PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE

  • giurisdizione amministrativa
  • giurisdizione civile
  • giurisdizione tributaria
  • diritto internazionale privato

CAPITOLO XXXIII

LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE.

(di Paolo Porreca )

Sommario

1 Regolamento preventivo di giurisdizione. - 2 Questioni processuali. - 3 I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo. - 4 Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa. - 5 Perimetro della giurisdizione contabile. - 6 Ambito della giurisdizione tributaria. - 7 Giurisdizione e diritto internazionale.

1. Regolamento preventivo di giurisdizione.

Prendendo le mosse dai profili processuali emergenti dal lavoro di approfondimento delle Sezioni Unite sul tema della giurisdizione, viene innanzi tutto in rilievo il regolemento preventivo, istituto che vive propriamente della giurisprudenza di legittimità.

Con Sez. U, n. 13569/2016, D'Ascola, Rv. 640221, la Corte ha avuto occasione di reiterare il proprio orientamento che vede nel regolamento in parola un istituto di natura straordinaria ed eccezionale, desumendone che non può essere esteso a ipotesi non previste dall'art. 41, c.p.c., che, per quanto in quel caso rilevava, fa riferimento alle questioni di giurisdizione nei confornti dello straniero, in ragione del combinato disposto con l'art. 37, comma 2, c.p.c., abbrogato dall'art. 73 della legge 31 maggio 1995 n. 218, ma oggetto di un rinvio considerato recettizio dalla giurisprudenza di legittimità. Posto che l'abrogazione dell'art. 4 c.p.c., ad opera del medesimo art. 73 citato, ha fatto venire meno ogni riferimento allo "straniero", il collegio ha quindi statuito che è legittimato a proporlo ciascuna delle parti processuali solo se, però, il convenuto sia domiciliato o residente all'estero – unico criteriore discretivo residuato – e contesti o comunque non accetti la giurisdizione italiana, restando inammissibile sollevare per questa via una questione di difetto di giurisdizione quando i convenuti nella causa di merito siano soggetti residenti o domiciliati in Italia..

La pronuncia riveste un significativo rilievo generale perché da un lato ha sottolineato che la lettura dello strumento processuale quale aggiuntivo, rispetto alle ordinarie facoltà delle parti, è da correlare alla valutazione legislativa di possibili effetti d'inefficienza sistemica di un ampliamento degli strumenti processuali; e dall'altro ha rimarcato come in materia processuale va confermata, quando possibile, l'interpretazione consolidata nel tempo, da superare solo per apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo. E l'eco della cultura di common law prosegue, nell'ordinanza, quando esclude la violazione del principio dell'estoppel in relazione al fatto che l'eccipiente l'inammissibilità del regolamento si era difeso opponendo la State immunity per aver agito quale diretto rappresentante di uno Stato sovrano, atteso che, in mancanza della condizione legittimante l'accesso allo strumento, ogni questione di giurisdizione dev'essere scrutinata dal giudice di merito e può essere oggetto d'impugnazione ordinaria, senza alcun vulnus al diritto all'equo processo.

Il secondo arresto a valenza sistematica, sul punto, è individuabile in Sez. U, n. 15539/2016, Ragonesi, Rv. 640796, in cui si è avuto modo di precisare – anche qui in linea con la nomofilachia registrabile – il momento preclusivo della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione. Linea di demarcazione che deve individuarsi in quella in cui l'attività processuale delle parti in primo grado si esaurisce e inizia il momento decisorio della causa, sicché, ove sia prevista l'udienza di discussione di quest'ultima, esso coincide con la sua chiusura, mentre, in assenza della stessa, occorre fare riferimento allo scadere dei termini per lo scambio degli scritti conclusionali.

2. Questioni processuali.

Con un arresto di grande rilievo, Sez. U, n. 00029/2016, Blasutto, Rv. 637937, ha avuto modo di riesaminare il dibattuto rapporto di pregiudizialità tra la questione di giurisdizione e quella di competenza. L'ordinanza di rimessione aveva prospettato come condivisibile l'opinione risalente, un tempo maggioritaria, che la competenza rivesta carattere prioritario per assicurare l'accertamento della spettanza della giurisdizione in capo al giudice in astratto competente per materia, valore e territorio a conoscere della controversia, sulla base della prospettazione della domanda. In ciò vedendo un riflesso del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. Nella specie, le Sezioni Unite hanno osservato che la garanzia costituzionale versata nell'art. 25 della Carta attiene, però, in primo luogo alla stessa giurisdizione, in linea con le principali convenzioni internazionali dove, peraltro, l'uso del termine competenza, quale inclusivo in primis del radicamento giurisdizionale, discende dall'intuitiva considerazione che l'ordinamento nazionale potrebbe declinare sistemi monistici o, come in Italia, pluralistici, dell'organizzazione della giustizia. Si è osservato che diversamente dalle differenti discipline dei singoli ordinamenti processuali di ciascuna giurisdizione, tipiche della competenza, è la stessa Costituzione ad attribuire a ciascuna di queste ultime il proprio perimetro, dando valenza fondante alla priorità logica della prima sulla seconda. Del resto, la previa decisione della competenza potrebbe altrimenti essere data inutilmente, ledendo la ragionevole durata dei processi: sicché, si legge in motivazione, qualora una sentenza di primo grado recante l'espressa affermazione della giurisdizione del giudice ordinario e la successiva declinatoria della sua competenza, sia stata impugnata con regolamento di competenza, da qualificarsi come facoltativo, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, può e deve rilevarne d'ufficio il difetto da parte di quel giudice, proprio in forza dei descritti e concorrenti principi di pregiudizialità, economia processuale, e ragionevole durata, saldati all'attribuzione costituzionalmente riservata all'organo nomofilattico di tutte le predette questioni. Dal che deriva il persistente obbligo di verifica primaria e officiosa della giurisdizione.

Il collegio ha quindi concluso che, in questo quadro, la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza può essere derogata – o meglio assorbita – solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, a monte, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell'instaurazione del giusto processo, oppure, a valle, in quelli dati dalla formazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla giurisdizione.

Altra precisazione correlata è giunta da Sez. U, n. 02201/2016, Didone, Rv. 638226, in cui si trova specificato, pure qui ribadendo risalenti principi di legittimità, che la questione relativa alla nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio riguarda la valida costituzione del rapporto processuale, sicché deve essere esaminata prim'ancora della questione di giurisdizione, la quale presuppone pur sempre l'instaurazione di un valido contraddittorio tra le parti.

Al riguardo, peraltro, è opportuno ricordare anche Sez. L, n. 14321/2016, Blasutto, Rv. 640433, secondo cui quando il giudice di merito dichiari il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria e la statuizione sul punto non formi oggetto di specifica impugnazione, la pronuncia sulla giurisdizione deve ritenersi coperta da giudicato, ma quando il ricorso per cassazione investa profili relativi alla regolarità dell'instaurazione del rapporto processuale, quale la ritualità dell'opposizione a decreto ingiuntivo, dal rilievo dell'esistenza del giudicato sulla giurisdizione non può discendere l'inammissibilità del ricorso, poiché l'eventuale accoglimento delle censure comporterebbe, per l'effetto espansivo previsto dall'art. 336, comma 1, c.p.c., la caducazione anche della statuizione in punto di giurisdizione. Da questa lettura risulta che anche le censure relative, ad esempio, alle inammissibilità, quale quella dell'opposizione a decreto ingiuntivo, devono essere esaminate con priorità, per il loro carattere pregiudiziale rispetto alla questione di giurisdizione.

Le dinamiche processuali inerenti alla giurisprudenza sulla giurisdizione, impongono poi di dare conto di Sez. U, n. 21260/2016, Giusti, Rv. 641347, secondo cui l'attore che abbia incardinato la causa dinanzi a un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione. La decisione deve essere menzionata poiché rivede un opposto orientamento maggioritario. Alla base della previa tesi vi era l'idea che in capo all'istante vi fosse l'interesse a impugnare per chiedere una diminuzione della propria soccombenza, in quanto la decisione negativa in punto di giurisdizione, rispetto alla pronuncia negativa di merito, comporta un vantaggio giuridicamente rilevante che si concreta nella possibilità di proporre nuovamente la domanda dinanzi a un giudice appartenente ad un diverso plesso giurisdizionale. Il Collegio, invece, rileva che rispetto al capo relativo alla giurisdizione quell'attore va considerato vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dallo stesso che a quel giudice si è rivolto. In questi termini, l'arresto svaluta il peso specifico del riparto giurisdizionale e apprezza, al contrario, quello alla speditezza processuale, latamente riprendendo la dottrina dell'estoppel prima richiamata.

3. I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo.

Il lavoro ermeneutico della Corte in punto di limiti esterni della giurisdizione, specie amministrativa, si è arricchito di pregnanti precisazioni volte a restringere appropriatamente il relativo sindacato.

È stata in particolare riaffermata con Sez. U, n. 24740/2016, Didone, Rv. 641772, la giurisprudenza secondo cui, con riguardo all'interpretazione, da parte del Consiglio di Stato, di norme di un regolamento comunale, non è configurabile un eccesso di potere giurisdizionale, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera della potestà amministrativa del Comune, venendo in gioco un atto di normazione secondaria, sicché gli errori interpretativi delle sue disposizioni investono la legittimità dell'esercizio del potere nel caso concreto, non altro.

Sez. U, n. 11380/2016, De Stefano, Rv. 639942, ha poi avuto modo di evidenziare che l'eccesso di potere giurisdizionale si configura quando il giudice amministrativo, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, riservato alla pubblica amministrazione, compia una diretta valutazione dell'opportunità e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima la volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella dell'amministrazione, così esercitando un'inammissibile giurisdizione di merito.

Il focus per la configurabilità dell'eccesso di potere giurisdizionale, che rende ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost., è individuato nello sconfinamento sul merito, in quanto la decisione finale dei giudici amministrativi d'appello, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprime una volontà dell'organo giudicante che va oltre, in una parola, alla contiguità che la cultura giuridica classica ha sempre rimarcato sussistere, al riguardo, tra giudicare e amministrare.

Questo difficile confine è allora fatto emergere muovendo dalle descritte premesse che rendono meglio comprensibile come, diversamente, l'interpretazione della legge non può costituire, in quanto tale, un'attività riservata all'autorità amministrativa, rappresentando invece il proprium della funzione giurisdizionale, sicché non può integrare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo, fatti salvi i casi di radicale stravolgimento delle norme o dell'applicazione di una norma creata ad hoc dal giudice speciale.

Medesimo abbrivio ricostruttivo è quello individuabile in Sez. U, n. 03915/2016, Giusti, Rv. 638599. Il caso era quello di una decisione del Consiglio di Stato che, giudicando sull'esclusione degli ingegneri dalla direzione dei lavori dei lavori su immobili di pregio storico e artistico riservata agli architetti, ex art. 52 del r.d. 25 ottobre 1925 n. 2537, aveva negato la sussistenza di profili discriminatori implicati dalla direttiva del Consiglio 10 giugno 1985, n. 85/384/CEE. Normativa, quest'ultima, che impone di non escludere da tale accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro, laddove tuttavia tale titolo risulti abilitante – in base alla normativa di quello Stato membro – all'esercizio di attività nel settore dell'architettura. È stato così messo in luce come il controllo della Corte di cassazione sul rispetto del limite esterno della giurisdizione non può includere la verifica, in iure, di conformità della decisione al diritto dell'Unione europea, fatta salva – anche qui – l'ipotesi estrema in cui la decisione contrasti con quelle della Corte di giustizia in modo da precludere l'accesso alla tutela giurisdizionale: profilo che non poteva ricorrere nella fattispecie, atteso che le decisione gravata non conteneva un aprioristico diniego di giurisdizione, oltre ad essere assunta alla luce di esaminate pronunce della Corte di giustizia.

Analogamente, Sez. U, n. 14042/2016, Cirillo, Rv. 640438, ha concluso che il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, omesso nella specie dal Consiglio di Stato, non può essere disposto, sulla medesima questione, dalle Sezioni Unite della Corte innanzi alle quali sia stata impugnata la corrispondente decisione, spettando ad esse solo di vagliare il rispetto, da parte del primo, dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, senza che, su tale attribuzione di controllo, siano evidenziabili norme dell'Unione Europea su cui possano ipotizzarsi quesiti interpretativi.

In asse con tale impostazione si collocano Sez. U, n. 07292/2016, Frasca, Rv. 639171 e Sez. U, n. 01520/2016, Cirillo, Rv. 638238. La prima chiarisce che la violazione dei limiti della cognizione incidentale ex art. 8 c.p.a., non può configurare un eccesso di potere giurisdizionale, ma solo un error in procedendo commesso, in tesi, dal giudice amministrativo all'interno della sua giurisdizione; la seconda puntualizza che nel ricorso per cassazione avverso una sentenza del Consiglio di Stato pronunciata su impugnazione per revocazione può sorgere questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, in quanto ogni diversa censura sulla decisione di merito non avrebbe ad oggetto una violazione dei limiti esterni alla giurisdizione amministrativa, unico sindacato possibile sulle decisioni espresse da quella.

In questa cornice mette conto di citare anche Sez. U, n. 24742/2016, Didone, Rv. 641773, che ha dovuto confermare come il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato con cui si deduca l'omesso rinvio, da parte della sezione semplice, all'Adunanza plenaria in contrasto con la quale la prima si pronunci, integri un error in procedendo estraneo al sindacato delle Sezioni Unite.

Diversamente, come puntualizzano Sez. U, n. 25625/2016, Bronzini, Rv. 641787, quando il Consiglio di Stato, in sede di ottemperanza a una sentenza definitiva del giudice ordinario, abbia effettuato un sindacato integrativo individuando in tal modo un differente contenuto precettivo del giudicato, con pronuncia sostanzialmente autoesecutiva, ciò si traduce, logicamente, in eccesso di potere giurisdizionale, integrando un'esorbitanza dai limiti esterni. Decisione, questa, a sua volta coerente al generale orientamento riaffermato da Sez. U, n. 26274/2016, Didone, Rv. 641800, per cui, nel caso di ottemperanza a decisioni del giudice amministrativo, il sindacato della Corte di cassazione è inammissibile se oggetto del ricorso sia il modo con cui il potere di ottemperanza è stato esercitato (limiti interni alla giurisdizione), mentre lo è se in discussione sia la possibilità stessa, in una determinata situazione, di fare ricorso al relativo giudizio (limiti esterni).

4. Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa.

Il perimetro di reciproco confine tra giurisdizione ordinaria e amministrativa registra ogni anno una densa casistica.

Un primo filone è quello dell'attività negoziale della p.a. in cui l'insorgere della giurisdizione ordinaria dal momento della stipula del contratto incontra numerose sfaccettature. Ad esempio Sez. U, n. 15204 /2016, Ambrosio, Rv. 640609, ha esaminato il disposto dell'art. 16, comma 4, r.d. 18 novembre 1923 n. 2440, che attribuisce al verbale di aggiudicazione definitiva, formato a seguito di incanto pubblico o licitazione privata, efficacia equivalente a quella del contratto. La decisione ha escluso il carattere imperativo della norma, ragion per cui l'amministrazione può discrezionalmente prevedere, nel bando di gara o nel suddetto verbale, di rinviare a un momento successivo l'instaurazione del vincolo negoziale. Di qui una rilevante quanto logica ricaduta sul riparto tematico di giurisdizione: quando un bando di una gara pubblica per la ricerca – come nella specie – di un complesso immobiliare ne preveda, altresì, l'acquisto attraverso una locazione finanziaria erogata da soggetto da individuarsi con un'ulteriore e apposita gara pubblica, l'aggiudicazione in favore del fornitore dell'immobile non può produrre gli effetti della conclusione di un accordo negoziale, sicché le controversie afferenti la procedura di selezione del concedente della locazione finanziaria non possono che coerentemente restare alla cognizione del giudice amministrativo perchè relative ad una fase antecedente all'esaurimento della procedura amministrativa.

In una prospettiva coerente si collocano le conclusioni di Sez. U, n. 15816/2016, Amendola, Rv. 640689, pronunciata in tema di dismissione di immobili del patrimonio disponibile (comunale) avvenuta, all'esito infruttuoso dell'asta pubblica, con le modalità della trattativa privata. Si è affermato che la facoltà dell'ente di recedere in ogni momento dalle operazioni di vendita, riconosciuta nell'offerta irrevocabile di acquisto del bene poi accettata, non è predicabile in termini di determinazione autoritativa, a fronte della quale l'aggiudicatario sia titolare di un mero interesse legittimo, perchè l'ambito dello ius poenitendi così pattiziamente circoscritto riguarda la fase già esecutiva del rapporto. Se ne è tratta la conseguenza che, spettando al giudice ordinario la giurisdizione sui comportamenti delle parti in tale fase, allo stesso va attribuita la controversia riguardante l'accertamento della sussistenza, o meno, di un diritto di prelazione sul cespite in favore del suo detentore.

Egualmente allineata è la giurisprudenza in tema di riparto giurisdizionale nelle controversie concernenti gli alloggi di edilizia economica e popolare, a mente della quale sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Chiave di lettura che ha trovato conferma in Sez. 1, n. 17201/2016, Sambito, Rv. 640903, che ne ha fatto conseguire la spettanza al giudice ordinario della controversia promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto locatizio, giacché la disciplina locale recata in relazione al subentro nell'assegnazione (nel caso, l'art. 12 della l.r. Lazio 6 agosto 1999 n. 12), non riservava all'Amministrazione alcuna discrezionalità al riguardo, configurando, pertanto, un diritto soggettivo.

Le decisioni da ultimo richiamate si iscrivono in un macrosettore, qual è quello dell'urbanistica ed edilizia, inevitabilmente esemplare sulle questioni di giurisdizione. In argomento, assumono un pregnante rilievo le precisazioni di Sez. U, n. 19914/2016, Bernabai, Rv. 641218: osserva la Corte che la convenzione urbanistica volta a disciplinare, con il concorso del privato proprietario dell'area, una delle possibili modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici, deve assimilarsi ad un accordo sostitutivo del provvedimento amministrativo, sicché le controversie che ne riguardano la formazione, la conclusione e l'esecuzione appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che non viene meno neppure in ipotesi di successivo atto di transazione emendativo della convenzione originaria, intercorso tra comune e parte privata, stante la stretta correlazione reciproca, oggettiva e soggettiva, tra questi esistente.

Più tradizionale, se si vuole, è il terreno arato da Sez. U, n. 02052/2016, Frasca, Rv. 638281, che spiegano come la domanda di risarcimento del danno del proprietario di un'area contigua a quella in cui è realizzata l'opera pubblica (nella specie, la linea ferroviaria dell'alta velocità) appartiene alla giurisdizione ordinaria quando, nella prospettazione dell'attore, fonte del danno non siano né l'an né il quomodo dell'opera progettata, ma le sue concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda, al contrario, su un comportamento della p.a., o del suo concessionario, che non sia semplicemente occasionato dall'esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione e, cioè, risulti necessario, considerate le sue caratteristiche in relazione all'oggetto del potere, al raggiungimento del risultato da perseguire.

Può essere peraltro utile accostare, sul punto, la ribadita conclusione di Sez. U, n. 25044/2016, Manna, Rv. 641778, secondo cui sull'occupazione usurpativa (nella specie, per sconfinamento nell'allargamento di una sede stradale da parte dell'ANAS, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità), la giurisdizione è ordinaria perché, vertendosi in materia urbanistico-espropriativa, il comportamento della p.a. è rimesso al sindacato del giudice amministrativo solo in presenza di un oggettivo collegamento con un esercizio del potere riconoscibile in termini di pubblica potestà. Così come è interessante menzionare altresì Sez. U, n. 25516/2016, Cirillo, Rv. 641786, che ha sottolineato come rientri nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia per pretesi danni causati da condotte allegate quali distorsive della concorrenza poste in essere da soggetti elargitori di aiuti di Stato (nel caso, il Comune di Milano e la società sua controllata per la gestione degli scali aeroportuali locali). Ciò in quanto una tale causa non attiene ad atti o a provvedimenti di erogazione di aiuti, né concerne il recupero delle somme già erogate per illeciti aiuti di Stato, uniche ipotesi a essere coperte da giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quale introdotta dalla legge 24 dicembre 2012 n. 234, all'art. 49, comma 2. La motivazione torna a sottolineare che la lettura costituzionalmente orientata del tessuto normativo esclude ogni ipotesi ricostruttiva della giurisdizione anche esclusiva del giudice amministrativo che inerisca a fattispecie svincolate dall'esercizio del potere amministrativo, non importando, pertanto, alcun intreccio tra diritti privati, da una parte, e interessi e poteri pubblici dall'altra.

I classici criteri discretivi fondati, per così dire, sulla qualità del collegamento tra il fatto e l'esercizio del potere pubblico, tendono storicamente a tornare in varie declinazioni anche motivazionali.

Altro esempio sovrapponibile è quello di Sez. U, n. 00692/2016, Ragonesi, Rv. 637869, secondo cui le domande proposte dal concessionario del diritto di superficie su area p.e.e.p. nei confronti del Comune inadempiente per la risoluzione della concessione-contratto e il risarcimento dei danni, appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, restando al giudice ordinario le domande proposte dal concessionario medesimo nei confronti dei titolari di rapporti privatistici collegati alla concessione e tuttavia estranei all'attività amministrativa in senso proprio (nella specie, con il direttore dei lavori e la banca finanziatrice dell'opera).

Assumono eguali cadenze argomentative Sez. U, n. 03057/2016, Di Iasi, Rv. 638402, che affrontavano una domanda per l'accertamento della persistenza del diritto a un contributo pubblico stanziato per il finanziamento di un programma d'investimento relativo alla realizzazione di un immobile per destinazione commerciale. La fattispecie risulta esemplare poiché il giudice ordinario aveva declinato la giurisdizione rilevando che il finanziamento era stato accordato nell'ambito di un "patto territoriale" che costituiva una forma di programmazione negoziata – oramai tipica nella prassi amministrativa – sicché residuava un margine di discrezionalità della P.A. in merito all'attribuzione del contributo già riconosciuto. Il tribunale amministrativo, dal canto suo, aveva promosso regolamento d'ufficio osservando che il discrimine tra le giurisdizioni doveva fondarsi, per un verso, sulla fase procedimentale in cui si inserisce l'atto che ha originato la controversia, al fine di verificare se attenga a quella del riconoscimento del contributo o a quella del controllo sulle modalità di utilizzazione dello stesso da parte del soggetto fruitore, e, per altro verso, sul grado di discrezionalità che impronta il potere volta a volta esercitato, con la conseguenza che, nel caso, poiché l'atto che aveva dato origine alla controversia atteneva alla fase esecutiva del rapporto di finanziamento e alla rigida applicazione delle specifiche condizioni di legge giustificatrici della revoca, sussistevano le condizioni per l'affermazione della giurisdizione del giudice ordinario. La Corte ha confermato la necessità di distinguere la fase procedimentale di valutazione della domanda di concessione, nella quale la legge – salvi i casi in cui riconosca direttamente il contributo o la sovvenzione – attribuisce alla P.A. il potere di riconoscere il beneficio, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati, con apprezzamento discrezionale, da quella successiva alla concessione del contributo, in cui il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase di esecuzione del rapporto di sovvenzione ed all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione. Nella motivazione si ricorda che la giurisprudenza ha chiarito come la descritta regola possa soffrire deroghe, ad esempio nei casi in cui la mancata erogazione consegua all'esercizio di poteri di carattere autoritativo, espressione di autotutela della pubblica amministrazione, sia per vizi di legittimità, sia per contrasto, originario o sopravvenuto, con l'interesse pubblico. Tuttavia rimane in ogni caso attribuita alla cognizione del giudice ordinario ogni fattispecie che prenda le mosse dall'accertato inadempimento alle condizioni imposte in sede di erogazione del contributo, una volta che il finanziamento risulti riconosciuto direttamente dalla legge e all'amministrazione sia demandato solo il compito di verificare l'effettiva esistenza dei relativi presupposti, senza poter procedere ad apprezzamenti discrezionali di sorta, nonché ogni fattispecie che riguardi la revoca della già concessa agevolazione per ragioni non attinenti a vizi dell'atto amministrativo, bensì comportamenti posti in essere dallo stesso beneficiario nella fase attuativa dell'intervento agevolato. In buona sostanza, nella controversia che verta sulla legittimità della revoca di un finanziamento pubblico a un soggetto privato, determinata dall'inadempimento, imputabile al beneficiario, delle prescrizioni indicate nell'atto concessorio, la giurisdizione del giudice ordinario deve essere ravvisata tutte le volte che la contestazione faccia esclusivamente richiamo alle inadempienze del percettore senza in alcun modo coinvolgere il legittimo esercizio dell'apprezzamento discrezionale.

Si tratta anche qui di ratio decidendi affatto dissimili a quelle spese da Sez. U, n. 15284/2016, De Chiara, Rv. 640700, in una controversia avente ad oggetto la restituzione di un suolo, ovvero il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del medesimo, occupato d'urgenza, per l'esecuzione di un intervento di edilizia residenziale pubblica, in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, ancorchè illegittima, nel caso perché priva dei termini iniziale e finale dei lavori e delle procedure di esproprio. Le Sezioni Unite hanno affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, stante il collegamento della realizzazione dell'opera fonte di danno con la dichiarazione di pubblica utilità, senza che potesse rilevare la qualità del vizio da cui sia affetta quest'ultima. E del resto, come hanno ribadito Sez. U, n. 08057/2016, Vivaldi, Rv. 639395, nelle materie di giurisdizione amministrativa esclusiva, l'azione risarcitoria per lesione dell'affidamento riposto sulla legittimità dell'atto amministrativo poi annullato in autotutela rientra nella cognizione del giudice amministrativo e non può essere proposta al giudice ordinario, poiché l'azione amministrativa illegittima – composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi – non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare, essendo controverso l'agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l'affidamento costituisce un riflesso come tale privo d'incidenza sulla giurisdizione.

La sistematica sopra variamente delineata non esclude possibili complementarità le cui sinergie evitano vuoti di tutela. In questo senso è interessante la pronuncia di Sez. U, n. 07949/2016, Vivaldi, Rv. 639283, secondo cui l'azione di restituzione della somma pagata in esecuzione di un lodo arbitrale dichiarato nullo, con sentenza confermata in sede di legittimità, per sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non rientra in quest'ultima giurisdizione, ma può essere esercitata davanti al giudice ordinario in modo autonomo. In questo caso, infatti, dev'essere assicurata l'effettività della tutela del solvens, a prescindere dalle vicende del giudizio di rinvio solo eventuale. D'altra parte, come ha chiarito la Corte, quando il giudizio di rinvio sia estinto o non più proponibile, viene meno la competenza funzionale del giudice del rinvio e l'azione restitutoria va proposta secondo le regole ordinarie e al giudice in base ad esse competente. L'autonomia dell'azione di restituzione nel ragionamento motivazionale è stata infine correlata al principio, consolidato, per cui il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una statuizione provvisoriamente esecutiva, poi riformata, nasce, ai sensi dell'art. 336 c.p.c., dal solo fatto della riforma, potendo essere fatta valere immediatamente, anche attraverso il procedimento monitorio.

Naturalmente non è detto che l'interesse fatto valere ricada nel perimetro di una giurisdizione. Ad esempio, come hanno avuto modo di specificare, in tema di danni da emotrasfusione, Sez. U, n. 02050/2016, Frasca, Rv. 638221, il rifiuto opposto dall'amministrazione all'istanza di transazione del danneggiato (prevista dagli artt. 33 della legge 9 novembre 2007 n. 222, 2, commi 362 e 362, della legge 24 dicembre 2007 n. 244, e 27-bis del decreto legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito dalla legge 24 giugno 2014 n. 114) non incide sul diritto soggettivo al risarcimento, ma sull'interesse all'osservanza della normativa secondaria concernente la procedura transattiva, sicché l'impugnazione del diniego non rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ma in quella del giudice amministrativo, cui poi spetta decidere, nel merito, se l'atto negativo leda un vero e proprio interesse legittimo o, come pure possibile, un interesse semplice e dunque non giustiziabile.

In un certo senso al capo opposto rispetto a quest'eventuale carenza di giustiziabilità da vagliare nel merito, sta il difetto assoluto di giurisdizione sull'impugnazione degli atti dell'amministrazione affidati ai meccanismi della responsabilità politica. È il caso di Sez. U, n. 04190/2016, Petitti, Rv. 638595, relativa ai provvedimenti con i quali il presidente dell'Assemblea regionale siciliana scioglie e ricostituisce una commissione legislativa permanente, trattandosi dell'esercizio della potestà di autorganizzazione dell'organo legislativo regionale.

Fattispecie che può essere affiancata incidentalmente con altra, in qualche modo speculare, che lascia emergere come le scelte di merito dell'amministrazione possano al contrario ricadere nella giurisdizione ordinaria quando l'azione sia nella cornice propria del diritto privato. In questa latitudine Sez. U, n. 19676/2016, Frasca, Rv. 641090, iscrivono la controversia concernente l'impugnazione della deliberazione della giunta comunale recante la nomina del rappresentante del comune nel consiglio di amministrazione di una società per azioni, anche se interamente partecipata da enti locali, stante la natura di diritto soggettivo della posizione oggetto di contestazione oltre, logicamente, l'assenza di una specifica attribuzione al giudice amministrativo, per tale fattispecie, di una giurisdizione su diritti.

Per completezza, quanto invece al difetto di sindacabilità giurisdizionale su alcuni atti dell'articolazione pubblica, sia da parte del giudice ordinario che di quello amministrativo, va dato infine conto di un duplice arresto, quello di Sez. U, n. 24102/2016, Perrino, Rv. 641766, e Sez. U, n. 24624/2016, D'Ascola, Rv. 641768. Nel primo caso, a fronte della domanda di cassazione delle ordinanze con cui l'Ufficio centrale per il referendum aveva ammesso alcune richieste referendarie ex art. 138 Cost., poi oggetto del d.P.R. d'indizione, la Corte, rilevando che non si trattava di atto giurisdizionale, ha negato la giustiziabilità sollecitata, tanto più costituendo, l'Ufficio in parola, un'articolazione interna della medesima Corte. Nella seconda fattispecie, la domanda mirava all'annullamento degli atti contenenti le richieste del medesimo referendum, presentati all'Ufficio centrale, e dello stesso d.P.R. d'indizione. Qui la Corte, ricollegandosi alla pronuncia appena precedente, ha osservato che se non è sindacabile, per via della sua natura, l'atto al quale risale la violazione denunciata, ancor meno potrà esserlo il decreto presidenziale che lo recepisce. Il contenuto di quest'ultimo provvedimento, infatti, è la risultante di una sequenza di atti che va dalla comunicazione al Governo dell'approvazione ex art. 138, commi 1 e 3, Cost., alla richiesta di referendum, agli adempimenti delle camere nell'ipotesi di richiesta proveniente da membri di una di esse, al deposito degli atti presso la Corte di cassazione, fino all'indizione su deliberazione del Consiglio dei Ministri. In una parola, ha ragionato il Collegio, si è di fronte a una sequenza procedimentalizzata, e vincolata, indispensabile per l'ultimazione del processo di revisione costituzionale, in cui l'opera dei poteri dello Stato è connessa e indipendente sicché sfugge alla qualificazione di attività amministrativa, soggetta al controllo giurisdizionale, e lascia margini esclusivamente per l'impugnazione per conflitto di attribuzione, confermato dall'assegnazione della natura definitiva all'ordinanza resa dall'Ufficio per il referendum, contenuta nell'art. 32 della legge 25 maggio 1970 n. 352.

5. Perimetro della giurisdizione contabile.

La casistica appena esaminata offre latamente il destro per l'analisi di quella in tema di giurisdizione della Corte dei conti, nell'ambito della quale si lasciano innanzi tutto apprezzare Sez. U, n. 10319/2016, Scarano, Rv. 639675. L'arresto precisa che la nozione di atto politico va intesa in senso decisamente restrittivo. L'area dell'immunità giurisdizionale risulta pertanto esclusa quando l'atto sia vincolato ad un fine desumibile dal sistema normativo, anche se si tratti di atto emesso nell'esercizio di ampia discrezionalità amministrativa ma non esplicativa, tipicamente, di funzioni legislative. La tematica era quella della cartolarizzazione degli immobili appartenenti allo Stato e agli enti pubblici disciplinata dal decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito dalla legge 23 novembre 2001 n. 410. La fattispecie concreta era data da una delibera di giunta regionale che, in un'operazione appunto di cartolarizzazione, non prevedeva una soglia minima di prezzo. La Corte ha confermato la decisione del giudice contabile che, nell'affermare la propria giurisdizione, aveva correttamente ritenuto l'inconfigurabilità della delibera in parola quale atto politico, stante l'insussistenza di alcuna libertà nell'individuazione degli interessi e dei fini pubblici che caratterizza gli atti politici.

Si è più sopra visto che, talvolta, il rapporto tra le differenti giurisdizioni si pone in termini di complementarità più che di confine, a rafforzamento delle tutele che l'ordinamento appresta. In tema di giurisdizione contabile, ipotesi tipica è quella dell'art. 1, comma 174, della legge 23 dicembre 2005 n. 266, in cui è stabilito che al fine di realizzare una più efficace tutela dei crediti erariali, la previsione dell'articolo 26 del regolamento di procedura di cui al regio decreto 13 agosto 1933 n. 1038, secondo cui nei procedimenti contenziosi davanti alla Corte dei conti si osservano le norme del codice di rito civile in quanto applicabili, si interpreta nel senso che il procuratore regionale dispone di tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro VI, titolo III, capo V, del codice civile. Sez. U, n. 14792/2016, Frasca, Rv. 640440, hanno puntualizzato che la spettanza al pubblico ministero contabile dell'esercizio dell'azione revocatoria innanzi al relativo giudice, non esclude la sussistenza della legittimazione dell'amministrazione danneggiata, come per qualsiasi altro creditore, ad esperire l'omologa azione davanti al giudice ordinario, ancorchè sulla base della stessa situazione creditoria legittimante l'azione di quel p.m., e i problemi di coordinamento nascenti da tale fenomeno di colegittimazione all'esercizio di quell'azione a due soggetti diversi e davanti a distinte giurisdizioni vanno esaminati e risolti, da ciascuna delle giurisdizioni eventualmente investite, nell'ambito dei poteri interni ad ognuna di esse, non riguardando una questione di individuazione della giurisdizione stessa.

Altri profili di novità assoluta innervano Sez. U, n. 24737/2016, Frasca, Rv. 641770, che hanno affrontato il tema della giurisdizione riguardo alle controversie risarcitorie contro amministratori e dipendenti di una centrale di committenza regionale (nella specie, della regione Piemonte), ex art. 1, comma 455, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, avente forma societaria, per i danni arrecati da loro condotte al patrimonio sociale. La Corte ha ricordato la propria giurisprudenza con cui, nelle azioni di responsabilità per danni cagionati da organi o dipendenti di società partecipate dallo Stato o altri enti pubblici, si è affermato che il danno al patrimonio sociale, considerata la natura di ente privato della società e l'autonomia giuridica e patrimoniale di essa rispetto al socio pubblico, comporta la sussistenza della giurisdizione ordinaria. Ciò in quanto manca un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, e anche un danno diretto a quest'ultimo. Diversamente, sussiste l'attribuzione al giudice contabile quando l'azione di responsabilità miri a un risarcimento del pregiudizio arrecato, come nel caso del danno all'immagine, direttamente al socio pubblico, non, cioè, quale riflesso della perdita di valore della partecipazione sociale conseguente al danno incidente sulla società. Come ad eguale conclusione si giunge quando l'azione si fondi sul comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare o abbia male esercitato i diritti di socio. A questo importante quadro generale si sono affiancate quelle che possono essere considerate eccezioni. La prima, derivante dalla peculiarità di società soggette a un regime pubblicistico che le qualifica più della formale veste societaria: tipicamente, i casi di RAI s.p.a., ENAV s.p.a e ANAS s.p.a. La seconda per le società c.d. in house perché, in qualche modo analogamente, sono costituite da enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, con attività prevalente a favore dei partecipanti e soprattutto assoggettate a forme di controllo analogo a quello degli enti pubblici sui loro uffici. Nella fattispecie sottesa all'arresto ora richiamato, le Sezioni unite hanno ritenuto che la centrale di committenza costituita in forma societaria registrava univoci indici per ritenere di essere in presenza di un soggetto solo formalmente societario ma, per origine e modalità di costituzione avvenute ex lege, per struttura organizzativa e operativa, emergente dalla legge regionale che ne aveva disposto la costituzione e dal modo in cui le sue prescrizioni risultavano trasfuse nello statuto, doveva indurre alla qualificazione quale sostanziale ente pubblico regionale. In altri termini, un caso rientrante nella prima tipologia delle sopra menzionate eccezioni.

La giurisprudenza nomofilattica concernente la giurisdizione contabile, per il resto, ha trovato la sua più significativa casistica in tema di contributi comunitari e previdenza.

Sez. U, n. 01515/2016, Virgilio, Rv. 638249, hanno esplicitato che configura un'ipotesi di danno erariale e rientra pertanto nella giurisdizione della Corte dei conti ex art. 103, comma 2, Cost., l'erogazione di contributi comunitari avvenuta sulla base di dichiarazioni non veritiere in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge (nella specie si trattava dei sostegni, previsti per il settore della zootecnica, conseguenti alle indicazioni di un proprietario di allevamento).

Diversamente, Sez. U, n. 15541/2016, Napoletano, Rv. 640696, hanno invece escluso da tale giurisdizione la controversia inerente a una pensione consortile disciplinata dalla contrattazione collettiva per dipendenti di consorzi di bonifica. Il Collegio ha osservato che se è vero quella costituisce una forma equivalente di previdenza, non è però obbligatoria nonostante l'efficacia erga omnes attribuita per d.P.R. al contratto collettivo di settore. Né possiede altre connotazioni per essere considerata sostitutiva o integrativa. Con la conseguenza che, non essendo configurabile un trattamento pensionistico a carico dello Stato, la controversie appartiene alla giurisdizione ordinaria.

6. Ambito della giurisdizione tributaria.

L'ermeneutica di legittimità in materia di giurisdizione tributaria trova le pronunce più rilevanti nella messa a fuoco dei rapporti con l'area riservata al giudice ordinario. Sez. U, n. 06451/2016, Di Iasi, Rv. 639112, hanno escluso riflessi tributari nella domanda dell'appaltatore avverso il committente per rivalsa dell'imposta sul valore aggiunto correlata al corrispettivo dell'appalto. Pretesa che rimane prettamente privatistica ancorché sorga questione circa la corrispondenza tra le somme versate a titolo d'imposta e quelle dovute in relazione alle aliquote in concreto applicabili. Ciò perché la statuizione su questo aspetto non può coinvolgere in alcun modo il rapporto tra il contribuente e l'amministrazione finanziaria, risolvendosi in un tipico accertamento incidentale nel contesto del rapporto obbligatorio di diritto privato che vede aggiungere l'obbligazione ex lege all'ammontare della prestazione in denaro pattuita.

Analogamente Sez. U, n. 01837/2016, Iacobellis, Rv. 638222, hanno osservato come soggetto passivo di un'imposta come quella di consumo per il gas metano è il fornitore, che trasla l'onere all'utente in virtù di un fenomeno propriamente economico, sicché la domanda di ripetizione proposta dal consumatore verso il fornitore per quanto indebitamente pagato a causa della mancata applicazione dell'aliquota ridotta per usi industriali, non è un'azione tributaria di rimborso, devoluta alla giurisdizione del giudice tributario, ma un'azione privatistica, rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario.

E sempre al giudice ordinario spetta giudicare sulla lite tra privati, o anche tra privati e amministrazione, avente per oggetto l'esistenza ed estensione del diritto dominicale, nella quale le risultanze indiziarie catastali possono comunque essere utilizzate con circoscritta valenza probatoria. È logico, d'altro canto, e lo precisano sul punto Sez. U, n. 02950/2016, Virgilio, Rv. 638359, che qualora tali risultanze siano contestate per ottenerne la variazione, seppure al fine di adeguarle all'esito di azioni come la rivendica o l'accertamento di confini, la giurisdizione torna ad essere sul punto quella tributaria in ragione della diretta incidenza degli atti catastali sui correlati tributi.

In termini più generali, infine, Sez. U, n. 25977/2016, Perrino, Rv. 641794, hanno precisato che l'adempimento dell'obbligo tributario da parte del terzo non sposta la giurisdizione sulla domanda di rimborso, non essendo ravvisabile un indebito di diritto comune. Infatti, l'estinzione dell'obbligazione ex art. 1180, c.c., non attribuisce automaticamente al terzo un titolo per agire direttamente nei confronti del debitore, non essendo ravvisabile un'ipotesi di surrogazione, neppure legale ex artt. 1203, n. 5, e 2036, comma 3, c.c., posta la consapevolezza di adempiere un debito proprio. Il che conferma la giurisdizione tributaria, sussistendo contestazione sull'esistenza del debito da rimborso, sulle modalità e procedure per ottenerlo.

Sul versante dei rapporti con la giurisdizione amministrativa, d'altro canto, non può omettersi di rammentare l'importante precisazione di Sez. U, n. 25515/2016, Cirillo, Rv. 641785, che ha stabilito la sussistenza della giurisdizione tributaria sulla c.d. ecotassa, ossia sul tributo, previsto dall'art. 3, commi 24 e seguenti, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, dovuto alle regioni per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, a carico del gestore dell'impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento. La questione era giunta dal un conflitto negativo sollevato dal giudice amministrativo, ed è stata decisa escludendo si tratti di un'erogazione per prestazione complessa o a titolo di utenza.

7. Giurisdizione e diritto internazionale.

In materia di diritto internazionale privato la giurisprudenza della Corte di cassazione ha registrato significativi arresti innanzi tutto in tema di competenza. In ottica processuale Sez. U, n.19473/2016, Travaglino, Rv. 641093, hanno ribadito, in linea con altri precedenti e soprattutto con la Corte di giustizia comunitaria, l'esegesi dell'art. 24 del regolamento CE del Consiglio n. 44/2001, del 22 dicembre 2000, ora riprodotto dall'art. 26 del Regolamento U.E. del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1215/2012, del 12 dicembre 2012, che l'ha sostituito dal 10 gennaio 2015. Ha trovato così conferma l'interpretazione nel senso che il giudice adito deve dichiararsi competente qualora il convenuto si costituisca in giudizio e non sollevi un'esplicita eccezione di difetto di competenza giurisdizionale, poiché tale costituzione configura una fattispecie di proroga tacita della giurisdizione. La ricostruzione, come spiegato in motivazione, risponde all'esigenza posta a fondamento della regolamentazione uniforme dello spazio giudiziario interstatuale civile, onde evitare l'insorgere e il protrarsi di situazioni di incertezza in ordine alla legittima predicabilità della competenza giurisdizionale del giudice adito, e risulta in sintonia con il principio dispositivo del processo, lasciando alla parte la scelta di contestare tempestivamente la legittimità della scelta del foro operata dalla controparte.

Fattispecie singolare ma dall'importante vocazione e risvolto generale è quella approfondita da Sez. U, n. 17675/2016, Chiarini, Rv. 640688, dettata in tema di trasporto internazionale. Si trova statuito che la clausola, contenuta nella polizza di carico predisposta dal vettore sulla base di modelli tipo usati dagli operatori commerciali e recepiti dai contraenti per disciplinare il loro rapporto, che espressamente stabilisca la competenza giurisdizionale esclusiva di un giudice straniero e l'applicazione della sua legge nazionale, è valida, ai sensi degli artt. 17, lett. c), della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, e 23 del Regolamento CE del Consiglio n. 44/2001, posto che l'autonomia privata legittimamente delocalizza il rapporto – come si esprime il Collegio – dalla disciplina degli specifici ordinamenti statuali a favore di standard normativi internazionalmente accettati.

In ambiente fallimentarista, vanno ricordate Sez. U, n. 03059/2016, Didone, Rv. 638401. È stata l'occasione per riaffermare l'orientamento finalistico alla luce del quale l'istanza di fallimento presentata nei confronti di una società di capitali, già costituita in Italia, che abbia trasferito la sede legale all'estero dopo il manifestarsi della crisi d'impresa, rientra nella giurisdizione del giudice italiano solo se il trasferimento di sede non sia stato seguìto dal trasferimento effettivo dell'attività imprenditoriale, in modo da risolversi in un atto meramente formale.

Da ultimo si segnala Sez. U, n. 15812/2016, Amendola, Rv. 640605, che ha ripreso l'importante tema dell'immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii. È stata data continuità alla travagliata conclusione per cui si tratta di una prerogativa e non di un diritto, riconosciuta da norme consuetudinarie internazionali la cui operatività è però preclusa, nel nostro ordinamento, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 238 del 2014, per i crimini compiuti in violazione di norme internazionali di ius cogens, in quanto tali lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali. Ha trovato quindi un'ulteriore conferma nomofilattica un dato da considerare acquisito che rappresenta, come noto, la prima applicazione, in Italia, della cd. dottrina dei controlimiti.

PARTE NONA IL PROCESSO

  • spese processuali
  • procedura civile
  • competenza per materia
  • competenza territoriale
  • azione civile
  • interesse ad agire

CAPITOLO XXXIV

IL PROCESSO IN GENERALE

(di Francesca Miglio, Andrea Penta )

Sommario

1 Il giudice. - 1.1 Competenza per materia. - 1.1.a Competenza della sezione specializzata in materia di impresa. - 1.1.b Competenza della sezione specializzata agraria. - 1.2 Competenza per territorio. - 1.2.a Foro del consumatore. - 1.2.b Azione di responsabilità ex art. 146, comma 2, l.fall. - 1.2.c Competenza territoriale sulla querela di falso proposta in appello. - 1.2.d Competenza per territorio derogabile ed accordo endoprocessuale. - 1.2.e Competenza per territorio inderogabile. - 1.3 Questione di giurisdizione e questione di competenza. Pregiudizialità. - 1.4 Regolamento di competenza. - 1.5 Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. - 1.5.a Domanda ed eccezione riconvenzionale. - 1.5.b Continenza. - 1.5.c Connessione. - 1.6 Riassunzione della causa dinanzi al giudice competente. - 1.7 Astensione e ricusazione. - 2 Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio. - 3 Le parti e i difensori. - 3.1 Le parti. Rappresentanza e capacità processuale. - 3.2 Sostituzione processuale. - 3.3 I difensori. - 4 Le spese processuali. - 4.1 Responsabilità aggravata. - 5 Principio della domanda e rilevabilità di ufficio delle cause di nullità. - 6 Interesse ad agire. - 7 Legittimazione ad agire. - 8 Il principio del contraddittorio. - 9 Pluralità di parti. - 9.1 Litisconsorzio necessario. - 9.2 Litisconsorzio facoltativo. - 9.3 Intervento volontario. - 9.4 Intervento per ordine del giudice. - 9.5 Successione di parti. - 10 I principi generali. L'art. 112 c.p.c. - 10.1 La regola del tantum devolutum quantum appellatum. - 10.2 L'omessa pronuncia. - 11 Il principio di non contestazione. - 12 La valutazione delle prove. - 13 Le forme degli atti e dei provvedimenti. - 13.1 Il contenuto della sentenza. - 13.2 La decisione a seguito di trattazione orale. - 14 La pubblicazione e comunicazione della sentenza. - 15 Le comunicazioni. - 16 Le notificazioni. - 16.1 Le varie fattispecie di notificazione. - 16.2 Le notificazioni presso il domiciliatario. - 17 La nullità delle notificazioni. - 18 I termini processuali. - 19 La nullità degli atti. - 20 Rilevabilità e sanatoria della nullità. - 21 I vizi di costituzione del giudice. - 22 L'estensione della nullità.

1. Il giudice.

La Suprema Corte è tornata ad affermare o a ribadire importanti principi in ordine agli istituti che disciplinano l'individuazione del giudice competente e ne garantiscono la imparzialità.

1.1. Competenza per materia.

1.1.a. Competenza della sezione specializzata in materia di impresa.

Secondo Sez. 6-1, n. 13956/2016, Scaldaferri, Rv. 640356, va attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa la controversia introdotta da un amministratore nei confronti della società, riguardante le somme da quest'ultima dovute in relazione all'attività esercitata, deponendo in tal senso, oltre alla ratio dell'art. 3, comma 2, lett. a), del decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, in quanto volto a concentrare tutta la materia societaria innanzi al giudice specializzato, anche la sua formulazione letterale, la quale, facendo riferimento alle cause ed ai procedimenti relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario, si presta a comprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la società ed i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l'attività gestoria svolta dagli amministratori nell'espletamento del rapporto organico ed i diritti ad essi spettanti in forza del rapporto contrattuale che intercorre con la società.

1.1.b. Competenza della sezione specializzata agraria.

Ha affermato Sez. 6-3, n. 07093/2016, De Stefano, Rv. 639541, che, quando a fronte di domanda di accertamento negativo sull'esistenza di un valido contratto agrario, perché posto in essere da un comproprietario dei beni affittati senza il consenso dei restanti comproprietari, il convenuto spieghi domanda riconvenzionale di accertamento di un valido rapporto agrario nei confronti del comproprietario non attore, con ampliamento del thema decidendum anche nei confronti degli originari attori, la competenza per materia sull'accertamento positivo o negativo del rapporto agrario, di carattere trilaterale, impone, salvo che la domanda riconvenzionale risulti prima facie infondata, la rimessione dell'intera controversia alla sezione specializzata agraria, inerendo entrambe le pretese all'accertamento della natura dell'unico rapporto, con conseguente nesso pregiudicante per incompatibilità.

Sez. 6-1, n. 25535/2016, Genovese, in corso di massimazione, ha poi ritenuto che la competenza della sezione specializzata va affermata anche nei casi di proposizione di domanda di accertamento di una ipotesi di concorrenza sleale nella quale la lesione dei diritti riservati sotto forma di know how, ossia di informazioni aziendali e di processi ed esperienze tecnico – industriali e commerciali, sia, in tutto o in parte, direttamente o indirettamente, elemento costitutivo o relativo all'accertamento della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale.

1.2. Competenza per territorio.

1.2.a. Foro del consumatore.

Sez. 6-1, n. 14090/2016, Rv. 640363, ha ritenuto che la disciplina del foro del consumatore non sia applicabile alle controversie relative ai finanziamenti di importo complessivo superiore ad euro settantacinquemila o garantiti da ipoteca su beni immobili.

1.2.b. Azione di responsabilità ex art. 146, comma 2, l.fall.

Sull'argomento è intervenuta Sez. 1, n. 17197/2016, Ferro, Rv. 641043, secondo la quale l'azione di responsabiltà esercitata dal curatore a sensi dell'art. 146, comma 2, l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2932-2933 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, con la conseguenza che, trattandosi di causa relativa ad obbligazioni risarcitorie, siano esse di natura contrattuale o extracontrattuale, ai sensi dell'art. 20 c.p.c. la competenza territoriale si determina, facoltativamente, anche in base al luogo in cui è stato posto in essere l'illecito su cui si fonda la domanda.

1.2.c. Competenza territoriale sulla querela di falso proposta in appello.

Ha ritenuto Sez. 6-2, n. 13032/2016, Lombardo, Rv. 640180, che la competenza territoriale sulla querela di falso proposta nel giudizio di appello appartiene al foro generale della persona, mancando una specifica disposizione normativa sulla forza attrattiva della causa di merito.

1.2.d. Competenza per territorio derogabile ed accordo endoprocessuale.

Ha affermato Sez. 6-3, n. 22869/2016, Rubino, in corso di massimazione, che per ritenere sussistente un accordo endoprocessuale sulla competenza territoriale disponibile, atto a radicare la competenza del giudice concordemente indicato, è necessaria una manifestazione espressa delle parti interpretabile inequivocamente quale scelta concorde e consapevole di proseguire il giudizio dinanzi un diverso ufficio giudiziario individuato di comune accordo, non essendo sufficiente, a questo scopo, che le stesse abbiano fornito una o più indicazioni materialmente e fortuitamente coincidenti nell'eccepire la incompetenza del giudice adito e nell'indicare il giudice ritenuto competente.

Peraltro, l'art. 38, comma 2, c.p.c. può trovare applicazione solo in tema di competenza per territorio derogabile, mentre, ove sia sollevata un'eccezione di incompetenza per materia, per valore o per territorio inderogabile, l'ordinanza che l'accoglie (e che potrebbe anche essere pronunciata d'ufficio) ha natura decisoria, indipendentemente dal fatto che la controparte vi abbia aderito, sicché il giudice erroneamente adito è tenuto a statuire anche sulle spese del procedimento.(In termini, Sez. 6-1, n. 11764/2016, Cristiano, Rv. 639916).

1.2.e. Competenza per territorio inderogabile.

Secondo Sez. 6-3, n. 12371/2016, Cirillo, Rv. 640298, tra le controversie attribuite dagli artt. 21 e 447-bis c.p.c., alla competenza territoriale inderogabile del giudice in cui si trova l'immobile sono comprese le controversie in materia di affitto di azienda, dovendo il giudice competente individuarsi con riferimento al luogo in cui è posta l'azienda del cui affitto si discute, non rilevando, pertanto, la sede legale della società conduttrice.

1.3. Questione di giurisdizione e questione di competenza. Pregiudizialità.

Sul tema in oggetto, Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637937, ha affermato che la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza – fondata sulle previsioni costituzionali riguardanti il diritto alla tutela giurisdizionale, la garanzia del giudice naturale precostituito per legge, i principi del giusto processo, l'attribuzione della giurisdizione a giudici ordinari, amministrativi e speciali ed il suo riparto tra questi secondo criteri predeterminati – può essere derogata solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, ad esempio, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell'instaurazione del giusto processo, oppure della formazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla giurisdizione. La medesima pronuncia, Rv. 637938, ha peraltro precisato che qualora una sentenza di primo grado, recante l'espressa affermazione della giurisdizione dell'adito giudice ordinario e la successiva declinatoria della sua competenza, sia stata impugnata con regolamento di competenza, da qualificarsi come facoltativo, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusta l'art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., può rilevarne d'ufficio il difetto da parte di quel giudice ai sensi dell'art. 37 c.p.c., attesi i concorrenti principi di pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, di economia processuale, di ragionevole durata del processo e l'attribuzione costituzionalmente riservata alla Suprema Corte di tutte le predette questioni, nonché il rilievo che la sua statuizione sulla sola questione di competenza risulterebbe inutiliter data se l'impugnazione riguardante la questione di giurisdizione ne sancisse la carenza per quel giudice.

1.4. Regolamento di competenza.

Sugli effetti della violazione del principio del principio del contraddittorio prima della pronuncia sulla competenza, si è pronunciata Sez. 6-1, n. 14245/2016, Scaldaferri, Rv. 640499, affermando che l' emissione della decisione senza previa instaurazione del contraddittorio può assumere rilevanza non quale violazione in sé considerata, ma solo ove la parte ricorrente evidenzi e dimostri che detta violazione abbia avuto l' effetto di impedirle di apportare al giudice elementi utili al fine di statuire sulla propria competenza, tali da condurre a diversa decisione. Peraltro, in sede di regolamento di competenza, Sez. 6-3, n. 03387/2016, Frasca, Rv. 639361, ha chiarito che la nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito non può, di per sé, incidere sulla legittimità della impugnata pronuncia, giustificandone la sua caducazione, dovendo invece la Corte disporre, nell'ordinanza regolatrice, ai sensi dell'art. 49, comma 2, c.p.c., la remissione in termini della parte irritualmente rimasta contumace per lo svolgimento delle difese davanti al giudice di merito, qualora quella parte ne faccia richiesta costituendosi davanti a quel giudice.

Quanto al controllo di legittimità sull'ordinanza di sospensione del processo, Sez. 6-1, n. 10880/2016, Ragonesi, Rv. 639854, ha affermato che, nell'ipotesi di sospensione del processo ordinata in applicazione di specifiche disposizioni normative, diverse dall'art. 295 c.p.c., qual è il caso di cui all'art. 16 del Regolamento CE n. 1/2003 del 16 dicembre 2002, allorché penda giudizio in materia di concorrenza innanzi alla Commissione Europea ovvero innanzi agli organi giudiziari europei avverso una decisione della Commissione nella detta materia, il controllo di legittimità in sede di regolamento necessario di competenza (ammissibile in forza del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 Cost., 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. e 6 della CEDU) va limitato alla verifica che la sospensione sia stata disposta in conformità dello schema legale di riferimento e senza che la norma che la giustifica sia stata abusivamente invocata, essendo rilevante, ai fini della sospensione ed alla stregua di un criterio di assoluta prudenza, anche la semplice possibilità di decisioni contrastanti.

In ordine ai provvedimenti impugnabili, Sez. 6-1, n. 02259/2016, Rv. 638578, Genovese, ha statuito che è ammissibile il regolamento di competenza, ad istanza di parte o d'ufficio, proposto avverso provvedimenti che non abbiano carattere definitivo e decisorio, quali devono ritenersi quelli emessi in sede di volontaria giurisdizione, aventi ad oggetto i diritti di cui all'art. 317-bis c.c., anche ove pronuncino solo sulla competenza. attesa la necessità di garantire ai titolari dei diritti che ne chiedono il riconoscimento una risposta pronta e sicura del giudice di legittimità circa l'applicazione delle regole e dei criteri sulla competenza.

In materia di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 1, n. 01372/2016, Nazzicone, Rv. 638491, osserva che la sentenza con cui il giudice dichiara l'incompetenza territoriale non comporta anche la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull'opposizione, ma contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, sicché quella che trasmigra innanzi al giudice ad quem deve considerarsi non più, propriamente, una causa di opposizione a decreto ingiuntivo (che più non esiste), bensì un ordinario giudizio di cognizione concernente l'accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio. Tale pronuncia, peraltro, decidendo solo in ordine alla competenza ed alle spese, deve essere impugnata esclusivamente con il regolamento di competenza di cui all'art. 42 c.p.c., anche se emessa in grado di appello.

Sviluppa il tema della decisione implicita sulla competenza Sez. 6-3, n. 18535/2016, Frasca, in corso di massimazione, secondo la quale, nel regime della decisione sulla questione di competenza introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, qualora, in presenza di eccezione di incompetenza, il giudice inviti le parti a precisare le conclusioni, sia a norma del primo comma dell'art. 187, sia a norma del secondo e del terzo comma del citato articolo, e quindi, trattenuta in decisione la causa, la rimetta con ordinanza sul ruolo istruttorio ammettendo le prove richieste dalle parti sul merito e disponendo la prosecuzione del giudizio, tale ordinanza, sia che si pronunci affermativamente sulla competenza, sia che rimanga silente sulle questioni di competenza , integra in ogni caso – a norma del primo comma dell'art. 279 c.p.c. – una decisione affermativa sulla competenza (nel secondo per implicazione), che è immediatamente impugnabile con il regolamento di competenza ai sensi del'art. 42 c.p.c. Ne consegue che se detta ordinanza non venga impugnata con il regolamento necessario nel termine di legge, la questione di competenza risulta non più discutibile e, pertanto, il giudice non ne è più investito, con la conseguenza che, se egli torni successivamente ad esaminare la questione e declini la competenza, la relativa ordinanza è perciò solo illegittima.

1.5. Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione.

1.5.a. Domanda ed eccezione riconvenzionale.

Sez. 2, n. 04133/2016, Criscuolo, Rv. 639413, ribadendo il principio secondo il quale la compensazione può assumere il carattere di eccezione riconvenzionale, qualora la deduzione del controcredito abbia il solo scopo di paralizzare l'avversa pretesa, ovvero quello di domanda riconvenzionale, allorché miri ad ottenere una pronuncia di condanna nei confronti dell'altra parte, ha precisato che, nel primo caso, la stessa, anche se implica un ampliamento del thema decidendum, è proponibile in appello ai sensi dell'art. 345 c.p.c. (nella formulazione antecedente alla legge 26 novembre 1990, n. 353, applicabile ratione temporis).

Nella stessa materia, Sez. 3, n. 21472/2016, Tatangelo, in corso di massimazione, ha precisato che nell'ipotesi in cui la domanda riconvenzionale risulti inammissibile per motivi processuali, ciò nonostante la medesima difesa deve essere presa in considerazione come eccezione, non sussistendo limiti al possibile ampliamento del tema della controversia da parte del convenuto a mezzo di eccezioni, purchè vengano allegati a loro fondamento fatti o rapporti giuridici prospettati come idonei a determinare la estinzione o la modificazione dei diritti fatti valere dall'attore.

1.5.b. Continenza.

Nella materia in esame, Sez. 6-3, n. 10584/2016, Scrima, Rv. 640121, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 39, comma 2, c.p.c., il giudice che ravvisi la continenza tra una causa propostagli ed altra precedentemente instaurata dinanzi a un giudice diverso, deve verificare la competenza (per materia, territorio, derogabile e inderogabile, e valore) di quest'ultimo in relazione non soltanto alla causa da rimettergli ma anche a quella presso di lui già pendente, con indagine estesa a tutti i criteri di competenza; ne consegue che il giudice diverso, ove la causa venga davanti a lui riassunta, non potrà contestare il rapporto di continenza – facoltà concessa, invece, alla parte – ma potrà solo, ai sensi degli artt. 44 e 45 c.p.c., chiedere d'ufficio il regolamento di competenza ove ritenga la propria incompetenza per materia o per territorio inderogabile.

1.5.c. Connessione.

Sez. 6-1, n. 00654/2016, Scaldaferri, Rv. 638258, ha ritenuto che il rapporto esistente tra due giudizi, pendenti tra le stesse parti innanzi a differenti uffici giudiziari, in cui la speculare contrapposizione di domande non ne esaurisca l'oggetto, aggiungendosi ulteriori pretese che, pur se strettamente collegate alle prime, abbiano un titolo diverso, non è qualificabile in termini di litispendenza, né di continenza, rientrando, invece, nella più ampia nozione di connessione oggettiva di cui all'art. 40, comma 1, c.p.c.

In particolare, qualora il rapporto di connessione riguardi la causa di lavoro e la causa ordinaria introdotta dal socio di società cooperativa, l'impugnativa del licenziamento, accompagnata dalla domanda di accertamento della inesistenza o invalidità del rapporto associativo configurano un'ipotesi di connessione di cause, una con riflessi sul rapporto societario, l'altra su quello lavorativo, che determina la competenza del giudice del lavoro in forza dell'art. 40, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-L, n. 15798/2016, Mancino, Rv. 640686).

1.6. Riassunzione della causa dinanzi al giudice competente.

Il principio della translatio iudicii è stato applicato da Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641081, nel caso di appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o per grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. Le Sezioni Unite hanno ritenuto l'ammissibilità, in tal caso, dell'impugnazione, in quanto idonea ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente secondo il meccanismo dell'art. 50 c.p.c.

1.7. Astensione e ricusazione.

Secondo Sez. 3, n. 14655/2016, Ambrosio, Rv. 640587, il collegio che giudichi del ricorso per cassazione proposto avverso sentenza pronunciata dal giudice di rinvio può essere composto anche da magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, senza che sussista alcun obbligo di astensione a loro carico ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., in quanto tale partecipazione non determina alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice, e ciò a prescindere dalla natura del vizio che ha determinato la pronuncia di annullamento, che può consistere indifferentemente in un error in procedendo o in un error in iudicando, atteso che, anche in quest'ultima ipotesi, il sindacato è esclusivamente di legalità, riguardando l'interpretazione della norma ovvero la verifica del suo ambito di applicazione, al fine della sussunzione della fattispecie concreta, come delineata dal giudice di merito, in quella astratta.

Al contrario, Sez. 1, n. 02399/2016, Didone, Rv. 638471 precisa che, nel giudizio di opposizione previsto dagli artt. 18 e 19 l. fall. (nel testo previgente, applicabile ratione temporis), la sentenza emessa in primo grado dallo stesso collegio che ha dichiarato il fallimento non è affetta da nullità per vizio di costituzione del giudice, ma, avendo quel procedimento il carattere e la funzione sostanziale di un giudizio d'impugnazione di secondo grado, integra un'ipotesi di astensione obbligatoria di cui all'art. 51, n. 4, c.p.c., che la parte ha l'onere di far valere mediante tempestiva e rituale istanza di ricusazione ex art. 52 c.p.c., senza che, in mancanza, possa invocare, in sede di gravame, come motivo di nullità della decisione, la violazione, da parte del giudice, dell'obbligo di astenersi, neppure se deduca la tardiva conoscenza, oltre i termini ex art. 190 c.p.c., nel testo vigente ratione temporis, della composizione del collegio che l'ha pronunciata, atteso che le parti, alla stregua dell'art. 113 disp. att. c.p.c., sono in grado di avere contezza, prima della camera di consiglio, dei magistrati destinati a comporre il collegio e, quindi, di proporre rituale istanza di ricusazione.

2. Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio.

Sez. L, n. 01186/2016, Tria, Rv. 638390, ha ribadito che la consulenza tecnica d'ufficio è funzionale alla sola risoluzione di questioni di fatto che presuppongano cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicchè i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica dei fatti e la conformità al diritto di comportamenti, né, ove una tale inammissibile valutazione sia stata comunque effettuata (nella specie, quella relativa alla qualificazione della attività confacente alle attitudini dell'assicurato, di cui all'art. 1 della legge n. 222 del 1984, come attività usurante o stressante , o meno), di essa si deve tenere conto, a meno che non venga vagliata criticamente e sottoposta al dibattito processuale delle parti.

3. Le parti e i difensori.

3.1. Le parti. Rappresentanza e capacità processuale.

Sez. U, n. 04248/2016, D'Ascola, Rv. 638746, ha affermato che il difetto di rappresentanza processuale della parte può essere sanato in fase di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie, e, qualora la contestazione avvenga in sede di legittimità, la prova della sussistenza del potere rappresentativo può essere data ai sensi dell'art. 372 c.p.c.; tuttavia, qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l'onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacché sul rilievo di parte l'avversario è chiamato a contraddire.

Secondo Sez. 2, n. 01721/2016, D'Ascola, Rv. 638532, la verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed ex ante, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. Questo principio è stato enunciato in fattispecie in cui, in assenza della nomina di un curatore speciale, l'attività processuale concretamente svolta da una madre in favore del figlio minore (il quale, raggiunta la maggiore età, aveva proposto ricorso per cassazione, insieme alla madre, con il medesimo difensore che li aveva assistiti nei precedenti gradi del giudizio) è stata ritenuta non in conflitto di interessi.

3.2. Sostituzione processuale.

Interessanti applicazioni del principio di cui all'art. 81 c.p.c. si riscontrano nella materia societaria. In particolare, secondo Sez. 1, n. 10936/2016, Bernabai, Rv. 639796, nella società a responsabilità limitata, il singolo socio è legittimato, giusta l'art. 2476, comma 3, c.c., ad esercitare, come sostituto processuale, l'azione di responsabilità spettante alla società, nei cui confronti, pertanto, deve essere integrato il contraddittorio, quale litisconsorte necessaria. Diversamente, Sez. 2, n. 17691/2016, Falabella, Rv. 641008, osserva che nelle società in accomandita semplice, il socio accomandante può far valere il suo interesse al potenziamento ed alla conservazione del patrimonio sociale esclusivamente con strumenti interni, quali l'azione di responsabilità contro il socio accomandatario, la richiesta di estromissione di quest'ultimo per gravi inadempienze, l'impugnativa del rendiconto o la revoca per giusta causa dell'amministratore, mentre non è legittimato ad agire nei confronti dei terzi per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi fra questi ultimi e la società, non sussistendo un interesse proprio del socio accomandante, autonomo e distinto rispetto a quello della società.

3.3. I difensori.

Le decisioni di maggior rilievo hanno ad oggetto in modo particolare il mandato alle liti.

Secondo Sez. 5, n. 16758 /2016, Marulli, Rv. 641066, nel processo tributario la procura alle liti deve essere apposta sull'originale del ricorso, mentre non è necessario che figuri anche sulla copia notificata alla controparte, nella quale è sufficiente che compaia un'annotazione attestante la sua presenza sull'originale.

Nello stesso ambito, secondo Sez. L, n. 03487/2016, Manna A., Rv. 638964, è valida la procura speciale alle liti rilasciata per una serie di controversie purché caratterizzate da unitarietà di materia o collegate tra loro da specifiche e oggettive ragioni di connessione.

Sez. L, n. 13482 /2016, Doronzo, Rv. 640234, ha ritenuto che, in caso di mandante residente all'estero, la prova contraria, idonea a superare la presunzione di rilascio della procura ad litem in Italia, può essere desunta da vari elementi (quali l'assenza di ogni indicazione del luogo e della data di rilascio della procura, la pacifica stabile residenza della parte in un paese non della Comunità europea o la mancata dimostrazione di un suo ingresso in Italia), nonché dal comportamento processuale della parte e, in particolare, dalla mancata risposta all'interrogatorio formale deferito dalla controparte sulla circostanza del luogo in cui la procura venne sottoscritta, cui il giudice, secondo la sua prudente valutazione, può riconnettere valore di ammissione dei fatti dedotti.

In materia di procura generale alle liti rilasciata da organo di persona giuridica, Sez. 1, n. 01373/2016, Campanile, Rv. 638325, ha precisato che tale procura è valida anche dopo la cessazione o la sostituzione nella carica del suddetto organo, essendo un atto dell'ente e non dell'organo.

Sui poteri del difensore, Sez. U, n. 04909/2016, Scarano, Rv. 639107, ha affermato che la procura alle liti conferita in termini ampi ed omnicomprensivi (nella specie, "con ogni facoltà") è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia cd. impropria.

4. Le spese processuali.

Numerose sono state, nel 2016, le pronunce della Corte in materia di spese processuali.

In particolare, Sez. U, n. 01839/2016, Iacobellis, Rv. 638268, è intervenuta in tema di compensazione tra le parti, affermado che l'ampio dibattito in dottrina circa la ricorribilità per cassazione delle sentenze del giudice amministrativo su diritti, invocata al fine di assicurare l'uniforme interpretazione ed applicazione della legge alla luce dell'ampliamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, costituisce giusto motivo di compensazione nonostante la soccombenza del ricorrente che abbia impugnato una sentenza del Consiglio di Stato per motivi non concernenti la giurisdizione.

Nello stesso ambito, Sez. 3, n. 3438/2016, Tatangelo, Rv. 638889, ha statuito che nel regolare le spese di lite in caso di reciproca soccombenza, il giudice di merito deve effettuare una valutazione discrezionale, non arbitraria, ma fondata sul principio di causalità, che si specifica nell'imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali causati all'altra per aver resistito a pretese fondate, ovvero per aver avanzato pretese infondate, e nell'operare una ideale compensazione tra esse, sempre che non sussistano particolari motivi, da esplicitare in motivazione, per una integrale compensazione o comunque una modifica del carico delle spese in base alle circostanze di cui è possibile tenere conto ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c., nel testo temporalmente vigente. Sempre con riferimento alla motivazione della compensazione, secondo Sez. 6-5, n. 14411/2016, Iofrida, Rv. 640558, ai sensi dell'art. 92 c.p.c., nella formulazione vigente ratione temporis, le "gravi ed eccezionali ragioni", da indicarsi esplicitamente nella motivazione, che legittimano la compensazione totale o parziale, devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa e non possono essere espresse con una formula generica (nella specie, la particolarità della fattispecie) inidonea a consentire il necessario controllo.

Sui rapporti tra regolamentazione delle spese processuali e abuso del processo si è espressa, poi, Sez. 6-2, n. 2587/2016, Scalisi, Rv. 638828, secondo la quale, in tema di equa riparazione, configura abuso del processo la condotta di coloro che, avendo agito unitariamente nel processo presupposto, in tal modo dimostrando la carenza di interesse a diversificare le rispettive posizioni, propongano contemporaneamente, con identico patrocinio legale, distinti ricorsi per ottenere l'indennizzo ex lege n. 89 del 2001, così da instaurare cause inevitabilmente destinate alla riunione in quanto connesse per oggetto e titolo. In applicazione di tale principio, è stata confermata la sentenza di merito che, a seguito della riunione di distinti ricorsi presentati dal medesimo difensore, per conto di soggetti aventi la stessa posizione nel processo a quo, ha ritenuto il giudizio come unitario ab origine, liquidando le spese di lite con un importo unico.

Quanto alle cause con pluralità convenuti, secondo Sez. 6-2, n. 14118/2016, Falaschi, Rv. 640185, il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, si determina con riguardo a quanto dovuto dalla singola parte convenuta, che altrimenti sarebbe esposta per il compenso stabilito con riferimento all'importo dovuto da tutti i soggetti convenuti nello stesso giudizio per scelta del creditore.

Ancora, per Sez. 3, n. 06976/2016, Rossetti, Rv. 639448, la condanna in solido di più parti soccombenti alla rifusione delle spese di lite, ai sensi dell'art. 97 c.p.c., non è consentita quando i vari soccombenti abbiano proposto domande di valore notevolmente diverso, a nulla rilevando che tutti avessero un interesse comune all'accoglimento delle rispettive domande.

In contrasto con tale pronuncia, si è però espressa Sez. 3, n. 20916/2016, Barreca, in corso di massimazione, secondo la quale la condanna solidale al pagamento delle spese processuali nei confronti di più parti soccombenti può essere pronunciata non solo quando vi sia indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ma anche nel caso in cui sussista una mera comunanza di interessi, che può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute. La pronuncia in esame ha precisato che la condanna in solido, in tal caso, è consentita anche quando i soccombenti abbiano proposto domande di valore notevolmente diverso, essendo rimessa alla definizione dei rapporti interni ed alla eventuale azione di regresso tra condebitori la determinazione della parte di ciascuno.

4.1. Responsabilità aggravata.

Tra le pronunce in tale materia, si segnala Sez. 5, n. 18057/2016, Meloni, Rv. 641110, secondo cui va condannata, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso.

Quanto ai presupposti per l'applicabilità dell'art. 96 c.p.c., Sez. L, n. 07726/2016, Amendola, Rv. 639485, ha precisato che la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati.

Sez. 1, n. 17078/2016, Di Virgilio, Rv. 640913, ha ritenuto sussistente una fattispecie di responsbailità aggravata nella proposizione di un ricorso per dichiarazione di fallimento, al fine di ottenere il più rapidamente possibile il soddisfacimento di un credito.

Nello stesso ambito, Sez. 6-3, n. 03376/2016, Rossetti, Rv. 638887, ha ritenuto che, ai fini della condanna ex art. 385, comma 4, c.p.c., (applicabile ratione temporis), ovvero ex art. 96, comma 3, c.p.c., l'infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità, in quanto contrastanti con il diritto vivente e con la giurisprudenza consolidata, costituisce indizio di colpa grave così valutabile in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonchè con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illeicità dell'abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali.

Secondo Sez. 6-3, n. 01115/2016, Vivaldi, Rv. 638508, la domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall'art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all'agire od al resistere in giudizio, non esercitabile in via di azione autonoma.

In ordine alla natura della domanda ex art. 96 c.p.c., poi, Sez. 1, n. 01266/2016, Valitutti, Rv. 638319, ha ritenuto che l'istanza risarcitoria rivolta al giudice della causa del merito, investito dell'esclusiva competenza a liquidare il corrispondente danno, è improponibile ove si invochi la mera emissione di una pronuncia di condanna generica, altrimenti eludendosi, di fatto, quella competenza.

5. Principio della domanda e rilevabilità di ufficio delle cause di nullità.

Sez. 1, n. 08795/2016, Bernabai, Rv. 639560, ha affermato che il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare d'ufficio (o, comunque, a seguito di allegazione di parte successiva all'editio actionis), ove emergente dagli atti, l'esistenza di un diverso vizio di nullità, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario. In particolare, tale principio è applicabile nell'ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, in quanto, per la naturale forza espansiva riconnessa al principio generale, va riconosciuto al giudice il potere di rilevare d'ufficio la nullità di una delibera anche in difetto di un'espressa deduzione di parte o per profili diversi da quelli enunciati, purché desumibili dagli atti ritualmente acquisiti al processo, trattandosi di potere volto alla tutela di interessi generali dell'ordinamento, afferenti a valori di rango fondamentale per l'organizzazione sociale, che trascendono gli interessi particolari del singolo.

6. Interesse ad agire.

Sez. 2, n. 05551/2016, Matera, Rv. 639341, ha ritenuto ammissibile, con riguardo alle azioni di risarcimento del danno, sia in materia contrattuale che extracontrattuale, la domanda dell'attore rivolta unicamente ad una condanna generica, senza che sia necessario il consenso – espresso o tacito – del convenuto, costituendo essa espressione del principio di autonoma disponibilità delle forme di tutela offerte dall'ordinamento ed essendo configurabile un interesse giuridicamente rilevante dell'attore.

Con riferimento a specifiche fattispecie, degna di rilievo è Sez. L, n. 16626/2016, Amendola, Rv. 640848, secondo la quale il lavoratore non è titolare di un interesse ad agire in prevenzione rispetto a provvedimenti organizzativi datoriali solo potenzialmente lesivi della sua posizione giuridica, in quanto il datore di lavoro, nell'esplicazione della libera iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost., non è vincolato nei confronti della generalità dei dipendenti, né dagli obblighi generali di correttezza e buona fede derivano obbligazioni autonome nei suoi confronti.

È stato, al contrario, ritenuto sussistente l'interesse ad agire in caso di dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso del tempo, atteso che l'atto di recessso esplica i propri effetti sul rapporto intercorso tra le parti, ma non elide il diritto all'accertamento dell'invalidità del termine apposto al primo contratto di lavoro, permanendo l'interesse alle conseguenze di ordine economico che da tale nullità parziale scaturiscono (Sez. L, n. 01534/2016, Lorito, Rv. 638345).

7. Legittimazione ad agire.

In tema di legitimatio ad causam, Sez. U, n. 02951/2016, Curzio, Rv. 638372, esaminando le differenze tra legittimazione ad agire (intesa come diritto di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole) e concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, ha ribadito che le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall'attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti.

La questione rimessa alle Sezioni Unite riguardava, in particolare, il contrasto interpretativo emerso nella giurisprudenza delle sezioni civili in materia di contestazione della effettiva titolarità del rapporto controverso. Sul punto si erano infatti affermati un orientamento minoritario secondo il quale tale contestazione avrebbe dovuto qualificarsi come mera difesa ed un orientamento maggioritario, secondo il quale, al contrario, la contestazione della concreta titolarità del diritto sostanziale avrebbe configurato un' eccezione in senso tecnico, non rilevabile di ufficio (a differenza dell'eccezione di carenza di legittimazione ad agire) ma affidata alla disponibilità delle parti e da introdursi, dunque, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte.

A composizione del contrasto, le Sezioni Unite hanno affermato che la titolarità della posizione soggettiva, attiva e passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all'attore allegarla e provarla (Rv. 638371) e che la carenza di tale titolarità è rilevabile d'ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa (Rv. 638373).

Orientamento difforme dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, è stato espresso da Sez. L, n. 17092/2016, Lorito, Rv. 640784, secondo la quale l'effettiva titolarità attiva e passiva del rapporto controverso rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite, sicché il suo difetto non può essere rilevato d'ufficio dal giudice, ma dev'essere sollevato nei tempi e modi previsti e, quindi, non per la prima volta in sede di legittimità.

8. Il principio del contraddittorio.

In tale materia si segnala Sez. 3, n. 03432/2016, De Stefano, Rv. 638918, secondo la quale non sussiste un obbligo per il giudice di sollecitare, ex art. 183, comma 4, c.p.c., la previa instaurazione del contraddittorio quando la questione rilevata d'ufficio sia di mero diritto, e, quindi, di natura processuale, né tale obbligo assume rilievo se la parte non prospetti la specifica lesione del diritto di difesa che ne avrebbe patito, quantomeno allegando, quale verosimile sviluppo del processo svoltosi nel rigoroso rispetto della norma, l'insussistenza delle circostanze di fatto poste a base della decisione, potendosi vantare un diritto al rispetto delle regole del processo solo se, in dipendenza della loro violazione, ne derivi un concreto pregiudizio. Nello stesso ambito, secondo Sez. L, n. 10353/2016, Manna, Rv. 639999, l'obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, rafforzato dall'aggiunta del secondo comma all'art. 101 c.p.c. ad opera della l. n. 69 del 2009, si estende solo alle questioni di fatto, che richiedono prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti, o alle eccezioni rilevabili d'ufficio, e non anche ad una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito.

9. Pluralità di parti.

9.1. Litisconsorzio necessario.

Ha affermato Sez. 3, n. 12295/2016, Rubino, Rv. 640380, che, nel caso di litisconsorzio necessario, l'integrazione del contraddittorio, anche se avvenuta dopo la dichiarazione della nullità della sentenza di primo grado e rimessione al primo giudice perché provveda a norma dell'art. 102, comma 2, c.p.c., ha effetti di ordine sia processuale che sostanziale, nel senso che sana l'atto introduttivo viziato da nullità, per la mancata chiamata in giudizio di tutte le parti necessarie, ma è altresì idonea ad interrompere prescrizioni e ad impedire decadenze di tipo sostanziale nei confronti anche delle parti necessarie originariamente pretermesse.

Fattispecie di litisconsorzio necessario è stata evidenziata da Sez. 2, n. 08468/2016, Scarpa, Rv. 639705, secondo la quale, qualora uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile oggetto della comunione, il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto è litisconsorte necessario in tutte le controversie in cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto, sicché l'azione volta alla rimozione o comunque all'arretramento a distanza legale di opere assunte come abusivamente eseguite va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli, bensì di azione reale.

Secondo Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638246, nell'opposizione a cartella esattoriale relativa a contributi previdenziali proposta ai sensi dell'art. 615 c.p.c., sussiste la legittimazione passiva necessaria del concessionario allorché si deduca un vizio di notifica degli atti (nella specie, l'omessa tempestiva notifica della cartella determinante la prescrizione del credito) che, in caso di accoglimento dell'opposizione, potrebbe incidere sul rapporto con l'ente impositore, titolare della potestà sanzionatoria sottesa al conseguente inserimento nei ruoli trasmessi.

Alcune pronunce di rilievo riguardano il litisconsorzio processuale. In particolare, Sez. 2, n. 02859/2016, Lombardo, Rv. 639108, ha affermato che in tema di condominio, l'impugnativa di una delibera assembleare proposta da una pluralità di condomini determina una situazione di litisconsorzio processuale tra gli stessi, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della deliberazione, sicché, ove la sentenza che ha statuito su tale impugnativa venga appellata da alcuni soltanto di tali condomini, il giudice di secondo grado deve disporre, ex art. 331 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, quali parti di una causa inscindibile.

Secondo Sez. 6-2, n. 08486/2016, Scalisi, Rv. 639571, nell'ipotesi in cui un convenuto chiami in causa un terzo per ottenere la declaratoria della sua esclusiva responsabilità e la propria liberazione dalla pretesa dell'attore, la causa è unica ed inscindibile, potendo la responsabilità dell'uno comportare l'esclusione di quella dell'altro, ovvero, nel caso di coesistenza di diverse, autonome responsabilità, ponendosi l'una come limite dell'altra, sicché si determina una situazione di litisconsorzio processuale che, pur ove non sia configurabile anche un litisconsorzio di carattere sostanziale, dà luogo alla formazione di un rapporto che, nel giudizio di gravame, soggiace alla disciplina propria delle cause inscindibili.

Sez. 1, 09131/2016, Cristiano, Rv. 639690, ha ritenuto che la chiamata del terzo iussu iudicis ex art. 107 c.p.c. determini una situazione di litisconsorzio necessario processuale, non rimuovibile per effetto di un diverso apprezzamento del giudice dell'impugnazione, salva l'estromissione del chiamato con la sentenza di merito, sicchè quando il terzo, dopo aver partecipato al giudizio di primo grado a seguito di tale chiamata, non abbia preso parte a quello di appello, si configura una violazione dell'art. 331 c.p.c., rilevabile anche d'ufficio nel giudizio di legittimità.

Del litisconsorzio "unitario o quasi necessario" si è occupata Sez. L, n. 00986/2016, Mammone, Rv. 638865, che lo ha ritenuto configurabile nel caso di proposizione, sulla base di unico fatto generatore dell'illecito, di domanda giudiziale nei confronti di due distinti convenuti, ritenendo applicabile in tal caso la regola, propria delle cause inscindibili, dell'unitarietà del termine per proporre impugnazione.

Ha invece escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario con il nudo proprietario Sez. 2, n. 06293/2016, Matera, Rv. 639415, secondo la quale l'usufruttuario, così come l'usuario, è legittimato, in forza del rinvio ex art. 1026 c.c., all'esercizio in nome proprio delle azioni petitorie e possessorie volte a difendere ed a realizzare il proprio uso e godimento della cosa rispetto alle ingerenze di terzi.

Infine, ribadendo un orientamento risalente nel tempo, Sez. 1, n. 15417/2016, Genovese, Rv. 640948, ha affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta da uno dei condebitori solidali non impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri intimati, condebitori in solido, rispetto ai quali il decreto ingiuntivo da essi non impugnato acquista efficacia di giudicato senza che possano più giovarsi della disposizione di cui all'art. 1306 c.c.

9.2. Litisconsorzio facoltativo.

In tema di litisconsorzio facoltativo si segnalano due pronunce di rilievo. Secondo Sez. T, n. 07940/2016, Zoso, Rv. 639441, nel processo tributario, non prevedendo il decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, alcuna disposizione in ordine al cumulo dei ricorsi e rinviando l'art. 1, comma 2, al codice di procedura civile per quanto non disposto e nei limiti della compatibilità, deve ritenersi applicabile l'art. 103 c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo, per cui è ammissibile la proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se in relazione a distinte cartelle di pagamento, ove abbia ad oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa.

Sez. 2, n. 06738/2016, Falaschi, Rv. 639638, ha ritenuto che in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, l'obbligatorietà dell'azione di regresso prevista dall'art. 195, comma 9, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, nei confronti del responsabile, comporta che alla persona fisica autrice della violazione, anche se non ingiunta del pagamento, deve essere riconosciuta un'autonoma legittimazione ad opponendum, che le consenta tanto di proporre separatamente opposizione quanto di spiegare intervento adesivo autonomo nel giudizio di opposizione instaurato dalla società, configurandosi in quest'ultimo caso un litisconsorzio facoltativo, e potendosi nel primo caso evitare un contrasto di giudicati mediante l'applicazione delle ordinarie regole in tema di connessione e riunione di procedimenti.

9.3. Intervento volontario.

Ha ritenuto Sez. 2 , n. 02237/2016, Matera, Rv. 638825, che gli enti esponenziali di interessi collettivi sono legittimati ad intervenire in giudizio, a condizione di essere portatori di un determinato interesse collettivo di gruppo, di essere iscritti in un apposito elenco abilitante e di tutelare un interesse ulteriore e differenziato rispetto a quello dei singoli associati, sicché va esclusa tale legittimazione in capo ad un'associazione non riconosciuta, che persegua una generica finalità di repressione degli abusi e rispetto della legalità.

Nella stessa materia, Sez. U, n. 23304/2016, Didone, Rv. 641657, ha affermato che sotto la vigenza della legge 30 luglio 1998, n. 281 e prima della entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, le associazioni che si propongono statutariamente la tutela dei diritti dei consumatori non inserite nell'elenco di quelle legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi di cui agli artt. 3 e 5 della citata legge, non sono legittimate ad intervenire ad adiuvandum nei giudizi risarcitori proposti individualmente dai singoli consumatori, atteso che un siffatto intervento è consentito solo ove l'interveniente sia titolare di un rapporto giuridico connesso con quello dedotto in lite da una delle parti o da esso dipendente, e non di mero fatto, e che, anteriormente alla introduzione dell'art. 140-bis del codice del consumo, gli interessi "diffusi", quali quelli dei consumatori, sono "adespoti" e possono essere tutelati in sede giudiziale solo se il legislatore attribuisca ad una associazione la qualità di ente esponenziale degli interessi stessi, così che essi possano assurgere al rango di "collettivi".

9.4. Intervento per ordine del giudice.

Sez. L, n. 02522/2016, Balestrieri, Rv. 638936, ha ribadito il principio secondo il quale, in tema di controversie di lavoro, la disposizione del comma 9 dell'art. 420 c.p.c. non implica un automatico obbligo di adozione dei provvedimenti conseguenti all'istanza di chiamata in causa, in quanto il giudice conserva, secondo i principi generali, il potere di valutare la comunanza della causa e le ragioni d'intervento del terzo, sicché è configurabile un vizio del processo, tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado a norma dell'art. 383 c.p.c., solo in caso di omesso esame dell'istanza stessa ovvero di omesso rilievo del difetto del contraddittorio in costanza di litisconsorzio necessario.

9.5. Successione di parti.

Sez. L, n. 01757/2016, Berrino, Rv. 638717, ha riaffermato il principio secondo cui nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l'istituto dell'interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, nè consente agli eredi di tale parte l'ingresso nel processo.

Quanto al successore a titolo particolare nel diritto controverso, Sez. 1, n. 05759/2016, Scaldaferri, Rv. 639273, ha ribadito il principio secondo il quale quest'ultimo può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non anche intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa riguardante la disciplina di quella autonoma fase processuale che consenta al terzo la partecipazione a quel giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie ovvero le parti che hanno partecipato al giudizio di merito. Come chiarito da Sez. 1, n. 11638/2016, Acierno, Rv. 639906, qualora il dante causa non sia costituito, il successore a titolo particolare ex art. 111 c.p.c. può, al contrario, intervenire nel giudizio di legittimità, per esercitare il potere di azione che gli deriva dall'acquistata titolarità del diritto controverso, in quanto, diversamente opinando si determinerebbe una ingiustificata lesione del suo diritto di difesa.

10. I principi generali. L'art. 112 c.p.c.

Nutrita e significativa è stata, nell'ultimo anno, la produzione giurisprudenziale della Corte in tema di principi generali che governano il processo civile.

Va premesso che secondo Sez. 2, n. 01545/2016, Orilia L., Rv. 638646, l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, la cui statuizione, ancorché erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione dovesse ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato la erroneità di quella motivazione, sicché, in tal caso, il dedotto errore non si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico dell'accertamento in concreto della volontà della parte.

Inoltre, Sez. 6-1, n. 00118/2016, Genovese, Rv. 638481 chiarisce che il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame (sul punto, cfr. infra, sub par. 10.2) ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale.

Ciò debitamente premesso, Sez. L, n. 02209/2016, Esposito, Rv. 638607, chiarisce che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fissato dall'art. 112 c.p.c., non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti o in applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante, purché restino immutati il petitum e la causa petendi e la statuizione trovi corrispondenza nei fatti di causa e si basi su elementi di fatto ritualmente acquisiti in giudizio ed oggetto di contraddittorio.

In quest'ottica, Sez. 3, n. 08639/2016, Rubino, Rv. 639739, ravvisa una violazione del principio in esame ove il giudice, accogliendo l'appello avverso sentenza provvisoriamente esecutiva, ometta di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in forza della decisione riformata, pur essendo stata ritualmente introdotta con l'atto di impugnazione la relativa domanda restitutoria, non potendosi utilizzare la riforma della pronuncia di primo grado, agli effetti di quanto previsto dall'art. 474 c.p.c., nonché dall'art. 389 c.p.c. per le domande conseguenti alla cassazione, come condanna implicita.

Il dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., va riferito all'istanza con la quale la parte chiede l'emissione di un provvedimento giurisdizionale in merito al diritto sostanziale dedotto in giudizio, sicché, osserva Sez. 1, n. 4120/2016, Valitutti, Rv. 638813, non è configurabile un vizio di infrapetizione per l'omessa adozione, da parte del giudice, di un provvedimento di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c. .

Quando l'attore abbia quantificato la pretesa risarcitoria in un importo determinato, così limitando l'ammontare del quantum richiesto, Sez. L, n. 13876/2016, Amendola, Rv. 640457 rileva che il giudice che condanni il convenuto al pagamento di una somma maggiore di quella risultante dalla quantificazione operata dall'istante incorre in ultrapetizione.

Strettamente connesso con la questione che precede è il frequente caso in cui le conclusioni con cui una parte chiede la condanna al pagamento di un certo importo siano accompagnate dalla formula "somma maggiore o minore ritenuta dovuta" o altra equivalente, la quale, alla stregua di quanto statuito da Sez. 3, n. 12724/2016, Sestini, Rv. 640262, non costituisce una clausola meramente di stile, quando vi sia una ragionevole incertezza sull'ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, mentre tale principio non si applica se, all'esito dell'istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l'atto introduttivo e la formula ivi riprodotta, perché l'omessa indicazione del maggiore importo accertato evidenzia la natura meramente di stile dell'espressione utilizzata.

È opportuno ricordare che le eccezioni in senso lato sono rilevabili d'ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa: sicché Sez. 1, n. 05249/2016, Di Marzio, Rv. 639022, ha ritenuto che il giudice del gravame non può rilevare officiosamente la nullità di un contratto quadro di investimento finanziario per difetto di forma scritta, non risultando la circostanza determinativa della nullità ex actis.

Si inserisce nella tendenza ad allargare il novero delle eccezioni in senso lato Sez. 6-3, n. 08903/2016, Rossetti, Rv. 639709, secondo la quale l'intervenuta cessazione della materia del contendere non forma oggetto di un'eccezione in senso stretto, sicché essa può rilevarsi anche d'ufficio, purché emerga dalle risultanze processuali ritualmente acquisite.

10.1. La regola del tantum devolutum quantum appellatum.

Quanto al giudizio di appello, ai sensi dell'art. 342 c.p.c., lo stesso, pur limitato all'esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, sicché -rileva Sez. 1, n. 01377/2016, Valitutti, Rv. 638411 – non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall'appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel thema decidendum del giudizio.

In sede di legittimità, l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l'ammissibilità del motivo, sicché, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione della regola del tantum devolutum quantum appelatum, Sez. L, n. 11738/2016, Boghetich, Rv. 640032 ritiene necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità ed autosufficienza del ricorso per cassazione, che in esso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell'atto d'appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate.

10.2. L'omessa pronuncia.

Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all'art. 360, comma 1, n. 4, dello stesso codice, si configura, stando a quanto deciso da Sez. 6-1, n. 13716/2016, Scaldaferri, Rv. 640358) esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie, per le quali l'omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione.

Parimenti, il mancato esame, da parte del giudice, di una questione puramente processuale (si pensi al difetto di legittimazione iure hereditario) non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, potendo configurare, al più, un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall'art. 112 c.p.c. se, ed in quanto – come chiarito da Sez. 6-2, n. 00321/2016, Manna, Rv. 638383 – si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte.

11. Il principio di non contestazione.

L'onere di contestazione – la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova – sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti: in applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 14652/2016, Sestini, Rv. 640518, ha confermato la sentenza di merito che, in relazione al trafugamento di denaro da una cassaforte, aveva escluso che la linea difensiva assunta dal depositario, sostanziatasi nella negazione della propria responsabilità senza contestare l'entità delle somme asportate, potesse assumere valenza probatoria in ordine all'ammontare delle refurtiva, trattandosi di un dato estraneo alla sua sfera di conoscibilità diretta.

Detto onere riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, né la loro valenza probatoria, la cui valutazione in relazione ai fatti contestati è, come chiarito da Sez. 3, n. 12748/2016, Tatangelo, Rv. 640254, riservata al giudice e concerne le sole allegazioni in punto di fatto della controparte. Da ciò Sez. 6-L, n. 06606/2016, Arienzo, Rv. 639300 fa discendere la considerazione per cui, rispetto ai documenti prodotti, vi è soltanto l'onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all'art. 214 c.p.c., o di proporre – ove occorra – querela di falso, restando in ogni momento la loro significatività o valenza probatoria oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice.

Il principio di non contestazione opera, indifferentemente, nei confronti del convenuto, come dell'attore: pertanto Sez. 3, n. 08647/2016, Pellecchia, Rv. 639713, ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, preso atto che – in un giudizio risarcitorio da sinistro stradale – il mancato uso del casco protettivo da parte del danneggiato era stato eccepito da parte convenuta sin dalle sue prime difese, ha ritenuto accertata la circostanza, in difetto di contestazione; ai fini della conseguente relevatio dell'avversario dall'onere probatorio, peraltro, detto principio postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all'onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l'altra parte è tenuta a prendere posizione: sicché, ad esempio, Sez. 3, n. 03023/2016, Rubino, Rv. 639077, ha ritenuto che la mancata allegazione del preciso luogo di verificazione un sinistro stradale, dal quale l'attore sostiene di aver riportato danni, esoneri il convenuto, che abbia genericamente negato il reale accadimento di tale evento, dall'onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l'onere di allegare il fatto costitutivo dell'avversa pretesa.

12. La valutazione delle prove.

Tre sono le pronunce significative sul tema della valutazione delle prove che meritano di essere segnalate.

Anzitutto Sez. 1, n. 05089/2016, Nappi, Rv. 639057, la quale ha affermato che la definizione di "notorietà" desumibile dall'art. 115, comma 2, c.p.c. si impone come criterio legale di giustificazione del giudizio di fatto, in quanto è destinata ad individuare le premesse di fatto che possono assumersi per vere anche in mancanza di prova. Ne consegue che, nel giudizio di cassazione, il riconoscimento o il disconoscimento di un fatto come notorio può essere censurato solo per vizio di motivazione dipendente dall'erronea determinazione dei criteri di notorietà, mentre sfugge al sindacato di legittimità l'erroneo giudizio sulla notorietà che non sia desumibile dalla motivazione, non dipendendo dall'utilizzazione di criteri impropri (in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la valutazione del giudice di merito che, in un giudizio risarcitorio intentato da un risparmiatore nei confronti di un intermediario finanziario, aveva ragionevolmente desunto la prova del danno dal sopravvenuto fallimento della Cirio nell'anno successivo all'acquisto dei valori mobiliari e dal conseguente notorio azzeramento di questi ultimi).

Quindi, Sez. 2, n. 00107/2016, Abete, Rv. 638450, la quale ha ribadito che le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio possessorio sono valutabili alla stregua di una prova testimoniale ove assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite nei rispettivi atti introduttivi, mentre quelle raccolte ai fini dell'eventuale adozione del decreto inaudita altera parte, ex art. 669 sexies, comma 2, c.p.c., sono qualificabili in termini di sommarie informazioni, pur essendo utilizzabili anche ai fini della decisione quali indizi liberamente valutabili.

La terza decisione, assunta da Sez. 3, n. 11892/2016, Frasca, Rv. 640192, ha chiarito che, in materia di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espres- samente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.

13. Le forme degli atti e dei provvedimenti.

Con riferimento agli atti di parte, Sez. 3, n. 00767/2016, Ambrosio, Rv. 638379, ha chiarito che la violazione della previsione contenuta nell'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, lett. a), del decreto legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, secondo la quale "il difensore indica il proprio codice fiscale", non è causa di nullità del ricorso, non essendo, tale conseguenza, espressamente comminata dalla legge, e non potendo ritenersi che siffatta omissione integri la mancanza di uno dei requisiti formali indispensabili all'atto per il raggiungimento dello scopo cui è preposto.

Quanto al ricorso per cassazione, Sez. 2, n. 21297/2016, Cosentino, Rv. 641554, nell'analizzare un ricorso composto da ben 251 pagine, di cui 41 dedicate alla esposizione dei fatti, dopo aver ribadito che il requisito della sommaria esposizione dei fatti della causa non può ritenersi soddisfatto dalla trascrizione degli atti del giudizio di merito, ha affermato, quanto ai motivi di gravame, che il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva (nel caso di specie, per essere stati redatti con modalità espositive che si risolvevano, a propria volta, nell'affastellamento di un profluvio di atti dei pregressi gradi di quel giudizio e di altri giudizi) espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione. In particolare, detta violazione rischia di pregiudicare la intelligibilità delle questioni sottoposte all'esame della Corte, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridondando nella violazione delle prescrizioni, assistite da una sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell'articolo 366 c.p.c.

In relazione ai provvedimenti, avuto riguardo alla speciale normativa sulla lingua nei procedimenti giurisdizionali nella Regione Trentino Alto Adige, Sez. 2, n. 17686/2016, Cosentino, Rv. 641009, ha statuito che il mancato uso della lingua prescritta nella stesura della sentenza nella parte in cui sono riportate le conclusioni di una delle parti non implica la nullità dell'atto, ma integra una mera irregolarità formale, salvo che tale omissione leda il diritto di difesa, incidendo in concreto sull'attività del giudice per averne comportato un'omissione di pronuncia sulle domande o sulle eccezioni della parte, oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati dalla parte medesima.

13.1. Il contenuto della sentenza.

Quanto all'aspetto formale, Sez. 2, n. 14222/2016, Lombardo, Rv. 640265 evidenzia che il provvedimento che abbia natura di sentenza e sia impropriamente denominato "ordinanza" è affetto da errore materiale, ma non è nullo quale sentenza, attesi i principi di prevalenza della sostanza sulla forma e tassatività delle nullità.

Quanto al profilo contenutistico, invece, Sez. L, n. 17640/2016, Negri Della Torre, Rv. 640819, ha chiarito che la sentenza di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio, in quanto il riferimento ai "precedenti conformi" contenuto nell'art. 118 disp. att. c.p.c. non deve intendersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell'ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile; in tal caso, la motivazione del precedente costituisce parte integrante della decisione, sicché la parte che intenda impugnarla ha l'onere di compiere una precisa analisi anche delle argomentazioni che vi sono inserite mediante l'operazione inclusiva del precedente, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello di gravame, previo esame preliminare della sovrapponibilità del caso richiamato alla fattispecie in discussione.

Del pari, Sez. 1, n. 14786/2016, Ferro, Rv. 640759, osserva che la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata per relationem, ove il giudice d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame; (cfr. anche, quale precedente sull'argomento, Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, relativamente ad un caso in cui la motivazione di una sentenza si era limitata a riprodurre il contenuto di un atto di parte, senza niente aggiungervi, evidenziando che al giudice non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive; più di recente, dello stesso avviso è Sez. 6-2, n. 22562/2016, Picaroni, Rv. 641641, in un caso di rinvio operato dal Tribunale al contenuto dell'atto di appello).

Nello stesso solco Sez. 2, n. 18754/2016, Cosentino, Rv. 641281, ha escluso la nullità di una sentenza di primo grado per essere la stessa motivata per relationem all'ordinanza di rigetto della istanza di sospensione dell'impugnata delibera condominiale, peraltro risultante dal verbale di causa, essendo in siffatta evenienza le ragioni della decisione attribuibili all'organo giudicante e risultando le stesse in modo chiaro, univoco ed esaustivo.

Sez. 3, n. 04683/2016, Rubino, Rv. 639290, rileva che la motivazione della sentenza è assente non solo quando sia stata assolutamente omessa o quando il testo di essa, scritto a mano, sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la sua scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto, tanto da prestarsi ad equivoci o anche a manipolazioni delle parti, che possono, in tal modo, attribuire alla sentenza contenuti diversi, dovendo, invece, il "documento motivazione" essere univocamente apprezzabile da tutti i suoi fruitori per garantire che la sua analisi non esuli dal suo campo destinato, che è quello della validità delle argomentazioni giuridiche, in esso contenute, e non quello dell'interpretazione del dato testuale.

Peraltro, Sez. 2, n. 01079/2016, Criscuolo, Rv. 638669, evidenzia come la portata di una pronuncia giurisdizionale vada individuata tenendo conto non soltanto delle statuizioni finali contenute nella parte dispositiva, ma anche delle enunciazioni riportate nella motivazione, la quale, nelle decisioni di accertamento e di condanna, incide sul momento precettivo della pronuncia tanto da considerarsi integrativa del dispositivo stesso, supplendo, eventualmente, alle lacune di questo in quanto rivelatrice dell'effettiva volontà del giudice.

13.2. La decisione a seguito di trattazione orale.

La sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies c.p.c. con lettura del dispositivo in udienza ma senza contestuale motivazione, benché viziata, in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, conserva la sua natura di atto decisionale, dovendosi escludere – osserva Sez. 3, n. 05689/2016, Sestini, Rv. 639292 – la sua conversione in valida sentenza ordinaria, per essersi consumato il potere decisorio del giudice al momento della sua pubblicazione. Ne consegue che il termine lungo per l'impugnazione decorre dalla sottoscrizione del verbale di udienza, ex lege equiparato alla pubblicazione della sentenza, restando invece irrilevante, anche ai fini della tempestività dell'impugnazione, la successiva ed irrituale pubblicazione della motivazione, in quanto estranea alla struttura dell'atto processuale ormai compiuto.

14. La pubblicazione e comunicazione della sentenza.

Si è occupata del tema Sez. U, n. 18569/2016, Di Iasi, Rv. 641078) la quale, osservato preliminarmente che deposito e pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati e chiarito che tale momento coincide con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione, fa discendere da tale considerazione la conclusione per cui, qualora detti momenti risultino impropriamente scissi, mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, il giudice deve accertare – attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all'art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all'impugnante provare la tempestività della propria impugnazione – quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell'elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo. Come è noto, la pronuncia ha fatto seguito a Corte cost., 22 gennaio 2015, n. 3 (la quale, sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata, al fine di individuare il dies a quo del termine per l'impugnazione, aveva statuito che la conoscibilità della sentenza, in presenza di una seconda data, dovesse ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest'ultima) ed a Sez. U, n. 13794/2012, Chiarini, Rv. 623301 (la quale aveva affermato che, ove sulla sentenza fossero state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contenga soltanto la minuta del provvedimento, e l'altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorressero già dalla prima).

In tema di redazione della sentenza in formato elettronico, Sez. 6-L, n. 17278/2016, Marotta, Rv. 641016 precisa che, dal momento della sua trasmissione per via telematica mediante PEC, il procedimento decisionale è completato e si esterna, divenendo il provvedimento, dalla relativa data, irretrattabile dal giudice che l'ha pronunciato e legalmente noto a tutti, con decorrenza del termine lungo di decadenza per le impugnazioni ex art. 327 c.p.c.: è, pertanto, del tutto irrilevante la successiva trasmissione, sempre a mezzo PEC e a causa di un problema tecnico relativo al precedente invio, di altra sentenza relativa alla medesima controversia.

Ai fini della verifica della tempestività del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 327, comma 1, c.p.c., per Sez. 3, n. 12986/2016, Frasca, Rv. 640405, rileva esclusivamente l'attestazione di deposito apposta in calce alla sentenza, espressa in modo completo e sottoscritta dal cancelliere a norma dell'art. 133, comma 2, c.p.c., non avendo invece alcun valore, in quanto non idonea ad integrare un'attestazione di cancelleria, la diversa data risultante dalla mera apposizione, a margine della prima pagina della stessa sentenza, di un timbro cronologico privo di indicazione della sua provenienza e non corredato da alcuna sottoscrizione, tale situazione non essendo, pertanto, riconducibile a quella dell'esistenza di due distinte attestazioni, entrambe però riferibili al cancelliere, l'una di deposito e l'altra di pubblicazione, recanti date successive.

15. Le comunicazioni.

Nel procedimento di cassazione, ai sensi degli artt. 136 e 366 c.p.c., in virtù di un'interpretazione orientata all'effettività del diritto di difesa e alla ragionevole durata del processo, il cancelliere può eseguire la comunicazione dei provvedimenti tramite deposito in cancelleria (sempre che il difensore non abbia eletto domicilio in Roma) solo se non è andata a buon fine la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata, né quella via fax: il principio è stato enunciato da Sez. U, n. 11383/2016, Giusti, Rv. 639971, con riferimento ad una fattispecie anteriore alla disciplina sulle comunicazioni telematiche obbligatorie ex art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, divenuta operativa riguardo al procedimento di cassazione dal 15 febbraio 2016 per effetto di d.m. 19 gennaio 2016.

Sempre in tema di giudizio per cassazione, Sez. 6-2, n. 07080/2016, Parziale, Rv. 639490, rileva che l'indicazione, da parte del difensore, di un numero di fax per la ricezione anche di avvisi di cancelleria comporta la necessità, per il destinatario, di tener attivata costantemente l'apparecchiatura in forma automatica ovvero di presidiare (o far presidiare), quantomeno nelle ore antimeridiane, il luogo in cui essa è installata sì da consentirne l'eventuale attivazione manuale, dovendosi ritenere, in difetto, che il duplice tentativo di invio del fax, effettuato dalla cancelleria in giorni diversi ed in ore antimeridiane, esaurisca le attività che possono ragionevolmente essere richieste all'Ufficio, con conseguente regolarità della notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza.

16. Le notificazioni.

In caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, Sez. U, n. 14594/2016, Curzio, Rv. 640441, afferma che questi, appreso dell'esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall'art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa.

16.1. Le varie fattispecie di notificazione.

In caso di notificazioni non a mani proprie, Sez. 2, n. 02968/2016, Orilia, Rv. 638692 osserva che, presupposto di validità della notificazione ex art. 139 c.p.c. non è già il preventivo tentativo di notifica a mani proprie, rispetto al quale integra soltanto una modalità alternativa, ma, in quanto eseguita ove il destinatario ha, nel comune di residenza, la casa di abitazione o l'ufficio od esercita l'industria o il commercio, che l'atto sia consegnato a persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda, mentre, se sia eseguita in luoghi diversi, è irrilevante il rapporto tra il consegnatario e la persona cui l'atto è destinato e la notificazione deve considerarsi comunque nulla.

In tema di notificazione di atti processuali civili nei confronti di collaboratore di giustizia ex lege 15 marzo 1991, n. 82, Sez. 3, n. 08646/2016, De Stefano, Rv. 639714, include, tra le "persone addette alla casa", a mani delle quali può essere legittimamente consegnato l'atto ai sensi dell'art. 139 c.p.c., anche gli appartenenti alle forze dell'ordine preposti alla protezione del collaboratore.

Alla stregua di quanto deciso da Sez. 1, n. 07732/2016, Scaldaferri, Rv. 639307, in presenza di cause inscindibili, la circostanza che il termine di venti giorni per la conclusione del procedimento notificatorio, ai sensi dell'art. 143 c.p.c., tempestivamente attivato dal notificante, venga a scadere, nei confronti del notificando, oltre il termine assegnato dall'ordinanza di integrazione del contraddittorio, non preclude al giudice, che accerti la nullità della notificazione per mancanza delle ricerche dovute e preventive, di fissare un nuovo termine per la rinnovazione a norma dell'art. 291, comma 1, c.p.c., venendo così esclusa ogni decadenza, in considerazione del fatto che un'attività notificatoria, sebbene invalida, è stata comunque compiuta, nel termine originariamente fissato.

Sez. 1, n. 10170/2016, Di Virgilio, Rv. 639660, , ha, infine, ribadito che, ai fini della determinazione del luogo di residenza o dimora del destinatario della notificazione, rileva esclusivamente il luogo ove questi dimora di fatto in modo abituale, rivestendo le risultanze anagrafiche mero valore presuntivo e potendo essere superate, in quanto tali, da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, affidata all'apprezzamento del giudice di merito (in applicazione di tale principio la S.C., , confermando la decisione impugnata, ha ritenuto valida la notifica eseguita presso il luogo della precedente residenza anagrafica, atteso che il trasferimento del destinatario, legale rappresentante della società, non era stato iscritto nel registro delle imprese e che in un atto formale, successivo a detto trasferimento, lo stesso aveva indicato quale proprio luogo di residenza quello dove era stata compiuta la notifica). Interessante è Sez. 2, n. 27352/2016, Parziale, in corso di massimazione, alla cui stregua la notifica ai condominii degli edifici, in quanto semplici "enti di gestione" non dotati di soggettività giuridica, va effettuata all'amministratore secondo le regole stabilite per le persone fisiche, con la conseguenza che, oltre che ovunque "in mani proprie", l'atto può essere consegnato ai soggetti abilitati a riceverlo invece del destinatario, soltanto nei luoghi in cui ciò è consentito dagli artt. 139 ss. c.p.c.: luoghi tra i quali può bensì essere compreso, in quanto "ufficio" dell'amministratore, anche lo stabile condominiale, ma soltanto nell'ipotesi in cui esistano locali, come può essere la portineria, specificamente destinati e concretamente utilizzati per l'organizzazione e lo svolgimento della gestione delle cose e dei servizi comuni.

16.2. Le notificazioni presso il domiciliatario.

Nel 2016 significative sono le pronunce della Suprema Corte in tema di notificazione degli atti a chi abbia eletto domicilio.

Sez. 2, n. 16311/2016, Manna, Rv. 640833, ha affermato che, in caso di elezione di domicilio di più parti presso il medesimo difensore nel giudizio di primo grado, è ritualmente eseguita la notifica dell'appello presso tale domiciliatario anche nei confronti delle parti già da questi rappresentate ma che non abbiano proposto impugnazione, salvo che sia sopravvenuta un'incompatibilità del domiciliatario rispetto alla posizione delle parti non appellanti, idonea a determinare una violazione del diritto di difesa.

Per Sez. 2, n. 08222/2016, Lombardo, Rv. 639514, la morte del procuratore domiciliatario produce l'inefficacia della dichiarazione di elezione di domicilio e la necessità che la notificazione dell'impugnazione sia eseguita, a norma dell'art. 330, comma 3, c.p.c., alla parte personalmente a pena di inesistenza, a meno che l'elezione di domicilio sia fatta presso lo studio di un professionista la cui autonoma organizzazione gli sopravviva, dovendosi in questo caso considerare tale studio alla stregua di un ufficio. Tuttavia, se nella dichiarazione lo studio sia indicato come quello di una persona determinata, professionista o meno, la dichiarazione stessa diviene inefficace a seguito della morte del domiciliatario, in quanto in tal caso si è voluto attribuire rilievo all'elemento personale e non a quello oggettivo dell'organizzazione, fermo restando che, ove quest'ultima continui ad operare dopo la morte del procuratore, la notificazione eseguita presso lo studio deve ritenersi nulla e non inesistente.

Peraltro, qualora la parte abbia nominato due difensori, con poteri anche disgiunti, Sez. 3, n. 06781/2016, Rubino, Rv. 639339 precisa che la notifica degli atti non può più avvenire, secondo il disposto dell'art. 141, comma 4, c.p.c., presso lo studio del procuratore domiciliatario defunto, mentre è valida, invece, l'ulteriore notifica compiuta al procuratore rimasto in vita, ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, qualora detto difensore, non appartenente al foro del luogo ove ha sede l'autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza, non abbia eletto domicilio nel territorio di detto Comune, con la conseguenza che dalla data di tale notifica decorre il termine breve per proporre impugnazione.

Infine, la notifica della sentenza presso il procuratore domiciliatario, effettuata in luogo diverso da quello indicato in sede di elezione di domicilio a seguito del trasferimento dello studio professionale, è idonea a far decorrere il termine breve d'impugnazione previsto dall'art. 326 c.p.c., posto che la variazione di indirizzo non incide sulla relazione dello studio con la parte interessata e con il procuratore costituito, sicché resta soddisfatta l'esigenza di assicurare che la sentenza sia portata a conoscenza della parte per il tramite del suo rappresentante processuale, professionalmente qualificato a valutare, nei termini prescritti, l'opportunità dell'impugnazione: così si è espressa Sez. L, n. 02220/2016, Di Paolantonio, Rv. 638657, in una fattispecie in cui la notifica era stata effettuata presso una sede dello studio diversa da quella indicata in atti, nei giorni immediatamente successivi al trasferimento ad una sede ulteriore, certificato dal Consiglio dell'Ordine.

17. La nullità delle notificazioni.

Dal punto di vista cronologico, Sez. U, n. 02201/2016, Didone, Rv. 638226, sottolinea che la questione relativa alla nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio riguarda la valida costituzione del rapporto processuale, sicché deve essere esaminata prima della questione di giurisdizione, la quale presuppone pur sempre l'instaurazione di un valido contraddittorio tra le parti.

Quanto al luogo in cui la notificazione viene eseguita, Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640604 risolvendo il contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimità afferma che lo stesso non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell'atto, sicché i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell'ambito della nullità dell'atto, come tale sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c..

In particolare, nella medesima occasione la Corte (Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603) rileva che l'inesistenza della notificazione (nella specie, del ricorso per cassazione) è ormai configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell'attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l'atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.

Già in precedenza, tuttavia, Sez. 2, n. 03648/2016, Falaschi, Rv. 638761, aveva similmente affermato che la notifica del ricorso per cassazione al difensore costituito della parte appellata, privo della qualità di domiciliatario della medesima nel giudizio di appello, fosse nulla e non inesistente, poiché il professionista presso il quale la notifica è eseguita è pur sempre un difensore del destinatario, sicché la nullità è sanata ove quest'ultimo si costituisca in giudizio.

D'altra parte, Sez. U, n. 07665/2016, Cirillo, Rv. 639285 osserva che l'irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità, se la consegna telematica (nella specie, in "estensione.doc", anziché "formato.pdf") ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell'atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale.

Nella notifica a mezzo posta, Sez. 2, n. 15905/2016, Cosentino, Rv. 640571, rileva che, ove il plico indichi come destinatario il domiciliatario e non il domiciliato, si ha, invece, mera irregolarità e non nullità, giacché il plico deve comunque pervenire nelle mani del domiciliatario, che dall'esame del contenuto individua quale sia il destinatario della notifica, tra le persone presso di lui domiciliate.

È altresì opportuno evidenziare che la nullità della notificazione del ricorso per cassazione, non rilevata in sede di legittimità, non è soggetta al principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione di cui all'art. 161 c.p.c. e, per l'effetto, non è deducibile in sede di giudizio di rinvio conseguente a sentenza rescindente, potendo, per converso, ove mai non rilevata per errore meramente percettivo nel controllo degli atti del processo, risultare oggetto di ricorso per revocazione ex art. 395 c.p.c., come chiarito da Sez. 6-3, n. 10028/2016, Rubino, Rv. 639834.

Da ultimo, Sez. 2, n. 07416/2016, Criscuolo M., Rv. 639475, indugiando sul significato del crocesegno, che non costituisce valida manifestazione di volontà della persona che riceve l'atto, né consente di individuarne l'identità, richiede, per la validità della notifica, che il notificante riporti le generalità del soggetto al quale l'atto è stato consegnato, attestandone l'impossibilità di apporre la sottoscrizione.

18. I termini processuali.

Sul piano del diritto intertemporale, si è chiarito che la proroga dei termini processuali che scadono nella giornata di sabato, ex art. 155, comma 5, c.p.c., è applicabile non solo ai procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006, ma anche a quelli già pendenti a tale data, in forza dell'art. 58, comma 3, della l. n. 69 del 2009, che, tuttavia, non essendo una norma d'interpretazione autentica, dispone solo per l'avvenire, e, quindi, opera limitatamente ai termini in scadenza dopo la sua entrata in vigore, il 4 luglio 2009, e non a quelli che, a tale data, risultino già scaduti. In applicazione di tale principio, Sez. 6-1, n. 00310/2016, Genovese, Rv. 638269, ha rigettato l'appello con il quale era stata dichiarata improcedibile un'opposizione a decreto ingiuntivo instaurata prima del 1° marzo 2006 per tardiva costituzione dell'opponente, scadendo il relativo termine in un giorno di sabato antecedente al 4 luglio 2009 e non operando, pertanto, la proroga al lunedì successivo.

Molto attesa era la pronuncia dell'organo supremo di nomofilachia sul tema della costituzione in appello mediante cd. velina. Sul punto, Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829, a risoluzione di un contrasto, ha affermato che la tempestiva costituzione dell'appellante con la copia dell'atto di citazione, in luogo dell'originale, non determina l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall'art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l'udienza di comparizione di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. mediante deposito dell'originale da parte dell'appellante, ovvero a seguito di costituzione dell'appellato che non contesti la conformità della copia all'originale (e sempreché dagli atti risulti il momento della notifica ai fini del rispetto del termine ex art. 347 c.p.c.), salva la possibilità per l'appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c. (o 184-bis c.p.c., ratione temporis applicabile) per la regolarizzazione della costituzione nulla, dovendosi ritenere, in mancanza, consolidato il vizio ed improcedibile l'appello.

Pochi mesi prima Sez. 1, n. 04525/2016, Giancola, Rv. 638904, era pervenuta ad analoghe conclusioni, sostenendo che la costituzione in giudizio dell'appellante, avvenuta mediante deposito in cancelleria, oltre che della nota d'iscrizione a ruolo, del proprio fascicolo contenente, tuttavia, copia dell'atto di appello notificato alla controparte, non arreca alcuna lesione sostanziale ai diritti della parte appellata ed, in difetto di una specifica previsione d'improcedibilità del gravame, costituisce mera irregolarità, sanata dal successivo deposito dell'originale medesimo.

Quanto agli adempimenti ed agli oneri in corso di causa, il termine di tre giorni per la comunicazione, da parte del cancelliere, delle ordinanze pronunciate fuori udienza non è perentorio, difettando, come osservato da Sez. 2, n. 10607/2016, Orilia, Rv. 639890, un'espressa previsione di legge in tal senso.

Inoltre, quando il giudice abbia pronunziato l'ordine di integrazione del contraddittorio in causa inscindibile e la parte onerata non vi abbia provveduto, ovvero vi abbia ottemperato solo parzialmente, evocando in giudizio soltanto alcuni dei litisconsorti pretermessi, Sez. 3, n. 06982/2016, Rossetti, Rv. 639540, non ritiene potersi assegnare un nuovo termine per il completamento dell'integrazione, che equivarrebbe alla concessione di una proroga del termine perentorio precedentemente fissato, vietata espressamente dall'art. 153 c.p.c., salvo che l'istanza di assegnazione di un nuovo termine, tempestivamente presentata prima della scadenza di quello già concesso, si fondi sull'esistenza, idoneamente comprovata, di un fatto non imputabile alla parte onerata o, comunque, risulti che la stessa ignori incolpevolmente la residenza dei soggetti nei cui confronti il contraddittorio avrebbe dovuto essere integrato.

19. La nullità degli atti.

In ordine agli atti introduttivi del giudizio, nei procedimenti contenziosi incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, anche nella disciplina antecedente alla modifica dell'art. 16-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, introdotta dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti, Rv. 639888, precisa che il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio, ivi compreso l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità, sicché, ove l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, è integrato il raggiungimento dello scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti.

Sempre Sez. 2, n. 05319/2016, D'Ascola, Rv. 639352, chiarisce che, in virtù del generale principio del raggiungimento dello scopo di cui all'art. 156, comma 3, c.p.c., l'atto di riassunzione, volto alla prosecuzione di un procedimento già invalidamente instaurato, può dar vita ad un nuovo e rituale rapporto processuale, ove presenti i necessari requisiti che lo rendano oggettivamente idoneo al perseguimento di tale scopo.

In ordine ai provvedimenti definitori, merita di essere segnalata Sez. 2, n. 04947/2016, Criscuolo, Rv. 639357, a mente della quale, in mancanza di un'espressa comminatoria, non è configurabile una nullità della sentenza nell'ipotesi di mera difficoltà di comprensione e lettura del testo stilato in forma autografa dall'estensore, atteso che la sentenza non può ritenersi priva di uno dei requisiti di validità indispensabili per il raggiungimento dello scopo della stessa.

Parimenti, per Sez. 6-1, n. 23461/2016, Scaldaferri, in corso di massimazione, la presenza di un segno grafico non corrispondente al nominativo del giudice riportato in epigrafe non determina la nullità della sentenza, in quanto la sottoscrizione apposta dal giudice estensore svolge le necessarie funzioni identitarie e di riferibilità soggettiva, vieppiù se supportato da elementi, come l'indicazione del relatore nella intestazione della decisione, che permettono la identificazione tra segno grafico ed indicazione nominativa. Dello stesso avviso è Sez. 3, n. 20192/2016, Travaglino, in corso di massimazione, in un caso di sottoscrizione del giudice con segno grafico illeggibile.

Sez. 6-3, n. 18149/2016, Barreca, in corso di massimazione, ha ribadito che la mancata assegnazione dei termini, in esito all'udienza di precisazione delle conclusioni, per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie finali di replica ai sensi dell'art. 190 c.p.c., costituisce motivo di nullità della conseguente sentenza, impedendo ai difensori delle parti di svolgere nella sua pienezza il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio.

Sez. 3, n. 24636/2016, Vivaldi, in corso di massimazione, nell'aderire all'orientamento prevalente favorevole al principio di lesività in astratto delle nullità, ha sostenuto che è nulla la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza del termini ex art. 190 c.p.c., risultando per ciò solo impedito ai difensori l'esercizio, nella sua completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva alla parte.

Con riferimento al ricorso per cassazione, infine, significativi sono due interventi della Suprema Corte a Sezioni Unite.

In una fattispecie di ricorso avverso la decisione emessa in sede disciplinare dal Consiglio Nazionale Forense, Sez. U, n. 19675/2016, Frasca, Rv. 641091, ha affermato che il deposito di una copia incompleta, benché autentica, della sentenza impugnata non è causa di improcedibilità del ricorso stesso se, per il principio dell'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo, sancito dall'art. 156, comma 3, c.p.c., esso sia tempestivo e l'impugnazione possa essere scrutinata sulla base della pur incompleta copia prodotta, perchè l'oggetto cui la prima si riferisce è interamente desumibile dalla parte di sentenza risultante da tale copia.

Sempre in un'ottica di sanatoria, inoltre, Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641080, ha statuito, a componimento di un contrasto, che la mancanza nella copia notificata del ricorso per cassazione, il cui originale risulti tempestivamente depositato, di una o più pagine non comporta l'inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica sanabile, con efficacia ex tunc, mediante nuova notifica di una copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell'intimato, salva la possibile concessione a quest'ultimo di un termine per integrare le sue difese.

20. Rilevabilità e sanatoria della nullità.

Avuto riguardo alla fase di instaurazione del giudizio, Sez. L, n. 05579/2016, Esposito, Rv. 639047, ha esaminato il caso di un avvocato sostituito in udienza da praticante non abilitato alla causa, in quanto di valore superiore ai limiti di cui all'art. 7 della l. n. 479 del 1999, chiarendo che l'invalidità che ne deriva resta sanata se non sia fatta rilevare entro la prima istanza o difesa successiva, ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c., trattandosi di nullità relativa che non incide sulla regolare costituzione in giudizio della parte.

Si occupa, invece, della fase istruttoria, avuto riguardo ai rilievi delle parti alla consulenza tecnica di ufficio, Sez. 1, n. 15418/2016, Nazzicone, Rv. 641028, la quale osserva che, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., detti rilievi costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico, che possono essere svolte nella comparsa conclusionale sempre che non introducano in giudizio nuovi fatti costitutivi, modificativi od estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove, e purchè il breve termine a disposizione per la memoria di replica, comparato con il tema delle osservazioni, non si traduca, con valutazione da effettuarsi caso per caso, in un'effettiva lesione del contraddittorio e del diritto di difesa, spettando al giudice sindacare la lealtà e correttezza di una siffatta condotta della parte alla stregua della serietà dei motivi che l'abbiano determinata.

Al contempo, Sez. 3, n. 07110/2016, Scrima, Rv. 639525, ribadisce che le nullità concernenti l'ammissione e l'espletamento della prova testimoniale hanno carattere relativo, derivando dalla violazione di formalità stabilite non per ragioni di ordine pubblico, bensì nell'esclusivo interesse delle parti, sicché non sono rilevabili d'ufficio dal giudice, ma, ai sensi dell'art. 157, comma 2 c.p.c., vanno denunciate dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi (o alla conoscenza delle nullità stesse), nozione che include anche la richiesta di un provvedimento ordinatorio di mero rinvio e la formulazione delle conclusioni dinanzi al giudice di primo grado, dovendosene escludere, in difetto, la possibilità di farle valere in sede di impugnazione.

In relazione alla sentenza, il vizio di ultrapetizione comporta una nullità relativa della stessa, che va fatta valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione e non può essere rilevata d'ufficio dal giudice del gravame, la cui pronunzia, in caso contrario, incorre nel medesimo vizio: in applicazione di tale principio, pertanto, Sez. 2, n. 00465/2016, Matera, Rv. 638217, ha cassato la sentenza di appello che, ritenuta viziata da ultrapetizione la sentenza di primo grado, per avere accolto una domanda di risoluzione contrattuale proposta da soggetto ritenuto non legittimato, era tuttavia incorsa nel medesimo vizio, avendo rilevato d'ufficio tale difetto, dal lato attivo, della titolarità del rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

21. I vizi di costituzione del giudice.

Sez. L, n. 18126/2016, Balestrieri, Rv. 641085, chiarisce che il principio di immutabilità del giudice trova applicazione con riferimento all'inizio della discussione, sicché, anche nel rito del lavoro, la diversità di composizione, tra il collegio che ha assistito alla stessa e quello che ha deciso, determina la nullità assoluta e insanabile della pronuncia.

Viceversa, Sez. 1, n. 02658/2016, Cristiano, Rv. 638589, rileva che l'omessa indicazione, nell'epigrafe di una sentenza collegiale, del nome del terzo giudice componente il collegio, oltre al relatore/estensore ed al presidente, non è causa di nullità della sentenza medesima, essendo tale nominativo evincibile dal decreto che il presidente redige trimestralmente, ex art. 113 disp. att. c.p.c., indicando le date delle camere di consiglio e la composizione dei relativi collegi.

