenza costituisce infatti un obbligo di legge degli amministratori derivante dal contratto che li lega alla società (cfr. Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638621, secondo cui il rapporto che lega l'amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court), al pari di altri obblighi specifici, quale ad esempio quello di convocare, in certe circostanze, l'assemblea. L'unica differenza è la maggiore discrezionalità che è posta in capo agli amministratori nel perseguire l'obiettivo di gestire la società.
Ha conseguentemente affermato Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio, Rv. 641164, che la responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l'azione sia proposta ex art. 146 l.fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l'osservanza dei doveri previsti dal nuovo testo dell'art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003, con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) – ferma l'applicazione della business judgement rule, secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti – rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell'art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, comma 2, c.c. cui implicitamente si richiama anche il nuovo testo dell'art. 2392 c.c.
La Cassazione ha anche ritenuto nella medesima pronuncia (Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio, Rv. 641165) che in virtù della modifica dell'art. 2392 c.c. avvenuta a seguito della riforma delle società di capitali del 2003, gli amministratori privi di deleghe (cd. non operativi) non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di questi ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze.
Sempre in tema di natura contrattuale della responsabilità dell'amministratore, Sez. 1, n. 00952/2016, Didone, Rv. 640932 ha affermato che tale natura consente alla società che agisca per il risarcimento del danno, o al curatore in caso di sopravvenuto fallimento di quest'ultima, di allegare l'inadempimento dell'organo gestorio quanto alla giacenze di magazzino, restando a carico del convenuto l'onere di dimostrare l'utilizzazione delle merci nell'esercizio dell'attività di impresa.
Ha poi precisato Sez. 1, n. 17197/2016, Ferro, Rv. 641043, che l'azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l.fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali. Ne consegue che, trattandosi di causa relativa ad obbligazioni risarcitorie, siano esse di natura contrattuale o extracontrattuale, ai sensi dell'art. 20 c.p.c. la competenza territoriale si determina, facoltativamente, anche in base al luogo in cui è stato posto in essere l'illecito su cui si fonda la domanda.
Quanto ai danni subiti dalla società a responsabilità limitata da operazioni illegittime, il giudice ben può tenere conto, al fine di ricostruire nei limiti del possibile l'andamento degli affari sociali, e di valutare gli effetti concreti dell'operato degli amministratori medesimi, delle risultanze di scritture contabili informali, ossia non conformi alle prescrizioni di legge (Sez. 2, n. 12454/2016, Scaldaferri, Rv. 640108).
È stato infine affermato che nelle società in accomandita semplice, il socio accomandante può far valere il suo interesse al potenziamento ed alla conservazione del patrimonio sociale esclusivamente con strumenti interni, quali l'azione di responsabilità contro il socio accomandatario, la richiesta di estromissione di quest'ultimo per gravi inadempienze, l'impugnativa del rendiconto, o la revoca per giusta causa dell'amministratore, mentre non è legittimato ad agire nei confronti dei terzi per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi fra questi ultimi e la società, non sussistendo un interesse proprio del socio accomandante, autonomo e distinto rispetto a quello della società (Sez. 2, n. 17691/2016, Falabella, Rv. 641008).
Ha ritenuto, in tema di società in nome collettivo, Sez. 6-T, n. 15966/2016, Caracciolo, Rv. 640644, che la cartella esattoriale non è un atto esecutivo ma preannuncia l'esercizio dell'azione esecutiva ed è, pertanto, parificabile al precetto, sicché è inapplicabile l'art. 2304 c.c. che disciplina il beneficium excussionis relativamente alla sola fase esecutiva.
È stato anche evidenziato, questa volta in tema di società in accomandita semplice, che la responsabilità del socio accomandatario per le obbligazioni contratte dalla società (nella specie relative ad IVA e IRAP) è illimitata e non circoscritta alle somme conferitegli in base al bilancio finale di liquidazione nonostante l'estinzione della società conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, atteso che tale evento non determina l'estinzione dell'obbligazione sociale, ma solo il suo trasferimento in capo ai soci, i quali ne rispondono secondo lo stesso regime di responsabilità vigente pendente societate (Sez. 6-T, n. 13805/2016, Caracciolo, Rv. 640167).
La differenza fra soci accomandanti e accomandatari è messa in rilievo sotto il classico punto di vista della responsabilità per le obbligazioni sociali da Sez. L, n. 11250/2016, Lorito, Rv. 639934, secondo cui il socio accomandante assume la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, a norma dell'art. 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di trattare o concludere affari in nome della società, o di compiere atti di gestione aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull'amministrazione della stessa e sotto lo specifico profilo del divieto di concorrenza previsto dall'art. 2301 c.c. con riguardo ai soci di società in nome collettivo (Sez. 1, n. 10715/2016, Didone, Rv. 639795): tale norma è applicabile nei confronti dei soli soci accomandatari di società in accomandita semplice, che, per il combinato disposto degli artt. 2315 e 2318 c.c., hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo, e non anche per i soci accomandanti, salvo che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con un'apposita disposizione contenuta nel contratto sociale.
La Cassazione ha confermato il principio, già espresso dalle sezioni unite (Sez. U, n. 04060/2010, Forte, Rv. 612084). secondo cui una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2495, comma 2, c.c., nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento. In applicazione di tale principio, la Cassazione ha ritenuto inammissibile l'appello proposto da una s.a.s. dopo oltre un anno dalla sua cancellazione, ritenendo invece che l'impugnazione, per essere valida, sarebbe dovuta provenire dai soci succeduti alla società estinta (Sez. 1, n. 26196/2016, Ferro, Rv. 642761).
La Cassazione si è occupata dei rapporti tra società a responsabilità limitata e per azioni evidenziando come le due discipline abbiano subito una maggiore divaricazione a seguito della riforma di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Ha in particolare affermato la Corte che nelle s.r.l. il potere di convocare l'assemblea (nella specie, per decidere sulla revoca dell'amministratore), in caso di inerzia dell'organo di gestione, deve riconoscersi, nel silenzio della legge e dell'atto costitutivo, ai soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale, stante, da un lato, il mancato richiamo, nella disciplina di tali società, all'art. 2367 c.c., dettato per le società per azioni e non applicabile in via analogica, attesa la forte differenza tra i due tipi societari, e, dall'altro, l'inutilizzabilità dell'art. 2487 c.c., in quanto relativo alla nomina e revoca non degli amministratori ma dei liquidatori (Sez. 1, n. 10821/2015, Bernabai, Rv. 639856).
Implicitamente la differenza di disciplina tra s.p.a. e s.r.l. è stata evidenziata anche da Sez. 1, n. 10509/2016, Bernabai, Rv. 639813, sentenza la quale, ritenendo che i finanziamenti erogati dalle compagnie finanziarie in qualità di soci sovventori di società cooperative non sono soggetti alla postergazione prevista dall'art. 2467 c.c. in tema di s.r.l., atteso che, giusta l'art. 2519 comma 1, c.c., alle cooperative risulta applicabile la disciplina delle società per azioni che non riproduce l'effetto postergativo, ha ritenuto che il richiamo alle s.p.a. non valesse quale possibilità di applicare alle società cooperative la disciplina delle s.r.l.
Coerentemente, secondo Sez. 1, n. 01095/2016, Nazzicone, Rv. 638275, la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per le società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale (fattispecie estranea al caso di specie) – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c. Pertanto, accertata l'esistenza di una società di fatto insolvente della quale uno o più soci illimitatamente responsabili siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege prevista dall'art. 147, comma 1, l.fall., senza necessità dell'accertamento della loro specifica insolvenza.
Le società di persone, a differenza di quelle di capitali, pur avendo una soggettività giuridica, sono prive di personalità giuridica, avendo questa la sua genesi imprescindibile nel dato normativo. Del resto, La Relazione al codice (nn. 927-928) è netta nell'affermare che la personalità giuridica «è stata riconosciuta alle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, mentre è stata negata, pur riconoscendosi una limitata autonomia patrimoniale, alla società in nome collettivo e in accomandita semplice», oltre che alla società semplice. Ha così stabilito Sez. 1, n. 01261/2016, Di Virgilio, Rv. 638430, che nelle società di persone, se l'amministratore non presenta il rendiconto, il socio – diversamente da quanto accade nelle società di capitali, ove occorre una delibera assembleare che ne autorizzi la distribuzione – non percepisce gli utili, subendo così, in via diretta ed immediata, un danno che, come tale, può invocare agendo per far valere la responsabilità extracontrattuale dell'organo amministrativo, ai sensi dell'art. 2395 c.c., ivi applicabile analogicamente, atteso che la società personale, ancorché priva di autonoma personalità giuridica, costituisce un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, sicché, anche con riguardo ad essa, è configurabile una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, alla stregua di quanto previsto in materia di società per azioni.
La Cassazione ha altresì affermato il principio secondo cui il decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto sia nei confronti della società di persone che dei singoli soci illimitatamente responsabili, acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all'eventuale accoglimento dell'opposizione avanzata dalla società o da altro socio (Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641158).
È stato anche specificato, in tema di capacità processuale, che, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., il potere di rappresentanza di un ente o di una società dotata di personalità giuridica, ove spettante al presidente, deve essere di regola riconosciuto al vice presidente, cui normalmente competono funzioni vicarie senza necessità di apposita delega (Sez. 3, n. 14362/2016, Carluccio, Rv. 640600).
Ha affermato la S.C. che il recesso legale del socio, sancito dagli artt. 2523 e 2437 c.c. (nei rispettivi testi anteriori alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 6 del 2003), non può essere limitato o soppresso, neppure da clausole statutarie, senza violare la norma di legge attributiva del diritto potestativo, mentre, qualora tale facoltà trovi la sua fonte nelle clausole statutarie e, dunque, sorga con l'atto costitutivo come manifestazione della volontà negoziale, è suscettibile di essere disciplinata e conformata attraverso clausole che specifichino le situazioni legittimanti il relativo esercizio, oppure lo limitino o condizionino, prevedendo (come nella specie) la necessità, per la sua efficacia, di una positiva constatazione del consiglio d'amministrazione circa l'effettiva ricorrenza della situazione legittimante il recesso stesso (Sez. 1, n. 02979/2016, Scaldaferri, Rv. 638748).
In tema di liquidazione della quota del socio receduto da società di persone (nella specie, società in accomandita semplice), Sez. 1, n. 08233/2016, Genovese, Rv. 639465, ha stabilito che l'art. 2289, comma 3, c.c., nel porre a favore ed a carico di detto socio, rispettivamente, gli utili e le perdite inerenti ad "operazioni in corso" alla data del recesso, si riferisce alle sopravvenienze attive e passive che trovino la loro fonte in situazioni già esistenti a quella data. Esso, pertanto, trova applicazione con riguardo alle somme versate dalla società in base a condono fiscale attinente a violazioni commesse prima del recesso, anche se richiesto in epoca successiva – sempre che non siano in discussione la sussistenza della violazione ed il carattere vantaggioso della definizione agevolata – in quanto la relativa istanza e gli ulteriori adempimenti connessi sono rivolti ad estinguere un debito già sorto.
In tema di bilancio prevalgono le decisioni dirette ad evidenziare la funzione di esso in chiave informativa dei soci e dei potenziali investitori circa la reale situazione patrimoniale della società. La Cassazione (Sez. 1, n. 07586/2016, Genovese, Rv. 639466) ha così affermato che il bilancio di esercizio di una società per azioni, in forza del principio di continuità, deve partire dai dati di chiusura del bilancio dell'anno precedente, anche nel caso in cui l'esattezza e la legittimità di questi ultimi siano state poste in discussione in sede contenziosa e siano state negate con sentenza non passata in giudicato (nella specie, per il mancato rispetto dei termini di convocazione di un socio). Infatti, solo il passaggio in giudicato di quella sentenza fa sorgere il dovere degli amministratori di apporre al bilancio contestato le variazioni imposte dal comando giudiziale, e, quindi, di modificare di conseguenza i dati di partenza del bilancio successivo.
Coerentemente, gli amministratori devono soddisfare l'interesse del socio ad una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio al fine di realizzare il diritto di informazione previsto dall'art. 2423 c.c., che è in rapporto di strumentalità con il principio di chiarezza, sicché sono obbligati a rispondere alla domanda d'informazione pertinente e a cui non ostino oggettive esigenze di riservatezza, in modo da dissipare le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza in ordine ai dati di bilancio ed alla relativa relazione (Sez. 1, n. 04120/2016, Valitutti, Rv. 638815).
Sulla stessa lunghezza d'onda si colloca Sez. 1, n. 04120/2016, Valitutti, Rv. 638814, secondo cui il bilancio di esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall'art. 2423, comma 2, c.c., è illecito, sicché la deliberazione assembleare con cui esso è stato approvato è nulla non soltanto se la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell'esercizio, o la rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società, e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati, ivi compresa la relazione, non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.
La Corte ha infine precisato che il bilancio di una società di capitali regolarmente approvato, al pari dei libri e delle scritture contabili dell'impresa soggetta a registrazione, fa prova, ai sensi dell'art. 2709 c.c., in ordine ai debiti della società medesima, il cui apprezzamento è affidato alla libera valutazione del giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento acquisito agli atti di causa (Sez. 1, n. 03190/2016, Bisogni, Rv. 638751).
Ha affermato la Cassazione (Sez. L, n. 18188/2016, Boghetich, Rv. 641143) che in caso di fusione per incorporazione, ai sensi degli artt. 2501 e ss. c.c., come modificati dal d.lgs. 9 gennaio 2003, n. 6, la società incorporata, in quanto coinvolta in una vicenda evolutiva-modificativa, con mutamento solo formale dell'organizzazione societaria già esistente, non si estingue e, sopravvivendo in tutti i suoi rapporti, anche processuali, resta legittimata all'impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali di cui è parte.
È stato altresì specificato che, nel giudizio volto al risarcimento del danno subito dal socio in ragione della determinazione di un rapporto di cambio incongruo, il rilievo del patrimonio della società incorporata avviene attraverso la mediazione del rapporto di cambio tra le azioni dell'incorporata e quelle dell'incorporante, mediante la valutazione di entrambe le società e la fissazione dei rapporti matematici relativi; non costituisce, invece, un criterio corretto di liquidazione l'immediato pagamento a favore del socio di minoranza – in via proporzionale pro quota – del minor incasso conseguito dalla società partecipata per la dismissione di un bene sottocosto, perché varrebbe come risarcire il danno indiretto al di fuori dei casi ammessi dalla legge (Sez. 1, n. 15025/2016, Nazzicone, Rv. 640808).
Venendo alla scissione di società, l'art. 2504 decies, comma 2, c.c. (applicabile ratione temporis, oggi art. 2506-quater, comma 3, c.c.) va interpretato nel senso che la società scissa risponde in via solidale, unitamente alla società di nuova costituzione, beneficiaria di una parte del patrimonio originario, del debito a quest'ultima trasferito o mantenuto. Tali debitrici solidali, peraltro, sono tenute con modalità diverse: da un lato, infatti, la responsabilità della società scissa, presupponendo che il credito da far valere sia rimasto insoddisfatto, postula solo la previa costituzione in mora della società beneficiaria (cd. beneficium ordinis), non anche la sua preventiva escussione; dall'altro, esclusivamente la società cui il debito è trasferito o mantenuto risponde dell'intero debito, mentre la società scissa risponde nei limiti della quota di patrimonio netto rimastale al momento della scissione e, dunque, disponibile per il soddisfacimento dei creditori, atteso che la suddetta disposizione tende a mantenere integre le garanzie dei creditori sociali per l'ipotesi di scissione, non anche ad accrescerle (Sez. 1, n. 04455/2016, Nappi, Rv. 639023).
Infine, ha stabilito la Cassazione che la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato di personalità giuridica, non si traduce nell'estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all'originaria organizzazione societaria (Sez. 1, n. 10332/2016, Di Virgilio, Rv. 639805).
Secondo la Suprema Corte (Sez. 3, n. 15782/2016, Barreca, Rv. 641155), in caso di cancellazione volontaria di una società dal registro delle imprese, effettuata in pendenza di un giudizio risarcitorio introdotto dalla società medesima, si presume che quest'ultima abbia tacitamente rinunciato alla pretesa relativa al credito, ancorché incerto ed illiquido, per la cui determinazione il liquidatore non si sia attivato, preferendo concludere il procedimento estintivo della società; tale presunzione comporta che non si determini alcun fenomeno successorio nella pretesa sub iudice, sicché i soci della società estinta non sono legittimati ad impugnare la sentenza d'appello che abbia rigettato questa pretesa.
La Cassazione ha altresì affermato, in tema di giudizio di legittimità, che è inammissibile il controricorso proposto da una società, originaria parte attrice, ormai cancellata dal registro delle imprese atteso che, da un lato, l'estinzione, intervenuta in pendenza di giudizio, determina la perdita della capacità processuale, l'interruzione del processo ex art. 299 e ss. c.p.c. e la successione dei soci ai sensi dell'art. 110 c.p.c., e, dall'altro, la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, pur consentendo la notifica del ricorso della controparte presso il difensore in appello della società estinta, non vale per la proposizione del ricorso per cassazione, che esige la procura speciale e deve, quindi, essere effettuata dai soci (Sez. T, n. 15177/2016, Criscuolo, Rv. 640969).
Hanno affermato le Sezioni Unite (Sez. U, n. 19676/2016, Frasca, Rv. 641090) che la controversia riguardante l'impugnazione della deliberazione della giunta comunale, recante la nomina del rappresentante del comune nel consiglio di amministrazione di una s.p.a. interamente partecipata da enti locali, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, stante la natura di diritto soggettivo della posizione coinvolta oggetto di contestazione e l'assenza di una specifica attribuzione al giudice amministrativo, per tale fattispecie, di una giurisdizione su diritti.
Sempre le sezioni unite hanno precisato che non è configurabile la responsabilità contabile degli amministratori nei confronti delle società in house per l'assenza di un rapporto di servizio con gli enti pubblici azionisti, risolvendosi il pregiudizio patrimoniale derivante dall'eventuale loro mala gestio in un vulnus gravante, in via diretta, solo sul patrimonio della società stessa, soggetta a regole privatistiche e dotata di autonoma e distinta personalità giuridica rispetto ai soci, mentre è ipotizzabile a carico dei sindaci dei comuni stessi che non abbiano esercitato i poteri ed i diritti spettanti al socio pubblico al fine di indirizzare correttamente l'azione degli organi sociali o di reagire opportunamente ai loro illeciti, in relazione ai quali non vale la distinzione tra danno diretto ed indiretto per l'ente locale, occorrendo fare riferimento al danno concretamente imputabile agli enti di cui sono rappresentanti (Sez. U, n. 21692/2016, Chindemi, Rv. 641528).
Inoltre, secondo Sez. L, n. 15636/2016, Patti, Rv. 640276, incorre in vizio di omesso esame di un fatto decisivo e discusso tra le parti, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il giudice (nella specie, corte di appello) che abbia escluso, con affermazione sostanzialmente apodittica, la natura privata di una società, ritenendola, viceversa, "società a partecipazione pubblica totale", senza effettuare un esame critico della documentazione prodotta ed in particolare dello statuto della società.
Ha affermato Sez. L, n. 24109/2016, Patti, Rv. 641702 che, nel caso di trasformazione di enti creditizi pubblici (nella specie, Banco di Napoli) in società per azioni, non può essere esclusa l'applicabilità della disciplina sui licenziamenti di cui alla l. n. 223 del 1991, non sopravvivendo alla privatizzazione il regime di stabilità del rapporto di lavoro con un ente pubblico economico, posto che la salvezza dei diritti quesiti riguarda solo le posizioni soggettive già acquisite al patrimonio del prestatore sotto il profilo economico.
In tema di riparto di giurisdizione tra il giudice contabile e quello ordinario le Sezioni unite (Sez. U, n. 24737/2016, Frasca, Rv. 641770), hanno affermato che la società in house è sottoposta alla giurisdizione contabile quando, al di là della sua veste formale societaria, è un soggetto che tramite i suoi amministratori e dipendenti, in ragione della sua struttura e delle modalità del suo agire, deve operare in modo simile da un ente pubblico territoriale (nella specie una Regione). Pertanto, l'agire dei medesimi che provochi un danno al patrimonio della società si configura come potenzialmente determinativo di un danno erariale, perché la società, sotto lo schermo formale della veste assunta, opera nel mondo giuridico con una struttura e con modalità di svolgimento della sua attività ascrivibili all'ente pubblico territoriale, di modo che, l'una e l'altra, sebbene formalmente imputabili alla società ed incidenti sul suo patrimonio, incidono direttamente su un patrimonio pubblico. Ciò, perché tale soggetto è dalla legge considerato, agli effetti della giurisdizione contabile, un sostanziale ente pubblico e, quindi, la funzione degli amministratori, pur essendo il soggetto amministrato una società, è rapporto di amministrazione di un ente pubblico, mentre quello dei dipendenti è assimilabile ad un rapporto di servizio con un ente pubblico.
Ritiene Sez. 1, n. 16622/2016, Ferro, Rv. 641044, che è legittima la clausola statutaria che preveda l'obbligo dei soci di rimborsare alla società cooperativa a responsabilità limitata tutte le spese e gli oneri per il suo funzionamento, poiché non implica un'incidenza sulla tipologia societaria così da far assumere alla cooperativa la veste di società a responsabilità illimitata, atteso che non impegna i soci per le obbligazioni sociali verso i terzi, ma regola solo i rapporti interni alla società e, inoltre, è pienamente compatibile con la realizzazione dell'oggetto sociale, afferendo ad una prestazione accessoria ad esso funzionale.
Secondo la Cassazione, nel giudizio di impugnazione della deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa, l'attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo solo se la relativa esigenza è sorta in conseguenza delle difese della parte convenuta (Sez. 1, n. 16617/2016, Di Marzio, Rv. 641037).
Le Sezioni Unite hanno stabilito che il termine di decadenza di trenta giorni per l'impugnazione della delibera di esclusione del socio di una società cooperativa previsto dall'art. 2527, comma 3, c.c., nella sua formulazione antecedente alla modifica introdotta dall'art. 8 del d.lgs. n. 6 del 2003, è applicabile anche nel caso in cui il relativo giudizio sia introdotto davanti agli arbitri in ragione della presenza di una clausola compromissoria nello statuto (Sez. U, n. 13722/2016, Didone, Rv. 640190).
Secondo Sez. L, n. 06373/2016, Riverso, Rv. 639246, in tema di società cooperativa di produzione e lavoro, l'onere di comunicazione della delibera di esclusione del socio, in un contenuto minimo necessario a specificarne le ragioni, è imposto, come per il licenziamento, a pena d'inefficacia, sia dalla disciplina generale di cui all'art. 2533 c.c., ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione, sia, per la gravità degli effetti che ne discendono, dalla disciplina speciale di cui alla legge 3 aprile 2001, n. 142, che la rende idonea ad estinguere contemporaneamente il rapporto associativo e quello lavorativo sicché, in presenza di un'esclusione non impugnata, non potrebbe essere dichiarata l'illegittimità del licenziamento né ripristinato il solo rapporto di lavoro.
Ha affermato Sez. 1, n. 23514/2016, Manna, Rv. 641676, che il trasferimento di un immobile da una società cooperativa al socio prevede una fattispecie a formazione progressiva, in cui la prima fase – che presuppone l'acquisizione dello "status" di socio da parte dell'assegnatario e la prenotazione dell'alloggio – deve qualificarsi come contratto preliminare, perché con l'individuazione del bene e del corrispettivo nasce l'obbligo per la società di prestare il proprio consenso al trasferimento, e in cui la seconda fase, consistente nella successiva assegnazione dell'alloggio, si identifica con il contratto definitivo. Ne consegue che, in caso di fallimento della cooperativa, è in facoltà del curatore, prima dell'assegnazione, di sciogliersi dal contratto preliminare, ai sensi dell'art. 72, comma 4, l. fall.
Sez. 2, n. 22978/2016, Picaroni, Rv. 641683, ha sostenuto che l'attività, svolta da una società cooperativa, di macellazione, lavorazione, trasformazione, confezionamento e commercializzazione di prodotti agricoli e zootecnici conferiti dai soci, avendo natura commerciale e non rientrando tra quelle previste dall'art. 2135 c.c., non può usufruire del relativo regime di favore non potendo la qualifica di imprenditore agricolo essere ricondotta allo svolgimento delle sole attività connesse a quelle propriamente agricole in assenza di queste ultime, non rilevando, in senso contrario, che il soggetto imprenditore sia strutturato in forma di società cooperativa, che è veste neutra ai fini qualificatori predetti.
È stato poi precisato che i finanziamenti erogati dalle compagnie finanziarie ai sensi dell'art. 17 della legge 27 febbraio 1985, n. 49, come modificato dall'art. 12 della legge 5 marzo 2001, n. 57, in qualità di soci sovventori di società cooperative ex art. 4 della legge 31 gennaio 1992, n. 59, non sono soggetti alla postergazione prevista dall'art. 2467 c.c., atteso che, giusta l'art. 2519, comma 1, c.c., alle cooperative risulta applicabile la disciplina delle società per azioni che non riproduce l'effetto postergativo (Sez. U, n. 10509/2016, Bernabai, Rv. 639813).
Deve infine evidenziarsi che la S.C. ha affermato che lo scopo di lucro (cd. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, poiché è configurabile attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell'attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), requisito quest'ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, può essere presente anche in una società cooperativa pur quando essa operi solo nei confronti dei propri soci, sicché anche tale società, ove svolga attività commerciale, può, in caso di insolvenza, essere assoggettata a fallimento in applicazione dell'art. 2545-terdecies c.c. (Sez. 1, n. 14250/2016, Genovese, Rv. 640519).
Hanno affermato le Sezioni Unite (Sez. U, n. 12190/2016, Iacobellis, Rv. 639970) che la società consortile può svolgere una distinta attività commerciale con scopo di lucro ed è questione di merito accertare i rapporti tra la società stessa e i consorziati nell'assegnazione dei lavori o servizi per stabilire la necessità del "ribaltamento" integrale o parziale di costi e ricavi ai fini dell'imposta sul valore aggiunto; in caso di differenza tra quanto fatturato dalla società consortile al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato alla società consortile, il consorziato ha l'onere di provare – nel rispetto dei principi di certezza, effettività, inerenza e competenza – che la differenza stessa non integri suoi ricavi occulti ovvero che essa corrisponda a provvigioni o servizi resi dal consorzio al terzo.
È stato anche chiarito che alla società consortile a responsabilità limitata costituita per l'esecuzione delle opere pubbliche appaltate alle imprese consorziate, pur se già riunite in raggruppamento temporaneo di imprese, si applica la regola dettata dall'art. 2472, comma 1, c.c., in virtù della quale nella società a responsabilità limitata per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio. Invero, in caso di consorzio costituito in forma di società di capitali, la causa consortile giustifica la deroga delle norme che disciplinano il tipo di società scelto, ma non anche a quelle che fissano le regole fondamentali del tipo; e la personalità giuridica propria delle società di capitali costituisce un diaframma tra i singoli soci e i terzi creditori della società, che è il tratto essenziale della disciplina in subiecta materia (Sez. 1, n. 07734/2016, Bernabai, Rv. 639313).
La valenza conformativa delle regole della buona fede e della diligenza si manifesta in modo significativo in tema di contratti bancari. Quanto alla rilevanza del principio di buona fede e correttezza, Sez. 1, n. 17291/2016, Genovese, Rv. 640946, ha evidenziato che il recesso di una banca da un rapporto di apertura di credito in cui non sia stato superato il limite dell'affidamento concesso, benché pattiziamente previsto anche in difetto di giusta causa, deve considerarsi illegittimo, in ragione di un'interpretazione del contratto secondo buona fede, ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari, contrastando, cioè, con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale di quelli in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e non sia, dunque, pronto alla restituzione, in qualsiasi momento, delle somme utilizzate. Il debitore, il quale agisce per far dichiarare l'arbitrarietà del recesso, ha l'onere di allegare l'irragionevolezza delle giustificazioni date dalla banca, dimostrando la sufficienza della propria garanzia patrimoniale così come risultante a seguito degli atti di disposizione compiuti.
Il richiamo al rispetto del criterio della diligenza è invece presente in Sez. 1, n. 00806/2016, Acierno, Rv. 638492, secondo cui, ai fini della valutazione della responsabilità contrattuale della banca per il caso di utilizzazione illecita, da parte di terzi, di carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere omessa, a fronte di un'esplicita richiesta della parte, la verifica dell'adozione da parte dell'istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante l'intempestività della denuncia dell'avvenuta sottrazione da parte del cliente e le contrarie previsioni regolamentari; infatti, la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve valutarsi tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento, assumendo come parametro la figura dell'accorto banchiere. (Così statuendo, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, ritenendola priva di un'effettiva verifica del comportamento della banca, da effettuarsi ex art. 1176, comma 2, c.c., in ordine al riscontrato difetto di manutenzione e custodia del servizio bancomat, nonché alla condotta del responsabile presente in sede a seguito della segnalazione di spossessamento della carta da parte del cliente).
Numerose sono poi le sentenze emesse in tema di conto corrente bancario. Sez. 1, n. 12953/2016, Acierno, Rv. 640117, si occupa, in particolare, della disposizione di cui all'art. 1853 c.c. (a mente della quale, se tra la banca ed il correntista esistono più rapporti o più conti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente salvo patto contrario), che, dettata allo di scopo di garantire la banca contro ogni scoperto non specificamente pattuito che risulti a debito del cliente quale effetto di un qualsiasi rapporto o conto corrente fra le due parti, prevede che la compensazione tra saldi attivi e passivi, anche a favore del correntista, sia attuata mediante annotazioni in conto, e, in particolare (alla luce del principio dell'unità dei conti), attraverso la immissione del saldo di un conto, come posta passiva, in un altro conto ancora aperto (con le modalità proprie di tale tipo di operazione), salva manifestazione di volontà di segno contrario da parte del cliente.
Il meccanismo compensativo di cui all'art. 1853 c.c. è preso in considerazione anche da Sez. 1, n. 00512/2016, Nappi, Rv. 638260, per precisare che la compensazione tra i saldi attivi e passivi di più rapporti di conto corrente tra banca e cliente presuppone non che si tratti di conti chiusi, ma solo che siano esigibili i contrapposti crediti. Ne deriva che, in caso di giroconto da un rapporto con saldo attivo e, come tale, immediatamente disponibile per il cliente (salvo patto contrario ex art. 1852 c.c.), ad uno ancora aperto ma con saldo passivo già esigibile per la banca, l'estinzione di tale debito non consegue ad un pagamento revocabile ai sensi dell'art. 67 l.fall. ma alla compensazione, ammessa dall'art. 56 l.fall., tra il credito della banca verso il cliente poi fallito ed il debito della stessa banca nei confronti di quest'ultimo.
La questione dell'efficacia probatoria dell'estratto di saldo conto costituisce il nucleo argomentativo centrale in Sez. 3, n. 08944/2016, Pellecchia, Rv. 639911, secondo cui l'estratto può essere utilizzato, fino a prova contraria, anche nei confronti del fideiussore del correntista non soltanto per la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche nel giudizio di opposizione allo stesso e in ogni altro procedimento di cognizione, perché, ove il debitore principale sia decaduto a norma dell'art. 1832 c.c. dal diritto di impugnare gli estratti di saldo conto, il fideiussore chiamato in giudizio dalla banca medesima per il pagamento della somma dovuta non può sollevare contestazioni in ordine alla definitività di quegli estratti.
Il meccanismo di approvazione disciplinato dall'art. 1832 c.c. è richiamato anche da Sez. 1, n. 00817/2016, Nazzicone, Rv. 638496, con la precisazione che sono qualificabili come "estratti-conto di chiusura", ai fini di cui all'art. 1832, comma 2, c.c., le comunicazioni al cliente sulla situazione finale del conto, inviate dalla banca non solo allo scioglimento del rapporto, ma anche alle scadenze periodiche contrattualmente previste, quando non si limitino a contenere l'indicazione del saldo, con il calcolo delle spese e degli interessi, ma portino anche un preciso riferimento alle partite di dare ed avere che hanno condotto a quel risultato. Tuttavia, a tali fini, la riproduzione di tutte le partite contabili non è necessaria quando l'estratto conto finale faccia seguito e richiami espressamente precedenti estratti parziali inviati al cliente con l'indicazione di tutte le operazioni afferenti il relativo periodo – in sé idonea a soddisfare l'esigenza di porre il cliente in condizione di riscontrare ogni eventuale vizio incidente sul saldo finale – poiché in tal caso è sufficiente, affinché decorra il termine semestrale di decadenza di cui all'art. 1832 c.c., che l'estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura offra al correntista la comunicazione del saldo definitivo riflettente il periodo considerato, comprensivo delle spese e degli interessi.
Deve poi segnalarsi, sempre in tema di documenti bancari, Sez. 1, n. 07972/2016, Didone, Rv. 639462, che ha escluso che la banca possa sottrarsi all'onere di provare il proprio credito invocando l'insussistenza dell'obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell'ultima registrazione, in quanto tale obbligo, volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all'attività imprenditoriale, non può sollevarla dall'onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore.
Diverse sono poi le sentenze che hanno avuto modo di pronunciarsi sugli snodi problematici più rilevanti in tema di interessi sui crediti bancari. Sez. 1, n. 17150/2016, Genovese, Rv. 641046, ricorda che ove il cliente lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente e negoziato dalle parti in data anteriore al 22 aprile 2000, il giudice, dichiarata la nullità della predetta clausola, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c., deve calcolare gli interessi a debito del correntista senza operare alcuna capitalizzazione.
Sempre in tema di capitalizzazione trimestrale, Sez. 1, n. 10713/2016, Lamorgese, Rv. 639791, ha ribadito che l'azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola relativa agli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti sono stati eseguiti in pendenza del rapporto, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.
Di sicuro rilievo è la pronuncia Sez. 1, n. 12965/2016, Ferro, Rv. 640110, che ha chiarito che la commissione di massimo scoperto (CMS), applicata fino all'entrata in vigore dell'art. 2-bis del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, introdotto con la legge di conversione 28 gennaio 2009, n. 2, è in thesi legittima, almeno fino al termine del periodo transitorio, fissato al 31 dicembre 2009, posto che i decreti ministeriali che hanno rilevato il tasso effettivo globale medio (TEGM) – dal 1997 al dicembre del 2009 – sulla base delle istruzioni diramate dalla Banca d'Italia, non ne hanno tenuto conto al fine di determinare il tasso soglia usurario (essendo ciò avvenuto solo dall'1 gennaio 2010); ne consegue che l'art. 2-bis del d.l. n. 185, cit. non è norma di interpretazione autentica dell'art. 644, comma 3, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell'ordinamento, intervenuta a modificare – per il futuro – la complessa disciplina, anche regolamentare (richiamata dall'art. 644, comma 4, c.p.), tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari. Ne deriva, inoltre, che, per i rapporti bancari esauritisi prima dell'1 gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rilevante, non deve tenersi conto delle CMS applicate dalla banca, ma occorre procedere ad un apprezzamento nel medesimo contesto di elementi omogenei della rimunerazione bancaria, al fine di pervenire alla ricostruzione del tasso soglia usurario, come sopra specificato.
Il problema generale della natura giuridica e della struttura dell'offerta pubblica di strumenti finanziari di cui agli artt. 94 e 95 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, è affrontato da Sez. 1, n. 03625/2016, Nazzicone, Rv. 638799, per precisare come venga in rilievo un contratto consensuale ad effetti reali che si perfeziona attraverso un procedimento a formazione progressiva di cui la volontà del proponente, manifestata attraverso il prospetto informativo approvato dalla CONSOB ed immodificabile in ragione della sua rilevanza pubblicistica, costituisce il primo atto e l'adesione dell'investitore, espressa in forma adeguata, integra l'accettazione. In tale contesto normativo, il promotore finanziario – che, in ragione della sua collocazione nell'organizzazione dell'impresa dell'intermediario, non ha il potere di rappresentanza di quest'ultimo – non partecipa alla determinazione del contenuto negoziale e, pertanto, non è in grado, di propria iniziativa, di introdurre clausole che determinino una deviazione dalla disciplina del modello invariabile predisposto nel prospetto informativo, sicché, ove prometta rendimenti più vantaggiosi rispetto a quelli indicati nel prospetto pubblicato, il terzo contraente non può invocare i principi dell'apparenza del diritto e, in particolare, la propria condizione di buona fede, per farne discenderne conseguenze a sé favorevoli, vincolando ad essi l'offerente, vertendo egli in una condizione di colpa inescusabile.
Numerose sono poi le sentenze che affrontano la questione della forma che i contratti di intermediazione finanziaria devono possedere. In particolare Sez. 1, n. 08395/2016, Acierno, Rv. 639486, ha statuito che la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall'investitore non soddisfa l'obbligo della forma scritta ad substantiam imposto, a pena di nullità, dall'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998 e, trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall'investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto a mezzo dei quali è stato data esecuzione al contratto viziato.
Sempre a proposito degli oneri formali di cui all'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, Sez. 1, n. 03950/2016, Lamorgese, Rv. 638817, ha evidenziato che la forma scritta, imposta dalla norma a pena di nullità per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce solo ai contratti quadro e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengano poi impartiti dal cliente all'intermediario, la cui validità non è, invece, soggetta a requisiti formali, salvo che lo stesso contratto quadro li preveda anche per quelli. In tal caso, infatti, il principio di cui all'art. 1352 c.c., secondo cui la forma convenuta dalle parti per la futura stipulazione di un contratto si presume pattuita ad substantiam, è estensibile, giusta il richiamo operato dall'art. 1324 c.c., agli atti che seguono a quella stipulazione, come nell'ipotesi degli ordini suddetti.
Sulla questione della rilevabilità d'ufficio della nullità per mancata osservanza della forma scritta, Sez. 1, n. 05249/2016, Di Marzio, Rv. 639021, ha chiarito che, ove sia stata dedotta dall'investitore la nullità dei soli ordini di investimento, deve escludersi che il giudice, anche in sede di appello, possa rilevare d'ufficio la nullità del contratto quadro per difetto del requisito della forma scritta. Invero, da un lato, il rilievo officioso della nullità riguarda solo il contratto posto a fondamento della domanda e, quindi, i singoli contratti di investimento, dotati di una propria autonoma individualità rispetto al contratto quadro, sebbene con esso collegati; dall'altro, il principio del rilievo officioso della nullità va coordinato, nel giudizio di gravame, con quello del divieto di domande nuove, cosicché l'istanza, ivi formulata per la prima volta, di declaratoria della nullità non può essere esaminata, potendo solo convertirsi nella corrispondente eccezione: con la conseguenza che, nella specie, il giudice di appello non può dichiarare d'ufficio la nullità del contratto quadro, traducendosi tale pronuncia nell'inammissibile accoglimento di una domanda nuova.
Sempre in tema di oneri formali, secondo Sez. 1, n. 00612/2016, Scaldaferri, Rv. 638276, l'art. 60 del regolamento CONSOB 1 luglio 1998, n. 11522, che impone alla banca intermediaria di registrare su nastro magnetico, o altro supporto equivalente, gli ordini inerenti alle negoziazioni in valori mobiliari impartiti telefonicamente dal cliente, costituisce uno strumento atto a garantire agli intermediari, mediante l'oggettivo ed immediato riscontro della volontà manifestata dal cliente, l'esonero da ogni responsabilità quanto all'operazione da compiere, ma non impone, in assenza di specifica previsione, un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti, restando inapplicabile la preclusione di cui all'art. 2725 c.c.
Particolarmente costante ed intenso appare, poi, il confronto con la problematica delle asimmetrie informative. Richiama una distinzione di carattere generale Sez. 1, n. 08733/2016, Nazzicone, Rv. 639507, secondo cui la pubblicazione del "prospetto informativo" è prevista nelle ipotesi di sollecitazione all'investimento, ai sensi dell'art. 94, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 58 del 1998 (nel testo ratione temporis applicabile), caratterizzate per essere l'offerta comunque rivolta, secondo lo schema dell'art. 1336 c.c., ad un numero indeterminato ed indistinto di investitori in modo uniforme e standardizzato, cioè a condizioni di tempo e prezzo predeterminati. Quando, invece, la diffusione di strumenti finanziari presso il pubblico avvenga mediante la prestazione di "servizi di investimento" (art. 1, comma 5, d.lgs. n. 58 del 1998), cioè attività di negoziazione, ricezione e trasmissione di ordini, a condizioni diverse a seconda dell'acquirente e del momento in cui l'operazione è eseguita, la tutela del cliente è affidata all'adempimento, da parte dell'intermediario, di obblighi informativi specifici e personalizzati, ai sensi degli artt. 21 del d.lgs. n. 58 del 1998 e 26 ss. del reg. CONSOB n. 11522 del 1998, anche nel caso in cui la negoziazione individuale avvenga nel periodo del cd. grey market, cioè prima che i titoli siano emessi ufficialmente.