Parimenti, per Sez. 1, n. 02318/2016, Ferro, Rv. 638565, l'indicazione, nell'intestazione del decreto pronunciato dal tribunale del nome di un giudice diverso da quelli componenti il collegio dinanzi al quale il procedimento è stato discusso e che lo ha trattenuto in decisione, va ascritta ad un mero errore materiale, come tale non comportante la nullità del provvedimento, ma suscettibile di correzione ai sensi dell'art. 287 c.p.c., atteso che l'intestazione è priva di autonoma efficacia probatoria, si esaurisce nella riproduzione dei dati del verbale di udienza e, in difetto di elementi contrari, debbono ritenersi coincidenti i magistrati indicati nel verbale come componenti del collegio giudicante con quelli che, in concreto, hanno partecipato alla deliberazione del decreto stesso.

Sez. 2, n. 24951/2016, Manna F., in corso di massimazione, ha, sul punto, operato un distinguo: mentre in grado di appello, in base alla disciplina di cui al novellato art. 352 c.p.c., il collegio che delibera la decisione deve essere composto dagli stessi giudici dinanzi ai quali è stata compiuta l'ultima attività processuale (cioè la discussione o la precisazione delle conclusioni), conseguendone la nullità della sentenza nel caso di mutamento della composizione del collegio medesimo, in materia di provvedimenti collegiali del giudice civile, la sentenza nella cui intestazione risulti il nominativo di un magistrato, sia pur non tenuto alla sottoscrizione, diverso da quello indicato nel verbale dell'udienza collegiale di discussione, deve presumersi affetta da errore materiale ed è, pertanto, emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c.

In una fattispecie in cui, dopo il trasferimento di un giudice, era stato "congelato" il relativo ruolo, Sez. 1, n. 20247/2016, Campanile, in corso di massimazione, ha affermato che la mancata comunicazione in ordine all'assegnazione del procedimento ad altro giudice, che aveva tenuto l'udienza, già fissata per la precisazione delle conclusioni, ponendo la causa in decisione ai sensi dell'art. 281-sexies cod. proc. civ., previa discussione orale, determina la nullità di tutti gli atti successivi del processo e della sentenza che lo conclude.

22. L'estensione della nullità.

Sez. 2, n. 15463/2016, Lombardo, Rv. 640598, osserva che la nullità del provvedimento reso sull'istanza di sequestro in difetto di ius postulandi non si estende alla sentenza che definisce il giudizio di merito, essendo quest'ultimo indipendente ai sensi dell'art. 159, comma 1, c.p.c..

Da ultimo, infine, Sez. 3, n. 14449/2016, Tatangelo, Rv. 640526, ha ribadito che l'opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.) si risolve in una contestazione relativa a singoli atti che la legge considera indipendenti, alla quale, pertanto, è estranea la regola della propagazione delle nullità processuali indicata dall'art. 159 c.p.c., operando tale principio anche per le cd. nullità insanabili – quali quelle attinenti al difetto dello ius postulandi ovvero della rappresentanza o della capacità di agire –, che debbono essere fatte valere nel termine di decadenza per l'opposizione, atteso che la finalità del processo esecutivo di giungere ad una sollecita chiusura della fase espropriativa non tollera che esso possa trovarsi in una situazione di perenne incertezza.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XXXV

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 L'introduzione della causa in generale. - 1.1 Gli atti introduttivi del giudizio e la costituzione delle parti. - 1.2 Chiamata in causa ed intervento del terzo. - 2 La fase di trattazione in generale. - 2.1 La precisazione o modificazione delle domande. - 2.2 Altre attività del giudice e delle parti. - 3 Le vicende anormali del processo. - 3.1 Sospensione del processo. - 3.2 Interruzione del processo. - 3.3 Estinzione del processo. - 4 La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento. - 5 La correzione di errori materiali.

1. L'introduzione della causa in generale.

La fase di introduzione della causa consiste in una serie di atti qualificati, nel loro complesso, dallo scopo di instaurare il processo, e realizza il primo contatto giuridico tra i suoi soggetti (o, se si preferisce, dà vita al cosiddetto rapporto giuridico processuale) attraverso la proposizione della domanda: ed è proprio su quest'ultima, tipico atto nel quale si concreta l'iniziativa del soggetto che chiede la tutela giurisdizionale, che si impernia tale fase.

1.1. Gli atti introduttivi del giudizio e la costituzione delle parti.

Nel corso del 2016, non sono mancate interessanti pronunce della Suprema Corte riguardanti il contenuto degli atti introduttivi del giudizio e la costituzione delle parti, anche sotto il profilo dei loro, rispettivi vizi.

Particolare rilievo va immediatamente attribuito a Sez. U, n. 02951/2016, Curzio, Rv. 638371, 638372 e 638373, che, muovendo dall'assunto che la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all'attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto, ha conseguentemente affermato, che le contestazioni, ad opera di quest'ultimo, della titolarità del rapporto controverso dedotto dall'attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti. Proprio in ragione della natura giuridica attribuita ad una siffatta contestazione, quindi, non può che conseguirne che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa.

Sez. 1, n. 05249/2016, Di Marzio, Rv. 639022, peraltro, ha ribadito che le eccezioni in senso lato sono rilevabili d'ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa, e, in modo sostanzialmente analogo, Sez. 3, n. 12392/2016, Vincenti, Rv. 640319, resa in fattispecie di danni cagionati da animali, ha statuito che la ricorrenza del caso fortuito, quale causa di esclusione della responsabilità del proprietario, attiene al profilo probatorio, sicché, non costituendo oggetto di eccezione in senso proprio, è rilevabile d'ufficio.

Meritevole di menzione, inoltre, appare anche Sez. 3, n. 11805/2016, Graziosi, Rv. 640195, la quale, facendo implicitamente proprio il consolidato orientamento secondo cui la qualificazione della domanda, alla stregua dei fatti allegati, spetta al giudice, ha evidenziato che quando la parte agisce prospettando condotte astrattamente compatibili con la fattispecie prevista dall'art. 2051 c.c., la loro riconduzione, operata dal giudice di primo grado, all'art. 2043 c.c., non vincola il giudice d'appello nel potere di riqualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa azionata.

Giova, infine, ricordare che Sez. 6-2, n. 13886/2016, Manna, Rv. 640327, ha stabilito che il documento contenente l'informativa sulla mediazione, ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, pur dovendo essere sottoscritto dall'assistito ed allegato all'atto introduttivo del giudizio, non è equipollente alla procura ad litem, dalla quale si distingue per oggetto e funzione, restando estraneo al conferimento dello ius postulandi, mentre Sez. 2, n. 08108/2016, Criscuolo, Rv. 639478, pronunciata in tema di giudizio davanti al giudice di pace, ha ritenuto che debba essere concesso un rinvio all'attore, ove lo richieda, per poter replicare alla domanda riconvenzionale del convenuto.

Passando ai vizi degli atti introduttivi, Sez. 3, n. 00767/2016, Ambrosio, Rv. 638379, ha sancito che la violazione della previsione contenuta nell'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, lett. a), del decreto legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, secondo la quale «il difensore indica il proprio codice fiscale», non è causa di nullità del ricorso, non essendo, tale conseguenza, espressamente comminata dalla legge, e non potendo ritenersi che siffatta omissione integri la mancanza di uno dei requisiti formali indispensabili all'atto per il raggiungimento dello scopo cui è preposto, laddove Sez. 2, n. 05319/2016, D'Ascola, Rv. 639352, ha sottolineato che, in virtù del generale principio del raggiungimento dello scopo di cui all'art. 156, comma 3, c.p.c., l'atto di riassunzione, volto alla prosecuzione di un procedimento già invalidamente instaurato, può dar vita ad un nuovo e rituale rapporto processuale, ove presenti i necessari requisiti che lo rendano oggettivamente idoneo al perseguimento di tale scopo.

Sez. 1, n. 15414/2016, Di Virgilio, Rv. 640945, invece, ha chiarito che, dedotta la nullità della citazione come motivo d'appello, gli effetti della sua rilevazione da parte del giudice sono regolati in conformità all'art. 294 c.p.c., equivalendo la proposizione dell'appello a costituzione tardiva nel processo, sicché il convenuto contumace, pur avendo diritto alla rinnovazione dell'attività di primo grado da parte del giudice di appello, può essere ammesso a compiere le attività colpite dalle preclusioni verificatesi in prime cure, se dimostri che la nullità della citazione gli abbia impedito di conoscere il processo e, quindi, di difendersi, se non con la proposizione del gravame. Tale situazione, come si è ivi ulteriormente specificato, può verificarsi solo nel caso di nullità per omessa o assolutamente incerta indicazione del giudice adìto in primo grado, mentre, in ogni altra ipotesi, occorre la dimostrazione, affatto residuale, che le circostanze della vicenda concreta abbiano determinato anche la mancata conoscenza della pendenza del processo. Ed è interessante sottolineare che, nella specie, è stata confermata la sentenza della corte d'appello che, dopo aver dichiarato la nullità della citazione in primo grado, degli atti collegati e della sentenza, aveva escluso la rimessione della causa al tribunale, disponendo la rinnovazione degli atti nulli anche senza richiesta dei ricorrenti rimasti contumaci sia in primo che in secondo grado, fissando udienza di trattazione, previa concessione del termine ex art. 183 c.p.c. anche ai contumaci e così realizzando a loro favore un iter processuale più favorevole rispetto a quanto spettantegli.

Con riguardo, da ultimo, ai vizi della costituzione delle parti, va certamente segnalata Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti, Rv. 639888, intervenuta sulla questione, nuova nella giurisprudenza di legittimità ma controversa nelle interpretazioni e nelle soluzioni offerte dai giudici di merito, se, nei procedimenti iniziati dinanzi ai tribunali a decorrere dal 30 giugno 2014, sia ammissibile – nella disciplina dell'art. 16-bis del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, inserito dall'art. l, comma 19, numero 2), della legge 24 dicembre 2012, n. 228, nel testo anteriore al decreto legge 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132 (che, con l'art. 19, comma 1, lettera a, numero l, vi ha aggiunto il comma 1 bis) – il deposito con modalità telematiche dell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo. Si trattava, in altri termini, di stabilire se fosse possibile depositare telematicamente atti diversi rispetto a quelli per i quali l'art. 16-bis impone di utilizzare quel canale comunicativo: se, cioè, ferma l'obbligatorietà del processo civile telematico per i soli atti endoprocessuali, il deposito per via telematica dell'atto introduttivo del giudizio (a) rientrasse, pur in difetto di apposita autorizzazione ex art. 35 del decreto ministeriale 21 febbraio 2011, n. 44, tra le facoltà del difensore che intendesse in tal modo costituirsi in giudizio, oppure (b) fosse inammissibile. Tale questione – oramai di rilevanza esclusivamente intertemporale, giacché, a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2015, che ha inserito il comma 1-bis nell'art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, «è sempre ammesso il deposito telematico di ogni atto diverso da quelli previsti dal comma 1» dello stesso art. 16-bis: sicché, a partire da tale data, per l'atto introduttivo del giudizio o per il primo atto difensivo, il regime della modalità di deposito è telematico o cartaceo a scelta della parte e, in caso di deposito telematico, questo è l'unico a perfezionarsi – è stata risolta dalla Corte mediante l'affermazione, ex art. 363, comma 3, c.p.c., del principio per cui, nei procedimenti contenziosi incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, anche nella disciplina antecedente alla modifica dell'art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2, della l. n. 228 del 2012, introdotta dal d.l. n. 83 del 2015, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio, ivi compreso l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità, sicché ove l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata (PEC) del Ministero della giustizia, è integrato il raggiungimento della scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti.

E sostanzialmente avvalendosi dei principi sanciti dalla pronuncia testè riportata, Sez. L, n. 22479/2016, Ghinoy, Rv. 641629, ha positivamente risolto la questione se, in un procedimento iniziato in data anteriore al 30 giugno 2014 e davanti ad ufficio non abilitato a ricevere gli atti in via telematica, in assenza del decreto dirigenziale previsto dall'articolo 35, comma 1, del d.m. n. 44 del 2011, il difensore che abbia tentato il deposito con modalità telematiche ed abbia superato tutti i controlli automatici senza che venga rilevata alcuna anomalia, in caso di rifiuto di accettazione con la quarta PEC possa essere rimesso in termini per effettuare il deposito cartaceo.

Sembra opportuno, altresì, menzionare, in questa sede, riguardando pur sempre un vizio di originaria costituzione della parti, Sez. U, n. 04248/2016, D'Ascola, Rv. 638746, che ha ritenuto che il difetto di rappresentanza processuale della parte può essere sanato in fase di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie, e, qualora la contestazione avvenga in sede di legittimità, la prova della sussistenza del potere rappresentativo può essere data ai sensi dell'art. 372 c.p.c.; tuttavia, qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l'onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacché sul rilievo di parte l'avversario è chiamato a contraddire.

1.2. Chiamata in causa ed intervento del terzo.

In tema di chiamata in causa del terzo su istanza di parte, giova ricordare che, Sez. U, n. 04909/2016, Scarano, Rv. 639107, ha precisato che la procura alle liti conferita in termini ampi ed omnicomprensivi (nella specie, "con ogni facoltà") è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia cd. impropria.

Sez. 2, n. 08411/2016, Cosentino, Rv. 639737, poi, ha ribadito che il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore nei confronti del terzo chiamato in causa dal convenuto opera solo quando tale chiamata sia effettuata dal convenuto per ottenere la sua liberazione dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione ad un unico rapporto, mentre non opera in caso di chiamata in garanzia impropria, attesa l'autonomia dei rapporti. Tuttavia, anche in caso di rapporto oggettivamente unico, la presunzione su cui si fonda il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al terzo chiamato (ossia che l'attore voglia la condanna del chiamato, pur avendo agito nei confronti del solo convenuto) non può operare se l'attore escluda espressamente che la propria domanda sia stata proposta nei confronti del terzo chiamato.

Circa l'intervento volontario, invece, va immediatamente segnalata Sez. U, n. 23304/2016, Didone, Rv. 641657, che risolvendo la questione di massima di particolare importanza concernente l'ammissibilità, o meno, dell'intervento ad adiuvandum delle associazioni che si propongono la tutela dei diritti dei consumatori nei giudizi risarcitori promossi individualmente da quest'ultimi (ancorché le azioni siano state proposte, ai sensi dell'art. 33 c.p.c., davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una delle parti per essere decise nello stesso processo), hanno ritenuto, in fattispecie regolata dalla l. n. 281 del 1998, che se, giusta l'art. 3 di quest'ultima, le associazioni iscritte possono agire per la tutela collettiva degli stessi diritti (dichiarati fondamentali) riconosciuti ai consumatori, a maggior ragione possono intervenire nel giudizio promosso dal singolo consumatore.

Va pure rimarcata, in ambito analogo, Sez. 2, n. 02237/2016, Matera, Rv. 638825, secondo la quale gli enti esponenziali di interessi collettivi sono legittimati ad intervenire in giudizio, a condizione di essere portatori di un determinato interesse collettivo di gruppo, di essere iscritti in un apposito elenco abilitante e di tutelare un interesse "ulteriore" e "differenziato" rispetto a quello dei singoli associati, sicché va esclusa tale legittimazione in capo ad un'associazione non riconosciuta che persegua una generica finalità di repressione degli abusi e rispetto della legalità.

È utile, infine, rammentare, in materia di chiamata in causa iussu iudicis, Sez. 3, n. 06837/2016, Pellecchia, Rv. 639606, che ha statuito che ove il giudice ordini l'intervento di un terzo a seguito delle difese svolte dal convenuto, il quale, contestando la propria legittimazione passiva, indichi quello come responsabile della pretesa fatta valere in giudizio, ricorre un'ipotesi non di litisconsorzio necessario, ex art. 102 c.p.c., ma di chiamata in causa iussu iudicis, ai sensi dell'art. 107 c.p.c., rispondente ad esigenze di economia processuale (comunanza di causa), discrezionalmente valutate sotto il profilo dell'opportunità. Ove, peraltro, la notifica al terzo sia nulla – ha proseguito la menzionata sentenza –, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, restando sanata detta nullità soltanto dall'ordine giudiziale di rinnovazione o dalla spontanea reiterazione, ad opera della parte interessata, della notificazione della citazione al terzo, senza che possa, invece, assumere rilievo sanante l'eventuale notifica al terzo stesso del ricorso per riassunzione a seguito di interruzione del processo pendente tra le parti originarie, in quanto atto mancante degli elementi essenziali della domanda estesa nei confronti di quello.

2. La fase di trattazione in generale.

La fase di trattazione – che, con quella di istruzione probatoria (altrimenti detta istruttoria in senso stretto), soltanto eventuale, consistente nell'acquisizione dei mezzi di prova che il giudice abbia ritenuto ammissibili e rilevanti ai fini della decisione, e quella della rimessione (o riserva) totale della causa in decisione, che funge da ponte per il passaggio alla terza fase del processo, ossia a quella di decisione, compone la cd. fase istruttoria in senso ampio – ha la particolare funzione della prima presa di conoscenza delle domande con l'impostazione dei relativi problemi, ivi compresi quelli concernenti l'eventuale necessità di precisazioni o ampliamento, nonché di ulteriori atti per acquisire prove o altri elementi di giudizio.

Essa si pone, quindi, come una sorta di impostazione o di programmazione del giudizio in tutti i suoi aspetti di diritto, sia processuale che sostanziale, e di fatto, con la conseguente determinazione di un iter logico nel quale si inserirà, poi, – se ed in quanto verrà ritenuta necessaria – l'eventuale attività di acquisizione delle prove (istruzione in senso stretto).

Rinviandosi, allora, per quanto riguarda la fase istruttoria in senso stretto, al capitolo XXXVI di questa rassegna, si esamineranno, nei paragrafi successivi, le principali pronunce rese, nel corso di quest'anno, dalla Suprema Corte con riguardo alle tematiche delle altre due fasi prima descritte.

2.1. La precisazione o modificazione delle domande.

Deve immediatamente segnalarsi Sez. 1, n. 01368/2016, Valitutti, Rv. 638434, che, evidentemente ponendosi nella scia di Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536, ha affermato, in una fattispecie disciplinata dal cd. rito societario, che il riferimento alla possibilità di modificare, nella memoria di replica ex art. 6, comma 2, lett. a), del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, (applicabile ratione temporis), la domanda originariamente formulata va inteso nel senso che la modifica può riguardarne anche uno o entrambi gli elementi oggettivi (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l'ammissibilità della deduzione, nella memoria predetta, di un profilo di nullità contrattuale (nella specie, per l'omessa indicazione della facoltà di recesso del risparmiatore ai sensi dell'art. 30, comma 7, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) diverso da quello invocato in citazione, tanto più che il giudice, innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale, deve rilevare d'ufficio l'esistenza di altra causa di quest'ultima, anche se di protezione.

La medesima sentenza ha altresì aggiunto che il richiamo operato dall'art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003, applicabile ratione temporis, agli artt. 341 e ss. c.p.c., impone di ritenere che, anche nel rito societario, la domanda non formulata in primo grado nei termini ivi previsti va dichiarata inammissibile se proposta in appello, atteso l'inderogabile divieto di domande nuove di cui all'art. 345 del codice di rito, e, per tale ragione, ha confermato, sul punto, la decisione impugnata, secondo cui la delimitazione, in primo grado, del thema decidendum della domanda risarcitoria al solo profilo concernente l'invalidità del contratto di negoziazione dei titoli aveva definitivamente precluso la possibilità di chiedere, in sede di gravame, anche il danno derivante dal preteso comportamento negligente della banca.

Sez. 1, n. 03806/2016, Sambito, Rv. 638877, ha, poi, chiarito che l'art. 183 c.p.c., nel testo, applicabile ratione temporis, di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353, mentre, al comma 4, consente all'attore, entro la prima udienza di trattazione, di proporre le eccezioni e le domande che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni formulate dal convenuto, permette alle parti, nel termine di cui al successivo comma 5, solo la precisazione e la modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte, ma non la proposizione di ulteriori e diverse eccezioni e domande. Tale preclusione, peraltro, in quanto volta a tutelare anche l'interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice, indipendentemente dall'atteggiamento processuale della controparte al riguardo. In applicazione dell'anzidetto principio, è stata, quindi, confermata la sentenza impugnata che, a fronte dell'originaria domanda di risoluzione di un contratto di appalto avanzata in citazione, aveva ritenuto tardiva, pur in assenza della corrispondente eccezione, la successiva richiesta di accertamento di intervenuto scioglimento del contratto, per recesso della committente, e le pretese ad esso collegate, contenuta nella memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c.

Sez. 1, n. 09333/2016, Terrusi, Rv. 639621, dal canto suo, ha, invece, opportunamente precisato che la questione relativa alla novità, o meno, di una domanda giudiziale è correlata all'individuazione del bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta, per cui non può esservi mutamento della domanda ove si sia in presenza di un ipotetico concorso di norme, anche solo convenzionali, a presidio dell'unico diritto azionato, presupponendo il cambiamento della domanda la mutazione del corrispondente diritto, non già della sua qualificazione giuridica. Ne consegue che se l'attore invoca, a fondamento della propria pretesa, un presidio normativo ulteriore rispetto a quello originariamente richiamato, fermi i fatti che ne costituiscono il fondamento, ciò non determina alcuna mutatio libelli, restando invariato il diritto soggettivo del quale è richiesta la tutela. In proposito, è interessante ricordare che, nella specie, è stata confermata la sentenza impugnata, che aveva condannato la parte poi ricorrente al pagamento del corrispettivo delle spese sostenute per il riscaldamento di alcuni locali occupati dall'Aeronautica militare all'interno dell'aeroporto di Ciampino, gestito dalla Aeroporti di Roma s.p.a., sulla base di una clausola convenzionale diversa da quella originariamente richiamata dalla menzionata società.

Sempre con riguardo al tema della precisazione/modifica zione della domanda originaria, va infine segnalata, in ragione della peculiarità della fattispecie affrontata, Sez. 2, n. 00698/2016, Criscuolo, Rv. 638366, secondo cui, proposta domanda di annullamento di un testamento olografo per incapacità naturale del testatore, costituisce domanda nuova la richiesta, formulata in sede di memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo vigente anteriormente all'1 marzo 2006), di annullamento del medesimo testamento per altro motivo (nella specie, difetto di data), essendo fondate le due azioni, pur nella identità di petitum, su fatti costitutivi diversi, né potendo il giudice rilevare ex officio l'annullabilità dell'atto di ultima volontà per tale diversa ragione, mancando una norma che espressamente gli riconosca tale potere.

2.2. Altre attività del giudice e delle parti.

Molteplici accadimenti possono ulteriormente caratterizzare la fase di trattazione del giudizio, sicché non sembra rivelarsi superflua una succinta panoramica delle corrispondenti pronunce di legittimità rese nel corso del 2016.

Merita di essere segnalata Sez. 1, n. 10715/2016, Didone, Rv. 639794, la quale ha evidenziato che lo sciopero dei magistrati o degli avvocati determina un impedimento allo svolgimento dell'udienza, la quale, pertanto, pur quando non sia stata verbalizzata la presenza o meno delle parti, deve essere differita, quale rinvio d'ufficio, sicché all'udienza successive la parte comparsa non può invocare la cancellazione della causa dal ruolo che presuppone, invece, la diserzione di un'udienza regolarmente tenuta.

Parimenti degna di nota è Sez. 3, n. 04767/2016, Tatangelo, Rv. 639347, secondo cui, in forza del combinato disposto degli artt. 187, comma 1, c.p.c. e 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione, atteso che ogni diversa interpretazione delle norme suddette, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il favor legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall'art. 189 c.p.c.

Sez. 1, n. 02984/2016, Di Virgilio, Rv. 638556, ha ribadito che la sentenza che decida su di una questione di puro diritto, rilevata d'ufficio, senza procedere alla sua segnalazione alle parti onde consentire su di essa l'apertura della discussione (cd. terza via), non è nulla in quanto, da tale omissione può solo derivare un vizio di error in iudicando, ovvero di error in iudicando de iure procedendi, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore sia in concreto consumato; qualora, invece, si tratti di questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, la parte soccombente può dolersi della decisione sostenendo che la violazione del dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini, sicché, ove si tratti di sentenza di primo grado appellabile, può proporsi specifico motivo di appello solo al fine di rimuovere alcune preclusioni (specie in materia di contro-eccezione o di prove non indispensabili), senza necessità di ottenere la rimessione in primo grado, salva la prova, in casi ben specifici e determinati, che sia stato realmente ed irrimediabilmente vulnerato lo stesso valore del contraddittorio (in senso sostanzialmente conforme, benchè meno analitica, si veda anche la successiva Sez. 3, n. 03432/2016, De Stefano, Rv. 638918).

Meritevole di menzione è, altresì, Sez. 2, n. 11157/2016, Giusti, Rv. 639978, a tenore della quale l'abbandono, in sede di precisazione delle conclusioni, di alcune domande ha esclusivamente un effetto processuale, impedendo al giudice di decidere su esse, ma non pregiudica il diritto sostanziale né il diritto d'azione, sicché la parte, salvo che non vi abbia esplicitamente rinunciato, può successivamente riproporle in un separato giudizio.

Infine, può essere utile ricordare che, come sancito da Sez. 2, n. 10607/2016, Orilia, Rv. 639890, il termine di tre giorni per la comunicazione, da parte del cancelliere, delle ordinanze pronunciate fuori udienza non è perentorio, mancando un'espressa previsione di legge in tal senso.

3. Le vicende anormali del processo.

Per evidenti ragioni di sistematicità, si ritiene opportuno raggruppare nel presente paragrafo, suddividendolo in corrispondenti sottoparagrafi, le più interessanti pronunce rese dalla Suprema Corte, nell'anno in rassegna, con riguardo ad alcune delle vicende comunemente definite come "anormali" del processo, in particolare la sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo.

3.1. Sospensione del processo.

Tra le decisioni in tema di sospensione necessaria del processo, ex art. 295 c.p.c., si segnalano, innanzitutto, Sez. 1, n. 04120/2016, Valitutti, Rv. 638813, secondo cui l'omessa adozione, da parte del giudice, di un provvedimento, di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c., non determina vizio di infrapetizione, atteso che il dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., va riferito all'istanza con la quale la parte chiede l'emissione di un provvedimento giurisdizionale in merito al diritto sostanziale dedotto in giudizio; e Sez. 6-1, n. 13823/2016, Scaldaferri, Rv. 604357, recante l'opportuna precisazione che quando tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposta soltanto ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., sicché, ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell'art. 295 c.p.c., il relativo provvedimento è illegittimo e deve essere, dunque, annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi del menzionato art. 337, comma 2.

Degne di nota, anche per le peculiarità delle sottostanti vicende processuali, risultano: a) Sez. 6-1, n. 10880/2016, Ragonesi, Rv. 639854, secondo cui, nell'ipotesi di sospensione del processo ordinata in applicazione di specifiche disposizioni normative, diverse dall'art. 295 c.p.c., qual è il caso di cui all'art. 16 del Regolamento CE 4 gennaio 2003, n. 1, allorché penda giudizio in materia di concorrenza innanzi alla Commissione europea ovvero innanzi agli organi giudiziari europei avverso una decisione della Commissione nella detta materia, il controllo di legittimità in sede di regolamento necessario di competenza, ammissibile in forza del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 Cost., 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE e 6 della CEDU, va limitato alla verifica che la sospensione sia stata disposta in conformità dello schema legale di riferimento e senza che la norma che la giustifica sia stata abusivamente invocata, essendo rilevante, ai fini della sospensione ed alla stregua di un criterio di assoluta prudenza, anche la semplice possibilità di decisioni contrastanti; b) Sez. 6-2, n. 06510/2016, Giusti, Rv. 639706, a tenore della quale non sussiste rapporto di pregiudizialità tra il processo penale avente ad oggetto i reati di falso e truffa ed il processo civile volto ad ottenere una pronuncia ex art. 2932 c.c., atteso che, per rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l'effetto giuridico dedotto nel processo civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto di imputazione nel giudizio penale; c) Sez. 6-1, n. 04183/2016, De Chiara, Rv. 638863, la quale ha ritenuto che tra due giudizi riguardanti, rispettivamente, lo scioglimento di una comunione immobiliare e l'usucapione di uno degli immobili da dividere, non sussiste un rapporto di pregiudizialità ai sensi dell'art. 295 c.p.c., che va intesa in senso non meramente logico, ma tecnico giuridico, in quanto determinata da una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell'altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo si riflette necessariamente, condizionandola, su quella del secondo; d) Sez. 6-2, n. 00783/2016, Giusti, Rv. 638378, secondo cui, ai sensi dell'art. 819-ter, comma 2, c.p.c., nei rapporti tra arbitrato e processo non trova applicazione l'art. 295 c.p.c., sicché il giudice ordinario non può sospendere il giudizio in ragione della pregiudizialità della causa pendente dinanzi agli arbitri.

Infine, Sez. 3, n. 05955/2016, Cirillo, Rv. 639367, ha chiarito che la riassunzione di un processo sospeso (nella specie a seguito del terremoto che ha colpito la città di L'Aquila il 6 aprile 2009), è tempestiva quando il corrispondente ricorso sia stato depositato in cancelleria nel termine perentorio previsto dall'art. 297, comma 1, c.p.c, per cui la mancata successiva notifica del detto ricorso, unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, non determina l'estinzione del giudizio, dovendo invece il giudice fissare un nuovo termine per la notifica a norma dell'art. 291 c.p.c..

3.2. Interruzione del processo.

Tra le numerose statuizioni di legittimità che, nel corso del 2016, hanno riguardato le vicende interruttive del giudizio, merita di essere immediatamente ricordata Sez. 1, n. 17199/2016, Ferro, Rv. 641042, che ha ribadito che le norme che disciplinano l'interruzione del processo sono preordinate alla tutela della parte colpita dal relativo evento, la quale è l'unica legittimata a dolersi dell'irrituale continuazione del processo nonostante il verificarsi della causa interruttiva, sicché la mancata interruzione del processo non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, né essere eccepita dall'altra parte come motivo di nullità (in senso analogo, si veda anche Sez. 1, n. 15031/2016, Valitutti, Rv. 640714).

Degna di nota, attesa la peculiarità della fattispecie processuale sottostante, è anche Sez. 1, n. 01376/2016, Valitutti, Rv. 638413, che, in tema di fusione, ha statuito che l'art. 2504-bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina (1 gennaio 2004), le quali, pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano, tuttavia, dalla successione mortis causa perché la modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, sicché quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, né alcun pregiudizio subisce la incorporante (o la società risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole, neppure applicandosi, a dette fusioni, la disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 e ss. c.p.c..

Sez. 3, n. 06838/2016, Pellecchia, Rv. 639335, poi, nell'affermare che il principio secondo cui la morte dell'unico difensore della parte costituita in giudizio determina l'automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, con conseguente nullità degli atti successivi, presuppone il concreto pregiudizio arrecato al diritto di difesa, ha, nella specie, rilevato l'esistenza di tale pregiudizio nel fatto che, rimessa dall'istruttore la causa sul ruolo e disposto un supplemento di consulenza tecnica d'ufficio, era diritto della parte avere nuove ed aggiornate difese, precluse dall'intervenuto decesso del difensore.

Meritevole di menzione appare, altresì, Sez. 3, n. 02174/2016, Vincenti, Rv. 638947, che ha ribadito che la riassunzione del processo si perfeziona nel momento del tempestivo deposito del ricorso in cancelleria con la richiesta di fissazione dell'udienza, senza che rilevi l'eventuale inesatta identificazione della controparte nell'atto di riassunzione, il quale opera in termini oggettivi ed è valido, per raggiungimento dello scopo ai sensi dell'art. 156 c.p.c., quando contenga gli elementi sufficienti ad individuare il giudizio che si intende proseguire. Ne consegue che non incide sulla tempestività della riassunzione, ai sensi dell'art. 305 c.p.c., la successiva notifica del ricorso e dell'unito decreto, idonea invece al ripristino del contraddittorio nel rispetto delle regole proprie della vocatio in ius, sicché, ove essa sia viziata o inesistente, o comunque non correttamente compiuta per erronea o incerta individuazione del soggetto che deve costituirsi, il giudice è tenuto ad ordinarne la rinnovazione, con fissazione di nuovo termine, ma non può dichiarare l'estinzione del processo.

3.3. Estinzione del processo.

Tra le decisioni della Suprema Corte che, nel corso del 2016, hanno riguardato le vicende estintive del giudizio, può essere qui sufficiente ricordare Sez. 6-1, n. 11173/2016, Genovese, Rv. 639845, secondo cui il provvedimento di estinzione del processo, conseguente ad una dichiarazione di interruzione del giudizio erroneamente dichiarata, per difetto di uno dei presupposti di legge, dal difensore della parte, è nullo poiché l'errore, ove sia chiaramente riconoscibile, non può ridondare a danno della parte medesima, né è riscontrabile un principio di ragionevole affidamento, atteso che la controparte ed il giudice, per il principio di effettività, debbono, rispettivamente, eccepire e rilevare l'inefficacia della dichiarazione dell'evento interruttivo; e Sez. 1, n. 01950/2016, Dogliotti, Rv. 638417, secondo la quale, avvenuta la translatio iudicii, davanti al giudice competente, con citazione in riassunzione notificata nel termine perentorio assegnato dal giudice dichiaratosi incompetente, la mancata iscrizione della causa a ruolo non determina l'estinzione del processo ex art. 307, comma 3, c.p.c., atteso che il giudizio, venendosi a trovare in una situazione di quiescenza ai sensi dei commi 1 e 2 della medesima disposizione, può essere nuovamente riassunto davanti al giudice già adito con la precedente riassunzione.

4. La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento.

Giova premettere che la fase di decisione è tuttora oggetto di autonoma disciplina esclusivamente nelle cause riservate al collegio e contempla l'udienza di discussione soltanto nelle ipotesi in cui questa sia stata richiesta; mentre, nelle cause attribuite al giudice unico, la suddetta fase rimane, in pratica, assorbita nella rimessione (o riserva) in decisione, riemergendo in un'apposita udienza (davanti al giudice unico) nelle sole ipotesi di richiesta di discussione, salva la diversa eventualità della discussione prevista dall'art. 281-sexies c.p.c. ove il giudice monocratico scelga la trattazione orale. Peraltro, come ricordato da Sez. 2, n. 00464/2016, Matera, Rv. 638213, l'adozione, innanzi al tribunale in composizione monocratica, del modello a trattazione scritta, in luogo di quella mista richiesta dalla parte, non è causa di nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio o di difesa, attesa l'equipollenza tra i detti modelli decisionali, salvo che la parte dimostri una lesione concreta del diritto di difesa mediante l'indicazione degli aspetti che la discussione orale le avrebbe consentito di evidenziare ed approfondire, ad integrazione dei precedenti atti difensivi.

Fermo quanto precede, vanno immediatamente segnalate due pronunce delle Sezioni Unite il cui comune denominatore può ravvisarsi nell'aver esplorato il tema dell'ordine della decisione delle questioni. Si tratta, in particolare: a) di Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637936-637937, la quale, dopo aver sancito che ogni giudice, anche qualora dubiti della sua competenza, deve sempre verificare innanzitutto, anche di ufficio, la sussistenza della propria giurisdizione, ha chiarito che la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza – fondata sulle previsioni costituzionali riguardanti il diritto alla tutela giurisdizionale, la garanzia del giudice naturale precostituito per legge, i principi del giusto processo, l'attribuzione della giurisdizione a giudici ordinari, amministrativi e speciali ed il suo riparto tra questi secondo criteri predeterminati – può essere derogata solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, ad esempio, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell'instaurazione del "giusto processo", oppure della formazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla giurisdizione; b) della successiva Sez. U, n. 02201/2016, Didone, Rv. 638226, in cui si è ulteriormente precisato che la questione relativa alla nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio riguarda la valida costituzione del rapporto processuale, sicché deve essere esaminata prima della questione di giurisdizione, la quale presuppone pur sempre l'instaurazione di un valido contraddittorio tra le parti.

Certamente meritevole di menzione appare, poi, Sez. U, n. 18569/2016, Di Iasi, Rv. 641078, che, nuovamente intervenendo sull'ancora non sopita questione della doppia data (di deposito e pubblicazione) della sentenza, ha sancito che il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati, dovendosi identificare tale momento con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione. Qualora, peraltro, tali momenti risultino impropriamente scissi mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, il giudice deve accertare – attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all'art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all'impugnante provare la tempestività della propria impugnazione – quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell'elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo (in senso sostanzialmente conforme, vedasi anche Sez. 3, n. 12986/2016, Frasca, Rv. 640405, secondo cui non ha alcun valore, ai suddetti fini, in quanto inidonea ad integrare un'attestazione di cancelleria, la data risultante dalla mera apposizione, a margine della prima pagina della sentenza, di un timbro cronologico privo di indicazione della sua provenienza e non corredato da alcuna sottoscrizione, tale situazione non essendo, invero, riconducibile a quella dell'esistenza di due distinte attestazioni, entrambe però riferibili al cancelliere, l'una di deposito e l'altra di pubblicazione, recanti date successive).

Ha, invece, contribuito a meglio delimitare i contorni e l'efficacia della pronuncia di cessazione della materia del contendere Sez. 3, n. 11813/2016, Vincenti, Rv. 640240, la quale ha chiarito che una siffatta declaratoria postula che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano al giudice conformi conclusioni in tal senso. Per tale ragione, ha escluso, nella specie, che la dichiarazione giudiziale di acquisto del bene locato, per usucapione, in favore della conduttrice determinasse l'estinzione del giudizio per la risoluzione del contratto di locazione medesimo (e di risarcimento danni), trattandosi, in assenza di conformi conclusioni delle parti, di evenienza in sé non in grado di elidere ogni contrasto tra le stesse.

In tema di vizi della decisione, poi, non possono obliterarsi alcune statuizioni riguardanti le sentenze redatte in forma autografa.

In particolare, secondo Sez. 2, n. 04947/2016, Criscuolo, Rv. 639357, in mancanza di un'espressa comminatoria, non è configurabile nullità della sentenza nell'ipotesi di mera difficoltà di comprensione e lettura del testo stilato in forma autografa dall'estensore, atteso che la sentenza non può ritenersi priva di uno dei requisiti di validità indispensabili per il raggiungimento dello scopo della stessa, laddove, a parere di Sez. 3, n. 04683/2016, Rubino, Rv. 639290, la motivazione della sentenza è assente non solo quando sia stata assolutamente omessa o quando il testo di essa, scritto a mano, sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la sua scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto, tanto da prestarsi ad equivoci o anche a manipolazioni delle parti che possono, in tal modo, attribuire alla sentenza contenuti diversi, dovendo, invece, il "documento motivazione" essere univocamente apprezzabile da tutti i suoi fruitori per garantire che la sua analisi non esuli dal suo campo destinato, che è quello della validità delle argomentazioni giuridiche, in esso contenute, e non quello dell'interpretazione del dato testuale.

Riguardano i vizi della decisione anche Sez. 1, n. 02658/2016, Cristiano, Rv. 638589, per la quale è l'omessa indicazione, nell'epigrafe di una sentenza collegiale, del nome del terzo giudice componente il collegio, oltre al relatore/estensore ed al presidente, non è causa di nullità della sentenza medesima, essendo tale nominativo evincibile dal decreto che il presidente redige trimestralmente, ex art. 113 disp. att. c.p.c., indicando le date delle camere di consiglio e la composizione dei relativi collegi; Sez. 2, n. 00465/2016, Matera, Rv. 638217, secondo cui il vizio di ultrapetizione comporta una nullità relativa della sentenza, che va fatta valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione e non può essere rilevata d'ufficio dal giudice del gravame, la cui pronunzia, in caso contrario, incorre nel medesimo vizio; Sez. 3, n. 05689/2016, Sestini, Rv. 639292, che ha statuito che la sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies c.p.c. con lettura del dispositivo in udienza ma senza contestuale motivazione, benché viziata, in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, conserva la sua natura di atto decisionale, dovendosi escludere la sua conversione in valida sentenza ordinaria per essersi consumato il potere decisorio del giudice al momento della sua pubblicazione. Ne consegue che il termine lungo per l'impugnazione decorre dalla sottoscrizione del verbale di udienza, ex lege equiparato alla pubblicazione della sentenza, restando invece irrilevante, anche ai fini della tempestività dell'impugnazione, la successiva ed irrituale pubblicazione della motivazione, in quanto estranea alla struttura dell'atto processuale ormai compiuto; e Sez. 6-3, 18149/2016, Barreca, in corso di massimazione, secondo cui, la mancata assegnazione dei termini, in esito all'udienza di precisazione delle conclusioni, per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie finali di replica ex art. 190 c.p.c., costituisce motivo di nullità della conseguente sentenza, impedendo ai difensori delle parti di svolgere nella sua pienezza il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio.

Di sicuro interesse, attesa l'attualità del tema del processo telematico, è Sez. 6-L, n. 17278/2016, Marotta, Rv. 641016, a tenore della quale, in tema di redazione della sentenza in formato elettronico, dal momento della sua trasmissione per via telematica mediante PEC, il procedimento decisionale è completato e si esterna, divenendo il provvedimento, dalla relativa data, irretrattabile dal giudice che l'ha pronunciato e legalmente noto a tutti, con decorrenza del termine lungo di decadenza per le impugnazioni ex art. 327 c.p.c.. Ne consegue che è del tutto irrilevante la successiva trasmissione, sempre a mezzo PEC ed a causa di un problema tecnico relativo al precedente invio, di altra sentenza relativa alla medesima controversia.

Da ultimo, considerato il peculiare scopo della presente rassegna, va menzionata anche Sez. 1, n. 06283/2016, Genovese, Rv. 639270, la quale ha opportunamente precisato che, nel caso di pronuncia di sentenza non definitiva da parte del giudice di merito, ai sensi dell'art. 279, commi 2 e 4, c.p.c., e di prosecuzione del giudizio per l'ulteriore istruzione della controversia, lo stesso giudice non resta da questa vincolato se, in ordine alla prima pronuncia, l'altra parte eccepisca l'esistenza di un giudicato esterno, formatosi per un primo giudizio, ad esso sostanzialmente identico, la cui pronuncia sia passata in giudicato nelle more della seconda controversia.

5. La correzione di errori materiali.

Con riguardo al tema della correzione di errori materiali, vanno certamente ricordate, attese le peculiari vicende cui si riferiscono: a) Sez. 1, n. 02819/2016, Nazzicone, Rv. 638573, che ha giudicato ammissibile, alla stregua dell'interpretazione estensiva degli artt. 287 e ss. c.p.c., l'utilizzazione del procedimento di correzione degli errori materiali qualora il giudice del gravame, riformando la sentenza appellata, ometta, pur esistendo in atti tutti gli elementi a ciò necessari, di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in esecuzione di quest'ultima, atteso che una siffatta condanna è sottratta a qualunque forma di valutazione giudiziale, sicché sono configurabili i presupposti di fatto che giustificano la correzione e la relativa declaratoria necessariamente "accede" al decisum complessivo della controversia, senza assumere una propria autonomia formale, collegandosi l'omissione ad una mera disattenzione. L'ordinanza di correzione, inoltre, in quanto priva di contenuto decisorio, non è impugnabile, neppure con il ricorso ex art. 111, comma7, Cost., tale rimanendo, invece, con lo specifico mezzo di volta in volta previsto, solo la sentenza corretta; b) Sez. 1, n. 02815/2016, Nazzicone, Rv. 638522, che ha ritenuto esperibile il procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo, previsto dagli artt. 287 e 288 c.p.c., non solo per ovviare ad un difetto di corrispondenza tra l'ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente evincibile dal testo del provvedimento e, come tale, rilevabile ictu oculi, ma anche in funzione integrativa, in ragione della necessità di introdurre nel provvedimento una statuizione obbligatoria consequenziale a contenuto predeterminato, ovvero una statuizione obbligatoria di carattere accessorio, anche se a contenuto discrezionale. Non può, tuttavia, farsi ricorso a tale procedimento quando il giudice, nel redigere la sentenza e in conseguenza di un mero errore di sostituzione del file informatico, ad un'epigrafe pertinente abbia fatto seguire uno "svolgimento del processo", dei "motivi della decisione" ed un dispositivo afferenti ad una diversa controversia: in tal caso, infatti, l'estensione della correzione integra il deposito di una decisione affatto distinta, la quale verrebbe interamente sostituita a quella corretta; c) Sez. 6-2, n. 15650/2016, Giusti, Rv. 640597, secondo cui la procedura di correzione di errore materiale è esperibile per rimediare all'omessa liquidazione delle spese processuali nel dispositivo della sentenza, qualora l'omissione non evidenzi un contrasto tra motivazione e dispositivo, ma solo una dimenticanza dell'estensore.

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CAPITOLO XXXVI

LE PROVE

(di Rosaria Giordano )

Sommario

1 Principio di non contestazione. - 2 Onere della prova. - 2.1 Controversie in materia di obbligazioni. - 2.2 Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale. - 2.3 Controversie in materia di lavoro. - 2.4 Ulteriori declinazioni del principio dell'onere della prova. - 2.5 Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova. - 3 Documenti. - 3.1 Disconoscimento e verificazione della scrittura privata. - 3.2 Querela di falso. - 4 Confessione. - 5 Testimonianza. - 5.1 Limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della prova per testi. - 5.2 Profili processuali. - 6 Giuramento. - 7 Presunzioni. - 8 Prove raccolte in un altro processo.

1. Principio di non contestazione.

L'art. 115 c.p.c. è stato novellato, come noto, dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, nel senso che i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita possono essere posti dal giudice a fondamento della decisione senza che occorra dimostrarli.

Sulla questione, in generale, Sez. 3, n. 12517/2016, Cirillo, Rv. 640279, ha ribadito che la non contestazione del convenuto costituisce un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale, ritenendolo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti. Peraltro, come ulteriormente chiarito da Sez. 3, n. 08647/2016, Pellecchia, Rv. 639713, il principio di non contestazione opera, indifferentemente, nei confronti del convenuto, come dell'attore.

Sez. 3, n. 15772/2016, Barreca, Rv. 641157, ha evidenziato, poi, che, ai fini della decisione, il contenuto della contestazione della parte convenuta va desunto dalla comparsa di risposta ovvero dai successivi scritti difensivi, non essendo alla stessa precluso, allorché contesti la sussistenza dei fatti principali posti a fondamento della pretesa dell'attore, dedurne comunque l'infondatezza in via subordinata, senza che ciò implichi il loro riconoscimento.

Ulteriori precisazioni sono state svolte in ordine all'ambito applicativo del principio di non contestazione.

In particolare, Sez. L, n. 17966/2016, Manna, Rv. 641176, ha chiarito che esso non si applica alle mere difese, mentre Sez. 3, n. 12748/2016, Tatangelo, Rv. 640254, ha evidenziato che l'onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, né la loro valenza probatoria la cui valutazione, in relazione ai fatti contestati, è riservata al giudice. Per converso, Sez. 1, n. 13436/2016, Nazzicone, Rv. 640400, ha affermato che il principio di non contestazione opera anche con riguardo a fatti riferiti a diritti indisponibili.

2. Onere della prova.

L'art. 2697 c.c., in tema di riparto dell'onere probatorio tra le parti del giudizio, può assurgere a criterio di decisione dei fatti controversi.

Invero, il divieto di non liquet posto in capo al giudice determina, in ogni sistema giuridico, l'esigenza di individuare una regola di giudizio che ripartisca il rischio della mancata prova tra le parti, affinché, nell'ipotesi in cui non si sia pervenuti, anche in via presuntiva, alla dimostrazione dell'esistenza di un fatto idoneo a produrre determinate conseguenze giuridiche, la carenza di prova venga posta a carico della parte alla quale spettava l'onere di provare la sussistenza dello stesso.

La fondamentale importanza delle regole in materia di onere della prova è confermata dalla particolare attenzione riservata alla medesima nella giurisprudenza di legittimità in diversi ambiti.

2.1. Controversie in materia di obbligazioni.

Si segnala, in primo luogo, Sez. L, n. 17713/2016, Esposito, Rv. 640821, la quale ha ribadito che, in tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito, una volta che il debitore abbia fornito la prova dell'inesistenza o dell'estinzione del debito relativo al rapporto fondamentale indicato dal creditore (ovvero dallo stesso debitore, essendone il creditore esentato e non essendo la promessa titolata), spetta a chi si afferma comunque creditore l'indicazione di un diverso rapporto sottostante che giustifichi il credito, in quanto il principio dell'astrazione processuale della causa, posto dall'art. 1988 c.c., che esonera colui a favore del quale la promessa o la ricognizione è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale, non può intendersi nel senso che al debitore compete l'impossibile prova dell'assenza di qualsiasi altra ipotetica ragione di debito, ulteriore rispetto a quella di cui abbia dimostrato l'insussistenza.

Sempre in tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito, Sez. 1, n. 26334/2016, Terrusi, in corso di massimazione, ha precisato che, sebbene il cessionario del credito non possa avvalersi della presunzione correlata alla scrittura ricognitiva di debito in sé e per sé considerata, può riferirsi, nell'ipotesi di dichiarazione titolata, al fatto o rapporto giuridico dai quali trae origine il diritto fatto valere ed in ordine al quale il riconoscimento viene ad assumere valore di prova.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 06217/2016, Di Marzio, Rv. 639263, ha chiarito che, nel caso in cui il debitore eccepisca l'estinzione del debito per effetto dell'emissione di un assegno bancario negoziato in favore del creditore prenditore in una data significativamente anteriore a quella in cui il credito fatto valere in giudizio sia divenuto esigibile, la diversità di data, facendo venire meno la verosimiglianza del collegamento tra il credito azionato e il titolo di credito, implica che resti a carico del debitore l'onere di dimostrare la causale dell'emissione dell'assegno e, conseguentemente, che il rilascio del titolo di credito fosse volto ad estinguere in via anticipata il debito oggetto del processo.

Sez. 1, n. 25597/2016, Olivieri, in corso di massimazione, ha poi ribadito il principio, conforme all'insegnamento risalente della Corte, per il quale, in tema di condizione potestativa semplice, poiché l'acquisto del diritto dipende da un evento futuro ed incerto rimesso alla condotta volontaria di una delle parti e, pertanto, la stessa è elemento costitutivo della fattispecie negoziale attributiva del diritto, ai sensi dell'art. 2697 c.c., è colui il quale intende affermare che l'evento condizionante si è avverato a dover fornire in giudizio la prova di tale fatto.

In materia contrattuale, Sez. 2, n. 23893/2016, Manna, in corso di massimazione, ha affermato che nel contratto di prestazione d'opera intellettuale, come nelle altre ipotesi di lavoro autonomo, l'onerosità è elemento normale, anche se non essenziale, sicché, per esigere il pagamento, il professionista deve provare il conferimento dell'incarico e l'adempimento dello stesso, e non anche la pattuizione di un corrispettivo, mentre è onere del committente dimostrare l'eventuale accordo sulla gratuità della prestazione.

2.2. Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale.

Principi significativi sono stati affermati dalla Corte anche in ordine al riparto dell'onere della prova in materia di responsabilità extracontrattuale.

In particolare, Sez. 3, n. 13919/2016, Rubino, Rv. 640523, ha evidenziato, in tema di responsabilità medica, che la struttura ospedaliera che esegua un intervento chirurgico d'urgenza non può invocare lo stato di necessità di cui all'art. 2045 c.c., il quale implica l'elemento dell'imprevedibilità della situazione d'emergenza, la cui programmazione rientra nei compiti di ogni struttura sanitaria e, con riguardo alle risorse ematiche, deve tradursi in un approvvigionamento preventivo o nella predeterminazione delle modalità per un rifornimento aggiuntivo straordinario, sicché grava sulla struttura la prova di aver eseguito, sul sangue pur somministrato in via d'urgenza, tutti i controlli previsti all'epoca dei fatti.

Sotto altro profilo, è stato evidenziato da Sez. 3, n. 03173/2016, Rossetti, Rv. 639075, che poiché in tema di assicurazione per responsabilità civile, il massimale non è elemento essenziale del contratto di assicurazione, che può essere validamente stipulato senza la relativa pattuizione, e neppure costituisce fatto generatore del credito assicurato, configurandosi piuttosto come elemento limitativo dell'obbligo dell'assicuratore, grava su quest'ultimo l'onere di provare l'esistenza e la misura del massimale, dovendosi altrimenti accogliere la domanda di garanzia proposta dall'assicurato a prescindere da qualsiasi limite di massimale.

Sez. 6–3, n. 25898/2016, Rubino, in corso di massimazione, ha precisato che, in materia di occupazione "sine titulo", il danno subito dal proprietario non è in "re ipsa" se non in senso meramente "descrittivo", sicché l'attore è tenuto ad allegare ed a provare, anche mediante l'ausilio di presunzioni, il fatto base dal quale discende il pregiudizio ovvero il fatto che, ove avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell'immobile, l'avrebbe effettivamente impiegato per una finalità produttiva (di godimento diretto o di locazione a terzi).

Su un piano generale, Sez. 2, n. 23759/2016, Scarpa, in corso di massimazione, ha ricostruito i rapporti, con le relative conseguenze in tema di riparto dell'onere probatorio, tra eccezione di compensazione ed eccezione di inadempimento. In particolare, si è evidenziato che l'eccezione di compensazione e l'eccezione di inadempimento differiscono per presupposti e funzione, i quali implicano una diversa distribuzione dell'onere probatorio: l'eccezione di compensazione, infatti, si fonda su un fatto estintivo dell'obbligazione , sicché grava sulla parte che la invoca l'onere della prova del proprio controcredito; l'eccezione di inadempimento, invece, si basa sull'allegazione di un fatto impeditivo dell'altrui pretesa avanzata, nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di inadempimento dello stesso creditore, con la conseguenza che il debitore potrà limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento, gravando sul creditore l'onere di dimostrare l'esatto adempimento.

2.3. Controversie in materia di lavoro.

Sez. L, n. 02209/2016, Esposito, Rv. 638608, ha ribadito che, ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro per un infortunio sul luogo di lavoro, incombe sul lavoratore l'onere di provare di aver subito un danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedirlo e, tra queste, di aver vigilato circa l'effettivo uso degli strumenti di cautela forniti al dipendente, non potendo essere ragione di esonero totale da responsabilità l'eventuale concorso di colpa di altri dipendenti, se non quando la loro condotta rappresenti la causa esclusiva dell'evento. Più in particolare, Sez. L, n. 00034/2016, Tria, Rv. 638243, ha statuito che, nell'ipotesi di lavoratori addetti all'esazione del pedaggio stradale esposti al rischio di rapina, l'osservanza del generico obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l'adozione delle correlative misure di sicurezza cd. "innominate", sicché incombe sullo stesso, ai fini della prova liberatoria correlata alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle suindicate misure, l'onere di far risultare l'adozione di comportamenti specifici che, pur non dettati dalla legge o altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.

Quanto al licenziamento per giusta causa, dovuto alla perdurante assenza dal servizio del lavoratore presso una nuova sede di destinazione, Sez. L, n. 14375/2016, Spena, Rv. 640567, ha evidenziato che spetta al datore di lavoro l'onere di provare la legittimità dell'ordine di trasferimento, quale fondamento della giusta causa, mediante l'allegazione delle sottese esigenze organizzative che lo giustificano ai sensi dell'art. 2103 c.c., mentre il lavoratore può limitarsi ad impugnare il licenziamento, sostenendo l'illegittimità dell'ordine inadempiuto, senza alcun onere iniziale di contestazione di fatti la cui prova ed allegazione ricade sul datore di lavoro.

Sempre in tema di licenziamento per giusta causa, Sez. L, n. 24023/2016, Patti, Rv. 641703, ha precisato che l'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro (nella specie, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti), è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti.

Con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Sez. L, n. 13516/2016, Manna, Rv. 640460, ha affermato che, poiché in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro ha, ai sensi dell'art. 41 Cost., la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell'incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall'art. 3 della l. 15 luglio 1966, n. 604 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività.

2.4. Ulteriori declinazioni del principio dell'onere della prova.

In tema di successione testamentaria, Sez. 2, n. 20830/2016, Falabella, Rv. 641511, ha affermato che il legittimario il quale propone l'azione di riduzione ha l'onere di indicare entro quali limiti è stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonchè quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, il legittimario ha pertanto l'onere di allegare e provare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva oltre che proporre, sia pure senza l'uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal "de cuius".

In tema di diritti reali, Sez. 2, n. 25342/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha ritenuto che la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell'azione al fine di esigere l'osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c., sicché la parte convenuta per l'eliminazione di vedute poste a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 905 c.c., la quale affermi il diritto a mantenerle, ha l'onere di provare l'avvenuto acquisto, a titolo negoziale od originario, della relativa servitù, a nulla rilevando la mera preesistenza di fatto di tali aperture.

Si segnala, Sez. 1, n. 11578/2016, Nazzicone, Rv. 639884, la quale ha chiarito che, in tema di intermediazione finanziaria, la sottoscrizione, da parte del cliente, della clausola in calce al modulo d'ordine, contenente la segnalazione d'inadeguatezza dell'operazione sulla quale egli è stato avvisato, è idonea a far presumere assolto l'obbligo previsto in capo all'intermediario dall'art. 29, comma 3, del reg. Consob n. 11522 del 1998. La Corte ha precisato che, tuttavia, a fronte della contestazione del cliente, il quale alleghi l'omissione di specifiche informazioni, grava sulla banca l'onere di provare, con qualsiasi mezzo, di averle specificamente rese.

Disattendendo l'opposto principio affermato da altro precedente di legittimità, Sez. 1, n. 09989/2016, Sambito, Rv. 639654, ha affermato che la Pubblica Amministrazione, convenuta nel giudizio di opposizione ad ingiunzione ex art. 3 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, per l'accertamento di un credito riconducibile ai rapporti obbligatori di diritto privato, assume la posizione sostanziale di attrice, sicché, ai sensi dell'art. 2697 c.c., è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, mentre l'opponente deve dimostrare la loro inefficacia ovvero l'esistenza di cause modificative o estintive degli stessi.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 09389/2016, Barreca, Rv. 639901, ha precisato che, nell'ipotesi di stipulazione del contratto di mutuo fondiario ai sensi dell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 21 gennaio 1976, n. 7, l'onere della prova dell'erogazione della somma data a mutuo è assolto dall'istituto di credito mutuante mediante la produzione in giudizio dell'atto pubblico notarile di erogazione e quietanza, spettando, in tal caso, al debitore che si opponga all'azione esecutiva del creditore dare la prova della restituzione della somma mutuata e degli accessori ovvero di altre cause estintive dell'obbligazione restitutoria.

Sez. 2, n. 14538/2016, Cosentino, Rv. 640264, ha chiarito, poi, che, in tema di pubblico impiego, la preesistenza di una cessione stipendiale incompatibile con una nuova cessione, ai sensi dell'art. 39 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180, è un fatto impeditivo, la cui prova spetta al debitore ceduto il quale opponga al cessionario la nullità della cessione da quest'ultimo dedotta in giudizio.

2.5. Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova.

La Corte non ha trascurato di ribadire che la regola generale posta dall'art. 2697 c.c. in tema di riparto dell'onere della prova può essere attenuata quando una rigida applicazione della stessa potrebbe condurre a risultati sostanzialmente iniqui.

Si segnala, in particolare, Sez. 6-1, n. 14157/2016, Ragonesi, Rv. 640261, la quale, premesso che requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione "personale e diretta" nel Paese d'origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate, ha sottolineato che il relativo onere probatorio, pur incombendo sull'istante, riceve un'attenuazione in funzione dell'intensità della persecuzione ed è assolto laddove sia dimostrata, anche in via indiziaria, la "credibilità" dei fatti allegati, i quali, peraltro, devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza.

In applicazione del principio di vicinanza della prova, essenziale per il rispetto del canone della parità delle armi tra le parti in causa, Sez. 3, n. 06209/2016, Sestini, Rv. 639386, ha chiarito che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, al quale, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato.

3. Documenti.

La Corte è intervenuta per effettuare non trascurabili precisazioni sia sulle complesse questioni afferenti il disconoscimento e la verificazione della scrittura privata, sia in ordine a talune problematiche concernenti il giudizio di falso.

3.1. Disconoscimento e verificazione della scrittura privata.

Il tempestivo disconoscimento, ai sensi dell' art. 214 c.p.c. della scrittura privata, da parte dell'apparente sottoscrittore determina, per la parte la quale abbia prodotto e voglia avvelersi del documento, l'onere di proporre tempestiva istanza di verificazione.

Sez. 1, n. 24539/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, ha precisato, quanto all'ambito applicativo della predetta regola generale, che la stessa non opera qualora la scrittura sia stata prodotta in giudizio dall'apparente sottoscrittore il quale è, ove voglia contestare detta circostanza, tenuto a dimostrarla mediante gli ordinari mezzi di prova, senza che, pertanto, il disconoscimento della sottoscrizione da parte dello stesso oneri l'altra parte della proposizione dell'istanza di verificazione.

In tema di disconoscimento della sottoscrizione, Sez. 6-L, n. 09255/2016, Marotta, Rv. 639595, ha evidenziato che la conciliazione in sede sindacale non ha natura di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, sicché il lavoratore può limitarsi a disconoscere la propria sottoscrizione facendo ricadere sulla controparte l'onere di chiederne la verificazione, la cui mancanza determina l'inutilizzabilità dell'atto.

Sez. 2, n. 04946/2016, Criscuolo, Rv. 639179, ribadito che il procedimento di verificazione di scrittura privata ex art. 216 c.p.c. dà luogo ad un autonomo giudizio sull'autenticità del documento in sé considerato, che ne costituisce l'oggetto immediato, ha affermato che, in tale giudizio, la richiesta di accertamento dell'autenticità di altro documento, prodotto ma diverso da quello oggetto della originaria istanza di verificazione, costituisce domanda nuova.

Sotto altro profilo, Sez. 2, n. 25881/2016, Migliucci, in corso di massimazione, ha chiarito che, laddove vi sia riconoscimento tacito in giudizio della scrittura privata ai sensi dell'art. 215 c.p.c., la formazione del giudicato sull'autenticità del documento ha effetto solo tra le parti in causa, mentre resta ferma la possibilità per un terzo di contestare detta autenticità fornendo la prova di quanto dedotto.

3.2. Querela di falso.

La Corte è inoltre intervenuta su diverse questioni inerenti il giudizio di querela di falso.

In primo luogo, Sez. 1, n. 11028/2016, Dogliotti, Rv. 639830, ha precisato che la denuncia dell'abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco proveniente da un terzo postula la proposizione della querela di falso tutte le volte in cui il riempimento risulti avvenuto absque pactis e la scrittura abbia un'incidenza sostanziale e/o processuale intrinsecamente elevata.

Significativi i principi sanciti da Sez. 1, n. 01866/2016, Valitutti, Rv. 638328, la quale ha affermato che la querela di falso proposta in via principale si configura, malgrado la peculiarità del suo oggetto, come un giudizio ordinario di cognizione nel quale trova applicazione l'art. 183, comma 6, c.p.c., senza che a ciò osti l'art. 221 c.p.c., che ha la propria ratio esclusiva nel consentire al giudice di valutare preliminarmente, in omaggio al principio della ragionevole durata del processo, la sussistenza dei presupposti per la proposizione della querela. Sul tema si segnala, inoltre, Sez. 2, n. 23899/2016, Correnti, in corso di massimazione, la quale ha precisato che la querela di falso proposta in appello, sebbene di regola il giudice debba limitarsi ad accertare la sussistenza dei presupposti necessari per instaurare il relativo giudizio, può essere dichiarata manifestamente infondata, mediante un'interpretazione restrittiva dell'art. 355 c.p.c., in virtù del principio della ragionevole durata del processo.

Sez. 2, n. 08705/2016, Scarpa, Rv. 639748, ha chiarito che, in tema di querela di falso, l'art. 225, comma 1, c.p.c., nell'imporre la pronuncia del collegio, non detta una regola di trattazione collegiale del procedimento ma esprime solo una riserva al tribunale in composizione collegiale limitatamente ai poteri decisori e non anche all'emissione di provvedimenti di rilevanza meramente ordinatoria o istruttoria.

4. Confessione.

Si segnala Sez. 1, n. 13857/2016, Lamorgese, Rv. 640447, la quale ha evidenziato che, in tema di prova della simulazione di un contratto di trasferimento di quote di partecipazione in una società, il quale non richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem, le limitazioni poste, nei rapporti tra le parti contraenti, dall'art. 1417, comma 2, c.c., riguardano soltanto la prova testimoniale (e, correlativamente, quella per presunzioni) ma non l'interrogatorio formale, non essendo prevista per la confessione, che ha carattere di piena prova legale, una disposizione corrispondente a quella della simulazione ed attraverso il cui espletamento può essere utilmente acquisita sia la prova piena della simulazione, in caso di confessione piena e completa, sia un principio di prova, se le risposte sono tali da rendere verosimile la simulazione, sì da rendere ammissibile la prova testimoniale, a norma dell'art. 2724, comma, 1, n. 1, c.c.

Ai fini della revoca della confessione per errore di fatto, è necessario dimostrare, secondo quanto precisato da Sez. 1, n. 09777/2016, De Chiara, Rv. 639665, non solo l'inesistenza del fatto confessato ma anche che, al momento della confessione, il confitente versava in errore, provando le circostanze che lo avevano indotto a ritenere che il fatto confessato fosse vero.

5. Testimonianza.

La Corte ha affermato rilevanti principi in tema di prova testimoniale sia in ordine ai limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della stessa sia circa questioni di carattere più squisitamente processuale afferenti le modalità di deduzione di tale mezzo di prova, le valutazioni da compiere ai fini della rilevanza della stessa ed i poteri del giudice.

5.1. Limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della prova per testi.

Sez. 1, n. 05919/2016, Di Marzio, Rv. 639061, ha precisato che il contraente di un contratto per cui è prevista la forma scritta ad substantiam, privo del possesso della scrittura per averla consegnata all'altro contraente che si rifiuta di restituirla, non può provare l'esistenza del rapporto avvalendosi della prova testimoniale, poiché non si verte in un'ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell'art. 2724, n. 3, c.c., bensì di impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi del n. 2 del medesimo articolo. In ordine all'impossibilità morale di procurarsi la prova scritta, Sez. 1, n. 13857/2016, Rv. 640448, Lamorgese, ha precisato che la stessa non è configurabile a fronte della mera astratta posizione di preminenza della persona dalla quale la dichiarazione scritta doveva essere pretesa, o di un vincolo affettivo con la persona stessa, ma non è comunque esigibile l'allegazione di circostanze ostative assolute, sicché tale situazione non può essere negata in presenza di circostanze, anche di dettaglio, particolari o speciali, concorrenti a specificare la situazione di oggettivo impedimento psicologico, dovendosi volgere l'operato del giudice, con specifica sensibilità, alla valutazione delle circostanze allegate, sia in relazione al tipo di rapporto dedotto inter partes, sia alla possibile incidenza di eventi o situazioni particolari.

Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 11467/2016, Lamorgese, Rv. 639842, ha ribadito che, in tema di simulazione del contratto, il principio di prova scritta che, ai sensi dell'art. 2724, n. 1, c.c. consente eccezionalmente la prova per testi (e, quindi, presuntiva) deve consistere in uno scritto, proveniente dalla persona contro la quale la domanda è diretta, diverso dalla scrittura le cui risultanze si intendono così sovvertire e contenente un qualche riferimento al patto che si deduce in contrasto con il documento, sicché lo stesso non può desumersi dal medesimo atto impugnato per simulazione, non ricorrendo alcun riferimento o collegamento logico, in contrasto con il documento, tra il negozio asseritamente simulato e quello sottostante.

Circa i limiti soggettivi di ammissibilità della prova testimoniale, si segnala Sez. 3, n. 13212/2016, Travaglino, Rv. 640397, la quale ha chiarito che il promotore finanziario il quale abbia agito quale mandatario senza rappresentanza di un intermediario finanziario, e non abbia mai intrattenuto rapporti con lo stesso, non è incapace a deporre, ex art. 246 c.p.c., nel giudizio intrapreso dall'investitore nei confronti dell'intermediario medesimo, non avendo un interesse attuale e concreto all'esito di tale giudizio, stante la distinta responsabilità del promotore e del soggetto abilitato per le eventuali violazioni dei propri doveri di comportamento.

5.2. Profili processuali.

Sez. 3, n. 11790/2016, Scrima, Rv. 640173, ha evidenziato che nel processo civile disciplinato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, che ha abrogato gli ultimi due commi dell'art. 244 c.p.c., il termine assegnato dal giudice istruttore ai sensi dell'art. 184, comma 1, c.p.c. per deduzioni istruttorie concernenti la prova testimoniale riguarda non solo la formulazione dei capitoli ma anche l'indicazione dei testi, sicché, una volta che il giudice abbia provveduto sulle richieste avanzate dalle parti, non è più possibile effettuare tale indicazione od integrare la lista testi, in quanto l'unica attività processuale giuridicamente possibile circa le prove ammesse consiste nell'assunzione delle medesime.

Quanto alla fase di espletamento della prova testimoniale ammessa, poiché la facoltà del giudice di chiedere chiarimenti e precisazioni ex art. 253 c.p.c. incontra quale unico limite quello di non introdurre fatti nuovi o circostanze che, pur rilevanti sul piano probatorio, non siano state oggetto di capitoli di prova o siano state dedotte in capitoli non ammessi e l'osservanza di tale limite è desumibile non solo dalla domanda, ma anche dal tenore della risposta, Sez. 3, n. 15793/2016, Barreca, Rv. 641149, ha affermato che è di conseguenza irrilevante l'omessa trascrizione della prima nel verbale d'udienza, atteso che la verbalizzazione della seconda è sufficiente a dare conto della decisione del giudice di ammettere la domanda ed a consentirne il controllo in ordine all'ammissibilità dei fatti che ne sono stati oggetto.

Circa la valutazione della deposizione testimoniale, si segnala Sez. L, n. 10347/2016, Manna, Rv. 639780, in ordine alla possibilità di ritenere attendibile la stessa anche limitatamente a determinati contenuti, purché, tra la parte del narrato ritenuta inattendibile ed il resto ritenuto meritevole di credito, non sussista un rapporto di causalità necessaria o l'una non costituisca un imprescindibile antecedente logico dell'altro.

Si segnala, per altro verso, Sez. 2, n. 23896/2016, Scarpa, in corso di massimazione, per la quale nell'ipotesi in cui in sede di ricorso per cassazione venga dedotta l'omessa motivazione del giudice d'appello sull'eccezione di nullità della prova testimoniale (nella specie, per incapacità ex art. 246 c.p.c.), il ricorrente ha l'onere, anche in virtù dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare che detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. subito dopo l'assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c., dovendo, in mancanza, ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo.

6. Giuramento.

Sez. 1, n. 05090/2016, Nappi, Rv. 639028, ha ribadito che nel giuramento estimatorio ciò che rileva è l'essenzialità dell'accertamento del valore della cosa in relazione al petitum, onde il giuramento può essere deferito anche per stabilire il valore di una cosa perduta o perita a causa dell'inadempimento di un'obbligazione strumentale alla sua conservazione e, dunque, per determinare il tantundem dovuto a fini risarcitori.

7. Presunzioni.

La prova critica o indiziaria è una prova in senso pieno e non un argomento di prova, poiché il fatto secondario deve essere dimostrato attraverso gli ordinari mezzi di prova e, – soltanto in seguito –, il giudice effettuerà un ragionamento mediante il quale potrà dichiarare l'esistenza o l'inesistenza del fatto primario rilevante ai fini della decisione.

Sulle prove presuntive si segnala, in termini generali, Sez. 6-5, n. 04241/2016, Caracciolo, Rv. 639433, la quale ha evidenziato che la presunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, perché mentre il fatto sul quale si fonda la prima dev'essere provato in giudizio ed il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata, essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria, la cui omissione impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli la valutazione ai sensi dell'art. 116 c.p.c.

È stato quindi affermato, da parte di Sez. 6–1, n. 00526/2016, Bisogni, Rv. 638257, che, in tema di revocatoria fallimentare, la conoscenza dello stato d'insolvenza dell'imprenditore da parte del terzo contraente, che deve essere effettiva e non meramente potenziale, può essere provata dal curatore, su cui incombe il relativo onere, tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, ex artt. 2727 e 2729 c.c., desumibili anche dall'esistenza di protesti cambiari, in forza del loro carattere di anomalia rispetto al normale adempimento dei debiti d'impresa (sicché l'avvenuta pubblicazione di una pluralità di protesti può assumere rilevanza presuntiva tale da esonerare il curatore dal provare che gli stessi fossero noti al convenuto in revocatoria, su quest'ultimo risultando, in tal caso, traslato l'onere di dimostrare il contrario).

Quanto alla prova presuntiva del danno da dequalificazione professionale, Sez. L, n. 17163/2016, Negri Della Torre, Rv. 640897, ha chiarito che non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo procedere il giudice di merito, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza.

8. Prove raccolte in un altro processo.

La Corte ha enunciato alcuni principi anche circa la valenza probatoria di prove assunte in altri processi.

In particolare, Sez. 3, n. 01665/2016, Graziosi, Rv. 638323, ha precisato che il principio di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, operante al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 651, 651-bis e 654 c.p.p., esclude l'obbligo per il giudice civile di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale, ma non giustifica, da parte di questi, la totale omessa considerazione delle argomentazioni difensive, che si fondino sulle prove assunte nel processo penale o sulla motivazione della sentenza penale attinente alla stessa vicenda oggetto di cognizione nel processo civile.

Si segnala, poi, Sez. 1, n. 01948/2016, Mercolino, Rv. 638318, per la quale le risultanze di intercettazioni ambientali legittimamente effettuate in un procedimento penale sono utilizzabili nel giudizio civile riguardante l'incandidabilità ex art. 143, comma 11, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270, comma 1, c.p.p., riferibili esclusivamente ai procedimenti penali diversi da quelli in cui sono state disposte e senza che, peraltro, possa ipotizzarsi alcuna lesione del diritto di difesa della parte nei cui confronti le stesse vengono fatte valere, che può, in quel giudizio, contestare la legittima effettuazione ed il contenuto, nonchè dedurre e produrre mezzi di prova in senso contrario, ivi esse assumendo il valore di elementi indiziari, come tali liberamente valutabili dal giudice, ai fini del proprio convincimento sui fatti di causa, sulla base delle regole che disciplinano le prove per presunzioni.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XXXVII

LE IMPUGNAZIONI

(di Salvatore Sajia )

Sommario

1 Le impugnazioni in generale. - 2 Appello. Le novità normative. - 3 (segue) In generale. - 4 Cassazione. - 5 (segue) In generale. - 6 Revocazione. - 7 Le altre impugnazioni.

1. Le impugnazioni in generale.

Nel presente paragrafo, verranno riportate le più significative pronunce del 2016 con valenza generale per tutti i mezzi di impugnazione.

Iniziando dalla notificazione dell'impugnazione, Sez. 2, n. 16311/2016, Manna F., Rv. 640833, ha stabilito che nel caso in cui presso il medesimo difensore nel giudizio di primo grado sia stato eletto il domicilio da più parti, la notifica dell'appello presso tale domicilio deve intendersi validamente eseguita anche nei confronti di coloro che non abbiano proposto impugnazione, a meno che, per la sopravvenuta incompatibilità del domiciliata rio rispetto alla posizione delle parti non appellanti, non possa configurarsi una lesione del diritto di difesa.

A composizione di contrasto con riferimento alla notifica del ricorso per cassazione, ma con valenza generale quanto alla dicotomia nullità/inesistenza della notifica dell'impugnazione, Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603, ha affermato che l'inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi – secondo la citata sentenza – consistono: a) nell'attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, "ex lege", eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l'atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.

Con la stessa pronuncia, Rv. 640604, è stato conseguentemente affermato che il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell'atto, sicché i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell'ambito della nullità dell'atto, come tale sanabile, con efficacia "ex tunc", o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.

Non può invece procedersi alla rinnovazione ex art. 291 c.p.c., secondo Sez. 1, n. 07959/2016, Lamorgese, Rv. 639607, ove la notificazione del ricorso per cassazione sia stata effettuata nei confronti di procuratore privo di ogni collegamento o relazione con l'intimato, poichè essa è da considerare inesistente. Ove invece il procuratore destinatario della notificazione sia privo soltanto della qualità di domiciliatario, per Sez. 2, n. 03648/2016, Falaschi, Rv. 638761, la notifica è solo nulla e non inesistente, sicchè la nullità resta sanata ove il destinatario si costituisca in giudizio.

Sempre riguardo al luogo della notificazione ai fini dell'impugnazione, Sez. 6-T, n. 12498/2016, Iofrida, Rv. 640022, ha affermato che la notificazione alla parte presso il procuratore costituito equivale alla notificazione al procuratore stesso ai sensi dell'art. 84 c.p.c., e ciò in quanto l'art. 330 c.p.c. si limita ad identificare il luogo della notificazione, mentre la vocatio in ius ha quale destinatario la parte personalmente. Pertanto, l'impugnazione deve ritenersi validamente notificata alla parte presso lo studio del difensore, senza che occorra una notifica alla parte personalmente.

Non può configurarsi, secondo Sez. 3, n. 12290/2016, Olivieri, Rv. 640300, alcun problema di competenza per territorio riguardo alle notificazione eseguita dall'avvocato ai sensi della legge 21 gennaio 1994, n. 53, che non pone alcun limite territoriale alla potestà notificatoria da essa disciplinata.

Sez. 1, n. 09993/2016, Di Virgilio, Rv. 639741, ha ribadito che la proposizione del ricorso per cassazione determina la consumazione del potere di impugnazione, sicchè alla parte è preclusa – qualora l'altra parte abbia a sua volta proposto autonomo ricorso per cassazione – la proposizione di nuovi motivi aggiunti, né può ripetere le proprie doglianze con un nuovo ricorso incidentale, da considerarsi inammissibile e valevole, nei limiti in cui tende a contrastare l'avversa impugnazione, quale controricorso.

Ancora sul tema, Sez. 6-L, n. 02478/2016, Garri, Rv. 638949, ha ribadito che, nel caso di proposizione di due successivi appelli avverso la medesima sentenza, senza che tuttavia l'inammissibilità del primo sia stata ancora dichiarata all'atto della proposizione del secondo, il termine di quest'ultimo è quello breve, decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, giacchè questa non può che presupporre la legale conoscenza della sentenza impugnata.

In tema di acquiescenza, Sez. 2, n. 03934/2016, Criscuolo, Rv. 638974, ha ribadito che la forma tacita può sussistere, ai sensi dell'art. 329 c.p.c., solo ove la parte abbia posto in essere atti da cui possa univocamente desumersi il proposito di non contrastare gli effettiu giuridici della pronuncia, trattandosi di atti incompatibili con la volontà di impugnare.

Ancora, Sez. L, n. 11868/2016, Di Paolantonio, Rv. 640002, ha affermato che il potere del giudice di individuare l'esatta regola di diritto deve parametrarsi, per l'appello, con le preclusioni che derivano dagli artt. 329 e 346 c.p.c., e per il giudizio di cassazione, dalla natura di mezzo di impugnazione a critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi.

Relativamente al termine per impugnare, Sez. 6-L, n. 18154/2016, Curzio, Rv. 641086, ha ribadito che nei giudizi concernenti l'invalidità civile, la cecità civile, il sordomutismo, handicap e la disabilità, poiché i funzionari delegati alla difesa processuale dell'INPS hanno tutte le capacità connesse alla qualità di difensore, la notifica della sentenza da loro ricevuta ai sensi dell'art. 170, comma 3, c.p.c., è idonea a far decorrere il termine breve di cui all'art. 325 c.p.c.. Tuttavia, a tal fine, secondo Sez. L, n. 17532/2016, Spena, Rv. 641178, occorre che la sentenza sia notificata direttamente al funzionario incaricato, insufficiente essendo la mera notifica presso l'ufficio provinciale dell'INPS.

Sempre in relazione al contenzioso con l'INPS, Sez. 6-L, n. 14054/2016, Marotta, Rv. 640480, ha affermato che ove l'ente sia rappresentato da un avvocato facente parte dell'organo di avvocatura interna, presso la cui sede sia stato eletto domicilio, la notifica della sentenza compiuta senza specifica indicazione del procuratore è inidona a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., dal momento che, trattandosi di organizzazioni complesse, la mera identità della domiciliazione non assicura che la sentenza giunga a conoscenza della parte per il tramite del suo procuratore.

L'ipotesi della difesa assunta dal funzionario dell'ente, a ciò abilitato da specifica previsione normativa, per Sez. L, n. 17596/2016, Boghetich, Rv. 640885, va tenuta distinta da quella in cui l'Avvocatura dello Stato, ai sensi dell'art. 2 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, deleghi per la rappresentanza dell'Amministrazione un funzionario o procuratore: in tal caso, poiché la delega investe la sola rappresentanza in giudizio, e non anche l'attività difensiva, la notifica della sentenza al delegato è radicalmente nulla, dovendo essa effettuarsi presso l'Avvocatura dello Stato, ex art. 11 r.d. n. 1611 del 1933.

Sempre riguardo alla tempestività dell'impugnazione, nei procedimenti soggetti al rito camerale, Sez. 6-1, n. 14731/2016, Mercolino, Rv. 640717, ha affermato che il gravame è tempestivamente proposto col deposito del ricorso, entro i termini, nella cancelleria del giudice competente, mentre la notifica dello stesso e del decreto di fissazione dell'udienza assolve alla funzione di assicurare l'integrazione del contraddittorio. Di conseguenza, nel caso di mancata notifica entro il termine assegnato (perché invalidamente effettuata o per mancata richiesta di proroga) non si determina alcuna preclusione, occorrendo solo rifissare il termine, a meno che controparte non si sia spontaneamente costituita in giudizio, così sanando il vizio con efficacia "ex tunc".

Non è invece idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, per Sez. U, n. 11366/2016, De Chiara, Rv. 639924, la produzione della sentenza in altro giudizio pendente tra le parti, poiché la notificazione della sentenza non ammette equipollenti quale fonte di conoscenza legale.

Nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 05374/2016, Scaldaferri, Rv. 638900, ha affermato che la comunicazione del testo integrale del decreto che abbia respinto il reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento (anteriormente all'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114), operata dalla cancelleria della corte d'appello a mezzo posta elettronica certificata (PEC), non è idonea a far decorrere il termine lungo.

Riguardo alla tempestività dell'impugnazione, merita di essere segnalata, per la novità della questione, anche Sez. 6-3, n. 27338/2016, Olivieri, in corso di massimazione, che ha affermato che ai fini della determinazione della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale da assumere a base del computo del termine cd. lungo di impugnazione previsto dall'art. 327, comma 1, c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza, tanto con riferimento ai giudizi ai quali trova applicazione il previgente termine annuale di decadenza, quanto con riferimento ai giudizi, instaurati in primo grado successivamente alla data del 4.7.2009, ai quali trova applicazione il più breve termine semestrale di decadenza, previsto dall'art. 327, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69, occorre verificare se l'atto di impugnazione sia stato notificato ovvero depositato anteriormente o successivamente alla data del 1° gennaio 2015, di entrata in vigore dell'efficacia dell'art. 16, comma 1, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132 conv. con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, che, sostituendo l'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, ha ridotto il periodo di sospensione da 46 giorni a 30 giorni (dal 1° al 31 agosto di ciascun anno), in tal modo modificando la originaria previsione della norma contenuta nel decreto legge che limitava ulteriormente il periodo di sospensione dal 6 al 31 agosto di ciascun anno. Soltanto nel caso in cui la impugnazione risulti proposta successivamente alla data indicata (1.1.2015), ai fini del computo del termine lungo si dovrà tenere conto della riduzione mensile del periodo di sospensione feriale, non avendo il Legislatore previsto alcun altro criterio di disciplina transitoria oltre a quello della data iniziale di efficacia della norma stabilita dall'art. 16, comma 3.

Riguardo alla legittimazione ad impugnare, Sez. L, n. 18188/2016, Boghetic, Rv. 641143, ha affermato che, in caso di fusione per incorporazione ai sensi degli artt. 2501 ss. c.c., come modificati dal d.lgs 17 gennaio 2003, n. 6, la società incorporata non si estingue, giacchè coinvolta in una vicenda evolutiva-modificativa della organizzazione societaria preesistente, con la conseguenza che essa sopravvive in tutti i rapporti, anche processuali, e può quindi impugnare i provvedimenti giurisdizionali di cui è destinataria.

Ancora, Sez. 1, n. 26196/2016, Ferro, in corso di massimazione, ha ribadito che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2495, comma 2, c.c., come modificato dall'art. 4 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento, contestualmente alla pubblicità nell'ipotesi in cui essa sia stata effettuata successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003, e con decorrenza dal 1° gennaio 2004 nel caso in cui abbia avuto luogo in data anteriore; ne consegue che l'appello successivo al verificarsi della cancellazione deve provenire (o essere indirizzato) dai soci (o nei confronti dei soci) succeduti alla società estinta, a pena di inammissibilità.

Quanto invece alla legittimazione passiva, nel caso di conferimento di azienda individuale in società di capitali, Sez. 2, n. 17959/2016, Giusti, Rv. 640888, ha stabilito che, poiché ciò costituisce cessione d'azienda e sul piano processuale configura un'ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, ove il conferimento sia avvenuto dopo la pubblicazione della sentenza d'appello, la notifica del ricorso per cassazione ben può essere effettuata presso il conferente, che conserva la legittimazione a riceverla quale sostituto processuale del cessionario, ex art. 111 c.p.c..

Sullo stesso tema, Sez. T, n. 12785/2016, Genovese, Rv. 640140, ha affermato che nel caso di fallimento della parte intervenuto tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione dell'appello, la notifica del gravame effettuata presso il procuratore domiciliatario del fallito in bonis, anziché al curatore fallimentare, non è inesistente, bensì nulla, con la conseguenza che, in caso di mancata costituzione della curatela, deve disporsene la rinnovazione.

Ancora, Sez. 2, n. 25779/2016, Orilia, in corso di massimazione, ha ribadito che poichè la qualità di parte legittimata a proporre il ricorso per cassazione o per resistere ad esso spetta unicamente a chi abbia formalmente assunto la veste di parte nel giudizio di merito conclusosi con la decisione impugnata, va dichiarato inammissibile, per difetto di rituale instaurazione del processo, il ricorso per cassazione proposto contro soggetti diversi da quelli che sono stati parti nel giudizio di merito, ciò che preclude l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti legittimati, non potendosi ordinare la citazione di altri soggetti in una situazione di radicale carenza del rapporto processuale di base.

In controversia attinente al danno alla persona, liquidato sulla base delle "tabelle milanesi", Sez. 3, n. 25485/2016, Olivieri, in corso di massimazione, ha affermato che, ove dopo la spedizione a sentenza i valori espressi in dette tabelle siano state soggette a revisione, il danneggiato, sebbene non soccombente rispetto alla formulazione della domanda, è legittimato a proporre l'impugnazione tutte le volte in cui la variazione tabellare corrisponda ad una modifica conseguente alla applicazione di "differenti criteri" di liquidazione (come ad es. in caso di individuazione di nuovi o diversi indici sintomatici ritenuti rilevanti per dimensionare l'equivalente del valore perduto, ovvero di espressa previsione nella tabella di specifiche condizioni personali o situazioni di fatto, regolati precedentemente in modo diverso, o ancora in seguito alla emersione di nuovi interessi non patrimoniali inerenti alla persona meritevoli di tutela risarcitoria), ovvero alla "rideterminazione del valore-punto base" in conseguenza di una nuova rilevazione statistica dei dati sull'ammontare dei risarcimenti liquidati dagli uffici giudiziari. In tali casi, infatti, la liquidazione del danno effettuata sulla base di "tabelle" non più attuali, si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo ex art. 1226 c.c., in quanto comporta che una identica lesione del medesimo interesse riferibile alla persona, viene ad essere, intollerabilmente, compensata in modo differente, a seconda della scelta della tabellaoperata dal giudice, con la conseguente violazione del principio di parità di trattamento cui dà luogo una diversa "valutazione-tipo" ed una diversa "tecnica liquidatoria" del medesimo fenomeno, scelta rispetto alla quale rimane del tutto avulsa la applicazione del principio tempus regit actum.

Sul complementare profilo dell'interesse ad impugnare, Sez. 6-L, n. 14341/2016, Marotta, Rv. 640437, ha stabilito che ove il giudice di primo grado abbia pronunciato la cessazione della materia del contendere, l'appellante, che contesti la decisione per questioni di merito, ha l'onere di impugnare anzitutto tale decisione per mancanza di presupposti, poiché l'esame di ogni altro motivo di doglianza, in caso contrario, resterebbe precluso per difetto d'interesse.

Quanto alla decadenza dall'impugnazione, Sez. 6-3, n. 06187/2016, Barreca, Rv. 639330, ha ribadito che il termine "lungo" ex art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza, si verifica indipendentemente dalla notificazione della sentenza stessa, e quindi anche nel caso in cui il termine breve, ex art. 325 c.p.c., per essere stata effettuata la notificazione, venga a scadere in un momento successivo alla scadenza del termine lungo.

Circa l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile, Sez. 3, n. 12872/2016, Sestini, Rv. 640421, ha ribadito che occorre esclusivamente riferirsi alla qualificazione giuridica dell'azione effettuata dal giudice nel provvedimento impugnato, a prescindere dalla sua esattezza, fermo il potere del giudice dell'impugnazione di procedere alla autonoma riqualificazione non solo ai fini del merito, ma anche della stessa ammissibilità del gravame.

Ancora, ove la parte utilizzi, quale mezzo di impugnazione, un mezzo inammissibile, essa non può – secondo Sez. 3, n. 10139/2016, Frasca, Rv. 639832 – successivamente dolersene, qualora il giudice non abbia rilevato d'ufficio l'inammissibilità, rigettando il gravame, poiché difetta al riguardo la soccombenza.

Quanto agli effetti della riforma o della cassazione della sentenza impugnata, Sez. 3, n. 12387/2016, Amendola A., Rv. 640323, ha affermato che la sentenza d'appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, sulla cui provvisoria esecutività la parte soccombente abbia effettuato il pagamento di somme, non può assurgere a titolo esecutivo per la restituzione delle stesse in mancanza di espressa condanna, occorrendo che il solvens attivi un autonomo giudizio ovvero formuli in appello apposita domanda. Il giudice d'appello, conseguentemente, secondo Sez. 3, n. 08639/2016, Rubino, Rv. 639739, ha il dovere di pronunciare sulla relativa domanda, ove proposta, incorrendo in caso contrario nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

Sempre sul tema, Sez. 3, n. 00667/2016, Armano, Rv. 638219, ha ribadito che alla Corte di cassazione non spetta il potere di condannare alla restituzione delle somme pagate in corso di giudizio, quand'anche decida nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c., dal momento che ad essa compete di regola il solo giudizio rescindente; ne consegue che la domanda di restituzione dev'essere proposta al giudice di merito che l'ha accolta, ai sensi dell'art. 389 c.p.c.

Ancora, Sez. L, n. 11243/2016, Ghinoy, Rv. 639931, ha statuito che, allorchè il giudice d'appello riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere ad una nuova regolamentazione delle spese processuali, tenuto conto dell'esito complessivo della lite, poiché la valutazione della soccombenza opera in base ad un criterio unitario e globale, mentre, in caso di conferma, la decisione sulle spese può essere modificata solo nel caso in cui il reativo capo sdia stato oggetto di specifica impugnazione.

Sull'argomento, deve poi segnalarsi Sez. 6-3, n. 02135/2016, Barreca, Rv. 638921, che ha affermato il principio per cui, oltre alle somme pagate in linea capitale in forza del titolo successivamente riformato, il debitore esecutato ha diritto a riottenere quanto esborsato per le spese di esecuzione sostenute dal creditore procedente, a prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede di questi.

Infine, Sez. 1, n. 02819/2016, Nazzicone, Rv. 638573, ha ritenuto l'ammissibilità del procedimento di correzione della sentenza d'appello, ex art. 287 e ss. c.p.c., qualora il giudice del gravame, sussistendone tutti i presupposti, non abbia statuito sulla restituzione delle somme pagate in forza di sentenza provvisoriamente esecutiva e poi riformata.

In tema di cause scindibili e inscindibili, Sez. 1, n. 09131/2016, Cristiano, Rv. 639690, in linea con consolidato orientamento, ha confermato che il terzo chiamato iussu iudicis ex art. 107 c.p.c. diviene litisconsorte necessario processuale, con la conseguenza che, salva l'ipotesi di sua estromissione con la sentenza di merito, la mancata notifica dell'appello nei suoi confronti determina una violazione dell'art. 331 c.p.c., rilevabile anche d'ufficio nel giudizio di legittimità.

Analogamente avviene, per Sez. 6-2, n. 08486/2016, Scalisi, Rv. 639571, allorchè il terzo sia stato chiamato su istanza di parte, allo scopo di ottenere la declaratoria di sua esclusiva responsabilità rispetto alla domanda attorea e la propria liberazione.

Ancora sul tema, Sez. 3, n. 06982/2016, Rossetti, Rv. 639540, ha affermato che, qualora il giudice abbia ordinato l'integrazione del contraddittorio in causa inscindibile, l'omessa o parziale integrazione non consente la rinnovazione del termine, di natura perentoria, a meno che l'istanza di concessione del termine stesso, da presentarsi prima della sua scadenza, non sia giustificata da un fatto non imputabile all'onerato.

L'adempimento dell'ordine di integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari, peraltro, secondo Sez. 3, n. 00891/2016, Frasca, Rv. 638653, ove la notifica sia stata eseguita a mezzo posta, dev'essere dimostrato mediante la produzione degli avvisi di ricevimento, insufficiente essendo il mero deposito dei singoli atti con le relate di notifica. Di conseguenza, nel caso di mancata produzione dell'avviso di ricevimento, anche nei confronti di un solo destinatario, l'ordine deve ritenersi non ottemperato, con conseguente inammissibilità del ricorso.

Nel caso di cause scindibili ex art. 332 c.p.c., Sez. 1, n. 05508/2016, Cristiano, Rv. 639030, ha stabilito che la notifica dell'appello da parte del convenuto soccombente agli altri convenuti vittoriosi non ha valenza di vocatio in ius, bensì di mera litis denuntiatio, sicchè questi ultimi non divengono parti del giudizio di gravame, né tantomeno sussistono i presupposti per la condanna dell'appellante al pagamento delle spese di lite in loro favore, ove essi non abbiano impugnato incidentalmente la sentenza.

È stato poi ribadito da Sez. 6-3, n. 24482/2016, Rubino, in corso di massimazione, che la sentenza emessa in un procedimento cumulativo, ove impugnata solo da alcune parti, passa in giudicato nei confronti delle parti non impugnanti, poiché, una volta trascorso il termine di cui all'art. 332 c.p.c., la sua violazione non produce alcun effetto.

Relativamente alle impugnazioni incidentali, Sez. 3, n. 12387/2016, Amendola A., Rv. 640322, ha affermato che l'impugnazione tardivamente proposta, da chiunque provenga, dev'essere dichiarata inammissibile ove l'interesse alla sua proposizione non sia scrivibile alla proposizione dell'impugnazione principale.

Sez. L, n. 10243/2016, Ghinoy, Rv. 639645, ha ribadito che, poiché l'art. 334 c.p.c. consente l'impugnazione incidentale tardiva nei confronti di qualsasi capo della sentenza da altri impugnata è applicabile alla sola impugnazione incidentale in senso stretto (ossia, quella proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l'impugnazione principale o che sia stata chiamata ad integrare il contraddittorio, a norma dell'art. 331 c.p.c.), il soccombente ha l'onere di impugnare tempestivamente la sentenza, con la conseguenza che, ove la parte proponga un ricorso incidentale adesivo a quello principale, essa è tenuta a rispettare il termine lungo di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.

Ancora, Sez. 3, n. 02516/2016, Tatangelo, Rv. 638617, ha ribadito che – fermo il principio per cui una volta proposta impugnazione contro una sentenza, tutte le altre devono essere proposte in via incidentale, sicchè nel giudizio di cassazione esse devono proporsi in seno al controricorso – tale modalità non può considerarsi essenziale, sicchè ogni impugnazione autonomamente proposta (anche se di tipo adesivo) si converte comunque in impugnazione incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (breve o lungo) di impugnazione in astratto operativi.

Costituisce infine extrapetizione, per Sez. 3, n. 20198/2016, Vincenti, in corso di massimazione, il riconoscimento da parte del giudice d'appello del danno morale in assenza di allegazione di specifiche condotte attribuite a controparte e integranti fatti costituenti reato.

2. Appello. Le novità normative.

Evoluzione applicativa. Anche nel corso del 2016, si registrano importanti pronunce circa le novità introdotte all'istituto dell'appello dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012, n. 134.

Com'è noto, gli interventi legislativi sul procedimento in grado d'appello, dopo la riforma del 1950 (che segnò, sotto il profilo in esame, un passo indietro rispetto all'impostazione codicistica del 1940, determinando un ritorno verso l'appello quale novum judicium), volgono verso una tendenziale affermazione dell'appello come impugnazione vincolata, avente natura di revisio prioris istantiae. In questo solco si pone anche la cennata riforma, che, al dichiarato scopo di offrire una soluzione per lo smaltimento dell'arretrato che affligge le corti d'appello, ha riformulato gli artt. 342, comma 1, e 345, comma 3, c.p.c. e ha introdotto gli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., disposizioni tutte applicabili ai giudizi di secondo grado introdotti dal giorno 11 settembre 2012.

Anzitutto, deve segnalarsi l'importante pronuncia, resa a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, di Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, Rv. 638369, con cui, individuata la ratio della cennata riforma, è stato affermato che l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348-ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione, nemmeno ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., ove si denunci l'omessa pronuncia su un motivo di gravame, attesa la natura complessiva del giudizio "prognostico" che la caratterizza, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza ed a tutti i motivi di ciascuna di queste, ponendosi, eventualmente, in tale ipotesi, solo un problema di motivazione. Sempre con la stessa sentenza, Rv. 638368, le Sezioni Unite hanno poi individuato un residuo spazio per il ricorso straordinario, chiarendo che l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348-ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l'inosservanza delle specifiche previsioni di cui agli artt. 348bis, comma 2, e 348-ter, commi 1, primo periodo e 2, primo periodo, c.p.c.), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso. Infine, con ulteriore pronuncia di chiusura, Rv. 638370, le Sezioni Unite hanno affermato che la decisione che pronunci l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali, ancorché adottata con ordinanza richiamante l'art. 348-ter c.p.c. ed eventualmente nel rispetto della relativa procedura, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che, come tale, non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame, differendo, così, dalle ipotesi in cui tale giudizio prognostico venga espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti.

In definitiva, l'attesa pronuncia a) ha ricondotto alla fisiologia del "filtro" in appello ogni decisione sul merito (e quindi sulla prognosi circa l'esito infausto del gravame), escludendo il ricorso straordinario per cassazione avverso l'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. che vi attinga, poiché ogni censura deve essere in tal caso mossa nei confronti della sentenza di primo grado; b) ha individuato un residuo spazio per il ricorso straordinario ove si denuncino vizi propri della stessa ordinanza, per violazione di legge processuale, nei limiti della compatibilità con la logica e la struttura del "filtro"; infine, c) ha ritenuto la proponibilità del ricorso ordinario per cassazione nel caso in cui con la stessa ordinanza, per quanto adottata nelle forme di cui all'art. 348-ter c.p.c., si pronunci l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali e la stessa abbia quindi natura di sentenza.

Costituisce proprio esemplificazione di quanto sub b), e quindi di vizi propri dell'ordinanza ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., secondo Sez. 6-3, n. 12127/2016, De Stefano, Rv. 640216, il caso in cui essa sia stata emessa prima della data di applicabilità di queste norme, trattandosi appunto di trasgressione della disciplina intertemporale (nella specie, si trattava di appello introdotto nel 2011, e quindi non soggetto alla disciplina del "filtro" ai sensi dell'art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012).

Peraltro, Sez. 6-3, n. 25456/2016, Frasca, in corso di massimazione, ha ribadito che qualora risulti ricorribile per cassazione, l'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello, va impugnata con lo stesso ricorso proposto avverso la sentenza di primo grado e nei termini prescritti dall'art. 348-ter, comma 3, c.p.c., sia perché è logicamente prioritario l'esame dell'impugnazione dell'ordinanza rispetto alla sentenza, sia perché, applicando all'ordinanza il termine lungo dalla comunicazione ex art. 327 c.p.c., il decorso di distinti termini per impugnare i due provvedimenti comporterebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, rendendo incomprensibile la ricorribilità avverso l'ordinanza.

Sempre in tema di "filtro" in appello, Sez. 3, n. 12293/2016, Graziosi, Rv. 640215, ha stabilito che la relativa ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. può essere pronunciata anche prima dell'udienza fissata ai sensi degli artt. 350 o 351, comma 3, c.p.c., sempre che siano state previamente sentite le parti, in quanto ciò non comporta alcuna lesione del diritto di difesa dell'appellante.

In relazione al termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 6-3, n. 02594/2016, Frasca, Rv. 639068, ha stabilito che qualora venga pronunciata l'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 348-bis c.p.c., il ricorso dev'essere proposto entro sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della relativa ordinanza, mentre il termine lungo opera soltanto nel caso in cui questa non venga né comunicata, nè notificata. Conseguentemente, il ricorrente per cassazione, al fine di dimostrare la tempestività dell'impugnazione, ove proposta oltre il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza, deve allegare che la stessa non è stata comunicata né notificata, affermando di fruire del cd. termine lungo.

Tuttavia, Sez. U, n. 25513/2016, Manna F., in corso di massimazione, risolvendo questione di massima di particolare importanza, ha escluso che il ricorso per cassazione proposto, ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c., contro la sentenza di primo grado, debba contenere, a pena di inammissibilità, la specifica indicazione della data di comunicazione o di notificazione, se avvenuta prima, dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello, riferendosi l'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., solo agli atti processuali ed ai documenti da cui i motivi di impugnazione traggono il proprio sostegno giuridico quali mezzi diretti all'annullamento del provvedimento impugnato.

Con ulteriore statuizione, la stessa pronuncia, risolvendo questione di massima di particolare importanza, ha stabilito che il ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c., è improcedibile, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., ove non siano depositate la copia autentica della sentenza di primo grado e dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello, con la relativa comunicazione o notificazione, se anteriore, salvo che la Corte officiosamente rilevi, dal trasmesso fascicolo di ufficio, che lo stesso sia stato proposto nei sessanta giorni dalle menzionate comunicazione o notificazione, ovvero, in mancanza di entrambe, entro il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c..

In argomento, deve ancora segnalarsi Sez. 6-3, n. 26936/2016, De Stefano, in corso di massimazione, che ha ribadito il principio per cui nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, proponibile ai sensi dell'art. 348-ter, comma 3, c.p.c., l'atto d'appello, dichiarato inammissibile, e la relativa ordinanza, pronunciata ai sensi dell'art. 348bis c.p.c., costituiscono requisiti processuali speciali di ammissibilità, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 366, n. 3, c.p.c., è necessario che nel suddetto ricorso per cassazione sia fatta espressa menzione dei motivi di appello e della motivazione dell'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., al fine di evidenziare l'insussistenza di un giudicato interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice del gravame.

3. (segue) In generale.

Sul piano generale, va in primo luogo segnalata Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829, che componendo il contrasto giurisprudenziale sulle modalità di costituzione dell'appellante, ha affermato che la tempestiva costituzione dell'appellante con la copia dell'atto di citazione (cd. velina) in luogo dell'originale non determina l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall'art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l'udienza di comparizione di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. mediante deposito dell'originale da parte dell'appellante, ovvero a seguito di costituzione dell'appellato che non contesti la conformità della copia all'originale (e sempreché dagli atti risulti il momento della notifica ai fini del rispetto del termine ex art. 347 c.p.c.), salva la possibilità per l'appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c. (o 184-bis c.p.c., ratione temporis applicabile) per la regolarizzazione della costituzione nulla, dovendosi ritenere, in mancanza, consolidato il vizio ed improcedibile l'appello.

Sempre sul tema, Sez. 3, n. 02165/2016, Amendola A., Rv. 639119, ha affermato che ove l'appellante non si sia costituito nel termine di cui all'art. 348, comma 1, c.p.c., così determinandosi automaticamente l'improcedibilità dell'appello, non gli è preclusa la proposizione di una seconda impugnazione, purchè tempestiva e prima che venga adottata la statuizione in rito su quella originariamente proposta, dovendo comunque escludersi che possa procedersi ad una mera rinotificazione del primo atto d'appello.

Riguardo al procedimento in materia di adozione, Sez. 1, n. 16335/2016, Acierno, Rv. 641031, ha affermato che ove difetti la prova del perfezionamento della notifica del ricorso introduttivo dell'appello avverso la declaratoria dello stato di adottabilità e del decreto di fissazione d'udienza, non può per ciò solo pronunciarsi l'arresto del procedimento, occorrendo solo – in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c. – assegnare un nuovo termine perentorio, sempre che la parte appellata non si sia costituita.

Sul tema, va ancora segnalata Sez. 3, n. 01662/2016, Scrima, Rv. 638352, ha affermato che il termine di cui all'art. 347 c.p.c. per la costituzione dell'appellante va computato dal perfezionamento dell'atto d'appello nei confronti del destinatario, e non anche dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, valevole ai soli fini della tempestività del gravame.

Sez. 3, n. 23713/2016, Pellecchia, in corso di massimazione, ha ribadito che poichè l'art. 347, comma 2, c.p.c. prevede che l'appellante debba inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza impugnata, ma non commina, nel caso contrario, l'improcedibilità, come invece previsto dall'art. 348 c.p.c. per la mancata costituzione nei termini o per la mancata comparizione dell'appellante alla prima udienza ed a quella successiva all'uopo fissata, ne deriva che la mancanza in atti della sentenza impugnata non preclude al giudice la possibilità di decidere nel merito qualora egli disponga di elementi sufficienti sulla base degli atti.

Ove poi la sentenza depositata manchi di alcune pagine, Sez. 2, n. 24437/2016, Scarpa, in corso di massimazione, ha affermato che, ove ciò non determini l'impossibilità di scrutinare l'impugnazione sulla base della pur incompleta copia depositata, il giudice d'appello che ne rilevi l'incompletezza deve assegnare all'appellante un termine per depositare una copia integrale della sentenza impugnata, solo in caso di inottemperanza dovendo dichiarare l'improcedibilità dell'impugnazione, stante il suo carattere sanzionatorio.

Circa la proposizione dell'appello da parte del convenuto contumace in primo grado, che assuma la nullità della citazione come motivo di gravame, Sez. 1, n. 15414/2016, Di Virgilio, Rv. 640945, ha ribadito che poiché la proposizione dell'appello equivale a tardiva costituzione nel processo, fermo restando che il giudice deve procedere alla rinnovazione dell'attività compiuta in primo grado, l'appellante può essere ammesso al compimento degli atti preclusi dalle decadenze maturate solo ove deduca e dimostri che la nullità della citazione gli ha impedito di conoscere il processo e quindi di difendersi, il che può verificarsi solo nel caso di nullità per omessa o assolutamente incerta indicazione del giudice adito in primo grado, occorrendo in ogni altra ipotesi che le circostanze del caso concreto depongano per la mancata conoscenza della pendenza del processo.

Circa l'appellabilità di provvedimenti resi in primo grado, Sez. 3, n. 14661/2016, Tatangelo, Rv. 640586, in tema di esecuzione forzata, ha affermato che, qualora con unico ricorso siano stati contestualmente proposti motivi afferenti sia all'opposizione all'esecuzione, che agli atti esecutivi, la decisione che abbia affrontato solo questi ultimi, pretermettendo i primi, dev'essere impugnata con l'appello, ove appunto si censuri l'omessa pronuncia. Nello stesso senso, ma con riferimento all'ipotesi in cui il primo giudice abbia deciso entrambi i profili di doglianza, Sez. 3, n. 12730/2016, Ambrosio, Rv. 640277, ha quindi stabilito che poiché la sentenza, formalmente unica, contiene in realtà due distinte decisioni, rese l'una ai sensi dell'art. 615, e l'altra ai sensi dell'art. 617 c.p.c., soggette, rispettivamente, ad appello e a ricorso straordinario per cassazione.

Ove la parte abbia formulato riserva d'appello avverso sentenza non definitiva, secondo Sez. L, n. 14193/2016, D'Antonio, Rv. 640431, quando sia sopravvenuta la sentenza definitiva essa non ha l'onere di impugnarle entrambe, potendo limitarsi a farlo solo avverso quest'ultima.

Peraltro, la mancata o tardiva esplicitazione della riserva, secondo Sez.1, n. 02188/2016, Cristiano, Rv. 638749, implica soltanto la non percorribilità dell'impugnazione differita della sentenza parziale o non definitiva, ma non ne comporta l'inimpugnabilità immediata, sicchè l'impugnazione potrà essere proposta nel termine ordinario, ex artt. 325 o 327 c.p.c. (secondo che essa sia stata, rispettivamente, notificata o meno).

Sempre sul tema, va infine evidenziato che Sez. 1, n. 04979/2016, Nappi, Rv. 639010, ha affermato che poiché l'impugnazione differita della sentenza non definitiva è soggetta al regime previsto per quella definitiva, ne consegue che, per quanto emessa in data antecedente al 1 marzo 2006, la sentenza non definitiva in materia di opposizione all'esecuzione non è soggetta ad appello ove quella definitiva sia stata resa tra la predetta data e il 4 luglio 2009 (in relazione alla formulazione dell'art. 616 c.p.c. nel testo vigente in detto periodo).

Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti, Rv. 639887, ha infine sancito che il provvedimento dichiarativo dell'improcedibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo ha natuira sostanziale di sentenza, ed è quindi soggetto ad impugnazione mediante appello e non mediante ricorso straordinario per cassazione.

Sul piano dell'interesse ad impugnare, Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638247, ha ribadito che l'interesse va desunto dall'utilità giuridica che dall'eventuale accoglimento dell'impugnazione possa derivare a colui che la propone, che non può consistere nella mera correzione della motivazione o di una sua parte.

Sul piano della legittimazione ad impugnare, è stato ribadito l'orientamento per cui essa spetta soltanto al soggetto che sia stato parte nel precedente grado di giudizio. Così, secondo Sez. T, n. 16177/2016, Meloni, Rv. 640650, la parte sostanziale del rapporto, che tuttavia sia rimasta estranea al giudizio, non può proporre impugnazione (che nel caso dev'essere dichiarata inammissibile), ma può solo intervenire in appello ex art. 344 c.p.c., o proporre opposizione ex art. 404 c.p.c..

Sussiste invece un generale interesse ad intervenire in appello, e quindi anche a proporre ricorso per cassazione, quale interveniente volontario, secondo Sez. 2, n. 15938/2016, Criscuolo, Rv. 640718, nei giudizi relativi all'accertamento e all'esistenza di usi civici o di demanio comunale e in favore di qualunque cittadino appartenente a quella determinata collettività, poiché l'emananda sentenza fa stato anche nei suoi confronti quale partecipe della comunità titolare degli usi o delle terre demaniali di cui si controverte.

Sez. 1, n. 09986/2016, Campanile, Rv. 639855, per il caso in cui la società appellante risulti diversa da quella costituita in primo grado, ha affermato che il giudice del merito non può limitarsi ad un mero riscontro formale, dovendo valutare la sussistenza di elementi, evincibili dall'atto nella sua interezza e dal suo senso complessivo, che rendano riconoscibile l'eventuale errore materiale nella stesura dell'atto introduttivo del gravame, come tale inidoneo ad incidere sulla validità dell'impugnazione.

In relazione al termine per impugnare, Sez. T, n. 15181/2016, Bruschetta, Rv. 640643, ha affermato che ove l'appello sia proposto da una parte il cui difensore abbia studio legale in L'Aquila, la regola dettata dall'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo il termine scadente in un giorno festivo, ha valenza generale e si applica anche al termine breve ex art. 434, comma 2, c.p.c., per la proposizione dell'appello nelle controversie soggette al rito del lavoro.

Quanto a queste ultime, Sez. L, n. 19176/2016, Di Paolantonio, Rv. 641200, ha stabilito che l'onere di notificare il ricorso e il decreto di fissazione di udienza prende corpo dalla data di comunicazione dell'avvenuto deposito di quest'ultimo, adempimento obbligatorio a seguito di Corte cost. n. 15 del 1977.

Sull'appello incidentale, deve segnalarsi Sez. 1, n. 04047/2016, Ragonesi, Rv. 638862, che – richiamandosi all'insegnamento affermato sull'analogo istituto del ricorso incidentale per cassazione da Sez. U, n. 07381/2013, Amatucci, Rv. 625558 – ha ritenuto che il gravame proposto dalla parte totalmente vittoriosa in primo grado avverso la statuizione che investa una questione preliminare di merito ha natura "condizionata", a prescindere dalla volontà manifestata al riguardo dall'impugnante, con la conseguenza che il giudice d'appello dovrà procedere al suo esame solo in caso di riscontrata attualità dell'interesse alla decisione, ossia nel caso di accoglimento dell'appello principale.

Ancora, Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639809, ha ribadito che la parte la cui domanda o eccezione sia stata respinta in primo grado ha l'onere di proporre appello incidentale onde evitare che sul punto si formi il giudicato, mentre la parte vittoriosa, quanto alle domande o eccezioni non accolte, può limitarsi alla mera riproposizione ex art. 346 c.p.c., al fine di sottrarsi alla presunzione di rinuncia.

Riguardo all'onere di specificità dei motivi d'appello, sancito dall'art. 342 c.p.c., Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640307, in linea con consolidato indirizzo, ha affermato che affinchè un capo di sentenza possa dirsi validamente impugnato non è sufficiente manifestare una volontà in tal senso, occorrendo invece che l'atto d'appello contenga una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, abbia l'obiettivo di demolirne il fondamento logico-giuridicomma.

Ancora, Sez. 1, n. 02814/2016, Sambito, Rv. 638551, l'onere di specificità dei motivi può anche essere rispettato mediante la riproposizione degli argomenti già proposti in primo grado e disattesi, purchè ciò determini specificamente il contenuto della critica mossa alla prima decisione e consenta al giudice del gravame di comprendere con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle decisioni adottate dal primo giudice.

Sez. 2, n. 02855/2016, Criscuolo, Rv. 638781, ribadita la natura del giudizio d'appello quale revisio prioris istantiae, ha escluso che, nel caso di omessa pronuncia su una domanda (o su un punto di essa) da parte del primo giudice, sia sufficiente la mera riproposizione ex art. 346 c.p.c., occorrendo invece formulare, in proposito, uno specifico motivo d'appello. In tal caso, peraltro, secondo Sez. 3, n. 04388/2016, Vincenti, Rv. 639203, è sufficiente che l'appellante si limiti a dedurre la mera omessa pronuncia, così investendo il giudice d'appello del potere di decidere sulla relativa domanda, il che risponde anche ad esigenze di economia processuale; infatti, ove il giudice d'appello pronunciasse l'inammissibilità del gravame per difetto di specificità, non si formerebbe al riguardo alcun giudicato e l'appellante potrebbe riproporre ex novo la domanda in primo grado.

Sempre dalla descritta natura dell'appello, Sez. 3, n. 11797/2016, Scrima, Rv. 640106, fa derivare la natura sostanziale di attore in capo all'appellante, con conseguente onere probatorio circa i fatti addotti a sostegno dell'impugnazione. Pertanto, costituisce suo onere, ove la decisione si fondi sull'erronea o mancata valutazione di documenti prodotti in primo grado dall'appellato e non riprodotti in secondo grado, acquisirne copia ai sensi dell'art. 76 disp. att. c.p.c. e riprodurli dinanzi al giudice d'appello.

Le istanze istruttorie disattese in primo grado, per Sez. 2, n. 05812/2016, Lombardo, Rv. 639419, proprio in relazione all'onere di specificità, devono essere analiticamente riproposte, dovendo dichiararsi inammissibili ove ci si sia limitati ad un mero rinvio agli atti del grado precedente.

Riguardo al contenuto dell'appello, nel rito del lavoro, Sez. L, n. 17712/2016, Negri Della Torre, Rv. 640991, ha affermato che il contenuto della "motivazione" dell'appello stesso, come richiesto dal novellato art. 434 c.p.c., implica che l'appellante debba offire una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella demandata al primo giudice, e ciò al fine di non incirrere nella declaratoria di inammissibilità.

È stato poi escluso, da Sez. 3, n. 00341/2016, Sestini, Rv. 638609, che il rinvio operato dall'art. 342 all'art. 163 c.p.c. debba estendersi anche all'avvertimento di cui al comma 3, n. 7), di quest'ultimo, circa le decadenze, operando tale disposto soltanto per le decadenze del giudizio di primo grado ed essendo invece regolate, quelle del giudizio d'appello, dalle norme in tema di tempestiva costituzione della parte appellata.

Quanto ai poteri del giudice d'appello, Sez. 3, n. 13218/2016, Esposito A.F., Rv. 640416, ha ribadito che egli può decidere sul gravame, sebbene non siano rinvenibili nel fascicolo di parte, al momento della decisione, i documenti su cui la parte ha fondato la propria pretesa in giudizio, qualora non risultino lo smarrimento del facicolo e la richiesta di sua ricostruzione.

Ancora, Sez. 1, n. 01377/2016, Valitutti, Rv. 638411, ha ribadito che, pur essendo l'appello limitato alle sole questioni oggetto di gravame, non viola il tradizionale principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di secondo grado che decida la controversia sulla base di ragioni diverse da quelle prospettate dall'appellante nei suoi motivi, ovvero esaminando questioni da lui non proposte, purchè esse siano implicitamente e direttamente connesse con i punti censurati della sentenza impugnata.

Correlativamente, Sez. 3, n. 04889/2016, Pellecchia, Rv. 639288, ha ribadito che il giudice d'appello può confermare la statuizione del giudice di primo grado, correggendone la motivazione, a condizione che i nuovi argomenti addotti possano dirsi acquisiti al processo e ritenersi ricompresi nell'ambito della devoluzione determinata dalle censure mosse alla sentenza impugnata.

Ancora, riguardo al rito del lavoro, Sez. L, n. 12825/2016, Di Paolantonio, Rv. 640368, ha affermato che ove il fascicolo di parte sia stato ritirato in primo grado e non depositato in tempo utile per la decisione, esso non può essere prodotto in appello, poiché soltanto con il rispetto delle forme di cui all'art. 74 disp. att. c.p.c. vi è prova dell'effettività e della tempestività della produzione documentale nel precedente grado di giudizio.

Per Sez. 3, n. 01678/2016, Travaglino, Rv. 638540, non costituisce vizio del procedimento, e della sentenza d'appello, la mancata acquisizione del fascicolo d'ufficio di primo grado, avente funzione meramente sussidiaria, a meno che il ricorrente in cassazione non deduca e dimostri che da tale fascicolo il giudice avrebbe potuto trarre elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa.

Sempre sulla estensione della cognizione del giudice d'appello, Sez. 1, n. 02658/2016, Cristiano, Rv. 638588, ha affermato che, nel caso di impugnativa di sentenza non definitva, che abbia pronunciato solo sull'an debeatur, l'eventuale accoglimento del gravame non comporta che possano conseguentemente esaminarsi le ulteriori questioni trattenute dal primo giudice, poiché la decisione di riforma si inserisce immediatamente nella dinamica processuale, determinando anche la caducazione dell'eventuale sentenza definitiva che abbia deciso sul quantum, anche se passata in giudicato.

Sempre sul tema, Sez. 2, n. 27516/2016, Lombardo, in corso di massimazione, ha ribadito che – in applicazione dei principi della tassatività delle ipotesi di rimessione di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. e della conversione nei motivi di nullità in motivi di impugnazione (art. 161, comma primo, c.p.c.), con la conseguente possibilità per le parti di svolgere ugualmente nel grado superiore le loro difese – il giudice di appello, in caso di prospettata violazione dell'art. 112 c.p.c. nei motivi di gravame, non deve rimettere la causa al giudice di primo grado, né limitarsi a dichiarare la nullità della sentenza, ma deve decidere la causa nel merito.

Nel solco di consolidato orientamento, ove il primo giudice sia incorso in ultrapetizione, secondo Sez. 2, n. 00465/2016, Matera, Rv. 638217, il giudice d'appello non può rilevare d'ufficio la questione, che dev'essere denunciata come specifico mezzo di gravame, incorrendo in caso contrario, a sua volta, nel medesimo vizio.

Ove il giudice d'appello abbia emesso sentenza motivata per relationem, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, secondo Sez. 1, n. 14786/2016, Ferro, Rv. 640759, la modalità di redazione è legittima ove siano esplicitate, sia pur succintamente, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi proposti, dando conto delle argomentazioni proposte dalle parti a sostegno e in senso opposto, dovendo invece cassarsi la decisione in cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado, senza il filtro delle censure proposte avverso detta decisione.

Per il caso di erronea individuazione del giudice d'appello, Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641081, a composizione di contrasto, ha affernato che l'appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della "translatio iudicii".

Non così, invece, per Sez. L, n. 25267/2016, Doronzo, in corso di massimazione, che ha affermato – in applicazione del principio di tipicità dei mezzi d'impugnazione – che il ricorso per cassazione dichiarato inammissibile perché proposto in luogo di un ricorso per revocazione, e dunque fuori dai casi tassativamente indicati nell'art. 360 c.p.c., non può mantenere effetti sostanziali e processuali che non gli sono tipici, sì da consentire la proposizione della nuova e diversa impugnazione attraverso la fictio iuris di un atto di riassunzione.

Diverse pronunce hanno poi interessato il tema della scindibilità o inscindibilità di cause.

Sez. 2, n. 07401/2016, Orilia, Rv. 639447, ha affermato che, ove sia stata disposta la notifica dell'impugnazione ad uno dei convenuti in primo grado, quale litisconsorte necessario, sebbene nessuna delle parti altre parti in secondo grado abbia formulato domande nei suoi confronti, questi ha diritto al rimborso delle spese processuali da colui la cui pretesa è stata dichiarata infondata.

Per il caso di chiamata in garanzia cd. impropria (ed evidenziato il fatto che la tradizionale distinzione tra garanzia propria e impropria è stata di recente sminuita da Sez. U, n. 24707/2015, Frasca, Rv. 638109), Sez. U, n. 07700/2016, Frasca, Rv. 639281, componendo l'annoso contrasto giurisprudenziale, ha affermato che in caso di rigetto della domanda principale e conseguente omessa pronuncia sulla domanda di garanzia condizionata all'accoglimento, la devoluzione di quest'ultima al giudice investito dell'appello sulla domanda principale non richiede la proposizione di appello incidentale, essendo sufficiente la riproposizione della domanda ai sensi dell'art. 346 c.p.c..

Infine, numerose pronunce hanno riguardato il tema dei nova in appello.

Così, Sez. 2, n. 16574/2016, Cosentino, Rv. 640834, ha affermato che, nel giudizio avviato per il rilascio di immobile, costituisce eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio anche in appello, la deduzione dell'occupante di detenere l'immobile per averne ricevuto l'assegnazione con un provvedimento giudiziale emesso in sede di separazione coniugale, poiché da tale diritto discende l'efficacia impeditiva relativamente all'an exequatur.

Quanto all'eccezione di pagamento, Sez. 2, n. 09965/2016, Abete, Rv. 639744, ne ha escluso la novità, ove sollevata per la prima volta in appello, purchè il pagamento risultasse già provato, trattandosi di eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio dal giudice anche in assenza di richiesta da parte del debitore.

Sez. 6-1, n. 00120/2016, Genovese, Rv. 638254, in fattispecie concernente giudizio avviato in primo grado in data antecedente al 30 aprile 1995, ha affermato che il giudizio d'appello, quale che sia la data in cui esso è stato proposto, resta regolato dal disposto dell'art. 345 c.p.c. vigente all'epoca della notifica dell'atto introduttivo, sicchè, ai sensi dell'art. 345 c.p.c. previgente, le parti possono proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova.

Non resta preclusa, inoltre, dalla vigente disposizione dell'art. 345, comma 1, c.p.c., secondo Sez. 6-3, n. 01115/2016, Vivaldi, Rv. 638508, la proponibilità della domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. per la prima volta in appello, purchè si censurino comportamenti avversari tenuti nel medesimo grado, come ad esempio nell'ipotesi in cui la parte persista nel sostenere una tesi già ritenuta manifestamente infondata dal primo giudice.

Analogamente è a dirsi, secondo Sez. 3, n. 01324/2016, Tatangelo, Rv. 638652, quanto alla domanda di restituzione di somme pagate a seguito di sentenza provvisoriamente esecutiva, di cui si chieda la riforma, purchè la domanda venga proposta in seno all'appello, ovvero nel corso del giudizio, qualora l'esecuzione sia avvenuta durante il corso del giudizio di secondo grado, dovendo invece escludersene la proponibilità con la comparsa conclusionale, attesa la sua funzione meramente illustrativa delle vicende processuali.

Con specifico riferimento al cd. rito societario (di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, e oramai abrogato), Sez. 1, n. 01368/2016, Valitutti, Rv. 638437, ha affermato che il richiamo operato dall'art. 20, comma 2, del citato decreto legislativo, agli artt. 341 ss. c.p.c. comporta che anche per tali procedimenti opera il divieto di proposizione di nuove domande in appello, se non proposte in primo grado.

Non costituisce, invece, proposizione di nuova domanda, secondo Sez. 3, n. 04384/2016, Scrima, Rv. 639371, la prospettazione in appello di una nuova qualificazione giuridica del contratto oggetto del giudizio in primo grado, purchè fondata sui medesimi fatti già allegati.

Sempre sul tema dei nova, Sez. 1, n. 01366/2016, Bernabai, Rv. 638327, ha affermato che non costituisce nuova produzione, ai sensi dell'art. 345, comma 3, c.p.c., il deposito in appello di un documento in originale, ove ne sia stata prodotta in primo grado una copia, trattandosi della regolarizzazione di una attività già tempestivamente espletata.

Ancora riguardo ai documenti, Sez. 6-3, n. 05013/2016, Carluccio, Rv. 639364, ha affermato che l'indispensabilità ai fini della decisione, prevista dal previgente art. 345, comma 3, c.p.c., può concernere i soli documenti la cui valutazione risulti necessaria dall'esame della sentenza impugnata, non potendo ritenersi indispensabile il documento che tale già risultasse nel corso del giudizio di primo grado e prima del formarsi delle preclusioni istruttorie, evidentemente non considerato dal primo giudice per la negligenza della parte onerata.

Da ultimo, Sez. 2, n. 27516/2016, Lombardo, in corso di massimazione, ha ribadito che qualora una questione di nullità venga sollevata per la prima volta in appello non come domanda ma solo come eccezione riconvenzionale rispetto all'avversa domanda riconvenzionale di pagamento contrapposta a quella principale di risoluzione, essa deve ritenersi ammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c., rimanendo circoscritta nell'ambito della difesa, senza tendere ad altro fine che non sia quello del rigetto dell'avversa domanda riconvenzionale.

Deve infine segnalarsi Sez. 2, n. 04318/2016, Scarpa, Rv. 639385, secondo cui la violazione del divieto di introdurre nuove domande in appello, quand'anche non rilevato dal giudice del gravame e la controparte abbia accettato il contraddittorio, può essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità, trattandosi di preclusione all'esercizio della giurisdizione.

4. Cassazione.

Le novità normative. Evoluzione applicativa. In ottica deflattiva, ma anche allo scopo di enfatizzare la funzione nomofilattica della Corte, l'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, oltre ad aver introdotto il cd. filtro in appello, ha anche apportato una significativa modifica all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., in tema di motivi di ricorso per cassazione, restringendo ampiamente la proponibilità di impugnazioni inerenti al vizio motivazionale.

Nella medesima ottica, il procedimento di cassazione è stato oggetto di un recentissimo intervento normativo, apportato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197.

In estrema sintesi, premessa la consueta tripartizione dei ricorsi relativamente alla destinazione, ossia a) quelli destinati ab origine alle Sezioni Unite, b) i regolamenti di competenza e di giurisdizione e c) ogni altro ricorso alla Sezione ordinaria, la novella apportata al codice di rito ha introdotto, per questi ultimi, il sistema del "triplo binario", come definito dai primi commentatori. In sostanza, è stata accentuata la cameralizzazione del procedimento (già prevista, com'è noto, dall'art. 375 c.p.c. e regolata dall'art. 380-bis c.p.c.), prevedendosi: aa) una procedura camerale di definizione accelerata (e senza partecipazione delle parti) per i ricorsi destinati alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, ovvero manifestamente fondati o infondati, da definirsi in sesta sezione civile; b) una procedura camerale di sezione semplice (anche qui, senza partecipazione delle parti), per i ricorsi di rilevanza non nomofilattica, ossia quelli in cui vengano in rilievo solo elementi attinenti allo ius litigatoris; c) la pubblica udienza per i ricorsi a rilevanza nomofilattica, ove cioè si presentino questioni attinenti allo ius constitutionis.