Più in particolare, riguardo alla seconda ipotesi, Sez. 1, n. 17292/2016, Genovese, Rv. 641166, ha precisato che la rivendita di strumenti finanziari (nella specie, bond Cirio) da parte di operatori qualificati, presso i quali erano stati precedentemente collocati, nei confronti della propria clientela retail nel cd. mercato grigio (cioè, prima che i titoli siano emessi ufficialmente) comporta il radicarsi di obblighi informativi specifici da parte dei predetti operatori e costituisce una vendita lecita e legittima di cosa futura, consentita dall'art. 100-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, sicché deve escludersi la nullità del negozio per non essere stato il collocamento dei titoli eseguito direttamente presso il pubblico dei risparmiatori.
Una puntuale enunciazione dei particolari obblighi informativi posti a carico dell'intermediario finanziario è presente in Sez. 1, n. 01376/2016, Valitutti, Rv. 638414, che ha affermato che la pluralità degli obblighi (di diligenza, di correttezza e trasparenza, di informazione, di evidenziazione dell'inadeguatezza dell'operazione che si va a compiere) previsti dagli artt. 21, comma 1, lett. a) e b), del d.lgs. n. 58 del 1998, 28, comma 2, e 29 del regolamento CONSOB n. 11522 del 1998 (applicabile ratione temporis) e facenti capo ai soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie, convergono verso un fine unitario, consistente nel segnalare all'investitore, in relazione alla sua accertata propensione al rischio, la non adeguatezza delle operazioni di investimento che si accinge a compiere (cd. suitability rule). Tale segnalazione deve contenere specifiche indicazioni concernenti: 1) la natura e le caratteristiche peculiari del titolo, con particolare riferimento alla rischiosità del prodotto finanziario offerto; 2) la precisa individuazione del soggetto emittente, non essendo sufficiente la mera indicazione che si tratta di un "Paese emergente"; 3) il rating nel periodo di esecuzione dell'operazione ed il connesso rapporto rendimento/rischio; 4) eventuali carenze di informazioni circa le caratteristiche concrete del titolo (situazioni cd. di grey market); 5) l'avvertimento circa il pericolo di un imminente default dell'emittente.
Significative poi sono le pronunce che si occupano dello specifico obbligo informativo concernente il grado di rischio connesso all'acquisto dello strumento finanziario. Riguardo a tale aspetto, Sez. 1, n. 17290/2016, Di Virgilio, Rv. 641163, ha statuito che nei contratti aventi ad oggetto la gestione di portafogli di valori mobiliari, gli obblighi di comportamento normativamente posti a carico dell'intermediario (art. 36 e ss. del reg. CONSOB n. 11522 del 1998) prevedono, tra l'altro – quale prescrizione vincolante, evincibile dall'Allegato 3, sub C), del menzionato regolamento, dettata al fine d'indicare le modalità di esecuzione dell'obbligo di fornire all'investitore un parametro oggettivo coerente del grado di rischio connesso alle singole gestioni – la preventiva indicazione del grado di rischio di ciascuna linea di gestione patrimoniale, sicché il solo fatto che l'intermediario professionale abbia comunicato al cliente il parametro di riferimento benchmark, che non costituisce un indicatore diretto del grado di rischio, ma fornisce unicamente la possibilità di confrontare i risultati del proprio investimento rispetto all'andamento del mercato, non costituisce valido adempimento del suo obbligo informativo circa le operazioni di investimento rispetto al profilo dell'investitore ed alla sua propensione al rischio.
In linea con tale pronuncia, Sez. 1, n. 24545/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, ha evidenziato che il cd. benchmark non può rappresentare l'unico indicatore della correttezza della gestione dell'intermediario, essendo un elemento concorrente, ma non esclusivo a definire il grado di rischio.
La rilevanza del comportamento del cliente a fronte di asimmetrie informative imputabili all'intermediario è il tema preso in esame da Sez. 1, n. 08394/2016, Bernabai, Rv. 639561, per sostenere, in linea generale, che nella prestazione del servizio di negoziazione di titoli, qualora l'intermediario abbia dato corso all'acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi, ed il cliente non rientri in alcuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste dalla normativa di settore, non è configurabile alcun concorso di colpa di quest'ultimo, nella produzione del danno, per non essersi informato aliunde della rischiosità dell'acquisto, atteso che lo speciale rapporto di intermediazione implica necessariamente un grado di affidamento nella professionalità dell'intermediario – e, dunque, nell'adeguatezza delle informazioni da lui fornite – che sarebbe contraddittorio bilanciare con l'onere dello stesso cliente di assumere direttamente informazioni da altra fonte.
Diverso è, però, il caso in cui alla violazione, da parte del promotore finanziario, degli obblighi di comportamento che la legge pone a suo carico, corrisponda, da parte del cliente, un contegno significativamente anomalo ovvero quest'ultimo, sebbene a conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione dei programmi di investimento, ometta di adottare comportamenti osservanti delle regole dell'ordinaria diligenza o avalli condotte del promotore devianti rispetto alle ordinarie regole del rapporto professionale con il cliente ed alle modalità di affidamento dei capitali da investire, così concorrendo al verificarsi dell'evento dannoso per inosservanza dei più elementari canoni di prudenza ed oneri di cooperazione nel compimento dell'attività di investimento. In tal caso, secondo Sez. 1, n. 09892/2016, Valitutti, Rv. 639656, non è esclusa la configurabilità di un concorso di colpa dell'investitore.
Diverso ancora è il caso in cui l'investitore, nel contratto quadro, si sia rifiutato di fornire informazioni sui propri obiettivi di investimento e sulla propria propensione al rischio: in tale ipotesi, secondo Sez. 1, n. 05250/2016, Di Marzio, Rv. 638899, l'intermediario finanziario, convenuto nel giudizio di risarcimento del danno per violazione degli obblighi informativi, non è esonerato dall'obbligo di valutare l'adeguatezza dell'operazione di investimento, dovendo comunque compiere quella valutazione, in base ai principi generali di correttezza e trasparenza, tenendo conto di tutte le notizie di cui egli sia in possesso (come, ad esempio, l'età, la professione, la presumibile propensione al rischio alla luce delle operazioni pregresse e abituali, la situazione di mercato).
Il problema del concorso di colpa è affrontato anche da Sez. 1, n. 04037/2016, Cristiano, Rv. 638800, precisandosi che l'intermediario finanziario non può invocare, quale causa di esclusione della responsabilità per i danni arrecati a terzi ex art. 23 del d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (applicabile ratione temporis) nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari, la semplice allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore le somme di denaro di cui quest'ultimo si è illecitamente appropriato con modalità difformi da quelle con cui lo stesso sarebbe legittimato a riceverle ai sensi dei vigenti regolamenti CONSOB (nella specie, versate con assegno bancario recante, in bianco, il nome del prenditore invece che con assegni non trasferibili intestati al soggetto abilitato per conto del quale il promotore operava); né un tal fatto può essere addotto dall'intermediario come concausa del danno subito dall'investitore al fine di ridurre l'ammontare del risarcimento dovuto, atteso che le disposizioni regolamentari emanate dalla CONSOB, anche se inserite nel documento contrattuale sottoscritto dal cliente, sono dirette unicamente a porre a carico del promotore finanziario un obbligo di comportamento a tutela dell'interesse del risparmiatore, sicché non possono tradursi in un onere di diligenza a carico di quest'ultimo, tale da risolversi in un addebito di colpa nei confronti del danneggiato dall'altrui atto illecito, salvo che la condotta dell'investitore presenti connotati, se non di collusione, quanto meno di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore (diventando, così, rilevante ai fini dell'art. 1227 c.c.).
Passando, quindi, in rassegna le sentenze che si sono occupate del problema del riparto dell'onere probatorio nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall'investitore, aventi ad oggetto l'accertamento della corretta esecuzione, da parte dell'intermediario, delle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, Sez. 1, n. 00810/2016, Nazzicone, Rv. 638346, ha ritenuto necessario per l'investitore allegare l'inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell'intermediario, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l'inadempimento, anche sulla base di presunzioni, dovendo per converso l'intermediario dimostrare l'avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte, e, sotto il profilo soggettivo, di avere agito «con la specifica diligenza richiesta».
Con particolare riguardo al contenuto della prova liberatoria, poi, Sez. 1, n. 05089/2016, Nappi, Rv. 639056, ha precisato che il giudice di merito, per assolvere l'intermediario finanziario dalla responsabilità conseguente alla violazione degli obblighi informativi previsti dalla legge, non può limitarsi ad affermare che manca la prova della sua negligenza ovvero dell'inadempimento, ma deve accertare se sussista effettivamente la prova positiva della sua diligenza e dell'adempimento delle obbligazioni poste a suo carico e, in mancanza di tale prova, che è a carico dell'intermediario fornire (art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998), questi sarà tenuto al risarcimento degli eventuali danni causati al risparmiatore. Ne consegue che, in caso di operazione non adeguata, l'intermediario può darvi corso solo a seguito di un ordine impartito per iscritto dall'investitore, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.
La sottoscrizione, da parte del cliente, della clausola in calce al modulo d'ordine, contenente la segnalazione d'inadeguatezza dell'operazione sulla quale egli è stato avvisato, è tuttavia idonea a far presumere assolto l'obbligo previsto in capo all'intermediario dall'art. 29, comma 3, del reg. CONSOB n. 11522 del 1998; è quanto sostenuto da Sez. 1, n. 11578/2016, Nazzicone, Rv. 639884, con la precisazione che, a fronte della contestazione del cliente, il quale alleghi l'omissione di specifiche informazioni, grava sulla banca l'onere di provare, con qualsiasi mezzo, di averle specificamente rese.
Le conseguenze del mancato assolvimento degli obblighi informativi sono evidenziate da Sez. 1, n. 16820/2016, Mercolino, Rv. 640905, dovendosi, secondo tale pronuncia, distinguere a seconda che le inosservanze si siano verificate in epoca antecedente o successiva rispetto alle operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro", verificandosi, rispettivamente, la risoluzione dell'intero rapporto ovvero soltanto di quelli derivanti dai singoli ordini impartiti alla banca.
Proprio il rapporto tra il contratto quadro e le singole operazioni di investimento è il profilo specificamente preso in considerazione da Sez. 1, n. 08394/2016, Bernabai, Rv. 639562, che ha ritenuto che queste ultime, in quanto concretanti autonomi contratti, esecutivi del contratto quadro originariamente stipulato dall'investitore con l'intermediario, possono essere oggetto di risoluzione, ricorrendone i presupposti, indipendentemente dalla risoluzione di quest'ultimo, con conseguente diritto alla restituzione dell'importo pagato e all'eventuale risarcimento dei danni subiti, senza che la risoluzione del singolo contratto esecutivo integri una risoluzione parziale del contratto quadro.
Anche nel corso del 2016 la S.C. si è occupata dei presupposti, oggettivi e soggettivi, per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore.
Così, in tema di requisiti dimensionali per l'esonero dalla fallibilità, Sez. 1, n. 00501/2016, Nazzicone, Rv. 638271, ricorda che ai fini del computo del triennio cui fa riferimento l'art. 1, comma 2, lett. a), l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169) per la determinazione dell'attivo patrimoniale occorre fare riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti alla data del deposito dell'istanza di fallimento.
Sez. 6-1, n. 14727/2016, Mercolino, Rv. 640749, invece, ai fini del computo del limite minimo di fallibilità previsto dall'art. 15, comma 9, l.fall., precisa che deve aversi riguardo al complesso dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare, dovendosi escludere ogni rilievo a quelli successivamente accertati in sede di verifica dello stato passivo.
Sez. 1, n. 00625/2016, Bernabai, Rv. 638150, ricorda che l'onere della prova del mancato superamento dei limiti di fallibilità previsti dall'art. 1, comma 2, l.fall., nella formulazione derivante dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile ratione temporis, grava sul debitore, atteso che la menzionata disposizione, anche prima delle ulteriori modifiche ad essa apportate dal d.lgs. n. 169 del 2007, già poneva come regola generale l'assoggettamento a fallimento degli imprenditori commerciali e, come eccezione, il mancato raggiungimento dei ricordati presupposti dimensionali. Non osta a tale conclusione la natura officiosa del procedimento prefallimentare, che impone al tribunale unicamente di attingere elementi di giudizio dagli atti e dagli elementi acquisiti, anche indipendentemente da una specifica allegazione della parte, senza che, peraltro, il giudice debba trasformarsi in autonomo organo di ricerca della prova, tanto meno quando l'imprenditore non si sia costituito in giudizio e non abbia, quindi, depositato i bilanci dell'ultimo triennio, rilevanti ai fini in esame.
L'esenzione dal fallimento per gli imprenditori agricoli, secondo Sez. 1, n. 16614/2016, Bernabai, Rv. 640937, non è invocabile quando non sussista, di fatto, il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo, o quando le attività connesse di cui all'art. 2135, comma 3, c.c. assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, gravando su chi invochi l'esenzione, sotto il profilo della connessione tra la svolta attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli e quella tipica di coltivazione ex art. 2135, comma 1, c.c., il corrispondente onere probatorio.
Soggiunge Sez. 6-1, n. 09788/2016, Genovese, Rv. 639611, che ai fini dell'esenzione dal fallimento di una cooperativa avente ad oggetto attività agricole, è dovere del giudice, oltre che verificarne le clausole statutarie ed il loro tenore, esaminare anche in concreto l'atteggiarsi dell'attività d'impresa svolta dal sodalizio mutualistico, valutando le attività economiche dalla stessa effettivamente svolte, alla luce della disciplina introdotta dall'art. 1 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, senza che su tale esame si sovrapponga la considerazione dell'effettività dello scopo mutualistico, rilevante a diversi fini, ma non assorbente della verifica dei presupposti di legge, previsti dall'art. 2135 c.c., per il riconoscimento (o l'esclusione) della qualità di impresa agricola esentata dal fallimento.
Sul termine annuale entro cui può intervenire la dichiarazione di fallimento, meritano di essere segnalate:
- Sez. 1, n. 00501/2016, Nazzicone, Rv. 638270, a tenore della quale il recesso del socio da una società di persone composta da due soli soci (nella specie, una società in nome collettivo) e la mancata ricostituzione della pluralità della compagine sociale da parte del socio superstite determinano lo scioglimento della società, ex art. 2272, n. 4, c.c., non già la sua estinzione, con conseguente possibilità della stessa di essere sottoposta a fallimento entro l'anno dall'intervenuta cancellazione dal registro delle imprese ai sensi dell'art. 10 l.fall.;
- Sez. 1, n. 08092/2016, Nazzicone, Rv. 639316, secondo cui l'imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito ai sensi dell'art. 10 l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007), entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, senza possibilità per l'imprenditore medesimo di dimostrare il momento anteriore dell'effettiva cessazione dell'attività;
- Sez. 1, n. 24549/2016, Terrusi, Rv. 641893, nel ribadire l'irrilevanza, nei confronti dei terzi, della eventuale diversa data di effettiva cessazione dell'attività, rispetto alle risultanze del registro delle imprese – atteso che l'imprenditore non può dimostrare il momento asseritamente anteriore di una tale condizione di fatto –, afferma come non possa riconoscersi rilievo alcuno a quale sia stato l'iter procedimentale che abbia portato all'individuazione, presso il detto registro, della data di cancellazione.
- Sez. 1, n. 15346/2016, Terrusi, Rv. 640753, ove è precisato che il detto termine, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese e si applica anche alle società ivi non iscritte, nei confronti delle quali, tuttavia, il bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, impone d'individuare il dies a quo nel momento in cui la cessazione dell'attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei o, comunque, sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata. L'onere di fornire la prova di tali circostanze spetta al resistente;
- Sez. 1, n. 03621/2016, Ferro, Rv. 638843, la quale aggiunge che non assume alcun rilievo la circostanza che l'impresa apparentemente individuale, ad essa in realtà riferibile, sia stata cancellata dal registro delle imprese da oltre un anno, posto che la società, sia pur di fatto, assume un'identità soggettiva distinta da quella delle persone (fisiche e non) che la compongono;
- Sez. 1, n. 16535/2016, Terrusi, Rv. 640934, ove si afferma che lo scioglimento di diritto, con conseguente perdita della personalità giuridica, della cooperativa edilizia di abitazione che non abbia depositato, nei termini stabiliti, i bilanci relativi agli ultimi due anni, non ne impedisce l'assoggettamento, ove sia accertata l'insolvenza, alla procedura concorsuale stabilita dalla legge in relazione al tipo sociale, atteso che la stessa permane come centro di imputazione degli atti compiuti fino alla data di cancellazione dal registro delle imprese, onde scongiurare il verificarsi di situazioni di incertezza con ripercussioni per i soci e per i terzi, e l'estinzione della società come cooperativa, supponendo quella cancellazione, può avvenire solo a seguito dell'avvenuta liquidazione del patrimonio dell'ente, attraverso l'azione dell'autorità di vigilanza o, se la liquidazione sia stata chiesta dalla società, dei liquidatori.
Sugli organi delle procedure concorsuali, come di consueto, plurime sono le decisioni della Corte, riguardanti particolare soprattutto i compensi spettanti ai professionisti.
Così, Sez. 1, n. 04269/2016, Terrusi, Rv. 638881, ricorda che la liquidazione del compenso spettante al difensore che abbia patrocinato la curatela in un giudizio, effettuata dal giudice delegato ex art. 25 l.fall., può essere inferiore a quanto corrispondentemente disposto, in favore della curatela, con la sentenza conclusiva di quel giudizio, allorché la stessa non sia ancora passata in giudicato, ma, ove la sua definitiva decisione determini l'importo delle spese processuali dovute alla curatela medesima in misura superiore a quella liquidata al professionista in sede fallimentare, ricevendo in parte qua fruttuosa esecuzione, quest'ultima può invocare tale decisione come titolo per ottenere l'eventuale maggior somma che gli compete per l'opera prestata e che, se incamerata dal cliente, ne determinerebbe un'ingiusta locupletazione.
Sez. 1, n. 04458/2016, Ragonesi, Rv. 639012, in tema di concordato preventivo con cessione di beni, afferma che ove al medesimo soggetto, già nominato commissario giudiziale, sia poi stato affidato, senza contestazione alcuna, anche l'incarico di liquidatore, non può essergli negato il relativo compenso per tale distinto ruolo assunto ed il conseguente espletamento dell'ulteriore e diversa attività, la quale, pertanto, merita separata ed autonoma remunerazione rispetto a quella da lui già ottenuta per quanto svolto come commissario giudiziale.
A sua volta Sez. 1, n. 07591/2016, Didone, Rv. 639257, ricorda che, sempre nel concordato preventivo, il liquidatore giudiziale svolge funzioni equiparabili a quelle del curatore del fallimento ed ha, pertanto, diritto, al pari di quest'ultimo, ad un compenso che, in mancanza di una specifica disciplina normativa ex art. 182 l.fall., dev'essere quantificato, ai sensi dell'art. 39 l.fall. e del decreto ministeriale ivi richiamato, in una percentuale sull'attivo realizzato o, in assenza di risultati utili della liquidazione, nel minimo legale. Tale compenso, inoltre, come per il curatore, può essere liquidato solo dopo l'approvazione del rendiconto, benché, nella normativa anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 5 del 2006, la sua presentazione non sia imposta da una norma di legge ma solo dalla sentenza di omologazione.
Ancora sul liquidatore giudiziale nel concordato preventivo, Sez. 1, n. 07973/2016, Nappi, Rv. 639464, ricorda che nel concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, le funzioni svolte dal liquidatore nominato ex art. 182 l.fall. sono assimilabili a quelle esercitate dal curatore fallimentare, sicché sono utilizzabili, per la quantificazione del compenso del primo, i medesimi criteri stabiliti per quella del secondo. Pertanto, è ragionevole che il tribunale riconosca al commissario giudiziale somme maggiori rispetto a quelle attribuite al liquidatore, posto che l'attività espletata dal primo prende avvio già dal decreto di ammissione alla procedura ex art. 163 l.fall. e si protrae anche dopo l'omologazione del concordato, dovendo egli sorvegliarne l'adempimento ex art. 185 l.fall., mentre il ruolo del liquidatore è necessariamente ristretto alla sola fase esecutiva del concordato, successiva rispetto all'omologa della proposta.
Sez. 6-1, n. 16269/2016, Bisogni, Rv. 641318, afferma infine che, quando alla revoca dell'ammissione al concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento, la già proposta domanda di liquidazione del compenso del commissario giudiziale è improcedibile, dovendo essere riproposta, esaminata e decisa in sede di ammissione al passivo fallimentare.
Tradizionalmente anche nel 2016 sono state numerose le pronunce della S.C. in tema di atti pregiudizievoli per la massa dei creditori.
Anzitutto va ricordata Sez. 1, n. 13165/2016, Cristiano, Rv. 640223, che, riferendosi ad una azione revocatoria fallimentare proposta con il rito camerale dalla curatela di un fallimento pronunciato nella vigenza dell'art. 24, comma 2, l.fall. ma dopo la sua avvenuta abrogazione ad opera dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007, l'ha ritenuta inammissibile in applicazione del principio tempus regit actum, svolgendosi altrimenti il processo, ancor prima del suo inizio, secondo un rito ormai abrogato, tanto più che l'art. 22 del cd. decreto correttivo, recante la disciplina transitoria conseguente alla sua entrata in vigore, deve intendersi riferito, alla stregua della sua interpretazione letterale, alla regolamentazione propria delle "procedure concorsuali", e dunque, sul piano processuale, ai soli procedimenti che tipicamente si innestano nel corso delle stesse, ma non anche alle controversie che, pur originando dal fallimento, sono regolate dalle legge speciale solo quanto all'esclusiva competenza a conoscerle del tribunale che ha emesso la sentenza dichiarativa.
Di interessa appare poi Sez. 6-1, n. 01103/2016, Cristiano, Rv. 638422, la quale in primo luogo ribadisce il principio, pacifico nella giurisprudenza della S.C., secondo cui in ipotesi di fallimento di una società di persone e dei soci illimitatamente responsabili, il curatore del fallimento sociale è legittimato ad agire in revocatoria contro gli atti disposizione compiuti dal socio, poiché l'accrescimento del patrimonio di quest'ultimo, in conseguenza dell'accoglimento dell'azione, produce risultati positivi ai fini del soddisfacimento non solo dei suoi creditori particolari, ma anche dei creditori della società, il cui credito si intende dichiarato per intero anche nel fallimento del primo. Ne deriva che la sentenza che definisce il relativo giudizio fa stato, nei confronti dei creditori di entrambe le masse, così precludendo al curatore del fallimento personale del socio di riproporre la medesima azione già introdotta quale curatore del fallimento sociale.
Sez. 1, n. 09453/2016, Scaldaferri, Rv. 639620, ricorda che il commissario dell'amministrazione straordinaria di cui alla l. 3 aprile 1979, n. 95 ha gli stessi poteri attribuiti a quello della liquidazione coatta amministrativa, in virtù del richiamo operato dall'art. 1 del d.l. 30 gennaio 1979, n. 26 (poi convertito dalla menzionata legge) alle disposizioni della legge fallimentare, sicché egli, per intraprendere o proseguire l'azione revocatoria fallimentare, non necessita dell'autorizzazione dell'autorità di vigilanza, richiesta dall'art. 206 l.fall. – norma speciale ed esaustiva rispetto al rinvio generale ai poteri del curatore contenuto nell'art. 201 l.fall. – solo per il promovimento delle azioni di responsabilità di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c. e per il compimento degli atti ex art. 35 l.fall.
Degna di sicura menzione si mostra Sez. 6-1, n. 13719/2016, Genovese, Rv. 640362, che occupandosi per la prima volta degli atti esecutivi di un piano attestato di risanamento a norma dell'art. 67, comma 3, lett. d), l.fall. (nel testo previgente al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), afferma che, per ritenere tali atti esenti dalla domanda di revocatoria fallimentare proposta dalla curatela, il giudice deve verificare, con giudizio ex ante, la manifesta idoneità del piano medesimo, del quale gli atti impugnati costituiscono strumento attuativo, a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria della stessa.
Sempre in tema di esenzioni dalla revocatoria fallimentare, Sez. 1, n. 25162/2016, Di Virgilio, Rv. 642044, si è soffermata, per la prima volta, sull'interpretazione dell'art. 67, comma 3, lett. a), l.fall. ed ha chiarito che con l'espressione «pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso» il legislatore ha inteso riferirsi esclusivamente al rapporto diretto tra le parti, dando rilievo al mutamento dei termini, da intendersi non solo come tempi, ma anche come complessive modalità di pagamento.
Significative anche le decisioni che si sono occupate della decorrenza del cd. "periodo sospetto".
Sez. 1, n. 14779/2016, Cristiano, Rv. 640743, in presenza di un pagamento effettuato lo stesso giorno della dichiarazione di fallimento, afferma che, poiché nella disciplina anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006, la legge non prescrive, tra gli elementi di individuazione della data della sentenza dichiarativa di fallimento, l'annotazione dell'ora in cui è stata emessa la decisione, il fallito resta privo dell'amministrazione e della disponibilità dei beni sin dall'ora zero del giorno della sua pubblicazione.
Sez. 1, n. 24792/2016, Ferro, Rv. 642138, riafferma, anche dopo la novella dell'art. 67, comma 1, n. 4), l.fall. – introdotta dal d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005 – che ai fini del calcolo del periodo sospetto deve intendersi come data di costituzione dell'ipoteca, volontaria o giudiziale, non già quella dell'atto notatile o del titolo giudiziale, bensì quella dell'iscrizione nei pubblici registri.
E invero, l'atto di concessione attribuisce al creditore il diritto a procedere all'iscrizione e gli conferisce il titolo idoneo a pretenderla dal conservatore dei registri immobiliari, ma solo a seguito dell'iscrizione il creditore medesimo acquista il diritto di espropriare i beni vincolati anche in confronto del terzo acquirente e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato dall'espropriazione e solo con l'iscrizione si verificano gli effetti pregiudizievoli, che alterano la condizioni di parità dei creditori.
Sez. 1, n. 05924/2016, Ferro, Rv. 639058, ribadisce che anche dopo la riforma della legge fallimentare, nel caso di ammissione di una società di persone al concordato preventivo seguita dalla dichiarazione di fallimento della medesima società e dei soci illimitatamente responsabili, ai sensi dell'art.147 l.fall., il termine a ritroso per l'esercizio dell'azione revocatoria degli atti aventi natura depauperativa, indicati dall'art. 67 l. fall. e posti in essere dal socio o da terzi sul patrimonio di quest'ultimo, decorre dal decreto di ammissione della società al concordato preventivo e non dalla data della sentenza di fallimento del socio.
Sez. 1, n. 07324/2016, Di Virgilio, Rv. 639325, afferma che il principio della consecuzione processuale tra le procedure di concordato preventivo e di fallimento non può essere applicato con riferimento ai creditori personali dei soci illimitatamente responsabili di società di persone, in quanto l'efficacia del concordato preventivo della società nei confronti dei soci illimitatamente responsabili riguarda esclusivamente i debiti sociali. Ne consegue che, ai fini dell'opponibilità di eventuali ipoteche al fallimento o del computo degli interessi sui crediti vantati nei confronti dei singoli soci, non rileva la data di ammissione della società di persone al concordato preventivo, ma quella della successiva dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 147 l.fall., dei soci illimitatamente responsabili.
Ancora nell'ipotesi di fallimento dichiarato dopo la modifica, operata con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, dell'art. 67 l.fall., in consecuzione rispetto ad un concordato preventivo precedente a tale novella, secondo Sez. 1, n. 06045/2016, Terrusi, Rv. 639090, l'entità del periodo sospetto rilevante ai fini della revoca degli atti pregiudizievoli compiuti anteriormente al concordato stesso va determinata in base al testo della norma vigente al momento dell'apertura di quest'ultimo e non del successivo fallimento, attesa l'unitarietà giuridica dell'intera procedura.
Infine Sez. 1, n. 00803/2016, Cristiano, Rv. 638277, ricorda che lo stato di insolvenza dell'imprenditore forma oggetto di una presunzione iuris et de iure conseguente all'apertura della procedura concorsuale, cosicché il convenuto in revocatoria non è ammesso a provare che, nel periodo suddetto, il debitore versava in una situazione di sola temporanea difficoltà ad adempiere, potendo solamente contestare la percezione dei sintomi del dissesto con l'allegazione, se del caso, dei fatti dimostrativi della propria inscientia decoctionis.
Da segnalare, in primo luogo, Sez. 1, n. 12261/2016, Bernabai, Rv. 640039, a tenore della quale le somme versate dalla compagnia assicuratrice all'assicurato fallito a titolo di riscatto della polizza vita sono sottratte all'azione di inefficacia di cui all'art. 44 l.fall., in virtù del combinato disposto degli artt. 1923 c.c. e 46, comma 1, n. 5, l.fall., riguardando l'esonero dalla disciplina del fallimento tutte le possibili finalità dell'assicurazione sulla vita e, dunque, non solo la funzione previdenziale ma anche quella di risparmio.
Per Sez. 1, n. 14779/2016, Cristiano, Rv. 640744, in caso di fallimento del debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, l'azione con la quale il curatore fa valere l'inefficacia, ai sensi dell'art. 44 l.fall., del pagamento eseguito dal debitor debitoris al creditore assegnatario, ha ad oggetto un atto estintivo di un debito del fallito, a lui riferibile in quanto effettuato con il suo denaro e in sua vece, sicché va esercitata nei soli confronti dell'accipiens, ossia di colui che ha effettivamente beneficiato dell'atto solutorio.
Sempre in caso di debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, Sez. 6-1, n. 01227/2016, Bisogni, Rv. 638560, afferma che il pagamento eseguito dal debitor debitoris al creditore che abbia ottenuto l'assegnazione del credito pignorato ex art. 553 c.p.c. è inefficace, ai sensi dell'art. 44 l.fall., se intervenuto successivamente alla dichiarazione di fallimento, non assumendo rilievo, a tal fine, l'anteriorità dell'assegnazione, che, disposta "salvo esazione", non determina l'immediata estinzione del debito dell'insolvente, sicché l'effetto satisfattivo per il creditore procedente è rimesso alla riscossione del credito, ossia ad un pagamento che, poiché eseguito dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, subisce la sanzione dell'inefficacia.
In tema di revocatoria fallimentare della compravendita stipulata in adempimento di un contratto preliminare, secondo Sez. 1, n. 06040/2016, Didone, Rv. 639089, l'accertamento dei relativi presupposti va compiuto con riferimento alla data del contratto definitivo, in quanto l'art. 67 l.fall. ricollega la consapevolezza dell'insolvenza al momento in cui il bene, uscendo dal patrimonio, viene sottratto alla garanzia dei creditori, rendendo irrilevante lo stato soggettivo con cui è assunta l'obbligazione, di cui l'atto finale comporta esecuzione, salvo che ne sia provato il carattere fraudolento; del resto, qualora nel momento fissato per la stipulazione del contratto definitivo, sussista pericolo di revoca dell'acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore, il promissario acquirente ha la facoltà di non addivenire alla stipulazione, invocando la tutela dell'art. 1461 c.c.
Sempre con riguardo agli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire, Sez. 6-1, n. 03237/2016, Genovese, Rv. 638622, chiarisce che l'esenzione da revocatoria prevista dall'art. 10 del d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, introducendo una diversa ed innovativa disciplina rispetto a quella previgente, non può retroagire fino ad applicarsi a contratti stipulati e ad insolvenze dichiarate prima della sua entrata in vigore.
Sul dibattuto tema della revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario, Sez. 1, n. 06042/2016, Ferro, Rv. 639091, ribadisce che nel caso di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, il fallimento che chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, ha l'onere di dimostrare l'esistenza di atti aventi carattere solutorio e, dunque, la cronologia dei singoli movimenti, cronologia che non può essere desunta dall'ordine delle operazioni risultante dall'estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto, sicché in mancanza di tale prova devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti.
Per Sez. 1, n. 06282/2016, Cristiano, Rv. 639198, la revocatoria fallimentare del pagamento di debiti del fallito, ex art. 67, comma 2, l.fall., è esperibile anche quando il pagamento sia stato effettuato dal terzo garante, purché risulti che questi, dopo aver pagato, abbia esercitato azione di rivalsa verso il debitore principale prima dell'apertura del fallimento.
Precisa, tuttavia, Sez. 6-1, n. 13611/2016, Genovese, Rv. 640364, che non costituisce pagamento del terzo, ma adempimento diretto del debitore, il pagamento eseguito mediante l'invio, fatto da quest'ultimo al proprio creditore, di un assegno bancario tratto da un terzo, consegnato e trasferito al debitore poi dichiarato insolvente, il quale, divenutone proprietario, ha legittimamente esercitato i diritti incorporati nel titolo.
Nella fattispecie di pagamento mediante assegno postdatato, Sez. 1, n. 03136/2016, Ferro, Rv. 638518, afferma che trattandosi di un mezzo di pagamento equivalente al denaro, non perde le sue caratteristiche di titolo di credito, per cui i relativi atti estintivi di debiti non costituiscono mezzi anormali di pagamento e non sono, pertanto, assoggettati all'azione revocatoria fallimentare prevista dall'art. 67, comma 1, n. 2, l.fall.
Occupandosi di un tema parecchio dibattuto in giurisprudenza, Sez. 1, n. 03955/2016, Terrusi, Rv. 638838, chiarisce che è revocabile, ai sensi dell'art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., ed, in ogni caso, ex art. 67, comma 2, l.fall., la rimessa conseguente alla concessione di un mutuo garantito da ipoteca destinata a ripianare uno scoperto di conto, laddove il mutuo ipotecario ed il successivo impiego della somma siano inquadrabili nel contesto di un'operazione unitaria il cui fine ultimo è quello di azzerare la preesistente obbligazione. Infatti la garanzia ipotecaria non è espressione di autotutela preventiva, in quanto costituita per debito preesistente, in tutti i casi in cui il mutuatario non abbia ad acquisire contestualmente nuova disponibilità finanziaria, essendo, in tal caso, la garanzia associata ad un rischio di credito già in atto.
In tema di rapporti pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, per l'esercizio da parte del curatore del fallimento del promissario acquirente, della facoltà di scioglimento dal contratto preliminare di vendita pendente, ex art. 72 l.fall. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2006), secondo Sez. 1, n. 12462/2016, Genovese, Rv. 639959, non è richiesto un negozio formale né la necessità dell'autorizzazione del giudice delegato, trattandosi di una prerogativa discrezionale, rimessa all'autonomia del curatore.
Sempre in tema di contratti preliminari, qualora il negozio abbia ad oggetto un bene da acquistarsi in comunione, per Sez. 1, n. 12462/2016, Genovese, Rv. 639960, si deve presumere, salvo che risulti il contrario, che le parti lo abbiano considerato un unicum inscindibile. Ne consegue che la scelta del curatore del fallimento del promissario coacquirente di scioglimento dal rapporto ex art. 72 l.fall. determina la caducazione complessiva del vincolo contrattuale e preclude al promittente venditore la possibilità di esercitare l'azione di esecuzione in forma specifica nei confronti degli altri.
Sez. 6-1, n. 17627/2016, Acierno, Rv. 641858, dà continuità all'insegnamento delle sezioni unite della S.C. del 2015 (Sez. U, n. 18131/2015, Vivaldi, Rv. 636343), ribadendo che in forza dell'art. 2652, comma 2, c.c., il potere del curatore di sciogliersi dal contratto preliminare, ex art. 72 l.fall., stavolta nel testo anteriore alla riforma del 2006, non è opponibile al terzo acquirente che abbia trascritto la domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. prima della dichiarazione di fallimento.
Sul contratto d'opera professionale pendente, Sez. 1, n. 10526/2016, Di Virgilio, Rv. 639847, afferma che il commissario liquidatore di una società in liquidazione coatta amministrativa può sciogliersi anche da un tale contratto, avvalendosi del combinato disposto degli artt. 72 (nel testo anteriore alla modifica di cui al d.lgs. n. 5 del 2006) e 201 l.fall; ciò in quanto la facoltà prevista dal citato art. 72 per la vendita è espressione di un principio di carattere generale, se non derogato da norme specifiche, che può risultare anche per fatti concludenti, costituendo la dichiarazione espressa prevista dal comma 2 della disposizione solo la condotta legale tipica, nella sua forma ordinaria ma non tassativa.
In tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, secondo Sez. 1, n. 03193/2016, Ferro, Rv. 638564, l'art. 50 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 – anche alla stregua dell'interpretazione autentica fornitane dall'art. 1-bis del d.l. 28 agosto 2008, n. 134, conv., con modif., dalla l. 27 ottobre 2008, n. 166 – prevede la continuazione dei contratti preesistenti all'am-ministrazione straordinaria unicamente ai fini della conservazione aziendale e per assicurare al commissario uno spatium deliberandi per l'esercizio della facoltà di scioglimento o di subentro. Ne consegue che la prosecuzione di una precedente somministrazione di servizi dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza, ove non sia stata accompagnata da un'espressa dichiarazione di subentro da parte del commissario, non comporta il trasferimento del rapporto in capo alla procedura anche per le prestazioni pregresse e la prededucibilità del relativo credito.
Merita, infine, di essere menzionata Sez. 1, n. 02538/2016, Genovese, Rv. 638568, a tenore della quale l'art. 72-quater l.fall. trova applicazione solo nel caso in cui il contratto di leasing sia pendente al momento del fallimento dell'utilizzatore, mentre, ove si sia già anteriormente risolto, occorre distinguere a seconda che si tratti di leasing finanziario o traslativo, solo per quest'ultimo potendosi utilizzare, in via analogica, l'art. 1526 c.c.; con l'ulteriore conseguenza che, in tal caso, il concedente ha l'onere, se intenda insinuarsi al passivo del fallimento, di proporre la corrispondente domanda completa in tutte le sue richieste nascenti dall'applicazione della norma da ultimo citata.
Sull'assai ricorrente problematica della data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, pare senz'altro meritevole di andare segnalata Sez. 1, n. 18938/2016, Mercolino, Rv. 641833, secondo cui ai fini della decisione circa l'opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata non di data certa, mediante la quale voglia darsi la prova del momento in cui il negozio è stato concluso, ove sia dedotto un fatto diverso da quelli tipizzati nell'art. 2704 c.c. (registrazione, morte o sopravvenuta impossibilità fisica di uno dei sottoscrittori, riproduzione in un atto pubblico), spetta al giudice il compito di valutarne, caso per caso, la sussistenza e l'idoneità a stabilire la certezza della data del documento, con il limite del carattere obiettivo del fatto, il quale non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità.
Sempre in tema di data certa, Sez. 1, n. 19595/2016, Bisogni, Rv. 641836, ricorda che anche il creditore ammesso al passivo fallimentare, il quale si opponga, con l'impugnazione prevista dall'art. 100 l.fall. (applicabile in data antecedente al d.lgs. n. 5 del 2006), all'ammissione di altro creditore, si pone nella qualità di terzo, e può quindi invocare, al fine di contestare l'anteriorità rispetto al fallimento del titolo posto a sostegno di detto altro credito i limiti fissati dall'art. 2704 c.c. in tema di certezza e computabilità della data della scrittura privata nei confronti dei terzi, con la conseguenza che, a fronte di tale contestazione, spetta al creditore opposto di fornire la dimostrazione di detta anteriorità, tramite i fatti contemplati dal citato art. 2704 c.c., e quindi con esclusione della prova per testi o presunzioni che sia direttamente vertente sulla certezza della data medesima.
Sez. 1, n. 19196/2016, Bisogni, Rv. 641305, precisa che la violazione di una norma imperativa non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, giacché l'art. 1418, comma 1, c.c., con l'inciso ‹‹salvo che la legge disponga diversamente››, impone all'interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti della norma. Pertanto, in assenza di un divieto generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, la stipulazione di un contratto di mutuo ipotecario avvenuta in violazione dell'art. 216, comma 3, l.fall., che punisce la condotta di bancarotta preferenziale, non dà luogo a nullità di quel contratto, per illiceità di causa, ai sensi del citato art. 1418 c.c., ma costituisce il presupposto per la revocazione degli atti lesivi della par condicio creditorum.
In tema di omessa contribuzione previdenziale da parte del datore di lavoro poi fallito, di estrema rilevanza pratica appare Sez. 1, n. 23426/2016, Di Marzio, Rv. 642657, a tenore della quale il credito retributivo del lavoratore va ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro al lordo della quota contributiva altrimenti gravante sul lavoratore, in privilegio trattandosi di credito per retribuzione, con esclusione della quota contributiva a carico del datore di lavoro. E ciò in quanto in caso di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, della retribuzione a questi non corrisposta, la quota contributiva altrimenti dovuta dal lavoratore rimane definitivamente a carico del datore di lavoro, poiché non è configurabile un diritto del lavoratore ad invocare in proprio favore l'adempimento dell'obbligazione contributiva.
Sulla vasta tematica dei crediti privilegiati, anzitutto, va ricordata Sez. 1, n. 17141/2016, Terrusi, Rv. 641041, che ribadisce l'orientamento della S.C. a tenore del quale il privilegio speciale sul bene immobile, che assiste (ai sensi dell'art. 2775-bis c.c.) i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell'art. 2645-bis c.c., siccome subordinato ad una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall'ultima parte dell'art. 2745 c.c.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull'ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dall'art. 2748, comma 2, c.c., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Ne consegue che, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell'immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell'art. 72 l.fall.), il conseguente credito del promissario acquirente, benché assistito da privilegio speciale, deve essere collocato con grado inferiore, in sede di riparto, rispetto a quello dell'istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull'immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice.
Per Sez. 1, n. 06285/2016, Di Virgilio, Rv. 639200, la domanda di insinuazione al passivo fallimentare proposta da uno studio associato fa presumere l'esclusione della personalità del rapporto d'opera professionale da cui quel credito è derivato, e, dunque, l'insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c., salvo che l'istante dimostri che il credito si riferisca ad una prestazione svolta personalmente dal professionista, in via esclusiva o prevalente, e sia di pertinenza dello stesso professionista, pur se formalmente richiesto dall'associazione.
Sez. 6-1, n. 11656/2016, Cristiano, Rv. 639881, ribadisce che in tema di formazione dello stato passivo, il creditore che invochi il riconoscimento di un privilegio speciale ha l'onere, giusta l'art. 93, comma 3, n. 4, l.fall., come modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006, di specificare su quale bene intende esercitare la prelazione, altrimenti il credito insinuato deve essere considerato chirografario in ragione della previsione del successivo comma 4 della medesima disposizione.
Sui privilegi in tema di tributi locali, merita senz'altro di essere segnalata Sez. 1, n. 12275/2016, Ferro, Rv. 640011, a tenore della quale la tassa rifiuti (TARI) ha sostituito, a decorrere dall'1 gennaio 2014, i preesistenti tributi dovuti ai comuni dai cittadini, enti ed imprese quale pagamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (già TARES e prima ancora TIA e TARSU), conservandone la medesima natura tributaria, quale entrata pubblica costituente "tassa di scopo", che mira a fronteggiare una spesa di carattere generale, con ripartizione dell'onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio, senza alcun rapporto sinallagmatico tra la prestazione da cui scaturisce l'onere ed il beneficio che il singolo riceve. Ne consegue che al credito relativo si applica il privilegio previsto dall'art. 2752, comma 3, c.c., in quanto tale norma, con l'espressione «legge per la finanza locale», non rinvia ad una legge specifica istitutiva della singola imposta, bensì a tutte le disposizioni che disciplinano i tributi comunali e provinciali, così come chiarito dall'art. 13, comma 13, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv., con modif., dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha fornito un'interpretazione autentica del menzionato comma.
Secondo Sez. 1, n. 09995/2016, Nappi, Rv. 639802, in tema di opposizione allo stato passivo, i crediti maturati per canoni di contratti di leasing, stipulati dalla società in bonis, rimasti insoluti nel periodo anteriore alla sua ammissione ad una procedura di concordato preventivo e fino al fallimento della società stessa, possono essere soddisfatti in prededuzione, ex art. 111 l.fall., nel successivo fallimento, ove siano esposti già nel piano analitico allegato alla proposta ai sensi dell'art. 161, comma 2, l. fall., secondo un principio generale che può ricavarsi dall'art. 182-quater, comma 2, l.fall., atteso che solo una preventiva indicazione in seno alla proposta concordataria del novero e dell'ammontare dei "debiti della massa" consente ai creditori ammessi al voto le necessarie valutazioni sulla sua convenienza, nonché di formulare una ragionevole prognosi sulle possibilità di effettivo adempimento.
Va, altresì, segnalata Sez. 1, n. 24791/2016, Ferro, Rv. 642043, per la quale, dando continuità al principio già affermato (Sez. 6-1, n. 25589/2015, Mercolino, Rv. 637877), i crediti prededucibili ex art. 111, comma 2, l.fall. vanno individuati sulla base di un duplice criterio, cronologico e teleologico, in modo tale da ricomprendere non solo le obbligazioni della massa sorte all'interno della procedura, ma tutte quelle che interferiscono con l'amministrazione fallimentare e, conseguentemente, con gli interessi del ceto creditorio, ma non anche qualsiasi obbligazione caratterizzata da un sia pur labile collegamento con la procedura concorsuale, dovendosi accertare in ogni caso il vantaggio arrecato alla massa dei creditori, ha precisato che tale accertamento, riservato al giudice di merito, va compiuto con valutazione da operare ex ante, non potendo l'evoluzione fallimentare della vicenda concorsuale, di per sé sola e pena la frustrazione dell'obiettivo della norma, escludere il ricorso all'istituto della prededuzione.
Sul procedimento per la ripartizione dell'attivo fallimentare, secondo Sez. 1, n. 00502/2016, Ferro, Rv. 638133, i creditori, nel regime anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006, possono proporre reclamo avverso il decreto che rende esecutivo il progetto di riparto pur quando non abbiano presentato le osservazioni di cui all'art. 110, comma 3, l.fall., configurandosi, di solito, quel decreto come l'unico provvedimento definitivo suscettibile di determinare preclusioni circa la collocazione dei crediti correnti.
Sempre in tema di riparto, secondo Sez. 1, n. 00525/2016, Di Virgilio, Rv. 638273, il giudice delegato deve normalmente limitarsi a risolvere le questioni relative alla graduatoria dei privilegi ed alla collocazione dei crediti, mentre non può apportare modifiche allo stato passivo, impugnabile solo nelle forme previste dalla legge; può, tuttavia, procedere all'esclusione di un credito già ammesso al concorso laddove il curatore faccia valere un fatto estintivo dello stesso sopravvenuto alla dichiarazione di esecutività dello stato passivo e, dunque, nuovo e posteriore rispetto al giudicato endofallimentare.
Una sola sentenza, ma di sicura rilevanza, si registra in tema di concordato fallimentare. Secondo, Sez. 1, n. 22045/2016, Terrusi, Rv. 642640-02, ai fini dell'omologazione del concordato fallimentare, il pagamento integrale ed immediato dei creditori aventi diritto di prelazione non è equivalente ad un loro pagamento integrale ma dilazionato, sia pure con riconoscimento degli interessi legali. Ne discende che i creditori concorsuali vanno ammessi al voto in misura percentuale pari all'entità del sacrificio subito, senza che, sotto altro profilo, sia necessaria la relazione del professionista di cui all'art. 124, comma 3, l.fall.
In ordine ai presupposti oggettivi per l'ammissibilità del concordato, di sicuro rilievo appaiono talune decisioni della S.C., anche a Sezioni Unite, in tema di falcidiabilità dei crediti IVA e di transazione fiscale.
Si tratta di importanti arresti della S.C., destinati peraltro ad essere invocati nei futuri concordati preventivi, alla luce del nuovissimo testo dell'art. 182-ter l.fall., come introdotto – a decorrere dal 1 gennaio 2017 – dall'art. 1, comma 81, della l. 11 dicembre 2016, n. 232-Legge di bilancio 2017, che, per un verso, ha reso obbligatoria l'applicazione della cennata norma quando il debitore intenda formulare una proposta concordataria che preveda il pagamento "parziale o anche dilazionato" dei crediti tributari e contributivi e, per altro verso, ha consentito la falcidia senza limiti di sorta dei detti crediti, "se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d)".
Così, superando il precedente orientamento espresso dalla S.C. (e inaugurato da Sez. 1, n. 22931/2011, Zanichelli, Rv. 620056), Sez. U, n. 26988/2016, Nappi, Rv. 641809, afferma che la previsione dell'infalcidiabilità del credito IVA di cui al vigente art. 182-ter l.fall., trova applicazione solo nell'ipotesi di proposta di concordato che sia accompagnata da una transazione fiscale.
Sez. 1, n. 18561/2016, Didone, Rv. 641214-01, ricorda che il proponente che abbia innestato nell'ambito di un concordato preventivo una proposta di transazione di tutti i crediti fiscali non può offrire il pagamento del credito IVA in misura falcidiata, anche a volerlo ritenere integralmente degradato a chirografo per mancanza assoluta dei beni su cui soddisfarsi, ostandovi, all'attualità, il disposto del vigente art. 182-ter, comma 1, l.fall., che ne consente la sola dilazione, con una previsione già ritenuta costituzionalmente legittima perché configurante il limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il principio di indisponibilità del tributo.
Sempre Sez. 1, n. 18561/2016, Didone, Rv. 641214-02, precisa poi che, in presenza di una proposta di transazione fiscale, la certificazione del credito proveniente dal concessionario della riscossione, ovvero dall'Agenzia delle Entrate, ex art. 182-ter, comma 2, l.fall. – nel testo vigente fino al 31 dicembre 2016 –, non può essere contestata dal contribuente al momento della formulazione di quella proposta, atteso che, da un lato, ai sicuri benefici per il proponente discendenti dalla definitiva determinazione di tutte le pretese fiscali e dall'estinzione delle liti pendenti non può che contrapporsi l'onere, per il medesimo, di prestare adesione alla quantificazione del debito accertata dall'Amministrazione finanziaria; dall'altro, che il principio di indisponibilità della pretesa tributaria, espressione di quello di legalità che permea l'intera materia, impone di ritenere non negoziabile la pretesa fiscale salvi i casi espressamente previsti dalla legge.
Sez. 1, n. 07066/2016, Cristiano, Rv. 639260, afferma poi che è ammissibile la doman- da di concordato che – ferme restando la proposta e le modalità di attuazione della stessa previste nel piano –, prospetti la possibilità di diverse percentuali di soddisfacimento dei creditori, ricomprese entro una forbice variabile tra una soglia minima ed una massima, a seconda dell'esito dell'accertamento dei crediti in contestazione vantati da terzi.
Sez. 1, n. 26329/2016, Terrusi, Rv. 642765, ritiene senz'altro inammissibile la proposta di concordato preventivo con cessione dei beni, per carenza del necessario requisito della fattibilità giuridica, allorquando sia stato disposto, da parte del giudice penale, il sequestro preventivo degli stessi (in tutto o in parte), destinato, secondo il regime del d.lgs. n. 231 del 2001, alla confisca, essendo sottratto al giudice civile il potere di sindacare la legittimità del provvedimento reso in sede penale.
Merita di essere menzionata, infine, Sez. 6-1, n. 02560/2016, Cristiano, Rv. 638465, secondo cui nel concordato preventivo, i crediti per IVA e ritenute non versate non sono falcidiabili, ma ciò non impone l'integrale pagamento di tutti i crediti privilegiati di grado anteriore.
Nel corso dell'annata si sono registrate le prime decisione della S.C. sulla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinata dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3, come modificata dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221.
Afferma in tema Sez. 1, n. 01869/2016, Ferro, Rv. 638759, che la nozione di "consumatore abilitato al piano", quale modalità di ristrutturazione del passivo e per l'esercizio delle altre prerogative previste dalla l. n. 3 del 2012, pur non escludendo il professionista o l'imprenditore – attività non incompatibili purché non residuino o, comunque, non siano più attuali obbligazioni sorte da esse e confluite nell'insolvenza –, comprende solo il debitore, persona fisica, che abbia contratto obbligazioni, non soddisfatte al momento della proposta di piano, per far fronte ad esigenze personali, familiari ovvero attinenti agli impegni derivanti dall'estrinsecazione della propria personalità sociale e, dunque, anche a favore di terzi, ma senza riflessi diretti in un'attività d'impresa o professionale propria, salvi solo gli eventuali debiti di cui all'art. 7, comma 1, terzo periodo (tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea, imposta sul valore aggiunto e ritenute operate e non versate) che vanno pagati in quanto tali, sulla base della verifica di effettività solutoria commessa al giudice nella sede di cui all'art. 12-bis, comma 3, della l. n. 3 del 2012.
Soggiunge Sez. 1, n. 26328/2016, Didone, Rv. 642764, che la proposta di composizione della crisi presentata dal consumatore può prevedere che i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca siano soddisfatti in misura non integrale, solo allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi ai sensi dell'art. 7 della l. n. 3 del 2012.
In materia di dichiarazioni del contribuente, ed in particolare di dichiarazione integrativa e sua emendabilità, Sez. U, n. 13378/2016, Iacobellis, Rv. 640206, ha affermato che in caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, la dichiarazione integrativa può essere presentata non oltre i termini di cui all'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 se diretta ad evitare un danno per la P.A. (art. 2, comma 8, del d.P.R. 22 luglio 1998 n. 322), mentre, se intesa, ai sensi del successivo comma 8-bis, ad emendare errori od omissioni in danno del contribuente, incontra il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante, fermo restando che il contribuente può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento ed, in ogni caso, opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria dell'Amministrazione finanziaria.
Occorre, inoltre, menzionare Sez. U, n. 17758/2016, Cirillo, Rv. 640942, in ordine alla possibilità per l'Amministrazione finanziaria di iscrivere a ruolo l'imposta detratta in caso di omessa presentazione della dichiarazione IVA, e Sez. U, n. 08587/2016, Di Iasi, Rv. 639392, in ordine ai limiti d'impugnabilità dell'autorizzazione del procuratore della Repubblica necessaria, ai sensi dell'art. 52, comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per consentire l'esame di documenti relativamente ai quali è stato eccepito il segreto professionale: per l'esame di tali pronunzie si rinvia al capitolo sull'IVA e sul processo tributario.
Numerose le pronunzie della Corte che hanno affrontato i diversi aspetti della relazione tra l'Amministrazione finanziaria e il contribuente nell'attività di accertamento.
Sez. T, n. 12549/2016, Cricenti, Rv. 640072, chiarisce come l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria alla trasmissione all'Amministrazione finanziaria degli atti di indagine penale non va allegata a pena di nullità all'avviso di accertamento, poiché si tratta di atto che ha la funzione di salvaguardare il segreto istruttorio, ma non anche a rendere conoscibili le ragioni della pretesa tributaria, con la conseguenza che la sua mancata conoscenza da parte del contribuente non determina alcuna violazione dell'art. 7 della l. 27 luglio del 2000 n. 212. Sempre in materia di autorizzazione, dell'autorità giudiziaria in favore della Guardia di Finanza, ai sensi dell'art. 33, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la Sez. T, n. 01464/2016, Cappabianca, Rv. 638810, ha evidenziato come l'utilizzazione conseguente a fini fiscali dei dati rilevati nel corso di una indagine penale include anche la loro trasmissione all'Agenzia delle entrate.
Sez. T, n. 05382/2016, Greco, Rv. 639132, ha precisato che in tema di accessi, ispezioni e verifiche, l'inutilizzabilità derivante dall'acquisizione di documenti al di fuori degli specifici limiti di accesso autorizzati dal Procuratore della Repubblica (ex art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 in tema di IVA, nonché per le imposte dirette, in forza del richiamo di cui all'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973), non si estende alle prove o alle fonti di prova che trovano nell'accesso una mera occasione, come le informazioni di terzi e le dichiarazioni del contribuente raccolte nell'ambito di un accesso non autorizzato, ovvero le operazioni di verifica e riscontro dei movimenti bancari effettuate secondo i criteri di cui all'art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto collegate all'accesso in rapporto di mera occasionalità. È dunque proprio il concetto di mera occasionalità ad aprire il campo all'utilizzabilità al fine dell'accertamento tributario delle dichiarazioni acquisite da terzi in sede di controllo.
Nello stesso senso, evidenziando una piena utilizzabilità della documentazione acquisita in sede di accertamento, anche se sottoposta a sequestro penale, la Sez. 6-T, n. 12059/2016, Conti, Rv. 640053, secondo la quale tale situazione non determina alcuna illegittimità della pretesa fiscale dell'Amministrazione finanziaria, considerato che non viene in alcun modo leso il diritto di difesa del contribuente che potrà sempre accedere al rilascio di copie ai sensi degli artt. 258 e 116 c.p.p., e ove tale richiesta non venga accolta potrà ottenere la rimessione in termini o la sospensione del procedimento amministrativo.
Un'interpretazione evolutiva ed innovativa emerge dalla Sez. T, n. 13145/2016, Bruschetta, Rv. 640155, in tema di revoca dell'agevolazione prima casa, secondo la quale è legittimo l'accertamento realizzato mediante accesso all'abitazione di un privato ai sensi dell'art. 53bis del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, dovendosi ritenere chiara l'intenzione del legislatore di estendere tale potere, già previsto dall'art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, anche nei confronti di chi non è imprenditore o soggetto IVA. La finalità antielusiva rende evidente la volontà del legislatore di tutelarsi contro eventuali frodi anche mediante l'accesso all'abitazione del privato e, dunque, con un potere particolarmente incisivo.
Sempre in ambito relativo al rapporto diretto in sede di accertamento tra Amministrazione e contribuente la Sez. T, n. 15851/2016, Iannello, Rv. 640619, ha affermato che, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, la partecipazione del contribuente alle operazioni di verifica senza contestazioni, quanto, ad esempio, alla rappresentatività dei campioni di prodotti posti a base del calcolo della percentuale di ricarico, pur senza la ricorrenza di un'approvazione espressa, debba essere intesa quale sostanziale accettazione delle operazioni effettuate e dei loro risultati, considerato il mancato esercizio della facoltà di formulare immediatamente e formalmente il proprio dissenso rispetto al metodo di accertamento utilizzato. La considerazione della posizione del contribuente in sede di accesso ai fini di accertamento, emerge anche in Sez. T, n. 16960/2016, Perrino, Rv. 640761, che ha ritenuto applicarsi l'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui la dichiarazione resa dal contribuente nel corso di un accesso di non possedere i libri, i registri, le scritture e i documenti richiestigli, ne preclude la valutazione a suo favore in sede amministrativa o contenziosa, solo in caso di un sostanziale rifiuto di esibizione da parte del contribuente, non invece in caso di effettiva indisponibilità della documentazione per colpa, caso fortuito o forza maggiore, incombendo la prova dei presupposti di fatto per l'applicazione della norma sull'Amministrazione finanziaria.
Un principio diverso in relazione all'onere della prova posto a carico dell'Amministrazione finanziaria è, invece, affermato in tema di "redditometro": infatti, secondo Sez. 6-T, n. 16912/2016, Cigna, Rv. 640968, in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l'Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all'esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, con la conseguenza che è legittimo l'accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell'esistenza di quei fattori, l'onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.
Sez. T, n. 17829/2016, Virgilio, Rv. 640985, ha evidenziato che in tema di garanzie del contribuente l'art. 6, comma 5, della l. 27 luglio 2000, n. 212, secondo il quale è obbligatorio l'interpello del contribuente in caso di liquidazione di tributi in base alla dichiarazione ove sussistano incertezze su aspetti rilevanti della stessa o risulti la spettanza di un minor rimborso d'imposta rispetto a quello richiesto, ha natura procedimentale, sicché è applicabile immediatamente all'attività accertativa dell'Amministrazione finanziaria posta in essere successivamente all'entrata in vigore della norma pur se relativa ad anni d'imposta anteriori a tale momento. La pronuncia in questione ha evidenziato per la prima volta e in modo univoco l'espansività dei principi dello statuto del contribuente e la portata di garanzia degli stessi anche per gli accertamenti precedenti alla sua data di entrata in vigore.
Sez. T, n. 18450/2016, Luciotti, Rv. 641058, ha precisato che, in tema di diritti e garanzie del contribuente, l'omissione della prescritta comunicazione dell'avvio del procedimento volto ad addivenire alla revoca del credito d'imposta di cui alla l. 30 dicembre 1997, n.449 per incrementi occupazionali determina l'invalidità del provvedimento adottato, per violazione del principio generale di cui all'art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, qualora, senza quell'irregolarità e sulla base delle allegazioni del contribuente, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso. Nel caso concreto tuttavia la Corte ha confermato la legittimità dell'avviso di recupero, nonostante l'omessa attivazione del contradditorio preventivo, in ragione dell'ineludibile emissione dell'atto di revoca, anche a seguito di preventiva informativa.
Sez. T, n. 05149/2016, Perrino, Rv. 639141, conferma l'orientamento ormai costante della Corte secondo il quale, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'imminente scadenza del termine decadenziale dell'azione accertativa non rappresenta una ragione di urgenza tutelabile ai fini dell'inosservanza del termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000. In concreto è stata esclusa la presenza di ragioni d'urgenza, tanto più a fronte della possibilità, derivante dall'adesione del condono in forma riservata, di una proroga del termine ordinario d'accertamento.
Non ha, invece, ritenuto la ricorrenza di alcuna violazione dello Statuto del contribuente Sez. T, n. 03583/2016, Vella, Rv. 639031, secondo la quale, in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l'avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni presentate dal contribuente ai sensi dell'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, atteso che la nullità consegue solo alle irregolarità per cui essa sia espressamente prevista dalla legge, oppure, in difetto di previsione, allorché ricorra una lesione di specifici diritti o garanzie tali da impedire la produzione di effetti da parte dell'atto cui ineriscono. Ancora in tema di corretto espletamento dell'attività di accertamento e di conseguente chiarezza e legittimità dell'attività di accertamento Sez. 6-T, n. 11682/2016, Conti, Rv. 640042, ha chiarito che l'avviso di accertamento che contenga solo l'indicazione dell'aliquota minima e massima applicata viola il principio di precisione e chiarezza delle "indicazioni" che è alla base del precetto dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, incorrendo, pertanto, nella sanzione di nullità, fermo l'onere del contribuente, peraltro, di indicare le ragioni per le quali, sulla base dei dati riportati nell'atto, non gli è stato possibile pervenire all'immediata ed agevole individuazione dell'aliquota.
Sempre in un'ottica di piena garanzia del contribuente Sez. 6-T, n. 11543/2016, Caracciolo, Rv. 640048, in materia di accertamento sulle imposte sui redditi, ha escluso che, in applicazione dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 – che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva – l'Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro.
Quanto all'obbligo di conservazione delle scritture contabili ed agli effetti conseguenti a carico del contribuente Sez. T, n. 09834/2016, Marulli, Rv. 639870 ha evidenziato che, in tema di determinazione del reddito d'impresa, l'art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, nell'imporre la conservazione delle scritture contabili sino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, va interpretato nel senso che l'ultrattività dell'obbligo di conservazione oltre il termine decennale di cui all'art. 2220 c.c., termine pure specificamente previsto, agli effetti tributari, dall'art. 8, comma 5, della l. n. 212 del 2000, opera solo se l'accertamento, iniziato prima del decimo anno, non sia ancora stato definito a tale scadenza, derivandone, diversamente, la protrazione dell'obbligo per una durata direttamente dipendente dalla volontà dell'Ufficio attesa la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di procedere ad accertamento nei termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973.
In materia di dati fiscali conosciuti da un ufficio e ancora non in possesso di quello che ha emesso l'avviso di accertamento, relativi ad accertamento su imposte sui redditi, Sez. T, n. 00576/2016, Locatelli, Rv. 638734, ha precisato che costituiscono, ai sensi dell'art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, elementi sopravvenuti, che legittimano l'integrazione o la modificazione in aumento dell'avviso di accertamento, mediante notificazione di nuovi avvisi, dovendosi limitare il contenuto preclusivo della norma al solo divieto di fondare il suddetto avviso integrativo sulla base di una mera rivalutazione o di un maggior apprendimento di dati già originariamente in possesso dell'ufficio procedente. Sempre in materia di imposte sui redditi, Sez. T, n. 00386/2016, Federico, Rv. 638251, ha affermato che è legittimo l'avviso di accertamento emesso nei confronti del socio di maggioranza, per la quota del 96 per cento, di una società di capitali a ristretta base azionaria, operando, in tal caso, la presunzione di attribuzione pro quota ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, degli utili extra bilancio prodotti, che si fonda sul disposto di cui all'art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, senza che assuma rilievo che la società abbia aderito al cd. condono tombale ex art. 9 della l. n. 289 del 27 dicembre 2002, essendo la società ed il socio titolari di posizioni fiscali distinte e indipendenti. Tenendo conto della portata della previsione di cui all'art. 7, comma 2, lett. b) della l. n. 212 del 2000, nella parte in cui prescrive che gli atti dell'Amministrazione finanziaria devono indicare l'organo o l'autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere il loro riesame nel merito, Sez. T, n. 13322/2016, Zoso, Rv. 640149 ha chiarito che tuttavia tale disposizione non impone anche l'avviso al contribuente della facoltà di avvalersi, a norma dell'art. 6 del d.lgs. 19 giugno 1997 n. 218, dell'accertamento con adesione, la cui mancanza dunque, non comporta la nullità dell'atto impositivo, essendone le cause tassative. Si deve invece ritenere nullo l'avviso di accertamento, secondo Sez. T, n. 12781/2016, Genovese, Rv. 640198, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, tanto che in caso di contestazione, l'Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare la sussistenza della delega, sebbene non necessariamente dal primo grado, visto che si tratta di un atto che non attiene alla legittimazione processuale, avendo l'avviso di accertamento natura sostanziale e non processuale. Nello stesso senso, in tema di avviso di accertamento e imposte sui redditi, si è espressa anche Sez. 6-T, n. 09736/2016, Iofrida, Rv. 639958, che ha affermato che a norma dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, deve essere sottoscritto, a pena di nullità, dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, incombendo sull'Amministrazione finanziaria dimostrare, in tale ultima evenienza e in caso di contestazione, l'esistenza della delega e l'appartenenza dell'impiegato delegato alla carriera direttiva, con ciò confermando l'orientamento emerso già nell'anno 2015 in tal senso.
In tema di contraddittorio endoprocedimentale e garanzie del contribuente Sez. 6-T, n. 11283/2016, Iofrida, Rv. 639865, ha precisato che l'Amministrazione finanziaria è gravata esclusivamente per i tributi armonizzati di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, mentre, per quelli non armonizzati, non essendo rinvenibile, nella legislazione nazionale, una prescrizione generale, analoga a quella comunitaria, solo ove risulti specificamente sancito, come avviene per l'accertamento sintetico in virtù dell'art. 38, comma 7, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella formulazione introdotta dall'art. 22, comma 1, del d. l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito in l. 30 luglio 2010 n. 122, applicabile, però, solo dal periodo d'imposta 2009, per cui gli accertamenti relativi alle precedenti annualità sono legittimi anche senza l'instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale.
Al fine di determinare in modo adeguato il confine e la portata degli accertamenti effettuati, Sez. T, n. 15857/2016, Barreca, Rv. 640618, ha chiarito che qualora l'accertamento effettuato dall'Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto, secondo l'art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso l'acquisizione dei dati e degli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili. Nello stesso senso si è espressa Sez. T, n. 16697/2016, Luciotti, Rv. 640983, che ha evidenziato come la presunzione di cui all'art. 32, del d.P.R. n. 600 del 1973 resta invariata con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l'estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all'esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l'equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti. Un caso particolare relativamente all'accertamento su conti correnti bancari è quello analizzato da Sez. T, n. 16751/2016, Marulli, Rv. 641064, relativamente ai pagamenti effettuati attraverso conti correnti da società, enti o associazioni sportive dilettantistiche, che godono del regime di agevolazioni di cui alla legge n. 398 del 16 dicembre 1991, ove si evidenzia che è onere del Fisco quello di dimostrare che, a seguito della mancata indicazione nelle movimentazioni bancarie del percipiente, dell'erogante e della causale, non è stato possibile espletare un'efficace attività di controllo, atteso che l'art. 25, comma 5, della l. 13 maggio 1999, n. 133, come riformulato dall'art. 37, comma 2, lett. s), della l. 21 novembre 2000, n. 342, applicabile ratione temporis, impone che i pagamenti a favore di tali soggetti, se d'importo superiore a un milione di lire, debbano essere effettuati tramite conti correnti bancari o postali o comunque con modalità idonee a consentire lo svolgimento di efficaci controlli, senza, tuttavia, null'altro aggiungere ai fini della loro tracciabilità. In materia societaria Sez. T, n. 08112/2016, Greco, Rv. 639699, ha precisato che in sede di rettifica e di accertamento d'ufficio delle imposte sui redditi, ai sensi dell'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, l'utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all'ente, ma riguarda anche quelli intestati ai soci, agli amministratori o ai procuratori generali, allorché risulti provata dall'Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell'intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all'ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, senza necessità di provare altresì che tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali, atteso che, ai sensi dell'art. 32 del d.P.R. n. 600 cit., incombe sulla società contribuente dimostrarne l'estraneità alla propria attività di impresa.
Sez. T, n. 17422/2016, Federico, Rv. 640984, richiamando e confermando un risalente orientamento del 2006, in materia di accertamento sintetico e dei suoi presupposti ai sensi dell'art. 38, comma 4 e seguenti, del d.P.R. n. 600 del 1973 ha evidenziato che, nella versione vigente ratione temporis il presupposto necessario, costituito dallo scostamento di almeno un quarto del reddito induttivamente accertabile rispetto al reddito dichiarato, in applicazione dei coefficienti presuntivi, deve essere valutato con riferimento al reddito sinteticamente determinabile al netto dei redditi esenti, giacché questi ultimi possono costituire ragionevole giustificazione dei maggiori indici di redditività riscontrati, secondo quanto del resto si desume dallo stesso comma 6 del citato art. 38. Sempre in tema di accertamento sintetico Sez. T, n. 00930/2016, Virgilio, Rv. 638706, affronta un caso particolare evidenziando che ai sensi dell'art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, qualora il contribuente abbia acquistato la sola nuda proprietà di un immobile con contestuale costituzione di usufrutto a favore di un terzo, è solo con riferimento a detto acquisto che l'Amministrazione finanziaria deve fare riferimento per la determinazione in via sintetica del reddito in base a spese per incrementi patrimoniali. In tema di liberalità ed accertamento induttivo, Sez. 6-T, n. 00916/2016, Crucitti, Rv. 638438, ha confermato l'orientamento secondo il quale qualora l'ufficio accerti induttivamente il reddito con metodo sintetico, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del d.P.R. n. 600 del 1973, il contribuente, ove deduca che l'incremento patrimoniale sia frutto di liberalità, nella specie, ad opera della madre, è tenuto a fornirne la prova con documentazione idonea a dimostrare l'entità e la permanenza nel tempo del possesso del relativo reddito.
Sez. 6-T, n. 14150/2016, Caracciolo, Rv. 640561, ha affrontato il tema dell'incompletezza della dichiarazione risultante dalla contabilità in nero ed ha chiarito che la contabilità in nero, costituita da appunti personali ed informazioni dell'imprenditore, anche se rinvenuta presso terzi, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e legittima di per sé, a prescindere da ogni altro elemento, il ricorso all'accertamento induttivo, incombendo al contribuente l'onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l'atto impositivo notificatogli. In materia di studi di settore, Sez. T, n. 14288/2016, Lamorgese, Rv. 640541, conformandosi al costante orientamento della Corte ha chiarito che i parametri o studi di settore previsti dall'art. 3, commi 181 e 187, della l. n. 549 del 28 dicembre 1995, rappresentando la risultante dell'estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quanto eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell'Ufficio dell'accertamento analitico-induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d, del d.P.R. n. 600 del 1973, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, contenziosa, incombe l'onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all'ente impositore fa carico la dimostrazione dell'applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento. Ancora in relazione all'accertamento induttivo Sez. T, n. 13735/2016, Virgilio, Rv. 640543 ha affermato che la legittimità dell'avviso di accertamento emesso ex art. 39, comma 2, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 va valutata in base ai presupposti di legge esistenti all'epoca della sua adozione, dei quali non è necessario il perdurare in sede contenziosa, per cui non viene meno nell'ipotesi in cui il contribuente esibisca successivamente, in giudizio, la contabilità risultata omessa o irregolarmente tenuta all'atto della verifica fiscale. In materia di IVA e accertamento induttivo Sez. 6-T, n. 01020/2016, Caracciolo, Rv. 638480, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, l'inottemperanza del contribuente all'obbligo della dichiarazione annuale rende legittimo l'accertamento induttivo da parte dell'Ufficio – il quale può desumere i dati per la ricostruzione del giro d'affari del contribuente da qualunque elemento a sua conoscenza, ivi compresa la dichiarazione tardivamente presentata da quest'ultimo – e preclude che l'imposta versata sugli acquisti di beni e servizi nel periodo dell'omessa dichiarazione possa essere detratta, se non risulti dalle dichiarazioni periodiche, essendo irrilevante che il pagamento di tali imposte sia evincibile da altra documentazione, inclusa la contabilità d'impresa. Sempre in materia IVA e accertamento induttivo Sez. T, n. 15615/2016, Centonze, Rv. 640629, ha confermato un orientamento risalente, secondo cui l'accertamento induttivo avente ad oggetto la ricostruzione delle rimanenze iniziali e finali può essere effettuato o sulla base dei dati della contabilità aziendale, che costituiscono prova a carico del contribuente e di cui deve presumersi l'esattezza, o attraverso la ricerca di elementi che contraddicano in modo inoppugnabile i dati forniti dal contribuente. In tema di frodi carosello Sez. T, n. 17818/2016, Olivieri, Rv. 640767 ha evidenziato quale debba essere la prova fornita dall'Amministrazione finanziaria, anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, relativa agli elementi di fatto attinenti al cedente (la sua natura di cartiera, l'inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell'I.V.A.) e alla connivenza da parte del cessionario, indicando gli elementi oggettivi che, tenuto conto delle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare dell'irregolarità delle operazioni, mentre spetta al contribuente, che ha portato in detrazione l'IVA, la prova contraria di aver concluso realmente l'operazione con il cedente o di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l'impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato d'ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni, non essendo a tal fine sufficiente la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti. La valutazione dei canoni in materia di onere della prova in sede di accertamento IVA emerge anche dalla Sez. T, n. 18232/2015, Marulli, Rv. 641056, secondo la quale anche nel caso di regolarità formale della contabilità, l'Amministrazione può disconoscere la detrazione in ragione di presunzioni semplici basate su dati e notizie apprese da terzi o su accertamenti effettuati presso terzi, atteso l'ampio potere conoscitivo della posizione fiscale, riconosciuto dalla legge e limitato solo dal rispetto dei diritti costituzionali, con conseguente inversione dell'onere della prova, essendo il contribuente tenuto a dare prova dell'infondatezza della pretesa erariale. Sempre in materia IVA, Sez. T, n. 02633/2016, Scoditti, Rv. 638908, ha affermato che l'accertamento parziale dell'IVA e delle imposte dirette è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l'esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al mero recepimento del contenuto della segnalazione della Guardia di finanza, che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicché, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, risulta qualitativamente diverso poiché si vale di una sorta di automatismo argomentativo, per modo che il confezionamento dell'atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione, senza necessità ulteriore approfondimento. In relazione al potere di autonoma valutazione da parte dell'Amministrazione finanziaria in sede di accertamento Sez. 6-T, n. 14858/2016, Crucitti, Rv. 640666, ha precisato che in tema di condono fiscale, la definizione della lite pendente, ai sensi dell'art. 16 della l.27 dicembre 2002, n. 289, da parte di una società di persone non estende automaticamente i suoi effetti nei confronti dei singoli soci, trattandosi di beneficio lasciato al libero e personale apprezzamento di ciascun contribuente, sicché non comporta alcuna preclusione all'esercizio del potere dovere di accertamento dell'Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta ad adeguare il reddito da partecipazione dei soci, che abbiano scelto di non avvalersi di tale istituto, a quello – ricalcolato in base al condono – della società. In tema di deducibilità e prova in materia di accertamento Sez. T, n. 08322/2016, Greco, Rv. 639773, ha affermato che in virtù dell'art. 2, comma 6-bis, della l. n. 165 del 26 Giugno 1990, avente, come norma interpretativa, efficacia retroattiva, sia l'art. 74 del d.P.R. n. 597 del 29 settembre 1973 che l'art. 75 (ora 109, comma 5) del d.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 devono intendersi nel senso che le spese ed i componenti negativi sono deducibili anche se non risultino dal conto dei profitti e delle perdite, purché siano almeno desumibili dalle scritture contabili. In materia di prova posta a base dell'accertamento Sez. T, n. 13770/2016, Tricomi, Rv. 640616, in tema di esenzioni e riduzioni daziarie ha affermato che gli accertamenti compiuti dagli organi comunitari, anche se a posteriori, hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari e, quindi, possono essere posti a fondamento dell'avviso di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni del regime agevolativo. Quanto alle società di comodo, Sez. 6-T, n. 13699/2016, Caracciolo, Rv. 640340, ha precisato come i parametri previsti dall'art. 30 della l. 23 dicembre 1994 n. 724 sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, sicché la determinazione dell'imponibile è effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, imponendosi sia in sede di accertamento, sia di determinazione giudiziale, salva la prova contraria da parte del contribuente.
Sez. T, n. 05392/2016, Scoditti, Rv. 639036, si è invece occupata della notifica dell'avviso di accertamento in caso di fallimento del contribuente evidenziando che l'avviso di accertamento, concernente crediti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, deve essere notificato non solo al curatore, ma anche al fallito, il quale conserva la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, pur essendo condizionata la sua impugnazione all'inerzia della curatela, sicché, in caso contrario, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l'atto impositivo non diventa definitivo, tenuto conto che, peraltro, costui non è parte necessaria del giudizio d'impugnazione instaurato dal curatore. Sempre nella stessa materia Sez. T, n. 05384/2016, Marulli, Rv. 639435, secondo la quale in materia di accertamento, l'omessa notifica al fallito dell'atto impositivo, pur in presenza di regolare notifica al curatore del fallimento e conseguente impugnazione da parte della curatela non determina irritualità, nullità o inesistenza di tale atto, poiché l'obbligo di notificazione al contribuente fallito è strumentale a consentire allo stesso l'esercizio in via condizionata del diritto di difesa, azionabile solo nell'inerzia degli organi della procedura fallimentare.
Un vivace e in parte contrastante dibattito ha caratterizzato la considerazione dell'attività di accertamento possibile o meno a seguito dell'accesso al condono ex art. 9, comma 9, della l. 27 dicembre 2002 n. 289 da parte dei contribuenti che hanno avuto accesso alle agevolazioni e incentivi per investimenti in aree svantaggiate. Infatti secondo Sez. T, n. 03112/2016, Bruschetta, Rv. 639041, il condono di cui all'art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide i debiti del contribuente verso l'erario, comportando la preclusione nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati di ogni accertamento tributario, con conseguente illegittimità di ogni attività accertatrice ivi compresa quella di recupero del credito d'imposta, ai sensi dell'art. 9 comma 10, della l. n. 289 del 2002. Tuttavia in senso contrario a tale orientamento si è espressa Sez. T, n. 16157/2016, Sabato, Rv. 640769, che ha invece affermato che il condono ex art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide in tutto o in parte i debiti del contribuente verso l'erario, ma non opera sui suoi crediti, i quali restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'Ufficio ai sensi dell'art. 9, comma 10, lett. a), della l. n. 289 del 2002, dovendosi interpretare la previsione del comma 9 della norma citata – secondo cui la definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate – nel senso che tale definizione non sottrae all'Amministrazione il potere di contestare il credito esposto dal contribuente e, quindi, di emettere avvisi di recupero delle agevolazioni da esso indicate. Tale pronuncia risulta tuttavia a sua volta in contrasto con Sez. T, n. 16186/2016, Ragonesi, Rv. 640770, che ha affrontato la questione negli stessi termini del primo orientamento affermando che in materia di accertamento, il credito d'imposta, conseguente all'agevolazione ex art. 8 della l. n. 388 del 2000, può essere oggetto di definizione automatica ex art. 9, comma 9, della l. n. 289 del 2002, sicché, ove sia stato effettivamente indicato nella richiesta di condono, il cui importo sia stato versato, ne è precluso all'Amministrazione finanziaria il recupero in virtù dello stesso art. 9, comma 10, lett. a). La tempestiva indicazione del credito d'imposta dunque precluderebbe qualsiasi accertamento sul punto dell'amministrazione.