Naturalmente, in relazione alla riforma – che si applica a tutti i ricorsi già proposti alla data della sua entrata in vigore (avvenuta il 30 ottobre 2016), ma per i quali non era stata ancora fissata l'udienza – non risulta ancora adottata, da quanto consta, alcuna decisione, prevedendosi che essa entrerà a regime nei primi mesi del 2017.

Al contrario, ovviamente, anche nel 2016 si registrano diverse pronunce concernenti il ricorso per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», come oggi previsto dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c..

Anzitutto, si segnala Sez. 3, n. 12884/2016, Sestini, Rv. 640419, che ha ritenuto sussistere il vizio di omesso esame di un fatto decisivo e controverso nel caso in cui venga preclusa alla parte la possibilità di assolvere il relativo onere probatorio, mediante motivazioni apparenti o perplesse.

Ancora, Sez. 3, n. 13922/2016, Esposito A.F., Rv. 640530, ha ritenuto la sussistenza del medesimo vizio nel caso in cui venga denunciato un omesso esame delle risultanze della CTU.

Sez. L, n. 15636/2016, Patti, Rv. 640726, ha poi affermato che il vizio di omesso esame di un fatto decisivo sussiste ove la corte d'appello abbia escluso, con affermazione apodittica, la natura privata di una società, ritenendola viceversa "società a partecipazione pubblica totale", senza effettuare alcun esame critico della documentazione prodotta e dello statuto della società stessa.

È stato poi ribadito da Sez. 1, n. 17761/2016, Ferro, Rv. 641174, che per "fatto" controverso o decisivo per il giudizio deve intendersi non una "questione" o un "punto" della sentenza, ma un fatto vero e proprio, e quindi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè, un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), oppure secondario (cioè, dedotto in funzione di prova di un fatto principale).

Con specifico riferimento al giudizio di rinvio, Sez. 3, n. 10693/2016, Carluccio, Rv. 640124, ha ribadito che la sentenza emessa in tale sede è soggetta al regime impugnatorio vigente al momento della sua emissione, sicchè, ove essa sia stata pubblicata in data successiva al 11 settembre 2012, trova applicazione l'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., come modificato dalla più volte citata novella del 2012.

In materia di "filtro", si registra anche una interessante pronuncia emessa da Sez. 1, n. 05442/2016, Sambito, Rv. 639015, secondo cui lo scrutinio di cui all'art. 360-bis, n. 1), c.p.c. – a mente del quale il ricorso è inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso la controversia in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi di ricorso non offre elementi per mutare orientamento – impone una declaratoria di rigetto per manifesta infondatezza e non di inammissibilità, atteso che la valutazione dev'essere effettuata al momento della decisione e non può di per sé escludersi che, in tale momento, l'orientamento cui il giudice del merito si è attenuto non sia frattanto mutato.

Al contrario, Sez. 1, n. 08804/2016, Ferro, Rv. 639563, ha ribadito il precedente orientamento (affermato da Sez. T, n. 23586/2015, Terrusi, Rv. 736464), secondo cui la decisione in tal caso dev'essere resa in rito, dal momento che il legislatore ha introdotto, in luogo del quesito di diritto, una autonoma griglia valutativa di ammissibilità, da esaminarsi al momento della proposizione del ricorso.

5. (segue) In generale.

Si segnalano di seguito le più significative pronunce sul giudizio di legittimità, rinviandosi per altri profili, comuni al ricorso per cassazione, al capitoli dedicati al processo del lavoro e al processo tributario.

Numerose pronunce si sono occupate del tema della ricorribilità per cassazione avverso i provvedimenti diversi dalle sentenze rese in grado d'appello o in unico grado.

Sul piano generale, Sez. 1, n. 15343/2016, Lamorgese, Rv. 641022, ha affermato che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso straordinario per cassazione decorre solo a seguito di notificazione su istanza di parte del provvedimento così impugnabile, mentre è irrilevante, a tal fine, che lo stesso sia stato pronunciato in udienza o comunicato dal cancelliere, ove pronunciato fuori udienza, con la conseguenza che, in tal caso, si applica il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c..

Quanto alla individuazione della tipologia di provvedimenti assoggettabili al ricorso straordinario, Sez. 6-1, n. 00653/2016, Scaldaferri, Rv. 638279, ha affermato che il decreto di diniego dell'omologazione della proposta di concordato preventivo assunto in sede di reclamo ex art. 183 l.fall., cui non sia seguita la declaratoria di fallimento dell'imprenditore, è soggetto al ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., solo se lo stesso decreto dipenda da ragioni che precludono una consequenziale dichiarazione di fallimento, come ad esempio nel caso in cui si sia esclusa la qualità di imprenditore commerciale, ovvero la sussistenza dello stato d'insolvenza, o ancora si sia rilevato il difetto di giurisdizione. Deve peraltro segnalarsi che, all'udienza del 8 novembre 2016, le Sezioni Unite hanno assunto in decisione due procedimenti, rimessi dal Primo Presidente per la soluzione di questioni di massima di particolare importanza, proprio sul punto della ricorribilità per cassazione avverso il decreto di diniego dell'omologazione emesso in sede di reclamo. Le relative sentenze non sono state ad oggi pubblicate.

Sul tema, si registra una importante e recentissima pronuncia, Sez. U, n. 27073/2016, De Chiara, in corso di massimazione, che risolvendo questione di massima di particolare importanza ha stabilito che il decreto con cui il tribunale dichiara inammissibile la proposta di concordato, ex art. 162, comma 2, l. fall. (anche eventualmente a seguito della sua mancata approvazione ai sensi dell'art. 179, comma 1), ovvero revoca l'ammissione alla procedura concordataria, giusta l'art. 173, senza emettere consequenziale sentenza di fallimento del debitore, non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., non avendo carattere decisorio.

Ancora, la stessa pronuncia, risolvendo ulteriore questione di massima di particolare importanza, ha stabilito che il decreto con cui il tribunale definisce, in senso positivo o negativo, il giudizio di omologazione del concordato preventivo, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa di fallimento del debitore, ha carattere decisorio, ma, essendo reclamabile ai sensi dell'art. 183, comma 1, l.fall., non è soggetto a ricorso ex art. 111 Cost., proponibile, invece, avverso il provvedimento della medesima corte conclusivo del giudizio sull'eventuale reclamo.

Con pronuncia pressoché coeva, Sez. U, n. 26989/2016, De Chiara, in corso di massimazione, risolvendo questione di massima di particolare importanza, ha stabilito che il decreto con cui la corte di appello, decidendo sul reclamo ex artt. 183, comma 1, e 182-bis, comma 5, l.fall., provvede in senso positivo o negativo sull'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, è ricorribile in Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., avendo natura decisoria e non essendo altrimenti impugnabile. La relativa legittimazione, peraltro, non spetta al P.M., bensì ai creditori per titolo e causa anteriore alla data di pubblicazione dell'accordo nel registro delle imprese, cui si riferiscono gli effetti dell'accordo stesso, nonché agli altri interessati che abbiano proposto opposizione.

Sempre in materia concorsuale, Sez. 1, n. 03483/2016, Ferro, Rv. 638840, ha escluso la ricorribilità del decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato che, stante la contestazione del curatore circa l'ammontare del credito vantato, abbia respinto la richiesta di pagamento in prededuzione ex art. 111-bis, comma 3, l.fall., trattandosi di decisione che non incide in via definitiva sul diritto del creditore.

Ancora, Sez. 6-1, n. 04176/2016, Scaldaferri, Rv. 638839, ha del pari escluso la ricorribilità del decreto con cui il tribunale, in caso di concordato preventivo con riserva, abbia autorizzato – in uno con l'assegnazione del termine per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione – la sospensione dei contratti in corso di esecuzione (nella specie, bancari), ai sensi dell'art. 169-bis l.fall., difettando anche in tal caso i necessari requisiti di decisorietà e definitività.

Allo stesso modo, Sez. 1, n. 06362/2016, Di Virgilio, Rv. 639214, ha negato la ricorribilità per cassazione del decreto del tribunale, confermativo del diniego di autorizzazione, da parte del giudice delegato, al pagamento in prededuzione e in via immediata del compenso per l'attività professionale giudiziale svolta nell'interesse della procedura, trattandosi di provvedimento modificabile in ogni momento ove l'attivo liquidato risulti insufficiente e, quindi, privo dei requisiti di decisorietà e definitività.

Con una interessante decisione resa in materia di trust, Sez. 1, n. 01873/2016, Valitutti, Rv. 638476, ha stabilito che, ove l'atto istitutivo consenta di chiedere al tribunale la sostituzione del trustee, il relativo decreto reso in sede di reclamo non è ricorribile per cassazione, trattandosi di provvedimento modificabile e revocabile in ogni tempo, inidoneo ad incidere in via definitiva su un diritto soggettivo e, quindi, privo dei caratteri della decisorietà e della definitività in senso sostanziale.

Analoga decisione è stata resa da Sez. 1, n. 01869/2016, Ferro, Rv. 638758, in tema di sovraindebitamento, relativamente al decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento di diniego dell'ammissibilità del piano del consumatore ai sensi degli artt. 6, 7, comma 1-bis e 8, della legge 27 gennaio 2012, n. 3.

Sez. 1, n. 02985/2016, Bisogni, Rv. 638755, ha ribadito che i provvedimenti emessi in sede di reclamo riguardo alla designazione o nomina di amministratore di sostegno, trattandosi di provvedimenti distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, non sono ricorribili per cassazione, il ricorso essendo ammesso esclusivamente nell'ipotesi di cui all'art. 720-bis, ult. comma, c.p.c., relativamente ai decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze emesse in materia di interdizione ed inabilitazione, mentre tale facoltà non si estende ai provvedimenti a carattere gestorio.

Così, Sez. 6-1, n. 14983/2016, Acierno, Rv. 640716, ha ritenuto la ricorribilità per cassazione del decreto della corte d'appello che neghi l'apertura dell'amministrazione di sostegno.

In materia di esecuzione forzata, Sez. 6-3, n. 12170/2016, Frasca, Rv. 640317, ha escluso la ricorribilità per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avverso l'ordinanza che abbia provveduto sulla sospensione dell'esecuzione nell'ambito di opposizione proposta ai sensi degli artt. 615, 617 o 619 c.p.c., quand'anche si sia disposto sulla liquidazione delle spese, trattandosi di provvedimento non definitivo, e suscettibili di essere ridiscusso in seno al giudizio di merito. Ove poi difetti la fissazione del termine per l'introduzione del giudizio di merito, l'omissione può essere sanata richiedendo l'integrazione del provvedimento, ex art. 289 c.p.c., ovvero introducendo autonomamente il giudizio a cognizione piena, attività la cui mancanza determina l'estinzione del procedimento ex art. 307 c.p.c., con conseguente impossibilità di rimettere in discussione la statuizione sulle spese.

Di stringente attualità è la pronuncia resa da Sez. U, n. 24102/2016, Perrino, in corso di massimazione, che he escluso la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso la decisione dell'Ufficio centrale per il referendum, che per quanto composto esclusivamente da magistrati ed insediato presso la Suprema Corte, non è tuttavia un organo giurisdizionale in senso proprio, sicchè le sue decisioni non assumono la valenza di provvedimenti giurisdizionali.

Ancora, Sez. 1, n. 23631/2016, Acierno, in corso di massimazione, sul rilievo che l'ordinanza che dichiari l'ammissibilità dell'azione di classe di cui all'art. 140-bis del cd. "codice del consumo" è inidonea a definire il procedimento, ha escluso che il provvedimento reso in appello, che la confermi, sia ricorribile in cassazione.

Del pari, Sez. U, n. 22718/2016, Petitti, in corso di massimazione, ha escluso la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso una ordinanza resa dalla stessa Suprema Corte, quand'anche per motivi attinenti alla giurisdizione, giacchè le sentenze e le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 375, comma 1, numeri 4) e 5), c.p.c., possono soltanto essere soggette a revocazione, nell'ipotesi di cui all'art. 395, numero 4), c.p.c., secondo la previsione dell'art. 391-bis c.p.c..

Riguardo al ricorso ordinario, Sez. 6-3, n. 02263/2016, De Stefano, Rv. 639118, ha precisato che esso non può essere proposto avverso sentenza d'appello non definitiva, che, respingendo l'eccezione di prescrizione, non abbia definito, neppure parzialmente, il giudizio, ostandovi il disposto dell'art. 360, comma 3, c.p.c., che distingue a tal fine tra sentenze non definitive su domanda, o parziali (assoggettate al ricorso immediato per cassazione o all'impugnazione differita, previa riserva), e «sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio».

Analoga pronuncia, quanto alla sentenza non definitiva emessa in giudizio di opposizione di terzo revocatoria dalla corte d'appello, che abbia dichiarato ammissibile l'impugnazione e respinto l'eccezione di tardività del mezzo, è stata resa da Sez. 2, n. 07411/2016, Giusti, Rv. 639474.

Quanto al termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 00622/2016, Didone, Rv. 638274, ha affermato che, poiché la ssospensione dei termini processuali durante il periodo feriale non si applica alle «cause inerenti alla dichiarazione e revoca del fallimento», senza alcuna limitazione o distinzione tra le varie fasi e i diversi gradi del giudizio, resta del pari escluso che detta sospensione possa applicarsi riguardo al ricorso contro la sentenza pronunciata in grado d'appello avverso la la dichiarazione di fallimento.

Riguardo alla notificazione del ricorso, Sez. L, n. 00710/2016, Di Paolantonio, Rv. 638230, in linea con consolidato orientamento, ha ribadito che il ricorrente può sanare la nullità della notifica o rinnovando motu proprio la notifica stessa, anticipando l'ordine di cui all'art. 291 c.p.c., oppure quando agisca in sua esecuzione, restando irrilevante che la rinnovazione giunga in epoca successiva alla scadenza del termine per impugnare.

Sez. 2, n. 02574/2016, Orilia, Rv. 638776, ha affermato, in linea con risalente orientamento, che la notificazione del ricorso per cassazione può essere validamente effettuata dagli ufficiali giudiziari addetti agli uffici giudiziari eletti dagli intimati presso i loro difensori, poiché ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 e 107, comma 2, del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, la potestà notificatoria è attribuita sia all'ufficiale giudiziario del luogo in cui essa deve essere eseguita, sia a quello addetto all'autorità giudiziaria competente a conoscere la causa.

Ancora sulla notifica, Sez. 2, n. 03648/2016, Falaschi, Rv. 638761, ha ritenuto nulla, e non inesistente, la notifica eseguita presso il difensore costituito della parte appellata ma privo della qualità di domiciliatario, con la conseguenza che la nullità resta sanata in caso di costituzione del destinatario. Nello stesso senso, la successiva Sez. L, n. 06006/2016, Boghetich, Rv. 639163.

È invece inesistente, per Sez. 1, n. 07959/2016, Lamorgese, Rv. 639607, la notifica del ricorso effettuata a procuratore non avente alcun tipo di relazione o collegamento con l'intimato.

Di particolare interesse è Sez. 3, n. 26102/2016, Barreca, in corso di massimazione, che ha affermato che ai sensi dell'art. 3-bis, comma 3, e 6, comma l, della legge 21 gennaio 1994, n. 53, come modificata dal d.l. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, per la regolarità della notifica del ricorso per cassazione costituito dalla copia informatica dell'atto originariamente formato su supporto analogico, non è necessaria la sottoscrizione dell'atto con firma digitale, essendo sufficiente che la copia telematica sia attestata conforme all'originale, secondo le disposizioni vigenti ratione temporis (nella specie, a norma dell'art. 22, comma 2, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82). La pronuncia ha altresì affermato che quando il deposito del ricorso per cassazione non avvenga con modalità telematiche, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., dell'avvenuta sua notificazione per via telematica va data prova mediante il deposito – in formato cartaceo, con attestazione di conformità ai documenti informatici da cui sono tratti – del messaggio di trasmissione a mezzo PEC, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna previste dall'art. 6, comma 2, del d.P.R. 11 febbraio 2005 n. 68.

Relativamente all'interesse ad impugnare, Sez. U, n. 01520/2016, Cirillo E., Rv. 638237, ha affermato che il ricorso per cassazione proposto contro la sentenza che ha rigettato la richiesta di revocazione è inammissibile, per carenza di interesse ad una ulteriore pronuncia di legittimità, qualora la sentenza revocanda sia stata già annullata in accoglimento di un precedente ricorso per cassazione.

Sez. 6-3, n. 04981/2016, Carluccio, Rv. 639480, ha escluso l'ammissibilità del ricorso proposto dalla parte totalmente vittoriosa in appello sull'oggetto del giudizio e diretto ad ottenere l'inammissibilità del gravame proposto da controparte.

Sez. 1, n. 05759/2016, Scaldaferri, Rv. 639273, ha ribadito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, mentre può impugnare la sentenza di merito entro il termine di decadenza, non può tuttavia intervenire nel giudizio di legittimità, difettando una specifica disciplina al riguardo.

Ha tuttavia precisato Sez. 1, n. 11638/2016, Acierno, Rv. 639906, che il successore a titolo particolare nel diritto controverso può comunque intervenire nel giudizio di legittimità ove non si sia costituito il suo dante causa, altrimenti determinandosi una ingiustificata lesione del suo diritto di difesa.

Sul piano della legittimazione attiva, Sez. 1, n. 04116/2016, Terrusi, Rv. 638861, ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso ove la società ricorrente assuma di aver incorporato altra società, parte nei precedenti gradi di giudizio, ma nonostante la contestazione di controparte, non produca la relativa documentazione ai sensi dell'art. 372 c.p.c..

Ancora, deve segnalarsi, in argomento, Sez. U, n. 05944/2016, Bernabai, Rv. 638989, che in ambito fallimentare ha negato sussista la legittimazione attiva del creditore ammesso al passivo di società in amministrazione straordinaria, ai fini della proposizione del ricorso per cassazione avverso atti di liquidazione dei beni, ove egli abbia ceduto il credito a terzi; allo stesso modo, ha negato la legittimazione attiva in capo al cessionario ai fini dell'intervento in giudizio, poiché il credito è solo il presupposto, ma non anche l'oggetto dell'accertamento.

È stato poi ribadito da Sez. 3, n. 19386/2016, Olivieri, in corso di massimazione, che è valida ed efficace la procura alle liti conferita dal liquidatore di una società (nella specie società a responsabilità limitata), munito di potere rappresentativo, a nulla rilevando che egli abbia dichiarato di agire nella veste di "amministratore" della società (carica ricoperta prima dell'apertura della fase di liquidazione). Ai fini di stabilire la legittimazione processuale del soggetto che rappresenta la società, infatti, occorre fare riferimento non alla qualità dichiarata, ma a quella effettiva di colui il quale svolge funzioni di amministratore o di liquidatore.

Quanto agli aspetti più strettamente procedimentali, Sez. 3, n. 00684/2016, De Stefano, Rv. 638673, ha ribadito che quando il ricorrente si si avvalso del servizio postale al fine di depositare in cancelleria il ricorso notificato, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., assume rilievo la data di consegna del plico al servizio postale, giacchè l'iscrizione a ruolo deve ritenersi avvenuta in tale data.

Tuttavia, per Sez. 6-L, n. 24178/2016, Marotta, in corso di massimazione, il ricorso è improcedibile qualora il ricorrente si sia limitato a inviare a mezzo posta la cd. "velina" del ricorso stesso, anziché quello notificato, irrilevante essendo anche il contegno processuale di controparte, che non abbia eccepito alcunché in seno al controricorso.

Ancora, Sez. 1, n. 01958/2016, Nazzicone, Rv. 638479, ha affermato che il termine di venti giorni dall'ultima notifica ai fini del deposito del ricorso, ex art. 369, comma 1, c.p.c., deve calcolarsi rispetto all'ultima notifica effettuata nei confronti di una delle più controparti destinatarie, e non anche rispetto a quella reiterata nei confronti della medesima parte, a meno che la prima non fosse affetta da nullità.

Ove il ricorrente abbia omesso di depositare il ricorso e gli altri documenti indicati dall'art. 369 c.p.c., secondo Sez. 1, n. 03193/2016, Ferro, Rv. 638563, il controricorrente ha il potere di richiedere l'iscrizione a ruolo al fine di ottenere la declaratoria di improcedibilità, onde ottenere il recupero delle spese ed evitare che, ove non siano ancora decorsi i termini, il ricorrente provveda a notificare una nuova impugnazione.

Sez. 6-1, n. 05819/2016, Mercolino, Rv. 639092, ha ribadito che la mancata trasmissione del fascicolo d'ufficio, tempestivamente richiesta dal ricorrente ai sensi dell'art. 369, comma 3, c.p.c., non incide sulla regolarità del procedimento, a meno che l'esame degli atti in esso contenuti non risulti indispensabile ai fini della decisione.

Ribadisce poi Sez. L. n. 01757/2016, Berrino, Rv. 638717, che nel giudizio di cassazione non può applicarsi l'istituto dell'interruzione, a causa della sua particolare struttura e della sua disciplina, sicchè ove la morte di una delle parti intervenga dopo la rituale instaurazione del giudizio, essa non assume rilievo, né tantomeno consente agli eredi di partecipare al giudizio stesso.

Nel caso in cui, del pari, la parte sia colpita da perdita di capacità, sebbene ininfluente, Sez. 6-L, n. 03471/2016, Marotta, Rv. 638961, ha affermato che il successore che intenda partecipare al giudizio di cassazione può farlo con atto d'intervento, da notificarsi a controparte, non essendo sufficiente il mero deposito di un atto in cancelleria.

Quanto alla composizione del collegio giudicante, Sez. L, n. 03980/2016, Boghetich, Rv. 638848, ha ribadito che, ove la sentenza emessa in sede di rinvio sia nuovamente assoggettata a ricorso per cassazione, i componenti del precedente collegio che dispose l'annullamento ben possono partecipare al nuovo giudizio, ciò non determinando alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e di terzietà del giudice. Nello stesso senso, anche la successiva Sez. 3, n. 14655/2016, Ambrosio, Rv. 640587.

Sez. 6-2, n. 07080/2016, Parziale, Rv. 639490, ha affermato che ove il difensore abbia indicato un numero di fax per la ricezione di avvisi di cancelleria, egli ha l'onere di tenere attivata l'apparecchiatura in forma automatica, ovvero di presidiare (o far presidiare) la stessa quantomeno nelle ore antimeridiane, dovendo quindi ritenersi inesigibile ogni ulteriore tentativo di comunicazione dell'avviso di fissazione di udienza da parte della cancelleria, che vi abbia provato in giorni diversi, e sempre nelle ore antimeridiane, per ben due volte, con conseguente regolarità della comunicazione stessa.

Per quanto concerne la rinuncia al ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 09611/2016, Di Marzio M., Rv. 639619, ha affermato che essa determina l'estinzione del processo e comporta normalmente il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, salvo il caso in cui quest'ultima sia stata modificata nei suoi effetti nel corso del procedimento di impugnazione.

Ancora, Sez. 3, n. 12743/2016, Sestini, Rv. 640420, ha affermato che la rinuncia al ricorso, quale atto unilaterale recettizio, non determina l'estinzione del giudizio ove non notificata o comunicata alle altre parti costituite, ma segna comunque il venir meno dell'interesse alla pronuncia, determinando l'inammissibilità sopravvenuta del ricorso, con la conseguenza che il rinunciante non può, successivamente, depositare memoria ex art. 378 c.p.c., modificando la propria condotta processuale.

Riguardo allo ius postulandi, Sez. 6-3, n. 00058/2016, Rubino, Rv. 637916, ha ribadito che è invalida – ai fini della proposizione del ricorso per cassazione – la procura rilasciata a margine dell'atto introduttivo di primo grado, benché per tutti i gradi del giudizio, irrilevante essendo che la sentenza sia divenuta direttamente impugnabile per cassazione a seguito dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. e che persista la validità della procura stessa per il giudizio d'appello; ciò in quanto la procura per il ricorso per cassazione ha carattere speciale e deve essere rilasciata successivamente all'emissione della pronuncia impugnata, in modo da assicurare, con certezza, la riferibilità dell'attività difensiva al titolare della posizione giuridica controversa.

Sez. 2, n. 00474/2016, Scarpa, Rv. 638640, ha affermato che, quand'anche conferito prima della pubblicazione della sentenza impugnata, il mandato conferito con procura generale o speciale ad negotia attribuisce al mandatario tutti i poteri spettanti al mandante al riguardo, compreso quello di instaurare un giudiczio di legittimità e di rilasciare procura speciale al difensore.

Sez. 6-3, n. 04980/2016, Carluccio, Rv. 639346, ha ancora rilevato l'inammissibilità del ricorso per difetto di specialità della procura ove questa sia stata rilasciata in calce al ricorso recante uno specifico riferimento ad altro giudizio, insufficiente essendo il rilascio di successiva procura notarile di ratifica e sanatoria della precedente.

Di particolare interesse è Sez. L, n. 24263/2016, Spena, in corso di massimazione, secondo cui, nel caso di procura rilasciata da una unica persona fisica, che agisca sia in proprio che quale legale rappresentante di un soggetto giuridico, non occorre la spendita della doppia veste in cui si agisce, in seno alla procura, purchè la duplice qualità sia comunque evincibile dall'atto cui la procura accede, dovendo darsi prevalenza da un lato alla volontà del soggetto conferente, e nel dubbio dovendo farsi applicazione del prjncipio di conservazione degli effetti dell'atto.

In relazione, invece, al ricorso incidentale, Sez. 1, n. 08798/2016, Di Virgilio, Rv. 639536, ha affermato che la procura apposta nell'unico atto contenente sia il controricorso che l'impugnazione incidentale deve intendersi estesa anche a quest'ultima, e il suo rilascio, benché privo di data, le conferisce con certezza sia il carattere dell'anteriorità che quello della specialità.

Quanto all'elezione di domicilio, Sez. U, n. 11383/2016, Giusti, Rv. 639971, ha affermato che ove il difensore domiciliatario non lo abbia indicato in Roma, il cancelliere ben può effettuare la comunicazione presso la stessa cancelleria della Corte, in applicazione del disposto degli artt. 136 e 366 c.p.c., secondo un'interpretazione orientata all'effettività del diritto di difesa e alla ragionevole durata del processo, ma solo nel caso in cui non siano andati a buon fine né la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata, né a mezzo fax.

Relativamente all'impugnazione incidentale, Sez. T, n. 00574/2016, Iannello, Rv. 638333, ha affermato che, ove nel giudizio di merito la parte vittoriosa avesse proposto domande non esaminate perché ritenute assorbirte dalla statuizione adottata, la stessa parte, resistente nel giudizio di legittimità, non può proporre ricorso incidentale, benché condizionato, poiché tali domande rimangono impregiudicate e possono riproporsi, in caso di cassazione della sentenza, nel giudizio di rinvio.

Va invece esclusa la proponibilità del ricorso incidentale, quand'anche condizionato, secondo Sez. 1, n. 04472/2016, Nazzicone, Rv. 638871, da parte di colui che sia risultato totalmente vittorioso nel giudizio d'appello, presupponendo comunque essa la soccombenza.

Nel caso in cui avverso la medesima sentenza siano stati proposti due ricorsi, entrambi presentati come autonomi, senza che si sia provveduto alla loro formale riunione, per Sez. 6-L, n. 07096/2016, Pagetta, Rv. 639296, l'intervenuta decisione di una delle due impugnazioni non solo non incide sulla validità della stessa decisione, ma preclude l'esame del ricorso non ancora esaminato, che va quindi dichiarato improcedibile, in forza dei principi di unità della decisione, del giusto processo e della sua ragionevole durata.

Sez. L, n. 23531/2016, Cavallaro, in corso di massimazione, ha stabilito che il ricorso incidentale condizionato dell'appellato totalmente vittorioso, che riproponga una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, che l'abbia visto soccombente, dev'essere esaminato e deciso prioritariamente ove fondato su una ragione più liquida, in aderenza con le esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzate dagli artt. 24 e 111 Cost.

Sempre sul tema, Sez. U, n. 25045/2016, Ragonesi, in corso di massimazione, ha affermato che un controricorso ben può valere come ricorso incidentale, ma, a tal fine, per il principio della strumentalità delle forme – secondo cui ciascun atto deve avere quel contenuto minimo sufficiente al raggiungimento dello scopo – occorre che esso contenga i requisiti prescritti dall'art 371 in relazione agli artt. 365, 366 e 369 c.p.c. ed in particolare, la richiesta, anche implicita, di cassazione della sentenza specificatamente prevista dal n. 4 dell'art 366 c.p.c.

Quanto alla funzione della memoria ex art. 378 c.p.c. e di quella omologa di cui all'art. 380-bis c.p.c., Sez. 6-L, n. 03471/2016, Marotta, Rv. 638962, ha ribadito che con esse non può specificarsi o integrarsi, ampliandolo, il contenuto delle originarie argomentazioni, né dedurre nuove eccezioni o sollevarsi questioni nuove, pena la violazione del diritto di difesa.

Inoltre, poiché il termine di cinque giorni prima dell'udienza di discussione fissato per il deposito, ex art. 378 c.p.c., ha la funzione di assicurare al giudice e alle altre parti di prendere cognizione della memoria con congruo anticipo rispetto all'udienza stessa, Sez. 2, n. 07704/2016, Falaschi, Rv. 639477, ha negato in proposito l'applicabilità in via analogica dell'art. 134, comma 5, disp. att. c.p.c., in tema di deposito del ricorso del controricorso a mezzo del servizio postale, che la suddetta norma dispone doversi ritenere perfezionato nella data di spedizione del plico.

Sez. 1, n. 26332/2016, Ferro, in corso di massimazione, ha infine stabilito che, proprio alla luce della descritta funzione, sono inammissibili le "ulteriori memorie conclusionali" depositate dal ricorrente, in aggiunta ad una prima memoria già versata in atti ex art.378 c.p.c., posto che nel giudizio di cassazione non sono ammissibili scritti difensivi con la deduzione di nuove censure.

Riguardo all'onere di depositare la copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., Sez. 6-3, n. 03564/2016, De Stefano, Rv. 638916, ha ribadito che ove il ricorrente non abbia allegato che la sentenza stessa gli è stata notificata, deve presumersi che egli abbia inteso avvalersi del cd. "termine lungo", procedendo quindi alle verifica della sua osservanza. Ove però in seguito, per eccezione di parte o aliunde, emerga invece che la sentenza gli era stata notificata ai fini del decorso del termine per impugnare, a prescindere dall'osservanza del termine breve, la Corte di cassazione deve verificare che il ricorrente abbia depositato la copia della sentenza entro il termine di cui all'art. 369 c.p.c., in mancanza dovendo dichiarare l'improcedibilità del ricorso, valutazione che precede quella sull'eventuale sua inammissibilità.

Non rispetta l'onere in discorso, ed incorre quindi nella declaratoria di improcedibilità del ricorso, secondo Sez. T, n. 16498/2016, Tricomi L., Rv. 640779, il ricorrente che depositi una copia della sentenza impugnata "uso studio", priva del visto di conformità, anziché la copia autentica.

Non così, invece, secondo Sez. U, n. 19675/2016, Frasca, Rv. 641091, nel caso in cui il ricorrente depositi una copia incompleta, benché autentica, della sentenza impugnata, ove ciò non determini l'impossibilità di scrutinare l'impugnazione sulla base della pur incompleta copia depositata, in virtù del principio della sanatoria delle nullità processuali per raggiungimento dello scopo.

Ove invece il ricorrente depositi una copia conforme della sentenza impugnata, ma nella stesura antecedente alla successiva correzione dell'errore materiale, ciò non determina, per Sez. 1, n. 23638/2016, Sambito, in corso di massimazione, l'inammissibilità del ricorso, trattandosi di vizio solo formale, secondo il principio di lesività in concreto della violazione di norme processuali.

Con specifico riguardo alla materia fallimentare e segnatamente al procedimento di opposizione allo stato passivo, Sez. 1, n. 09987/2016, Di Virgilio, Rv. 639801, ha stabilito che il deposito del relativo decreto decisorio, non corredato dalla prova della sua notificazione o comunicazione ai sensi dell'art. 99, ultimo comma, l.fall., determina l'improcedibilità del ricorso ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., non potendo la Corte valutare la tempestività del ricorso, a prescindere dal contegno processuale della controparte.

In relazione all'attività esercitabile all'udienza di discussione dai procuratori delle parti, Sez. 6-1, n. 00429/2016, Bisogni, Rv. 638120, ha precisato che la facoltà delle parti di presentare brevi osservazioni per iscritto, ai sensi dell'art. 379, comma 4, c.p.c., può essere esercitata solo per replicare alle conclusioni del P.M., ma non anche per replicare alle difese svolte oralmente dal difensore avversario.

Sez. 3, n. 06180/2016, Vincenti, Rv. 640311, ha poi escluso l'ammissibilità del deposito di conclusioni scritte da parte del P.M. dopo averle rassegnate oralmente, giacchè tale facoltà è riservata unicamente alle parti, in replica alle stesse conclusioni del P.M..

Sul tema della produzione documentale, Sez. L, n. 00195/2016, Berrino, Rv. 638424, ha affermato che l'onere di depositare gli atti processuali, i documenti, i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda, imposto a pena di improcedibilità dall'art. 369, comma 2, n. 4), c.p.c., può ritenersi soddisfatto, per il principio di strumentalità delle forme processuali, con la produzione del fascicolo di parte per gli atti in esso contenuti, e con il deposito della richiesta di trasmissione presentata alla cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, munita di visto ex art. 369, comma 3, c.p.c., ferma l'esigenza di rispettare, comunque, i dettami di cui all'art. 366, n. 6), c.p.c., a pena d'inammissibilità.

Con particolare riguardo al deposito di nuovi documenti, Sez. 2, n. 03934/2016, Criscuolo, Rv. 638973, nel solco di risalente orientamento, ha affermato che sebbene l'art. 372 c.p.c. testualmente ne consenta la produzione ove essi siano finalizzati a sostenere l'inammissibilità del ricorso, esso deve interpretersi in senso estensivo, essendo ammessa anche la produzione di documenti a sostegno di cause di improponibilità, improcedibilità e improseguibilità dello stesso ricorso.

Ancora, Sez. 1, n. 09334/2016, Ferro, Rv. 639618, ha affermato che, poiché l'eccezione di estinzione della società appellante a cagione della sua cancellazione dal registro delle imprese già in epoca antecedente alla proposizione dell'appello può direttamente considerarsi come causa di potenziale nullità della sentenza di secondo grado, il ricorrente può formulare tale eccezione per la prima volta col ricorso per cassazione, producendo ai sensi dell'art. 372 c.p.c. la documentazione che ne comprovi l'intervenuta estinzione.

Al contrario, in tema di società di persone, Sez. L, n. 13792/2016, Manna A., Rv. 640451, ha affermato che, poiché l'iscrizione dell'atto che la cancella ha natura dichiarativa, il difetto di legittimazione processuale non può essere dedotto per la prima volta in cassazione, con la produzione dell'atto di cancellazione ai sensi dell'art. 372 c.p.c., ciò comportando una inammissibile introduzione di una nuova questione di fatto in sede di legittimità.

Circa i requisiti di forma e contenuto del ricorso, di particolare interesse è Sez. 6-3, n. 26936/2016, De Stefano, in corso di massimazione, che avuto riguardo alla portata dell'art. 6 della CEDU ha affermato che la giurisprudenza della Corte europea autorizza il formalismo nel giudizio di legittimità in generale e nella sua fase introduttiva in particolare, purché sia superato il consueto vaglio di proporzionalità nel bilanciamento tra esigenza di certezza del diritto (e buona amministrazione della giustizia) e diritto del singolo al giusto processo; ciò che si verifica quando il singolo requisito formale: a) è funzionale al ruolo nomofilattico della Corte di cassazione; b) non è interpretato in senso eccessivamente formalistico; c) è imposto in modo chiaro e prevedibile; d) non impone un onere eccessivo per chi deve formare il ricorso, tenuto conto della particolare professionalità attesa dal difensore abilitato alla difesa della parte in Cassazione.

Sez. 2, n. 00138/2016, Matera, Rv. 638533 ha ribadito che l'erronea indicazione del numero della sentenza impugnata in ricorso non ne determina l'inammissibilità, ove l'intimato abbia elementi sufficienti ad individuarla senza possibilità di equivoci.

Analogamente, Sez. 2, n. 01989/2016, Orilia, Rv. 638773, ha escluso che l'omessa indicazione della parte intimata determini l'inammissibilità del ricorso, ex art. 366, comma 1, n. 1), c.p.c., ove dal contesto del ricorso ovvero dal riferimento ai precedenti gradi del giudizio la parte stessa sia identificabile con certezza.

Nel solco di consolidato orientamento, poi, Sez. L, n. 04293/2016, Di Paolantonio, Rv. 639158, ha ribadito che, poiché il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio, bensì un giudizio impugnatorio a critica vincolata e a cognizione limitata all'ambito dei motivi di censura proposti, nel caso in cui la decisione impugnata si regga su più rationes decidendi ciascuna delle quali idonea a giustificare la decisione, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze in relazione a tutte le predette rationes.

Sempre in ambito di specificità delle censure, con riguardo all'ipotesi in cui il ricorrente si dolga dell'utilizzo, da parte del consulente tecnico d'ufficio, di documenti forniti dal consulente tecnico di parte al di fuori del contraddittorio, Sez. 1, n. 07737/2016, Lamorgese, Rv. 639309, ha affermato che il ricorrente stesso ha l'onere di indicare specificamente quali siano tali documenti e quali siano gli accertamenti e le valutazioni basate sugli stessi e svolti dal consulente d'ufficio, poi utilizzati dal giudice.

Per il caso in cui la copia notificata del ricorso manchi di una o più pagine e l'originale sia stato tempestivamente depositato, Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641080, componendo un contrasto di giurisprudenza, ha stabilito che ciò non comporta l'inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica, sanabile ex tunc, mediante nuova notifica di copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell'intimato, salva la concessione di un termine a quest'ultimo per integrare le sue difese.

Ancora, Sez. 6-3, n. 03385/2016, Frasca, Rv. 638771, ha ribadito che la tecnica del cd. "assemblaggio", mediante la quale il ricorrente riproduca pedissequamente gli atti di causa, viola il precetto di cui all'art. 366, comma 1, n. 3), c.p.c., giacchè l'esposizione sommaria del fatto non può neanche desumersi dall'illustrazione del o dei motivi.

Sez. T, n. 18021/2016, Sabato, Rv. 641127, ha affermato che ove i motivi di impugnazione prospettino una pluralità di questioni precedute dall'elenco delle norme asseritamente violate, essi sono inammissibili sia per la negazione della regola della chiarezza, e dall'altro perché impongono alla Corte una attività tesa ad enucleare, dalla mescolanza dei motivi, quelle parti inerenti le separate censure.

Quanto in particolare al requisito di autosufficienza del ricorso, di cui si rinviene la fonte normativa nell'art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., va qui segnalata Sez. 1, n. 09888/2016, Nazzicone, Rv. 639725, che ha affermato che, nel caso si denunci la violazione di norme processuali, ai fini del rispetto di quel requisito, si devono specificare gli elementi fattuali che in concreto condizionano l'ambito di operatività della violazione.

Sez. 3, n. 12288/2016, Olivieri, Rv. 640255, ha poi affermato che le "tabelle milanesi", dettate in tema di liquidazione del danno alla persona, non costituiscono fatto notorio, sicchè il ricorso per cassazione deve ritenersi non in linea con la previsione art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., ove esso non le riporti specificamente, limitandosi ad enunciare le somme pretese in virtù della loro applicazione ed omettendo di indicarle tra i documenti, ex art. 369, comma 2, c.p.c., e di individuare quando siano state prodotte nel giudizio di merito e il luogo del processo in cui esse siano reperibili; né l'omissione può essere superata da una successiva produzione ex art. 372 c.p.c., non trattandosi di documenti inerenti all'ammissibilità del ricorso.

In tema di contenzioso tributario, Sez. T, n. 19118/2016, Tricomi L., Rv. 641234, ha stabilito che, poiché l'inammissibilità di tutti i motivi del ricorso determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, la Corte non può esaminare né una eventuale questione di costituzionalità sollevata, né l'eventuale integrazione del contraddittorio, in caso di litisconsorzio necessario.

Quanto ai poteri della Corte di Cassazione, ove il ricorrente riproponga una questione giuridica non trattata in alcun modo nella sentenza impugnata e che necessiti di un accertamento di fatto, Sez. 2, n. 07048/2016, Orilia, Rv. 639515, ha affermato che, al fine di evitare la declaratoria di inammissibilità della censura per novità, è onere dello stesso ricorrente indicare dove e quando la questione è stata introdotta, al fine di consentire alla Corte di verificare la veridicità dell'affermazione, prima di esaminarla nel merito, e ciò quand'anche si verta in tema di rilevabilità d'ufficio della nullità in ogni stato e grado, giacchè il potere officioso non può essere esercitato qualora si rendano necessari accertamenti di fatto. Negli stessi termini si è anche pronunciata Sez. 2, n. 08206/2016, Orilia, Rv. 639513.

Un cospicuo numero di pronunce hanno riguardato il tema dei vizi denunciabili col ricorso.

Anzitutto, deve segnalarsi Sez. U, n. 01513/2016, Frasca, Rv. 638245, che ha affermato che, ove si censuri col ricorso la qualificazione della domanda data dal giudice di merito ai fini della individuazione della giurisdizione, il motivo si riverbera sempre sull'applicazione delle norme regolatrici della giurisdizione, sicchè è riconducibile alla previsione di cui al'art. 360, comma 1, n. 1), c.p.c..

Sez. 2, n. 02443/2016, Orilia, Rv. 638775, ha ribadito che le nuove questioni di diritto, ancorchè rilevabili in ogni stato e grado del giudizio, non sono proponibili per la prima volta nel giudizio di legittimità, allorchè comportino o presuppongano nuovi accertamenti o apprezzamenti di fatto, salvo che nelle ipotesi di cui all'art. 372 c.p.c., tra cui il caso della nullità della sentenza, purchè il vizio attenga direttamente al provvedimento.

Sez. 3, n. 11892/2016, Frasca, Rv. 640194, ha affermato che il cattivo esercizio del potere di valutazione delle prove non legali da parte del giudice del merito non rientra tra i vizi denunciabili con il ricorso per cassazione, non potendo integrare né un "fatto storico", ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., né tantomeno in un'anomalia motivazionale, denunciabile ai sensi della previsione di cui al n. 4) dello stesso articolo, in relazione al disposto dell'art. 132, comma 4, c.p.c.. Pertanto, prosegue la stessa pronuncia, Rv. 640192, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere denunciata quale vizio processuale solo ove si sostenga che il giudice ha dichiarato di non dover osservare detta norma, ovvero abbia deciso sulla base di prove non introdotte dalle parti ma disposte di sua iniziativa al di fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non essendo sufficiente affermare che il giudice abbia attribuito maggior capacità persuasiva ad alcune prove piuttosto che ad altre.

Sez. L, n. 02529/2016, Blasutto, Rv. 638935, ha affermato che l'inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, non può essere denunciata ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., ma con revocazione a norma dell'art. 395, comma 1, n. 4), c.p.c..

Ancora, deve segnalarsi Sez. 3, n. 23704/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione, che in tema di distinzione tra errore di calcolo o materiale, ha ribadito che l'errore di calcolo del giudice del merito può essere denunciato solo con ricorso per cassazione quando sia riconducibile all'impostazione dell'ordine delle operazioni matematiche necessarie per ottenere un certo risultato, perché in tali ipotesi si lamenta un vero e proprio error in iudicando nella individuazione dei parametri e dei criteri di conteggio sulla cui base sono stati effettuati i calcoli. Qualora, invece, esso consista in un'erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici esattamente determinati ed esatta individuazione ed ordine delle operazioni da compiere, esso è emendabile con l'apposita procedura di correzione regolata dagli artt. 287 ss. c.p.c..

Riguardo al vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., va anzitutto segnalata Sez. U, n. 21691/2016, Curzio, Rv. 641723, che a composizione di contrasto di giurisprudenza ha affermato che l'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. deve essere interpretato nel senso che la violazione di norme di diritto può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano applicabili al rapporto dedotto in giudizio perché dotate di efficacia retroattiva; in tal caso è ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta. E ancora, con ulteriore statuizione, è stato affermato che il ricorso per violazione di legge sopravvenuta incontra il limite del giudicato, sicchè, se la sentenza si compone di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l'accoglimento dell'impugnazione nei confronti della parte principale determinerebbe necessariamente anche la caducazione della parte dipendente, la proposizione dell'impugnazione nei confronti della parte principale impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente, pur in assenza di impugnazione specifica di quest'ultima.

Sez. L, n. 00287/2016, Amendola F., Rv. 638395, ha ribadito che la denuncia della violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che in tesi inficia la sentenza impugnata, postula, pena l'inammissibilità, che vengano puntualmente indicate le norme asseritamente violate, ma anche che vengano rese specifiche argomentazioni tese a dimostrare in qual modo le affermazioni in diritto contenute nella sentenza stessa si pongano in contrasto con le norme che regolano la fattispecie o con l'interpretazione propugnata dalla dottrina o dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, occorrendo prospettare una valutazione comparativa tra soluzioni diverse, in modo da consentire alla Corte la valutazione del fondamento della denunciata violazione.

Sez. 6-L, n. 00329/2016, Marotta, Rv. 638341, ha ribadito che l'omessa pronuncia da parte del giudice di merito non può essere denunciata né come "violazione e falsa applicazione di norme di diritto", né come vizio di motivazione, poiché queste censure presuppongono logicamente che il giudice del merito abbia preso in esame la questione sottesa, occorrendo invece censurare l'error in procedendo ai sensi dell'art. 112 c.p.c., in relazione alla previsione di cui all'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c..

Ancora, Sez. L, n. 06267/2016, Manna A., Rv. 639244, ha affermato che non può denunciarsi in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione dei pareri del Comitato regionale previsto dall'art. 12 del d.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, trattandosi di atti privi di valenza normativa e non essendo essi assimilabili al contratto o accordo collettivo nazionale di lavoro.

Sez. L, n. 02529/2016, Blasutto, Rv. 638935, ha affermato che quando si assuma il giudice del merito è incorso in un errore di fatto risultante dagli atti del processo, il ricorso prioposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., è inammissibile, essendo denunziato un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere solo con lo specifico strumento della revocazione, disciplinato dall'art. 395, comma 4, c.p.c..

In relazione all'error in procedendo, denunciabile a norma dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., Sez. L, n. 08069/2016, Manna A., Rv. 639483, ha ribadito che la denuncia di tale vizio faculta la Corte ad esaminare direttamente gli atti del giudizio di merito, indipendentemente dalla sufficienza e logicità dell'eventuale motivazione esibita al riguardo.

Sez. L. n. 11738/2016, Boghetich, Rv. 640032, ha però precisato che detta denuncia presuppone pur sempre che il ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti gli atti sui quali esso si fonda (nella specie, si era denunciata la violazione delle regola del tantum devolutum, quantum appellatum), al fine di individuare esattamente in che termini si ponga il vizio processuale, occorrendo riportare esattamente, e non solo per estratto o riassunto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione era stata dedotta in giudizio e quelli dell'atto d'appello con cui le censure (ritenute inammissibili) erano state formulate.

Quanto al cd. overruling (che consiste nel mutamento di precedente consolidata interpretazione della norma processuale), Sez. 2, n. 04826/2016, Cosentino, Rv. 639176, ne ha escluso la sussistenza (e quindi, ha escluso la necessità di rimettere in termini il ricorrente per la proposizione di motivi aggiunti) nel giudizio avviato in relazione a sanzioni amministrative per abuso di informazioni privilegiate, a causa dell'intervenuto annullamento del regolamento CONSOB contenente le regole sul procedimento sanzionatorio, non investendo esso né una norma processuale, né precludendo lo stesso il diritto di azione o di difesa.

Relativamente al regime delle spese, Sez. 6-3, n. 03376/2016, Rossetti, Rv. 638887, in controversia introdotta in primo grado in epoca antecedente al 4 luglio 2009, ha affermato che nel giudizio di cassazione si configura un'ipotesi di colpa grave, tale da legittimare l'irrogazione dell'ulteriore somma di cui all'art. 385, comma 4, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis), quando la parte abbia agito o resistito sostenendo tesi in iure contrastanti con il diritto vivente e con la giurisprudenza consolidata, ciò che è incompatibile con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il principio di ragionevole durata del processo, di illiceità dell'abuso del processo, e della necessità che le norme processuali vengano interpretate in modo da non comportare spreco di energie giurisdizionali.

Sempre sul tema delle spese, ma avuto riguardo al regime introdotto dall'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228, Sez. 6-L, n. 01778/2016, Mancino, Rv. 638714, ha affermato che l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato in capo al ricorrente la cui impugnazione sia stata respinta, o dichiarata inammissibile o improcedibile, non sussiste ove ricorrente sia una Amministrazione dello Stato, che è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo mediante il meccanismo della prenotazione a debito.

Relativamente al giudizio di rinvio, Sez. 3, n. 00340/2016, Sestini, Rv. 638610, ha affermato che il rinvio da parte della Corte di cassazione attribuisce al detto giudice una competenza funzionale ratione materiae, che questi non può modificare.

Sez. 1, n. 02411/2016, Lamorgese, Rv. 638507, coordinando il principio della rilevabilità in ogni stato e grado del giudicato, interno o esterno, con la peculiarità del giudizio di rinvio e la preclusione dettata dalla sentenza di cassazione, ha stabilito che il giudice del rinvio non può esaminare la questione circa l'esistenza di un giudicato, qualora essa risulti tuttavia esclusa, anche implicitamente, dalla statuizione di cassazione con rinvio, né a maggior ragione quando quel giudicato, come individuato dal giudice del rinvio, sia incompatibile con il principio pronunciato ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c..

Sempre sui poteri del giudice di rinvio, Sez. 2, n. 04317/2016, Scarpa, Rv. 639382, ha escluso che questi possa rilevare, d'ufficio, la non integrità del contraddittorio e rimettere quindi la causa al primo giudice ex art. 354, comma 1, c.p.c., ostandovi il disposto dell'art. 394 c.p.c.. In tal caso, ove la pronuncia non venga impugnata, essa acquista efficacia irretrattabile, sicchè il relativo giudizio non costituisce una prosecuzione impropria del giudizio di rinvio, bensì come un giudizio iniziato ex novo, con la conseguenza che le parti sono reintegrate nella pienezza di tutti i poteri processuali propri del giudizio di primo grado, e il giudice può liberamente riesaminare la controversia, senza il vincolo di alcuna pregressa statuizione.

Sez. 2, n. 06292/2016, Matera, Rv. 639416, ha poi negato l'esaminabilità di questioni pregiudiziali non dedotte o rilevate in sede di legittimità da parte del giudice del rinvio, stante il carattere "chiuso" del giudizio.

Non resta invece preclusa al giudice del rinvio, per Sez. 3, n. 10421/2016, Tatangelo, Rv. 640063, la valutazione sulla ammissibilità di una domanda nel caso di cassazione con rinvio per omessa pronuncia, ove essa non sia stata esplicitamente affermata o, comunque, presa in considerazione dalla Corte.

Ancora, Sez. U, n. 11844/2016, Ambrosio, Rv. 639945, ha affermato che, salva l'ipotesi del rinvio cd. "restitutorio", la sentenza emessa dal giudice del rinvio quale giudice di primo e unico grado è sempre soggetta a ricorso ordinario per cassazione, senza che rilevi il mutato regime di impugnabilità sopraggiunto nelle more, atteso che il giudizio di riunvio non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario.

Infine, Sez. L, n. 13458/2016, Spena, Rv. 640270, ha affermato che la Corte di cassazione è tenuta a dare immediata applicazione alla sopravvenuta decisione della Commissione Europea, trattandosi di atto normativo vincolante ai sensi dell'art. 288 del T.F.U.E. e, dunque, ius superveniens; conseguentemente la Corte, in attuazione della decisione sopravvenuta, deve decidere il merito, ovvero, ove necessitino accertamenti in fatto, cassare la sentenza impugnata e rimettere il relativo compito al giudice del rinvio.

Sempre riguardo alle sopravvenienze, di particolare interesse è la pronuncia con cui Sez. 1, n. 26193/2016, Terrusi, in corso di massimazione, ha affermato che il vincolo derivante al giudice di rinvio dalla regula iuris enunciata dalla Corte a norma dell'art. 384 c.p.c. viene meno nel caso in cui la norma da applicare in aderenza a tale principio venga successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza pubblicata dopo la pronuncia rescindente. In casi simili deve farsi applicazione, rispetto ai fatti già accertati nelle precedenti fasi del processo, del ius superveniens costituito dalla decisione della Corte costituzionale.

Infine, Sez. 3, n. 20004/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione, ha affermato che, nel giudizio di cassazione proposto avverso la sentenza d'appello resa nel giudizio di rinvio, la mancata produzione di copia autentica della pronuncia della S.C. che quel rinvio ha disposto non è sanzionata con l'improcedibilità, ai sensi dell'art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., tanto più che, trattandosi di sentenza resa nello stesso procedimento, ben può disporsene l'acquisizione d'ufficio, costituendo dovere istituzionale del giudice di legittimità quello di conoscere i propri precedenti.

6. Revocazione.

Riguardo ai rapporti tra giudizio di cassazione e quello di revocazione avverso la stessa sentenza, secondo Sez. 6-3, n. 03680/2016, Barreca, Rv. 638922, il termine per la proposizione del ricorso per cassazione resta sospeso a seguito della proposizione della domanda di revocazione, ex art. 398, comma 4, c.p.c., e ciò fino alla comunicazione della sentenza che decide sulla revocazione. Pertanto, il ricorso per cassazione può dirsi tempestivo solo se, dalla data di comunicazione, non risulti superato il termine residuo già sospeso.

Ove invece pendano in sede di legittimità i ricorsi avverso la sentenza d'appello e contro quella che abbia deciso l'impugnazione per revocazione avverso la prima, per Sez. T, n. 16435/2016, Luciotti, Rv. 640658, i ricorsi devono essere riuniti, benché aventi ad oggetto decisioni diverse, atteso che la connessione tra le due pronunce giustifica l'applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello quello avverso la sentenza di revocazione, che dev'essere quindi esaminato per primo.

Sempre sul rito, Sez. L, n. 13063/2016, Negri Della Torre, Rv. 640414, ha ribadito che la revocazione delle sentenze emesse in materia di lavoro e previdenza è soggetta al rito del lavoro, con la conseguenza che essa deve ritenersi tempestivamente proposta ove il relativo ricorso sia depositato in cancelleria entro il termine di cui all'art. 327 c.p.c., irrilevante essendo la successiva data di notifica del ricorso e del pedissequo decreto.

Ancora riguardo al rito, Sez. U, n. 04413/2016, Spirito, Rv. 638744, ha affermato che l'omissione della trattazione in camera di consiglio è una mera irregolarità del procedimento, che non determina violazione dei diritti di difesa, in virtù della più ampia garanzia assicurata dal giudizio in pubblica udienza.

Riguardo ai singoli motivi di revocazione, Sez. L, n. 19174/2016, Torrice, Rv. 641388, ha ribadito che costituisce vizio revocatorio, rientrante nell'ipotesi di cui all'art. 395, n. 4), c.p.c., non denunciabile quindi con ricorso per cassazione, l'affermazione contenuta nella sentenza d'appello circa l'inesistenza nel fascicolo d'ufficio o nei fascicoli di parte di un documento che invece vi è incontestabilmente inserito, trattandosi di svista di carattere materiale e non di un errore di giudizio. presuppone la preesistenza del documento rispetto alla decisione impugnata, ossia che esso sia stato recuperato solo in epoca successiva, irrilevante essendo che il documento stesso faccia riferimento a fatti antecedenti alla sentenza, sicchè l'ipotesi di revocazione in discorso non può utilmente essere invocata nel caso in cui il documento sia di formazione ad essa successiva.

Ancora, circa l'errore di fatto, Sez. 2, n. 17847/2016, Falabella, Rv. 640892, ha escluso che l'erronea percezione di documenti che riproducano le prescrizioni circa le distanze legali possa ad esso ricondursi, poiché queste, ove contenute negli strumenti urbanistici, hanno valore di norme giuridiche.

Sempre sul tema, Sez. 1, n. 03816/2016, Genovese, Rv. 639274, ha affermato che il nesso causale tra errore di fatto e decisione, necessario ai fini della valutazione di essenzialità e decisività dell'errore revocatorio, non è un nesso di causalità storica, ma di carattere logico-giuridico, nel senso che si tratta di stabilire se la decisione della causa avrebbe dovuto essere diversa, in mancanza di quell'errore, per necessità logico-giuridica, e non già di stabilire se il giudice autore del provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l'errore di fatto.

Riguardo alla scoperta di documenti, Sez. 2, n. 09652/2016, Matera, Rv. 640068, ha ribadito che il relativo onere della prova circa la tempestività dell'impugnazione (da proporsi entro trenta giorni dalla scoperta stessa) grava sul proponente, che deve anche indicare in citazione, pena la sua inammissibilità, le prove di tali circostanze, nonché del giorno della scoperta o del ritrovamento del documento.

Per quanto concerne, infine, la revocazione della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 6-3, n. 11530/2016, Frasca, Rv. 640209, ha precisato che l'errore di fatto circa la pretermissione di un motivo di ricorso non può consistere nella mera carenza, nella motivazione, di qualsiasi giustificazione in iure circa l'omissione, bensì nell'erronea supposizione dell'inesistenza del motivo stesso, ovvero di un fatto processuale che invece è esistente.

Del pari, per Sez. 1, n. 13435/2016, Nazzicone, Rv. 640325, costituisce errore revocatorio l'aver confermato la Corte di cassazione la declaratoria dello stato di adottabilità di un minore su una specifica circostanza supposta esistente (ossia, l'aver i genitori abbandonato il minore nel proprio autoveicolo) la cui verità era invece esclusa dalle risultanze di causa.

Sez. 6-L, n. 06607/2016, Arienzo, Rv. 639299, ha affermato che il decreto presidenziale con cui viene dichiarata l'estinzione del giudizio di cassazione non può formare oggetto di revocazione o correzione di errore materiale, giacchè l'art. 391-bis c.p.c. riserva tali rimedi per le sentenze e per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 375, comma 1, numeri 4) e 5), c.p.c..

Sez. 6-3, n. 10028/2016, Rubino, Rv. 639834, ha poi affermato che la nullità della notificazione del ricorso per cassazione, non rilevata in sede di legittimità, non è deducibile in sede di rinvio a seguito di sentenza rescindente, potendo tuttavia essere denunciata con revocazione, ove non rilevata per errore percettivo in sede di controllo degli atti processuali.

Ancora, Sez. 6-3, n. 08472/2016, De Stefano, Rv. 639738, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 395, 391-bis e 391-ter, c.p.c., in relazione agli artt. 2, 3, 11, 24, 101 e 111, Cost., e ha del pari escluso la necessità di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E., nella parte in cui non ammettono la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione per pretesi errori di fatto diversi dalla mera svista su questioni non oggetto della precedente controversia, poiché la non ulteriore impugnabilità risponde all'esigenza, tutelata come primaria dalle stesse norme costituzionali e convenzionali, di conseguire il giudicato all'esito di un sistema strutturato anche su differenti impugnazioni, con l'immutabilità e definitività della pronuncia che tutela i diritti delle parti.

Di rilievo, infine, Sez. L, n. 25569/2016, Amendola F., in corso di massimazione, secondo cui si verte senza dubbio nella fattispecie di errore di fatto prevista dal n. 4) dell'art. 395 c.p.c., nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata sulla supposizione di un fatto – l'esistenza di soli tre motivi – la cui verità in base al ricorso era incontrastabilmente esclusa per la presenza anche di un quarto, quinto e sesto motivo. Ricorre quindi il presupposto dell'emergenza dell'errore dalla sentenza per effetto di una supposizione in essa contenuta e non invece per il solo fatto che la sentenza sia stata semplicemente silente sul motivo.

7. Le altre impugnazioni.

Un breve cenno, infine, meritano alcune pronunce concernenti altri mezzi di impugnazione.

Anzitutto, in tema di opposizione di terzo, Sez. 2, n. 11235/2016, Lombardo, Rv. 639950, ha affermato che le sentenze della Corte di cassazione, salvo che decidano nel merito, non sono suscettibili di opposizione ex art. 404 c.p.c., atteso che, in caso di rigetto del ricorso, il pregiudizio al terzo deriva dall'esecutività della sentenza di merito convalidata in sede di legittimità, mentre nell'ipotesi di accoglimento (con o senza rinvio) viene meno la statuizione che pregiudica il terzo, che potrà quindi opporsi o contro la precedente statuizione di merito, ovvero, in caso di rinvio, avverso la nuova decisione che riportasse ad attualità la pretesa lesione del suo diritto.

Ancora, Sez. 2, n. 03925/2016, Matera, Rv. 638833, ha stabilito che la domanda diretta volta alla demolizione di un immobile in comunione va proposta nei confronti di tutti i comproprietari, quali litisconsorti necessari dal lato passivo, poiché la sentenza pronunziata solo nei confronti di alcuni è inutiliter data, in quanto il rapporto dedotto in giudizio è unitario. Pertanto, ove il litisconsorte pretermesso proponga opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di condanna alla demolizione resa in grado di appello, il giudice che accerti la fondatezza dell'opposizione deve provvedere ex artt. 406 e 354 c.p.c.

Quanto al regolamento di competenza, merita di essere segnalata Sez. 6-3, n. 02791/2016, Frasca, Rv. 638984, secondo cui, poiché le disposizioni concernenti il processo telematico hanno trovato applicazione, per i procedimenti iniziati prima del 30 giugno 2014, a decorrere dal 31 dicembre 2014, mentre anteriormente e fino a tale data era possibile solo depositare atti e documenti, ne deriva che il potere di autentica esercitato dal difensore, ai sensi della disciplina sul processo digitale, per attestare la conformità all'originale della copia di una ordinanza emessa, prima del 31 dicembre 2014, in un giudizio iniziato prima del 30 giugno 2014, non ha giustificazione normativa e il ricorso per regolamento di competenza proposto avverso tale ordinanza è improcedibile stante il mancato deposito di idonea copia autentica del provvedimento impugnato.

Infine, sul tema, Sez. 6-1, n. 25535/2016, Genovese, in corso di massimazione, ha ribadito che in tema di competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, si ha interferenza tra fattispecie di concorrenza sleale e tutela della proprietà industriale o intellettuale sia nelle ipotesi in cui la domanda di concorrenza sleale si presenti come accessoria a quella di tutela della proprietà industriale e intellettuale, sia in tutte le ipotesi in cui, ai ,fini della decisione sulla domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni, debba verificarsi se i comportamenti asseritamente di concorrenza sleale interferiscano con un diritto di esclusiva. Ne consegue che la competenza delle sezioni specializzate va negata nei soli casi di concorrenza sleale c.d. pura, in cui la lesione dei diritti riservati non sia, in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale, tale da dover essere valutata, sia pure incidenter tantum, nella sua sussistenza e nel suo ambito di rilevanza.

  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione del lavoro

CAPITOLO XXXVIII

IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Questioni di giurisdizione. - 2 Questioni di competenza. - 3 Varie questioni di rito. - 3.1 Lealtà e correttezza processuale. - 3.2 Thema decidendum. - 3.3 Mezzi istruttori. - 3.4 Decisione e giudicato. - 4 Le impugnazioni. - 4.1 Appello. - 4.2 Ricorso per cassazione. - 4.3 Revocazione. - 5 L'impugnazione dei licenziamenti. - 6 Il cd. rito Fornero. - 7 Il processo in materia di previdenza. - 7.1 Competenza territoriale. - 7.2 Litisconsorzio. - 7.3 Mezzi di prova. - 7.4 Regime delle spese. - 7.5 Accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c.

1. Questioni di giurisdizione.

Il riparto di giurisdizione tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo su vicende riguardanti il lavoro pubblico contrattualizzato ha trovato un assetto consolidato nella giurisprudenza di legittimità.