Alla luce di tale contrasto, Sez. T, n. 25092, Stalla, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente l'interpretazione dell'art. 9, commi 9 e 10, della l. n. 289 del 2002 e più precisamente la permanenza o la perdita, in capo all'Amministrazione finanziaria, del potere di contestare e recuperare i crediti del contribuente derivanti dalle agevolazioni, ove sia definito il rapporto tributario tramite condono e conseguentemente precluso, in virtù di tale disposizione, ogni accertamento tributario.
Sez. T, n. 11925/2016, La Torre, Rv. 640015, ha affrontato il tema della dichiarazione congiunta dei redditi dei coniugi ed ha affermato che la loro responsabilità solidale vale anche per gli accertamenti nei confronti di uno solo di essi, dipendenti da comportamenti non riconducibili alla sfera volitiva e cognitiva di entrambi, attesa, da un lato, la scelta volontariamente operata di presentare un'unica dichiarazione, accettando i rischi della relativa disciplina, e, dall'altro, la possibilità del coniuge coodichiarante – entro i termini decorrenti dalla notifica dell'atto con il quale viene a conoscenza della pretesa tributaria – di contestare nel merito l'obbligazione dell'altro. La pronuncia si pone in termini di continuità con le valutazioni della Corte quanto alla dichiarazione congiunta dei coniugi; in tal senso Sez. T, n. 08533/2016, La Torre, Rv. 639774, ha precisato e chiarito che in tema d'IRPEF, i coniugi non legalmente separati possono presentare un'unica dichiarazione dei redditi, in virtù della quale le imposte determinate separatamente per ciascuno di loro si sommano e le ritenute e i crediti d'imposta si applicano sull'ammontare complessivo, verificandosi un'unificazione delle due posizioni con riferimento alle componenti che ne consentono una riduzione, sicché il debito d'imposta dell'uno è compensabile con il credito d'imposta dell'altro.
Sempre in tema di solidarietà, in questo caso riferita al sostituto d'imposta, Sez. 6-T, n. 12076/2016, Conti, Rv. 640069, ha confermato un orientamento risalente evidenziando che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il fatto che il sostituto d'imposta sia definito ex art. 64, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 come colui che, in forza di legge, è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, non toglie che anche il sostituito debba ritenersi fin dall'origine obbligato solidale al pagamento dell'imposta, sicché anch'egli è soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo aver eseguito la ritenuta, non l'abbia versata all'erario.
La Corte, dopo le numerose pronunzie intervenute lo scorso anno sul tema, ha valutato e definito in senso costituzionalmente orientato il concetto di abuso del diritto in relazione a diverse fattispecie, precisando l'ambito della disciplina di cui all'art. 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973.
In particolare con la Sez. T, n. 10216/2015, Stalla, Rv. 639984, si è confermato l'orientamento costante in tema di imposta di registro (già Sez. T, n. 03481/2014, Terrusi, Rv. 630075), in relazione al disposto di cui all'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, quanto alla prevalenza della natura intrinseca ed effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, con conseguente necessità di dare preminenza alla causa reale perseguita dai contraenti anche con pattuizioni non contestuali, al fine di escludere nella valutazione complessiva la ricorrenza di comportamenti a carattere elusivo. Nel caso di specie il conferimento di azienda con contestuale cessione, in favore del socio della conferitaria, delle quote ottenute in contropartita dal conferente è stato considerato un'operazione a carattere unitario da qualificare cessione di azienda, esclusa in concreto la finalità elusiva.
In materia di benefici fiscali "prima casa", Sez. T, n. 14510/2016, La Torre, Rv. 640513, ha evidenziato come il requisito necessario per fruire dell'agevolazione è rappresentato dall'effettivo trasferimento della residenza nel comune in cui si trova l'immobile entro il termine di diciotto mesi dall'acquisto, con irrilevanza di un successivo spostamento della residenza, non incluso tra le cause espresse di revoca, salva la sussistenza di un concreto abuso del diritto. La pronuncia in questione evidenzia dunque la necessità di una valutazione in concreto del comportamento del contribuente al fine di poter verificare l'effettiva ricorrenza di un caso di abuso del diritto, ovvero la realizzazione di una serie di attività a carattere strumentale per ottenere benefici fiscali non dovuti, in mancanza di valide ragioni economiche, la cui prova tuttavia incombe sull'Amministrazione finanziaria (orientamento conforme Sez. T, n. 4603/2014, Greco, Rv. 629749). Negli stessi termini si è espressa Sez. T, n. 13343/2016, Bruschetta, Rv. 640169, che ha chiarito che il contribuente che abbia venduto la sua abitazione prima del decorso di cinque anni dall'acquisto l'immobile per il quale abbia usufruito dei benefici prima casa e ne abbia acquistato un altro entro un anno dall'alienazione può conservare l'agevolazione purché trasferisca la residenza proprio nell'immobile di nuovo acquisto (e dunque non più solo nel comune di residenza), considerata la volontà del legislatore di non favorire operazioni meramente speculative, oggettivamente integranti abuso del diritto.
La necessità di considerare nella sua più ampia portata il comportamento tenuto dal contribuente al fine di escludere l'abuso del diritto emerge anche nella Sez. T, n. 15830/2016, Cricenti, Rv. 640621, con la quale si evidenzia, ai sensi dell'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, come si debba ritenere l'imputazione al contribuente di redditi formalmente intestati ad altro soggetto quando, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, egli ne risulti l'effettivo titolare, senza distinguere tra interposizione fittizia o reale, sicché l'applicazione della disposizione non è limitata alle sole operazioni simulate.
Sez. T, n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344, precisa, in materia di operazioni a possibile carattere elusivo, che normalmente l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare in adempimento di condizioni di separazione non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici perché diretto a sistemare globalmente i rapporti tra i coniugi nella prospettiva di una stabile definizione della crisi familiare, ed è quindi un atto relativo a tali procedimenti, che può, dunque, usufruire dell'esenzione di cui all'art. 19 della l. 6 marzo 1987 n. 74, salva la contestazione da parte dell'Amministrazione della finalità elusiva, con onere a suo carico.
Altra pronuncia da evidenziare è Sez. T, n. 08855/2016, Scoditti, Rv. 639650, secondo la quale le controversie in materia di IVA sono soggette a norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall'art. 2909 c.c., e dalla sua eventuale proiezione oltre il periodo di imposta, che ne costituisce specifico oggetto, atteso che, secondo quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia, 3 settembre 2009, iC-2/08, la certezza del diritto non può tradursi in una violazione dell'effettività del diritto euro-unitario. La rilevanza di tale decisione è da collegare aln tema molto dibattuto della portata ed efficacia vincolante del giudicato ed al limite derivante dall'abuso del diritto, così come evidenziato dal precedente Sez. 5, n, 16996/2012, Cirillo, Rv. 624024, secondo cui le controversie in materia di IVA sono soggette a norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall'art. 2909 c.c., e dalla eventuale sua proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, ove gli stessi impediscano – secondo quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia, 3 settembre 2009, C-2/08 – la realizzazione del principio di contrasto dell'abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema armonizzato di imposta. Nel caso concreto era, infatti, stato negato il valore di giudicato esterno a sentenze di merito che, pronunciandosi con riferimento ad avvisi di accertamento in materia di IVA emessi in contestazione di fatture per operazioni inesistenti in ordine ad anni diversi di imposta, avevano escluso la fittizietà di tali operazioni. Il principio del giudicato esterno e la durevolezza dei suoi presupposti trovano dunque un limite nel principio dell'abuso de diritto e nella necessità di garantire effettivamente il sistema armonizzato dell'imposta.
Nelle pronunzie relative alla prescrizione e decadenza la Corte ha valutato e considerato le posizioni dell'Amministrazione finanziaria e del contribuente in diverse situazioni concrete.
Quanto all'accertamento in diminuzione, Sez. 6-T, n. 11699/2016, Iofrida, Rv. 640043, ha evidenziato come il provvedimento non esprime una nuova pretesa tributaria, limitandosi a ridurre quella originaria, per cui non costituisce atto nuovo, ma solo revoca parziale di quello precedente, che non deve rispettare il termine decadenziale di esercizio del potere impositivo.
Una ulteriore considerazione in tema di termini per l'accertamento e loro decorrenza emerge da Sez. 6-T, n. 11171/2016, Crucitti, Rv. 639877, secondo la quale il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili ratione temporis, presuppone unicamente l'obbligo di denuncia penale, ai sensi dell'art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011.
In riferimento alla dichiarazione congiunta dei coniugi ex art. 17 della l. 13 aprile 1977 n. 114, Sez. T, n. 01463/2016, Cappabianca, Rv. 638737, ha richiamato la solidarietà tra coniugi come principio perseguito dal legislatore ed ha precisato come la notifica al marito dell'avviso di accertamento, così come della cartella di pagamento, impedisce qualsiasi decadenza dell'Amministrazione finanziaria anche nei confronti della moglie coodichiarante. Dalla disciplina richiamata consegue anche che la pendenza di un processo tra Amministrazione e marito determina anche la sospensione di qualsiasi termine – di decadenza e di prescrizione, nei confronti della moglie, nella sua veste di condebitore solidale rimasto estraneo al giudizio, con la conseguente applicazione dei principi in tema di obbligazione solidale ai sensi dell'art. 1310, comma 1, c.c.
In materia di tributi locali la Sez. T, n. 14908/2016, Stalla, Rv. 640826, ha evidenziato per la prima volta come, considerato l'art. 59 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446, che attribuisce ai comuni il potere di determinare alcuni aspetti dell'ICI, tra i quali la previsione del termine di decadenza per l'esercizio del potere di accertamento, debba essere ritenuta legittima e non in contrasto con lo Statuto del contribuente la delibera municipale che rechi un termine più lungo di quello fissato dall'art. 11 del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504. Sempre in materia di decadenza relativamente all'accertamento ICI, la Sez. T, n. 08364/2016, Stalla, Rv. 639775, ha precisato che l'elevazione del termine di decadenza da due a tre anni di cui all'art. 1, comma 163, della l. 27 dicembre 2006 n. 296, non ha prorogato il previgente termine biennale, ma ne ha introdotto uno nuovo, con decorrenza diversa da identificare non in relazione alla notifica dell'atto impositivo, ma in considerazione della definitività dell'accertamento o, in caso di contenzioso, dalla pubblicazione della sentenza. Tale termine proprio per le sue caratteristiche è stato ritenuto applicabile anche ai rapporti pendenti, e dunque l'amministrazione comunale potrà formare e rendere esecutivo il ruolo anche prima che decorra il termine triennale, sebbene al momento dell'entrata in vigore della nuova disposizione fosse già scaduto il termine biennale all'epoca previsto.
Quanto alle agevolazioni conseguenti agli investimenti in aree svantaggiate ai sensi della l. 23 dicembre 2000 n. 388, art. 8 comma 7, Sez. T, n. 15186/2016, Botta, Rv. 640824, ha per la prima volta chiarito che l'azione di recupero del credito di imposta è sottoposta ad un termine di decadenza, che non può essere diverso, quanto a durata, da quello previsto per il potere di accertamento dall'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, mentre il dies a quo va individuato nel momento dell'effettivo utilizzo del credito. In materia doganale, Sez. 6-T, n. 12074/2016, Conti, Rv. 640070, richiamando un orientamento della Corte del 2010, ha affermato che una volta che sia stata respinta, con sentenza passata in giudicato l'opposizione avverso l'ingiunzione di pagamento, l'azione dello Stato per la riscossione dei diritti medesimi non si prescrive nel termine di cinque anni, previsto dall'art. 84 del d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43, ma entro quello più lungo di dieci anni, previsto dall'art. 2953 c.c., decorrente dal passaggio in giudicato della decisione di rigetto dell'opposizione, alla quale va riconosciuta la funzione di accertamento dell'esistenza del diritto di credito fatto valere dall'Amministrazione finanziaria con l'ingiunzione.
In materia di servizio radiomobile pubblico terreste di comunicazione, Sez. T, n. 20517/2016, De Masi, Rv. 000000, ha precisato che in tema di tassa sulle concessioni governative relative alla stipula di contratti di abbonamento per la fornitura di servizi di telefonia mobile deve essere applicata la speciale disciplina della decadenza ex art. 13 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 641, e non quella prevista in via generale dall'art. 20 del d.lgs. n. 472 del 1997, considerata la natura di disposizione speciale dell'art. 13, sicché il dies a quo deve essere identificato nel "giorno nel quale è stata commessa la violazione" da ravvisare nella mancata riscossione della tassa all'atto di emissione della bolletta ai sensi della nota 1 all'art. 21 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 641 del 1972.
Sez. T, n. 16730/2016, Luciotti, Rv. 640965, in ordine agli effetti della notifica di cartella esattoriale fondata su sentenza passata in giudicato ha confermato, richiamando un orientamento coerente della Corte sul punto, che non sono applicabili i termini di decadenza e/o prescrizione che scandiscono i tempi dell'azione amministrativa/tributaria, ma soltanto il termine di prescrizione generale previsto dall'art. 2953 c.c., perché il titolo della pretesa tributaria cessa di essere l'atto e diventa la sentenza che, pronunciando sul rapporto, ne ha confermato la legittimità, derivandone l'inapplicabilità del termine di decadenza di cui all'art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, che concerne la messa in esecuzione dell'atto amministrativo e presidia l'esigenza di certezza dei rapporti giuridici e l'interesse del contribuente alla predeterminazione del tempo di soggezione all'iniziativa unilaterale dell'ufficio.
Infine in caso di violazione di norme tributarie, ad avviso di Sez. T, n. 21826/2016, Fernandes, Rv. in corso di massimazione, l'art. 20 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, come modificato, con effetto dal 1° aprile 1998, dal d.lgs. n. 203 del 1998 e successivamente dal d.lgs. n. 99 del 2000, stabilisce che la contestazione debba essere notificata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione "o nel diverso termine previsto per l'accertamento dei singoli tributi". Tale ultimo inciso, per il suo riferimento operato in termini generali, rende applicabili anche eventuali disposizioni di proroga dei termini medesimi, fra le quali quella di cui all'art. 10 della l. n. 289 del 2002, che prevede per i contribuenti che non si avvalgono delle norme di definizione agevolata, dettate dagli artt. 7 e 9 della medesima legge, la proroga di due anni dei termini per la notifica degli avvisi di accertamento, sia per le imposte sui redditi, che per l'imposta sul valore aggiunto.
L'art. 2, comma 8, del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni (d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322) prevede che, salva l'applicazione delle sanzioni, le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d'imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizioni di cui all'art. 3, non oltre i termini stabiliti dall'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
Il successivo comma 8-bis dispone che le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti di imposta possono essere integrate dai contribuenti per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito, mediante dichiarazione da presentare, non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, ed aggiunge che l'eventuale credito risultante dalle predette dichiarazioni può essere utilizzato in compensazione ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241.
La Sezione Tributaria della Corte di cassazione, con ordinanza interlocutoria del 18 settembre 2015, n. 18383, ha segnalato un contrasto di decisioni sulla questione se il contribuente, in caso dei imposta sui redditi, ha la facoltà di rettificare la dichiarazione prevista dagli artt. 1 e ss. del d.P.R. n. 600 del 1973, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito o minor credito d'imposta, solo entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, come stabilito dall'art. 2, comma 8-bis, del d.P.R. n. 322 del 1998, oppure se, al contrario, quest'ultimo termine sia previsto solo ai fini della compensazione richiamata dalla norma, per cui la predetta rettifica è possibile anche a mezzo di dichiarazione da presentare entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, a norma dell'art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 322 del 1998, ed, in ogni caso, mediante l'allegazione di errori nella dichiarazione ed incidenti sull'obbligazione tributaria, tanto in sede rimborso, purché la relativa istanza sia presentata nei relativi termini di decadenza e/o di prescrizione, quanto in sede di processuale, e cioè per opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato.
A composizione del contrasto, Sez. U, n. 13378/2016, Iacobellis, Rv. 640206, ha affermato il principio per cui, in caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, la dichiarazione integrativa può essere presentata non oltre i termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 se diretta ad evitare un danno per la P.A. (art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 322 del 1998), mentre, se intesa, ai sensi del successivo comma 8-bis, ad emendare errori od omissioni in danno del contribuente, incontra il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante, fermo restando che il contribuente può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento ed, in ogni caso, opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria dell'Amministrazione finanziaria.
Il sistema normativo creatosi a seguito dell'introduzione dei commi 8 e 8-bis consente – ha osservato la Corte – di distinguere, nell'ambito dello stesso articolo 2, i limiti e l'oggetto delle rispettive dichiarazioni integrative, nel senso, precisamente, che la correzione di errori od omissioni in danno della P.A. sono emendabili non oltre i termini stabiliti dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 mentre gli errori o omissioni in danno del contribuente possono, di contro, essere emendati non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, portando in compensazione il credito eventualmente risultante.
Tale distinzione, circa l'oggetto delle dichiarazioni integrative di cui ai commi 8 e 8-bis – rispettivamente in malam o in bonam partem – porta ad escludere che il disposto di cui al comma 8-bis si ponga in rapporto di species a genus rispetto al comma 8.
D'altra parte – hanno osservato ancora le Sezioni Unite – il diverso campo applicativo delle norme in materia di accertamento (d.P.R. n. 600 del 1973 e d.P.R. n. 322 del 1998) rispetto a quelle relative alla riscossione (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) comporta la necessità di distinguere tra la dichiarazione integrativa, di cui all'art. 2, comma 8-bis, e il diritto al rimborso di cui all'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973.
Ne consegue che, ove il contribuente opti per la presentazione della istanza di rimborso di cui all'art. 38 cit., verrà introdotto un autonomo procedimento amministrativo (in cui la istanza di parte costituisce l'atto di impulso della fase iniziale) del tutto distinto dalla attività di controllo automatizzato – formale ed in rettifica – originato dalla mera presentazione della dichiarazione fiscale.
La natura giuridica della dichiarazione fiscale quale mera esternazione di scienza, il principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost., il disposto dell'art. 10 dello Statuto del contribuente – secondo cui i rapporti tra contribuente e fisco sono improntati al principio di collaborazione e buona fede – nonché il diverso piano sul quale operano le norme in materia di accertamento e riscossione, rispetto a quelle che governano il processo tributario, comportano, poi, l'inapplicabilità in tale sede, delle decadenze prescritte per la sola fase amministrativa.
Deve, pertanto, riconoscersi al contribuente la possibilità, in sede contenziosa, di opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco – anche con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato – allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella sua redazione ed incidenti sull'obbligazione tributaria, indipendentemente dal termine di cui all'art. 2 cit.
La Corte ha, quindi, concluso affermando i seguenti principi di diritto:
1) la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito, mediante la dichiarazione integrativa di cui all'art. 2, comma 8-bis, cit. è esercitabile non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa ai periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante;
2) la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi conseguente ad errori od omissioni in grado di determinare un danno per l'amministrazione, è esercitabile non oltre i termini stabiliti dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973;
3) il rimborso dei versamenti diretti di cui all'art. 38 del d.P.R. 602 del 1973 è esercitabile entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento, indipendentemente dai termini e modalità della dichiarazione integrativa di cui all'art. 2 comma 8-bis del d.P.R. n. 322 del 1998;
4) il contribuente, indipendentemente dalle modalità e termini di cui alla dichiarazione integrativa prevista dall'art. 2 del d.P.R. n. 322 del 1998 e dall'istanza di rimborso di cui all'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull'obbligazione tributaria.
I coniugi non legalmente separati, a norma dell'art. 17 della l. 13 aprile 1977, n. 114, possono presentare un'unica dichiarazione dei redditi, in virtù della quale le imposte determinate separatamente per ciascuno di loro si sommano e le ritenute e i crediti d'imposta si applicano sull'ammontare complessivo, verificandosi un'unificazione delle due posizioni con riferimento alle componenti che ne consentono una riduzione, sicché il debito d'imposta dell'uno è compensabile con il credito d'imposta dell'altro: Sez. T, 08533/2016, La Torre, Rv. 639774.
I coniugi, in conseguenza della dichiarazione congiunta, sono responsabili in solido per il pagamento di imposta, soprattasse, pene pecuniarie e interessi iscritti a ruolo.
La natura solidale di tale responsabilità comporta, da un lato, che tempestiva notifica al marito dell'avviso di accertamento, come della cartella di pagamento, impedisce qualsiasi decadenza dell'Amministrazione finanziaria anche nei confronti della moglie co-dichiarante e, dall'altro, che la pendenza del processo tra l'Amministrazione finanziaria ed il marito determina la sospensione di qualsiasi termine – di decadenza come di prescrizione – riguardo alla stessa moglie co-dichiarante, trattandosi di un condebitore solidale rimasto estraneo al giudizio, sicché trovano applicazione gli ordinari principi codicistici in tema di obbligazione solidale di cui agli artt. 1310, comma 1, e 2945 c.c.: Sez. T, n. 01463/2016, Cappabianca, Rv. 638737.
Del resto, ha aggiunto Sez. T, n. 11925/2016, La Torre, Rv. 640015, la scelta volontariamente operata di presentare un'unica dichiarazione comporta l'accettazione dei rischi della relativa disciplina, ferma restando la possibilità del coniuge coodichiarante – entro i termini decorrenti dalla notifica dell'atto con il quale viene a conoscenza della pretesa tributaria – di contestare nel merito l'obbligazione dell'altro.
Quanto alla determinazione del reddito, particolarmente importante è la pronuncia di Sez. T, n. 16969/2016, Scoditti, Rv. 640953, secondo la quale il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale.
La sentenza ha rilevato come, in materia di prestazioni professionali, vige la regola della postnumerazione (artt. 2225 e 2233 c.c.), secondo la quale il diritto al compenso pattuito si matura una volta posta in essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il risultato a cui la prestazione è diretta (regola mitigata da un duplice ordine di diritti del professionista: quello all'anticipo delle spese occorrenti all'esecuzione dell'opera e quello all'acconto, da determinarsi secondo gli usi sul compenso da percepire una volta portato a termine l'incarico). La prestazione difensiva ha così carattere unitario e ciò importa che gli onorari di avvocato debbano essere liquidati in base alla tariffa vigente nel momento in cui la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale, unitarietà che va rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado.
L'unitarietà della prestazione è, infine, confermata – ha concluso la Corte – dalla decorrenza della prescrizione: ai sensi dell'art. 2957 c.c., la prescrizione del diritto dell'avvocato al compenso decorre dal momento dell'esaurimento dell'affare per il cui svolgimento fu conferito l'incarico dal cliente.
Sez. 6-T, n. 19240/2016, Federico, Rv. 641116, ha, poi, ritenuto che, in base al combinato disposto dagli artt. 23 e 34 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo – per i quali opera, invece, la deroga introdotta dall'art. 8 della l. 9 dicembre 1998, n. 431 – è individuato in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto.
I proventi dell'attività di prostituzione svolta autonomamente sono assoggettabili – secondo Sez. T, n. 15596/2016, Locatelli, Rv. 640638 – ad imposta e sono riconducibili alla categoria dei redditi di lavoro autonomo, in caso di esercizio abituale, o a quella dei redditi diversi, in caso di esercizio occasionale, atteso che si tratta di prestazioni di servizi retribuite e, pertanto, di attività economica, peraltro, di per sé priva di profili di illiceità, a differenza del suo sfruttamento o favoreggiamento, i cui introiti, derivando da un reato, prima ancora che imponibili, sono confiscabili.
In caso di operazioni oggettivamente inesistenti, Sez. T, n. 07896/2016, Federico, Rv. 639570 ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 8, comma 2, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. nella l. 26 aprile 2012, n. 44, che ha portata retroattiva ed è applicabile anche d'ufficio, i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese.
Non è, invece, deducibile dal reddito – ad avviso di Sez. 6-T, n. 11183/2016, Crucitti, Rv. 639991 – l'assegno corrisposto in un'unica soluzione, ai sensi dell'art. 5, comma 8, della l. 1 dicembre 1970, n. 898, del 1970, all'ex coniuge.
Sez. T, n. 11949/2016, Iannello, Rv. 640017 ha, infine, affermato che le detrazioni di cui all'art. 15 del d.P.R. n. 917 del 1986 degli interessi passivi e dei relativi oneri accessori pagati in dipendenza dei mutui garantiti da ipoteca su immobili da adibire ad abitazione principale, spettano, con riferimento alle somme corrisposte dagli assegnatari degli alloggi di cooperative, alla società, parte contraente dei mutui indivisi, e non ai singoli soci assegnatari, i quali vantano un diritto di godimento e non di proprietà. Sempre in argomento, secondo Sez. T, n. 19501/2016, Locatelli, Rv. 641237, la detrazione di quota di spese relative alla realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali all'abitazione principale, secondo un'interpretazione estensiva dell'art. 1, comma 1, della l. n. 449 del 1997, spetta al proprietario dell'abitazione principale sia ove realizzi direttamente il manufatto (in proprio o con appalto a terzi) sia ove acquisti l'autorimessa, fermo restando, in ogni caso, che l'importo deducibile deve essere commisurato al solo costo di realizzazione dell'opera, attestato dal costruttore, e non può corrispondere al prezzo versato per l'acquisto, in quanto comprensivo anche dell'utile che il venditore ricava dalla compravendita.
Le modifiche retroattive introdotte dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 della l. 27 dicembre 2006, n. 296, e prima di quelle di cui alla l. 28 dicembre 2015, n. 208, applicabili a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015, comportano che la separata indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi delle spese e degli altri componenti negativi inerenti ad operazioni commerciali intercorse con fornitori aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (cd. paesi black list) sia un mero obbligo formale, che non ne condiziona la deducibilità e la cui violazione espone il contribuente unicamente alla sanzione amministrativa ex art. 8, comma 3-bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, da cumulare, per le sole violazioni anteriori all'entrata in vigore della l. n. 296 del 2006, con la sanzione di cui al medesimo art. 8, comma 1: Sez. T, n. 11933/2016, Virgilio, Rv. 640084.
Peraltro, ha aggiunto Sez. T, n. 10989/2016, La Torre, Rv. 639986, a seguito della contestazione della mancata dichiarazione autonoma dei compensi corrisposti a fornitori operanti in Stati a fiscalità privilegiata, è preclusa ogni possibilità di regolarizzazione, in quanto, ove fosse possibile porre rimedio a tale irregolarità, la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni stabilite dal legislatore per inosservanza della correlativa prescrizione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto sanabile, con dichiarazione integrativa, la mancata separata indicazione dei costi successivamente all'accesso della Guardia di Finanza).
Sez. T, n. 03087/2016, Tricomi, Rv. 639043, ha confermato il principio per cui il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obbiettivi perseguiti, atteso che costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio della società senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle aventi come scopo preminente quello di pubblicizzare prodotti, marchi e servizi dell'impresa con una diretta finalità promozionale e di incremento delle vendite.
In applicazione del principio, la S.C. ha escluso la qualificazione delle spese di rinfresco per l'inaugurazione di un centro commerciale quali spese pubblicitarie, non essendo provati quali prodotti o attività fossero pubblicizzati e quale fosse la diretta aspettativa di ritorno commerciale.
Anche i costi sostenuti per la cessione gratuita a v.i.p. dei capi d'abbigliamento griffati di produzione del contribuente, senza alcun obbligo giuridico d'indossarli in manifestazioni pubbliche, integrano, ai sensi dell'art. 74 (ora 108), comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, spese di rappresentanza, solo parzialmente deducibili, e non di pubblicità o propaganda, interamente deducibili, mancando un collegamento obiettivo ed immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l'aspettativa diretta di un maggior ricavo: in tal senso, Sez. T, n. 08121/2016, Cirillo, Rv. 639437.
Interessante è, poi, Sez. T, n. 02800/2016, Greco, Rv. 638896, per la quale, in caso di mandato non oneroso a vendere autoveicoli usati, conferito ad una società commerciale come "corrispettivo" dello sconto concesso sull'acquisto di autoveicoli nuovi, senza obbligo di rendiconto e senza rimessione al mandante di quanto il mandatario abbia realizzato in esecuzione del mandato, il ricavato delle vendite inerisce alla gestione sociale, costituendo, quindi, posta attiva dei componenti del reddito ai fini del prelievo fiscale dell'IRPEG e dell'ILOR.
Resta, infine, pendente la questione, devoluta alle Sezioni Unite con ordinanza interlocutoria di Sez. T, n. 01703/2016, Perrino, sull'applicabilità del divieto di ammortamento dei costi di acquisizione dei terreni anche nel caso in cui emerga che il terreno che funga da area di sedime di un impianto di distribuzione carburanti abbia possibilità di utilizzazione limitata nel tempo.
Sez. T, n. 13387/2016, Locatelli, Rv. 640134, ha ritenuto che la stipula di un mutuo gratuito tra una società controllante residente e una controllata estera soggiace all'art. 76, comma 5 (ora 110, comma 7), del d.P.R. n. 917 del 1986, finalizzato alla repressione del cd. transfer pricing, che deve trovare applicazione non solo quando il prezzo pattuito sia inferiore a quello mediamente praticato nel comporto economico di riferimento, ma anche quando sia nullo, atteso che pure in tale ipotesi, peraltro maggiormente elusiva, si realizza un indebito trasferimento di ricchezza imponibile verso uno Stato estero, a cui l'ordinamento reagisce sostituendo il corrispettivo contrattuale nullo con il «valore normale» dell'operazione, costituito in caso di prestito di una somma di danaro dagli interessi al tasso di mercato.
Va, però, segnalata l'esistenza, nelle giurisprudenza di legittimità, di una diversa opinione, espressa da Sez. T, n. 27087/2014, Olivieri, Rv. 633915, in fattispecie analoga a quella decisa dalla riportata Sez. T, n. 13387/2016, Locatelli, Rv. 640134, che l'ha consapevolmente disattesa. Secondo il precedente del 2014, "la stipula di un finanziamento non oneroso, riconducibile allo schema del mutuo a titolo gratuito, erogato dalla società controllante a favore delle controllate, non subisce limitazioni per il fatto che la controllante, residente nello Stato, e le società residenti in altri Paesi appartengano al medesimo gruppo societario, realizzando quindi una operazione infragruppo transfrontaliera, non contrastando la gratuità della operazione, che esclude la pattuizione di interessi corrispettivi dovuti dalla mutuataria, con la previsione dell'art. 76, comma 5 (oggi art. 110, comma 7), del d.P.R. n. 917 del 1986. Invero, l'applicazione della norma tributaria è subordinata dalla legge alla duplice condizione che dalla operazione negoziale infragruppo derivino per la società contribuente componenti (positivi o negativi) reddituali e che dalla applicazione del criterio del valore normale derivi un aumento del reddito imponibile; e tali condizioni non risultano integrate nella concessione del mutuo non oneroso, essendo estranea a tale schema negoziale la stessa prestazione – avente ad oggetto la corresponsione di interessi corrispettivi – che costituisce il necessario termine di comparazione rispetto ai valore normale". In senso conforme al precedente del 2014 si era espressa anche Sez. T, n. 15005/2015, Iofrida (non massimata), mentre Sez. T, n. 07493/2016, Virgilio (anch'essa non massimata), si era pronunciata nel medesimo senso del precedente del 2016.
A tali fini, peraltro, il controllo di cui all'art. 110, comma 7, del d.P.R. n. 917 del 1986, alla luce delle specifiche finalità antielusive della disciplina fiscale del transfer pricing, non coincide con quello di cui all'art. 2359 c.c., che, difatti, non è espressamente richiamato, ma si estende ad ogni ipotesi d'influenza economica potenziale o attuale desumibile da singole circostanze, tra cui, ad esempio, la vendita esclusiva, da parte di un'impresa, dei prodotti dell'altra o l'impossibilità di funzionamento di un'impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica dell'altra: Sez. T, n. 08130/2016, Iannello, Rv. 639440.
In tema di plusvalenze di cui all'art. 81 (ora 67), comma 1, lett. a) e b) del d.P.R. n. 917 del 1986, per i terreni edificabili e con destinazione agricola, Sez. 6-T, n. 19242/2016, Federico, Rv. 641114, ha ritenuto che la mancata indicazione, nell'atto di vendita dell'immobile, del valore del cespite, così come rideterminato a norma dell'art. 7 della l. 28 dicembre 2001, n. 448, non costituisce condizione ostativa alla facoltà del contribuente di assumere come valore iniziale, in luogo del costo o del valore di acquisto, quello alla data del 1° gennaio 2002 individuato sulla base di una perizia giurata, attesa, a tal proposito, l'assenza di limitazioni poste dalla legge e l'irrilevanza di quanto, invece, previsto da atti non normativi, come le circolari amministrative.
Se, invece, il contribuente ha scelto di rideterminare il valore del bene attraverso una perizia giurata di stima e versare l'imposta sostitutiva ex art. 7 del d.lgs. n. 448 del 2001, tale opzione – ha osservato Sez. T, n. 13406/2016, Iannello, Rv. 640144 – non può essere revocata neppure in conseguenza di un evento successivo ed imprevedibile, quale il suo decesso, intervenuto prima della cessione del bene, che non priva di causa giuridica l'adempimento dell'obbligazione tributaria ormai effettuato, sicché gli eredi non possono ottenerne il rimborso.
Ai fini dell'assoggettamento ad imposizione ex art. 81 (ora 67), comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 917 del 1986, tra i redditi diversi, delle plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili, Sez. T, n. 15584/2016, Locatelli, Rv. 640637, ha ritenuto che un terreno deve considerarsi lottizzato allorquando sia intervenuta, da parte dell'autorità competente, l'autorizzazione del corrispondente piano di lottizzazione, anche se non è ancora stata stipulata, tra il comune ed i proprietari, la relativa convenzione urbanistica e non è stata eseguita alcuna opera di urbanizzazione primaria o secondaria.
Infine, Sez. 6-T, n. 11543/2016, Caracciolo, Rv. 640048, ha ritenuto che l'art. 5, comma 3, del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 – che, quale norma d'interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva – esclude che l'Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro.
Particolarmente numerose sono state le sentenze in tema di reddito d'impresa.
Quanto alla determinazione del reddito d'impresa, si è, in particolare, ritenuto che:
- il corrispettivo della vendita di un complesso di unità immobiliari, effettuato da una società avente come oggetto principiale l'attività di compravendita di immobili, costituisce, a norma dell'art. 53 (ora art. 85), comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 917 del 1986, ricavo interamente tassabile, atteso che la tassabilità della sola plusvalenza riguarda il corrispettivo realizzato mediante cessione di beni relativi all'impresa diversi da quelli alla cui produzione o al cui scambio essa è diretta: Sez. T, n. 13747/2016, Locatelli, Rv. 640384;
- sono contributi in conto capitale, e, quindi, sopravvenienze attive, quelli erogati per incrementare i mezzi patrimoniali del beneficiario, senza che la loro concessione si correli all'onere di uno specifico investimento in beni strumentali, mentre sono contributi in conto impianti, che confluiscono nel reddito sotto forma di quote di ammortamento deducibile, quelli destinati all'acquisto di beni (materiali o immateriali) strumentali. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha qualificato contributo in conto impianti quello percepito per l'acquisto di un terreno destinato alla costruzione di un fabbricato industriale, ammortizzabile nell'ambito di un progetto di investimento agevolato, ai sensi della l. 19 dicembre 1992, n. 488): Sez. T, n. 13734/2016, Virgilio, Rv. 640542;
- i ricavi relativi ai corrispettivi di prestazioni di servizi con cadenza periodica vanno imputati, secondo il criterio della competenza, stabilito dall'art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986, all'esercizio in cui risulta ultimata la parte di prestazione cui essi si riferiscono, senza tener conto della data di fatturazione o di quella della riscossione: Sez. T, n. 11311/2016, Greco, Rv. 639979;
- è configurabile una plusvalenza da avviamento commerciale tassabile anche nel caso di cessione a titolo oneroso di azienda (nella specie, una farmacia) a fronte della costituzione di una rendita vitalizia, posto che essa costituisce il corrispettivo di un'alienazione patrimoniale che, pur assicurando un'utilità aleatoria quanto all'ammontare concreto delle erogazioni che verranno eseguite, ha un valore economico accertabile mediante calcoli attuariali. Ne deriva, inoltre, l'imputazione per competenza del corrispettivo assumendo rilievo il momento di perfezionamento del contratto attesa la natura intrinsecamente onerosa dell'atto traslativo: Sez. T, n. 00387/2016, Federico, Rv. 638427.
Inoltre, come ritenuto da Sez. T, n. 13093/2016, Greco, Rv. 640148, gli interessi attivi (e passivi) costituiscono entrate (o uscite) di ciascun contribuente e debbono essere specificamente conteggiati in virtù dei principi di trasparenza codificati nell'art. 2423 c.c., senza che assuma rilievo il fatto che i rapporti di credito e debito, fonte degli interessi in questione, intercorrano fra società del medesimo gruppo, per cui, agli effetti del gruppo, si determina una mera partita di giro.
Quanto, invece, ai costi deducibili, Sez. T, n. 09818/2016, Greco, Rv. 639871, ha osservato che l'onere della prova dell'esistenza e dell'inerenza dei costi incombe al contribuente, il quale, in particolare, con riferimento alle spese per la riparazione e manutenzione di automezzi destinati all'esercizio dell'impresa, ai sensi dell'art. 75 del d.P.R. n. 917 del 1986, è tenuto a dimostrare l'inerenza di tali spese a beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito stesso.
Le spese sostenute per la manutenzione, riparazione, trasformazione ed ammodernamento di beni materiali strumentali, qualora non siano imputate ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili, ex art. 102, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986, nel limite del 5 per cento del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili e l'eventuale eccedenza è deducibile per quote costanti nei cinque esercizi successivi a quello nel quale la spesa è stata sostenuta. (Fattispecie relativa a spese di rifacimento del tetto dell'immobile sede dell'attività di impresa e manutenzione di uno stampo): Sez. T, n. 07885/2016, Locatelli, Rv. 639623.
La somma dovuta dal datore di lavoro al lavoratore a seguito di una controversia, conclusasi con verbale di conciliazione dinanzi al giudice del lavoro, va dedotta dal reddito imponibile dell'anno d'imposta in cui il giudice ha conferito al predetto verbale valore esecutivo, rendendolo così non più modificabile ed attribuendo agli eventuali oneri che ne derivino per una delle parti il carattere della certezza, che è una delle condizioni della deducibilità fiscale: Sez. T, n. 11728/2016, Iannello, Rv. 640040.
Il software (programma per l'utilizzo degli apparati elettronici) rientra – ha ritenuto Sez. T, n. 16673/2016, Tricomi, Rv. 640771, – tra le immobilizzazioni immateriali, il cui costo è suscettibile di ammortamento ai sensi dell'art. 68 (ora 103) del d.P.R. n. 917 del 1986, con la precisazione che ove, in base alla specifica previsione contrattuale o legislativa, non vi siano limitazioni all'esercizio del diritto, riconducibile sostanzialmente allo statuto proprietario, si applica il regime di cui comma 1, mentre sono soggette al successivo comma 2 tutte le fattispecie residuali caratterizzate della durata limitata nel tempo dei diritti di utilizzazione attribuiti.
In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale agli iscritti, in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette – come confermato da Sez. T, n. 11941/2016, Federico, Rv. 640081, – ad un differente trattamento tributario:
a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, si applica il regime di tassazione separata ex artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 del d.P.R. n. 917 del 1986, limitatamente alla "sorte capitale", costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro e, pertanto, corrispondente all'attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento di polizza – e, cioè, del rendimento netto del capitale accantonato – si applica, a prescindere dell'effettivo investimento dei contributi sul mercato finanziario, la ritenuta del 12,50 per cento di cui all'art. 6 della l. 26 settembre 1985, n. 482, sulla differenza tra l'ammontare del capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2 per cento per ogni anno successivo al decimo se il capitale è versato dopo almeno dieci anni dalla conclusione del contratto di assicurazione;
b) per gli importi maturati a decorrere dall'1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, comma 1, lett. a) e 17 del d.P.R. n. 917 del 1986.
Nel corso del 2016 le Sezioni Unite sono intervenute più volte in tema di IRAP, sicché appare opportuno, dedicare a tale tributo, oggetto, peraltro, di numerosissime controversie, un capitolo autonomo rispetto a quello sui tributi locali, pur rinviandosi alla parte processuale la trattazione dei relativi aspetti.
In particolare, le Sezioni Unite sono tornate a pronunciarsi sul concetto di autono- ma organizzazione, stabilendo che tale requisito non ricorre quando il contribuente, responsabile dell'organizzazione, impieghi beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile all'esercizio dell'attività e si avvalga di lavoro altrui non eccedente l'impiego di un dipendente con mansioni esecutive (ad esempio, mansioni di segretario, autista, portiere, addetto alle pulizie). Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione di merito che aveva escluso l'autonomia organizzativa di uno studio legale dotato soltanto di un segretario e di beni strumentali minimi (Sez. U, n. 09451/2016, Greco, Rv. 639529).
A tenore del secondo periodo dell'art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, costituisce in ogni caso presupposto d'imposta l'attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato. Per tale ragione, secondo le Sezioni Unite, il requisito dell'autonoma organizzazione non deve essere provato quando si tratta dell'esercizio di professioni in forma societaria, che costituisce ex lege presupposto dell'imposta, senza che occorra accertare in concreto la sussistenza dell'autonoma organizzazione, implicita in tale forma di esercizio dell'attività (Sez. U, n. 07371/2016, Greco, Rv. 638175). La Corte, basandosi sul dato letterale della norma, ha affermato che le associazioni professionali, gli studi associati, le società semplici esercenti attività di lavoro autonomo sono sempre soggetti ad IRAP, indipendentemente dalla struttura organizzata della quale si avvalgono per l'esercizio dell'attività professionale svolta. Nella specie, il principio è stato applicato riguardo ad una società semplice esercente attività di amministratore condominiale. L'esercizio dell'attività in forma associata non va, tuttavia, confuso con quello individuale nell'ambito di una società, di cui il professionista è socio o dipendente, che, come precisato da Sez. 6-T, n. 15556, Cirillo, Rv. 640875, non realizza in sé il presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione.
Le Sezioni Unite hanno, inoltre, affrontato la questione della medicina di gruppo, sostenendo che la relativa attività integra il presupposto impositivo non per la forma associativa del suo esercizio, ma solo per l'eventuale sussistenza di una autonoma organizzazione, atteso che non si tratta di una associazione di professionisti, ma di un organismo promosso dal Servizio Sanitario Nazionale: è, pertanto, insufficiente l'erogazione della quota di spesa del personale di segreteria o infermieristico comune, giacché essa costituisce il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività professionale (Sez. U, n. 07291/2016, Greco, Rv. 639173).
L'aspetto più controverso dell'IRAP concerne la prova dell'autonoma organizzazione, la cui inesistenza deve essere dimostrata dal contribuente in caso di impugnazione del diniego di rimborso e la cui esistenza deve essere dimostrata dall'Amministrazione in caso di impugnazione della cartella esattoriale (così Sez. T, n. 23999/2016, Mocci, Rv. 641958, che perviene a questa conclusione atteso che, in caso di opposizione a cartella, incombe sull'Amministrazione l'onere di provare il corretto esercizio del potere). È stato chiaramente precisato che l'entità dei compensi percepiti dal contribuente e, cioè, l'ammontare del reddito conseguito, è irrilevante ai fini della ricorrenza del presupposto dell'autonoma organizzazione, richiesto dall'art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997 (Sez. T, n. 22705/2016, Conti, Rv. 641644)
Relativamente agli indici presuntivi dell'autonoma organizzazione, la Suprema Corte ha precisato che:
a) il valore assoluto dei compensi e dei costi ed il loro reciproco rapporto percentuale non costituiscono elementi utili per desumere il presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione di un professionista, atteso che, da un lato, i compensi elevati possono essere sintomo del mero valore ponderale specifico dell'attività esercitata e, dall'altro, le spese consistenti possono derivare da costi strettamente afferenti all'aspetto personale (spese alberghiere o di rappresentanza, assicurazione per i rischi professionali o il carburante utilizzato per il veicolo strumentale) e, pertanto, rappresentare un mero elemento passivo dell'attività professionale, non funzionale allo sviluppo della produttività e non correlato all'implementazione dell'aspetto organizzativo (Sez. 6-T, n. 23557, Manzon, Rv. in corso di massimazione);
b) una spesa consistente per l'acquisto di un macchinario indispensabile all'esercizio dell'attività medesima non è idonea a rivelare l'esistenza dell'autonoma organizzazione laddove il capitale investito non rappresenti un fattore aggiuntivo o moltiplicativo del valore rappresentato dall'attività intellettuale del professionista, ma sia ad essa asservito in modo da non poterne essere neppure distinto (Sez. 6-T, n. 23552, Manzon, Rv. in corso di massimazione).
Vanno, inoltre, evidenziate alcune pronunce per la peculiarità delle fattispecie esaminate. A tale riguardo, si segnala Sez. 6-T, n. 12616/2016, Iofrida, Rv. 640021, secondo cui, in tema di IRAP, è soggetto passivo di imposta l'imprenditore familiare, ma non anche i familiari collaboratori, atteso che la collaborazione dei partecipanti integrerebbe quel quid iuris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare, ed è, quindi, espressione sintomatica del relativo presupposto impositivo.
Non realizza, invece, il presupposto impositivo l'esercizio dell'attività di sindaco e di componente di organi di amministrazione e controllo di enti di categoria, che avvenga in modo individuale e separata rispetto ad ulteriori attività espletate all'interno di una associazione professionale, senza ricorrere ad un'autonoma organizzazione (Sez. 6-T, n. 19327/2016, Vella, Rv. 641235). Parimenti l'esercizio di una attività professionale (nella specie, di commercialista e revisore dei conti) nell'ambito dell'organizzazione costituita da una società in cui il professionista è socio (o dipendente), non realizza il presupposto impositivo costituito dall'autonoma organizzazione (Sez. 6-T, n. 17566/2016, Cirillo, Rv. 640875).
Interessanti sono gli orientamenti espressi con riferimento alla configurabilità del presupposto di imposta in tema di professioni sanitarie. Come già ricordato nel paragrafo che precede, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della medicina di gruppo (Sez. U, n. 07291/2016, Greco, Rv. 639173).
Inoltre (primo luogo), la Sez. T, n. 13405/2016, Cricenti, Rv. 640145, ha confermato che la disponibilità, da parte dei medici di medicina generale convenzionati con il SSN, di uno studio, avente le caratteristiche e dotato delle attrezzature indicate nell'art. 22 dell'Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, reso esecutivo con d.P.R n. 270 del 2000, rientra nell'ambito del "minimo indispensabile" per l'esercizio dell'attività professionale e, trattandosi di una attività obbligatoria ai fini dell'instaurazione e del mantenimento del rapporto convenzionale, non integra, di per sé, in assenza di personale dipendente, il requisito dell'autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo.
Si è, altresì, chiarito che l'attività libero professionale svolta intra moenia dal medico ospedaliero rientra nello schema generale della subordinazione, sicché è illegittima la trattenuta IRAP operata dall'Asl sui relativi onorari, comunque immodificabili unilateralmente perché concordati, restando l'onere dell'imposta a carico esclusivo dell'azienda che, quale sostituto d'imposta, può trasferirlo sui pazienti, adeguando le tariffe su cui i medici non hanno, invece, il potere di incidere (Sez. L, n. 00199/2016, Buffa, Rv. 638244). Tuttavia, ove l'Asl abbia indebitamente effettuato una trattenuta IRAP nei confronti del medico ospedaliero relativamente ai compensi percepiti per l'attività intra moenia, quest'ultimo, essendo estraneo al rapporto tributario intercorrente tra la Asl e Amministrazione finanziaria, non è legittimato a richiedere il rimborso della somma non dovuta (così Sez. T, n. 23333, Iofrida, Rv. in corso di massimazione).
Infine, secondo la Sez. 6-T, n. 20888/2016, Iofrida, Rv. 641300, i compensi corrisposti ai colleghi medici, in caso di obbligatoria sostituzione per malattia o ferie, non rilevano ai fini della configurabilità dell'autonoma organizzazione del medico di medicina generale convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale:in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il giudice di merito, nel respingere l'istanza di rimborso del contribuente, aveva attribuito esclusivo rilievo all'entità delle spese sostenute, identificandole in modo unitario ed indistinto per tutti gli anni di riferimento.
Con la pronuncia Sez. T, n. 14266/2016, La Torre, Rv. 640511, la Corte ha definitivamente chiarito, riprendendo un principio espresso nel 2012, che in tema di condono fiscale, il concordato preventivo biennale introdotto dall'art. 33 del d.l. n. 269 del 2003, convertito in l. n. 326 del 2003, concerne essenzialmente le imposte sui redditi con limitati effetti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, mentre da esso esula l'imposta regionale sulle attività produttive, come si desume dal tenore testuale della disposizione, che, tra l'altro, rinvia, per la determinazione del significato dei termini "ricavi" e "compensi", alle disposizioni in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Ne consegue che l'adesione al concordato non comporta effetti preclusivi ai fini del diritto al rimborso dell'imposta.
Le disposizioni del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 stabiliscono tempi e precise modalità della registrazione delle fatture e costituiscono espressione di un generalizzato obbligo di annotazione che grava sul soggetto passivo di imposta. Si tratta, per le operazioni attive, dei registri delle fatture emesse e/o dei corrispettivi e del registro degli acquisiti. Tale disciplina non trova deroga in altre previsioni di legge, in quanto le modalità e i tempi registrazione delle fatture emesse e degli acquisiti sono funzionalmente collegati alle scansioni temporali prefissate per i versamenti dell'imposta (c.d. "liquidazione periodica"), derivante dal confronto dell'IVA a debito sulle operazioni attive e dell'IVA detraibile.
In tal senso, il rispetto degli obblighi di registrazione e dei requisiti sostanziali consente di superare anche le preclusioni derivanti da violazioni di carattere formale.
Deve segnalarsi, sul tema, l'importante arresto delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 17757/2016, Cirillo, Rv. 640943) con cui, superando un latente contrasto di giurisprudenza, in applicazione del principio di neutralità dell'imposizione armonizzata sul valore aggiunto, in ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, è stata riconosciuta l'eccedenza di imposta che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, non potendo negarsi il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili.
Nondimeno, in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, resta ferma la possibilità di iscrizione a ruolo dell'imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, ai sensi degli artt. 54-bis e 60 del d.P.R. n. 633 del 1972, con procedure automatizzate e a seguito di un controllo formale scevro da profili valutativi e/o estimativi nonché da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi dell'anagrafe tributaria, fatta salva, nel successivo giudizio di impugnazione della cartella, l'eventuale dimostrazione, a cura del contribuente, che la deduzione d'imposta, eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione, riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili (Sez. U, n. 17758/2016, Cirillo, Rv. 640942; sulla legittimità dell'accertamento induttivo, in ipotesi di omessa dichiarazione di imposta, si veda Sez. 6-T, n. 01020/2016, Caracciolo, Rv. 638480).
Il principio comunitario di neutralità fiscale consente di identificare il fatto generatore del tributo con l'espletamento dell'operazione, come affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 08059/2016, Cappabianca, Rv. 639482) con riferimento all'assoggettabilità ad imposta del compenso del professionista, anche se percepito successivamente alla cessazione dell'attività, nel cui ambito la prestazione è stata eseguita, ed alla sua formalizzazione.
Sul tema dell'obbligo di provvedere alla annotazione contabile delle fatture ricevute, con la pronuncia Sez. T, n. 03586/2016, Olivieri, Rv. 639032, la Corte ha ribadito la necessità, nell'ambito di operazioni intracomunitarie per beni o servizi resi da parte di soggetti residenti in altri Paesi membri, che il cessionario/committente italiano provveda alla annotazione delle fatture emesse – ai sensi dell'art. 21, n. 1, lett. b) della Sesta direttiva nel testo integrato dall'art. 28-octies, nonché dell'art. 17, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 – nei registri IVA degli acquisti e delle vendite, ai fini della compensazione dell'IVA a debito con quella a credito, in attuazione del principio di neutralità fiscale. In tal modo si realizzano le condizioni sostanziali che soddisfano l'esigibilità dell'imposta dovuta e della destinazione dei beni e servizi acquistati o utilizzati ad operazioni imponibili e non si determina la perdita del diritto alla detrazione. La pronuncia consolida l'orientamento innovativo già espresso da Sez. T, n. 07576/2015, Cirillo, Rv. 635176, in controtendenza rispetto a precedenti arresti, che, in tema di acquisti intracomunitari, ha riconosciuto il diritto alla detrazione per l'operatore nazionale, pur in assenza di applicazione della procedura formale d'inversione contabile (reverse charge).
Il meccanismo del reverse charge, nell'attuazione del principio di neutralità fiscale, come chiarito dalla giurisprudenza comunitaria, accorda il diritto alla detrazione di imposta ove ne siano rispettati i requisiti sostanziali, anche ove taluni obblighi formali siano stati violati, salvo che da ciò consegua l'effetto d'impedire la prova dell'adempimento dei requisiti sostanziali (Sez. T, n. 04612/2016, Tricomi, Rv. 639034).
Il superamento degli obblighi procedurali si manifesta anche nell'ampliamento dell'ambito applicativo dell'art. 1 del d.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, nella parte in cui prevede che l'opzione e la revoca dei regimi di determinazione dell'imposta o di regimi contabili si desume da comportamenti concludenti del contribuente o dalle modalità di tenuta delle scritture contabili, in ragione della interpretazione autentica della predetta disposizione fornita dall'art. 4 della legge 21 novembre 2000, n. 342. La norma non prevede, infatti, due fattispecie alternative di comportamenti equipollenti alla dichiarazione espressa di opzione, ma delimita un'unica complessa fattispecie, considerata dal legislatore come indice significativo della scelta del regime da parte del contribuente, applicabile anche ai comportamenti concludenti tenuti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore (Sez. T, n. 08114/2016, Bielli, Rv. 639698)
Un'ulteriore proiezione del criterio sostanzialistico è sul piano delle sanzioni tributarie, ove la Corte (Sez. T, n. 02605/2016, Marulli, Rv. 638898) ha riconosciuto, confermando un recente orientamento, che il ritardo nella fatturazione integra una violazione sostanziale e non formale dell'art. 21, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto arreca pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo, ed è, pertanto, punibile anche quando non determina omesso versamento dell'IVA, con conseguente esclusione della possibilità di riconoscimento dell'esimente di cui all'art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212.
È da segnalare, infine, che Sez. T, n. 19482/2016, Luciotti, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima importanza concernente l'esistenza di un obbligo, ai sensi dell'art. 17 del d.P.R. n. 633 del 1972 (nella versione anteriore al d.lgs. 11 febbraio 2010, n. 18), in capo al soggetto non residente che abbia nominato un rappresentante fiscale di avvalersi di quest'ultimo per tutte le operazioni effettuate sul territorio nazionale.
Il criterio generale di individuazione delle operazioni imponibili è quello della possibilità di ricomprendere le stesse nell'ambito della attività di impresa. In tal senso, la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 16683/2016, Vella, Rv. 640772, ha qualificato, ai sensi dell'art. 2, comma 2, n. 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, come soggetta ad imposta la gestione di un fabbricato o di una sua porzione, tramite la locazione da parte dell'imprenditore che lo ha realizzato e si prefigga l'obiettivo di venderlo, anche ove tale attività sia di tipo meramente conservativo durante un periodo di stasi sul mercato, in attesa del momento più proficuo per la vendita.
La Corte ha anche confermato che la cessione gratuita di aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, conclusa in attuazione di una convenzione stipulata ai sensi della l.r. Lombardia n. 9 del 1999, non è da ritenersi operazioni imponibile, poiché costituisce modalità alternativa all'assolvimento dell'obbligo di pagamento degli oneri conseguenti al rilascio di concessioni edilizie relative a fondi rimasti in proprietà del cedente (Sez. T, n. 11344/2016, Iannello, Rv. 639908).
Né, secondo l'orientamento espresso dalle Sezioni Unite, la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, istituita dall'art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, oggi abrogato, che ha natura tributaria, è da ritenersi soggetta all'IVA, mirando quest'ultima a colpire la capacità contributiva insita nel pagamento del corrispettivo per l'acquisto di beni o servizi e non in quello di un'imposta, sia pure destinata a finanziare un servizio da cui trae beneficio il medesimo contribuente (Sez. U, n. 05078/2016, Iacobellis, Rv. 639013).
Il commercio di rottami, rientrando il bene nel ciclo produttivo, è soggetto al regime previsto dall'art. 74 del d.P.R. n. 633 del 1972 con assolvimento dell'IVA mediante reverse charge ad aliquota ordinaria, in ciò differenziandosi dalla gestione di rifiuti – intesa come prelievo, cernita e raggruppamento di rottami non destinati ad ulteriore utilizzazione in ciclo produttivo, disciplinata ai sensi del d.P.R. n. 633 del 1972 tabella A, parte terza, punto 127-sexiesdecies, con applicazione dell'aliquota ridotta del 10 per cento (Sez. T, n. 19886/2016, Tricomi, Rv. 641264, in cui si individua il criterio di qualificazione delle attività concernenti i rifiuti o rottami).
Di contro, soggiace ad IVA l'attività svolta da un comune sulla base di concessione della rete locale del gas, da cui si ritrae una stabile utilità, sotto forma di corrispettivo, quale attività economica ai sensi dell'art. 4 della direttiva n. 77/388/CE, oggi sostituito dall'art. 9 della direttiva n. 112/2006/CE, come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria, che comprende ogni operazione di "sfruttamento" del bene, da intendersi come possibilità di trarre da esso in modo stabile un'utilità sotto forma di corrispettivo, non integrando, di contro, presupposto impositivo la "redditività" dell'attività (Sez. T, n. 16734/2016, Marulli, Rv. 641063; nello stesso senso, Sez. T, n. 14263/2016, Vella, Rv. 640539, che ha riconosciuto il diritto alla detrazione ai sensi dell'art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 all'azienda concessionaria del servizio di somministrazione di gas).
Il riconoscimento delle operazioni soggette ad imposta si proietta sulla definizione dei presupposti per le detrazioni a fini IVA.
In via generale, come detto, il diritto alla detrazione dell'IVA, in forza del combinato disposto degli artt. 13 e 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, compete solo in relazione ai corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, non rilevando una generica volontà o disponibilità delle parti, non tradottasi in un vincolo giuridico. In applicazione del suddetto principio la Corte ha ritenuto che le somme versate da un consorzio di produttori di latte ai consorziati non possono essere considerate alla stregua di un'integrazione del prezzo del latte acquistato se non sono state corrisposte in adempimento di uno specifico obbligo giuridico, con la conseguenza che, ai fini della deducibilità delle componenti negative del reddito, ai sensi dell'art. 75 (ora 109), comma 4, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è necessario che i costi risultino dal conto dei profitti e delle perdite oppure da "elementi certi e precisi", desumibili da dati giuridico-contabili formali e non meramente fattuali, come una mera manifestazione di intento delle parti (Sez. T, n. 16412/2016, Marulli, Rv. 641054).
Con riferimento al requisito della inerenza, inoltre, è stato riconosciuto (Sez. T, n. 07492/2016, Vella, Rv. 639692) il diritto alla detrazione dell'IVA di cui agli artt. 4, comma 2, e 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, connessa all'inerenza dei beni o servizi acquistati o importati all'attività d'impresa, anche nel caso in cui il contribuente (nella specie, una società) abbia, nel corso del medesimo periodo di imposta di compimento delle operazioni passive, dichiarato un volume di affari pari a zero per non aver realizzato alcuna operazione imponibile attiva, non potendosi escludere che una società non intenda perseguire lo scopo per cui è stata costituita solo perché costretta ad una stasi da una temporanea crisi finanziaria o a fluttuazioni del mercato (nello stesso senso, per le condizioni di detraibilità sugli acquisti di beni e servizi afferenti corsi di formazione, aggiornamento, riqualificazione e riconversione del personale, effettuati da organismi che percepiscono contributi pubblici, ai sensi dell'art. 10, comma 2-ter, del d.l. 30 dicembre 2015, n. 210, conv. in l. 25 febbraio 2016, n. 21, cfr. Sez. T, n. 18631/2016, Vella, Rv. 640978).
La Corte ha ribadito che l'inerenza del bene deve essere intesa come strumentalità dello stesso in relazione agli scopi dell'impresa, circostanza la cui prova incombe sull'interessato e la cui valutazione va effettuata in concreto tenuto conto dell'effettiva natura del bene (Sez. T, n. 05860/2016, Perrino, Rv. 639429). In tal senso si è riconosciuto l'ordinario regime di detrazione delle spese, di cui agli artt. 19 e ss. del d.P.R. n. 633 del 1972, con riferimento ai costi sostenuti per la ristrutturazione di immobili utilizzati per l'attività agrituristica, per i quali la funzione abitativa dell'immobile costituisce mezzo di attuazione della prestazione di servizio concernente l'ospitalità della clientela (Sez. T, n. 04606/2016, Olivieri, Rv. 639131); di contro, ai sensi dell'art. 19--bis, comma 1, lett i), del d.P.R. n. 633 del 1972, ha escluso la possibilità di portare in detrazione l'imposta addebitata a titolo di rivalsa dal venditore, quando l'operazione sia relativa a fabbricati a destinazione abitativa, salvo che per le imprese che hanno ad oggetto esclusivo o principale dell'attività esercitata la costruzione dei predetti fabbricati (Sez. T, n. 06883/2016, Tricomi, Rv. 639518).
Il diritto all'esenzione dal pagamento dell'IVA è connesso alla natura delle operazioni commerciali poste in essere. In proposito, la Corte ha ribadito il principio generale secondo cui l'art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, che dispone che l'imposta è dovuta per l'intero con riferimento alla somma annotata, pur quando si tratti di operazioni inesistenti, non si applica alle fattispecie in cui le operazioni "simulate" siano anche "esenti", in quanto un'operazione di per sè "non imponibile" non muta certo tale qualità per il solo fatto di essere stata simulata ed in quanto altrimenti si finirebbe per introdurre nel sistema una sostanziale sanzione non prevista dal legislatore (Sez. T, n. 15870/2016, Di Stefano P., Rv. 640646).
Il principio generale richiamato trova ulteriore espressione nella pronuncia Sez. T, n. 04613/2016, Tricomi, Rv. 639038, relativa alla fattispecie di applicabilità dell'esenzione alla attività di locazione di immobili, attuata nell'ambito dell'attività d'impresa, non esplicitamente inclusa nell'oggetto sociale, ma perdurante nel tempo e svolta senza soluzione di continuità. La S.C. ha ritenuto che, ai fini della possibilità di includere tali operazioni nel calcolo della percentuale detraibile in relazione al compimento di operazioni esenti (cosiddetto pro rata), per verificare se una determinata operazione attiva rientri o meno nell'attività propria di una società, occorre avere riguardo non già all'attività previamente definita dall'atto costitutivo come oggetto sociale, ma a quella effettivamente svolta dall'impresa, atteso che, ai fini dell'imposta, rileva il volume d'affari del contribuente, costituito dall'ammontare complessivo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate, e, quindi, l'attività in concreto esercitata.
Per le operazioni di esportazione, ai fini dell'esenzione prevista dall'art. 8, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 633 del 1972, è necessario che l'operatore che voglia fruire dell'agevolazione provi la destinazione della merce all'esportazione esclusivamente mediante la produzione della documentazione doganale, ovvero la vidimazione apposta sulla fattura dall'ufficio doganale. Tale prova non è surrogabile da documenti alternativi, mentre, in presenza della suddetta documentazione, l'Amministrazione finanziaria non può disconoscere l'imponibilità dell'operazione ed il diritto alla detrazione (Sez. T, n. 16971/2016, Marulli, Rv. 640956).
Di contro, in tema di operazioni all'importazione si è ritenuto che il plafond, alimentato dalle operazioni di cui all'art. 8, lett. a) e b), del d.P.R. n. 633 del 1972, può essere fruito, acquistando o importando beni o servizi senza pagamento dell'imposta, solo dagli esportatori abituali e non già dai loro fornitori, che non abbiano tale caratteristica, in quanto sono i primi e non i secondi a maturare le ragioni del credito (Sez. T, n. 05853/2016, Perrino, Rv. 639428).
Infine, sul piano della ripartizione dell'onere della prova nelle ipotesi di esenzione, è da segnalare il principio espresso dalla Corte con la sentenza Sez. T, n. 05408/2016, Tricomi, Rv. 639124, che, sulla base della natura speciale del regime di "esonero" agevolato nel campo dell'agricoltura, previsto dall'art. 34, comma 6, del d.P.R. n. 633 del 1972, impone al soggetto che intenda avvalersi dell'esenzione di dimostrare la sussistenza dei relativi presupposti di fatto e giuridici. Tale onere probatorio si trasferisce sul cessionario dei prodotti agricoli che, ove intenda applicare il regime dell'esonero, è tenuto a provvedere alla regolarizzazione dell'operazione di acquisto senza emissione di fattura, ai sensi dell'art. 6, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 471 del 1997, dovendo in caso contrario applicare il regime IVA ordinario.
L'art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede il diritto del contribuente al rimborso dell'eccedenza detraibile. Tale diritto, ai sensi dell'art. 19 del medesimo d.P.R. n. 633 del 1972, non è precluso dalla mancata dichiarazione del credito IVA, di cui sussistano i presupposti sostanziali, relativa all'anno d'imposta in cui avrebbe dovuto figurare, non potendo le modalità di rimborso dell'eccedenza IVA, pur liberamente determinabili dagli Stati membri dell'Unione europea, ledere il principio di neutralità fiscale (Sez. T, n. 12313/2016, Perrino, Rv. 640082).
Nondimeno, quando il contribuente decida, in luogo dell'istanza di rimborso, di utilizzare il credito IVA in compensazione in sede di liquidazione periodica, in assenza dei relativi presupposti la violazione non assume un carattere meramente formale, neppure ove il credito d'imposta risulti dovuto in sede di dichiarazione annuale e liquidazione finale, poiché l'erronea applicazione comporta il mancato versamento di parte del tributo alle scadenze previste e determina il ritardato incasso erariale, con conseguente deficit di cassa, sia pure transitorio, nel periodo infrannuale, suscettibile di trattamento sanzionatorio ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 (Sez. T, n. 16504/2016, Sabato, Rv. 640780). In senso conforme, si richiama la pronuncia Sez. T, n. 16422/2016, Vella, Rv. 640657, che qualifica la condotta di cui all'art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997, consistente nella richiesta di rimborso d'imposta non dovuta o eccedente il dovuto nella dichiarazione trimestrale, come violazione di pericolo, non meramente formale e non ricadente, pertanto, nell'ambito applicativo dell'art. 10, comma 3, della l. n. 212 del 2000, con conseguente irrilevanza della rettifica nella successiva dichiarazione annuale, specialmente ove il ravvedimento del contribuente sia stato originato da una richiesta di chiarimenti dell'Amministrazione finanziaria.
L'art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 pone un termine di decadenza biennale per la presentazione dell'istanza di rimborso dell'imposta. La decorrenza di tale termine, nell'ipotesi in cui il contribuente abbia erroneamente versato l'imposta non dovuta per carenza del presupposto della territorialità, decorre dal momento in cui è stato effettuato il versamento in quanto l'errore in cui il contribuente è incorso legittima l'immediato esercizio del diritto al rimborso, non ostandovi preclusione alcuna (Sez. T, n. 13980/2016, Perrino, Rv. 640178). In merito, la Corte ha ribadito la sussistenza del diritto al rimborso anche oltre il suddetto termine di decadenza (Sez. 6 – T, n. 01426/2016, Conti, Rv. 638626) nel solo caso in cui il richiedente prestatore di un servizio abbia a sua volta effettivamente rimborsato l'imposta al committente in esecuzione di un provvedimento coattivo – nella specie, relativa a fatture per prestazioni di servizi nei confronti di una società con sede in Shanghai – in ragione del principio di effettività del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di Giustizia, sentenza 15 dicembre 2011, in C-427/10.
Il diritto al rimborso dell'eccedenza di imposta è soggetto al termine di prescrizione decennale. Tali rimborsi sono eseguiti, su richiesta del contribuente, entro tre mesi dalla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione annuale, sicché da tale momento decorre il suddetto termine di prescrizione, attesa la sua autonomia sia da una specifica istanza di rimborso, necessaria ai soli fini di un procedimento di esecuzione, sia dai poteri di liquidazione dell'Amministrazione finanziaria e dall'eventuale credito risultante da un accertamento definitivo (Sez. T, n. 07223/2016, Perrino, Rv. 639239).
L'art. 73, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede un più favorevole regime di liquidazione dell'"IVA di gruppo", consentendo la possibilità di optare per la compensazione del credito di imposta di una società con gli importi dovuti a debito, per la medesima imposta, da altra società appartenente allo stesso gruppo. Sul tema, le Sezioni Unite, con sentenza Sez. U, n. 01915/2016, Cappabianca, Rv. 638253, hanno affermato che tale regime agevolativo si applica anche se la società controllante sia una società di persone, senza che rilevi, in senso contrario, quanto indicato dal d.m. n. 11065 del 1979 del Ministero delle Finanze, gerarchicamente subordinato alla legge, né, tantomeno, la successiva circolare dello stesso Ministero n. 16/360711, dovendosi ritenere una diversa interpretazione lesiva del principio di parità di trattamento rispetto a soggetti che operano nel medesimo mercato.
Quanto alle formalità per beneficiare della speciale modalità di compensazione infragruppo dell'obbligazione tributaria, è necessario che la controllante presenti, unitamente al prospetto di liquidazione, la propria dichiarazione e quelle delle controllate, di cui fa propri i contenuti tramite la sottoscrizione del proprio legale rappresentante. Ne deriva che l'attività di controllo e accertamento è legittimamente esercitata, senza la necessità di pregiudiziali rettifiche alle controllate, nei confronti della sola controllante e, cioè, del soggetto fiscale sul quale ricadono gli obblighi della dichiarazione ed a favore del quale matura il diritto ad ottenere il rimborso o la compensazione dell'eccedenza detraibile (Sez. T, n. 10207/2016, Tricomi, Rv. 639989).
Deve, inoltre, essere segnalata la pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12190/2016, Iacobellis, Rv. 639970) in tema di "ribaltamento" integrale o parziale di costi e ricavi ai fini dell'imposta sul valore aggiunto. Le Sezioni Unite hanno chiarito che la società consortile può svolgere una distinta attività commerciale con scopo di lucro ed è questione di merito accertare i rapporti tra la società stessa e i consorziati nell'assegnazione dei lavori o servizi, al fine di stabilire la necessità del suddetto "ribaltamento" di costi e ricavi a fini di imposta. In caso di differenza tra quanto fatturato dalla società consortile al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato alla società consortile, il consorziato ha l'onere di provare – nel rispetto dei principi di certezza, effettività, inerenza e competenza – che la differenza stessa non integri suoi ricavi occulti ovvero che essa corrisponda a provvigioni o servizi resi dal consorzio al terzo.
L'art. 36 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni nella legge 22 marzo 1995, n. 85, prevede un regime speciale derogatorio alla disciplina in materia di IVA per gli acquisiti intracomunitari di beni, finalizzato ad evitare una doppia imposizione sugli stessi.
Sul tema è da segnalare l'arresto espresso da Sez. 6-T, n. 11086/2016, Conti, Rv. 639993, secondo cui, per la natura speciale del regime, derogatorio dell'ordinaria disciplina fiscale degli acquisti intracomunitari, il contribuente è onerato a provare la sussistenza dei relativi presupposti di fatto, tra i quali l'indicazione sulla fattura del cedente della dicitura regime del margine – con riferimento, nella specie, ad oggetti d'arte oppure da collezione o di antiquariato o beni d'occasione – che non può ritenersi un mero elemento formale, risolvendosi la sua omissione nella mancata prova del requisito d'ordine soggettivo.
In tema di regime del margine di utile, giova segnalare che con ordinanza interlocutoria dell'11 dicembre 2015, la Sez. T della Corte ha ritenuto di rimettere alle Sezioni Unite la questione, di particolare importanza – allo stato non ancora decisa – relativa alla portata ed entità degli oneri di controllo del cessionario di autoveicoli usati, provenienti da uno Stato estero comunitario, al fine della regolare e lecita applicazione del regime del margine. Nel provvedimento si richiede alle Sezioni Unite di chiarire "se il giudice italiano, nel valutare se sussista o meno il diritto al regime del margine, debba prendere in considerazione la diligenza del contribuente solo in riferimento al suo rapporto con il soggetto da cui ha acquistato il bene, oppure se si debba chiedere al contribuente stesso anche di verificare tutta la filiera di cui il fornitore del bene è solo l'ultimo anello".
In tema di cessioni all'esportazione, l'art. 8 lett. c) del d.P.R. n. 633 del 1972 individua tra le operazioni non imponibili, le cessioni di beni (tranne i fabbricati e le aree edificabili) e le prestazioni di servizi fatte a soggetti che abbiano effettuato abitualmente cessioni all'esportazione od operazioni intracomunitarie, consentendo – per limitare l'inconveniente del porre tali operatori in permanente attesa del rimborso dell'eccedenza di imposta – di effettuare acquisiti senza applicazione dell'IVA.
In ordine alle formalità richieste per beneficiare del regime agevolativo, che si traduce sul piano fiscale in una sospensione di imposta, la giurisprudenza della Corte ha chiarito che l'omessa indicazione in fattura del codice identificativo del corrispondente comunitario ovvero l'indicazione di un codice identificativo errato non compromette la fruibilità del regime di esenzione previsto per gli scambi tra operatori comunitari, quando la ricorrenza, in capo al destinatario, della qualità di soggetto d'imposta nello Stato d'appartenenza, secondo il principio di tassazione del luogo di destinazione dei beni, non sia contestata (Sez. T, n. 16756/2016, Marulli, Rv. 641065; per la natura meramente formale della indicazione del codice identificativo del cliente, ove la cessione avvenga verso la Repubblica di San Marino, cfr. Sez. T, n. 19536/2016, Scoditti, Rv. 641244).
In tal senso, ai fini della non imponibilità di tali cessioni all'esportazione, non può ritenersi sufficiente la sola formale specifica dichiarazione d'intento dell'esportatore, ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l'assenza di un proprio coinvolgimento nell'attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell'assenza delle condizioni legali per l'applicazione del regime agevolato o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere (Sez. T, n. 19896/2016, Tricomi, Rv. 641260).
La Corte ha, inoltre, ribadito la non imponibilità delle operazioni di esportazione temporanea ai fini dell'esposizione fieristica e "tentativo di vendita", le quali, anche se seguite dalla successiva cessione dei beni, con il controllo dell'autorità doganale e l'adempimento dei relativi incombenti ex art. 214 del d.P.R. n. 43 del 1973, integrano una ipotesi di cessione all'esportazione di cui all'art. 8, lett. a) e b), del d.P.R. n. 633 del 1972, e sono riconducibili come tali al plafond costituito nell'anno precedente, utilizzabile, nell'anno successivo, ai fini dell'acquisto senza applicazione dell'IVA, in quanto l'avvenuta vendita comporta la conservazione della condizione giuridica di bene nazionale e determina la trasformazione dell'esportazione temporanea in esportazione definitiva (Sez. T, n. 05168/2016, Tricomi, Rv. 639434).
Sul tema, con riferimento alla ripartizione dell'onere della prova, si segnala l'arresto espresso da Sez. T, n. 15871/2016, Di Stefano, Rv. 640662, che, con riferimento alle condizioni previste dall'art. 50, commi 1 e 2, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv. in l. 29 ottobre 1993, n. 427, per le operazioni senza applicazione d'imposta – effettuate nei confronti dei cessionari e dei committenti che abbiano comunicato il numero d'identificazione attribuito dallo Stato di appartenenza, a condizione che il soggetto attivo dello scambio dia impulso ad una apposita procedura di verifica, richiedendo al Ministero la conferma della validità attuale del numero d'identificazione attribuito al cessionario – in assenza dei prescritti adempimenti, legittima l'Ufficio finanziario a ritenere lo scambio di carattere nazionale e procedere al recupero dell'IVA, restando onerato il contribuente della prova della sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo.
Sez. U, n. 18574/2016, Di Iasi, Rv. 641073 hanno dato soluzione al contrasto giurisprudenziale manifestatosi in ordine all'applicabilità della proroga biennale del termine di accertamento prevista dai commi 1 e 1-bis dell'art. 11 legge n. 289 del 2002 in tema di regime dell'aliquota agevolata dell'IVA per l'acquisto della prima casa. In particolare, si è ritenuto che il citato termine, previsto dall'art. 76, comma 1-bis, del d.P.R. n. 131 del 1986, per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta, non può essere prorogato, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della l. n. 289 del 2002, per le violazioni concernenti la fruizione dell'IVA agevolata al 4 per cento. Tale soluzione trova fondamento nella impossibilità di una interpretazione estensiva logico-sistematica dell'art. 11 citato, che fa espresso riferimento solo all'imposta di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni, nonché sull'incremento di valore degli immobili. La natura di disposizione derogatoria dei termini di decadenza, e, dunque, di norma di stretta interpretazione, rende inammissibile un'operazione ermeneutica intesa ad assegnare all'Amministrazione finanziaria un più ampio termine per l'accertamento di un tributo, senza che la diversa disciplina riservata a tributi differenti possa ritenersi irragionevole.
La Corte ha, inoltre, ribadito l'esclusione dal regime di speciale di agevolazione stabilito per le agenzie di viaggio dall'art. 74-ter del d.P.R. n. 633 del 1972 delle operazioni poste in essere dall'agenzia esclusivamente in qualità di intermediario, e non in nome proprio, tra il viaggiatore ed il terzo fornitore di servizi, oppure di fornitura di singoli servizi turistici, svincolati dall'organizzazione del viaggio (Sez. T, n. 04776/2016, Perrino, Rv. 639140), nonché per la spezzatura di riso, soggetta al regime di cui all'art. 75, comma 6, della legge n. 413 del 1991 per gli alimenti di cani e gatti, ove sia a ciò destinata, e non a quello della ordinaria categoria merceologica (Sez. T, n. 08815/2016, Marulli, Rv. 639649).
La disciplina nazionale delle operazioni relative a scambi con Paesi che si trovino fuori del territorio dell'Unione Europea, come configurata dal d.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, è ispirata al principio della detassazione dei beni "in uscita" dal territorio comunitario, e dell'applicazione dell'IVA italiana a quelli "in entrata". Tuttavia, al fine di conciliare l'esenzione da IVA delle operazioni di cessione di beni destinati al consumo all'estero, e non in territorio nazionale, ai sensi dell'art. 7 del d.P.R. n. 633 del 1972, con il diritto – essenziale nel sistema comunitario dell'IVA – alla detrazione dell'imposta sugli acquisti, il legislatore ha introdotto talune operazioni concretamente non imponibili, sebbene astrattamente assoggettabili ad imposta.
Giova, però, evidenziare che le operazioni escluse dall'IVA per difetto di territorialità non devono essere confuse con le operazioni non imponibili – tra le quali, le cessioni all'esportazione – soggette al presupposto territoriale e agli obblighi formali di fatturazione, dichiarazione e così via.
Sulla base di tale elemento differenziale Sez. T, n. 16459/2016, Tricomi, Rv. 640656, ha riconosciuto la competenza dell'Agenzia delle Entrate all'accertamento ed alla riscossione dell'IVA conseguente all'importazione se, precedendo l'immissione in libera pratica quella in consumo con certo intervallo temporale, l'imposta sia assolta al momento dell'estrazione della merce dal deposito fiscale mediante il meccanismo contabile del reverse charge, escludendo che si tratti di un'obbligazione doganale, secondo la normativa dell'Unione europea e ferma restando la legittimazione attribuita, per economia di procedimento, all'autorità doganale ove l'immissione in libera pratica e quella al consumo coincidano al momento dell'importazione.
Nello stesso solco si colloca la sentenza della Corte (Sez. T, n. 19098/2016, Perrino, Rv. 641112) che ha ritenuto l'IVA conseguente all'importazione, seppur segnata da specificità procedimentali e sanzionatorie rispetto a quella intracomunitaria, tributo interno non assimilabile ai dazi sebbene con essi condivida il fatto di trarre origine dall'importazione nell'Unione e dall'introduzione nel circuito economico degli Stati membri, sicché può essere assolta mediante il meccanismo contabile del reverse charge, che non configura di per sé un congegno elusivo o frodatorio, ma un utile modo di assolvimento dell'IVA all'importazione, senza che assuma rilievo il ricorso anche al regime speciale del deposito infragiornaliero.
In tema di dazi doganali è da segnalare il consolidamento della giurisprudenza della Corte (Sez. T, n. 13770/2016, Tricomi, Rv. 640616, in tema di dazio antidumping) in ordine alla piena valenza probatoria sul piano amministrativo e giudiziario degli accertamenti compiuti dagli organi comunitari, anche se a posteriori, idonei ad essere posti a fondamento dell'avviso di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni del regime agevolativo. Con la medesima pronuncia, si è delimitato l'ambito applicativo dello stato soggettivo di buona fede dell'importatore, richiesto dall'art. 220, n. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913 del 1992 (Codice doganale comunitario) ai fini dell'esenzione della contabilizzazione a posteriori dei dazi. L'esenzione può essere riconosciuta solo se l'errore dell'autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede, il quale deve anche aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, sicché quando l'errore dell'Amministrazione sia consistito nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell'esportatore – in particolare sull'origine della merce – tale buona fede non sussiste e il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo.