Difatti, dopo il passaggio – coincidente con la data del 30 giugno 1998 – dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria (art. 45, comma 17, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, poi trasfuso nell'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), la giurisdizione spetta, di regola, al giudice ordinario per le questioni riguardanti il periodo del rapporto successivo alla predetta data, ma anche per quelle inerenti al periodo anteriore se la fattispecie dedotta in giudizio è unitaria: perciò, quando l'oggetto della domanda attiene a un presunto «inadempimento dell'amministrazione espressione di un fenomeno unitario», come nel caso di istanza risarcitoria per patologie manifestatesi prima del 30 giugno 1998, ricondotte ad esposizione a radiazione ionizzanti protrattasi anche oltre il predetto discrimine temporale, deve reputarsi giurisdizionalmente competente il giudice ordinario per l'intera pretesa risarcitoria avanzata dal danneggiato (Sez. U, n. 11851/2016, Curzio, Rv. 639997).

La residuale giurisdizione del giudice amministrativo riguarda, invece, le controversie in cui la questione dedotta attiene al periodo del rapporto compreso entro la data suddetta, sempre che le relative domande siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000 ex art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001. Dubita della legittimità costituzionale della menzionata disposizione Sez. U, n. 06891/2016, Mammone, Rv. 639170, in quanto il termine decadenziale «pone un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato», in contrasto con i principi dell'art. 6 CEDU (come interpretato dalle sentenze della Corte europea diritti dell'uomo, 4 febbraio 2014, Mottola c. Italia e Staibano c. Italia), norma a cui l'art. 117, comma 1, Cost., impone di conformarsi.

Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo anche le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), concetto che deve essere interpretato estensivamente, includendo pure i lavoratori parasubordinati ai quali siano attribuiti incarichi mediante contratti di lavoro autonomo di natura occasionale o coordinata e continuativa (Sez. U, n. 13531/2016, Curzio, Rv. 640439).

Per l'individuazione del giudice munito di giurisdizione in relazione alle controversie concernenti il diritto all'inserimento in una graduatoria ad esaurimento (già permanente), occorre avere riguardo al petitum sostanziale dedotto in giudizio: se oggetto della domanda è l'annullamento dell'atto amministrativo e, quale effetto, l'accertamento del diritto all'inserimento in quella graduatoria, la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo; se, viceversa, la domanda è specificamente volta all'accertamento del diritto all'inserimento nella graduatoria direttamente derivante da normazione primaria e implicante la disapplicazione dell'atto amministrativo, la giurisdizione va attribuita al giudice ordinario (Sez. U, n. 25836/2016, Petitti, Rv. 641791).

Tuttavia, uno spazio residuale al giudice ordinario deve essere riconosciuto anche nella materia de qua, qualora la pubblica amministrazione, una volta approvata la graduatoria, non addivenga alla nomina ed assunzione del soggetto utilmente collocato senza provvedere espressamente; difatti, se è del tutto mancante – e non solo viziata – la forma prevista dalla legge, non può ravvisarsi l'esercizio di un potere autoritativo (Sez. U, n. 05075/2016, Nobile, Rv. 639080; nella fattispecie è stata esclusa la giurisdizione ordinaria poiché la scelta di non dar corso alla nomina era stata assunta con un provvedimento la cui legittimità era soggetta a verifica da parte del giudice amministrativo).

Parimenti, la controversia promossa dal dirigente pubblico che lamenti un pregiudizio professionale derivante da atti di macro-organizzazione (ridefinizione delle strutture amministrative e determinazione dei criteri di attribuzione degli incarichi dirigenziali) appartiene alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, poiché il rapporto di lavoro non costituisce l'effettivo oggetto del giudizio e gli effetti pregiudizievoli derivano direttamente dall'atto presupposto di cui si contesta la legittimità (Sez. U, n. 11387/2016, Giusti A., Rv. 639996).

Spetta invece al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie promosse da ufficiali e sottufficiali in servizio presso l'Aeronautica militare e volte ad ottenere – in applicazione dell'art. 4 d.l. 24 giugno 2014, n. 90 – il transito nel corrispondente ruolo del personale civile dell'ente pubblico economico ENAV – Ente nazionale di assistenza al volo (Sez. U, n. 25051/2016, Bronzini, Rv. 641781).

Peculiare è la vicenda decisa da Sez. U, n. 13536/2016, Ragonesi, Rv. 640220, relativa alle assunzioni di personale da parte di rappresentanze diplomatiche e uffici consolari di prima categoria italiani (ex art. 152 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, nel testo sostituito dall'art. 1, del d.lgs. 7 aprile 2000, n. 103, applicabile ratione temporis): la Corte ha statuito che al giudice italiano compete la giurisdizione sulle domande avanzate nei confronti del Ministero degli esteri, ai sensi degli artt. 18, 19 e 60.1 del regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, restando inefficace la clausola di deroga della competenza giurisdizionale pattuita nel contratto, avente l'effetto non di consentire, bensì di imporre al lavoratore di rivolgersi a un giudice diverso da quello previsto dal regolamento stesso (nello stesso senso, Sez. U, n. 26990/2016, Tria).

2. Questioni di competenza.

È pacifico che non pone una questione di competenza in senso proprio – attenendo invece alla ripartizione degli affari all'interno dello stesso ufficio e al rito prescritto per lo svolgimento del processo – l'ordinanza del giudice che, dichiarata la propria incompetenza, abbia disposto la riassunzione del giudizio innanzi al magistrato del lavoro del medesimo ufficio; un siffatto provvedimento è certamente illegittimo, ma determina comunque il venir meno di ogni potere sulla controversia in capo al giudice che lo abbia emesso, di talché devono considerarsi nulle e abnormi sia la successiva pronuncia di estinzione del giudizio per mancata riassunzione, sia la declaratoria di esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto, poiché la valutazione dell'attività processuale astrattamente riconducibile al modello della riassunzione spetta soltanto al giudice ad quem (Sez. 1, n. 14790/2016, Lamorgese, Rv. 640707).

Può invece parlarsi propriamente di competenza della sezione specializzata in materia di impresa (cd. tribunale delle imprese, disciplinato dal d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168) in relazione alle cause ed ai procedimenti «relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario» (art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 168 del 2003), tra i quali si deve ricomprendere la domanda introdotta da un amministratore nei confronti della società e riguardante le somme da quest'ultima dovute a titolo di compenso per l'attività esercitata, che non è riconducibile al lavoro parasubordinato ex art. 409, comma 3, c.p.c. (Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638620; nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 13956/2016, Scaldaferri, Rv. 640356).

Proprio perché il rapporto che lega l'amministratore alla società non è qualificabile come lavoro subordinato o quale collaborazione coordinata e continuativa, trattandosi piuttosto di lavoro professionale autonomo ovvero di «rapporto societario», le controversie tra amministratori e società – incluse quelle riguardanti i diritti degli amministratori (nella specie, quello al compenso) – possono essere compromesse in arbitrato, qualora tale possibilità sia prevista dagli statuti societari (Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638621).

Si segnala in tema che non risulta ancora decisa la questione rimessa alle Sezioni Unite da Sez. 3, n. 03738/2016, De Stefano, non massimata, ritenuta di massima di particolare importanza ed oggetto di contrasto giusrisprudenziale, circa la qualificazione del rapporto tra società di capitali ed amministratori come rapporto di lavoro parasubordinato o di lavoro autonomo o di opera professionale, o piuttosto come estraneo a tale ambito, seppure ai diversi fini delle conseguenze in tema di estensione ai loro compensi dei limiti di pignorabilità previsti per gli stipendi dall'art. 545 c.p.c.

Se il rapporto societario è, invece, quello che lega alla cooperativa il socio lavoratore, l'interruzione del rapporto, di lavoro e mutualistico, per ragioni attinenti al contratto di lavoro (nella specie, il superamento del periodo di comporto), appartiene al giudice del lavoro la competenza sulla controversia relativa all'impugnativa del licenziamento e all'accertamento dell'inesistenza/invalidità del rapporto associativo, trattandosi di cause connesse per le quali opera la norma dell'art. 40, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-L, n. 15798/2016, Mancino, Rv. 640686; già Sez. 6-L, n. 19975/2015, Garri, Rv. 637380, aveva affermato, in forza dell'art. 40, comma 3, c.p.c., la competenza del giudice del lavoro per le controversie riguardanti la risoluzione del rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa per cause tra loro concorrenti, incidenti l'una sugli obblighi statutari e l'altra sui doveri del lavoratore in forza dell'art. 40, comma 3, c.p.c.).

Sez. 6-2, n. 15809/2016, Abete, Rv. 640713, non ravvisa alcuna deroga alla competenza del giudice di pace per l'opposizione all'ingiunzione per inottemperanza dell'ordine di precettazione, poiché la sanzione amministrativa discende dalla violazione di norme riguardanti la protezione degli utenti dei servizi pubblici essenziali e non la tutela del lavoro, appartenente alla competenza per materia del tribunale.

Quanto alla competenza per territorio, la «dipendenza alla quale è addetto il lavoratore» (art. 413 c.p.c.) può consistere anche in un parcheggio di terzi, luogo presso il quale si trovano i beni strumentali alla prestazione lavorativa (carico delle merci, trasporto e successivo ritorno) e dove hanno inizio e fine le mansioni quotidianamente svolte dal lavoratore (Sez. 6-L, n. 02003/2016, Marotta, Rv. 638702).

L'equazione, ai fini dell'individuazione dei criteri di competenza territoriale, fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro costituendo (o virtuale) determina un'erosione della portata applicativa dell'art. 413, comma 7, c.p.c., sia nel lavoro privato (rispetto ai criteri ex art. 413, comma 2, c.p.c.), sia nel rapporto di pubblico impiego (in riferimento all'art. 413, comma 5, c.p.c.).

Perciò – sulla scorta del menzionato principio generale e in relazione a domande di docenti precari volte ad ottenere, in base al d.m. 8 aprile 2009, n. 42, l'iscrizione nelle graduatorie permanenti costituite in diverse province "a pettine", anziché "in coda" (con riferimento, quindi, al punteggio di cui gli stessi erano titolari nella graduatoria principale) – si è statuito che la competenza territoriale appartenga al foro nel quale ciascuno di essi prestava la propria attività al momento della domanda, poiché la pretesa azionata si riferisce alle modalità di inserimento nelle graduatorie con riferimento al punteggio precedentemente conseguito e ciò rende manifesto il collegamento funzionale con il rapporto in essere al momento della proposizione del ricorso e con la sede dell'ufficio in tal guisa individuata (Sez. 6-L, n. 11762/2016, Arienzo, Rv. 640253; conforme a Sez. 6-L, n. 10449/2015, Arienzo, Rv. 635398).

Premesso che determina una questione di competenza la decisione riguardante l'attribuzione di una lite alla cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria o a quella degli arbitri rituali (Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786), e che ai sensi dell'art. 806 c.p.c. (come modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) possono compromettersi in arbitri anche le controversie ex art. 409 c.p.c., sempre che ciò sia previsto da accordi o contratti collettivi, tra queste devono annoverarsi le liti fra la società e i suoi dipendenti inerenti alla distribuzione di azioni ai lavoratori tramite l'utilizzo delle stock option, trattandosi di una forma di retribuzione mediante partecipazione agli utili (Sez. L, n. 15217/2016, Manna, Rv. 640737).

3. Varie questioni di rito.

3.1. Lealtà e correttezza processuale.

I principi di buona fede, lealtà e correttezza costituiscono parametro di valutazione della condotta delle parti non solo durante l'esecuzione del rapporto contrattuale, ma anche nell'ambito processuale.

In particolare, costituisce abuso del processo il comportamento del creditore che, per ottenere l'esatto adempimento delle prestazioni ancora dovute, costringa il debitore a subire una serie di azioni processuali, volte ad uno scopo normalmente realizzabile mediante un unico giudizio (Sez. U, n. 23726/2007, Morelli, Rv. 599316).

Nello specifico settore giuslavoristico si è ritenuto illegittimo il frazionamento delle pretese del lavoratore che, dopo la conclusione dell'unico rapporto, promuova due distinte azioni giudiziarie nei confronti del datore di lavoro, l'una relativa al pagamento del premio di risultato e l'altra alla rideterminazione del t.f.r. per l'incidenza di voci retributive percepite in via continuativa (Sez. L, n. 04016/2016, Berrino, Rv. 639227).

Di frazionamento della tutela giurisdizionale si è occupata anche Sez. L, n. 04867/2016, Tria, Rv. 639115, rilevando un abuso dello strumento processuale nella proposizione di due distinte impugnazioni di licenziamento, la prima fondata solo su vizi formali e l'altra su vizi di merito del provvedimento espulsivo, sebbene il rapporto sostanziale nascesse dallo stesso fatto.

Per la prevalente giurisprudenza di legittimità la sanzione per la violazione dei doveri di lealtà e probità (configurabile nella proposizione di una pluralità di domande, relative ad un unico rapporto ormai cessato, per fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima) è costituita dalla improponibilità delle domande successive alla prima.

Stando al predetto orientamento giurisprudenziale si dovrebbe ritenere che, avendo carattere unitario la fonte dei diritti scaturenti dal rapporto di lavoro, una volta che il creditore abbia agito la prima volta nella consapevolezza dell'esistenza di altri crediti e colpevolmente non li abbia fatti valere unitariamente, debba restare preclusa ogni domanda successiva. Tuttavia, una siffatta interpretazione condurrebbe ad obliterare definitivamente i diritti successivamente esercitati, per i quali non è decorso il termine di prescrizione; inoltre, dall'unitario rapporto di lavoro discendono, per sua natura, plurime obbligazioni, ognuna con una propria specifica fonte, legale oppure contrattuale, concernente istituti economici diversi (retribuzioni, t.f.r., ecc.) e, dunque, non potrebbe affermarsi che al momento della cessazione del rapporto lavorativo il lavoratore possa vantare un «unico credito» costituito dalla sommatoria delle voci economiche, retributive e/o risarcitorie da quello derivanti. Ritenendo che il divieto di frazionamento dell'azione e, soprattutto, la correlata sanzione processuale non possano trovare applicazione in presenza di azioni che differiscono per causa petendi, disciplina e presupposti (giuridici e di fatto), Sez. L, n. 01251/2016, Blasutto, non massimata, ha rimesso la controversia alla decisione delle Sezioni Unite della Corte, prospettando un potenziale contrasto con i precedenti arresti giurisprudenziali e trattandosi comunque di questione «di massima di particolare importanza».

L'abuso dello strumento processuale può essere sanzionato anche con la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., la quale presuppone l'esercizio di un'azione spiegata in mala fede (coscienza dell'infondatezza della domanda) o con colpa grave (carenza della ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza), tale, cioè, da alimentare un contenzioso pretestuoso; solo in presenza di detti elementi soggettivi si giustifica il risarcimento di un danno «punitivo» (che prescinde dal concreto pregiudizio procurato alla controparte), ma a tali fini l'azione deve essere considerata nel suo complesso e non atomisticamente, con riguardo a singoli aspetti della stessa (Sez. L, n. 07726/2016, Amendola F., Rv. 639485, ha cassato la decisione di merito che aveva fatto applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c. poiché, tra i molteplici motivi di impugnazione, uno di essi era da ritenersi «francamente temerario»).

Rientra tra i doveri di correttezza processuale il divieto, ex art. 89 c.p.c., di utilizzo di espressioni sconvenienti negli atti: con una propria istanza la parte può sollecitare il giudice (anche la Suprema Corte per gli scritti difensivi del giudizio di legittimità) ad impiegare il proprio potere officioso di disporre la cancellazione di parole sconvenienti od offensive; la norma del codice di rito mira, però, ad eliminare le espressioni dettate da un intento dispregiativo, mentre non possono reputarsi scorrette quelle che mantengono un rapporto (anche indiretto) con la materia controversa, non comportano un eccesso dalle esigenze difensive e sono preordinate a dimostrare la scarsa attendibilità delle affermazioni avversarie (Sez. L, n. 21031/2016, Tria, Rv. 641412).

3.2. Thema decidendum.

Le norme del rito del lavoro impongono alle parti di formulare immediatamente le proprie domande e difese, presentando nel ricorso introduttivo i fatti e gli elementi di diritto sui quali si fonda la pretesa (art. 414 c.p.c.) ed esponendo in maniera precisa e non generica sia le contestazioni delle circostanze affermate dall'attore, sia le ragioni di fatto ostative all'accoglimento della domanda (art. 416 c.p.c.): in base alle allegazioni del ricorrente e del convenuto e dalle specifiche contestazioni di quest'ultimo si determina il thema decidendum.

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo soggetto al predetto rito, le parti sono sostanzialmente invertite e, perciò, l'atto che deve contenere gli elementi ex art. 414 c.p.c. (e, cioè, l'indicazione specifica dei fatti e degli elementi di diritto, nonché dei mezzi di prova resi necessari dall'opposizione) è la memoria difensiva dell'opposto, le cui lacune possono condurre alla revoca del provvedimento monitorio (Sez. L, n. 04212/2016, Berrino, Rv. 639776); di contro, nell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo devono essere formulate le eccezioni in senso stretto dell'opponente (convenuto sostanziale), inclusa quella relativa all'insussistenza del vincolo di solidarietà passiva tra coeredi (Sez. L, n. 19186/2016, Venuti, Rv. 641199).

Quanto alla specificità delle contestazioni del resistente, non è sufficiente al datore di lavoro – convenuto per il pagamento di somme (festività, ferie non godute, lavoro supplementare, differenze retributive, tredicesima mensilità, mancato preavviso e trattamento di fine rapporto) analiticamente indicate in un prospetto degli importi percepiti e di quelli asseritamente dovuti – dichiarare di avere corrisposto al lavoratore «tutto quanto dovuto per la quantità e qualità del lavoro prestato» (Sez. L, n. 02832/2016, Doronzo, Rv. 638933).

Una volta delineato il thema decidendum con gli atti iniziali, l'unica modifica della domanda consentita è quella che integra una emendatio libelli, che può essere autorizzata dal giudice, ex art. 420 c.p.c., anche implicitamente consentendo la formulazione, in sede di conclusioni, di una domanda modificata, poi esaminata e decisa nel merito (Sez. L, n. 04702/2016; Blasutto, Rv. 639159; la Corte ha ritenuto implicita l'autorizzazione alla modificazione della domanda di risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2087 c.c., atteso che il giudice di primo grado, all'esito di c.t.u., aveva considerato anche le patologie insorte successivamente al deposito dell'atto introduttivo, in quanto derivanti in via concausale e indiretta dall'esposizione patogena originaria).

Di contro, viola il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (precipitato del divieto di mutatio libelli) la decisione che – a fronte di una iniziale domanda di accertamento della natura subordinata del rapporto proposta ex art. 69, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (lavoro a progetto venutosi concretamente a configurare come un rapporto di lavoro subordinato) – accolga la diversa istanza avanzata soltanto nelle note conclusive e affermi la natura subordinata del rapporto per essere stata la collaborazione prestata in mancanza di specifico progetto ex art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 (Sez. L, n. 09471/2016, Cavallaro, Rv. 639685).

Parimenti inammissibile è la mutatio libelli operata in appello (in violazione dell'art. 437 c.p.c.) quando alla domanda di riconoscimento di rendita per malattia professionale si pretenda di cumulare la richiesta di un'altra rendita relativa a diversa malattia professionale non riferibile a modificazioni delle condizioni fisiche dell'assicurato successive alla proposizione della iniziale domanda, poiché tale istanza amplia il thema a nuovi e distinti fatti costitutivi, senza che sia applicabile il disposto dell'art. 149 disp. att. c.p.c., che opera solo ove il diverso infortunio sia intervenuto in corso di giudizio (Sez. L, n. 04022/2016, Balestrieri, Rv. 639166).

Allo stesso modo, il lavoratore che dapprima rivendichi l'applicabilità anche ai lavoratori autonomi dei benefici ex art. 13 della legge 27 marzo 1992, n. 257, e successivamente deduca la propria qualità di lavoratore subordinato compie un'inammissibile mutatio della domanda, posto che il fatto costitutivo presuppone la sussistenza di una certa qualifica normativa (Sez. L, n. 17376/2016; Cavallaro, Rv. 640884).

Il divieto di nova riguarda anche le eccezioni se le stesse si fondano su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado oppure se, introducendo un nuovo tema d'indagine, alterano i termini sostanziali della controversia (Sez. L, n. 05051/2016, Negri Della Torre, Rv. 639302, ha escluso il denunciato vizio della pronuncia di merito che aveva ridotto il numero delle retribuzioni spettanti alla lavoratrice illegittimamente licenziata, poiché l'eccezione – «in senso lato» – del datore di lavoro era volta soltanto al contenimento degli effetti patrimoniali della sentenza di primo grado).

Non costituisce, invece, domanda nuova – bensì mera precisazione del petitum originario – la richiesta di determinazione dell'ammontare del credito di valore alla data della liquidazione definitiva: l'importo, maggiore rispetto a quanto dedotto in primo grado per effetto di svalutazione monetaria o di rivalutazione della rendita, può essere richiesto anche in grado di appello, senza necessità di proposizione di impugnazione incidentale e, ricorrendone le condizioni, può essere liquidato anche di ufficio (Sez. L, n. 04089/2016, D'Antonio, Rv. 639145, in tema di azione di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro, responsabile dell'infortunio sul lavoro subito dal dipendente assicurato).

Le barriere preclusive per la formazione del thema decidendum riguardano anche la domanda riconvenzionale, la cui proposizione deve avvenire con la memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. con contestuale richiesta, prescritta a pena di decadenza, di fissazione di nuova udienza; la menzionata decadenza, prevista dall'art. 418 c.p.c., non esclude però che la domanda dichiarata inammissibile possa essere riproposta in un altro giudizio, sia perché la declaratoria di inammissibilità spiega effetti soltanto di natura processuale, sia perché è autonoma la riconvenzionale, diretta non ad ottenere il rigetto della pretesa avversaria ma una diversa pronuncia giurisdizionale a sé favorevole (Sez. L, n. 18125/2016; Balestrieri, Rv. 641083).

L'estensione della controversia a soggetti diversi dalle parti originarie amplia, quantomeno sotto il profilo soggettivo, il thema decidendum. Tuttavia, l'istanza di chiamata in causa di altri soggetti non obbliga il giudice di primo grado all'adozione automatica e acritica dei provvedimenti previsti dall'art. 420, comma 9, c.p.c., i quali presuppongono, invece, una valutazione sulla comunanza della controversia e sulle ragioni dell'intervento del terzo; pertanto, solo in caso di omesso esame dell'istanza oppure di mancato rilievo del difetto del contraddittorio in costanza di litisconsorzio necessario si verifica un vizio del processo tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado ex art. 383 c.p.c. (Sez. L, n. 02522/2016, Balestrieri, Rv. 638936, ha confermato la sentenza che aveva motivato sulla sussistenza di un'interposizione illecita di manodopera tra le parti del giudizio, escludendo la dedotta comunanza di causa con il soggetto solo interposto).

3.3. Mezzi istruttori.

Il rito del lavoro scandisce rigorosamente anche la formazione del thema probandum, dato che i già menzionati artt. 414 e 416 c.p.c. impongono l'indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti di cui le parti intendono avvalersi.

A norma dell'art. 115 c.p.c. non necessitano di prova «i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita», ma l'onere di contestazione del resistente concerne soltanto le allegazioni di fatto della controparte e non anche i documenti prodotti, rispetto ai quali vi è soltanto l'onere di eventuale disconoscimento o di proporre, se necessario, querela di falso; perciò, la valenza probatoria dei documenti resta intatta nel corso del giudizio, ben potendo la stessa essere messa in discussione dalle parti o autonomamente valutata da parte del giudice (Sez. 6-L, n. 06606/2016, Arienzo, Rv. 639300). Qualora, poi, il giudice sia in grado, ex officio e in base alle risultanze ritualmente acquisite, di accertare l'esistenza o l'inesistenza di un fatto costitutivo della domanda, lo stesso non può considerarsi escluso dal tema di indagine per effetto della mancata contestazione avversaria (Sez. 6-L, n. 26395/2016, Mancino, Rv. 642286).

In ogni caso, il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416, comma 2, c.p.c., può riguardare soltanto i fatti primari costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato – e, al più, nel testo della norma riformulato dall'art. 45, comma 14, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (applicabile solo ai giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore della predetta legge), i fatti secondari – ma non si estende alle mere difese (Sez. L, n. 17966/2016, Manna A., Rv. 641176, ha stabilito che non integra neppure un fatto secondario il generico assunto del datore di lavoro di avere adottato una turnazione articolata su più di sei giorni lavorativi consecutivi senza riposo «per venire incontro alla richiesta dei lavoratori»).

Anche nel rito del lavoro la prova testimoniale deve essere articolata in capitoli specifici e separati, ma, poiché la parte ha l'onere di allegare specificamente i fatti negli atti introduttivi si ricava che, in quella sede, è possibile indicare come oggetto dei mezzi di prova i fatti allegati a fondamento delle pretese iniziali, senza necessità di riformularli separatamente come capi di prova; quest'ultima attività può essere compiuta entro il termine che il giudice, riscontrata l'irregolarità nell'indicazione dei capitoli, può assegnare alle parti ex art.421 c.p.c. con l'invito ad una nuova formulazione degli stessi, di talché la decadenza della parte dal diritto di assumere la prova si verifica soltanto nell'ipotesi di inottemperanza all'invito entro il termine fissato (Sez. L, n. 19915/2016, Spena, Rv. 641373).

Non costituisce prova documentale dotata di fede privilegiata il verbale di conciliazione in sede sindacale poiché la partecipazione del rappresentante sindacale, che non è un pubblico ufficiale munito del potere di autenticare le sottoscrizioni delle parti, ha lo scopo di garantire l'assenza di uno stato di soggezione del lavoratore, il quale può limitarsi a disconoscere la propria sottoscrizione facendo ricadere sulla controparte l'onere di chiederne la verificazione, a pena di inutilizzabilità dell'atto (Sez. 6-L, n. 09255/2016, Marotta, Rv. 639595.)

Secondo Sez. L, n. 03980/2016, Boghetich, Rv. 638849, assume particolare efficacia probatoria la sentenza penale di patteggiamento (rectius, di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.), perché, pur non potendosi individuare nella stessa una pronuncia di condanna, la statuizione presuppone l'ammissione di colpevolezza dell'imputato: conseguentemente, la parte è esonerata dall'onere di dimostrare i fatti oggetto dell'imputazione e il giudice di merito è tenuto a fornire adeguata motivazione per discostarsi da un elemento di prova costituito dalla dichiarazione di responsabilità alla quale il giudice penale ha prestato fede.

La consulenza tecnica d'ufficio non può essere impiegata per la soluzione di problemi giuridici (quali, ad esempio, la qualificazione come attività usurante o stressante della «attività confacente alle attitudini dell'assicurato», ai fini dell'art. 1 della legge 12 giugno 1984, n. 222) ma essa è funzionale alla sola risoluzione di questioni di fatto che presuppongano cognizioni di ordine tecnico; pertanto, i consulenti non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni riguardanti la qualificazione giuridica o la conformità al diritto di determinate condotte e le risultanze di una siffatta inammissibile consulenza non sono utilizzabili, a meno che non vengano vagliate criticamente e, comunque, sottoposte al dibattito processuale delle parti (Sez. L, n. 01186/2016, Tria, Rv. 638390).

Il ricorso alle prestazioni del consulente tecnico non esime il giudice del merito dall'obbligo di fornire un'adeguata motivazione sul punto decisivo della controversia costituito proprio dalle risultanze della consulenza rinnovata in appello (difformi da quella espletata in primo grado), effettuando una comparazione critica delle due relazioni; detta comparazione si compie mediante l'esposizione delle deduzioni dei consulenti e l'analitica confutazione delle argomentazioni poste a base delle conclusioni del primo dei due ausiliari, mentre deve escludersi la sufficienza di una acritica adesione al parere del secondo ausiliario, scevra dalla valutazione delle censure e dei rilievi di parte (Sez. L, n. 21528/2016, Doronzo, Rv. 641435).

Ai sensi dell'art. 2712 c.c. il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche – per far perdere alle stesse la loro qualità di prova – deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e, dunque, concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta: non è sufficiente, perciò, la contestazione della data e dell'ora del video che ritrae il lavoratore mentre esegue lavori sul tetto della propria abitazione nel periodo di malattia, risultando così dimostrati i fatti documentati nel filmato – svolgimento e durata dell'attività – e potendo essi, unitamente ad altre risultanze istruttorie (nella specie, testimonianza dell'investigatore privato), essere posti a fondamento della decisione sulla legittimità licenziamento (Sez. L, n. 18507/2016, Negri Della Torre, Rv. 641190).

In forza dell'art. 4, comma 2, st.lav. ratione temporis vigente, sono inutilizzabili per dimostrare l'inadempimento contrattuale dei lavoratori i dati forniti da impianti o apparecchi di controllo che, installati per l'esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, rilevino anche circostanze relative all'attività lavorativa dei dipendenti (Sez. L, n. 19922/2016, Bronzini, Rv. 641350).

Una particolare agevolazione probatoria è prevista dall'art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, a tenore del quale la presentazione di elementi indiziari idonei a far presumere la «esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso» determina il trasferimento dell'onere di dimostrare l'insussistenza della discriminazione in capo al convenuto; Sez. L, n. 23286/2016, Manna, Rv. 641579, ha ritenuto, in virtù di una interpretazione conforme alla normativa dell'Unione Europea nelle letture date dalla Corte di giustizia, che la menzionata disposizione trovi applicazione anche nella fattispecie di molestie sessuali, da considerare equiparate alle discriminazioni di genere.

L'art. 437, comma 2, c.p.c. sancisce un rigido sbarramento all'introduzione di nuovi mezzi istruttori in appello e tale regime è attenuato solo dalla valutazione di indispensabilità per la decisione della nuova prova offerta; difatti, la mancata indicazione e/o l'omessa produzione, con l'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti determinano la decadenza del diritto alla prova documentale, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo).

L'irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori decadenziali, impedisce una sua reviviscenza in grado di appello, né può essere legittimamente sollecitato il potere istruttorio officioso del giudice ex art. 437 c.p.c. (o ex art. 421 c.p.c.), perché tale potere deve essere esercitato con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel contraddittorio e non può assumere funzione totalmente sostituiva dell'onere di allegazione e di prova incombente su ciascuna parte (Sez. L, n. 23652/2016, Riverso, Rv. 642085; nel caso di specie, l'INPS aveva eccepito in primo grado l'interruzione della prescrizione riservandosi di documentarla, senza nemmeno specificare quando, come ed in virtù di quale atto l'interruzione si fosse prodotta, salvo poi produrre in secondo grado un avviso bonario, regolarmente notificato all'appellato, dal quale risultava l'interruzione dei termini prescrizionali).

Sempre con riguardo alla prova dell'interruzione della prescrizione e alla sua acquisizione ex officio, si è espressa Sez. L, n. 19305/2016, Spena, Rv. 641377, rilevando che il potere istruttorio d'ufficio non è meramente discrezionale e che lo stesso può essere esercitato per un approfondimento, ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo, non già per aggirare preclusioni e decadenze processuali già prodottesi a carico delle parti (nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto che la tempestiva produzione della lettera inviata al datore di lavoro e contenente la richiesta di pagamento delle somme oggetto di giudizio costituisse una «pista probatoria» che il giudice del primo grado, poi erroneamente riformato dalla corte territoriale, aveva doverosamente approfondito con l'ammissione della produzione dell'avviso di ricevimento ex art. 421 c.p.c.).

Un mutamento di orientamento giurisprudenziale – cd. overruling – sulla ripartizione dell'onere probatorio (nella fattispecie, in tema di prova del requisito numerico richiesto ai fini della tutela reale del lavoratore licenziato) giustifica, invece, l'esercizio del potere officioso del giudice di ammettere la documentazione prodotta dal datore di lavoro costituitosi tardivamente (Sez. L, n. 00819/2016, Esposito L., Rv. 638455).

Il giudizio operato dal giudice del gravame sull'indispensabilità della prova influisce solo indirettamente sul merito della controversia, posto che esso attiene, invece, al rito e, segnatamente, alla preclusione processuale eventualmente formatasi riguardo all'ammissibilità di una richiesta istruttoria; perciò, se nel ricorso per cassazione viene dedotta l'erroneità dell'ammissione (o della dichiarazione di inammissibilità) di una prova documentale in appello, la Suprema Corte è chiamata a sindacare un error in procedendo ed è quindi tenuta a stabilire se effettivamente si trattasse di una prova indispensabile (Sez. 1, n. 01277/2016, Nappi, Rv. 638499).

In ogni caso, la tardività delle prove documentali prodotte in primo grado deve essere tempestivamente denunciata con le difese spiegate nell'appello e, dunque, la questione non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità, dovendosi attribuire il significato di rinuncia ex art. 346 c.p.c. al silenzio serbato sul punto dalla parte interessata all'eccezione (Sez. L, n. 20678/2016, Spena, Rv 641429).

3.4. Decisione e giudicato.

Per il combinato disposto degli artt. 429, comma 1, secondo periodo, e 430 c.p.c., la decisione del giudice del lavoro va assunta mediante la lettura del dispositivo all'esito della discussione e in tal caso il contenuto della motivazione successivamente depositata deve fedelmente rispecchiare il contenuto del dispositivo, che è assolutamente immodificabile.

È evidente che il giudice (anche collegiale) che ha assistito alla discussione sin dal suo inizio deve coincidere con quello chiamato ad emettere la decisione, in quanto la violazione del principio di immutabilità del giudicante determina la nullità assoluta e insanabile della pronuncia (Sez. L, n. 18126/2016, Balestrieri, Rv. 641085, in fattispecie di diversa composizione del collegio di appello).

Anche nel rito del lavoro la prevalenza del dispositivo sulla motivazione è circoscritta alle ipotesi in cui vi è contrasto tra le due parti della pronuncia; se non può invece ravvisarsi incompatibilità (come nella fattispecie, in cui il giudice di merito, pur non riproducendone il dettato nel dispositivo, aveva in motivazione chiaramente espresso la condanna del lavoratore a restituire la somma eccedente rispetto a quella riconosciutagli in appello), la portata precettiva della pronuncia va individuata integrando il dispositivo con la motivazione (Sez. L, n. 12841/2016, Negri Della Torre, Rv. 640232).

Richiamando un consolidato e risalente orientamento giurisprudenziale, Sez. 6-L, n. 03024/2016, Arienzo, Rv. 638930, ha ritenuto che l'integrazione del dispositivo indeterminato o incompleto o contraddittorio con il contenuto della motivazione non possa aver luogo per le sentenze di natura processuale, a maggior ragione per quelle pronunciate con il rito del lavoro, nelle quali il dispositivo ha autonoma rilevanza esterna.

Ai sensi dell'art. 429, comma 3, c.p.c., la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve contenere, oltre gli interessi nella misura legale, la determinazione del maggior danno subito per la diminuzione di valore del credito (id est, la rivalutazione monetaria), accessori che devono essere riconosciuti d'ufficio anche nel grado d'impugnazione, sempre che non si sia formato il giudicato sulla pretesa avanzata in via principale (Sez. L, n. 19312/2016, Manna A., Rv. 641375, ha escluso che possa formarsi un giudicato, anche solo implicito, sul diniego dei predetti accessori da parte del giudice di primo grado qualora sia stata ritualmente impugnata, anche in via incidentale, la decisione sulla sorte capitale).

Gli interessi e la rivalutazione monetaria attribuiti ex art. 429 c.p.c. decorrono dal giorno della maturazione del diritto; se questo è costituito dall'indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010, si applica la menzionata norma (che si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva), ma – trattandosi di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva – il dies a quo per il riconoscimento di rivalutazione monetaria e interessi legali coincide con la data della sentenza (ancorché non definitiva) che ha disposto la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (Sez. L, n. 03062/2016, Mammone, Rv. 639081; Sez. 6-L, n. 05344/2016, Arienzo, Rv. 639099).

L'interpretazione della decisione che costituisce titolo esecutivo da parte del giudice dell'opposizione all'esecuzione è finalizzata a determinare l'esatto importo spettante al creditore procedente in forza del titolo opposto, nel rispetto delle deduzioni delle parti e considerando che la controversia ha per oggetto la sussistenza originaria e la permanenza del titolo esecutivo: perciò, non può ravvisarsi alcuna ultrapetizione nella pronuncia che, pur in carenza di eccezione di parte, ha ritenuto non dovute al lavoratore le mensilità aggiuntive e gli scatti di anzianità, riconoscendogli soltanto la somma stabilita a titolo di indennità ex art. 18 st.lav., oltre agli accessori ex art. 429 c.p.c. (Sez. L, n. 04432/2016, Patti, Rv. 639230).

Le disposizioni che regolano l'influenza di un giudizio su un altro e prevengono il conflitto di giudicati impongono la sospensione del processo ai sensi dell'art. 295 c.p.c. quando tra due cause, pendenti dinanzi allo stesso giudice o a due giudici diversi, esiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico: non sussistono, perciò, i presupposti per la sospensione di un giudizio avente ad oggetto l'impugnazione di un licenziamento motivato dal rifiuto della prestazione lavorativa per asserito diritto al collocamento in quiescenza nelle more della decisione della Corte dei conti sul ricorso proposto dallo stesso lavoratore per sentir pronunciare il suo diritto al pensionamento anticipato (Sez. L, n. 05229/2016, Cavallaro, Rv. 639276).

Per le stesse ragioni, non si può far luogo a sospensione necessaria del processo nell'ipotesi di contemporanea pendenza di un giudizio sull'imputazione del rapporto di lavoro subordinato per violazione dell'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 e di altro di impugnativa di licenziamento, trattandosi di controversie con diversi causa petendi e petitum, promosse nei confronti di distinte parti convenute (Sez. L, n. 06258/2016, Ghinoy, Rv. 639552).

L'esistenza del giudicato esterno, anche se formatosi successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, è in ogni caso rilevabile d'ufficio pure nel giudizio di cassazione, perché, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti secondo il principio nebis in idem, corrisponde ad un interesse pubblicistico; perciò, il divieto posto dall'art. 372 c.p.c. non si estende ai documenti attestanti la successiva formazione del giudicato, la cui produzione può aver luogo unitamente al ricorso per cassazione se si tratta di giudicato formatosi in pendenza del termine per l'impugnazione (Sez. L, n. 25269/2016, Cavallaro, Rv. 642231).

4. Le impugnazioni.

Varie decisioni hanno riguardato la decorrenza del termine (breve) per proporre le impugnazioni.

Poiché sorge un litisconsorzio «unitario o quasi necessario» quando la domanda risarcitoria è proposta nei confronti di distinti convenuti in base ad un unico fatto generatore dell'illecito, è necessariamente unitario anche il termine per proporre impugnazione, di talché la notifica della sentenza eseguita da una delle parti segna, nei confronti suoi e della destinataria della notificazione, l'inizio del termine breve per impugnare contro tutte le altre parti e la correlata decadenza dall'impugnazione esplica effetto nei confronti di tutti i contendenti (Sez. L, n. 00986/2016, Mammone, Rv. 638865, in ragione dell'estensione degli effetti della rituale notifica della sentenza d'appello effettuata da una controparte, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione del lavoratore nei confronti di entrambi i soggetti convenuti in primo grado per il ristoro dei danni subiti a causa della prematura destinazione al lavoro, dipesa da erronea diagnosi dell'INAIL e da violazione dell'obbligo datoriale di sicurezza).

Ai fini del decorso del termine breve, la notificazione della sentenza di primo grado va effettuata al dipendente che, a norma dell'art. 417-bis c.p.c., ha rappresentato la pubblica amministrazione nel primo grado delle controversie relative a rapporti di lavoro; al contrario, è radicalmente nulla la notifica eseguita al funzionario delegato dall'Avvocatura dello Stato alla rappresentanza in giudizio (art. 2 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611), poiché in quest'ultimo caso l'attività defensionale è affidata all'ufficio dell'Avvocatura competente per territorio al quale deve essere notificata la pronuncia ex art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933 (Sez. L, n. 17596/2016, Boghetich, Rv. 640885).

La riproposizione dello stesso appello prima della dichiarazione di inammissibilità di quello precedentemente presentato comporta la decorrenza del termine breve dalla notificazione della prima impugnazione, poiché questa è equipollente alla notificazione della sentenza; nelle controversie soggette al rito del lavoro il termine predetto decorre dalla data di deposito del ricorso, in quanto tale atto determina la pendenza del giudizio di appello (Sez. 6-L, n. 02478/2016, Garri, Rv. 638949).

Il luogo della notificazione dell'atto introduttivo deve essere correttamente individuato dalla parte che avanza l'impugnazione, la quale è tenuta a dare prevalenza al domicilio dichiarato nel corso del giudizio di appello e risultante dall'intestazione della sentenza notificata dalla controparte (non assumendo rilievo le divergenti e non aggiornate risultanze del sito internet del Consiglio dell'Ordine) o, alternativamente (ed eventualmente), a richiedere la notificazione in più luoghi diversi (Sez. L, n. 21037/2016, Di Paolantonio, Rv. 641409).

La procura speciale al difensore, rilasciata in primo grado «per il presente giudizio» e senza alcuna indicazione delimitativa, deve intendersi conferita anche per l'appello, quale ulteriore grado in cui si articola il giudizio stesso, poiché la presunzione di conferimento per il solo primo grado ex art. 83, ult. comma, c.p.c. opera soltanto quando vengano utilizzati termini assolutamente generici o in assenza di qualsivoglia indicazione sulla sua estensione (Sez. L, n. 24973/2016, Riverso, Rv. 641984).

4.1. Appello.

L'art. 434, comma 1, c.p.c. è stato riscritto dall'art. 54, comma 1, lettera c)-bis, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, e la sua attuale formulazione coincide quasi integralmente con il testo dell'art. 342, comma 1, c.p.c., contestualmente introdotto.

Le novellate disposizioni perseguono lo scopo di migliorare l'efficienza dell'appello rendendo esplicita l'esigenza che l'appellante, in un'ottica di leale collaborazione ed a pena di inammissibilità del gravame, rispetti precisi oneri nella formalizzazione delle ragioni dell'impugnazione, individuando in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum. Senza alcun intento di imporre irragionevoli adempimenti formali, il legislatore, per ottenere una esaustiva definizione del thema decidendum del giudizio di gravame, ha richiesto all'appellante sia l'espressa individuazione dei punti e dei capi della sentenza che vengono impugnati, sia la critica, attraverso la proposizione di un percorso logico alternativo a quello adottato dal giudice, dei passaggi argomentativi che li sorreggono: pertanto, a carico dell'appellante è posto il preciso onere processuale, prescritto a pena di inammissibilità, di offrire una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella assunta in primo grado (Sez. L, n. 17712/2016, Negri Della Torre, Rv. 640991; nello stesso senso, già in precedenza, Sez. L, n. 02143/2015, Ghinoy, Rv. 634309, e Sez. U, n. 10878/2015, Di Amato).

Non richiedono la proposizione di un appello incidentale della parte pienamente vittoriosa in primo grado le eccezioni pregiudiziali non esaminate o rimaste assorbite nella decisione impugnata, essendo anzi sufficiente riproporle espressamente nel giudizio di impugnazione, in modo tale da manifestare la volontà di chiederne il riesame e di evitare così la presunzione di rinuncia (ex art. 346 c.p.c.) derivante da un comportamento omissivo dell'appellato (Sez. L, n. 24124/2016, Spena, Rv. 641710).

In applicazione delle statuizioni di Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15, gli oneri di notificazione a carico dell'appellante ex art. 435, comma 2, c.p.c. sorgono dalla comunicazione al medesimo dell'avvenuto deposito del decreto di fissazione dell'udienza di discussione (Sez. L, n. 19176/2016, Di Paolantonio, Rv. 641200), in difetto della quale deve essere disposta, di ufficio o ad istanza dell'appellante medesimo, la fissazione di altra udienza di discussione in data idonea a consentire la notificazione nel rispetto dei termini (Sez. 6-L, n. 27375/2016, Fernandes, Rv. 642300).

L'art. 435, comma 3, c.p.c. prescrive un termine di venticinque giorni tra la data di notificazione all'appellato del ricorso col decreto di fissazione dell'udienza di discussione e quella dell'udienza stessa: trattandosi di un termine a difesa volto ad assicurare al convenuto un congruo periodo per l'apprestamento delle difese, esso deve intendersi "libero", escludendo dal computo sia il dies a quo (quello della notificazione) sia il dies ad quem (quello della comparizione) (Sez. 6-L, n. 16110/2016, Pagetta, Rv. 640862).

L'omissione della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di trattazione da parte della corte d'appello comporta, di regola, l'improcedibilità del gravame; se, però, l'udienza è stata rinviata d'ufficio prima della sua apertura, la menzionata sanzione non può trovare applicazione qualora l'appellante abbia proceduto, nel rispetto dei termini di legge, alla notifica con riferimento alla nuova udienza e l'appellato si sia ritualmente costituito, poiché in tal caso nessuna lesione deriva al principio di ragionevole durata del processo o al diritto di difesa della parte appellata, dimostrato dalla sua rituale costituzione (Sez. 6-L, n. 16517/2016, Arienzo, Rv. 640851; è solo apparente il contrasto con Sez. L, n. 01175/2015, Lorito, Rv. 634080, con cui si era confermata – in una fattispecie analoga ma non identica – la declaratoria di improcedibilità dell'appello sebbene la notifica fosse avvenuta per altra udienza successiva a cui la causa era stata rinviata, perché in quel caso non si poteva ravvisare un rinvio d'ufficio, che, a mente di consolidata giurisprudenza, è quello disposto prima della data fissata e prima che l'udienza stessa sia aperta, seppure senza svolgimento di una concreta attività processuale).

Anche l'appello incidentale tempestivamente proposto incorre nella sanzione di improcedibilità se non viene notificato e il giudice, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, non può assegnare all'appellante un termine per provvedere a nuova notifica, ma deve, anzi, dichiarare improcedibile il gravame pronunciandosi ex officio, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti (Sez. L, n. 00837/2016, Cavallaro, Rv. 638397).

Con una rigorosa statuizione, Sez. L, n. 12825/2016, Di Paolantonio, Rv. 640368, ha stabilito che nel rito del lavoro, non è utilizzabile in appello il fascicolo di parte ritirato nel corso del giudizio di primo grado e non depositato prima della decisione, poiché solo con il rispetto delle forme imposte dall'art. 74 disp. att. c.p.c., vi è la prova dell'effettività e della tempestività della produzione documentale nel precedente grado di giudizio (dalla motivazione si evince che la decisione non è in netto contrasto con Sez. 6-3, n. 26030/2014, De Stefano, Rv. 633803, secondo cui, in caso di mancata restituzione del fascicolo di parte, ritualmente ritirato, entro il termine previsto dall'art. 190 c.p.c., il giudice di primo grado deve decidere la causa prescindendo dai documenti in esso contenuti, ma la parte ha la facoltà di produrre nuovamente in grado di appello i documenti non esaminati nella decisione appellata, i quali, se ed in quanto ritualmente prodotti in primo grado, non sono qualificabili come "nuovi"; difatti, la Sezione Lavoro sottolinea che nella fattispecie esaminata il difetto era da attribuire all'operato dell'appellante che aveva inserito gli atti asseritamente prodotti in primo grado nel fascicolo di parte di appello, anziché produrre il fascicolo del precedente grado di giudizio, e così facendo aveva eluso le norme codicistiche volte a dimostrare l'effettività e la tempestività della produzione).

4.2. Ricorso per cassazione.

Innanzitutto, sotto il profilo formale, ex art. 369 c.p.c. il ricorso per cassazione deve essere depositato in originale entro venti giorni dalla sua notificazione a pena di improcebilità (rilevabile d'ufficio e non sanata dalla notificazione dell'avversario controricorso privo di eccezione sul punto), restando irrilevante il deposito a mezzo posta di una "velina", per giunta priva di ogni riferimento anche solo all'avvio del procedimento notificatorio del ricorso (Sez. 6-L, n. 24178/2016, Marotta, Rv. 642275).

Con riguardo al ricorso per cassazione e alle caratteristiche del giudizio di legittimità, Sez. L, n. 11738/2016, Boghetich, Rv. 640032, ribadisce che – anche nel caso di denuncia di errores in procedendo, che legittimano il diretto esame degli atti del giudizio di merito da parte della Corte di legittimità – costituisce valutazione preliminare quella relativa all'ammissibilità dei motivi, i quali devono rispettare i principî di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione (ciò impone che siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell'atto d'appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate).

Il vizio di violazione di legge, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, nel provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; se, invece, è oggetto di critica la ricognizione della fattispecie concreta effettuata tramite le risultanze istruttorie, la S.C. non è chiamata ad un'interpretazione nomofilattica della norma, bensì a un sindacato sulle valutazioni operate dal giudice di merito, la cui censura è possibile solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. L, n. 00195/2016, Berrino, Rv. 638425, in tema di penosità delle prestazioni di lavoro svolte nei turni di pronta disponibilità).

Analogamente, Sez. L, n. 18715/2016, Amendola F., Rv. 641229, ha statuito che il ricorso per cassazione in tema di giusta causa di licenziamento (clausola generale caratterizzata da molteplici elementi fattuali) può denunciare una violazione di legge ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c, quando la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non integrano la nozione legale di "giusta causa"; al contrario, l'omesso esame di un parametro decisivo (tale, cioè, da poter condurre ad un diverso esito della lite) tra quelli individuati dalla giurisprudenza va denunciato come vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

Il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello attiene al rito e la natura processuale del denunciato error in procedendo attribuisce alla Suprema Corte la funzione di giudice anche del fatto e il potere di stabilire essa stessa se si trattasse di prova indispensabile (Sez. 1, n. 01277/2016, Nappi, Rv. 638499).

La natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata e con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi, limita il potere del giudice di individuare la regula iuris applicabile alla fattispecie in assenza di motivo di impugnazione sul punto (Sez. L, n. 11868/2016, Di Paolantonio, Rv. 640002, ha escluso che un lavoratore, pubblico impiegato, potesse avvantaggiarsi, nel giudizio di rinvio, della ritenuta applicabilità di un regime sanzionatorio diverso in tema di licenziamento, invocando la tutela reintegratoria ex art. 18 st.lav., vecchia formulazione, in luogo di quella indennitaria ai sensi della inapplicabile l. n. 92 del 2012).

Quanto all'oggetto del ricorso per cassazione, l'art. 63, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 – che consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro relativi al pubblico impiego privatizzato – è norma di stretta interpretazione, che non può trovare applicazione per i contratti collettivi di ambito territoriale, regionali (Sez. L, n. 07671/2016, Negri Della Torre, Rv. 639470) o provinciali (Sez. L, n. 17716/2016, Napoletano, Rv. 641014).

4.3. Revocazione.

Il rito speciale del lavoro trova applicazione anche nell'impugnazione per revocazione, sicché è tempestiva la domanda di revocazione se il relativo ricorso è stato depositato nella cancelleria del giudice adito nel termine di cui all'art. 327 c.p.c., restando irrilevante il fatto che la notificazione dello stesso, con l'unito decreto di fissazione dell'udienza, sia avvenuta successivamente (Sez. L, n. 13063/2016, Negri Della Torre, Rv. 640414).

L'errore revocatorio deve essere fatto valere entro il termine e con le forme prescritti dall'art. 395 c.p.c.: la proposizione di un mezzo di impugnazione inammissibile (nel caso, ricorso per cassazione in luogo di ricorso per revocazione) non può essere ovviata mediante l'applicazione dell'art. 50 c.p.c., sia perché tale norma presuppone una pronuncia di incompetenza con cui il giudice adito, spogliandosi della causa, indichi altro giudice dinanzi al quale la lite può essere proseguita, sia perché il ricorso per cassazione dichiarato inammissibile non può mantenere effetti sostanziali e processuali tali da consentire la proposizione della nuova e diversa impugnazione attraverso la fictio iuris di un atto di riassunzione (Sez. L, n. 25267/2016, Doronzo, Rv. 642229).

L'errore di fatto risultante dagli atti di causa ex art. 395, n. 4, c.p.c. può consistere nella supposizione dell'esistenza di solo alcuni motivi di ricorso per cassazione quando invece risulta incontrastabilmente la presenza anche di ulteriori motivi, sui quali la sentenza sia stata silente proprio per aver erroneamente supposto un dato processuale contrario al ricorso (Sez. L, n. 25560/2016, Amendola F., Rv. 642243).

5. L'impugnazione dei licenziamenti.

L'esigenza di definire entro tempi certi (e rapidi) le controversie in tema di licenziamento ha indotto il legislatore a modificare (con l'art. 32, comma 1, legge 4 novembre 2010, n. 183, "Collegato Lavoro") l'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sia prescrivendo un termine decadenziale di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento per manifestare la volontà del lavoratore di impugnare il provvedimento espulsivo, sia imponendo l'avvio del relativo giudizio entro il termine di 270 giorni (poi, ridotto a 180 giorni ex art. 1, comma 38, della l. n. 92 del 2012) dall' "impugnazione" extragiudiziale a pena di inefficacia di quest'ultima.

L'art. 32, comma 1-bis, della menzionata legge n. 183 del 2010 (introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito nella legge 26 febbraio 2011, n. 10) prevede, «in sede di prima applicazione», il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore delle disposizioni «relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento».

Nel solco di pregresse pronunce sulla medesima questione (Sez. 6-L, n. 25103/2015, Mancino, Rv. 637925; Sez. 6-L, n. 13563/2015, Arienzo, e Sez. 6-L, n. 02494/2015, Garri) Sez. U, n. 04913/2016, Amoroso, Rv. 639067, ha statuito che il differimento dell'entrata in vigore della disposizione riguarda tutti i contratti di lavoro elencati dall'art. 6, comma 3, della l. n. 604 del 1966 – ivi comprese le cause riguardanti la validità di contratti a termine in corso ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell'intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del cd. Collegato lavoro) e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di 60 giorni per l'entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale) – e a questi si applica mediante l'istituto della rimessione in termini; difatti, la ratio legis del differimento, secondo interpretazione costituzionalmente orientata, mira ad attenuare le conseguenze dell'introduzione del nuovo regime di decadenze.

La novella introdotta dall'art. 32, comma 1-bis, della l. n. 183 del 2010 ha disegnato una disciplina unitaria dei suddetti termini – 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento con qualunque atto scritto e 270 giorni (poi 180 giorni) per il successivo deposito del ricorso – e, quindi, la relativa decorrenza è differita al 31 dicembre 2011, quando il ricorso giudiziale è intervenuto in epoca anteriore a tale data (Sez. L, n. 23865/2016, Lorito, Rv. 641706; con analoghi principî si è espressa Sez. L, n. 24258/2016, Balestrieri, Rv. 641712).

L'impugnazione stragiudiziale non perde efficacia se alla stessa fa seguito il deposito del ricorso secondo il rito di cui all'art. 1, commi 48 e ss., della l. n. 92 del 2012 – al quale non è equiparato il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c. (Sez. L, n. 14390/2016, Napoletano, Rv. 640467) – oppure la richiesta stragiudiziale di tentativo di conciliazione o arbitrato, la quale può essere inoltrata anche via fax poiché la norma non prescrive specifiche modalità di comunicazione e la ricezione del fax è del tutto equipollente alle modalità di consegna stabilite dall'art. 410, comma 5, c.p.c. (Sez. L, n. 17253/2016, Amendola F., Rv. 641017).

6. Il cd. rito Fornero.

Con specifico riferimento alla struttura del cd. rito Fornero, dettato per l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi disciplinate dall'art. 18 st.lav., già Sez. L, n. 03136/2015, Roselli, Rv. 634322, e Corte cost., 13 maggio 2015, n. 78, avevano rilevato che la prima fase – necessaria, sommaria ed informale – e la seconda successiva – eventuale e a cognizione piena – non vertono sullo stesso oggetto: mentre l'ordinanza opposta è pronunciata su un ricorso "semplificato" e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti allo stato indispensabili, l'opposizione non è limitata alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi, ma può investire anche diversi profili soggettivi (stante il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell'ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali.

Dalla riconosciuta struttura bifasica, ma unitaria, del giudizio si evince che la fase a cognizione ordinaria iniziata con l'opposizione non costituisce un'impugnazione e, cioè, un'istanza di revisione del precedente giudizio, come tale inidonea ad introdurre nuovi temi o nuovi mezzi istruttori; pertanto, l'attività istruttoria svolta in entrambe le fasi del giudizio deve essere valutata unitariamente, senza che si possano scindere per fasi gli adempimenti richiesti alle parti in tema di formazione della prova (Sez. L, n. 13788/2016, Esposito L., Rv. 640452, ha ritenuto tempestiva la produzione nella fase di opposizione dell'originale del documento prodotto in fotocopia, ancorché l'originaria produzione e la contestazione di non conformità all'originale fossero intervenute nella precedente fase).

Il rito speciale della l. n. 92 del 2012 trova applicazione anche quando l'impugnativa di licenziamento del lavoratore è proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro (di cui si chiede di accertare la effettiva titolarità del rapporto), dato che il giudice è tenuto a individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione della parte, prescindendo dalla fondatezza delle allegazioni (Sez. L, n. 17775/2016, Amendola F., Rv. 641000).

Possono essere proposte in un unico ricorso ex art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012 – in via subordinata tra loro – la domanda di tutela avverso il licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 st.lav. e quella avente ad oggetto l'impugnativa dello stesso recesso con la tutela di cui all'art. 8 della l. n. 604 del 1966: difatti, gli elementi costitutivi sono i medesimi e la dimensione dell'impresa non è un elemento costitutivo della domanda del lavoratore e, peraltro, l'interpretazione estensiva del cd. rito Fornero consente di evitare la parcellizzazione dei giudizi e di far sì che da un'unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro possa scaturire un unico processo (Sez. L, n. 12094/2016, Amendola F., Rv. 640027). La pronuncia si pone in consapevole contrasto col precedente di Sez. L, n. 16662/2015, Maisano, Rv. 636735, secondo cui la peculiarità del rito e le sue finalità "acceleratorie" riguardano anche il thema decidendum, tanto che il cumulo di domande diverse è ammesso solo se siano basate su fatti costitutivi identici a quelli fondanti la richiesta di tutela reale (mentre la domanda subordinata, volta alla tutela obbligatoria, trova presupposti nel diverso numero dei dipendenti impiegati e nella differente natura delle imprese datrici). La decisione più recente non condivide la conclusione dell'esclusività del rito di cui all'art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012 per le sole cause di impugnativa del licenziamento alle quali consegua – in prospettazione – la reintegrazione nel posto di lavoro sulla base di argomenti tratti dalla complessiva ricognizione della giurisprudenza in materia di recesso datoriale e, segnatamente, da Sez. U, n. 00141/2006, Roselli, Rv. 585625, secondo cui la tutela di cui all'art. 18 st.lav. implica che fatti costitutivi dell'azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre la dimensione dell'impresa e il giustificato motivo del recesso datoriale costituiscono fatti impeditivi del diritto dedotto in giudizio. Inoltre, la domanda di tutela reale e quella di tutela obbligatoria sono da tempo considerate – nella giurisprudenza di legittimità – in rapporto di continenza, nel senso che la prima contiene la seconda fino al punto di ritenere proponibile in appello, per la prima volta, la domanda di tutela cd. obbligatoria da parte del lavoratore rimasto soccombente, in primo grado, sulla base di domanda di reintegrazione ai sensi dell'art. 18 st.lav. (Sez. L, n. 08906/1997, Cuoco, Rv. 507809).

Sempre in via subordinata alla principale impugnativa di licenziamento discriminatorio avanzata secondo il rito Fornero, è consentito al lavoratore proporre sia le domande volte alla declinatoria di difetto di giusta causa ovvero ingiustificatezza del recesso datoriale, che sono basate sul comune presupposto della vicenda estintiva del rapporto (Sez. L, n. 17107/2016, Venuti, Rv. 640783, la quale rileva che non possono derivare aggravi istruttori dalla trattazione congiunta), sia quelle finalizzate al pagamento del t.f.r. e dell'indennità di preavviso, diritti che comunque nascono dalla cessazione del rapporto e sono fondati su fatti costitutivi già dedotti (Sez. L, n. 17091/2016, Esposito L., Rv. 640782).

L'introduzione del processo disciplinato dalla legge Fornero avviene con ricorso al giu dice del lavoro, da notificare unitamente al decreto di fissazione di udienza nel termine fissato, non inferiore a 25 giorni prima dell'udienza stessa (art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012). Il termine stabilito dal giudice per la notificazione del ricorso non può essere qualificato come perentorio, sicché la sua violazione non può condurre alla nullità dell'intero processo (Sez. L, n. 16349/2016, Balestrieri, Rv. 640852).

L'art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012 prescrive, invece, il termine decadenziale di 30 giorni per avanzare l'opposizione avverso l'ordinanza, di accoglimento o di rigetto, emessa in conclusione della fase sommaria; il dies a quo coincide con la data di comunicazione o di notificazione del provvedimento opposto, senza che rilevi la sua lettura all'esito dell'udienza, stante la specialità delle disposizioni del rito Fornero (Sez. L, n. 18403/2016, Balestrieri, Rv. 641192).

Nei procedimenti contenziosi incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, anche nella disciplina antecedente alla modifica dell'art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2, della l. n. 228 del 2012, introdotta dal d.l. n. 83 del 2015, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio – nella specie, opposizione ex art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012 – non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità (Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti A., Rv. 639888); se l'invio telematico fosse stato accettato e il file caricato nel fascicolo telematico (anziché respinto dal cancelliere), l'irregolarità posta in essere sarebbe stata sanata, con salvezza degli effetti del deposito, tra i quali quello di impedire la decadenza; conseguentemente, deve reputarsi legittimo il provvedimento del giudice di merito che rimetta l'opponente in termini per il deposito dell'atto di opposizione(Sez. L, n. 22479/2016, Ghinoy, Rv. 641629).

La mancata notifica del ricorso in opposizione ex art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012 e del decreto di fissazione dell'udienza è sanzionata con l'improcedibilità: è illegittimo il provvedimento di rimessione in termini per la notificazione ex novo dell'atto introduttivo della fase, di natura soltanto eventuale e volta a confermare o modificare una precedente decisione idonea al giudicato, poiché oblitera l'interesse della controparte ad ottenere la stabilizzazione entro tempi prefissati, certi e ragionevolmente brevi (Sez. L, n. 17325/2016, Ghinoy, Rv. 640877; la precedente Sez. L, n. 22355/2015, Maisano, Rv. 637792, aveva invece ammesso la rinnovazione della notificazione dell'opposizione, pur rilevando l'inesistenza di qualsiasi notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione nei termini prescritti dalla norma).

Il reclamo ex art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012 è, nella sostanza, un appello, sicché per tutti i profili non regolati dalle disposizioni specifiche trova applicazione la disciplina dell'appello nel rito del lavoro, incluso il disposto dell'art. 434 c.p.c. nel testo introdotto dall'art. 54, comma 1, lett. c)-bis, del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012 (Sez. L, n. 17863/2016, Torrice, Rv. 640992).

L'impugnazione della decisione conclusiva del primo grado deve essere proposta entro il breve termine ex art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012, che decorre dalla comunicazione alle parti della sentenza del tribunale (o dalla notificazione, se anteriore), anche nelle ipotesi nelle quali il giudice abbia dato lettura in udienza del dispositivo e della motivazione, come consentito dall'art. 429 c.p.c., poiché la legge Fornero ha previsto un rito speciale, la cui disciplina deve essere osservata senza possibilità di deroga (Sez. L, n. 14098/2016, Boghetich, Rv. 640473).

Secondo Sez. L, n. 16216/2016, De Gregorio, Rv. 640857, la maggiore novità introdotta in tema di impugnazione, rispetto alla disciplina di cui agli artt. 325 e segg. c.p.c., è costituita proprio dal rilievo processuale attribuito alla comunicazione del provvedimento ad opera della cancelleria del giudice che lo ha emesso (o alla notificazione, se anteriore), mentre non può trovare applicazione la disciplina generale dell'impugnazione entro il termine lungo ai sensi dell'art. 327 c.p.c.; la specialità attiene, però, soltanto al reclamo principale, mentre il destinatario dell'impugnazione può avanzare il reclamo nel termine ex art. 436 c.p.c., in quanto le esigenze acceleratorie previste dal rito Fornero riguardano l'impulso processuale e la struttura del procedimento di primo grado (Sez. L, n. 24258/2016, Balestrieri, Rv. 641711).

Tuttavia, se la controversia inerente il licenziamento è stata erroneamente trattata in primo grado con le forme del rito del lavoro anziché col rito Fornero, il mezzo d'impugnazione esperibile avverso la sentenza deve essere individuato in base alla qualificazione giuridica del rapporto controverso adottata dal giudice nel provvedimento stesso, a prescindere dalla sua esattezza e, conseguentemente, deve reputarsi tempestivo l'appello proposto nel termine di sei mesi ex art. 327 c.p.c. decorrente dalla pubblicazione della sentenza (Sez. L, n. 25553/2016, Boghetich, Rv. 642241).