La Corte ha affrontato anche nel 2016 il problema della corretta portata della disciplina in materia d'imposta di registro nell'applicarla secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, tenendo conto della natura e degli effetti del singolo atto da registrare, con rilievo preminente alla causa reale del negozio ed alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti.
In considerazione della condotta del contribuente che ha usufruito di agevolazioni tributarie, Sez. T, n. 18676/2016, Botta, Rv. 641121, ha confermato l'orientamento secondo il quale i benefici fiscali previsti dall'art. 5 della l. 22 aprile 1982 n. 168, consistenti nella misura fissa delle imposte di registro, ipotecarie e catastali in favore dell'acquirente dell'immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato ed effettivamente attivato dal medesimo soggetto, possono essere conservati a condizione che il contribuente realizzi la finalità dichiarata nell'atto di acquisto entro il termine triennale di decadenza ex art. 76 del d.P.R. n. 131 del 1986, che inizia a decorrere dal momento in cui l'intento del contribuente sia rimasto ineseguito, ossia dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell'atto, restando irrilevante che l'eventuale revoca del beneficio sia intervenuta pochi giorni prima, in mancanza di prova, da parte del contribuente, circa la possibile attuazione in concreto del piano di recupero nel limitato spazio temporale tra la notifica dell'atto di revoca ed il decorso del triennio.
Sez. T, n. 18006/2016, Solaini, Rv. 641128 si riporta ad un orientamento constante, secondo la quale la sentenza ex art. 2932 c.c., che abbia disposto il trasferimento di un immobile in favore del promissario acquirente, subordinatamente al pagamento del corrispettivo pattuito, è soggetta ad imposta proporzionale e non in misura fissa, anche se ancora soggetta ad impugnazione, trovando applicazione l'art. 27 del d.P.R. n. 131 del 1986, alla stregua del quale non sono considerati sottoposti a condizione sospensiva gli atti i cui effetti dipendano, in virtù di condizione meramente potestativa, dalla mera volontà dell'acquirente, nella specie dall'iniziativa unilaterale del promittente acquirente.
Quanto alla determinazione della base imponibile Sez. T, n. 21830/2016, Esposito, in corso di massimazione, ha chiarito come non possa essere utilizzata allo scopo la disciplina relativa alla determinazione dell'ICI, attesa la profonda diversità tra le due imposte ed in particolare l'occasionalità della imposta di registro rispetto alla periodicità, e dunque ripetitività, dell'ICI che va determinata di anno in anno al primo giorno del periodo di imposta.
La Corte ha inoltre affrontato una serie di casi concreti, in questo modo orientando il contribuente in ordine all'individuazione del valore imponibile e delle caratteristiche dell'imposta di registro. In particolare vanno ricordate: Sez. T, n. 13298/2016, Meloni, Rv. 640343, che ha chiarito che il valore imponibile dei crediti ceduti è costituito esclusivamente, ai sensi dell'art. 46 del d.P.R. 26 ottobre 1973, n. 634, dal valore nominale del credito ceduto, criterio che non concorre con quello del corrispettivo pattuito per la cessione; Sez. 6-T, n. 11692/2016, Iofrida, Rv. 640041, secondo la quale in virtù dei criteri interpretativi di cui all'art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 è configurabile una transazione e non una ricognizione di debito quando risulti una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato nell'accordo, sicché il giudice di merito deve accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni, ovvero se esse si siano limitate ad apportare modifiche alle obbligazioni preesistenti senza elidere il collegamento con il precedente contratto; Sez. T, n. 18454/2016, Meloni, Rv. 640974, che ha chiarito che in caso di decreto ingiuntivo nei confronti del fideiussore, l'imposta di registro si applica, ai sensi dell'art. 22, comma 3, del d.P.R. n. 131 del 1986, nei limiti del valore del credito il cui pagamento sia stato ingiunto e non al valore complessivo del rapporto garantito; Sez. 6-T, n. 13485/2016, Federico, Rv. 640168, che in relazione alla disciplina introdotta con l'art. 6 della l. 7 marzo 1986 n. 60 quanto alla riunione dell'usufrutto alla nuda proprietà, ha evidenziato che la nuova normativa introdotta con l'art. 6 della l. n. 60 del 1986 ha natura di jus superveniens a carattere innovativo, sicché va applicata nel giudizio di cassazione, anche d'ufficio, quando sia entrata in vigore successivamente alla proposizione del ricorso ed il giudizio sia ancora pendente; Sez. T, n. 16490/2016, Stalla, Rv. 640778, che quanto a un contratto di licenza su brevetti ha affermato che poiché tale contratto trasferisce il godimento economico dello stesso per un determinato periodo di tempo, non può essere considerato un contratto relativo a prestazioni di lavoro autonomo, ma bensì un "atto diverso avente per oggetto prestazioni patrimoniali" da considerare ai sensi dell'art. 9 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986; Sez. T, n. 12759/2016, Schirò, Rv.640163, che ha analizzato in tema d'imposta di registro la posizione del notaio rogante, chiarendo che nella sua veste di mero responsabile d'imposta estraneo al rapporto tributario ed obbligato in solido con i contraenti quale fideiussore ex lege, al solo fine di facilitare l'adempimento in virtù di una relazione che non è paritetica, ma secondaria e dipendente, non è legittimato alla richiesta di rimborso, ove si assuma l'indebito pagamento, in quanto i contribuenti effettivi sono solo le parti sostanziali dell'atto; Sez. T, n. 10203/2016, Zoso, Rv. 639772, che sempre in tema di agevolazioni tributarie con particolare riferimento agli investimenti in aree svantaggiate ha chiarito che il beneficio dell'assoggettamento all'imposta di registro nella misura dell'1 per cento ed alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, previsto dall'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, vigente ratione temporis, per i trasferimenti d'immobili situati in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, comunque denominati, si applica a condizione che l'utilizzazione edificatoria avvenga, entro cinque anni dall'acquisto, ad opera dello stesso acquirente, sicché il beneficio non spetta ove le opere di urbanizzazione, previste dalla convenzione con il comune, siano già state completate dall'alienante, trattandosi di una disposizione di stretta interpretazione, in quanto ispirata alla ratio di diminuire per l'acquirente il primo costo di edificazione; Sez. T, n. 09583/2016, Zoso, Rv. 639987, in materia di cessione di azienda, secondo la quale ai sensi dell'art. 51, comma 4, del d.P.R. n. 131 del 1986, la cui corretta interpretazione va effettuata alla luce dei criteri fissati dal d.P.R. 31 luglio 1996 n. 460 e la cui violazione è censurabile in sede di legittimità, il contribuente, nel dichiarare il valore dell'avviamento, da intendersi come capacità di profitto di un'attività produttiva e, quindi, come idoneità alla copertura dei costi, ivi compresi quelli di natura fiscale, deve effettuare i calcoli sulla base dei redditi al lordo delle imposte; in materia di donazioni ed atti di liberalità Sez. T, n. 06100/2016, Bruschetta, Rv. 639238, ha affermato che la donazione tra coniugi è soggetta all'imposta di registro in misura fissa, in virtù del combinato disposto degli artt. 41, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986 e 11 della Parte I della Tariffa allegata, anche a prescindere dal rinvio di cui all'art. 55, comma 1, del d.lgs. 31 ottobre 1990 n. 346, atteso che l'imposta di registro e quella sulle donazioni si basano su presupposti impositivi autonomi e differenti, in quanto la prima colpisce esclusivamente il servizio di registrazione sull'atto e non anche, diversamente da quanto normalmente avviene, il trasferimento di ricchezza a titolo gratuito; nello stesso senso Sez. T, n. 06099/2016, Bruschetta, Rv. 639237, in materia di donazione tra parenti in linea retta; Sez. 6-T, n. 03687/2016, Crucitti, Rv. 638797, affronta invece il tema della disciplina dell'imposta di registro in relazione ai provvedimenti giudiziari ed afferma che ai fini del rimborso dell'importo pagato sugli atti che definiscono, anche parzialmente, il giudizio civile, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. n. 131 del 1986, non può essere equiparata alla sentenza di riforma passata in giudicato la transazione stragiudiziale di cui non sia parte l'Amministrazione dello Stato, essendo irrilevante che la stessa sia stata edotta della data dell'atto dinanzi al notaio ed invitata a parteciparvi, e la ragione deve essere individuata nello scopo d'impedire indebite sottrazioni all'obbligazione tributaria; in materia di imprenditoria agricola Sez. 6-T, n. 02880/2016, Crucitti, Rv. 638910, ha evidenziato che ai fini dell'applicazione dell'aliquota ridotta dell'8 per cento prevista dall'art. 1-bis della tariffa all. A) al d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634, l'acquirente che già possiede la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, deve formulare espressa richiesta nell'atto pubblico e produrre, davanti allo stesso notaio rogante, la documentazione attestante la qualità che vanta, mentre nel caso in cui l'acquirente non possegga, al momento, tale qualifica, dovrà enunciare, nell'atto di acquisto, l'intento di acquistarla e – quindi – nel triennio successivo dovrà produrre la prova, nel modo indicato dalla legge, dell'avvenuto acquisto; Sez. 6-T, n. 01567/2016, Caracciolo, Rv. 638631, sempre in relazione alla perdita di benefici fiscali concessi per l'acquisito di fabbricati in zona dotata di piani urbanistici particolareggiati ha chiarito che il termine, ai fini dell'imposta di registro, per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta dovuta a seguito dell'accertamento dell'assenza dei requisiti legittimanti, resta soggetto alla sospensione prevista dall'art. 11, comma 10, della l. 31 dicembre 2002 n. 289, ed alla proroga di due anni, ai sensi del citato art. 11, applicabile in quanto consente di coordinare la durata del termine per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per il mantenimento o la revoca dei benefici fiscali per il suddetto acquisto con le disposizioni in materia di condono, nello stesso senso anche Sez. 6-T, n. 00992/2016, Cosentino, Rv. 638349, in materia di imposta di registro sulle successioni, donazioni e INVIM. Infine, confermando un orientamento risalente quanto alla disciplina conseguente dall'art. 79 d.P.R. 131 del 1986, Sez. 6-T, n. 00746/2016, Cosentino, Rv. 638741, ha precisato che il regime transitorio, che consente al contribuente di usufruire delle disposizioni più favorevoli introdotte dal medesimo decreto presidenziale anche in relazione ad atti stipulati anteriormente alla data della sua entrata in vigore (1 luglio 1986), va interpretato, in ordine al diritto al rimborso delle imposte già pagate, nel senso che, ai fini della tempestività della relativa domanda, occorre che questa sia stata presentata non solo entro la suddetta data, ma anche nel rispetto del termine triennale di decadenza – decorrente dalla data del pagamento – stabilito dal previgente art. 75 del d.P.R. n. 634 del 26 ottobre 1972, la cui inosservanza comporta la definitività e l'irretrattabilità del rapporto, in relazione al quale è stato effettuato il versamento diretto, e quindi la preclusione all'esercizio del diritto al rimborso.
In tema d'imposta di registro Sez. 6-T, n. 00746/2016, Cosentino, Rv. 638741, confermando un orientamento assai risalente della Corte ha evidenziato che il regime transitorio dettato dall'art. 79 del d.P.R. 26 aprile 1981 n. 131, che consente al contribuente di usufruire delle disposizioni più favorevoli introdotte dal medesimo decreto presidenziale anche in relazione ad atti stipulati anteriormente alla data della sua entrata in vigore (1 luglio 1986), va interpretato, in ordine al diritto al rimborso delle imposte già pagate, nel senso che, ai fini della tempestività della relativa domanda, occorre che questa sia stata presentata nel rispetto del termine triennale di decadenza – decorrente dalla data del pagamento – stabilito dal previgente art. 75 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634, la cui inosservanza comporta la definitività e l'irretrattabilità del rapporto, in relazione al quale è stato effettuato il versamento diretto, e quindi la preclusione all'esercizio del diritto al rimborso.
Nella valutazione della concessione del beneficio fiscale "prima casa" la Corte ha affrontato in diverse pronunce l'insieme dei presupposti e requisiti legittimanti nelle sue diverse declinazioni. In via preliminare occorre richiamare la pronunzia delle Sez. U, n. 18574/2016, Di Iasi, Rv. 641073, con la quale si è chiarito, in tema di agevolazioni per l'acquisto della prima casa, come il termine dell'art. 76 comma 1-bis, del d.P.R. n. 131 del 1986 per la rettifica e liquidazione della maggiore imposta non può essere prorogato, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della l. 27 dicembre 2002 n. 289, per le violazioni concernenti la fruizione dell'IVA agevolata al 4 per cento, poiché tale articolo si riferisce esclusivamente all'imposta di registro, ipotecaria e catastale sulle successioni e donazioni, nonché sull'incremento del valore degli immobili, e poiché rappresenta ipotesi di deroga a disciplina in materia di termini di decadenza, di stretta interpretazione, ne consegue l'impossibilità di attribuire all'amministrazione finanziaria un termine di decadenza più ampio per l'accertamento di un tributo.
Nell'analisi dei requisiti legittimanti per accedere al beneficio "prima casa" Sez. T, n. 02278/2016, Meloni, Rv. 638911, ha chiarito che ai sensi dell'art. 1 della l. 24 marzo 1993 n. 75 il requisito della non possidenza di altro fabbricato idoneo ad abitazione deve essere riscontrato in senso soggettivo, in relazione alla non utilità dello stesso per dimensioni e caratteristiche alla scopo abitativo del contribuente e della sua famiglia. Sez. 6-T, n. 14673/2016, Napolitano, Rv. 640515, sullo stesso tema ha evidenziato come il requisito della mancanza di titolarità su tutto il territorio nazionale del diritto di proprietà, usufrutto, uso abitazione e nuda proprietà di un'altra casa acquistata con medesimo beneficio, atteso il senso della previsione di cui all'art. 1 del d.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986 da intendersi come mancanza di disponibilità effettiva di essa, non sussiste ove l'immobile di proprietà del contribuente sia stato assegnato al coniuge separato, in sede di separazione o divorzio, in quanto affidatario di prole minorenne.
Quanto al requisito della residenza nel comune nel quale è ubicato l'immobile Sez. T, n. 14510/2016, La Torre, Rv. 640513, afferma l'irrilevanza di un successivo trasferimento di residenza, ove previamente il contribuente abbia trasferito la residenza nei diciotto mesi dall'acquisto nel comune in cui si trova il bene che ha usufruito dell'agevolazione, poiché tale successivo cambio di residenza non è previsto tra le cause di revoca dell'agevolazione e non pregiudica in alcun modo le ragioni del fisco a meno che non si provi la sussistenza nel caso concreto di un abuso del diritto.
Il concetto di residenza è stato puntualizzato da Sez. T, n. 13335/2016, Zoso, Rv. 640345, nel senso che debba essere riferito alla famiglia nel suo insieme, sicché non rileva la diversa residenza di uno dei due coniugi in regime di comunione legale, essendo i coniugi tenuti non ad una medesima residenza anagrafica, ma alla coabitazione, purché effettivamente emerga la destinazione dell'immobile che ha usufruito del beneficio a residenza principale della famiglia.
Sempre quanto ai requisiti legittimanti Sez. T, n. 13416/2016, Stalla, Rv. 640273, ha precisato come il requisito dello svolgimento della propria attività lavorativa nel comune ove l'immobile è ubicato non deve essere inteso in senso rigido ed assoluto, non essendo richiesto dalla normativa di riferimento che l'attività lavorativa sia svolta in tale luogo in modo prevalente.
Molto ampia e varia l'interpretazione della Corte nella considerazione della forza maggiore quale elemento ostativo al trasferimento della residenza. In particolare Sez. 6-T, n. 00864/2016, Cosentino, Rv. 638367, afferma che la forza maggiore idonea ad impedire la decadenza dell'acquirente che non abbia trasferito la propria residenza nel comune ove è situato l'immobile nel termine di diciotto mesi dall'acquisto può anche riferirsi al mancato compimento di lavori o al mancato rilascio di titoli abilitativi, purché ricorra la non imputabilità al contribuente del comportamento ostativo e la necessità ed imprevedibilità dello stesso. Un'impostazione radicalmente diversa emerge dalla Sez. T, n. 02616/2016, Perrino, Rv. 639233, che afferma come il trasferimento della residenza nel termine previsto costituisca un onere conformativo del potere dell'acquirente, il cui esercizio deve avvenire a pena di decadenza nel termine indicato, sicché ai fini del relativo decorso nessuna rilevanza può essere attribuita ad eventi sopravvenuti, anche non imputabili al contribuente, come il caso del sopravvenuto fallimento della società costruttrice dell'immobile. Nella motivazione la Corte afferma la natura cogente del termine previsto nell'art. 1, nota II-bis della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 e – richiamato l'orientamento della Corte che ammette la configurabilità di esimenti dal rispetto di esso (che identifica con la forza maggiore o col factum principis) e la configurazione dell'impegno a trasferire la residenza come un obbligo del contribuente nei confronti del fisco, l'adempimento del quale può risentire di ostacoli, destinati ad acquisire effetto esimente se contrassegnati dalla non imputabilità alla parte obbligata e dall'inevitabilità e dall'imprevedibilità – contesta le precedenti impostazioni relative all'incidenza della forza maggiore sull'impegno a trasferire la residenza configurato come obbligo. Secondo tale pronunzia, la ricostruzione che accredita, invece, la rilevanza della forza maggiore sul corso del termine fissato per il trasferimento di residenza non è adeguata alla fattispecie, in quanto il conseguimento dell'agevolazione fiscale, o meglio la conservazione di essa, non scaturisce dall'adempimento di un obbligo del contribuente nei confronti del fisco, in quanto il fisco non è affatto titolare di una corrispondente e correlata situazione di diritto soggettivo.
È il contribuente ad essere titolare di una situazione giuridica attiva, che è il potere di produrre, mediante l'attività in questione (cioè il trasferimento di residenza), che assume la configurazione di onere, l'impedimento di un effetto giuridico svantaggioso, ossia il venir meno del presupposto dell'agevolazione. Al cospetto di tale potere, il fisco non può che subirne l'esercizio, né dovrà cooperare, come avviene allorquando si realizzano diritti, quando la controparte si trova in una situazione di dovere. Evidenzia ancora la Corte che quando l'ordinamento, come nel caso in esame, limita nel tempo la possibilità del soggetto di produrre un effetto giuridico a sé favorevole, o d'impedirne uno a sé sfavorevole, mediante l'esercizio di un potere, la mancata produzione dell'effetto scaturente dal mancato compimento dell'atto entro il termine fissato si presenta come estinzione del potere, ossia come decadenza. La decadenza ha dimensione oggettiva: il potere, avendo l'atto come forma di esercizio, non può che esercitarsi in un momento puntuale di tempo. Un'impostazione e un'interpretazione del tutto diversa da quelle in precedenza adottate dalla Corte, un distacco dall'orientamento consolidato che configura l'impegno al trasferimento della residenza come obbligo, per affermare al contrario la ricorrenza di un onere e dunque di un potere del contribuente da esercitare a pena di decadenza nel termine previsto, con la conseguenza che, superato il momento indicato dal legislatore per l'esercizio del potere, questo non può più prevalere sui contrapposti interessi, pubblici o privati per evitare che la possibilità di modificazione giuridica sia illimitata nel tempo al fine di garantire la certezza nel trattamento delle situazioni. Richiama quindi la Corte la previsione di cui all'art. 2694 c.c. ed afferma come in relazione alla disciplina introdotta in materia nessuna rilevanza possa essere attribuita sul decorso del termine agli impedimenti che siano sopravvenuti. Giustifica la Corte tale conclusione richiamando la finalità della disciplina agevolativa e la necessità che, in attuazione di scopi antielusivi, il beneficio fiscale debba essere ancorato ad un dato specifico, certificativo della situazione di fatto enunciata nell'atto di acquisto, mentre è da escludersi la finalità sanzionatoria quanto alla condotta dell'acquirente dell'immobile in relazione al venir meno del regime agevolativo, ricorrendo invece una sopravvenuta mancanza di causa del beneficio invocato. In definitiva non è configurabile alcuna esimente dal rispetto del termine perentorio di diciotto mesi fissato, a pena di decadenza, dal legislatore per il trasferimento della residenza, ai fini della conservazione dell'agevolazione fiscale fruita al momento della tassazione del contratto di compravendita della prima casa, con conseguente irrilevanza dell'impedimento di fatto rappresentato dal contribuente.
Contrasta in modo diretto l'interpretazione della sentenza n. 02616/2016 la Sez. T, n. 08351/2016, Stalla, Rv. 639764, secondo la quale in tema di benefici fiscali per l'acquisto della "prima casa", la causa di forza maggiore, idonea ad impedire la decadenza dell'acquirente che non abbia trasferito la propria residenza nel comune ove è situato l'immobile entro diciotto mesi dall'acquisto, pur potendo riferirsi alla inutilizzabilità dello stesso per sopravvenuti lavori di manutenzione straordinaria deliberati dal condominio successivamente alla data di acquisto, deve tuttavia essere caratterizzata dai requisiti della non imputabilità al contribuente, della necessità e della imprevedibilità, spettando al giudice valutare in concreto, a fronte della ricorrenza dell'obbligo del contribuente al trasferimento di residenza al fine dell'ottenimento del beneficio fiscale, l'eventuale sussistenza di cause esimenti della responsabilità per inadempimento quale la forza maggiore. Richiama la Corte il principio consolidato, secondo il quale in materia di agevolazioni per la prima casa il trasferimento della residenza nel comune di ubicazione dell'immobile costituisce un vero e proprio obbligo di facere del contribuente a fronte dell'ottenimento del beneficio fiscale da parte dell'ordinamento, sicché, come avviene appunto nell'ambito obbligatorio, anche nella materia in esame deve, fatta ovviamente salva la valutazione della fattispecie concreta, attribuirsi generale rilevanza alle cause esimenti della responsabilità per inadempimento, quali appunto la forza maggiore, da individuare, secondo la nozione comune, in un evento che si caratterizza per la sua imprevedibilità, inevitabilità e cogente in modo da sovrastare precludendone obiettivamente la realizzazione, la volontà dell'acquirente al trasferimento della residenza. Analizzando la diversa impostazione della Sez. T, n. 02616/2016, la Corte rileva che analoga conclusione varrebbe comunque pur a fronte della qualificazione del comportamento del contribuente come onere, e non come obbligo di prestazione. Posto che anche in tal caso la forza maggiore, pur non incidendo su un vero e proprio adempimento, si porrebbe comunque quale evento impeditivo – non imputabile – dell'attuazione della volontà dell'onerato; e, con ciò, dell'integrazione della situazione fattuale alla quale l'ordinamento ricollega l'agevolazione. Occorre dunque, al fine di una corretta considerazione dei presupposti di legge, dare ingresso alla valutazione in concreto della fattispecie (possibilità che, ad esempio, l'esecuzione dei lavori di manutenzione straordinaria dell'immobile acquistato come prima casa integrasse in effetti una causa di forza maggiore legittimante il permanere dei benefici fiscali). Conclude infine evidenziando come la ricorrenza di un caso di forza maggiore non può poi portare alla possibilità per il contribuente di acquisire comunque la residenza in altro immobile nel comune in cui si è acquistata la prima casa in applicazione di un'interpretazione razionale e sistematica delle agevolazioni in questione, il che induce a correlare la causa di forza maggiore all'impossibilità obiettiva di trasferire la residenza, non in qualsiasi altro immobile sito nel comune di destinazione, bensì proprio nel medesimo immobile acquistato con il beneficio; venendo quest'ultimo accordato sul presupposto che l'acquirente si impegni ad andare ad abitare, come prima casa, nell'immobile in questione e non in qualsivoglia altro purché sito nello stesso comune", allineandosi dunque a quanto già evidenziato dalla Sez. T, n. 00864/2016.
Prendendo atto del contrasto tra le diverse impostazioni citate ed affermando un principio diverso rispetto a quello appena citato in materia di trasferimento della residenza la Sez. T, n. 13148/2016, Di Iasi, Rv. 640159, afferma che in tema di benefici l'agevolazione può essere mantenuta in relazione ad eventi sopravvenuti, imprevedibili e non imputabili al contribuente, precisando tuttavia come non si possa ritenere causa di forza maggiore la mancata ultimazione dei lavori di ristrutturazione, considerato che elemento costitutivo della fattispecie è il trasferimento della residenza nel comune e non nella prima casa intesa come specifico immobile destinatario della agevolazione. Un'impostazione dunque radicalmente diversa da quella precedente. Nello stesso senso e in modo conforme si esprime Sez. T, n. 13346/2016, Bruschetta, Rv. 640342, escludendo la ricorrenza di forza maggiore nel caso in cui il conduttore non abbia rilasciato tempestivamente l'immobile, richiamando ancora una volta la possibilità di trasferimento della residenza nel comune ove è ubicato l'immobile, a prescindere dall'effettiva utilizzabilità della prima casa.
Sempre in tema di residenza Sez. T, n. 13343/2016, Bruschetta, Rv. 640169, afferma come in caso di alienazione prima del decorso dei cinque anni con acquisto di nuovo immobile entro l'anno successivo, si imponga il trasferimento proprio nell'immobile oggetto di nuovo acquisto e non nel comune come nel caso del primo acquisto, al fine di evitare operazioni meramente speculative.
La Corte ha in diverse pronunzie precisato ed evidenziato i criteri interpretativi e i riferimenti normativi necessari a definire le abitazioni che possono materialmente usufruire dell'agevolazione prima casa, secondo la disciplina anteriore alle recenti modifiche legislative di cui al d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, che ha ancorato il beneficio fiscale alla classificazione catastale e non alla qualificazione di abitazione non di lusso.
In particolare Sez. 6-T, n. 07457/2016, Conti, Rv. 639691, ha evidenziato che per stabilire se un'abitazione sia di lusso assume particolare rilevanza la destinazione che gli acquirenti attribuiscono al bene e dunque nel caso di acquisto pro indiviso non è possibile considerare l'ampiezza e la metratura del bene divisa per piani al fine di ottenere l'agevolazione prima casa, come se si trattasse di due diverse alienazioni considerato che ricorre una contitolarità del bene e che tale dato è formalmente insuperabile. Sez. T, n. 10191/2016, Napolitano, Rv. 639846, evidenzia quale parametro normativo per individuare il carattere di lusso di un'abitazione il d. m. Lavori Pubblici 2 agosto 1969 n. 1072, con conseguente irrilevanza del requisito dell'abitabilità dell'immobile, non richiamato dall'art. 6 del predetto decreto, ma bensì della concreta utilizzabilità degli ambienti. In tal senso è stato ritenuto superficie utile un seminterrato direttamente collegato all'appartamento principale, che non si caratterizzava come mera cantina. Nello stesso senso Sez. 6-T, n. 11556/2016, Iofrida, Rv. 640049, richiamando la marcata potenzialità abitativa della superficie a prescindere dalla conformità degli ambienti a regolamenti edilizi comunali, con irrilevanza del mero dato catastale, e chiarendo come l'onere della prova in senso contrario ricada in capo al contribuente. Ancora Sez. T, n. 18480/2016, Meloni, Rv. 640972, ha ritenuto che vani pur qualificati come soffitta e cantina, ma con accesso diretto dall'interno dell'abitazione e ad essa indissolubilmente legati debbano essere computati nella superficie utile complessiva. Sez. 6-T, n. 12853/2016, Cigna, Rv. 640076, ha inoltre chiarito come l'abitazione debba essere considerata non di lusso, al fine di usufruire della agevolazione, al momento dell'acquisto e non nella fase di costruzione.
Infine, un dato chiarificatore da richiamare è quello contenuto in Sez. T, n. 13145/2016, Bruschetta, Rv. 640155, che ha affermato che in tema di revoca dell'agevolazione prima casa, per verificare appunto le caratteristiche di lusso o meno dell'immobile destinatario dell'agevolazione, è legittimo l'accertamento mediante accesso all'abitazione di un privato effettuato ai sensi dell'art 53-bis del d.P.R. 131 del 1986, nella chiara intenzione del legislatore di estendere tale potere, già previsto dall'art. 52, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 anche nei confronti di non è imprenditore o soggetto IVA.
Sez. T, n. 18213/2016, Ariolli, Rv. 18213, ha precisato che in tema di agevolazione prima casa il contribuente può godere del credito di imposta, vantato in forza del primo acquisto, fino a concorrenza dell'intera somma, qualora rivenda ed acquisti più volte un bene immobile nel rispetto delle condizioni previste, con conseguente legittimità della compensazione del credito d'imposta del contribuente a seguito di un secondo acquisto con quanto dovuto all'erario in relazione ad un terzo acquisto, effettuato dopo la rivendita del secondo.
Diverse le pronunzie relative alle situazioni che concretamente possono determinare la decadenza dal beneficio conseguente all'aver usufruito dell'agevolazione prima casa.
Sez. T, n. 04351/2016, Tricomi, Rv. 639130, evidenzia come la realizzazione di un'opera abusiva in assenza di titolo autorizzativo o in contrasto con lo stesso sulla base di un titolo successivamente annullato, in epoca successiva alla stipula dell'atto di acquisto, non comporta decadenza, poiché la relativa disciplina, da ritenersi di stretta interpretazione, non trova applicazione nel caso in cui l'abuso edilizio, concreto nella specie una veranda, sia successivo alla data di registrazione dell'atto.
Un tema delicato è affrontato dalla Sez. T, n. 05156/2016, Cirillo, Rv. 639234, con la quale si è affermato che l'attribuzione al coniuge della casa coniugale, in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale, non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza, ma una semplice modalità di utilizzazione, correlata al giudizio di separazione o divorzio, svincolata dalla corresponsione di qualsiasi corrispettivo e quindi priva di intento speculativo.
Nello stesso senso Sez. T n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344, precisa che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare in adempimento di condizioni di separazione non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici perché diretto a sistemare globalmente i rapporti tra i coniugi nella prospettiva di una stabile definizione della crisi familiare, ed è quindi un atto relativo a tali procedimenti, che ricade nell'esenzione di cui all'art. 19 della l. 6 marzo 1987 n. 74, salva la contestazione da parte dell'Amministrazione della finalità elusiva, con onere a suo carico.
Un caso particolare è quello analizzato da Sez. T, n. 18211/2016, Ariolli, Rv. 641052, che chiarisce come il contribuente che nel quinquennio abbia rivenduto l'immobile non incorre in decadenza nel caso in cui abbia acquistato entro l'anno non solo un immobile da adibire ad abitazione principale, ma anche se realizzi, eseguendo almeno il rustico, comprensivo delle mura perimetrali e della copertura completa, su un terreno di sua proprietà, acquistato prima o dopo l'alienazione infraquinquennale, con richiamo al principio dell'accessione e all'assenza di distinzione nell'ambito della disciplina di riferimento ad acquisti a titolo originario e derivativo. L'art. 1, nota II-bis della parte prima della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 non distingue, difatti, tra acquisti a titolo originario e derivativo.
Sez. 6-T, n. 03446/2016, Conti, Rv. 638798, in coerenza con orientamento recente della Corte, ha confermato che in materia d'imposta di registro, alle ipotesi di decadenza dalle agevolazioni tributarie per fatti sopravvenuti non si applicano gli artt. 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634 e 19 del d.P.R. n. 131 del 1986, che obbligano i contraenti o i loro aventi causa a denunciare all'ufficio, entro venti giorni, il verificarsi di eventi che danno luogo ad ulteriore liquidazione d'imposta e non già a perdita di benefici, sicché non è sanzionabile l'omessa denuncia della mancata utilizzazione edificatoria, nel quinquennio, dell'area comperata, sita in un piano urbanistico particolareggiato.
Sez. T, n. 13545/2016, Caracciolo, Rv. 640535 ha confermato un recente orientamento, in materia di perdita dell'agevolazione prima casa a causa dell'omesso trasferimento della residenza nel comune in cui è sito l'immobile, ritenendo che il termine per la liquidazione della maggiore imposta sia soggetto alla sospensione prevista dall'art. 11, comma 1, della l. 27 dicembre 2002 n. 289, solo a condizione che sicché il termine ultimo per l'assolvimento dell'onere, incombente sul contribuente, di trasferire la propria residenza sia scaduto anteriormente al 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della legge 24 dicembre 2003 n. 350, non potendosi intendere prorogato un termine che non è ancora cominciato a decorrere.
Sempre in relazione alla perdita delle agevolazioni prima casa, Sez. T, n. 13342/2016, Bruschetta, Rv. 640153, ha, al contrario, stabilito che il termine per la rettifica dell'imposta di registro al fine della nuova liquidazione ed applicazione delle relative sanzioni è sempre soggetto alla sospensione prevista dall'art. 11, comma 1, della l. n. 289 del 2002, sicché è prorogato di due anni, restando privo di rilievo la circostanza che il termine per la presentazione dell'istanza di definizione in via breve scada in data anteriore a quello fissato per il trasferimento della residenza, atteso che, ai fini dell'astratta definibilità del rapporto d'imposta è essenziale unicamente l'intervenuta o omessa registrazione entro il 30 settembre 2003, mentre è ininfluente la non ancora maturata perdita del beneficio fiscale.
Sez. T, n. 13141/2016, Bruschetta, Rv. 640157, ha precisato come la revoca dei benefici prima casa, a causa della mancanza dei presupposti di legge, indicati mendacemente dal contribuente, determina l'applicazione di un'imposta di registro complementare dovuta per un fatto imputabile ad una delle parti contraenti, e resta, in forza dell'art. 57, comma 4, del d.P.R. n. 26 aprile 1986 n. 131, esclusivamente a carico di quest'ultimo, senza che in capo al venditore operi la solidarietà dell'obbligazione tributaria di cui al precedente art. 57, comma 1.
In relazione alla disciplina del trust, la Corte ha ripreso e sviluppato l'orientamento, espresso da Sez. T, n. 25478/2015, Terrusi, Rv. 638198, secondo cui la costituzione di un vincolo di destinazione dei beni a titolo gratuito, espressione di liberalità, è operazione non espressiva di capacità contributiva, attesa la transitorietà del trasferimento di ricchezza, con conseguente esclusione dell'assoggettamento alle imposte indirette per assenza del presupposto di imposta. Tale presupposto, infatti, si manifesta solo con l'attribuzione definitiva dei beni dal trustee al beneficiario.
In particolare, la Corte (Sez. T, n. 21614/2016, Bruschetta, Rv. 641558) si è occupata del caso relativo all'istituzione di un "trust" cd. "autodichiarato", con conferimento di immobili e partecipazioni sociali per una durata predeterminata o fino alla morte del disponente, i cui beneficiari siano i discendenti di quest'ultimo. Nel riconoscere che il tipo di trust autodichiarato costituisce una forma di donazione indiretta, nel senso che per suo mezzo il disponente provvederà a beneficiare i suoi discendenti non direttamente e bensì a mezzo del trustee in esecuzione di un diverso programma negoziale, la Corte ha ritenuto che tale operazione è soggetta all'imposta in misura fissa, in quanto la "segregazione", quale effetto naturale del vincolo di destinazione, non comporta alcun reale trasferimento o arricchimento, che si realizzeranno solo a favore dei beneficiari, successivamente tenuti al pagamento dell'imposta in misura proporzionale.
Infatti, come previsto dagli artt. 2 e 11 della Convenzione de L'Aja del 1 luglio 1985, recepita con legge 16 ottobre 1989 n. 364, la costituzione del trust, come in tutti i casi di vincoli di destinazione, produce soltanto efficacia "segregante" i beni eventualmente in esso conferiti e questo sia perché degli stessi il trustee non è proprietario bensì amministratore e sia perché i detti beni non possono che essere trasferiti ai beneficiari in esecuzione del programma negoziale stabilito per la donazione indiretta.
Per le donazioni indirette effettuate in data antecedente alla soppressione del d. lgs. n. 346 del 1990 (fino al 25 ottobre 2001) la disciplina applicabile è quello di cui all'art. 56bis, comma 1 e 2, del d.lgs. n. 346 del 1990, introdotto dalla legge 21.11.2000 n. 342, senza che produca interferenza alcuna la successiva novella di cui a d.l. 3.10.20016 n. 262, conv. con l. 24.11.2006 n. 286. La Corte, in particolare, ha ritenuto che nell'individuazione del regime d'imposta applicabile alle donazioni indirette deve tenersi conto del momento della 'esecuzione della donazione, senza che rilevi quello successivo dell'accertamento o della liquidazione del tributo (Sez. T, n. 13133/2016, Stalla, Rv. 640161).
In tema di esenzioni o di agevolazioni tributarie nella giurisprudenza della Corte si richiama la differenza di disciplina tra l'imposta sulle successioni e le imposte ipotecaria e catastale. Nella specie, si è escluso la comunicabilità alle imposte ipotecaria e catastale della prevista esenzione dei beni culturali dall'imposta sulle successioni, di cui agli artt. 12 e 13 del d.lgs. n. 346 del 1990, sul presupposto che diverso è il fondamento dei tributi in questione e le ragioni dell'esenzione: mentre, infatti, gli artt. 2 e 10 del d.lgs. n. 347 del 1990 individuano la base imponibile dell'imposta ipotecaria e catastale mediante rinvio alla disciplina dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni, il comma 2 dell'art. 2 assoggetta comunque a tassazione il trasferimento ("inter vivos" o "mortis causa") dei beni, rinviando, in caso di esenzione da una delle imposte parametro, al valore virtuale che i beni verrebbero ad assumere rispetto a quest'ultima, indipendentemente dall'esenzione o dalla sua determinazione in maniera fissa (Sez. T, n. 02098/2016, Botta, Rv. 638738).
Sempre in tema di agevolazioni, deve segnalarsi che la Corte ha riconosciuto l'applicabilità dell'aliquota del 4%, ai sensi dell'articolo 69 della legge 21.11.2000 n. 342, al caso in cui il chiamato all'eredità sia un minorenne, rilevando che il termine per la presentazione della dichiarazione di successione – che nel caso di specie, veniva a scadere successivamente al 31 dicembre 2000 – decorre dalla scadenza del termine ultimo per la redazione dell'inventario e, quindi, decorso un anno dal compimento della maggiore età, senza che abbia rilievo alcuno la circostanza che il minorenne, all'apertura della successione, si trovi o meno nel possesso dei beni ereditari (Sez. T, n. 24931/2016, Zoso, in corso di massimazione). Il principio affermato trova fondamento nella lettura coordinata dell'art. 31, comma 2, lett. d), del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (nel testo vigente ratione temporis) e degli artt. 484, 485 e 489 cod. civ.
Quanto all'oggetto dell'imposta di successione, la Corte ha ribadito l'orientamento secondo cui che per la determinazione globale del valore dell'asse ereditario, non si può far più luogo al coacervo tra "relictum" e "donatum", per effetto della eliminazione dell'aliquota progressiva alla cui applicazione tale cumulo era destinato, precisando che, anche prima della formale abrogazione dell'art. 7 del d. lgs. n. 346/1990 da parte dell'articolo 2, comma 50, della legge n. 286 del 2006, il disposto dell'articolo 8, comma 4, del medesimo d. lgs. n. 346 del 1990, doveva ritenersi tacitamente abrogato per incompatibilità applicativa con la indicata modificazione del regime impositivo di riferimento dettato dall'art. 7 (Sez. T, n. 24940/2016, Stalla, in corso di massimazione).
In tema di TARSU, come è noto, l'imposta è dovuta, ai sensi dell'art. 62, comma 1, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, per la disponibilità dell'area produttrice di rifiuti e, quindi, unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad eccezione di quelle pertinenziali o accessorie ad abitazione. Così l'utilizzo di una tariffa convenzionale stabilita dal regolamento comunale, quale base di calcolo della tassa dovuta dall'esercente il commercio ambulante nel mercato settimanale per l'uso discontinuo di un posto fisso, riferita al numero dei giorni in cui è consentita la presenza settimanale stessa, rispetta le prescrizioni dell'art. 77 del d.lgs. n. 507 del 1993, che non impone si debba tenere conto, per il criterio della omogenea potenzialità dei rifiuti e ai fini di calcolo, dei giorni di presenza effettiva, posto che il principio generale che governa la TARSU è costituito dal rapporto con la disponibilità dell'area produttiva di rifiuti per il periodo consentito dall'occupazione o dalla detenzione temporanea, anche in ragione dei costi fissi derivanti dalla relativa messa a disposizione (Sez. T, n. 02078/2016, Meloni, Rv. 639042).
I comuni hanno la facoltà eccezionale, non suscettibile di applicazioni estensive, di procedere direttamente alla liquidazione della tassa ed alla conseguente iscrizione a ruolo sulla base dei ruoli dell'anno precedente, purchè in forza di dati ed elementi già acquisiti e non soggetti a modificazione o variazione, sicchè, qualora sia mutato il possessore dell'immobile, è necessaria l'emissione di un nuovo avviso di accertamento non essendo a questi imputabile la dichiarazione fatta dal precedente possessore (Sez. T, n. 19120/2016, Ragonesi, Rv. 641102).
Con riferimento alla determinazione delle tariffe, per l'applicazione dell'imposta, effettuate dall'ente, la Sez. T, n. 18054/2016, Meloni, Rv. 640961, ha stabilito che le deroghe indicate nel comma secondo dell'art. 62 cit., e le riduzioni delle tariffe stabilite dal successivo art. 66 non operano in via automatica in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo il contribuente dedurre e provare i relativi presupposti (nella specie, la S.C. ha riconosciuto non dovuta la TARSU, ex art. 62, comma 2, cit., in relazione ad un'area di manovra e parcheggio per mezzi pesanti in quanto produttrice di rifiuti speciali non assimilati). L'imposta viene determinata differentemente a seconda che si tratti di civili abitazioni ed esercizi alberghieri, i quali sono assoggettati ad una tariffa notevolmente superiorie a quella applicabile alle prime. Secondo la Corte, la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza, senza che assuma rilievo il carattere stagionale dell'attività, il quale può eventualmente dare luogo all'applicazione di speciali riduzioni di imposta, rimesse alla discrezionalità dell'ente impositore; i rapporti tra le tariffe, indicati dall'art. 69, comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993, tra gli elementi di riscontro della legittimità della delibera, non vanno d'altronde riferiti alla differenza tra le tariffe applicate a ciascuna categoria classificata, ma alla relazione tra le tariffe ed i costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica (Sez. T, n. 16175/2016, Schirò, Rv. 640649).
Il contribuente è tenuto a provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare dell'esenzione prevista dall'art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993, per quelle aree detenute ed occupate aventi specifiche caratteristiche strutturali e di destinazione, atteso che il principio, secondo il quale è l'Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell'obbligazione tributaria, non può operare con riferimento al diritto ad ottenere una riduzione della superficie tassabile, costituendo l'esenzione, anche parziale, un'eccezione alla regola generale del pagamento del tributo da parte di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale (in applicazione di tale principio, Sez. 6-T, n. 17622/2016, Cirillo, Rv. 640781, ha cassato con rinvio la decisione di merito con cui era stato escluso l'assoggettamento al tributo in considerazion della mera destinazione dell'immobile ad autorimessa, in assenza del concreto accertamento dell'improduttività dei rifiuti). Per il principio sopra espresso, nel caso di esercizi alberghieri dotati di licenza annuale, essendo il presupposto del tributo costituito dalla occupazione o conduzione di locali a qualsiasi uso adibiti, ai fini della esenzione dalla tassa non è sufficiente la sola denuncia di chiusura invernale ma occorre allegare e provare la concreta inutilizzabilità della struttura (Sez. T, n. 22756/2016, Chindemi, Rv. 641545).
Pertanto, anche a seguito delle modifiche di cui alla legge 28 dicembre 2015, n. 221, in impianti d'incenerimento (c.d. "ecotassa"), tutto ciò che è conferito in discarisca si presume rifiuto sottoposto al tributo previsto dall'art. 3, commi 24 e 53 della l. n. 549 del 1995, sicchè grava sulla parte che invoca una diversa natura dei materiali conferiti (nella specie, la frazione organica stabilizzata – FOS – e i sovvalli) al fine di ottenere l'esenzione o l'imposizione agevolata – quest'ultima prevista, "per gli scarti ed i sovvalli di impianto di selezione automatica, riciclaggio e compostaggio, nonché per i fanghi anche palabili", nella misura pari al 20 per cento dell'ammontare fissato in via ordinaria – l'onere di provare la effettiva natura degli stessi (Sez. T, n. 13120/2016, Botta, Rv. 640150).
Se il Comune, attivata la raccolta differenziata, abbia deliberato, in forza dell'art. 21, comma 2, lett. g), del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, l'assimilazione degli imballaggi secondari ai rifiuti urbani, il contribuente, che abbia provveduto all'avviamento e al recupero degli stessi, dimostrando l'effettività e la correttezza delle relative operazioni attraverso valida documentazione comprovante il loro conferimento a soggetti autorizzati, ha diritto, ai sensi dell'art. 21, comma 7, del d.lgs. cit., all'esonero dalla privativa comunale, che si rapporta non già alla diminuzione della superficie tassabile, prevista dall'art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993 per la produzione di rifiuti speciali non assimilabili o non assimilati, ma ad una riduzione tariffaria in concreto, in base a criteri di proporzionalità rispetto alla quantità effettivamente avviata al recupero (Sez. T, n. 06359/2016, Chindemi, Rv. 639567).
Infatti, i rifiuti degli imballaggi terziari, nonché quelli da imballaggi secondari (nel regime applicabile ratione temporis fino all'abrogazione del d.lgs. n. 22 del 1997 per effetto dell'art. 264 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), non possono essere assimilati dai comuni ai rifiuti solidi urbani ove non sia attivata la raccolta differenziata, ma ad essi si applica la disciplina stabilita per i rifiuti speciali dall'art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993, il quale rapporta la tassa alle superfici dei locali occupati o detenuti, stabilendo l'esclusione della sola parte della superficie in cui, per struttura e destinazione, si formino esclusivamente rifiuti speciali (Sez. T, n. 04793/2016, Rv. 639127).
A decorrere dal 1° gennaio 2014, la TARI ha sostituito i preesistenti tributi dovuti ai comuni dai cittadini, enti ed imprese, quale pagamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (noti in precedenza con gli acronimi di TARSU e, successivamente di TIA e TARES), conservandone, peraltro, la medesima natura tributaria, quale entrata pubblica costituente "tassa di scopo", che mira a fronteggiare una spesa di carattere generale, con ripartizione dell'onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio, senza alcun rapporto sinallagmatico tra le prestazioni da cui scaturisce l'onere ed il beneficio che il singolo riceve.
La Corte, Sez. T, n. 10787/2016, Bruschetta, Rv. 639990, ha precisato che la tarrifa di igiene ambientale (TIA) rappresenta una mera variante della TARSU, sicchè è applicabile ai soli rifiuti urbani e grava sul contribuente l'onere di provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare della riduzione, desumibile dal regime delineato dall'art. 49 d.lgs. n. 22 del 1997, in caso di produzione di rifiuti assimilati e smaltiti in proprio.
In tema di ICI, gli interventi della Corte nel 2016 hanno riguardato vari aspetti dell'istituto, sia con riferimento alla determinazione della base imponibile, sia in relazione all'applicazione dell'imposta in fattispecie peculiari. L'ICI è un tributo locale che ha come presupposto impositivo la proprietà di fabbricati e terreni agricoli ed edificabili.
Relativamente al soggetto passivo, Sez. T, n. 25152/2016, Botta, Rv. 641941-01, in corso di massimazione, ha chiarito che le società di cartolarizzazione, essendo mere società veicolo, incaricate soltanto degli adempimenti necessari alla proficua vendita degli immobili, non sono soggette all'imposta, che continua a gravare sull'ente proprietario e gestore.
Il contribuente è obbligato a denunciare il possesso dei beni, ovvero dichiarare le variazioni degli immobili già dichiarati qualora incidenti sulla determinazione dell'imposta. Il comune può sostituire il sistema della "dichiarazione denuncia" con quello della comunicazione per ragioni di semplificazione.
Infatti, l'art. 59 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 attribuisce ai comuni il potere di determinare alcuni aspetti dell'imposta, tra cui la previsione del termine di decadenza per l'esercizio del potere di accertamento. A tale riguardo, la Corte ha ritenuto legittima e non in contrasto con lo Statuto del contribuente la delibera municipale recante la fissazione di un termine più lungo di quello fissato dall'art. 11 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, il quale non operi retroattivamente e sia giustificata dalla semplificazione collegata alla sostituzione del sistema della "dichiarazione denuncia" con quello della comunicazione (Sez. T, n. 14908/2016, Stalla, Rv. 640826).
Con riferimento all'obbligo di denuncia, l'art. 37, comma 53, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. nella l. 4 agosto 2006, n. 248, ha fatto salvo l'obbligo di denunciare le variazioni soggettive ed oggettive incidenti sulla determinazione dell'imposta degli immobili già dichiarati e comportanti riduzioni d'imposta, ex art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 504 del 1992, entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all'anno cui le variazioni si sono avverate. Secondo la Corte l'obbligo non cessa allo scadere di tale termine, ma permane sino al momento in cui la dichiarazione non sia presentata, determinando per ciascun anno d'imposta un'autonoma violazione, punibile ai sensi dell'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992 (Sez. T, n. 19877/2016, De Masi, Rv. 641254). Tali variazioni non sono conoscibili per via officiosa dal comune, sicchè, in questi casi, l'ente impositore è esonerato dall'onere di accertamento degli eventi che giovino al contribuente, al quale, in assenza della denuncia, non surrogabile da eventuali forme di pubblicità, non può essere riconosciuto alcun beneficio (Sez. 6- T, n. 17562/2016, Napolitano, Rv. 640990).
Non vi è dubbio che in caso di omessa denuncia da parte del contribuente, resta possibile per l'ente impositore acquisire conoscenza della sussistenza del presupposto impositivo riguardo all'individuazione del soggetto passivo d'imposta solo attraverso la pubblicità immobiliare (Sez. 6-T, n. 19145/2016, Napolitano, Rv. 641106).
L'omessa denuncia di un immobile, secondo la Corte, deve essere sanzionata per tutte le annualità per cui si protrae in quanto, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, a ciascuno degli anni solari corrisponde un'autonoma obbligazione che rimane inadempiuta non solo per il versamento dell'imposta ma anche per l'adempimento dichiarativo, fermo restando che, trattandosi di violazioni della stessa indole commesse in periodi d'imposta diversi, si applica la sanzione base aumentata dalla metà al triplo, secondo l'istituto della continuazione ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997 (Sez. T, n. 18230/2016, Solaini, Rv. 641050). Con riferimento alla motivazione dell'atto di accertamento, la Corte ha chiarito che lo stesso non può limitarsi a contenere indicazioni generiche sul valore dei beni, ancorchè il Comune possa legittimamente scegliere la stima diretta che trova concreta attuazione nel confronto tra prezzi unitari di beni analoghi o assimilabili desunti dagli atti di compravendita, essendo necessario che sia specificato a quale presupposto la modifica del valore dell'immobile deve essere associata, dovendo recare l'individuazione di tali fabbricati, del loro prezzo unitario, anche con riferimento a beni analoghi. (Sez. T, n. 25709/2016, Chindemi, Rv. 641948-01).
La Corte è intervenuta a disciplinare l'ambito applicativo delle esenzioni in tema di imposta comunale sugli immobili, stabilendo che ai fini del trattamento esonerativo rileva l'oggettiva classificazione catastale dell'immobile, per cui l'immobile iscritto come "rurale", con attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10) non è soggetto all'imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1-bis, del d.l. 30 dicembre 2008, n. 207, convertito in legge 27 febbraio 2009, n. 14, e dall'art. 2, comma 1, lett.a) del d.lgs. n. 504 del 1992, mentre, qualora, lo stesso sia iscritto in una diversa categoria catastale, è onere del contribuente, che pretenda l'esenzione, impugnare l'atto di classamento, fermo restando, invece, che se il fabbricato non risulti iscritto in catasto e il contribuente agisca per ottenere il rimborso dell'imposta, l'accertamento della ruralità può essere immediatamente compiuto dal giudice, ma incombe al contribuente dimostrare la sussistenza dei requisiti ex art. 9 del d.l. n. 557 del 1993 (Sez. T, n. 07930/2016, Zoso, Rv. 639626).
Il trattamento agevolato di cui all'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, per i terreni agricoli posseduti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli a titolo principale, spetta solo a quanti traggono dal lavoro agricolo la loro prevalente fonte di reddito e non va, quindi, riconosciuto al contribuente che, pur lavorando il fondo come coltivatore diretto, sia proprietario di numerosi immobili condotti in locazione, il cui reddito complessivo sia superiore a quello derivante dal fondo (Sez. T, n. 13391/2016, Meloni, Rv. 640152). In sostanza, il trattamento agevolato, previsto dall'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992 per i terreni agricoli posseduti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli a titolo principale, spetta esclusivamente a coloro che nell'anno di imposta siano effettivamente iscritti negli elenchi dei coltivatori diretti ( Sez. T, n. 16485/2016, Bruschetta, Rv. 640776). La ricorrenza dei requisiti della qualifica è desumibile dall'iscrizione negli appositi elenchi presso l'I.N.P.S. e dalla conduzione diretta dei terreni, che, invece, deve essere provata in via autonoma dal contribuente (Sez. T, n. 19130/2016, Zoso, Rv. 641103).
Molte le decisioni riguardanti l'esenzione di cui all'art. 7, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 504 del 1992, con riferimento alla quale si è tenuto a precisare che trattasi di una norma agevolatrice, di stretta interpretazione, sicchè non può essere applicata ad una società di capitali, ancorchè costituita tra enti pubblici per lo smaltimento di rifiuti, non ricadendo tale soggetto nell'elencazione tassativa ivi prevista (Sez. T, n. 08869/2016, Chindemi, Rv. 639651).
L'esenzione dall'imposta, prevista dall' art. 7, comma 1, lett. i) cit. spetta anche ove il bene non sia stato utilizzato, purchè ciò sia avvenuto per una causa che non abbia comportato la cessazione della sua strumentalità rispetto all'esercizio delle attività protette, non potendo rilevare come elemento ostativo ai fini del riconoscimento del beneficio un concetto quantitativo di utilizzo del tutto estraneo alla previsione normativa (Sez. T, n. 20515/2016, Botta, Rv. 641286).
Le esenzioni previste dall'art. 7, comma 1, lett.a) ed i) del d.gls. n. 504 del 1992 non si applicano agli immobili di proprietà del Fondo edifici di culto, locati a terzi, in quanto, ai fini in esame, non ha alcuna rilevanza la natura giuridica dell'ente e la sua qualità di soggetto passivo di imposizione astrattamente possibile destinatario dell'una o dell'altra esenzione ma il fatto che, in concreto, l'utilizzo degli immobili de quibus non risponda alle condizioni previste dalla legge per l'operatività delle esenzioni medesime, risultando, di conseguenza, irrilevante anche che, i proventi della locazione siano poi destinati alle attività istituzionali dell'ente (Sez. 6-T, n. 13542/2016, Caracciolo, Rv. 640346). Lo svolgimento esclusivo nell'immobile (nella specie, di proprietà di ente ecclesiastico) di attività di assistenza o di altre attività equiparate, senza le modalità di una attività commerciale, costituisce il requisito oggettivo necessario ai fini dell'esenzione dall'imposta, che va accertato in concreto, con criteri di rigorosità, seguendo le indicazioni della circolare ministeriale n. 2/DF del 2009 e, dunque, verificando determinate caratteristiche della "clientela" ospitata, della durata dell'apertura della struttura e soprattutto, dell'importo delle rette, che deve essere significativamente ridotto rispetto ai "prezzi di mercato", onde evitare un'alterazione del regime di libera concorrenza e la trasformazione del beneficio in aiuto di Stato (Sez. T, n. 13970/2016, Botta, Rv. 640244).
L'esenzione di cui all'art. 7, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 504 del 1992 spetta soltanto se l'immobile viene impiegato direttamente dall'ente possessore per lo svolgimento di compiti istituzionali, sicchè l'utilizzatore, in virtù di concessione o locazione, da parte di un soggetto diverso da quello a cui spetta l'esenzione preclude l'agevolazione, restandone esclusa, in radice, la destinazione allo svolgimento dei compiti istituzionali (Sez. T, n. 10483/2016, Zoso, Rv. 639985), rilevando in tale ipotesi l'utilizzo a fini di lucro da parte del proprietario, a prescindere dall'attività posta in essere al suo interno dal conduttore e dalle modalità di reimpiego dei canoni riscossi (Sez. T, n. 08870/2016, Chindemi, Rv. 639648).L'indirizzo interpretativo è applicabile anche in caso di comodato, in quanto il regime agevolativo spetta soltanto se l'immobile viene impiegato direttamente dall'ente possessore per lo svolgimento di compiti istituzionali, sicchè l'utilizzazione, in virtù di un contratto di comodato, da parte di un soggetto diverso (nella specie, un'associazione sportiva) da quello a cui spetta l'esenzione, anche se senza scopo di lucro e con destinazione di pubblico interesse, esclude l'agevolazione, essendo necessario che il bene, oltre ad essere utilizzato, sia anche posseduto dall'ente commerciale che ne fruisce, in ragione di un diritto di proprietà o di altro diritto reale (Sez. T, n. 14912/2016, Solaini, Rv. 640827).
Per gli immobili di interesse storico ed artistico appartenenti ad enti pubblici è previsto un sistema di tutela reale, ai fini delle esenzioni, in quanto vige la presunzione di interesse storico artistico di tali beni, ex art. 12, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, senza necessità di un preesistente formale provvedimento amministrativo, atteso che pur richiedendo l'effettiva sussistenza dell'interesse culturale del bene una verifica a cura del Ministero competente, il provvedimento positivo così adottato ha carattere ricognitivo, in funzione dell'assolvimento di esigenze di certezza dei rapporti giuridici, in ispecie di quelli tributari (Sez. T, n. 19878/2016, De Masi, Rv. 641259).
In caso di errato classamento, gli immobili erroneamente classificati in una categoria non conforme alla destinazione d'uso, non possono essere esentati da imponibilità ove l'errore sia stato determinato da un omissione del contribuente, che non abbia provveduto a denunciare l'effettivo utilizzo del cespite, non essendo onere dell'ente impositore richiedere all'ufficio competente le modifiche della rendita preesistente nell'ipotesi di negligenza del soggetto per legge onerato (Sez. T, n. 01704/2016, Botta, Rv. 638765).
In tema di esenzione dal pagamento dell'imposta l'indirizzo prevalente esclude l'autonoma tassabilità delle aree pertinenziali ad un fabbricato, ove ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi di cui all'art. 817 c.c., restando irrilevante il regime di edificabilità attribuito dallo strumento urbanistico all'area pertinenziale nella ricorrenza di un effettivo asservimento della stessa all'immobile principale (Sez. 6-T, n. 01390/2016, Conti, Rv. 638623). L'esenzione si basa su un criterio oggettivo e fattuale, ossia sulla destinazione effettiva e concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra, e quello soggettivo, consistente nella volontà di dar vita ad un vincolo di accessorietà durevole, senza che rilevi l'intervenuta graffatura catastale, che ha esclusivo rilievo formale, sicchè, anche in tale ipotesi, permane a carico del contribuente l'onere di provare la ricorrenza in concreto dei predetti presupposti (Sez. T, n. 18470/2016, Sabato, Rv. 640976).
Molto interessante la pronuncia della Sez. 6-T, n. 19041/2016, Crucitti, Rv. 641107, in tema di applicabilità dell'imposta con riferimento ad immobili sottoposti a procedura espropriativa. La Corte ha affermato che l'occupazione temporanea d'urgenza di un terreno da parte della P.A. non priva il proprietario del possesso del bene fino a quando non intervenga il decreto di esproprio (o comunque ablazione) del fondo, sicchè egli resta soggetto passivo dell'imposta, ancorchè l'immobile sia detenuto dall'occupante.
La Corte è intervenuta per definire l'ambito di applicabilità della disciplina con riferimento a costruzioni realizzate su aree demaniali. Se il concessionario di un bene demaniale ottenga anche il riconoscimento della facoltà di edificare e mantenere sul bene una costruzione più o meno stabile, consistente in opere edilizie o assimilate, si configura una vera e propria proprietà superficiaria, sia pure avente carattere temporaneo e soggetta a peculiare regolamentazione quanto alla sua costituzione ed alla sua estinzione, con la conseguenza che è tenuto al pagamento dell'imposta (Sez. 6-T, n. 00263/2016, Cicala, Rv. 638821). In particolare, nel caso di assegnazione di un'area demaniale per la costruzione di un opificio industriale, per stabilire se il provvedimento amministrativo, qualificabile come concessione ad aedificandum, sia costitutivo di un diritto reale di superficie, con conseguente imponibilità, ovvero di un diritto meramente personale, assume rilievo decisivo la destinazione dell'opera costruita dal concessionario al momento della cessazione del rapporto, atteso che, se essa torna nella disponibilità del concedente, si è in presenza di un rapporto obbligatorio, mentre, se essa passa in proprietà del concessionario, ha sicuramente la natura reale del diritto di superficie, con conseguente applicabilità dell'imposta (Sez. T, n. 12798/2016, Chindemi, Rv. 640162).
La pronuncia Sez. 6-T, n. 12377/2016, Caracciolo, Rv. 640026, ha affrontato la questione del rapporto tra l'ICI e l'adozione di strumenti urbanistici, stabilendo che, a seguito dell'entrata in vigore degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del d.l. n. 203 del 2005, convertito nella l. n. 248 del 2005, e 36, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella l. n. 248 del 2006, che hanno fornito l'interpretazione autentica dell'art. 2, comma 1, lett.b), del d.lgs. n. 504 del 1992, l'edificabilità di un'area, ai fini della determinazione della base imponibile da affettuare in base al valore venale e non a quello catastale, deve essere desunta dalla qualificazione attribuitale nel piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione dello stesso da parte della Regione e dall'adozione di strumenti urbanistici attuativi, salva, però, la necessità di valutare la maggiore o minore attualità delle potenzialità edificatorie dell'immobile, nonché la possibile incidenza degli ulteriori oneri di urbanizzazione attuativi in ragione delle concrete condizioni esistenti al momento dell'imposizione.
Merita menzione la pronuncia Sez. T, n. 03618/2016, Chindemi, Rv. 639035, secondo cui sono sottoposte all'imposta e classificabili nella cat. D/7, attesa la loro riconducibilità al concetto d'immobile ai fini civili e fiscali, suscettibilità di accatastamento e idoneità a produrre reddito proprio, le piattaforme petrolifere, la cui base imponibile, in mancanza di rendita catastale, è costituita, secondo i criteri stabiliti nell'art. 7, comma 3, penultimo periodo, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in l. 8 agosto 1992, n. 359, dall'ammontare, al lordo delle quote di ammortamento, che risulta dalle scritture contabili.
Il beneficio del credito d'imposta ex art. 8, comma 2, della l. 23 dicembre 2000, n. 388 è riconosciuto per l'intero costo dell'investimento solo se, in applicazione del criterio del rapporto d'inerenza previsto dagli art. 75 (ora 109) e 121-bis (ora 164) del d.P.R. n. 917 del 1986, il contribuente provi l'esclusiva strumentalità del bene acquistato (nella specie, un autoveicolo) all'esercizio dell'impresa, a prescindere dall'esistenza di mere indicazioni formali di qualità (nella specie, risultanti dal libretto di circolazione a fronte del suo uso per trasporto promiscuo di cose e persone): Sez. T, n. 01691/2016, Virgilio, Rv. 638736. Il principio è stato ribadito da Sez. T, n. 20143/2016, De Masi, Rv. 641248, per cui, in tema di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate, il beneficio del credito d'imposta ex art. 8, comma 2, della l. n. 388 del 2000 è riconosciuto solo se il contribuente dimostra l'esclusiva strumentalità del bene acquistato all'esercizio dell'impresa.
La fruizione del credito di imposta, secondo il regime originario di ammissione previsto dall'art. 8 della l. n. 388 del 2000, richiede che l'acquisto della proprietà dei nuovi beni sia anteriore all'8 luglio 2002, senza che possa, quindi, rilevare – come chiarito da Sez. T, n. 20144/2016, De Masi, Rv. 641185 – né la stipula di un contratto preliminare né il versamento di una caparra, aventi effetti meramente obbligatori tra le parti.
Il beneficio del credito d'imposta in esame è stato, in particolare, riconosciuto da Sez. T, n. 18072/2016, Schirò, Rv. 640964, per l'acquisto di targhe ed insegne, da considerare beni strumentali, inerenti e fiscalmente ammortizzabili, atteso che le spese di pubblicità perseguono lo scopo d'incrementare la produttività aziendale e possono determinare utilità che si propagano nei successivi esercizi.
Il credito d'imposta previsto dall'art. 8 della l. n. 388 del 2000 spetta anche per gli investimenti consistenti in spese incrementative di beni non di proprietà dell'impresa – che li utilizza in virtù di un contratto di locazione o di comodato – purché le opere abbiano una loro individualità ed autonoma funzionalità, al termine del periodo di locazione o di comodato possano essere rimosse dall'utilizzatore ed avere un impiego a prescindere dal bene a cui accedono e siano iscritte in bilancio tra le "immobilizzazioni materiali"; viceversa, qualora si tratti di opere non separabili dal bene altrui (come, nell'ipotesi dell'ampliamento di un fabbricato insistente su area di proprietà di terzi), devono essere iscritte tra le "immobilizzazioni immateriali" e – secondo Sez. T, n. 15572/2016, Locatelli, Rv. 640636 – non possono beneficiare dell'agevolazione, trattandosi di costi e non di beni.
Il beneficio del credito d'imposta ex art. 8, comma 2, della l. n. 388 del 2000 sorge solo con l'inizio dei lavori di costruzione del fabbricato strumentale all'esercizio dell'impresa, non essendo, invece, sufficiente – secondo Sez. T, n. 20142/2016, De Masi, Rv. 641247 – il mero acquisto dell'area edificabile destinata ad ospitarlo, in quanto, dovendo i beni oggetto dell'agevolazione entrare in funzione entro il secondo periodo d'imposta successivo a quello della loro acquisizione o ultimazione, il costo dell'area ove deve essere realizzato il fabbricato strumentale è legato alla sorte di quest'ultimo.
Ai sensi dell'art. 8, comma 7, della l. n. 388 del 2000, il contribuente che non ponga in funzione i beni entro il secondo periodo di imposta successivo a quello della loro acquisizione, o ultimazione, o dismetta i beni acquisiti entro il quinto periodo d'imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni stessi è tenuto a rideterminare il credito di imposta ed a versare l'imposta indebitamente portata in compensazione entro il termine per il versamento a saldo dell'imposta sui redditi dovuta per il periodo in cui si verificano tali ipotesi, dal quale decorre il termine per l'esercizio del potere di accertamento dell'Ufficio relativamente all'inadempimento dell'obbligazione tributaria di versamento dell'imposta indebitamente portata in compensazione (così Sez. T, n. 15192/2016, Zoso, Rv. 640642).
La norma antielusiva di cui all'art. 8, comma 7, della legge n. 388 del 2000, secondo la quale il recupero del credito è possibile se, entro il quinto periodo di imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione, i beni sono dismessi, ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all'esercizio dell'impresa ovvero destinati a strutture produttive diverse da quelle che hanno diritto all'agevolazione, non si applica – secondo Sez. T, n. 15193/2016, Zoso, Rv. 640993, – in caso di trasferimento del bene in un luogo diverso da quello originariamente indicato dal contribuente, ma pur sempre nell'ambito della stessa struttura produttiva (intesa in senso economico funzionale), attesa la finalità perseguita di evitare l'immissione temporanea dei beni nell'impresa al solo fine di fruire dell'agevolazione, per cui la dislocazione dei beni nei cantieri edili, ove viene esercitata l'attività di impresa, non determina il venir meno del beneficio, salvo il caso in cui il cantiere assurga ad autonoma struttura produttiva dotata di autonomia gestionale.
La predetta norma trova, invece, applicazione – secondo Sez. T, n. 13422/2016, Stalla, Rv. 640143, – nell'ipotesi di noleggio, da equiparare alla cessione a terzi, atteso che pure in tale evenienza viene meno la ratio del beneficio, che comporta la necessità che i beni vengano utilizzati dall'acquirente, ammesso al regime di favore, all'interno della sua struttura produttiva, operante in area svantaggiata.
L'azione di recupero del credito di imposta, concesso ai sensi dell'art. 8 della l. n. 388 del 2000, è sottoposta ad un termine di decadenza, che non può essere diverso, quanto a durata, da quello previsto per il potere di accertamento dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre il dies a quo va individuato nel momento dell'effettivo utilizzo del credito: Sez. T, n. 15186/2016, Botta, Rv. 640824.
Sul piano procedurale, particolarmente interessante è Sez. T, n. 18450/2016, Luciotti, Rv. 641058, per la quale l'omissione della prescritta comunicazione dell'avvio del procedimento volto ad addivenire alla revoca del credito d'imposta di cui alla l. 27 dicembre 1997, n. 449 per incrementi occupazionali determina l'invalidità del provvedimento adottato, per violazione del principio generale di cui all'art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, qualora, senza quella irregolarità e sulla base delle allegazioni del contribuente, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la legittimità dell'avviso di recupero, nonostante l'omessa attivazione del contradditorio preventivo, in ragione dell'ineludibile emissione dell'atto di revoca, anche a seguito di preventiva informativa).
Secondo Sez. T, n. 16449/2016, Cirillo, Rv. 640774, l'esenzione d'imposta prevista dall'art. 111 (ora 148) del d.P.R. n. 917 del 1986 in favore delle associazioni non lucrative dipende non dall'elemento formale della veste giuridica assunta (nella specie, associazione sportiva dilettantistica), ma dall'effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sulla contribuente e non può ritenersi soddisfatto dal dato del tutto estrinseco e neutrale dell'affiliazione alle federazioni sportive ed al Coni.
Il beneficio dell'assoggettamento all'imposta di registro nella misura dell'1 per cento ed alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, previsto dall'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, vigente ratione temporis, per i trasferimenti d'immobili situati in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, comunque denominati, si applica a condizione che l'utilizzazione edificatoria avvenga, entro cinque anni dall'acquisto, ad opera dello stesso acquirente.
Ne consegue che, come ritenuto da Sez. T, n. 10203/2016, Zoso, Rv. 639772, il beneficio non spetta ove le opere di urbanizzazione, previste dalla convenzione con il Comune, siano già state completate dall'alienante, trattandosi di una disposizione di stretta interpretazione, in quanto ispirata alla ratio di diminuire per l'acquirente il primo costo di edificazione.
Il beneficio in esame è volto sia ad agevolare lo sviluppo equilibrato del territorio sia a favorire direttamente, per i favorevoli riflessi economici anche collettivi, l'attività edificatoria di aree e lotti inutilizzati.
Ne consegue che, ai fini dell'agevolazione tributaria prevista dall'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, il concetto di "utilizzazione edificatoria" consiste – ha chiarito Sez. T, n. 13423/2016, Stalla, Rv. 640164 – nella trasformazione dell'immobile per effetto della realizzazione di una nuova costruzione, ed include anche l'ipotesi in cui sul terreno acquistato, e successivamente edificato, insista un manufatto ancora privo dei requisiti civilistici minimi per essere considerato edificio esistente, sebbene al grezzo o rustico (nella specie, privo di solaio, soffitta, copertura, muri perimetrali).
I presupposti dell'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000 (vigente ratione temporis), quale beneficio accordato in dipendenza dell'adozione di un facere del contribuente, costituito dall'edificazione nel quinquennio, devono essere tutti univocamente indicati nell'atto di trasferimento, al fine sia di predeterminare con certezza il regime fiscale dell'atto, con l'individuazione degli elementi costitutivi del rapporto tributario, sia, al contempo, di porre l'amministrazione in condizione di verificare l'effettiva sussistenza: Sez. T, n. 14891/2016, Stalla, Rv. 640664.
Infine, secondo Sez. T, n. 14892/2016, Stalla, Rv. 640639, il beneficio di cui all'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, si applica anche qualora l'edificazione, che costituisce un obbligo di facere del contribuente, non sia realizzata nei termini di legge purché tale esito derivi non da un comportamento direttamente o indirettamente ascrivibile all'acquirente, tempestivamente attivatosi, ma per una causa esterna, imprevedibile ed inevitabile, tale da configurare la forza maggiore (nella specie, la sospensione, da parte dell'autorità amministrativa, della pratica per la concessione edilizia, in attesa della definizione di un contenzioso con altri soggetti).
Sez. 6-T, n. 27080/2016, Solaini, Rv. 642374, ha ritenuto che, nel caso in cui la perdita del beneficio fiscale non deve essere comunicata, ex art. 19 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, con atto registrato, il termine di decadenza per l'ufficio dal potere impositivo di recupero delle agevolazioni fiscali, illegittimamente ottenute, per inadempimento dell'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, non è quello quinquennale di cui al primo comma dell'art. 76 del d.P.R. n. 131 cit, proprio degli atti soggetti a registrazione ma non registrati, ma quello triennale di cui al comma 2 del medesimo art. 76, concernente il mancato avveramento della condizione di edificazione per conservare i benefici, che comunque, era stata dichiarata in un atto registrato.
Le fondazioni bancarie, quali enti di gestione della quota maggioritaria del capitale delle aziende di credito conferite in apposite società per azioni ai sensi del d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356, non possono essere assimilate agli enti ed istituti aventi finalità generali di assistenza, beneficenza, istruzione e cultura, ai quali l'art. 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 riconosce il beneficio della riduzione a metà dell'aliquota sull'IRPEG.
L'esistenza, in capo a tali fondazioni, di una presunzione di esercizio di impresa bancaria comporta, infatti – ha ritenuto Sez. T, n. 07882/2016, Locatelli, Rv. 639701, – che esse, ove intendano beneficiare dell'agevolazione fiscale prevista dall'art. 6 cit., devono fornire la prova, in applicazione della regola generale prevista dall'art. 2697 c.c., di aver svolto, in via esclusiva o prevalente, un'attività di promozione sociale e culturale senza fini di lucro, in luogo di quella, prevista dal legislatore, di controllo e governo delle partecipazioni bancarie.
Il contribuente che intenda fruire dei benefici per la piccola proprietà contadina e che all'atto della registrazione si sia limitato a produrre l'attestazione di cui all'art. 4, comma 1, della l. 6 agosto 1954, n. 604, in luogo del certificato previsto dall'art. 3, è tenuto – secondo Sez. 6-T, n. 15489/2016, Conti, Rv. 640624 – ai sensi dell'art. 4, comma 2, a presentare il certificato dell'ispettorato agrario attestante il possesso dei requisiti prescritti entro il termine, stabilito a pena di decadenza, di tre anni dalla registrazione dell'atto. Sez. 6-T, n. 01565/2016, Caracciolo, Rv. 638625, ha ritenuto che non incorre in alcuna decadenza, ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, il coltivatore diretto che prosegua la coltivazione del fondo in veste di socio di nuova società di persone esercente attività agricola, restando indifferente che la coltivazione avvenga nella diretta detenzione di persona fisica o mediata dal socio, qualunque sia la compagine sociale, sicché non si applicano i limiti previsti dall'art. 11 del d.lgs. n. 228 del 2001.
L'esenzione dei beni culturali dall'imposta sulle successioni, prevista dagli artt. 12 e 13 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, non si comunica, secondo Sez. T, n. 02098/2016, Botta, Rv. 638738, anche alle imposte ipotecaria e catastale, essendo diversi il fondamento dei tributi in questione e le ragioni dell'esenzione, atteso che mentre gli artt. 2 e 10 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 individuano la base imponibile dell'imposta ipotecaria e catastale mediante rinvio alla disciplina dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni, il comma 2 dell'art. 2 assoggetta comunque a tassazione il trasferimento (inter vivos o mortis causa) dei beni, rinviando, in caso di esenzione da una delle imposte parametro, al valore virtuale che i beni verrebbero ad assumere rispetto a quest'ultima, indipendentemente dall'esenzione o dalla sua determinazione in maniera fissa.
In tema di benefici fiscali, l'agevolazione di cui all'art. 19 della l. 6 marzo 1987, n. 74, nel testo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità (Corte cost., 10 maggio 1999, n. 154), spetta – secondo Sez. T, n. 02111/2016, Napolitano, Rv. 639235 – per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi in esito alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, atteso il carattere di "negoziazione globale" attribuito alla liquidazione del rapporto coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, i quali, nell'ambito della nuova cornice normativa (da ultimo culminata nella disciplina di cui agli artt. 6 e 12 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. nella l. 10 novembre 2014, n. 162), rinvengono il loro fondamento nella centralità del consenso dei coniugi. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la spettanza del beneficio rispetto al trasferimento, concordato tra i coniugi, di una porzione di immobile, che, in costanza di matrimonio, era stato dai medesimi acquistato pro quota in regime di separazione dei beni).
Tale conclusione è stata affermata anche da Sez. T, n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344, per la quale l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare, in adempimento di una condizione della separazione consensuale, non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici "prima casa", atteso che, pur non essendo essenziale per addivenire alla separazione o al divorzio, è diretto a sistemare globalmente i rapporti fra coniugi, nella prospettiva di una definizione tendenzialmente stabile della crisi, ed è, quindi, un atto relativo a tali procedimenti, che può fruire dell'esenzione di cui all'art. 19 della l. n. 74 del 1987, facendo, tuttavia, salva la contestazione da parte della Amministrazione, onerata della relativa prova, della finalità elusiva.
Sez. T, n. 01687/2016, Virgilio, Rv. 638735, ha ritenuto che l'agevolazione della riduzione alla metà dell'IRPEG sancita, per gli "enti ospedalieri", dall'art. 6, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 601 del 1973, espressamente inserita tra quelle di carattere soggettivo, è inapplicabile, pure in via di interpretazione estensiva, alle aziende sanitarie locali costituitesi per effetto del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, non potendo esse, alla stregua del quadro normativo succedutosi nel tempo, equipararsi ai primi, perché assegnatarie, oltre che dell'assistenza ospedaliera, di attività e funzioni nuove e diverse da quelle già di questi ultimi, i quali, peraltro, hanno mantenuto una loro autonomia, o perché costituiti in "aziende ospedaliere" oppure quali "presidi ospedalieri" nell'ambito delle predette a.s.l.
L'art. 9, comma 17, della l. 27 dicembre 2002, n. 289 non è applicabile in materia d'IVA atteso che, nel prevedere a beneficio delle persone colpite dal terremoto che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa una riduzione del 90 per cento di tale imposta, normalmente dovuta per gli anni 1990, 1991 e 1992, con riconoscimento del diritto al rimborso, in tale proporzione, delle somme già corrisposte, non soddisfa il principio di neutralità fiscale e non consente di garantire la riscossione integrale dell'IVA dovuta nel territorio italiano, sicché si pone in contrasto con l'ordinamento comunitario, come chiarito dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, 15 Luglio 2015, C-82/14 (Sez. T, n. 18205/2016, Luciotti, Rv. 641051).
La Corte di giustizia della UE – chiamata a pronunciarsi sulla questione «se l'art. 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell'articolo 93 del trattato CE, e gli articoli 9, 11 e 13 del regolamento (CE) n. 794/2004 della Commissione del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del regolamento predetto, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una legislazione nazionale che, in relazione ad un'azione di recupero di un aiuto di Stato conseguente ad una decisione della Commissione notificata in data 7 giugno 2002, stabilisca che gli interessi sono determinati in base alle disposizioni del capo V del citato Regolamento n. 794/2004 (cioè, in particolare, agli articoli 9 e 11), e, quindi, con applicazione del tasso di interesse in base al regime degli interessi composti» – con sentenza del 3 settembre 2015, causa C- 89/14, ha dichiarato che «l'articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell'articolo 93 del trattato CE, nonché gli articoli 11 e 13 del regolamento (CE) n. 794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del regolamento n. 659/1999, non ostano a una normativa nazionale, come l'articolo 24, comma 4, del decreto legge del 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e imprese e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale, convertito, con modificazioni, nella legge del 28 gennaio 2009, n. 2, che preveda, tramite un rinvio al regolamento n. 794/2004, l'applicazione di interessi composti al recupero di un aiuto di Stato, sebbene la decisione che ha dichiarato detto aiuto incompatibile con il mercato comune e ne ha disposto il recupero sia stata adottata e notificata allo Stato membro interessato anteriormente all'entrata in vigore di detto regolamento».