Data per acquisita la natura sostanziale di appello del reclamo disciplinato dall'art. 1, commi 58-60, della legge Fornero e l'applicabilità della disciplina delle impugnazioni del rito del lavoro, la violazione del termine previsto per la notificazione del reclamo non può dar luogo a nullità se l'atto ha raggiunto lo scopo, così come, in generale, il mancato rispetto del termine ex art. 435, comma 3, c.p.c. non produce nullità se l'appellato si è costituito (in tal senso, Sez. L, n. 25684/2015, Napoletano, Rv. 638083); pertanto, quando non sia stata effettuata la notifica dell'impugnazione nel rispetto del termine ex art. 1, comma 60, della l. n. 92 del 2012, può essere disposta, d'ufficio o ad istanza della parte, la fissazione di altra udienza di discussione in data idonea a consentire il rispetto di detti termini (Sez. 6-L, n. 27395/2016, Marotta, Rv. 642302), potendo peraltro ritenersi validamente costituito il contraddittorio anche quando il collegio, senza un formale provvedimento di rinnovo della notificazione, si sia limitato, all'udienza di discussione originariamente fissata, a disporre il rinvio della medesima, con notificazione alla controparte non costituita (Sez. L, n. 22780/2016, Amendola F., Rv. 641602).

7. Il processo in materia di previdenza.

Le domande giudiziali volte al riconoscimento del diritto a fruire di prestazioni previdenziali o assistenziali comportano anche il previo accertamento dell'esistenza del grado di invalidità del richiedente, ma tale accertamento non può essere domandato in via autonoma, trattandosi di un elemento frazionato della complessiva fattispecie dedotta in giudizio (Sez. 6-L, n. 09013/2016, Pagetta, Rv. 639682, ha ritenuto inammissibile, per difetto di interesse ad agire, l'azione di mero accertamento del grado di invalidità, essendo stato esplicitato solo nel corso del giudizio di primo grado che la domanda era finalizzata a godere del beneficio ex art. 80 della legge n. 288 del 2000 o dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario); in fattispecie analoga, Sez. 6-L, n. 25395/2016, Mancino, Rv. 642282).

7.1. Competenza territoriale.

In tema di applicazione dei criteri di competenza per le cause previdenziali, la Suprema Corte ha specificato che la controversia inerente agli obblighi contributivi di un lavoratore autonomo rientra nella competenza del giudice del lavoro nella cui circoscrizione risiede l'attore ex art. 444, comma 1, c.p.c., atteso che l'art. 444, comma 3, c.p.c., il quale prevede la competenza territoriale del tribunale della sede dell'ufficio dell'ente creditore per le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro, è norma di eccezione rispetto al principio generale e, pertanto, non è suscettibile di applicazione esten siva o analogica (Sez. 6-L, n. 20578/2016, Garri, Rv. 641372; nello stesso senso,Sez. 6-L, n. 23690/2016, Arienzo).

All'azione di regresso esercitata dall'Inail nei confronti del datore di lavoro responsabile dell'infortunio ex art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 deve invece applicarsi la disciplina dell'art. 444, comma 3, c.p.c., e la competenza territoriale spetta, quindi, al giudice del luogo in cui si trova la sede territoriale dell'ente previdenziale che ha trattato la pratica dell'infortunio ed ha erogato la conseguente indennità al lavoratore (Sez. 6-L, n. 17387/2016, Mancino, Rv. 640879).

L'art. 618-bis, comma 2, c.p.c. attribuisce alla competenza funzionale del giudice dell'esecuzione esclusivamente la fase endoesecutiva dell'opposizione agli atti esecutivi o all'esecuzione e, «nei limiti dei provvedimenti assunti con ordinanza», l'adozione delle decisioni di natura cautelare a questa inerenti (sospensione del processo esecutivo, provvedimenti indilazionabili), mentre nella successiva (ed eventuale) fase di merito, in forza del comma 1 della citata disposizione, trovano applicazione le norme ordinarie sulle controversie di lavoro e previdenziali, ivi comprese quelle sulla competenza territoriale ex art. 444 c.p.c. (Sez. 6-L, n. 16222/2016, Marotta, Rv. 640863).

7.2. Litisconsorzio.

Si registrano decisioni di segno opposto sul litisconsorzio dell'ente impositore nelle controversie attinenti alla riscossione coattiva di contributi previdenziali

Difatti, Sez. 1, n. 09016/2016, Mercolino, Rv. 639535, ha escluso la configurabilità di un litisconsorzio necessario tra l'ente creditore e l'agente della riscossione anche quando la domanda ha ad oggetto non già la regolarità o la ritualità degli atti esecutivi, bensì l'esistenza stessa del credito; la chiamata dell'ente, prevista dall'art. 39 del d.lgs. n. 112 del 1999, deve essere pertanto ricondotta all'art. 106 c.p.c. e, come tale, è rimessa alla esclusiva valutazione discrezionale del giudice del merito.

Al contrario, secondo Sez. L, n. 12450/2016, Riverso, Rv. 640372, qualora il debitore deduca fatti o circostanze che incidono sul merito della pretesa creditoria vantata dall'agente della riscossione di contributi previdenziali oppure eccepisca in compensazione un proprio controcredito, sussiste il litisconsorzio necessario con l'ente impositore, al quale spetta la titolarità del credito e la correlata legittimazione a stare in giudizio, dato che l'agente ha invece una legittimazione meramente processuale.

Anche Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638246, configura un litisconsorzio necessario, ma con riferimento all'agente della riscossione rispetto alle opposizioni ex art. 615 c.p.c. a cartelle di pagamento relative a contributi previdenziali; difatti, il dedotto vizio di notifica degli atti determinante la prescrizione del credito per mancata tempestiva notificazione dell'atto interruttivo (perciò, non soltanto vizio di opposizione agli atti esecutivi, ma pure di opposizione all'esecuzione) potrebbe, in caso di accoglimento dell'opposizione, incidere sul rapporto con l'ente impositore (la pronuncia riconosce, quindi, la legittimazione dell'agente della riscossione ad appellare la sentenza che, per le suesposte ragioni, abbia escluso il diritto di agire in executivis).

7.3. Mezzi di prova.

Nelle controversie assistenziali l'autocertificazione del requisito reddituale (cioè, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà riferita al medesimo requisito) non ha alcun valore probatorio, neanche indiziario, atteso che la parte non può far derivare elementi di prova favorevoli, ai fini del soddisfacimento dell'onere della prova, da proprie dichiarazioni; tuttavia il documento in atti può essere reputato idoneo, con valutazione insindacabile ove congruamente motivata, a sollecitare il potere istruttorio ufficioso del giudice di merito, trattandosi di principio di prova suscettibile di essere integrato da ulteriori acquisizioni processuali ex artt. 421 e 437 c.p.c. (Sez. L, n. 22484/2016, Doronzo, Rv. 641617; più rigorosamente Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096, aveva affermato che l'autocertificazione non può rilevare ai fini dell'attivazione dei poteri officiosi ex art. 437, comma 2, c.p.c.).

Nel giudizio tra datore di lavoro ed ente previdenziale avente ad oggetto il mancato pagamento di contributi, non può rendere testimonianza sulla contestata sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato il lavoratore i cui contributi siano stati omessi, perché è incapace di deporre avendo un interesse "in causa"; resta ferma la possibilità di un suo interrogatorio libero sui fatti di causa da parte del giudice, nell'esercizio dei poteri ex art. 421 c.p.c. (Sez. L, n. 01256/2016, Ghinoy, Rv. 638313).

7.4. Regime delle spese.

L'esonero dalle spese giudiziali della parte soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali, previsto dall'art. 152 disp. att. c.p.c., è subordinato alla titolarità di redditi esigui riferibili all'anno precedente a quello di instaurazione del giudizio (Sez. 6-L, n. 16131/2016, Pagetta, Rv. 640864, ha confermato la sentenza di condanna alle spese di lite in favore dell'ente previdenziale, in quanto l'assicurato aveva allegato, ad un ricorso in primo grado del 2010, dichiarazione sostitutiva di certificazione riferita al reddito imponibile IRPEF dell'anno 2008, anziché del 2009) e alla formulazione di apposita e tempestiva dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell'atto introduttivo. Quest'ultima non richiede l'adozione di una rigida formula, tanto che non occorre nemmeno una specifica indicazione dell'entità del reddito del nucleo familiare (Sez. 6-L, n. 24303/2016, Pagetta, Rv. 642277), pur essendo prescritta la sottoscrizione della parte personalmente (Sez. 6-L, n. 22952/2016, Garri,Rv. 641507, ha ritenuto inefficace la sottoscrizione del solo difensore); al contrario, mentre l'impegno a comunicare eventuali rilevanti variazioni dei limiti di reddito fino alla definizione del processo non deve essere contenuto nella predetta dichiarazione iniziale, né costituisce condizione per l'esenzione (Sez. 6-L, n. 16132/2016, Pagetta, Rv. 640728).

Sussistendone i presupposti, l'art. 152 disp. att. c.p.c. esenta la parte dal carico delle spese di lite e di consulenza anche nelle controversie in materia di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali (Sez. 6-L, n. 16131/2016, Pagetta, Rv. 640864) e nell'accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. (Sez. 6-L, n. 16515/2016, Arienzo, Rv. 640850).

7.5. Accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c.

L'accertamento del diritto all'assegno di invalidità compiuto con sentenza passata in giudicato non può essere soggetto ad una nuova valutazione medico-legale sulle circostanze di fatto già considerate e divenute inoppugnabili verità processuali; tuttavia, in sede di successivo ricorso ex art. 445-bis, comma 6, c.p.c. per ottenere il ripristino dell'assegno d'invalidità, il principio del giudicato non impedisce di considerare i mutamenti intervenuti, potenzialmente idonei a determinare la perdita del requisito sanitario da parte del ricorrente e, conseguentemente, a condurre a una decisione difforme dalla prima sentenza (Sez. 6-L, n. 14140/2016, Arienzo, Rv. 640461).

Col decreto di omologa dell'accertamento del requisito sanitario secondo le risultan ze della relazione del consulente tecnico il giudice deve emettere pronuncia sulle spese (art. 445-bis, comma 5, c.p.c.), ma tale statuizione, in ossequio al principio generale sulla soccombenza ex art. 91 c.p.c., non può contenere la condanna della parte totalmente vittoriosa al pagamento delle spese in favore della controparte (Sez. 6-L, n. 12028/2016, Marotta, Rv. 640029, ha annullato il decreto che, pur accertando l'insussistenza del requisito sanitario per l'indennità di accompagnamento, aveva posto a carico dell'INPS le spese processuali e di c.t.u.).

In ogni caso, le spese non possono gravare sul ricorrente che si trovi nelle condizioni reddituali di cui all'art. 152 disp. att. c.p.c., salvo che la sua pretesa sia manifestamente infondata e temeraria (Sez. 6-L, n. 16515/2016, Arienzo, Rv. 640850).

Alla statuizione sulle spese nella parte motiva del decreto di omologa ex art. 445-bis c.p.c. deve corrispondere la loro liquidazione nel dispositivo, la cui omissione non può essere emendata con la procedura di correzione dell'errore materiale, attesa la necessità, ai fini della di una concreta determinazione e quantificazione degli importi, di una pronuncia del giudice (Sez. 6-L, n. 22344/2016, Marotta, Rv. 641595. Quest'ultima, poi, deve considerare sia il valore della controversia (applicando il criterio previsto dall'art. 13, comma 1, c.p.c. in riferimento all'ammontare delle prestazioni assistenziali effettivamente riconosciute e al periodo oggetto della statuizione), sia il disposto dell'art. 152 disp. att. c.p.c. (modificato dall'art. 52, comma 6, della l. n. 69 del 2009 e applicabile ai giudizi instaurati successivamente al 4 luglio 2009) a norma del quale «le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono superare il valore della prestazione dedotta in giudizio» (Sez. 6-L, n. 24319/2016, Marotta, Rv. 642278).

  • espropriazione

CAPITOLO XXXIX

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Titolo esecutivo. - 2 Intervento dei creditori nella espropriazione forzata. - 3 Espropriazione presso terzi. - 4 Espropriazione immobiliare. - 4.1 La vendita forzata. - 5 Opposizioni esecutive.

1. Titolo esecutivo.

Nella evoluzione della giurisprudenza di nomofilachia, il principio nulla executio sine titulo è stato interpretato in una accezione dinamica, come immanenza del titolo esecutivo rispetto alla procedura, necessaria esistenza di un titolo, valido ed efficace, dalla notifica del prodromico atto di precetto sino al compimento dell'atto terminale del procedimento esecutivo.

La sopravvenuta caducazione del titolo – quale effetto dello sviluppo del giudizio di cognizione in cui si è formato o dei gradi di impugnazione – travolge gli atti esecutivi compiuti in forza dello stesso, privati ex tunc di ogni efficacia, e determina l'obbligo di ripristinare le situazioni giuridiche quo ante, fatti salvi i diritti acquistati dai terzi aggiudicatari o assegnatari in ossequio al disposto dell'art. 2929 c.c..

Muovendo da queste premesse, Sez. 6-3, n. 02135/2016, Barreca, Rv. 638921, ha precisato che in caso di riforma in appello di sentenza già posta in esecuzione forzata, il debitore esecutato ha diritto alla restituzione non solo del capitale pagato sulla base del titolo successivamente riformato, ma anche delle somme corrisposte per le spese del giudizio di esecuzione al creditore esecutante, e ciò a prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede di quest'ultimo.

Presupposto del processo di esecuzione è, dunque, l'esistenza di un titolo esecutivo che incorpori un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in rilievo profili cognitori di accertamento dell'obbligazione: ciò esclude in radice la prospettabilità di questioni di giurisdizione, non potendosi individuare altro giudice competente sulla materia (principio affermato da Sez. U, n. 00065/2016, Matera, Rv. 637944, in relazione ad una opposizione ad esecuzione per rilascio di fondo rustico nella quale era stato eccepito il difetto di giurisdizione dell'A.G.O. connesso alla legittimazione e affrancazione del terreno gravato da usi civici).

Circa le caratteristiche del diritto di credito incorporato nel titolo individuate dall'art. 474 c.p.c., la liquidità, intesa come determinatezza o determinabilità della prestazione da attuare coattivamente, è stata oggetto di decisioni relative ad alcune fattispecie peculiari ma di rilevante portata operativa.

In tema di provvidenze previdenziali, Sez. L, n. 14374/2016, Berrino, Rv. 640565, ha negato valenza di titolo esecutivo alla sentenza con la quale il giudice dichiari il diritto del ricorrente ad ottenere la pensione d'invalidità e condanni l'ente previdenziale al pagamento dei relativi ratei e delle differenze dovute a titolo di integrazione al minimo del trattamento pensionistico, senza precisare in termini monetari l'ammontare di tali differenze, in quanto la misura della prestazione spettante all'interessato non è in tal caso suscettibile di quantificazione mediante semplici operazioni aritmetiche eseguibili sulla base di elementi di fatto contenuti nella medesima sentenza o mediante il mero richiamo ai criteri di legge.

Riguardo al giudizio di separazione personale dei coniugi, Sez. 6-1, n. 04182/2016, Bi sogni, Rv. 638878, ha ascritto natura di titolo esecutivo al provvedimento di condanna del genitore non affidatario al pagamento – anche pro quota – delle spese mediche e scolastiche relative ai figli, purché il genitore creditore possa allegare e documentare l'effettiva sopravvenienza degli esborsi e la relativa entità, e salvo il diritto del coniuge obbligato di contestare l'esistenza del credito per la non riconducibilità degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle modalità di individuazione dei bisogni del minore.

2. Intervento dei creditori nella espropriazione forzata.

Sulle modalità con cui i creditori possono spiegare intervento nell'espropriazione forzata, Sez. L, n. 03966/2016, De Marinis, Rv. 638847, ha chiarito che l'intervento, benché possa essere effettuato nel corso dell'udienza per l'assegnazione delle somme pignorate, richiede comunque l'indicazione degli elementi elencati nell'art. 499, comma 2, c.p.c., ovvero il nominativo del creditore, l'entità del credito, il relativo titolo, la domanda di partecipazione alla distribuzione della somma ricavata e la dichiarazione di residenza (o l'elezione di domicilio) nel Comune in cui ha sede il giudice competente per l'esecuzione; l'esplicita menzione, nella citata norma, del paradigma formale dell'atto di intervento e dei requisiti contenutistici dello stesso impone pertanto, ad avviso di Sez. 3, n. 07780/2016, Barreca, Rv. 639498, il deposito di un ricorso e l'assistenza di un difensore munito di procura alle liti ed esclude, per incompatibilità, che possa produrre effetti omologhi una dichiarazione orale con cui un creditore manifesti l'intenzione di intervenire nel processo esecutivo, pur se inserita nel processo verbale di un'udienza tenuta dal giudice dell'esecuzione.

L'onere della forma scritta per l'intervento, secondo la pronuncia testé citata, non è invece necessario per il cessionario del credito che subentri in un processo esecutivo nel quale il cedente abbia già assunto la qualità di pignorante o di creditore intervenuto, dacché, in tale evenienza, non si determina alcun ampliamento dell'oggetto dell'esecuzione: in caso di cessione del credito in pendenza di processo esecutivo, il cessionario che eserciti la facoltà di intervenire non è tenuto al deposito di un nuovo ricorso, essendo sufficiente che egli manifesti la sua volontà di subentrare in luogo del cedente, dando prova del negozio di cessione ed avvalendosi dell'assistenza di un difensore, con modalità idonee a non ledere i diritti del debitore o degli altri creditori.

Rilievo centrale nel panorama giurisprudenziale dell'anno in rassegna riveste Sez. 3, n. 00774/2016, De Stefano, Rv. 638650, avente ad oggetto la tematica, inedita nelle decisioni della S.C., dell'intervento tardivo di creditore non munito di titolo esecutivo ma avente diritto di prelazione sui beni staggiti.

All'esito di una accurata analisi dei principi regolanti le modalità, anche temporali, del concorso dei creditori non assistiti da titolo nell'espropriazione forzata, in una vicenda originata da un pignoramento presso terzi di fondi comuni di investimento, la citata decisione ha escluso l'inammissibilità dell'intervento del creditore privilegiato non titolato, effettuato oltre il termine fissato dall'art. 499, comma 2, c.p.c. (e quindi dopo che sia stata tenuta l'udienza di autorizzazione alla vendita), attesa la prevalenza della disciplina prevista, per l'espropriazione presso terzi, dall'art. 551 c.p.c. (ovvero, per le espropriazioni mobiliari presso il debitore e per le espropriazioni immobiliari, dagli artt. 528 e 566 c.p.c.); la tardività di un intervento siffatto, piuttosto, precludendo l'attivazione del subprocedimento di verifica del credito previsto dall'art. 499 c.p.c., comporta che il credito dell'interventore è da considerarsi ipso iure disconosciuto, sicché detto creditore, per assicurarsi almeno il diritto all'accantonamento in sede di distribuzione, è tenuto a presentare specifica istanza e a dimostrare di aver agito, entro trenta giorni dalla data dell'intervento tardivo, nei confronti dell'esecutato per conseguire il titolo esecutivo mancante.

3. Espropriazione presso terzi.

Nell'ambito della produzione giurisprudenziale sull'espropriazione presso terzi, spiccano, per valenza sistematica ed incidenza pratico-operativa, le pronunce con le quali la S.C. ha avuto modo di ricostruire l'efficacia e il regime dell'ordinanza di assegnazione dei crediti.

Ribadita la natura di atto conclusivo del procedimento espropriativo presso terzi, determinante il trasferimento (sub specie di cessione coattiva) del credito pignorato dal debitore esecutato al creditore procedente, Sez. 6-1, n. 11660/2016, Genovese, Rv. 640208, ha chiarito che l'ordinanza di assegnazione, operando per legge "salvo esazione", non determina l'immediata estinzione del credito dell'assegnatario, prodotta invece dalla effettiva riscossione del credito assegnato, la quale, tuttavia, non costituisce una ulteriore appendice della procedura.

Da analoghi presupposti, Sez. 6-1, n. 01227/2016, Bisogni, Rv. 638560, in caso di fallimento del debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, ha ritenuto l'inefficacia ex art. 44 l.fall., del pagamento eseguito dal terzo pignorato dopo la dichiarazione di fallimento seppur in ottemperanza ad un'ordinanza di assegnazione anteriormente emessa, risultando violato il principio della par condicio creditorum da qualsiasi atto estintivo di un debito riferibile, anche indirettamente, al debitore fallito ed effettuato con suo denaro o per suo incarico o in suo luogo; in tale ipotesi, ha precisato poi Sez. 1, n. 14779/2016, Cristiano, Rv. 640744, l'azione del curatore tesa a far valere detta inefficacia va esperita nei soli confronti dell'accipiens, ossia di colui che ha effettivamente beneficiato dell'atto solutorio.

Pacificamente affermata l'idoneità in executivis dell'ordinanza di assegnazione nei (soli) confronti del terzo pignorato per la coattiva riscossione del credito assegnato, Sez. 3, n. 09390/2016, Barreca, Rv. 639898, con indicazione di notevole rilevanza pratica, ha ascritto tuttavia efficacia di titolo esecutivo a tale ordinanza soltanto dal momento in cui essa sia portata a conoscenza del terzo, argomentando, dal punto di vista processuale, dal fatto che si tratta di un provvedimento formato (se pronunciato a seguito di dichiarazione positiva del terzo oppure di dichiarazione mancata o rifiutata) in un procedimento del quale il terzo non è parte e, dal punto di vista sostanziale, dalla necessità di rendere edotto il terzo della modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio derivante dalla cessione coattiva del credito implicata dall'assegnazione. Da ciò la impossibilità per il creditore assegnatario del credito, inapplicabile essendo il disposto dell'art. 479 c.p.c., di intimare il precetto contestualmente alla notifica dell'ordinanza di assegnazione in forma esecutiva al terzo, senza cioè che quest'ultima sia stata previamente portata a conoscenza del terzo stesso con la concessione di un termine adeguato (di almeno dieci giorni) per adempiervi: un comportamento del genere da parte del creditore configura abuso dello strumento esecutivo nei confronti del terzo non ancora inadempiente, con derivante non ripetibilità delle spese sostenute per il precetto, che restano a carico del creditore.

Rimedio impugnatorio avverso l'ordinanza di assegnazione è rappresentato dall'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. – da proporre entro il termine, perentorio e a pena di decadenza, di venti giorni decorrente dalla conoscenza della stessa – avente, quale possibile thema decidendum, la deduzione di vizi propri del provvedimento ed altresì, a parere di Sez. 3, n. 03712/2016, De Stefano, Rv. 638884, la contestazione del credito asse gnato per fatti anteriori alla pronuncia dell'ordinanza fondata sull'erronea qualificazione come positiva della dichiarazione del terzo.

Oltre che in conseguenza dell'esperimento dell'opposizione agli atti, la stabilità dell'ordinanza di assegnazione può essere minata dall'accertamento (successivo rispetto alla pronuncia della stessa) dell'inefficacia del titolo esecutivo al momento del pignoramento da cui è scaturita la procedura espropriativa: alla stregua di Sez. 3, n. 06535/2016, Frasca, Rv. 639322, la caducazione dell'assegnazione si verifica però solo se assegnatario sia il creditore procedente, in quanto, in tal caso, l'assegnatario non è terzo estraneo rispetto all'illegittimo svolgimento dell'azione esecutiva ma è responsabile della non azionabilità del titolo.

Da ultimo, in tema di espropriazione presso terzi, degne di nota sono alcune decisioni in tema di giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo che, seppur riferite alla disciplina dell'istituto anteriore alle travagliate evoluzioni legislative degli ultimi anni (specificamente, alle novelle introdotte dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, e dal D.L. 27 giugno 2015, convertito dalla legge 6 agosto 2015, n. 132), segnano una utile traccia da seguire anche nel mutato assetto normativo.

Si fa riferimento, in specie, a Sez. 3, n. 21242/2016, Barreca, Rv. 642947: l'accertamento dell'obbligo del terzo, pur svolgendosi (secondo le regole ratione temporis applicabili) come un ordinario giudizio di cognizione, non necessita, per la sua introduzione, di un atto di citazione da parte del creditore, essendo invece sufficiente che questi formuli un'istanza, anche oralmente, all'udienza celebrata innanzi al giudice dell'esecuzione per la dichiarazione del terzo (istanza validamente proposta nei confronti delle parti presenti e da portare a conoscenza alle parti assenti mediante notifica del processo verbale); domanda giudiziale, precisa Sez. 3, n. 21799/2016, Rubino, Rv. 642961, che non richiede il conferimento di una autonoma e distinta procura al difensore del creditore, per essere il relativo potere ricompreso nella procura rilasciata per l'esperimento del processo esecutivo. Ambedue i principi appaiono pianamente applicabili (così orientando la soluzione di dubbi ermeneutici già affiorati) nel novellato contesto normativo, nel quale l'accertamento dell'obbligo del terzo è delineato come un sub-procedimento incidentale al procedimento esecutivo, devoluto sempre alla delibazione del giudice dell'esecuzione e da svolgersi secondo le forme semplificate dei procedimenti camerali.

4. Espropriazione immobiliare.

Il pignoramento avente ad oggetto un diritto reale su un bene immobile si definisce come una fattispecie complessa a formazione progressiva che contempla, quali elementi strutturali, le attività, differenti per funzioni ma tra di loro complementari, della notificazione dell'atto al debitore esecutato e della sua trascrizione nei registri immobiliari, quest'ultima condizione di efficacia nei confronti dei terzi (preordinata alla opponibilità ad essi della vendita o dell'assegnazione) ma anche presupposto imprescindibile per la messa in vendita del bene.

All'efficacia della trascrizione del pignoramento, l'art. 2668-ter c.c. fissa un termine di durata ventennale a partire dalla data della stessa, salva rinnovazione intervenuta in tale lasso temporale.

Delle conseguenze del mancato rinnovo della trascrizione del pignoramento nel termine ventennale (questione assai dibattuta ma inedita nella giurisprudenza di nomofilachia) si è occupata, con diffusa motivazione, Sez. 3, n. 04751/2016, Frasca, Rv. 639344.

Affermata la centralità della trascrizione del pignoramento, quale modalità coessenziale a realizzare lo scopo funzionale della espropriazione immobiliare (porre il ceto creditorio al riparo da atti di disposizioni compiuti dal debitore, garantire un acquisto da parte dell'aggiudicatario conforme alle leggi di circolazione dei diritti reali immobiliari), la S.C. ha ritenuto il mancato compimento della doverosa rinnovazione della trascrizione alla stregua di attività non soltanto condizionante l'ulteriore corso della procedura (cioè a dire cagionante la improseguibilità dell'esecuzione) ma altresì determinante la caducazione, con effetto ex tunc, dell'originario pignoramento e delle attività processuali in forza di esso espletate, reputando priva di basi giustificative e praeter legem una rinnovazione della trascrizione eseguita, su autorizzazione del giudice o di iniziativa del soggetto interessato, oltre la scadenza del termine ventennale, che ancori la ripresa del processo esecutivo all'originario pignoramento, ma con un vincolo divenuto sensibile agli atti di disposizione medio tempore posti in essere dal debitore.

Per una completa ricostruzione dell'istituto e con finalità nomofilattiche, la pronuncia ha inoltre specificato che: la legittimazione alla rinnovazione della trascrizione del pignoramento, in quanto attività necessaria per preservare la conservazione del processo esecutivo, compete al creditore procedente, ai creditori intervenuti titolati nonché (nel lasso di tempo corrente tra aggiudicazione e trascrizione del decreto di trasferimento) all'aggiudicatario; l'omessa rinnovazione della trascrizione, quale ragione impediente l'ulteriore svolgimento dell'espropriazione, è suscettibile di rilievo ex officio, ma, in quanto non ricondotta dal legislatore tra le cause di estinzione cd. tipica, va dichiarata con provvedimento sottoposto (anche in caso di diniego) all'ordinario rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi.

È evenienza normale nelle espropriazioni immobiliari la sostituzione nelle funzioni di custodia del bene del debitore (che dette mansioni assume ex lege dal momento della notifica dell'atto di pignoramento), con un ausiliario del G.E., il custode giudiziario, cui l'art. 560 c.p.c. affida il compito della gestione ed amministrazione dell'immobile, senza tuttavia curarsi di disciplinare l'onere della provvista degli esborsi per tali attività.

Sulla controversa questione, di assai rilevante impatto pratico negli uffici giudiziari, è intervenuta, per la prima volta nella giurisprudenza di legittimità, Sez. 3, n. 12877/2016, Ambrosio, Rv. 640292, la quale, in una lettura dell'art. 8 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 riferita ai procedimenti di espropriazione forzata, ha compreso nella nozione di spese per "gli atti necessari al processo" gravanti, con onere di anticipazione, sul creditore istante per l'esecuzione (e poi rimborsabili a titolo di spese privilegiate ex art. 2770 c.c. in sede di distribuzione), oltre agli esborsi per atti giudiziari veri e propri, pure le spese per il compimento di attività materiali, anch'esse immanenti alla realizzazione dello scopo proprio dell'espropriazione forzata, dacché finalizzate ad evitarne la chiusura anticipata; la pronuncia si è inoltre peritata di specificare che le spese necessarie alla conservazione dell'immobile staggito sono quelle indissolubilmente finalizzate al mantenimento del bene in fisica e giuridica esistenza (come quelle attinenti alla sua struttura o intese ad evitarne il crollo o il perimento), restando invece esclusi da tale accezione gli esborsi per interventi che non abbiano un'immediata funzione conservativa dell'integrità del cespite, quali le spese dirette alla manutenzione ordinaria o straordinaria ovvero gli oneri di gestione condominiale.

4.1. La vendita forzata.

Momento centrale della espropriazione forzata immobiliare è rappresentato dalla fase liquidativa, ovvero dalla trasformazione del bene staggito in denaro liquido da distribuire tra i creditori.

Sulle modalità di svolgimento delle relative operazioni, e, segnatamente, sulla legitti mazione a partecipare agli esperimenti di vendita si segnala, anche per la rarità di precedenti sul tema, Sez. 3, n. 08951/2016, Ambrosio, Rv. 639721, la quale, nell'interpretare il disposto dell'art. 571 c.p.c., ha ritenuto abilitato a presentare offerte di acquisto per persona da nominare nella vendita senza incanto il "procuratore legale" dell'offerente, locuzione da intendersi orami sostituita con quella di "avvocato" (e non invece riferibile al procuratore non falsus), escludendo irragionevoli disparità di trattamento con la differente disciplina della vendita con incanto, nella quale l'offerta può essere compiuta anche a mezzo di mandatario, munito di procura speciale.

Circa la efficacia e la disciplina della vendita forzata, sulla scia della esaustiva ricostruzione operata in precedenti arresti, Sez. 6-1, n. 14165/2016, Scaldaferri, Rv. 640489, premessa la peculiare caratteristica della vendita in sede di espropriazione forzata quale atto che, ad un tempo, realizza l'interesse pubblico (partecipando alla natura pubblicistica del procedimento) e l'interesse privato (dei creditori concorrenti e dell'aggiudicatario), ha considerato giustificata e frutto di una legittima scelta del legislatore (come tale non in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione) l'esclusione per detta vendita della garanzia per i vizi della cosa, relativa, a mente dell'art. 2922 c.c., alle fattispecie prefigurate dagli artt. da 1490 a 1497 c.c. (vizi e mancanza di qualità della cosa), ma non all'ipotesi di consegna di aliud pro alio, configurabile quando il bene aggiudicato appartenga ad un genere affatto diverso da quello indicato nell'ordinanza di vendita, ovvero manchi delle particolari qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale, oppure quando sia del tutto compromessa la destinazione all'uso, presa in considerazione nell'ordinanza di vendita, che abbia costituito elemento determinante per l'offerta di acquisto.

In applicazione di una nozione così circoscritta di aliud pro alio (inevitabile portato della differenza strutturale tra vendita forzata e vendita negoziale), Sez. 3, n. 01669/2016, Ambrosio, Rv. 638696, ha denegato tutela all'aggiudicatario invocante la nullità del decreto di trasferimento avente ad oggetto di una unità abitativa la cui inagibilità, dichiarata dal Comune per la presenza di elementi inquinanti, emersa solo a seguito di una integrazione della perizia di stima depositata dopo il versamento del saldo prezzo, era solo temporanea per la piena recuperabilità della salubrità dell'immobile.

In caso di aggiudicazione definitiva del diritto staggito, l'effetto traslativo sostanziale si produce con l'emissione del decreto di trasferimento, atto conclusivo del sub-procedimento di vendita forzata (sul quale, pertanto, si riverberano eventuali nullità degli atti anteriori, opponibili all'aggiudicatario nei limiti fissati dall'art. 2929 c.c.) e, ad un tempo, titolo esecutivo per il rilascio dell'immobile. Da ciò, in base alla distinzione acutamente operata da Sez. 3, n. 12523/2016, Ambrosio, Rv. 640274, una duplicità di rimedi esperibili avverso siffatto decreto: nell'ambito della espropriazione immobiliare, l'opposizione agli atti esecutivi per censure riguardanti il modo con cui si sia svolta l'espropriazione stessa, e cioè eventuali vizi della fase liquidativa (o degli atti prodromici) tali da far venir meno l'idoneità del decreto a determinare il trasferimento all'aggiudicatario; nell'ambito della diversa esecuzione per rilascio minacciata o intrapresa in virtù di esso, le opposizioni (ex artt. 615 o 617 c.p.c.) per far valere irregolarità formali proprie del decreto come titolo esecutivo (ad esempio, il difetto di spedizione con formula) oppure per contestarne la qualità di titolo esecutivo o la sua giuridica inesistenza oppure ancora per negare l'identità del bene immobile di cui si chiede il coattivo rilascio con quello oggetto di trasferimento con il decreto.

5. Opposizioni esecutive.

Ponendosi in linea di sostanziale continuità con indirizzi esegetici espressi negli anni precedenti, la giurisprudenza di legittimità in rassegna ha compiutamente ricostruito aspetti regolanti – in maniera comune – lo svolgimento delle varie tipologie di opposizioni, tanto quelle proposte prima quanto quelle successive all'inizio dell'esecuzione.

Nell'illustrato contesto si staglia, quale assolutamente centrale, il decisum di Sez. 3, n. 16281/2016, Frasca, Rv. 642094, riguardante il modo di operare dell'interesse ad agire ex art.100 c.p.c. in relazione alle opposizioni esecutive.

Secondo la ora citata pronuncia, nelle opposizioni esecutive l'interesse ad agire è legislativamente tipizzato con riferimento all'atto con cui viene formulata la minaccia di espropriazione forzata, ovvero la intimazione del precetto, per cui, come altresì si evince dal disposto dell'art. 480 c.p.c. circa il radicamento territoriale della lite oppositiva, prima della notificazione del precetto non può ravvisarsi legittimo timore di essere assoggettato ad esecuzione giustificante l'esperibilità del rimedio oppositivo.

Avverso la mera notificazione di una sentenza indebitamente munita di formula esecutiva poiché non recante statuizioni suscettibili di essere coattivamente azionate non sono dunque proponibili le opposizioni esecutive, tanto per motivi concernenti l'an debeatur (inquadrabili come all'esecuzione ex art. 615 c.p.c.) quanto per censure afferenti il quomodo exequatur (classificabili come agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.), fatta salva tuttavia la esperibilità, prima della notifica del precetto, di una ordinaria azione di cognizione in accertamento negativo quando alla notifica del solo titolo esecutivo si accompagni, con manifestazione di intenti coeva o precedente, un vanto esplicito della pretesa esecutiva.

Nelle controversie oppositive non di rado sorgono questioni di competenza; sul punto, vanno segnalate:

- nella peculiare fattispecie di opposizione all'esecuzione riservata alla competenza dei tribunali dell'impresa (istituiti ai sensi dell'art. 2, comma 1, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), qualora si tratti di opposizione spiegata avverso un precetto contenente solo l'ordine di pagare una somma di denaro determinata, la competenza spetta al giudice dell'esecuzione come individuato sulla base dei criteri di cui agli artt. 17, 27 e 615 c.p.c. (e, quindi, ratione materiae al Tribunale – sezione specializzata in materia di impresa), non venendo in considerazione la particolare competenza, prevista dall'art. 124, comma 7, del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, del giudice emittente la sentenza, la quale opera in relazione all'esecuzione delle speciali misure contenute nei commi 1, 3, 4 e 5 del medesimo articolo (Sez. 6-3, n. 06945/2016, Cirillo F.M., Rv. 639333);

- con carattere più generale, in tema di foro dell'opposizione a precetto ex art. 480, comma 3, c.p.c., la competenza per territorio va individuata in base al possibile luogo dell'esecuzione, compreso quello della notifica del precetto, nessuna valenza rivestendo, a tal fine, l'elezione di domicilio del creditore contenuta nel precetto, vincolante invece quale (unico) luogo di notifica dell'atto introduttivo del giudizio di opposizione (Sez. 3, n. 16649/2016, Rossetti, Rv. 641487);

- sulle opposizioni agli atti esecutivi proposte prima dell'inizio dell'esecuzione, la competenza per materia, giusta il richiamo nell'art.480, comma 3, c.p.c., si radica presso il giudice della (minacciata) esecuzione, e dunque, a seguito della soppressione dell'ufficio del Pretore, presso il Tribunale (Sez. 6-3, n. 19051/2016, Frasca, Rv. 642131, con l'aggiunta che analoga competenza per materia sussiste anche per le opposizioni agli atti esecutivi spiegate dopo l'inizio dell'esecuzione);

- quanto alle opposizioni esecutive in senso stretto (ovvero ad esecuzione già iniziata), l'art. 618-bis, comma 2, c.p.c., laddove prevede che la competenza del giudice dell'esecuzione resta ferma «nei limiti dei provvedimenti assunti con ordinanza», si riferisce ai soli provvedimenti ordinatori e interinali (quali la sospensione dell'esecuzione), sicché, per la fase di merito, in forza della regola dettata dal comma 1 del medesimo articolo, trovano applicazione le norme sulle controversie di lavoro e previdenziali, ivi comprese quelle sulla competenza territoriale: in virtù di questo principio, Sez. 6-L, n. 16222/2016, Marotta, Rv. 640863, ha dichiarato la competenza territoriale del Tribunale, giudice del lavoro, del luogo nella cui circoscrizione risiedeva il creditore esecutante, ex art. 444, comma 1, c.p.c., a fronte di un credito discendente da sentenza della Corte di Appello di altro distretto.

In linea di logica coerenza con la più volte declinata struttura delle controversie oppositive esecutive in senso stretto quali giudizi unitari a bifasicità eventuale, Sez. 6-3, n. 12170/2016, Frasca, Rv. 640317, ha confermato che l'ordinanza conclusiva della prima fase, a cognizione sommaria, pur dovendo contenere necessariamente la statuizione sulle spese, in sé riesaminabile nel giudizio di merito, è priva del carattere di definitività (e, come tale, non passibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., anche se ometta di fissare il termine per l'iscrizione a ruolo della causa di merito: così Sez. 6-3, n. 25902/2016, Barreca, Rv. 642321), mentre la mancata indicazione del termine entro cui introdurre la successiva eventuale fase di merito può essere sanata richiedendo l'integrazione del provvedimento ai sensi dell'art. 289 c.p.c., ovvero introducendo autonomamente il giudizio a cognizione piena, attività in mancanza delle quali il giudizio si estingue ex art. 307 c.p.c. con conseguente impossibilità di rimettere in discussione la decisione sulle spese.

Il modus ingrediendi della fase sommaria dell'opposizione è costituito da un ricorso diretto al giudice dell'esecuzione, funzionalmente competente; l'adozione di una differente forma dell'atto introduttivo, tuttavia, ancorché erronea, può non integrare vizio inficiante il processo e rivelarsi invece idonea allo scopo, allorquando il diverso atto in concreto utilizzato costituisca valido succedaneo: così, in una fattispecie di opposizione agli atti esecutivi successiva proposta con citazione anziché con ricorso, Sez. 3, n. 02490/2016, Barreca, Rv. 639070, ha reputato rispettato il termine perentorio ex art. 617, comma 2, c.p.c. se l'atto di opposizione sia depositato (in sede di iscrizione a ruolo della lite) entro venti giorni dalla conoscenza dell'atto impugnato.

L'instaurazione del contraddittorio nella fase sommaria deve avvenire nel termine perentorio stabilito dal giudice dell'esecuzione, da intendersi osservato pur quando il ricorso non sia notificato a tutti i legittimi resistenti, dovendo in tal caso essere disposta l'integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c. (in tal senso Sez. 3, n. 03890/2016, Chiarini, Rv. 638894).

Costituisce jus receptum la non applicabilità alle opposizioni esecutive dell'istituto della sospensione feriale dei termini, regola valevole, per Sez. 3, n. 14961/2016, De Stefano, Rv. 641272, anche per il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ex art. 614 c.p.c. per il recupero delle spese dell'esecuzione per obblighi di fare o di non fare, vertendosi in controversia tesa al ristoro delle anticipazioni cui il creditore è stato costretto dall'inadempimento del debitore, indefettibile complemento di una effettiva tutela e di un sollecito soddisfacimento delle ragioni creditorie.

Sempre in tema di sospensione feriale, qualora, nell'ambito di un'opposizione a precetto si sia formato il giudicato sui motivi di opposizione e il processo sia proseguito esclusivamente in ordine alla domanda riconvenzionale, la controversia non è più qualificabile come opposizione all'esecuzione, sicché non si sottrae alla sospensione dei termini durante il periodo feriale (Sez. 3, n. 12888/2016, Graziosi, Rv. 640428).

In ordine al regime della sentenza conclusiva dei giudizi di opposizione, è stata riconfermata la proponibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un'unica sentenza in ragione dei plurimi oggetti della stessa: per Sez. 3, n. 12730/2016, Ambrosio, Rv. 640277, quando le contestazioni della parte integrino, nello stesso procedimento, opposizione all'esecuzione e opposizione agli atti esecutivi, la sentenza, pur formalmente unica, contiene due decisioni distinte, soggette rispettivamente ad appello ed a ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost..

Sotto il profilo dell'oggetto, la delimitazione del discrimen tra opposizione all'esecuzione ed opposizione agli atti, ha da sempre interessato il giudice della nomofilachia, chiamato a pronunciarsi, in una sterminata casistica applicativa, sulla – non di rado affatto agevole – sussunzione delle contestazioni sollevate come ragioni concernenti l'an ovvero il quomodo exequatur.

In questo filone si inserisce Sez. 3, n. 12406/2016, Barreca, Rv. 640453: la deduzione del diritto di ritenzione ex art. 1152 c.c. (in favore del possessore di buona fede a garanzia del credito per i miglioramenti apportati all'immobile) prospetta un ostacolo al diritto di procedere esecutivamente al rilascio dell'immobile ritenuto e configura, pertanto, una opposizione all'esecuzione.

Secondo Sez. 3, n. 14449/2016, Tatangelo, Rv. 640525, la contestazione della possibilità per il creditore di iniziare o proseguire l'esecuzione forzata individuale in costanza del fallimento del debitore, ai sensi dell'art. 51 l. fall., attiene al diritto di procedere all'esecuzione forzata (individuale) e non semplicemente alla regolarità di uno o più atti della procedura ovvero alle modalità di esercizio dell'azione esecutiva, sicché va qualificata come opposizione all'esecuzione e non è assoggettata al regime, anche di decadenza, di cui all'art. 617 c.p.c.

Con riferimento alle opposizioni agli atti esecutivi, Sez. 6-3, n. 25900/2016, Barreca, Rv. 642319, ha ribadito che la deduzione dei vizi procedimentali (tipico thema decidendum di tali giudizi) va scrutinata sulla scorta dei principi generali in tema di nullità degli atti processuali dettati dal libro primo del codice di rito ed ha pertanto ritenuto che la nullità della notificazione del titolo esecutivo e del precetto deve reputarsi sanata per raggiungimento dello scopo per effetto della proposizione da parte del debitore dell'opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il pignoramento.

Esulano infine dal possibile thema decidendum dei giudizi oppositivi questioni afferenti la ricorrenza o meno della cause di estinzione della procedura esecutiva: come chiarito dalla stessa Sez. 3, n. 14449/2016, Tatangelo, Rv. 640527, tutti i provvedimenti del giudice dell'esecuzione in tema di estinzione cd. tipica (ivi inclusa la fattispecie prevista dall'art. 567 c.p.c.) sono impugnabili esclusivamente con il reclamo nelle forme previste dall'art. 630, commi 2 e 3, c.p.c., proponibile contro il provvedimento che dichiari o neghi l'estinzione o anche ometta di pronunciarsi sull'istanza in tal senso proposta dalla parte; resta così esclusa la esperibilità di una opposizione all'esecuzione per farne valere l'improseguibilità dopo la verificazione della causa di estinzione ovvero un'opposizione avverso gli atti esecutivi adottati successivamente alla verificazione della causa di estinzione non dichiarata.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XL

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Francesco Federici )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il procedimento per ingiunzione. - 3 Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. - 4 I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. - 5 I procedimenti camerali. - 6 Gli altri procedimenti speciali.

1. Premessa.

Nel 2016 si registra un numero d'interventi della giurisprudenza di legittimità inferiore rispetto a quello dell'anno precedente in materia di procedimenti speciali. Tuttavia, soprattutto in tema di procedimento monitorio, si affermano alcuni interessanti principi.

2. Il procedimento per ingiunzione.

I provvedimenti intervenuti in materia di procedimento d'ingiuzione toccano tanto gli aspetti della opposizione quanto l'efficacia del decreto concesso nella fase sommaria.

In tema di opposizione, Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641159, Rv. 641158, afferma che la sua tempestività, quando è proposta da uno dei soci di società di persone avverso un decreto ingiuntivo emesso a carico sia dei singoli soci, sia della medesima società, deve essere determinata esclusivamente assumendo come dies a quo la data di notifica del provvedimento monitorio al socio opponente, a nulla rilevando, ai fini del computo del termine perentorio previsto dall'art. 641 c.p.c., la solidarietà passiva con la società e con gli altri soci. Per converso, la medesima pronuncia chiarisce che il decreto ingiuntivo richiesto e concesso nei confronti della società e dei singoli soci illimitatamente responsabili acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all'eventuale accoglimento dell'opposizione avanzata dalla società o dall'altro socio.

D'altronde, come afferma Sez. 1, n. 15417/2016, Genovese, Rv. 640948, l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta da uno dei condebitori solidali non impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri intimati, condebitori in solido, rispetto ai quali il decreto ingiuntivo da essi impugnato acquista efficacia di giudicato senza che possano più giovarsi della disposizione di cui all'art. 1306 c.c.

Alcune pronunce si sono occupate della opposizione tardiva al decreto ingiuntivo. In particolare Sez. 6-3, n. 06518/2016, De Stefano, Rv. 639534, afferma che, ai fini della legittimità dell'opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, prevista dall'art. 650 c.p.c., non è sufficiente l'accertamento della irregolarità della notificazione del provvedimento monitorio, ma occorre la prova, che incombe sull'opponente, che a causa di quelle irregolarità egli, nella qualità di ingiunto, non abbia avuto tempestiva conoscenza del suddetto decreto e conseguentemente non sia stato in grado di proporre una tempestiva opposizione. Nel caso specifico la pronuncia ha sostenuto che la mera circostanza della nullità della notifica del decreto ingiuntivo a militare di leva, in violazione dell'art. 146 c.p.c., non è sufficiente a fondare l'ammissibilità dell'opposizione tardiva, se non si alleghino e non si provino circostanze specifiche che, in relazione alle concrete modalità di espletamento del servizio, abbiano reso impossibile al militare mantenere contatti con il suo luogo di residenza abituale e con i suoi congiunti ivi rimasti, come la madre -che pur aveva irritualmente ricevuto la notifica del provvedimento- e dunque di prendere cognizione dell'atto per reagire tempestivamente.

In ordine poi alla portata della opposizione tardiva, Sez. 1, n. 14910/2016, Cultrera, Rv. 626881, sostiene che il rimedio della opposizione tardiva prevista dall'art. 650 c.p.c. comprende, nella ipotesi della irregolarità della notificazione, tutti i vizi che la inficiano e quindi anche la notificazione del decreto ingiuntivo oltre i termini di legge, che, ai sensi dell'art. 644 c.p.c., comporta l'inefficacia del provvedimento, senza tuttavia escludere la qualificabilità del ricorso per ingiunzione come domanda giudiziale; su di essa pertanto si costituisce il rapporto processuale, sebbene per iniziativa di parte convenuta, che eccepisce l'inefficacia e si difende al contempo del merito. È in conseguenza compito del giudice adito provvedere in sede contenziosa ordinaria sia sulla eccezione sia sulla fondatezza della pretesa azionata nel procedimento monitorio.

Vi sono altri provvedimenti che hanno diretto l'attenzione al contenuto della decisione del giudice adito in sede di opposizione.

In particolare Sez. 3, n. 03908/2016, Ambrosio, Rv. 638893, in merito alla notificazione del provvedimento monitorio oltre il termine di legge, afferma che l'opposizione proposta al fine di eccepirne l'inefficacia non esime il giudice dal decidere non solo sulla proposta eccezione, ma anche sulla fondatezza della pretesa creditoria già azionata con il ricorso per decreto ingiuntivo.

Sez. 2, n. 230/2016, Falaschi, 638536, in una ipotesi in cui si contestava l'esistenza del mandato difensivo dato all'avvocato, afferma che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali, ogni contestazione, anche generica, in ordine all'espletamento e alla consistenza dell'attività, è idonea e sufficiente ad investire il giudice del potere-dovere di verificare anche il quantum debeatur, senza incorrere nella violazione dell'art. 112 c.p.c.

Sul contenuto della sentenza declinatoria della competenza territoriale, Sez. 1, n. 01372/2016, Nazzicone, Rv. 638491, chiarisce che la sentenza con cui il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, dichiara l'incompetenza territoriale, non comporta anche la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull'opposizione ma contiene necessariamente, ancorchè implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, sicchè quello che trasmigra innanzi al giudice ad quem deve considerarsi non più propriamente una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, ormai inesistente, bensì un ordinario giudizio di cognizione concernente l'accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio. Tale pronuncia, prosegue la sentenza, deve essere impugnata esclusivamente con il regolamento di competenza di cui all'art. 42 c.p.c., anche se emessa in grado di appello.

In ordine a taluni specifici aspetti processuali del giudizio monitorio nella fase a cognizione piena Sez. L, n. 04212/2016, Berrino, Rv. 639776, chiarisce che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo soggetto al rito del lavoro, tenuto conto della posizione sostanziale di attore dell'opposto, la memoria difensiva deve contenere gli elementi previsti dall'art. 414 c.p.c., sicchè la mancata indicazione specifica dei fatti e degli elementi di diritto, nonché dei mezzi di prova resi necessari dall'opposizione, può condurre al rigetto di questa con conseguente revoca del decreto.

In tema di tempestività dell'impugnazione, deve poi evidenziarsi Sez. 6-3, n. 04987/2016, Rossetti, Rv. 639349, secondo cui, nel caso di appello proposto avverso una sentenza resa all'esito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ai fini della operatività del termine semestrale di decadenza dal gravame, previsto dall'art. 327 c.p.c., così come modificato dall'art. 58 della l. 18 giugno 2009, n. 69, e applicabile ai soli giudizi pendenti dopo la sua entrata in vigore, la "pendenza del giudizio" va individuata con riferimento non alla notificazione dell'atto di opposizione, bensì al deposito del ricorso monitorio.

Merita infine un cenno Sez. 6-3, n. 12248/2016, Cirillo F.M., Rv. 640268, che afferma come in tema di liquidazione di onorari di avvocato, ove il procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo si sia svolto nelle forme ordinarie e sia stata contestata l'esistenza del diritto al compenso, la decisione è impugnabile con appello e non mediante ricoso per cassazione, non trovando applicazione in detta ipotesi l'art. 14 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150.

3. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto.

Non sono numerose le pronunce in materia, relative ad aspetti processuali, che abbiano introdotto novità rispetto ai precedenti indirizzi.

Con riferimento alla opposizione tardiva, Sez. 3, n. 00122/2016, Frasca, Rv. 638548, afferma che quando sia stata pronunciata l'ordinanza di convalida in assenza dell'intimato, senza che vi sia prova dell'avvenuta ricezione da parte di quest'ultimo dell'avviso di ricevimento della raccomandata ex art. 140 c.p.c., ciò non costituisce di per sé ipotesi di ammissibilità dell'opposizione tardiva ai sensi dell'art. 668 c.p.c., occorrendo a tal fine dimostrare che il procedimento notificatorio si sia svolto in modo nullo o che si sia perfezionato con il ricevimento dell'avviso di cui all'art. 140 c.p.c., ovvero con il decorso dei dieci giorni dalla spedizione, in un momento tale da non consentire il rispetto del termine libero di cui al quarto comma dell'art. 668 c.p.c.

In tema di causa petendi e di prospettazione del suo mutamento in sede di gravame, Sez. 3, n. 19528/2016, Vincenti, Rv. 636987, sostiene che non costituisce mutatio libelli, vietata ai sensi dell'art. 345 c.p.c., la precisazione che la domanda di risarcimento danni per l'illegittima occupazione di un immobile locato, originariamente proposta sul presupposto della intervenuta scadenza contrattuale, debba intendersi riferita anche alla data di introduzione di un separato giudizio di sfratto per morosità, qualora i fatti integranti tale ulteriore causa petendi risultino comunque dedotti in primo grado ed il petitum risarcitorio sia solo specificato in relazione a fatti già allegati, poiché ciò non determina una novità della domanda.

Infine, sulla regolamentazione delle spese nel procedimento di convalida, Sez. 2, n. 19425/2016, Vincenti, (in corso di massimazione), ha affermato che nel caso di declaratoria di estinzione del procedimento di convalida, per mancata comparizione del locatore intimante all'udienza fissata nell'atto di citazione, e in assenza di istanza del conduttore intimato, comparso a detta udienza, che si proceda, previo mutamento del rito, all'accertamento negativo del diritto azionato, non può il locatore intimante essere condannato al pagamento delle spese di procedimento, dovendo invece queste essere poste a carico delle parti che le hanno anticipate, in applicazione analogica dell'art. 310 c.p.c.

4. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza.

Alcune pronunce, in verità non molte, sono intervenute in materia cautelare e possessoria, affermando interessanti principi.

4.1 In tema di accertamento tecnico preventivo, si sofferma sugli elementi necessari per l'introduzione dello strumento cautelare probatorio Sez. 2, n. 18521/2016, Correnti, Rv. 18521/2016, affermando che in tema di istruzione tecnica preventiva non è necessaria la prospettazione della domanda di merito nei confronti del destinatario, perché la strumentalità del procedimento cautelare è riferibile alla sola ammissibilità e rilevanza del mezzo di prova nell'eventuale successivo giudizio di merito. Ne consegue che la domanda di merito va rappresentata nel suo contenuto essenziale, per consentire una valutazione di funzionalità alla stessa del mezzo istruttorio preventivamente richiesto. Il principio è stato affermato con riguardo ad una fattispecie nella quale il convenuto eccepiva la mancata costituzione del contraddittorio nei suoi confronti, assumendo che il ricorso di istruzione preventiva gli era stato notificato a solo titolo di conoscenza e senza specifiche censure al suo operato.

Quanto alle modalità di utilizzo dell'accertamento tecnico nel giudizio a cognizione piena, Sez. 2, n. 06591/2016, Lombardo, Rv. 639479, sostiene che l'acquisizione della relazione disposta nel relativo procedimento, tra le fonti utilizzate per l'accertamento dei fatti di causa, non deve necessariamente avvenire a mezzo di un provvedimento formale, essendo sufficiente anche la sua materiale acquisizione e che il giudice di merito l'abbia poi esaminata, traendone elemento per il proprio convincimento, assicurando in ogni caso che la parte che lamenti la irritualità della acquisizione e l'impossibilità di esame delle risultanze dell'indagine sia stata posta in grado di contraddire su di esse. Il principio è stato affermato in una fattispecie in cui la relazione tecnica conseguente l'istruzione preventiva era stata prodotta dall'attore nel giudizio di merito in primo grado senza che il convenuto avesse formulato alcuna eccezione in ordine alla sua acquisizione.

4.2 In tema di azioni nunciatorie, deve segnalarsi Sez. 2, n. 05336/2016, Scalisi, Rv. 639407, che, con riferimento alla individuazione del soggetto passivamente legittimato, afferma che nell'azione di danno temuto è legittimato passivo non solo il titolare del diritto reale, ma anche il possessore e colui che in ogni caso abbia la disponibilità del bene, da cui si assume che derivi la situazione di pericolo di danno grave, in quanto l'obbligo di custodia e manutenzione sussiste in ragione dell'effettivo potere fisico sulla cosa.

4.3 In materia possessoria, deve segnalarsi Sez. 2, n. 19720/2016, Abete, Rv. 641096, la quale, a proposito dell'efficacia dei provvedimenti possessori, afferma che essi, pur restando efficaci indipendentemente dell'instaurazione del giudizio di merito in applicazione dell'art. 669 octies c.p.c., sono inidonei ad acquisire efficacia di giudicato, non avendo carattere decisorio, come le misure cautelari per le quali opera detta disposizione, e stante l'omesso richiamo, compiuto invece per altre ipotesi di procedimenti a cognizione sommaria, agli effetti di cui all'art. 2909 c.c.

Interessante è poi il principio affermato da Sez. 2, n. 00107/2016, Abete, Rv. 638450, in tema di efficacia probatoria delle dichiarazioni raccolte durante il procedimento interditttale. La pronuncia infatti chiarisce che le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio possessorio sono valutabili alla stregua di una prova testimoniale ove assunte nel contraddittorio delle parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite nei rispettivi atti introduttivi, mentre quelle raccolte ai fini dell'eventuale adozione del decreto inaudita altera parte, ex art. 669 sexies, comma 2, c.p.c., sono qualificabili in termini di sommarie informazioni, pur essendo utilizzabili anche ai fini della decisione, quali indizi da valutare liberamente.

4.4 Sul procedimento di sequestro, si segnala una sola pronuncia, relativa alla incidenza sul giudizio di merito del difetto dello ius postulandi in sede cautelare. Sul punto infatti Sez. 2, n. 15463/2016, Lombardo, Rv. 640598, sostiene che la nullità del provvedimento reso sull'istanza di sequestro in difetto di ius postulandi non si estende alla sentenza che definisce il giudizio di merito, essendo quest'ultimo indipendente ai sensi dell'art. 159, comma 1, c.p.c.

4.5 Altrettanto numericamente esigui risultano i provvedimenti in tema di procedimento cautelare d'urgenza, tra essi merita segnalazione Sez. L, n. 10840/2016, Spena, Rv. 639850, nella quale si afferma che il rimedio cautelare, alla luce della nuova struttura del procedimento ex art. 700 c.p.c., e degli altri provvedimenti cautelari anticipatori, delineata nell'art. 669 octies, comma 6, c.p.c., aggiunto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella l. 14 maggio 2005, n. 80 – che ha introdotto una struttura di attenuata strumentalità rispetto al giudizio di merito mediante la previsione della instaurazione del giudizio a cognizione piena solo in via facoltativa –, ha assunto ad ogni effetto le caratteristiche di una autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via definitiva, pur senza attitudine al giudicato, sicchè la proposizione del ricorso è idonea ad impedire il maturare di termini di decadenza.

5. I procedimenti camerali.

Anche la giurisprudenza che si è occupata delle questioni relative al rito camerale, nonché a quello sommario di cognizione non è particolarmente copiosa.

In tema di contenzioso relativo alla candidabilità degli amministratori comunali, Sez. 1, n. 11579/2016, Nazzicone, Rv. 640175, afferma che al giudizio di cassazione avente ad oggetto l'incandidabilità degli amministratori comunali nell'ipotesi prevista dall'art. 143, comma 11, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, non si applicano i termini dimidiati previsti dall'art. 22, commi 1 e 11, del d.lgs. n. 150 del 2011, che rinvia al rito sommario di cognizione di cui all'art. 702-bis e segg. c.p.c., in ragione del richiamo contenuto nell'ultima parte del medesimo comma 11 dell'art. 143 al rito camerale contenzioso previsto dall'art. 737 e segg. c.p.c.

6. Gli altri procedimenti speciali.

Nella giurisprudenza del 2016 vanno segnalate alcune pronunce intervenute in procedimenti speciali afferenti varie discipline.

6.1 In materia successoria può menzionarsi, Sez. 2, n. 14756/2016, Criscuolo, Rv. 640573, la quale afferma che in tema di scioglimento della comunione, l'istanza di attribuzione ex art. 720 c.c., pur tendenzialmente soggetta alle preclusioni processuali, può essere avanzata per la prima volta nel corso del giudizio, e anche in grado di appello, ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa denotino l'insorgere di una situazione di non comoda divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta l'extrema ratio voluta dal legislatore.

Sez. 6-2, n. 13820/2016, Falaschi, Rv. 640211, afferma, con riguardo alla eredità beneficiata, che il decreto con cui il tribunale, accertata la difficoltà dei coeredi di completare la liquidazione, autorizzi la vendita concorsuale non è impugnable con ricorso straordinario per cassazione, in quanto, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo, tale decreto chiude un procedimento non contenzioso, privo di vero e proprio contraddittorio, senza statuire su dette posizioni in via decisoria e definitiva.

Con riguardo poi alla materia della famiglia, deve segnalarsi Sez. 1, n. 10365/2016, Scaldaferri, Rv. 639726, in tema di competenza del tribunale ordinario, secondo cui la vis attractiva del tribunale ordinario relativamente ad un ricorso ex art. 333 c.c. opera, ai sensi dell'art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dalla l. 10 dicembre 2012, n. 219, anche in pendenza di un giudizio di modifica delle condizioni di separazione riguardanti la prole, ex art. 710 c.p.c., a ciò non ostando la diversità di ruolo del P.M. nei due procedimenti (ricorrente in quello minorile e interventore obbligatorio nell'altro), atteso che una diversa opzione ermeneutica, facente leva sul solo tenore letterale della suddetta disposizione, ne tradirebbe la ratio di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti e incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi.

Deve anche segnalarsi, in ordine al rapporto di efficacia tra provvedimenti giurisdizionali assunti in materia di famiglia e accordi raggiunti dai coniugi medesimi, Sez. 2, n. 00298/2016, Matera, Rv. 638452, secondo cui gli accordi modificativi delle disposizioni contenute nel decreto di omologazione della separazione ovvero nell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nell'art. 1322 c.c., sono validi ed efficaci, anche a prescindere dal procedimento ex art. 710 c.p.c., qualora non superino i limiti di derogabilità posti dall'art. 160 c.c., e purchè non interferiscano con l'accordo omologato, limitandosi invece a specificarne il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti agli interessi ivi tutelati.

In materia di adozione, Sez. 1, n. 16335/2016, Acierno, Rv. 641031, sostiene che l'omessa notifica nel termine assegnato dal giudice del ricorso introduttivo dell'appello avverso la declaratoria dello stato di adottabilità e del relativo decreto di fissazione d'udienza non comporta, in assenza di una espressa previsione in tal senso, l'improcedibilità dell'impugnazione, dovendosi evitare interpretazioni formalistiche delle norme processuali, che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale, ma solo la necessità dell'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., sempre che la parte appellata non si sia costituita, così sanando in ogni caso il vizio di notificazione con effetto ex tunc.

Sez. 6-1, n. 11782/2016, Bisogni, Rv. 639921, chiarisce che ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, comma 2, della l. 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all'accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi, fin dalla sua apertura, con l'assistenza legale del minore, il quale ne è parte e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante legale ovvero, se sussista conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina di un difensore tecnico. Ne deriva, in caso di omessa nomina di quest'ultimo, cui non segua la designazione di un difensore d'ufficio, la nullità del procedimento de quo, non avendo potuto il minore esercitare alcun contraddittorio su tutti gli atti processuali che hanno costituito il presupposto per la decisione del giudice di merito.

In ordine alla giurisdizione volontaria e all'attività del giudice tutelare, deve segnalarsi Sez. 6-1, n. 01631/2016, De Chiara, Rv. 638612, secondo cui il giudice competente per l'apertura della tutela di chi si trovi in stato di interdizione legale per condanna definitiva alla pena dell'ergastolo va individuato in quello del luogo in cui alla data dell'apertura, coincidente con l'informativa della condanna al giudice tutelare, l'interdetto abbia la sede principale dei suoi affari e interessi. Tale luogo, da individuarsi in concreto, è, secondo l'id quod plerunque accidit, quello della sua residenza anagrafica salva la prova contraria, ed in particolare della circostanza che, per effetto della eventuale detenzione cautelare nel luogo in cui risiedeva prima dell'arresto l'interdetto non abbia più i propri rapporti o interessi principali, e che dunque il centro degli stessi si sia spostato nel luogo di detenzione.