In conseguenza di tale decisione, Sez. T, n. 23796/2016, Locatelli, ha ritenuto che:
1) il diritto comunitario non pone ostacoli giuridici alla applicazione, da parte degli Stati membri, di interessi composti anche con riguardo al recupero degli aiuti di Stato disposti in attuazione di decisioni della Commissione europea notificate in data anteriore all'entrata in vigore del Regolamento n. 794/2004; in particolare è conforme al diritto comunitario la norma nazionale di cui all'art. 1, comma 3, del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, conv. in l. 6 aprile 2007, n. 46, secondo cui gli interessi dovuti sugli aiuti di Stato dichiarati illegali sono determinati in base al capo V del Regolamento n. 794/20004, che prevede il regime dell'interesse composto; quanto alla data di decorrenza degli interessi il citato art. 1, comma 3, richiama l'art. 24, comma 3, della l. 25 gennaio 2006, n. 29, il quale stabilisce che sono dovuti gli interessi (composti) maturati a partire dalla data in cui le imposte non versate sono state messe a disposizione dei beneficiari fino alla data del loro recupero effettivo;
2) la facoltà dello Stato membro di applicazione degli interessi composti deve essere esclusa nella sola ipotesi di "situazioni acquisite", ricorrente nei casi in cui, prima dell'entrata in vigore della norma che prevede l'applicazione degli interessi composti, l'aiuto di Stato illegittimo sia stato già stato interamente recuperato ovvero sia già stato emesso l'atto di recupero con applicazione dei soli interessi semplici.
Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 23949/2016, Virgilio, Rv. 641727, la quale, in particolare, ha ritenuto che:
a) per le decisioni di recupero notificate in data anteriore all'entrata in vigore del regolamento (CE) n. 794/2004, spetta soltanto agli Stati membri la scelta circa il metodo di calcolo degli interessi (se su base semplice o composta);
b) l'unico limite all'esercizio di tale facoltà è costituito dal rispetto dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento;
c) questi ostano all'applicazione di un regolamento alle situazioni «acquisite» prima della sua entrata in vigore, ma non agli effetti futuri di situazioni sorte sotto la vigenza della disciplina anteriore;
d) per situazioni «acquisite» devono intendersi, quanto alla materia de qua, sia quelle in senso stretto esaurite, cioè i casi in cui l'aiuto illegittimo sia stato già definitivamente recuperato alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, sia quelle nelle quali, alla stessa data, sia già stato emesso l'avviso di accertamento, idoneo ad ingenerare il legittimo affidamento del contribuente nell'applicazione della normativa previgente.
In definitiva, gli avvisi di accertamento emessi sulla base della scelta, operata dal legislatore italiano con l'art. 24, comma 4, del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. in l. 28 gennaio 2009, n. 2) – e già con l'art. 1, comma 3, del d.l. n. 10 del 2007 (convertito dalla legge n. 46 del 2007) –, di applicare, per il recupero degli aiuti in esame, il metodo di calcolo degli interessi su base composta, «maturati dalla data in cui le imposte non versate sono state messe a disposizione dei beneficiari fino alla data del loro recupero effettivo» (secondo la disciplina dettata dal richiamato art. 24 della legge n. 29 del 2006), devono ritenersi, sotto tale profilo, legittimi.
La cartella esattoriale non è un atto esecutivo ma preannuncia l'esercizio dell'azione esecutiva ed è, pertanto, parificabile al precetto, sicché – secondo Sez. 6-T, n. 15966/2016, Caracciolo, Rv. 640644 – è inapplicabile l'art. 2304 c.c. che disciplina il beneficium excussionis relativamente alla sola fase esecutiva.
La notifica alla società di persone della cartella di pagamento concernente il debito sociale, che è debito anche dei soci, interrompe, ai sensi dell'art. 1310 c.c., la prescrizione nei confronti di questi ultimi, purché sia avvenuta entro il termine decennale di prescrizione di cui all'art. 2935 c.c., che decorre da quando il pregresso atto impositivo sia divenuto definitivo: Sez. T, n. 16712/2016, Marulli, Rv. 641071.
Sez. T, n. 13759/2016, Luciotti, Rv. 640341, ha ribadito il principio per cui, in materia di riscossione, ai sensi degli artt. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, l'invio al contribuente della comunicazione di irregolarità, al fine di evitare la reiterazione di errori e di consentire la regolarizzazione degli aspetti formali, è dovuto solo ove dai controlli automatici emerga un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione ovvero un'imposta o una maggiore imposta e, comunque, la sua omissione determina una mera irregolarità e non preclude, una volta ricevuta la notifica della cartella, di corrispondere quanto dovuto con riduzione della sanzione, mentre tale adempimento non è prescritto in caso di omessi o tardivi versamenti, ipotesi in cui, peraltro, non spetta la riduzione delle sanzioni amministrative ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 462.
La cartella emessa ex art. 36-bis d.P.R. n. 600 del 1973 non ha natura impositiva poiché deriva da una mera liquidazione dei tributi già esposti dal contribuente e, con riferimento alle sanzioni, da un riscontro meramente formale dell'omissione.
Ne consegue che, nel caso in cui dai dati esposti dal contribuente emerga un tardivo versamento delle ritenute operate, incombe sullo stesso l'onere di dimostrare l'erroneità della dichiarazione, mediante prova della data effettiva e della tempestività dei pagamenti delle retribuzioni e delle contestuali ritenute: Sez. T, n. 00548/2016, Iannello, Rv. 638334.
La cartella di pagamento emessa all'esito di un procedimento di controllo cd. formale o automatizzato, a cui l'Amministrazione finanziaria ha potuto procedere attingendo i dati necessari direttamente dalla dichiarazione, può essere motivata con il mero richiamo a tale atto, atteso che il contribuente è già in grado di conoscere i presupposti della pretesa, anche qualora si richiedano somme maggiori di quelle risultanti dalla dichiarazione: Sez. T, n. 15564/2016, Iannello, Rv. 640655.
In caso di liquidazione in esito a controllo di dichiarazioni secondo procedure automatizzate, occorre l'instaurazione del contraddittorio prima dell'iscrizione a ruolo soltanto quando emergano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, come ha ritenuto Sez. 6-T, n. 15740/2016, Conti, Rv. 640654.
L'ingiunzione fiscale, anche dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, ha conservato funzione accertativa in quanto atto complesso volto a portare a conoscenza del debitore la pretesa fiscale ed a formare il titolo, autonomamente impugnabile, per la successiva esecuzione forzata, sicché – secondo Sez. T, n. 18490/2016, Zoso, Rv. 640975 – non deve essere preceduta dalla previa formazione del ruolo perché non è atto della riscossione.
Quanto, infine, al pagamento rateale ex art. 3-bis del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 462, nel testo in vigore ratione temporis, l'inidoneità della polizza fideiussoria tempestivamente depositata non legittima l'iscrizione a ruolo dell'intero importo ove l'ufficio, comunicando l'accoglimento della relativa istanza, abbia ingenerato nel contribuente la legittima aspettativa di poterla sostituire: Sez. 6-T, n. 14078/2016, Caracciolo, Rv. 640383.
La domanda risarcitoria proposta verso il concessionario per illecita iscrizione d'ipoteca esattoriale in fattispecie anteriore all'entrata in vigore dell'art. 35, comma 26 quinquies, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in l. 4 agosto 2006, n. 248, non può essere respinta dal giudice ordinario a ragione della devoluzione al giudice tributario della pretesa a cautela della quale l'ipoteca è stata iscritta, poiché – ha ritenuto Sez. U, n. 11379/2016, De Stefano, Rv. 639974 – tale pretesa è solo il presupposto di legittimità della condotta del concessionario e riguarda una questione pregiudiziale conoscibile dal giudice ordinario, cui è devoluta la domanda principale risarcitoria.
La cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1° giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che l'art. 36, comma 4-ter, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito nella l. 28 febbraio 2008, n. 31, ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008, né è annullabile, essendo la disposizione di cui all'art. 7 della l. n. 212 del 2000 priva di sanzione e, trovando applicazione l'art. 21 octies della l. n. 241 del 1990, che esclude tale esito ove il provvedimento, adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, per la natura vincolata dello stesso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato: Sez. 6-T, n. 00332/2016, Caracciolo, Rv. 638705.
La notifica della cartella di pagamento può essere eseguita, ai sensi dell'art. 26, comma 1, seconda parte, del d.P.R. n. 602 del 1973, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, e trovano, in tal caso, applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della l. 20 novembre 1982, n. 890.
In applicazione dell'anzidetto principio, Sez. 6-T, n. 12083/2016, Conti, Rv. 640025, ha cassato la sentenza con cui il giudice di merito ha ritenuto invalida la notifica della cartella sull'erroneo presupposto che, essendo stata ricevuta dal portiere, occorresse, a norma dell'art. 139 c.p.c., l'invio di una seconda raccomandata.
La nullità della notifica della cartella esattoriale, atto avente duplice natura di comunicazione dell'estratto di ruolo e di intimazione ad adempiere, corrispondente al titolo esecutivo e all'atto di precetto nel rito ordinario, è suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo ai sensi degli artt. 156 e 160 c.p.c., atteso l'espresso richiamo, operato dall'art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, alle norme sulle notificazioni del codice di rito: Sez. T, n. 00384/2016, Locatelli, Rv. 638250.
Sez. U, n. 23397/2016, Tria, Rv. 641633, ha stabilito che la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non produce anche l'effetto della c.d. "conversione" del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell'art. 2953 c.c., affermando espressamente che tale principio si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione coattiva, ivi compresi quelli relativi a crediti tributari, con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l'opposizione, non consente di fare applicazione dell'art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo.
Il termine di decadenza per la presentazione dell'istanza di rimborso delle imposte sui redditi in caso di versamenti diretti, previsto dall'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 (il quale concerne tutte le ipotesi di contestazione riguardanti i detti versamenti), decorre, nella ipotesi di effettuazione di versamenti in acconto, dal versamento del saldo solo nel caso in cui il relativo diritto derivi da un'eccedenza degli importi anticipatamente corrisposti rispetto all'ammontare del tributo che risulti al momento del saldo complessivamente dovuto, oppure rispetto ad una successiva determinazione in via definitiva dell'an e del quantum dell'obbligazione fiscale, mentre – ha sostenuto Sez. 6-T, n. 14868/2016, Crucitti, Rv. 640667 – non può che decorrere dal giorno dei singoli versamenti in acconto nel caso in cui questi, già all'atto della loro effettuazione, risultino parzialmente o totalmente non dovuti, poiché in questa ipotesi l'interesse e la possibilità di richiedere il rimborso sussistono sin da tale momento.
La domanda d'esenzione dal tributo, ove ritualmente e tempestivamente avanzata, costituisce esercizio del diritto del contribuente al riconoscimento dell'inesistenza totale o parziale dell'obbligazione tributaria, fondato sulla norma d'esenzione, ed implica la richiesta di restituzione, totale o parziale, di quanto cautelativamente versato, sicché vale come istanza di rimborso sia delle somme già versate, sia di quelle eventualmente versate dopo la sua proposizione, in corso di giudizio, anche a seguito di una sentenza favorevole, ma non ancora definitiva, non venendo meno l'esigenza cautelativa di non incorrere in sanzioni.
Ne consegue – ha ritenuto Sez. 6-T, n. 14610/2016, Iofrida, Rv. 640510 – che, qualora si formi il giudicato su entrambi i diritti, all'esenzione e al rimborso del tributo oggetto della relativa domanda, cautelativamente versato, il contribuente non è soggetto all'onere di formulare istanza nel termine dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, ma può far valere il giudicato nell'ordinario termine di prescrizione decennale.
Va, inoltre, ricordato che, in materia d'IVA, Sez. T, n. 16792/2016, Marulli, Rv. 640955, ha affermato che, in caso di richiesta di rimborso dell'eccedenza dell'imposta detraibile, a seguito della presentazione della dichiarazione annuale, il differimento del termine di decadenza ai sensi dell'art. 57, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 si applica anche alle dichiarazioni presentate in epoca antecedente al 1° gennaio 1998, se non sia decorso il termine di accertamento. Ancora, in applicazione del principio di effettività del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di Giustizia, Sez. 6-T, n. 01426/2016, Conti, ha chiarito che l'Amministrazione finanziaria è tenuta al rimborso dell'imposta anche dopo che sia decorso il termine di decadenza previsto dall'art. 21, comma 2, del d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, esclusivamente nell'ipotesi in cui il richiedente prestatore di un servizio abbia a sua volta effettivamente rimborsato l'imposta al committente in esecuzione di un provvedimento coattivo, con ciò confermando l'orientamento della Corte in tal senso emerso in precedenza (Sez. 5, n. 3627/2015).
Quanto al diritto al rimborso per imposte pagate relativamente a zone sismiche in epoca 1990 – 1992, Sez. 6-T, n. 15252/2016, Conti, Rv. 640825, ha confermato un recente orientamento secondo il quale l'art. 1, comma 665, della l. 23 dicembre 2014 n. 190, costituisce norma di interpretazione autentica, sicché i soggetti colpiti dal sisma del 13 e 16 dicembre 1990, che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa, i quali hanno versato imposte per il triennio 1990-1992 per un importo superiore al 10 per cento, previsto dall'art. 9, comma 17, della l. 27 dicembre 2002 n. 289, hanno diritto al rimborso di quanto indebitamente versato, a condizione che abbiano presentato l'istanza di rimborso entro il termine di due anni decorrente dalla data di entrata in vigore della l. 28 febbraio 2008 n. 31. Infine, relativamente ai tributi locali, la Sez. T, n. 13959/2016, Schirò, Rv. 640367, ha affrontato il caso particolare della tassa sui marmi istituita dall'articolo unico della l. 15 luglio 1911 n. 749 in favore del comune di Carrara, evidenziandone l'incompatibilità con l'art. 23 del Trattato CEE, come riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza C-72/03, ma sottolineando che il contribuente ha diritto al rimborso di quanto pagato successivamente al 16 luglio 1992, purché abbia presentato la relativa istanza entro il termine di decadenza biennale di cui all'art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, applicabile in assenza di specifica disposizione con decorrenza dalla data del pagamento e non da quella dell'accertato contrasto con il diritto comunitario, poiché è da ritenere prevalente l'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, cogente in particolare in materia di entrate tributarie.
In tema di rimborso delle imposte, l'Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l'esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum: Sez. U, n. 05069/2016, Di Blasi, Rv. 639014.
Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 12557/2016, Meloni, Rv. 640075, per la quale, in tema di rimborso d'imposta, non è previsto – né dall'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, né da altre disposizioni – l'onere dell'Amministrazione finanziaria di svolgere attività di rettifica della dichiarazione in cui è stato esposto il credito, sicché, anche in assenza di accertamenti nei termini di legge, non si consolida l'asserito diritto del contribuente.
Quanto all'IVA, Sez. T, n. 12313/2016, Perrino, Rv. 640082, ha confermato il principio per cui la mancata dichiarazione del credito, di cui sussistano i presupposti sostanziali, relativa all'anno d'imposta in cui avrebbe dovuto figurare non ne preclude la rimborsabilità, non potendo le modalità di rimborso dell'eccedenza IVA, pur liberamente determinabili dagli Stati membri dell'Unione europea, ledere il principio di neutralità fiscale.
In caso di ritardato adempimento dell'obbligo di rimborso, Sez. T, n. 16797/2016, Iannello, Rv. 641069, ha affermato che la mora dell'Amministrazione finanziaria, da cui può decorrere, ove ne ricorrano i presupposti, il diritto del contribuente al maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c., si realizza, ex art. 1219, comma 1, c.c., in conseguenza, da un lato, della richiesta di rimborso presentata nella dichiarazione e, dall'altro, della scadenza del termine di novanta giorni concesso all'Amministrazione per procedere alla liquidazione, non essendo condizione imprescindibile la sua liquidità, sicché è irrilevante che il credito sia o possa essere contestato. Il danno da svalutazione monetaria non è, peraltro, in re ipsa ma deve essere provato dal creditore, quantomeno deducendo e dimostrando che il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato di durata annuale è stato superiore, nelle more, agli interessi legali: prova da valutarsi con particolare rigore relativamente in considerazione della specificità della disciplina dell'obbligazione tributaria: Sez. T, n. 11943/2016, Locatelli, Rv. 640142.
In particolare, Sez. 6-T, n. 07803/2016, Cigna, Rv. 639627, ha sostenuto che il creditore non può limitarsi ad allegare la sua qualità di imprenditore e a dedurre il fenomeno inflattivo come fatto notorio, ma deve, alla stregua dei principi generali dell'art. 2697 c.c., fornire indicazioni in ordine al danno subito per l'indisponibilità del denaro, a cagione dell'inadempimento, ed offrirne prova rigorosa.
Qualora la richiesta di rimborso (nella specie, in materia d'IVA) sia stata legittimamente sospesa con provvedimento di fermo amministrativo, poi venuto meno ma comunque ritenuto legittimo, il ritardo nel rimborso non è imputabile all'amministrazione, sicché – come ritenuto da Sez. T, n. 08540/2016, Cricenti, Rv. 639762 – non decorrono gli interessi di mora, che riprendono, una volta venuto meno il fermo, dalla nuova istanza di rimborso.
In tema d'imposta di registro, ai fini del rimborso dell'importo pagato sugli atti che definiscono, anche parzialmente, il giudizio civile, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non può essere equiparata alla sentenza di riforma passata in giudicato la transazione stragiudiziale di cui non sia parte l'Amministrazione dello Stato, essendo irrilevante che la stessa sia stata edotta della data dell'atto dinanzi al notaio ed invitata a parteciparvi, attesa la necessità d'impedire indebite sottrazioni all'obbligazione tributaria: Sez. 6-T, n. 03687/2016, Crucitti, Rv. 638797.
Ai fini della qualificazione dell'atto come impositivo, e della conseguente inclusione della relativa controversia nell'ambito applicativo dell'art. 16 della l. 27 dicembre 2002, n. 289, rileva la sua effettiva funzione a prescindere dalla sua qualificazione formale.
Ne consegue, secondo Sez. T, n. 13136/2016, Stalla, Rv. 640137, che, con specifico riferimento agli avvisi di liquidazione dell'imposta di registro, non può escludersene la natura di atto impositivo quando essi siano destinati ad esprimere, per la prima volta, nei confronti del contribuente una pretesa fiscale maggiore di quella applicata, potendosi considerare sufficiente, a tal fine, che la contestazione del contribuente sia idonea ad integrare una controversia effettiva, e non apparente, sui presupposti e sui contenuti dell'obbligazione tributaria.
Rientrano nel concetto di lite pendente, con possibilità di definizione agevolata ai sensi dell'art. 16, comma 3, della l. n. 289 del 2002, le controversie relative a cartella esattoriale emessa ex art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, non preceduta da precedente atto di accertamento, la quale, come tale, è impugnabile non solo per vizi propri, ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva, trattandosi del primo e unico atto con cui la pretesa fiscale viene comunicata al contribuente: Sez. 6-T, n. 01295/2016, Conti, Rv. 638632.
Il presupposto della lite pendente sussiste, salve le ipotesi di abuso del processo, anche in presenza di un'iniziativa giudiziaria del contribuente non dichiarata inammissibile con sentenza definitiva e potenzialmente idonea a consentire il sindacato sul provvedimento impositivo, indipendentemente dal preventivo riscontro della ritualità e fondatezza del ricorso.
In applicazione dell'anzidetto principio, Sez. 6-T, n. 12619/2016, Iofrida, Rv. 640024, ha ritenuto suscettibile di definizione agevolata, ai sensi dell'art. 39, comma 12, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in l. 15 luglio 2011, n. 111, la controversia relativa all'impugnazione di un estratto di ruolo nella quale il contribuente aveva eccepito la decadenza dell'amministrazione per omessa notifica della cartella nei termini di legge.
Lo stesso principio è stato affermato da Sez. T, n. 18445/2016, Virgilio, Rv. 641057, per cui il presupposto della lite pendente sussiste in presenza di un'iniziativa giudiziaria del contribuente non dichiarata già inammissibile con sentenza definitiva, che sia potenzialmente idonea a consentire il sindacato sul provvedimento impositivo, salve le ipotesi di abuso del processo, caratterizzate dall'intento di sfruttare in modo fittizio e strumentale il mezzo processuale, al solo scopo di conseguire i vantaggi della sopravvenuta o preannunciata normativa di condono. (Nella specie, la S.C. ha escluso l'abuso essendo stato il ricorso introduttivo notificato nei termini, antecedentemente alla l. n. 289 del 2002, ancorché dichiarato inammissibile, perché non depositato, con provvedimento reclamato).
Secondo Sez. T, n. 18469/2016, Sabato, Rv. 640977, costituisce lite pendente, suscettibile di definizione, ai sensi dell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, la controversia avente ad oggetto l'impugnazione di un avviso di liquidazione d'imposta di successione, INVIM ed oneri accessori, allorché venga contestata non la mera quantificazione dell'imposta dovuta, ma l'applicazione di una rendita catastale non corretta e l'erroneo calcolo degli interessi, sicché l'atto non può essere definito meramente liquidativo, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che le ragioni prospettate dal contribuente siano, o no, fondate.
L'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, conv. in l. n. 111 del 2011, nel consentire la definizione delle liti fiscali di valore non superiore a 20.000 euro in cui è parte l'Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 1° maggio 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio, ha riguardo alle sole controversie eventualmente definite da decisione ancora impugnabile con i mezzi ordinari, ma non anche a quelle definite dalla Corte di cassazione, atteso che la pendenza del termine per la revocazione non impedisce, a norma dell'art. 391-bis c.p.c., il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto, senza che rilevi il disposto di cui all'art. 324 c.p.c., il cui riferimento alla sentenza soggetta a revocazione ai sensi dell'art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c. riguarda esclusivamente quella pronunciata dal giudice di merito: Sez. T, n. 13306/2016, Zoso, Rv. 640146.
Il condono di cui all'art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide i debiti del contribuente verso l'erario, comportando la preclusione nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati di ogni accertamento tributario.
Ne consegue – secondo Sez. T, n. 03112/2016, Bruschetta, Rv. 639041, – l'illegittimità di ogni attività accertatrice, ivi compresa quella di recupero del credito d'imposta, ai sensi dell'art. 9 comma 10, della l. n. 289 del 2002. Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 16186/2016, Ragonesi, Rv. 640770, per la quale il credito d'imposta, conseguente all'agevolazione ex art. 8 della l. 23 dicembre 2000, n. 388, può essere oggetto di definizione automatica ex art. 9, comma 9, della l. n. 289 del 2002, sicché, ove sia stato effettivamente indicato nella richiesta di condono, il cui importo sia stato versato, ne è precluso all'Amministrazione finanziaria il recupero in virtù dello stesso art. 9, comma 10, lett. a).
Al contrario, secondo Sez. T, n. 16157/2016, Sabato, Rv. 640769, il condono ex art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide in tutto o in parte i debiti del contribuente verso l'erario, ma non opera sui suoi crediti, i quali restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'Ufficio ai sensi dell'art. 9, comma 10, lett. a), della l. n. 289 del 2002, dovendosi interpretare la previsione del comma 9 della norma citata – secondo cui «la definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate» – nel senso che tale definizione non sottrae all'Amministrazione il potere di contestare il credito esposto dal contribuente e, quindi, di emettere avvisi di recupero delle agevolazioni da esso indicate (nella specie, credito d'imposta per aree svantaggiate).
Alla luce di tale contrasto, Sez. T, n. 25092/2016, Stalla, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente l'interpretazione dell'art. 9, commi 9 e 10, della l. n. 289 del 2002 e più precisamente la permanenza o la perdita, in capo all'Amministrazione finanziaria, del potere di contestare e recuperare i crediti del contribuente derivanti dalle agevolazioni, ove sia definito il rapporto tributario tramite condono e conseguentemente precluso, in virtù di tale disposizione, ogni accertamento tributario. L'art. 9 della l. n. 289 del 2002, tuttavia, non preclude all'Amministrazione finanziaria il recupero delle somme risparmiate illegittimamente dal contribuente in violazione del diritto comunitario (nella specie, in virtù di un'esenzione fiscale dichiarata incompatibile con il mercato comunitario da una sentenza della Corte di Giustizia), potendo esplicare effetto impeditivo limitatamente alle pretese fiscali dell'erario, ma non a quelle comunitarie: Sez. T, n. 09532/2016, Cricenti, Rv. 639770.
La definizione automatica ex art. 9, comma 9, della l. n. 289 del 2002 non incide, invece, sulla liquidazione ex art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e su quanto ad essa collegato a titolo d'interessi e sanzioni per ritardato pagamento, per i quali – secondo Sez. T, n. 11334/2016, Iannello, Rv. 639981, – il contribuente deve avvalersi della procedura di cui al successivo art. 9-bis della medesima legge.
Quanto agli effetti del mancato adempimento degli obblighi assunti con il condono, Sez. T, n. 00379/2016, Olivieri, Rv. 638820, ha distinto: il condono tributario "premiale" previsto dagli artt. 7, 8, 9, 15, 16 della l. n. 289 del 2002, consente al contribuente di chiedere un accertamento straordinario, da effettuarsi cioè secondo regole diverse da quelle ordinarie; l'art. 9-bis della stessa legge concede, invece, un condono tributario "clemenziale" che, basandosi sul presupposto di un illecito tributario, elimina o riduce le sanzioni o concede modalità di favore per il loro pagamento, ma non prevede alcuna forma di accertamento tributario straordinario e non comporta alcuna incertezza in ordine al quantum dovuto dal contribuente.
Ne consegue che, in quest'ultima ipotesi, non può ritenersi applicabile il principio in base al quale, nell'ipotesi in cui il contribuente si avvalga della facoltà prevista dall'art. 16, comma 2, della legge citata, di versare ratealmente l'importo dovuto, soltanto l'omesso versamento della prima rata comporta l'inefficacia dell'istanza di condono, mentre quello delle rate successive determina l'iscrizione a ruolo dell'importo dovuto con addebito di una sanzione amministrativa proporzionale alle somme non versate e il pagamento degli interessi legali.
Sez. T, n. 16964/2016, Tricomi, Rv. 640764, ha sostenuto che, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata dall'art. 10 della l. n. 289 del 2002, opera in assenza di deroghe contenute nella legge sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi di tali disposizioni, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, atteso che il meccanismo di proroga è finalizzato a tutelare il preminente interesse dell'Amministrazione finanziaria all'accertamento e alla riscossione delle imposte.
Ai fini del perfezionamento del condono fiscale ex artt. 8 e 9 della l. n. 289 del 2002, costituisce – secondo Sez. T, n. 17821/2016, Virgilio, Rv. 640987 – adempimento imprescindibile la presentazione in via telematica direttamente, ovvero avvalendosi degli intermediari abilitati, di una formale dichiarazione integrativa nei termini previsti dalla legge, non essendo sufficiente il solo pagamento dei maggiori importi dovuti all'Amministrazione finanziaria, pur se tempestivamente versati, poiché la presentazione di detta dichiarazione è finalizzata a consentire all'Erario di determinare correttamente la base imponibile e di stabilire se le somme corrisposte dal contribuente siano state esattamente calcolate.
Quanto al diniego, qualora il contribuente abbia presentato richiesta di definizione amministrativa ex art. 9-bis della l. n. 289 del 2002, la mancata notificazione del provvedimento motivato di rigetto dell'istanza di condono non comporta alcuna decadenza a carico dell'Amministrazione finanziaria, né si traduce in una violazione del diritto di difesa del contribuente, poiché questi, a norma dell'art. 19, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, può proporre tutte le censure deducibili avverso il provvedimento presupposto, a lui non notificato, in sede di impugnazione della cartella esattoriale emessa per il recupero dell'imposta, equivalendo la notifica di questo atto a manifestazione implicita, da parte dell'Ufficio, del convincimento di ritenere consolidata la pretesa tributaria e, conseguentemente, della volontà di negare l'ammissione al condono: Sez. T, n. 15881/2016, Scoditti, Rv. 640626.
Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 14878/2016, Virgilio, Rv. 640665, per cui, in tema di condono fiscale, salvo che non sia espressamente previsto (come, ad esempio, nell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, in tema di definizione delle liti pendenti), l'Ufficio non è tenuto ad adottare un provvedimento esplicito di diniego qualora ritenga l'istanza invalida ma può procedere, in forza dell'atto impositivo, all'iscrizione a ruolo e alla notifica della relativa cartella di pagamento, da intendersi come implicito diniego di ammissione al beneficio, senza che ciò pregiudichi il diritto di difesa del contribuente il quale, nel giudizio di impugnazione della cartella, può sempre far valere tutte le ragioni per le quali ritenga di avere diritto di accedere al condono.
Il diniego di definizione di una lite fiscale, a norma dell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, è, invece, come detto, esplicito.
In tal caso, secondo Sez. 6-T, n. 14325/2016, Cigna, Rv. 640564, il contribuente, per impugnare il provvedimento dell'Amministrazione di diniego dell'istanza di definizione di una lite fiscale, è tenuto, a pena di inammissibilità, anche ad impugnare la sentenza che ha deciso sulla lite fiscale medesima, in quanto il testo dell'art. 16, comma 8, della l. n. 289 del 2002 pone un indissolubile e necessario legame, anche temporale («entro sessanta giorni dalla notifica»), fra l'impugnazione del diniego e quella della sentenza.
Peraltro, sempre con riferimento alla chiusura delle liti fiscali pendenti prevista dall'art. 16 della l. n. 289 del 2002, Sez. T, n. 00581/2016, Iofrida, Rv. 638733, ha ritenuto che il termine fissato all'ufficio dal comma 8 del medesimo art. 16 per la notifica all'interessato, con le modalità di cui all'art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, del diniego di definizione della lite fiscale sospesa non può considerarsi perentorio, perché il legislatore non considera la sua eventuale scadenza idonea per ritenere la regolarità della domanda e, di conseguenza, l'avvenuta produzione degli effetti sia sostanziali che processuali della stessa sulla lite pendente.
Quanto al profilo processuale, Sez. U, n. 01518/2016, Cirillo, Rv. 638457, ha ritenuto che l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere a seguito di sanatoria fiscale, ai sensi dell'art. 15 della l. n. 289 del 2002, intervenuta nelle more del giudizio di primo grado può essere fatta valere per la prima volta anche in grado di appello, dovendosi ritenere che la deduzione degli effetti del condono, per il rilievo pubblicistico dell'originario rapporto sostanziale e processuale col fisco, integri una eccezione in senso improprio, non soggetta alle preclusioni di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto tale rilevabile d'ufficio dal giudice, ove risulti dagli atti di causa anche a seguito di nuova produzione ex art. 58 del d.lgs. n. 546 cit.
La definizione della lite pendente, ai sensi dell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, da parte di una società di persone non estende automaticamente i suoi effetti nei confronti dei singoli soci, trattandosi – ha affermato Sez. 6-T, n. 14858/2016, Crucitti, Rv. 640666, – di beneficio lasciato al libero e personale apprezzamento di ciascun contribuente, sicché non comporta alcuna preclusione all'esercizio del potere dovere di accertamento dell'Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta ad adeguare il reddito da partecipazione dei soci, che abbiano scelto di non avvalersi di tale istituto, a quello – ricalcolato in base al condono – della società.
D'altra parte – ha aggiunto Sez. T, n. 14490/2016, Iannello, Rv. 640545, – una volta divenuto incontestabile il reddito della società di persone a seguito della definizione agevolata di cui all'art. 9-bis del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, conv. in l. 28 maggio 1997, n. 140, che costituisce, ai sensi dell'art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, titolo per l'accertamento nei confronti dei soci, nell'eventuale giudizio d'impugnazione promosso da questi ultimi avverso l'avviso di rettifica del reddito da partecipazione non è configurabile un litisconsorzio necessario con la società e gli altri soci, atteso che si controverte esclusivamente degli effetti della definizione agevolata da parte della società su ciascuno dei soci, per cui ognuno di essi può opporre soltanto ragioni specifiche di carattere personale
In tema di sanzioni amministrative tributarie va segnalato che la Corte, con ordinanza interlocutoria della Sez. T, n. 20675/2016, Chindemi, ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della questione interpretativa dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, chiedendo di precisare se tale disposizione, alla luce dell'art. 4 del protocollo 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto per cui il medesimo soggetto abbia già riportato condanna penale irrevocabile. Nel provvedimento si esamina la compatibilità del sistema del cd. "doppio binario" nell'ipotesi in cui ad una condanna penale in via definitiva (nella specie, applicazione concordata della pena) per la condotta illecita di manipolazione del mercato prevista dall'art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF) si aggiunga un provvedimento sanzionatorio ai sensi dell'art. 187-ter TUF in relazione alla medesima condotta manipolativa. La Corte sottopone alla Corte di Giustizia le perplessità rilevate dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 102 del 2016, con cui è stata dichiarata l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del citato art. 187-ter, circa il rapporto tra il concetto di ne-bis in idem desumibile dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e quello espresso nell'ambito degli illeciti di market abuse come desumibile dal sistema UE (Regolamento 16 aprile 2014 n. 596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo agli abusi di mercato e direttiva 16 aprile 2014 n. 2014/57/UE relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato) e dei limiti in cui quest'ultima figura sia applicabile nel sistema interno dello Stato.
Le sanzioni tributarie amministrative sono regolate da un sistema organico di principi generali – paralleli a quelli del sistema penale – sulla personalità dell'illecito, sull'elemento soggettivo e l'errore, sul principio di specialità, del favor rei e della irretroattività della norma meno favorevole ecc.
Sul principio di personalità dell'illecito si richiama la pronuncia Sez. 6-T, n. 11832/2016, Conti, Rv. 640018, che ha ribadito il principio secondo cui il contribuente non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione dei redditi alla competente Agenzia delle Entrate, essendo tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, sicché resta esclusa la sua responsabilità solo in caso di comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento.
In applicazione del principio del favor rei, la Corte (Sez. 6-T, n. 13235/2016, Conti, Rv. 640156), in tema di agevolazioni per la prima casa, ha riconosciuto la possibilità di applicare l'art. 33 del d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, che ha allineato la disciplina in materia d'IVA a quella prevista per l'imposta di registro, agli atti negoziali anteriori alla data della sua entrata in vigore e, cioè, al 1° gennaio 2014, ai soli fini sanzionatori – non potendo trovare, di contro, applicazione, quanto alla debenza del tributo – posto che, proprio in ragione della più favorevole disposizione sopravvenuta, la condotta che prima integrava una violazione fiscale non costituisce più il presupposto per l'irrogazione della sanzione.
Sul piano della irretroattività della norma meno favorevole si segnalano due pronunce della Corte intervenute sul tema delle operazioni commerciali con imprese aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (cd. paesi black list).
Con un primo arresto (Sez. T, n. 11933/2016, Virgilio, Rv. 640084) la Corte ha ribadito l'orientamento secondo cui, all'esito delle modifiche retroattive introdotte dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 della legge 27 dicembre 2006, n. 2966 e prima di quelle di cui alla legge 28 dicembre 2015, n. 208, applicabili a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015, la violazione dell'obbligo di separata indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi delle spese e degli altri componenti negativi non ne condiziona la deducibilità ed espone il contribuente unicamente alla sanzione amministrativa ex art. 8, comma 3-bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, da cumulare, per le sole violazioni anteriori all'entrata in vigore della legge n. 296 del 2006, con la sanzione di cui al medesimo art. 8, comma 1, a ciò non ostando la presentazione della dichiarazione integrativa di cui all'art. 2, comma 8, del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, ove operata dal contribuente dopo l'avvio dei controlli.
La natura meramente formale dell'obbligo di dichiarazione autonoma dei compensi corrisposti a fornitori operanti in Stati a fiscalità privilegiata, al contempo, preclude ogni possibilità di regolarizzazione, in quanto, ove fosse possibile porre rimedio a tale irregolarità, la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni stabilite dal legislatore per inosservanza della correlativa prescrizione, con conseguente non sanabilità, con dichiarazione integrativa, della mancata separata indicazione dei costi successivamente all'accesso della Guardia di Finanza (Sez. T, n. 10989/2016, La Torre, Rv. 639986).
Il principio della necessaria natura sostanziale e non formale della violazione della norma tributaria, quale presupposto per l'applicazione della sanzione è ribadito dalla Corte con la sentenza Sez. T, n. 02605/2016, Marulli, Rv. 638898, con riferimento al ritardo nella fatturazione e violazione dell'art. 21, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972) la cui natura sostanziale deriva dal fatto che tale condotta arreca pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo, ed è, pertanto, punibile anche quando non determina omesso versamento dell'IVA, con conseguente esclusione dell'esimente di cui all'art. 10 dello Statuto del contribuente.
Con riferimento all'elemento soggettivo ed alla rilevanza dell'error iuris in tema di sanzioni amministrative per violazioni fiscali, la Corte, oltre a riconoscere la possibilità per il giudice tributario di dichiarare l'inapplicabilità delle sanzioni, anche in sede di legittimità, per errore sulla norma tributaria, in caso di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito applicativo della stessa (Sez. 6-T, n. 14402/2016, Iofrida, Rv. 640536), ha evidenziato che un'interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione finanziaria con circolari ministeriali, cui il contribuente si sia conformato è idonea ad escludere soltanto l'irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall'adempimento dell'obbligazione tributaria, in base al principio di tutela dell'affidamento, espressamente sancito dall'art. 10, comma 2, della l. n. 212 del 2000. Il principio è stato affermato con riguardo ad alcune risoluzioni e circolari ministeriali che avevano ingenerato l'erronea convinzione che l'INAIL fosse esente dalla tassa di concessione governativa per l'impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di telecomunicazioni di cui all'art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. n. 641 del 1972, circolari cui la Corte non ha riconosciuto la natura di fonte di diritti ed obblighi.
In tema di disciplina della continuazione e dei limiti al cumulo delle sanzioni si segnalano due pronunce della Corte.
Con la sentenza Sez. T, n. 16165/2016, Meloni, Rv. 640651, si è evidenziata la differente natura delle sanzioni amministrative tributarie rispetto alle indennità di mora e gli interessi per mancato pagamento, ribadendosi la piena compatibilità di queste ultime con la disciplina generale del d.lgs. n. 471 del 1997, destinata a valere per tutti i tributi, integrata dalle disposizioni normative speciali di imposta (con riferimento alle accise, il d.lgs. n. 504 del 1995), non realizzandosi un cumulo di sanzioni, in ragione della loro diversità funzionale, afflittiva (con riferimento alla sanzione amministrativa) e reintegrativa del patrimonio leso (con riguardo all'indennità di mora ed agli interessi). Nella fattispecie esaminata si è ritenuto che, in caso di omesso pagamento dell'imposta di consumo sul gas, trovano applicazione sia l'art. 13 del d.lgs. n. 471 cit., che prevede il pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa, sia l'art. 3, n. 4, del d.lgs. n. 504 cit., nel testo vigente ratione temporis, che prevede un'indennità di mora e gli interessi per il ritardato pagamento.
Con la sentenza Sez. T, n. 18230/2016, Solaini, Rv. 641050, in tema di sanzioni per omessa denuncia dell'immobile a fini ICI, si è affermato che le relative sanzioni sono applicabili per tutte le annualità per cui si protrae la condotta in quanto, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, a ciascuno degli anni solari corrisponde un'autonoma obbligazione che rimane inadempiuta non solo per il versamento dell'imposta ma anche per l'adempimento dichiarativo, fermo restando che, trattandosi di violazioni della stessa indole commesse in periodi d'imposta diversi, si applica la sanzione base aumentata dalla metà al triplo, secondo l'istituto della continuazione ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997.
Con riferimento al principio della necessaria contestazione della sanzione irrogata, quale limite per l'applicazione della sanzione ed elemento formale di accesso alla difesa del contribuente, la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 18682/2016, Marulli, Rv. 641122, ha ritenuto ammissibile la definizione agevolata, con conseguente estinzione dell'illecito, ai sensi dell'art. 16, comma 3 del d.lgs. n. 472 del 1997, a fronte della irrogazione di sanzioni con atto di contestazione di cui al medesimo art. 16 per il superamento del limite massimo dei crediti d'imposta compensabili, comportamento da ritenersi equivalente al mancato o ritardato versamento di parte del tributo alle scadenze previste, non potendo trovare applicazione le preclusioni collegate a diverse modalità procedurali.
Infine, in tema di ravvedimento operoso di cui all'art. 13, comma 1, lett. a), del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, oltre alla pronuncia (Sez. T, n. 16422/2016, Vella, Rv. 640657) che ha escluso l'efficacia del ravvedimento del contribuente originato dalla richiesta di chiarimenti dell'Amministrazione, la Corte (Sez. T, n. 06108/2016, Federico, Rv. 639432) in via generale ha osservato che il suddetto istituto, implicando il riconoscimento della violazione e della ricorrenza dei presupposti di applicabilità della sanzione, rappresenta una scelta del contribuente per il pagamento della sanzione in misura ridotta, sicché non può essere invocato per ottenere il rimborso di quanto corrisposto, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997 o ai sensi dell'art. 10 della l. n. 212 del 2000, poiché tali disposizioni si applicano esclusivamente nel caso di sanzioni imposte dalla Amministrazione.