6.2 Anche nel 2016 sono intervenute alcune pronunce su procedimenti speciali, fuori da quelli contemplati nel Libro IV del codice di procedura civile, in ordine a questioni squisitamente processuali relative alla materia della immigrazione, e con riferimento all'ambito di cognizione del giudice ordinario, Sez. 6-1, n. 04794/2016, De Chiara, Rv. 639018, afferma che il giudice investito della impugnazione del provvedimento di espulsione ha piena cognizione dei fatti di causa, che deve accertare anche in base ai documenti prodotti solo in sede processuale, secondo le regole generali valevoli per i giudizi davanti a lui, finalizzati a correggere, grazie alla pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa, eventuali lacune o errori del procedimento amministrativo.

Sez. 6-1, n. 12711/2016, De Chiara, Rv. 640097, afferma invece che tra il giudizio di opposizione all'espulsione e l'accertamento in sede penale dei fatti che sarebbero alla base della valutazione di pericolosità dell'espulso, non sussiste un rapporto di pregiudizialità ai sensi dell'art. 295 c.p.c., idoneo a giustificare la sospensione del primo, ma solo un rapporto di connessione.

Sempre in merito agli stranieri, Sez. 6-1, n. 13815/2016, Bisogni, Rv. 640303, afferma che l'impugnazione avverso l'ordinanza reiettiva del permesso di soggiorno per motivi familiari, di cui all'art. 30, comma 1, lett. a), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, va proposta con atto di citazione anzicchè con ricorso e, nel caso di erronea introduzione del giudizio, la tempestività del gravame va verificata con riferimento non solo alla data di deposito dell'atto introduttivo, ma anche a quella di notifica dello stesso alla controparte, che deve avvenire nel rispetto del termine di trenta giorni previsto dall'art. 702-quater c.p.c. a pena di inammissibilità, senza che possa essere effettuata alcuna conversione del rito in appello, riguardando l'art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 solo il primo grado.

Nell'esaminare altri interventi relativi ai procedimenti speciali, sul procedimento disciplinare nei confronti dei notai, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639768, afferma che in tema di impugnazione dei provvedimenti disciplinari e cautelari a carico dei notai, il reclamo dinanzi alla Corte d'Appello avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale è soggetto, ai sensi degli artt. 3 e 26 del d.lgs. n. 150 del 2011, agli artt. 702-bis e 702-ter, commi 1, 4, 5, 6 e 7, c.p.c., che nulla dispongono relativamente alla pubblicità delle udienze, per cui opera il regime generale della pubblicità della sola udienza di discussione, pienamente compatibile con l'art. 6 CEDU, in virtù del quale non tutta l'attività processuale deve svolgersi pubblicamente, ma deve essere assicurato un momento di trattazione della causa in un'udienza pubblica.

In tema di responsabilità disciplinare dei notai deve anche menzionarsi Sez. 2, n. 24730/2016, Bianchini, (in corso di massimazione), secondo cui, la contemporanea previsione, nella legge professionale e nel codice deontologico, di condotte analoghe non crea dubbi interpretativi laddove nel testo di rango sovraordinato nell'ordine delle fonti sia contenuta tutta la disciplina sanzionatoria, trovando in questo caso applicazione solo la legge professionale, mentre la analoga previsione contenuta nel codice deontologico non assume valore di precetto autonomamente sanzionabile. la S.C. ha affermato questo principio in una fattispecie in cui al notaio, cui si contestava di aver rogato un numero elevato di atti fuori sede nei giorni di presenza obbligatoria nel proprio ufficio, era stata comminata la sanzione disciplinare, più grave, risultante dal combinato disposto degli artt. 6 del codice deontologico e 147 della legge notarile, anzicchè quella disciplinata e sanzionata dagli artt. 26 e 137 della legge notarile, evidenziandosi che la condotta prevista dall'art. 26 cit. era sovrapponibile a quella prevista dall'art. 6 cit.

Sugli onorari di avvocato invece, Sez. 6-3, n. 04002/2016, Armano, Rv. 638895, afferma che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell'avvocato nei confronti del proprio cliente, previste dall'art. 28 della l. 14 giugno 1942, n. 794, come modificato dall'art. 34 del d.lgs. n. 150 del 2011 e dall'abrogazione degli artt. 29 e 30 della medesima l. 794 cit., devono essere trattate con la procedura disciplinata dall'art. 14 del suddetto d.lgs. n. 150 del 2011, anche nell'ipotesi in cui la domanda riguardi l'an della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l'inammisibilità della domanda.

Quanto infine alle opposizioni alle ingiunzioni fiscali, Sez. 1, n. 09989/2016, Sambito, Rv. 639654, chiarisce che la Pubblica Amministrazione convenuta in giudizio di opposizione ad ingiunzione ex art. 3 del r.d. 14 aprile 1910, n. 639 per l'accertamento di un credito riconducibile ai rapporti obbligatori di diritto privato, assume la posizione sostanziale di attrice, sicchè, ai sensi dell'art. 2697 c.c., è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, mentre l'opponente deve dimostrare la loro inefficacia ovvero l'esistenza di cause modificative o estintive degli stessi. La pronuncia poi aggiunge che non vale obiettare che la menzionata ingiunzione cumula in sé la natura di funzione di titolo esecutivo unilateralmente formato dalla P.A. nell'esercizio del suo peculiare potere di autoaccertamento e di atto prodromico all'inizio dell'esecuzione coattiva, in quanto ciò non implica affatto che nel giudizio di opposizione l'ingiunzione sia assistita da una presunzione di verità, dovendo piuttosto ritenersi che la posizione di vantaggio riconosciuta alla P.A. sia limitata al momento della formazione unilaterale del titolo esecutivo, restando escluso, perché del tutto ingiustificato in riferimento a dati testuali e ad un'esegesi costituzionalmente orientata in relazione all'art. 111 Cost., che essa possa permanere anche nella successiva fase contenziosa, in seno alla quale il rapporto deve essere provato secondo le regole ordinarie.

  • potestà genitoriale
  • separazione legale
  • divorzio
  • diritto di famiglia

CAPITOLO XLI

LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI

(di Paolo Di Marzio )

Sommario

1 Comunione legale dei beni e litisconsorzio necessario. - 2 Il giudizio di separazione personale dei coniugi. - 3 L'affidamento dei figli minori. - 4 Separazione personale, spese per i figli minori e regime probatorio. - 5 La domanda di assegno divorzile per il coniuge, condizioni di proponibilità. - 6 L'assegno di mantenimento per il figlio minorenne. - 7 L'assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne. - 8 Impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, dichiarazione giudiziale e disconoscimento di paternità. - 9 Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. - 10 Responsabilità genitoriale: giurisdizione. - 11 Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione. - 12 L'adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale (cd. stepchild adoption). - 13 Sottrazione internazionale di minori e valutazioni demandate al giudice di merito. - 14 Matrimonio telematico straniero ed ordine pubblico italiano. - 15 Amministrazione di sostegno e procedure di inabilitazione ed interdizione. - 16 Incapacità naturale e processo. - 17 Il bambino con due madri. - 18 Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

1. Comunione legale dei beni e litisconsorzio necessario.

Qualora uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile oggetto della comunione, ha deciso la S.C., il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto è litisconsorte necessario in tutte le controversie in cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto, sicché l'azione volta alla rimozione o comunque all'arretramento a distanza legale di opere assunte come abusivamente eseguite va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli, bensì di azione reale, Sez. 2, n. 8468/2016, Scarpa, Rv. 639705.

2. Il giudizio di separazione personale dei coniugi.

In tema di prova in ordine alla capacità reddituale dei coniugi nei giudizi di separazione e divorzio, la Corte ha statuito che, ove il giudice abbia chiesto ad entrambe le parti l'esibizione della documentazione relativa ai rapporti bancari da ciascuna intrattenuti ed una sola di queste abbia ottemperato alla richiesta fornendo materia per gli accertamenti giudiziali, il giudice che di essi abbia fatto uso ha l'obbligo di motivare in ordine al significato del comportamento omissivo della parte inottemperante, costituendo l'asimmetria comportamentale ed informativa una condotta da cui desumere argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c., Sez. 6-1, n. 00225/2016, Genovese, Rv. 638441.

La S.C. ha evidenziato che il giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado in tema di separazione personale tra coniugi si svolge nelle forme del rito camerale, ai sensi dell'art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 8 della legge 12 febbraio 1987, n. 74, applicabile ai giudizi di separazione, secondo quanto disposto dall'art. 23, comma 1, di quest'ultima legge, sicché la corte d'appello, investita della cognizione del gravame, può decidere la controversia nella stessa udienza fissata dal presidente con decreto in calce al ricorso notificato alla controparte, non trovando applicazione, in materia, la disposizione di cui all'art. 352 c.p.c., Sez. 1, n. 01867/2016, Lamorgese, Rv. 638602.

Ancora in riferimento al giudizio di separazione personale dei coniugi, il giudice di legittimità ha chiarito che l'attitudine al lavoro dei medesimi, quale elemento di valutazione della loro capacità di guadagno, può assumere rilievo, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell'assegno di mantenimento, solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un'attività retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche. In applicazione di questo principio, è stata confermata la sentenza impugnata che, nel quantificare l'assegno di mantenimento riconosciuto alla moglie, aveva valutato il titolo di studio universitario e l'abilitazione professionale da lei posseduti ma anche le sue presumibili difficoltà nell'inserimento nel mondo del lavoro dovute all'età ed alla mancanza di precedenti esperienze professionali, Sez. 6-1, n. 06427/2016, Mercolino, Rv. 639189.

Nel giudizio di separazione personale dei coniugi è inammissibile la domanda di attribuzione dell'assegno di mantenimento quando proposta, per la prima volta, in appello, in violazione dell'art. 345 c.p.c., a nulla rilevando che la parte istante sia rimasta contumace in primo grado, Sez. 6-1, n. 07451/2016, Genovese, Rv. 638359.

3. L'affidamento dei figli minori.

In tema di affidamento di figli minori, ha statuito la S.C., qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena, Sez. 1, n. 06919/2016, Lamorgese, Rv. 630323.

In tema di affidamento dei minori, il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice della separazione, ha chiarito la Corte, è costituito dall'esclusivo interesse morale a materiale della prole, previsto in passato dall'art. 155 c.c. ed oggi dall'art. 337-quater c.c., il quale, imponendo di privilegiare la soluzione che appaia più idonea a ridurre al massimo i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore, richiede un giudizio prognostico circa la capacità del singolo genitore di crescere ed educare il figlio, da esprimersi sulla base di elementi concreti attinenti alle modalità con cui ciascuno in passato ha svolto il proprio ruolo, con particolare riguardo alla capacità di relazione affettiva, nonché mediante l'apprezzamento della personalità del genitore. È stata, quindi, confermata la sentenza di merito, ritenendo che la scelta spirituale di uno dei genitori di aderire ad una confessione religiosa diversa da quella cattolica, quella dei Testimoni di Geova, non potesse costituire ragione sufficiente a giustificare l'affidamento esclusivo dei minori all'altro genitore, in presenza di emergenze probatorie per le quali entrambi i coniugi risultano legati ai figli e capaci di accudirli nella quotidianità, Sez. 6-1, n. 14728/2016, Mercolino, Rv. 641025.

4. Separazione personale, spese per i figli minori e regime probatorio.

Il provvedimento con il quale, in sede di separazione, si stabilisce che il genitore non affidatario paghi, sia pure pro quota, le spese mediche e scolastiche ordinarie relative ai figli costituisce idoneo titolo esecutivo e non richiede un ulteriore intervento del giudice in sede di cognizione, qualora il genitore creditore possa allegare e documentare l'effettiva sopravvenienza degli esborsi indicati nel titolo e la relativa entità, salvo il diritto dell'altro coniuge di contestare l'esistenza del credito per la non riconducibilità degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle modalità d'individuazione dei bisogni del minore, Sez. 6-1, n. 04182/2016, Bisogni, Rv. 638878.

5. La domanda di assegno divorzile per il coniuge, condizioni di proponibilità.

È proponibile innanzi al giudice italiano, la domanda volta ad ottenere un assegno divorzile successivamente alla pronuncia, avvenuta nella Repubblica Ceca, della sentenza di divorzio, atteso che la contestualità fra la decisione sullo status e quella sull'assegno non è imposta dall'art. 5 della l. n. 898 del 1970, né, a maggior ragione, può costituire preclusione processuale qualora la sentenza di divorzio provenga da un ordinamento che prevede la possibilità di introdurre separatamente le relative domande, Sez. 1, n. 01863/2016, Bisogni, Rv. 638604.

6. L'assegno di mantenimento per il figlio minorenne.

In ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli minori, proposta ex art. 9 della l. n. 898 del 1970, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o dell'entità dell'assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell'attribuzione dell'emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l'equilibrio così raggiunto e ad adeguare l'importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale, Sez. 6-1, n. 00214/2016, Acierno, Rv. 638131.

7. L'assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne.

La cessazione dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all'età, all'effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all'impegno rivolto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, da parte dell'avente diritto, dal momento del raggiungimento della maggiore età, Sez. 1, n. 12952/2016, Acierno, Rv. 640096.

La S.C. ha quindi chiarito che il carattere sostanzialmente alimentare dell'assegno di mantenimento riconosciuto a favore del figlio maggiorenne, in regime di separazione dei genitori, comporta che la normale retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda vada contemperata con i principi di irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni, sicché la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, né può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo, mentre ove il soggetto obbligato non abbia ancora corrisposto le somme dovute, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni non sono più dovute in base al provvedimento di modificazione delle condizioni di separazione, Sez. 6-1, n. 13609/2016, Genovese, Rv. 640399.

8. Impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, dichiarazione giudiziale e disconoscimento di paternità.

In tema di impugnativa di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità, la Corte ha chiarito che è necessaria, a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio, la nomina di un curatore speciale per il minore, legittimato passivo e litisconsorte necessario, dovendosi colmare la mancanza di una espressa previsione in tal senso dell'art. 263 c.c. (anche nella formulazione successiva al d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) mediante una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata in quanto la posizione del minore si pone, in via generale ed astratta, in potenziale conflitto di interessi con quella dell'altro genitore legittimato passivo, non potendo stabilirsi ex ante una coincidenza ed omogeneità d'interessi in ordine né alla conservazione dello status, né alla scelta contrapposta, fondata sul favor veritatis e sulla conoscenza della propria identità e discendenza biologica, Sez. 1, n. 01957/2016, Acierno, Rv. 638384.

In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la Corte ha deciso che l'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito in materia dall'art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l'imposizione al giudice di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status, Sez. 1, n. 03479/2016, Bisogni, Rv. 638757.

In tema di azione di disconoscimento di paternità, la Cassazione ha ribadito che grava sull'attore la prova della conoscenza dell'adulterio, che si pone come dies a quo del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione ex art. 244 c.c., in ciò avvalendosi anche del principio di non contestazione, che opera – anche in materia di diritti indisponibili – espungendo il fatto generatore della decadenza dall'ambito del thema probandum, fermo restando che l'esistenza di una non contestazione sulla data della scoperta dell'adulterio non esclude che il giudice, in ragione della preminenza dell'interesse pubblico nelle questioni di stato delle persone, non possa rilevare ex actis un eventuale ulteriore termine di decorrenza che renda l'azione inammissibile, Sez. 1, n. 13436/2016, Nazzicone, Rv. 640400.

9. Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale.

Nei procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., la Corte ha statuito che il principio della perpetuatio iurisdictionis, in forza del quale la competenza territoriale del giudice adito rimane ferma, nonostante lo spostamento in corso di causa della residenza anagrafica o del domicilio del minore, a seguito del trasferimento del genitore con cui egli convive, prevale, per esigenze di certezza e di garanzia di effettività della tutela giurisdizionale, su quello di "prossimità", ove il provvedimento in relazione al quale deve individuarsi il giudice competente sia quello stesso richiesto con l'istanza introduttiva o con altra che si inserisca incidentalmente nella medesima procedura. È stato, pertanto, accolto il regolamento di competenza d'ufficio sollevato dal Tribunale per i minorenni di Brescia dinanzi al quale era stato riattivato, nei medesimi termini originari, il procedimento de potestate dopo la pronuncia di incompetenza del Tribunale per i minorenni di Bologna, adito dal P.M., motivata sul trasferimento, in corso di causa, della madre, insieme alle minori, in un comune in provincia di Brescia, Sez. 1, n. 07161/2016, Mercolino, Rv. 639358.

La vis attractiva del tribunale ordinario relativamente ad un ricorso ex art. 333 c.c. opera, ai sensi dell'art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, anche in pendenza di un giudizio di modifica delle condizioni di separazione riguardanti la prole, a ciò non ostando la diversità di ruolo del P.M. nei due procedimenti (ricorrente in quello minorile ed interventore obbligatorio nell'altro), atteso che una diversa opzione ermeneutica, facente leva sul solo tenore letterale della citata disposizione, ne tradirebbe la ratio di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, rese da due organi giudiziali diversi, Sez. 6-1, n. 10356/2016, Scaldaferri, Rv. 639726.

10. Responsabilità genitoriale: giurisdizione.

Le Sezioni Unite hanno statuito che, ai sensi dell'art. 3, lett. d), del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18 dicembre 2008, qualora il giudice italiano sia investito della domanda di separazione personale dei coniugi ed il giudice di altro Stato membro sia investito della domanda di responsabilità genitoriale, a quest'ultimo spetta la giurisdizione anche sulla domanda relativa al mantenimento del figlio minore, trattandosi di domanda accessoria a quella di responsabilità genitoriale, Sez. U, n. 02276/2016, Nappi, 638227.

Ancora le Sezioni Unite hanno, quindi, chiarito che in tema di responsabilità genitoriale, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale, occorre dare rilievo – per principio generale – al criterio della residenza abituale del minore al momento della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale, e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto. Nel caso di specie, applicando l'enunciato principio, la S.C. ha ritenuto corretta la motivazione del giudice di merito, per la quale doveva considerarsi abitualmente residente in Brasile il minore che vi aveva vissuto fra i tre ed i sei anni di età, periodo intensamente relazionale, con un intervallo di appena sei mesi, trascorso in Italia, Sez. U, n. 05418/2016, Ragonesi, Rv. 638990.

11. Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione.

La Corte ha deciso che, in tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, comma 2, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo del 2001, n. 149, il procedimento volto all'accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi, fin dalla sua apertura, con l'assistenza legale del minore, il quale ne è parte, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante legale ovvero, se sussista conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico. Ne deriva, in caso di omessa nomina di quest'ultimo cui non segua la designazione di un difensore d'ufficio, la nullità del procedimento de quo, non avendo potuto il minore esercitare alcun contraddittorio su tutti gli atti processuali che hanno costituito il presupposto per la decisione del giudice di merito, Sez. 6-1, n. 11782/2016, Bisogni, Rv. 639921.

Pronunciando in materia di adozione, ma affermando un principio di rilevanza generale, il giudice di legittimità ha poi statuito che l'omessa notifica, nel termine assegnato dal giudice, del ricorso introduttivo dell'appello avverso la declaratoria dello stato di adottabilità e del relativo decreto di fissazione di udienza (nella specie, per la rilevata mancanza di prova della ricezione della stessa, effettuata a mezzo posta elettronica certificata), non comporta, in assenza di una espressa previsione in tal senso, l'improcedibilità dell'impugnazione, dovendosi evitare interpretazioni formalistiche delle norme processuali che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale, ma solo la necessità dell'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., sempre che la parte appellata non si sia costituita, così sanando il vizio della notificazione con effetto ex tunc, Sez. 1, n. 16335/2016, Acierno, Rv. 641031.

12. L'adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale (cd. stepchild adoption).

Nel procedimento di adozione in casi particolari di cui all'art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983, la Corte ha statuito che non è configurabile un conflitto di interessi in re ipsa, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante, che imponga la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., dovendo, anzi, individuarsi nella necessità dell'assenso del genitore dell'adottando, di cui all'art. 46 della legge citata, un indice normativo contrario all'ipotizzabilità astratta di un tale conflitto che, invece, va accertato in concreto da parte del giudice di merito. Tale peculiare istituto, infatti, mira a dare riconoscimento giuridico, previo accertamento della corrispondenza della scelta all'interesse del minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con quest'ultimo e caratterizzate dall'adempimento di doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione analoghi a quelli genitoriali, in quanto inteso a consolidare, ricorrendone le condizioni di legge, legami preesistenti e ad evitare che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato. È stata, quindi, confermata la sentenza impugnata che, a fronte della richiesta di adozione del partner omosessuale del genitore naturale del minore, aveva ritenuto in concreto insussistente il conflitto di interessi tra quest'ultimo e lo stesso genitore-rappresentante legale dell'adottando, Sez. 1, n. 12962/2016, Acierno, Rv. 640132.

13. Sottrazione internazionale di minori e valutazioni demandate al giudice di merito.

In tema di sottrazione internazionale illecita di minori, ha deciso la Corte, il giudice italiano può considerare gli inconvenienti per la condizione del minore, connessi al suo prospettato rientro nello Stato di residenza abituale, solo se raggiungano il grado del pericolo fisico o psichico o dell'effettiva intollerabilità, trattandosi delle uniche condizioni ostative al rientro ai sensi dell'art. 13, lett. b), della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 (resa esecutiva in Italia con la legge 15 gennaio 1994, n. 64). Il relativo accertamento costituisce indagine di fatto sottratta al controllo di legittimità se la ponderazione del giudice di merito è sorretta da una motivazione immune da vizi logici e giuridici, Sez. 1, n. 02417/2016, Forte, Rv. 638635.

14. Matrimonio telematico straniero ed ordine pubblico italiano.

Il matrimonio contratto all'estero alla presenza di uno solo dei nubendi e con la partecipazione in via telematica dell'altro non è contraria all'ordine pubblico italiano a condizione che lo stesso sia stato validamente celebrato secondo la legge del Paese straniero, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero, senza possibilità di sottoporlo ad un sindacato di tipo contenutistico, tanto più che neppure per il legislatore italiano la forma di cui all'art. 107 c.c. ha valore inderogabile, Sez. 1, n. 15343/2016, Lamorgese, Rv. 641023. Nella medesima decisione il giudice di legittimità ha statuito che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., avverso i provvedimenti aventi contenuto decisorio e carattere di definitività, decorre solo a seguito della notificazione ad istanza di parte, mentre è irrilevante, al predetto fine, che gli stessi siano stati pronunciati in udienza o, se pronunciati fuori udienza, siano stati comunicati alle parti dal cancelliere, con la conseguenza che, in tali ipotesi, è applicabile il termine di cui all'art. 327 c.p.c. È stata perciò ritenuta l'ammissibilità del ricorso per cassazione nei confronti del decreto di rigetto del reclamo avverso l'autorizzazione alla trascrizione di un matrimonio contratto all'estero, proposto dal Ministero dell'Interno nel cd. termine lungo, in assenza di notifica del provvedimento ad istanza di parte, Sez. 1, n. 15343/2016, Lamorgese, Rv. 641022.

15. Amministrazione di sostegno e procedure di inabilitazione ed interdizione.

L'autorità giudiziaria competente per l'apertura della tutela di chi si trovi in stato di interdizione legale, per essere stato definitivamente condannato alla pena dell'ergastolo, va individuata nel giudice tutelare del luogo in cui, alla data di inizio della procedura – coincidente con la comunicazione della condanna –, l'interdetto abbia la sede principale dei suoi affari ed interessi. Tale luogo, da individuarsi in concreto, è, secondo l'id quod plerumque accidit, quello della sua residenza anagrafica, salva la prova contraria, ed in particolare della circostanza che, per effetto della eventuale detenzione cautelare, nel luogo in cui risiedeva (anagraficamente o effettivamente) prima dell'arresto, l'interdetto non abbia più i propri rapporti o interessi principali, e che, dunque, il centro degli stessi si sia spostato nel luogo di detenzione, Sez. 6-1, n. 01631/2016, De Chiara, Rv. 638162.

Il giudice di legittimità ha statuito che la verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed ex ante, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. Nel caso di specie, la S.C. ha escluso, pur in assenza della nomina di un curatore speciale, la ricorrenza di tale conflitto tra il figlio minore e la madre, attesa l'attività processuale effettivamente svolta da quest'ultima in favore del figlio il quale, raggiunta la maggiore età, aveva proposto ricorso per cassazione insieme alla madre, con il medesimo difensore che li aveva assistiti nei precedenti gradi del giudizio, Sez. 2, n. 01721/2016, D'Ascola, Rv. 638532.

La Corte ha sancito che è inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di designazione o nomina di un amministratore di sostegno che sono emanati in applicazione dell'art. 384 c.c. (richiamato dal successivo art. 411, comma 1, c.c.) e restano logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720-bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio, Sez. 1, n. 02985/2016, Bisogni, Rv. 638755.

La S.C. ha pure chiarito che il decreto della corte d'appello il quale nega l'apertura dell'amministrazione di sostegno è ricorribile per cassazione, Sez. 6-1, n. 14983/2016, Acierno, Rv. 640716.

16. Incapacità naturale e processo.

Proposta domanda di annullamento di un testamento olografo per incapacità naturale del testatore, ha chiarito il giudice di legittimità, costituisce domanda nuova la richiesta, formulata in sede di memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo vigente anteriormente all'1 marzo 2006), di annullamento del medesimo testamento per altro motivo (nella specie, difetto di data), fondando le due azioni, pur nella identità di petitum, su fatti costitutivi diversi, né potendo il giudice rilevare ex officio l'annullabilità dell'atto di ultima volontà per tale diversa ragione, mancando una norma che espressamente gli riconosca tale potere, Sez. 2, n. 00698/2016, Criscuolo, Rev. 638366.

In tema di invalidità negoziali, la Corte ha statuito che il giudicato formatosi sull'insussistenza dell'incapacità naturale, richiesta per l'annullamento contrattuale ex art. 428 c.c., è inopponibile nel giudizio volto a far dichiarare la nullità del medesimo contratto per circonvenzione di incapace atteso che, mentre l'art. 428 c.c. richiede l'accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità di intendere e di volere, ai fini dell'art. 643 c.p. è, invece, sufficiente che l'autore dell'atto versi in una situazione soggettiva di fragilità psichica derivante dall'età, dall'insorgenza o dall'aggravamento di una patologia neurologica o psichiatrica anche connessa a tali fattori o dovuta ad anomale dinamiche relazionali che consenta all'altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio, Sez. 1, n. 10329/2016, Acierno, Rv. 639668.

17. Il bambino con due madri.

La S.C. ha spiegato che il giudice nazionale, chiamato a valutare la compatibilità con l'ordine pubblico dell'atto di stato civile straniero (nella specie, dell'atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, deve verificare non già se quell'atto applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto a più norme interne (benché imperative o inderogabili), ma se contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo desumibili dalla Costituzione, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641309. Nella medesima decisione il giudice di legittimità ha deciso che è riconoscibile in Italia un atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due donne (una che l'ha partorito e l'altra che ha donato l'ovulo), atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641314. Ancora è stato chiarito che la regola secondo cui è madre colei che ha partorito, come previsto dall'art. 269, comma 3, c.c., non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale, sicché è riconoscibile in Italia l'atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che un bambino, nato da un progetto genitoriale di coppia, è figlio di due madri (una che l'ha partorito e l'altra che ha donato l'ovulo), non essendo opponibile un principio di ordine pubblico desumibile dalla suddetta regola, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641313.

18. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario contratto da uno dei coniugi per metus reverentialis, postula che la corte d'appello verifichi la compatibilità della qualificazione canonistica della suddetta causa di nullità matrimoniale con l'ordine pubblico italiano, valutando in concreto che non si sia trattato di una mera reverentia dovuta a persona cui uno degli sposi era legato da particolare rapporto, ma unicamente di situazioni tali da integrare gli estremi della gravità, estrinsecità e decisività ai fini della formazione del consenso, Sez. 1, n. 01749/2016, Lamorgese, Rv. 638577.

In materia di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, la richiesta del convenuto di negare il riconoscimento degli effetti civili a causa della convivenza ultratriennale dei coniugi, costituisce una eccezione in senso stretto, che deve essere proposta nella comparsa di risposta a pena di decadenza. La Corte ha ribadito il principio, specificando che non vi è la possibilità di conseguire una rimessione in termini (come invece affermato da Sez. 1, n. 25676/2015, Rv. 638192), Sez. 1, n. 26188/2016.

  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XLII

I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE AD ORDINANZA INGIUNZIONE

(di Luca Varrone )

Sommario

1 Premessa. - 2 Principi comuni in materia di sanzioni amministrative. - 3 In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie. - 4 Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada. - 5 Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito. - 6 Altre pronunce di interesse.

1. Premessa.

Nel presente capitolo, come è avvenuto per la rassegna 2015, viene trattato, sia sotto il profilo processuale che sotto quello sostanziale, l'intero tema delle sanzioni amministrative e del relativo procedimento nei casi soggetti alla giurisdizione del Giudice ordinario.

Il capitolo, pertanto, comprende oltre al tradizionale giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, anche i procedimenti di opposizione nei confronti delle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob e dalla Banca d'Italia. Com'è noto, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n.162 del 2012 e n. 94 del 2014, tali giudizi sono ritornati alla giurisdizione ordinaria, cui spettavano prima dell'approvazione del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo). Il decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 sulla semplificazione dei riti, ha stabilito un'applicazione generalizzata della disciplina del processo del lavoro per le controversie in tema di opposizione a sanzioni amministrative ex lege 24 novembre 1981, n. 689. Al momento del- la riforma i giudizi nei confronti delle sanzioni comminate dalla Consob e dalla Banca d'Italia erano stati già devoluti al TAR Lazio per effetto dell'abrogazione operata dal citato d.l.gs. n. 104 del 2010, rispettivamente degli artt. 187 septies, commi, 4-8 e 195, commi 4-8, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF), e dell'art. 145 commi 4-8, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (TUB), sicché era del tutto pacifica la loro estraneità all'ambito di operatività della nuova disciplina. Oggi, a seguito della citata declaratoria di incostituzionalità, il rito applicabile ha come principale punto di riferimento quello dell'opposizione ad ordinanza ingiunzione di qui la trattazione nel presente capitolo.

La materia delle sanzioni amministrative è molto vasta e del tutto eterogenea. Sotto il profilo quantitativo deve evidenziarsi che l'Ufficio del massimario ha proceduto alla massimazione di 18 sentenze relativamente alla violazione delle norme del testo unico bancario e finanziario, a 13 sentenze relativamente alla violazione del codice della strada a 8 sentenze relativamente al rito e a 9 sentenze relativamente a tutti gli altri settori.

Si rende necessario, pertanto, dopo un primo paragrafo avente ad oggetto i principi comuni in materia, dedicare un intero paragrafo rispettivamente sia alle violazioni in materia bancaria e societaria che a quelle relative al codice della strada. Seguirà un paragrafo dedicato esclusivamente alle pronunce aventi ad oggetto il rito. Infine si riporteranno nel paragrafo finale le restanti pronunce in materia di sanzioni amministrative, non ricomprese tra quelle relative al codice della strada o alle violazioni finanziarie e bancarie.

2. Principi comuni in materia di sanzioni amministrative.

Le pronunce del 2016 che stabiliscono principi comuni a tutta l'ampia materia delle sanzioni amministrative si segnalano prevalentemente per aver dato continuità a orientamenti giurisprudenziali già affermatisi in passato e che caratterizzano tradizionalmente il regime peculiare delle sanzioni amministrative.

In tal senso, ad esempio, Sez. 1, n. 02406/2016, Di Marzio, Rv. 638467, ha ribadito che in tema di sanzioni amministrative, l'art. 3 della l. n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell'autore del fatto vietato, riservando a questi l'onere di provare di aver agito senza colpa. Il caso riguardava un provvedimento sanzionatorio emesso dalla Banca d'Italia nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione, del collegio sindacale e della direzione di una banca, per inosservanza delle istruzioni relative all'organizzazione amministrativa e contabile ed omesso invio delle prescritte segnalazioni all'istituto d'emissione. Nella specie si è detto che spetta ai destinatari della sanzione dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore, rimanendo, comunque, irrilevante, ai fini dell'esclusione della colpa, che la situazione in cui versava la banca fosse preesistente al loro insediamento.

Allo stesso modo, Sez. 1, n. 13433/2016, Bernabai, Rv. 640354 e Sez. 1, n. 04114/2016, Terrusi, Rv. 638803, hanno chiarito che il principio del cd. favor rei non opera nella materia delle sanzioni amministrative e che, in assenza di una specifica disposizione, deve trovare applicazione il distinto principio del tempus regit actum: sicché si è ritenuto che le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998, apportate dal decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72, non si applicano alle violazioni commesse prima dell'entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d'Italia, poiché in tal senso dispone l'art. 6 del d.lgs. n. 72 cit.. Nell'affermare tale principio, si è anche aggiunto che non possono dirsi violati i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 (Grande Stevens ed altri c/o Italia) atteso che tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale.

Sez. 1, n. 04114/2016, Terrusi, Rv. 638803 ha, inoltre, anche affermato che, in materia di sanzioni amministrative, il principio di tipicità e di riserva di legge, stabilito dall'art. 1 della l. n. 689 del 1981, vieta che l'illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie, ma non esclude che i precetti della legge, sufficientemente individuati, siano eterointegrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare. In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto legittimo che l'art. 5, comma 3, del regolamento Consob n. 11971 del 1999 integri gli artt. 191 e 94 del d.lgs. n. 58 del 1998 con riferimento al contenuto dell'attestazione, da allegarsi da parte dell'intermediario finanziario al prospetto informativo sul collocamento di titoli di nuova emissione ed avente ad oggetto le informazioni rilevanti di cui sia venuto a conoscenza nel corso delle verifiche effettuate.

Sempre sotto il profilo sostanziale, Sez. 1, n. 02406/2016, Di Marzio, Rv. 638468, ha precisato che, quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla relativa sanzione salvo che sia diversamente stabilito dalla legge (art. 5 della l. n. 689 del 1981), restando, in tal modo, la pena pecuniaria applicabile a tutti coloro che abbiano offerto un contributo alla realizzazione dell'illecito, concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutti gli atti dei quali l'evento punito costituisce il risultato. Nel confermare il principio la S.C., ha ritenuto che esso non subisce alcuna deroga per le sanzioni amministrative previste dall'art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo di istituti bancari.

Con la medesima sentenza si è anche data continuità al principio secondo il quale la quantificazione delle sanzioni rientra nel potere discrezionale del giudice che può determinarne l'entità, entro i limiti sanciti dalla legge, allo scopo di commisurarla all'effettiva gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall'art. 11 della l. n. 689 del 1981, quali la gravità della violazione, la personalità dell'agente e le sue condizioni economiche.

Sez. 2, n. 06737/2016, Parziale, Rv. 639489, ha confermato il principio secondo cui, ai sensi dell'art. 7 della l. n. 689 del 1981, la morte dell'autore della violazione comporta l'estinzione dell'obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall'Amministrazione, la quale non si trasmette agli eredi con conseguente cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione all'ordinanza-ingiunzione. Nella specie si è detto che la cessazione della materia del contendere può essere pronunciata anche in sede di legittimità, ove il decesso sia documentato ex art. 372 c.p.c.

Non si riscontrano precedenti, invece, rispetto a quanto affermato da Sez. 2, Sentenza n. 02956/2016, Picaroni, Rv. 638970, in riferimento al principio di offensività; in tale occasione è stato chiarito che, in tema di sanzioni amministrative, la valutazione circa l'offensività, in concreto, del comportamento del trasgressore non rileva quale causa di esclusione della responsabilità, salva la sua sussumibilità nell'esimente della buona fede, giacché l'idoneità della condotta a realizzare l'effetto vietato è stata valutata ex ante dal legislatore con la previsione della norma sanzionatoria.

Una importante sentenza, Sez. U, n. 23397/2016, Tria, Rv. 641633, ha stabilito il principio, di carattere generale, secondo cui la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non anche la cd. "conversione" del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell'art. 2953 c.c., si applica con riguardo a tutti gli atti – in ogni modo denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali, ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali, nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Pertanto, ove per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l'opposizione, non consente di fare applicazione dell'art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo.

Con ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 26063/2016, Scarpa, ha rimesso alle sezioni unite la risoluzione di un contrasto nella giurisprudenza della Corte circa l'interpretazione degli artt. 6 e 14 della l. n. 869 del 1981. In particolare la questione oggetto di contrasto concerne la natura e la funzione della responsabilità dell'obbligato solidale ex art. 6 della l. n. 689 del 1981, nonché, di riflesso, gli effetti dell'estinzione dell'obbligazione principale per mancanza o intempestività della contestazione al trasgressore in relazione alla possibilità, per l'obbligato solidale che abbia pagato la sanzione, di esperire l'azione di regresso.

Secondo un primo orientamento, l'estinzione dell'obbligazione dell'autore materiale dell'infrazione comporta ex se anche l'esclusione dell'obbligazione gravante sull'obbligato solidale, dovendosi riconoscere carattere principale all'obbligazione incombente sul primo dei due soggetti, nonché un rapporto di accessorietà e dipendenza alla posizione del secondo. Un'opposta interpretazione afferma che il vincolo intercorrente, ai sensi dell'art. 6, comma 3, della legge n. 689 del 1981, tra l'autore materiale della violazione e la persona giuridica di cui è prevista la responsabilità solidale, assume rilevanza nel solo caso in cui l'Amministrazione se ne avvalga in concreto, agendo contro ambedue gli obbligati oppure contro uno o l'altro di essi. Tale vincolo di solidarietà non assumerebbe, quindi, rilevanza nell'ipotesi in cui l'Amministrazione proceda alla contestazione nei confronti dell'uno o dell'altro degli obbligati, rimanendo l'effetto estintivo della pretesa sanzionatoria limitato al soggetto nei cui riguardi non sia stata eseguita la notifica, come stabilisce l'art. 14, ultimo comma, legge n. 689 del 1981.

3. In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie.

Le pronunce in materia di sanzioni amministrative per violazioni del testo unico bancario e finanziario, anche per il 2016, si caratterizzano prevalentemente in relazione all'esigenza di assimilare e assorbire l'impatto della già citata sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, del 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia nel nostro ordinamento, soprattutto in relazione al principio di natura convenzionale secondo il quale al destinatario delle sanzioni che presentano un carattere di afflittività, anche se qualificate come amministrative, devono essere riconosciute tutte le garanzie proprie delle sanzioni penali.

A tal proposito Sez. 2, n. 03656/2016, Matera, Rv. 638686, ha negato il carattere di afflittività alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d'Italia ai sensi dell'art. 144 TUB per carenze nell'organizzazione e nei controlli interni. La Corte ha ritenuto che tali sanzioni non siano equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate dalla CONSOB ai sensi dell'art. 187-ter TUF per manipolazione del mercato e, pertanto, ne ha escluso la natura sostanzialmente penale, natura che in precedenza aveva invece riconosciuto a queste ultime. L'esclusione del carattere di afflittività delle suddette sanzioni ha determinato il superamento di ogni problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall'art. 6 CEDU.

Sul piano procedurale invece, Sez. 2, n. 08210/2016, Cosentino, Rv. 639663, ha affermato che, nel procedimento amministrativo sanzionatorio previsto dall'art. 187-septies del d.lgs. n. 58 del 1998, l'omessa previsione della trasmissione all'interessato delle conclusioni dell'Ufficio sanzioni amministrative, e la conseguente impossibilità di interloquire, non si pone in contrasto con l'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, quando – come stabilito dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia –, pur avendo le sanzioni natura sostanzialmente penale, il provvedimento con cui le stesse vengono irrogate sia assoggettato – come, appunto, quello adottato ex art. 187 septies cit., anche nel testo vigente ratione temporis – ad un sindacato giurisdizionale pieno, attuato nell'ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo.

Nella sostanza la suddetta sentenza, in linea con la Corte EDU, ha ribadito che anche con riferimento alle sanzioni amministrative aventi carattere di afflittività e, quindi, assimilabili a quelle penali, il procedimento sanzionatorio può derogare al principio del contraddittorio qualora sia prevista una successiva fase giurisdizionale dove le garanzie della difesa possano trovare piena esplicazione.

Sez. 5, n. 20675/2016 Chindemi, Rv. 641302, con ordinanza interlocutoria, ha rimesso alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale la questione se l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, interpretato alla luce dell'art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto (condotta illecita di manipolazione del mercato) per il quale il medesimo soggetto abbia riportato condanna penale irrevocabile. Il caso è particolarmente interessante perché è una delle primissime volte che viene sollevata, dinanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione europea una questione pregiudiziale attinente la violazione di una norma della Carta dei diritti fondamentali come interpretata dalla Corte dei diritti dell'Uomo.

Nel caso di specie era stata emesso un provvedimento sanzionatorio con cui la Consob aveva irrogato la sanzione amministrativa pecuniaria di € 10.200.000,00, ai sensi dell'art. 187ter T.U.F. in relazione alla condotta illecita di manipolazione del mercato. Nelle more l'autore della violazione era stato sottoposto a procedimento penale per i medesimi fatti per i quali gli era stata comminata la sanzione amministrativa, procedimento conclusosi con sentenza di patteggiamento, divenuta definitiva, con cui veniva prevista la pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione, ridotta ad anni 3 per la scelta del rito e, quindi, estinta per indulto ex l. n. 241 del 2006. Congiuntamente alla pena principale erano state applicate anche le pene accessorie. della: a) interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata di anni tre; b) incapacità di contrattare con la P.A. per anni 3, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio, c) interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per anni 3; d) interdizione perpetua dall'ufficio di componente di commissione tributaria; e) pubblicazione della sentenza su due quotidiani di rilevanza nazionale; f) interdizione dai pubblici uffici per anni 3.

La Corte nella motivazione, in primo luogo premette che nell'ordinamento giuridico italiano la sentenza di patteggiamento va assimilata a quella penale di condanna e, subito dopo, rammenta che la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale, dell'art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014 e alla luce l'applicazione dei principio del ne-bis in idem di cui agli artt. 2 e 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU). In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che l'ordinanza di rimessione non aveva sciolto "il nodo" dei rapporti tra concetto di nebis idem desumibile dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come interpretata dalla Corte EDU, e concetto di ne-bis in idem nel market abuse, come desumibile dal sistema UE. La Corte, quale giudice di ultima istanza obbligata a sottoporre alla Corte di giustizia UE le questioni d'interpretazione pregiudiziale della normativa euro unitaria, rimette alla Corte di Giustizia il quesito interpretativo sopra indicato al fine dello scioglimento in maniera netta dei predetti nodi. Infatti, secondo i supremi giudici non sussistono dubbi, alla luce dei principi CEDU, della natura sostanzialmente penale della sanzione amministrativa effettivamente comminata (afflittiva e munita di funzione deterrente). Pertanto l'obbligatorietà delle sanzioni amministrative, aventi natura afflittiva, nei sistema degli illeciti di market abuse sembrerebbe contrastare col sistema del c.d. divieto del ne-bis in idem, così come interpretato dal diritto dell'unione, allorché sia stata preliminarmente emessa una sanzione penale preclusiva della comminatoria della sanzione amministrativa. Il divieto del cd.-bis in idem vieta di sanzionare, in diversi processi, due volte lo stesso illecito, impedendo allo stato membro di comminare una violazione amministrativa di natura penale in presenza di comminatoria di una sanzione penale per gli stessi fatti. La mancata previsione dell'allargamento del principio ne-bis in idem anche ai rapporti tra sanzione penale e amministrativa di natura penale appare non conforme ai principi unionali, ritenendosi contraria ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest'ultima abbia natura di sanzione penale. A proposito della presunzione di colpa posta dall'art. 3 della l. n. 689 del 1981, Sez. 1, n. 04114/2016, Terrusi, Rv. 638801, ha affermato che, anche in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il d.lgs. n. 58 del 1998 individua una serie di fattispecie a carattere ordinatorio, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate su mere condotte considerate doverose, sicché il giudizio di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con limitazione dell'indagine sull'elemento oggettivo dell'illecito all'accertamento della suitas della condotta inosservante, per cui, una volta integrata e provata dall'autorità amministrativa la fattispecie tipica dell'illecito, grava sul trasgressore, l'onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza.

Sez. 2, Sentenza n. 04826/2016, Cosentino, Rv. 639176, ha affrontato il tema dell'incidenza dell'annullamento della delibera adottata dalla CONSOB contenente il regolamento sul procedimento sanzionatorio, rispetto ai ricorsi per cassazione già proposti. Con tale pronuncia si è detto che non è ammissibile alcuna rimessione in termini per la proponibilità di motivi aggiunti fondati su tale annullamento giacché, non investendo esso una norma processuale, né precludendo l'esercizio del diritto di azione o di difesa, non risultano applicabili i principi elaborati in materia di overruling.

Sul piano sostanziale, invece, Sez. 1, n. 06037/2016, Lamorgese, Rv. 639053 ha chiarito che la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l'esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functione, gravando sui sindaci, da un lato, l'obbligo di vigilanza – in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob, a garanzia degli investitori – e, dall'altro lato, l'obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d'Italia ed alla Consob.

Sez. 2, n. 06738/2016, Falaschi, Rv. 639638, ha ribadito il principio secondo il quale, qualora la sanzione sia stata inflitta all'Ente, quale responsabile in solido, l'obbligatorietà dell'azione di regresso prevista dall'art. 195, comma 9, del d.lgs. n. 58 del 1998 nei confronti del responsabile, comporta che alla persona fisica autrice della violazione, anche se non ingiunta del pagamento, deve essere riconosciuta un'autonoma legittimazione ad opponendum, che le consenta tanto di proporre separatamente opposizione quanto di spiegare intervento adesivo autonomo nel giudizio di opposizione instaurato dalla società, configurandosi in quest'ultimo caso un litisconsorzio facoltativo, e potendosi, nel primo caso, evitare un contrasto di giudicati mediante l'applicazione delle ordinarie regole in tema di connessione e riunione di procedimenti.

Con la medesima pronuncia si è anche detto che, in caso di inerzia della persona fisica, il giudicato formatosi nel giudizio di opposizione intentato dalla società spiega effetti nel successivo giudizio di regresso quanto ai fatti accertati, mentre, in caso di mancata opposizione da parte della società non si verifica alcuna preclusione e la persona fisica potrà, in sede di regresso, spiegare tutte le opportune difese anche sul merito della sanzione.

Un altro consolidato principio ha trovato conferma in Sez. 2, n. 08687/2016, Falaschi, Rv. 639747, con riferimento al momento di decorrenza del termine entro il quale l'amministrazione deve procedere alla contestazione degli illeciti: a tal proposito si è detto che il momento dell'accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte della Consob, va individuato in quello in cui la constatazione si è tradotta, o si sarebbe potuta tradurre, in accertamento, dovendosi a tal fine tener conto, oltre che della complessità della materia, delle particolarità del caso concreto anche con riferimento al contenuto ed alle date delle operazioni, tanto più ove la violazione sia riferibile ad un tempo ben determinato e circoscritto.

Nel caso di specie in applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha cassato la decisione impugnata che, senza illustrarne le ragioni, aveva ritenuto la liceità della sanzione nonostante fossero decorsi oltre tre anni e mezzo dai fatti, in relazione ai quali la Consob aveva compiuto gli ultimi atti di indagine a distanza di oltre due anni dalla prima valutazione del materiale acquisito.

Sempre in tema di termine per la contestazione Sez. 2, n. 09643/2016, Manna, Rv. 639878, ha ritenuto che a seguito della trasformazione di illeciti penali in illeciti amministrativi (nella specie, con riguardo all'ipotesi di abuso di informazioni privilegiate in materia di intermediazione finanziaria), tanto ai sensi dell'art. 9 della legge 18 aprile 2005, n. 62, quanto ai sensi dell'art. 41, comma 1, della l. n. 689 del 1981 (la prima in rapporto di specialità con la seconda), il termine di centottanta giorni entro cui deve avvenire la contestazione dell'illecito decorre non dalla comunicazione della sola copia del provvedimento conclusivo del procedimento o del processo penale, ma dalla trasmissione degli atti all'autorità amministrativa (nella specie, la CONSOB), trattandosi di attività che realizza un continuum procedimentale diretto a trasferire nella sede amministrativa il patrimonio di conoscenze del fatto formatosi in quella penale.

Con riferimento a singole violazioni, due casi particolarmente interessanti hanno riguardato l'art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF), che sanziona «chiunque, tramite mezzi di informazione, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari».

Sez. 2, n. 09644/2016, Manna, Rv. 639917, ha interpretato la norma citata nel senso che la parola "ovvero" non significa "cioè", sì da equiparare i due termini "false" e "fuorvianti" e considerare decettive solo le notizie che abbiano in concreto fuorviato il mercato degli strumenti finanziari. Si è invece attribuito alla parola "ovvero" un valore disgiuntivo, sicché per "false" devono intendersi le notizie oggettivamente non vere mentre per "fuorvianti" quelle che inducono in errore circostanziando un fatto vero con aggiunte od omissioni suggestive. Dunque la norma vieta tanto le notizie false quanto quelle fuorvianti che siano anche solo suscettibili di alterare il mercato.

Con la medesima pronuncia si è inoltre ritenuto che taluni affermazioni riguardanti la valutazione in eccesso dei derivati negoziati da una banca, non fossero notizie o informazioni false, bensì giudizi tecnici opinabili, rientranti nella libera manifestazione del pensiero.

Con altra decisione, Sez. 2, n. 14059/2016, Manna, Rv. 640184, ha affermato che, ai sensi dell'art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, non può integrare "notizia falsa" una stima mark to market, perché questa, esprimendo una valutazione condizionata dal metodo di calcolo, sfugge all'alternativa secca tra vero e falso.

Infine, si è ritenuto che l'art. 21 octies, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall'art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha carattere processuale, ed è pertanto applicabile con effetto retroattivo anche ai giudizi di opposizione in corso, ancorché promossi in epoca successiva alla sua emanazione, sicché gli eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dall'art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, che si svolge innanzi alla Consob, non sono rilevanti, sia in ragione della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, sia della immodificabilità del suo contenuto, Sez. 1, n. 13433/2016, Bernabai, Rv. 640355.

4. Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada.

In tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada devono segnalarsi, in primis, alcune sentenze che hanno un rilevante impatto sul contenzioso. Si tratta, infatti, di pronunzie che hanno deciso questioni oggetto di migliaia di cause pendenti presso gli uffici giudiziari di tutto il nostro Paese.

Prime fra tutte, due decisioni in materia di accertamento delle violazioni sui limiti di velocità, che hanno ribadito l'obbligo di segnalare la presenza delle apparecchiature automatiche di rilevamento della velocità in mancanza delle quali la contestazione è illegittima. In particolare, Sez. 2, n. 15899/2016, Manna, Rv. 640570, ha ritenuto che «in tema di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità compiuto a mezzo di apparecchiatura di controllo comunemente denominata "autovelox", l'art. 4 del d.l. n. 121 del 2002, conv. in l. n. 168 del 2002 – per cui dell'installazione dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo deve essere data preventiva informazione agli automobilisti – non prevede un obbligo rilevante esclusivamente nell'ambito dei servizi organizzativi interni della P.A., ma è finalizzato ad informare gli automobilisti della presenza dei dispositivi di controllo medesimi, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di infrazioni, con conseguente nullità della sanzione eventualmente irrogata in violazione di tale previsione». Nello stesso senso si è espressa Sez. 2, n. 09033/2016, Oricchio, Rv. 639939, secondo cui «in materia di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità, compiuto mediante dispositivi o mezzi tecnici di controllo, il cartello di avviso della presenza della postazione di rilevamento deve essere apposto in modo da garantirne la corretta percepibilità e leggibilità, ex art.79, comma 5, del d.p.r. n. 495 del 1992, sicché è illegittimo l'accertamento eseguito mediante foto-rilevazione avvenuta prima (nella specie, a più di duecento metri) del cartello mobile di avviso».

Sui limiti del potere di accertamento dei dipendenti delle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone, si è espressa Sez. 2, n. 02973/2016, Criscuolo, Rv. 638925, secondo cui tali dipendenti con funzioni ispettive ai quali, ai sensi dell'art. 17, comma 133, della l. n. 127 del 1997, siano state conferite le funzioni di cui al comma 132 del citato articolo, possono accertare le violazioni in materia di circolazione e sosta limitatamente alle corsie riservate al trasporto pubblico, ex art. 6, comma 4, lett. c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, con esclusione, quindi, dell'esercizio di tali funzioni relativamente ad ogni altra area del territorio cittadino.

Sez. 2, n. 16258/2016, Giusti, Rv. 641006, ha chiarito che non costituisce inadempimento contrattuale ma illecito amministrativo la sosta a pagamento su suolo pubblico che si protragga oltre l'orario per il quale è stata corrisposta la tariffa. In tali casi, pertanto, è legittima la sanzione di cui all'art. 7, comma 15, C.d.s., trattandosi di evasione tariffaria in violazione delle prescrizioni della "sosta regolamentata", introdotte per incentivare la rotazione e la razionalizzazione dell'offerta di sosta.

Con altra sentenza si è chiarito il rapporto tra la violazione dell'obbligo di comunicare il conducente del mezzo al momento dell'infrazione e l'infrazione stessa. A tal proposito Sez. 6-2, n. 07003/2016, Correnti, Rv. 639472, ha ritenuto che, ove la contestazione della violazione principale sia avvenuta tardivamente, va esclusa la sussistenza dell'obbligo per il proprietario del veicolo di comunicare gli estremi del conducente del mezzo al momento del rilevamento dell'infrazione, in quanto la tempestività della contestazione risponde alla ratio di porre il destinatario in condizione di difendersi, considerato che il trascorrere del tempo rende evanescenti i ricordi.

Sez. 2, n. 08415/2016, Falabella, Rv. 639688, ha stabilito che l'obbligo di preventiva informazione del trattamento dei dati personali operato a mezzo di dispositivi elettronici per la rilevazione della violazioni al codice della strada, introdotto a carico dei Comuni dalla delibera del Garante per la protezione dei dati personali dell'8 aprile 2010, in attuazione dell'art. 13 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, è correlato funzionalmente al rispetto di un obbligo di riservatezza e non mira, invece, a disciplinare la condotta di guida, sicché la sua inosservanza, a differenza della violazione degli obblighi di informazione previsti dal codice della strada circa la presenza delle dette apparecchiature che costituiscono norme di garanzia per l'automobilista, non incide sulla legittimità dell'accertamento e l'irrogazione della sanzione.

Secondo Sez. 6 – 2, n. 23564/2016, Falaschi, Rv. 641677, il giudizio di opposizione a fermo amministrativo conseguente a violazioni del codice della strada, ai sensi del combinato disposto dell'art. 205 d. lgs. n. 285 del 1992 e dell'art. 22-bis l. n. 689 del 1981, che attribuisce al giudice di pace la competenza per materia a provvedere sulle opposizioni avverso gli atti di contestazione o di notificazione di violazioni del codice della strada, senza alcun limite di valore, è di competenza del giudice di pace, giacché il provvedimento opposto non ha natura di atto di espropriazione forzata, ma di procedura a questa alternativa, trattandosi di misura puramente afflittiva volta ad indurre il debitore all'adempimento e, dunque, la sua impugnativa, sostanziandosi in un'azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione in tema di riparto della competenza per materia e per valore.

Sulla procedura di contestazione Sez. 2, n. 09974/2016, Lombardo, Rv. 639758, ha precisato che il verbale di contestazione della infrazione deve contenere gli estremi dettagliati e precisi della violazione, a norma dell'art. 201 cod. strada, come ribadito dall'art. 383, comma 1, del relativo regolamento di esecuzione, con riguardo al "giorno, ora e località", prescrizioni dirette a garantire l'esercizio del contraddittorio da parte del presunto contravventore. (Nella specie si è ritenuta priva di fondamento la doglianza relativa alla mancata indicazione del numero civico, essendo sufficiente l'indicazione nel verbale della strada).

Nello stesso senso Sez. 2, n. 00462/2016, Matera, Rv. 638212, secondo cui, la validità della contestazione, quale che sia la forma usata, dipende unicamente dalla sua idoneità a garantire l'esercizio del diritto di difesa al quale è preordinata, e solo tale accertata inidoneità può essere causa di nullità del verbale e della successiva ordinanza-ingiunzione.

Per le violazioni avvenute in epoca antecedente l'introduzione dell'art. 224-ter del codice della strada, Sez. 2, n. 01419/2016, Matera, Rv. 638827, ha negato la possibilità di comminare la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo "adoperato per commettere un reato", ai sensi dell'art. 213, comma 2-sexies, cod. strada (nel testo applicabile ratione temporis), essendo necessario l'accertamento del reato da parte del giudice penale, attesa l'inapplicabilità dell'art. 224 stesso codice, che, con riguardo alle sanzioni della sospensione e della revoca della patente, attribuisce al Prefetto, in caso di estinzione del reato per cause diverse dalla morte, il potere di accertare la sussistenza dei relativi presupposti e di irrogare le conseguenti misure, trattandosi di disposizione speciale non suscettibile di applicazione analogica per il principio di tassatività delle sanzioni amministrative.

Sulla possibilità per i viceprefetti di disporre la sospensione della patente di guida Sez. 6-2, n. 13832/2016, Parziale, Rv. 640186, ne ha riconosciuto l'ammissibilità, in quanto l'art. 4 del d.m. 4 agosto 2005 non contempla un'esclusione del potere di delega prefettizio, né l'esclusione può desumersi dalla ratio legis.

Sez. 6-2, n. 00167/2016, D'Ascola, Rv. 638728, ha ritenuto che la sanzione prevista dall'art. 23, comma 13-bis, cod. strada, per l'omessa rimozione di cartelli pubblicitari nel termine di dieci giorni dalla comunicazione della diffida dell'ente titolare della strada è autonoma e non accessoria rispetto alla diversa sanzione amministrativa di cui al comma 11 del citato art. 23 relativa all'abusiva installazione di detti cartelli, trattandosi di condotte differenti e a carico di soggetti diversi, rispettivamente il diffidato inadempiente all'obbligo di rimozione e l'installatore abusivo, sicché, la prima può essere applicata al soggetto inadempiente alla diffida, senza necessità della preventiva contestazione della condotta di installazione abusiva.

Sez. 6-2, n. 25868/2016, Correnti, in corso di massimazione, ha ribadito che, la nuova disposizione prevista dal comma 1-bis dell'art. 204 del codice della strada – secondo cui i termini di cui ai commi 1-bis e 2 dell'art. 203 e al comma 1 dello stesso art. 204 sono perentori e si cumulano fra loro ai fini della valutazione di tempestività dell'adozione dell'ordinanza-ingiunzione – deve intendersi nel senso che la cumulabilità dei due termini consente al Prefetto di usufruire – per il complessivo svolgimento della sua attività di accertamento e decisione – del tempo massimo previsto dalla somma delle due scansioni operative, ovvero di 60 giorni per la raccolta dei dati e le deduzioni degli accertatori e di 120 giorni per l'emissione del provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa, senza che, a tal fine, abbia alcuna incidenza sul computo totale di 180 giorni, l'eventuale trasmissione anticipata (ovvero prima della scadenza del termine massimo prescritto di sessanta giorni) degli atti di competenza da parte dell'organo accertatore.

Sez. 6-2, n. 25870/2016, Correnti, in corso di massimazione, ha nuovamente stabilito il principio secondo cui la sospensione provvisoria della patente di guida è misura cautelare di esclusiva spettanza prefettizia, necessariamente preventiva , strumentalmente e teleologicamente tesa a tutelare con immediatezza l'incolumità e l'ordine pubblico, e, per ciò stesso, oggetto di un particolare e celere iter procedimentale che riconosce all'Amministrazione la facoltà di adottare provvedimenti cautelari, anche prima dell'effettuazione della comunicazione dell'avvio del procedimento agli interessati, così escludendo anche la necessità di dare ingresso (e risposta) alle eventuali osservazioni di costoro, che altrimenti ricorrerebbe alla stregua delle regole generali (artt. 3, 7, comma l, 8 e 10 della legge n. 241 del 1990, art. 204, nuovo codice della strada, art. 18 della legge n. 689 del 1981).

Altro principio riaffermato in tema di violazioni delle norme del codice della strada da Sez. 6-2, n. 24999/2016, Picaroni, in corso di massimazione, riguarda la redazione del verbale redatto in forma meccanizzata. L'art. 385 del d.P.R. 16 dicembre 1992 n. 495 – regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada – prevede, al terzo comma, che, nel caso di contestazione non immediata, ai sensi dell'art. 201 del codice della strada, il verbale redatto dall'organo accertatore rimane agli atti dell'ufficio o comando, mentre ai soggetti ai quali devono essere notificati gli estremi viene inviato uno degli originali o copia autenticata a cura del responsabile dello stesso ufficio o comando, e che, allorquando il verbale sia stato redatto con sistema meccanizzato o di elaborazione dati, esso viene notificato con il modulo prestampato recante la intestazione dell'ufficio o comando predetti. Tale norma è stata interpretata nel senso che il modulo prestampato notificato al trasgressore, pur recando unicamente l'intestazione dell'ufficio o comando cui appartiene il verbalizzante, è parificato per legge in tutto e per tutto al secondo originale o alla copia autenticata del verbale ed è, al pari di questi, assistito da fede privilegiata e che non è invalida la contestazione effettuata mediante notificazione del verbale redatto dal sistema informatico, ancorché l'atto notificato non rechi l'attestazione di conformità al documento informatico.

Chiude la rassegna in materia di violazioni al codice della strada Sez. 2, n. 16310/2016, Cosentino, Rv. 640997, che si è occupata della circolazione con targa di prova, individualmente autorizzata, stabilendo che, ai sensi dell'art. 1 del d.P.R. 24 novembre 2001, n. 474, la stessa possa avvenire in deroga al disposto di cui agli artt. 78, 93, 110 e 114 del d.lgs. n. 285 del 1992, ma non all'art. 80 del d.lgs. cit., sicché non può ritenersi consentita la circolazione, neppure in prova, di un veicolo non presentato per la revisione.

5. Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito.

Una prima decisione avente ad oggetto il rito riguarda la motivazione dell'ordinanza ingiunzione che, nell'irrogare al trasgressore una sanzione amministrativa, abbia disatteso le deduzioni difensive presentate dal contravventore. Secondo Sez. 2, n. 02959/2016, Picaroni, Rv. 638872, sotto il profilo del vizio motivazionale è censurabile dal giudice dell'opposizione unicamente l'ordinanza ingiunzione che sia del tutto priva di motivazione (ovvero questa sia solo apparente) e non anche quella la cui motivazione risulti insufficiente, atteso che l'eventuale giudizio di inadeguatezza motivazionale involge una valutazione di merito che non compete al giudice ordinario, concernendo il giudizio di opposizione non l'atto della P.A., ma il rapporto sottostante.

In tema di mutamento dei termini della contestazione rispetto all'originario verbale di accertamento della violazione, Sez. 2, n. 04725/2016, Cosentino, Rv. 639147, ha affermato che è possibile solo una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto accertato e non anche la contestazione di un fatto nuovo. In particolare si è detto che in caso di mutamento della qualificazione giuridica del fatto oggetto dell'accertamento, sulla cui base l'ente irrogatore abbia ritenuto di passare dalla contestazione di un illecito a quella di un altro, non determina alcuna violazione del diritto di difesa, mantenendo il trasgressore la possibilità di contestare l'addebito in relazione all'unico fatto materiale accertato nel rispetto delle garanzie del contraddittorio.

Con altro arresto, Sez. 6-2, n. 09355/2016, Manna, Rv. 639937, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di convalida per mancata comparizione dell'opponente, ex art. 23, comma 5, della l. n. 689 del 1981, qualora lo stesso sia stato proposto oltre il termine di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., senza che sia invocabile il disposto di cui al comma 2 dell'art. 327 medesimo, dovendosi ritenere che l'opponente abbia sempre sicura conoscenza del processo per averlo iniziato con il deposito del ricorso in opposizione, sicché, ove non abbia notizia, entro un ragionevole lasso di tempo, della fissazione dell'udienza, è tenuto ad attivarsi per conoscere gli sviluppi processuali del giudizio, usando la normale diligenza, come l'ordinamento – nel prevedere il suddetto termine di decadenza – gli impone.

Sempre in tema di ricorso per cassazione avverso sentenze emesse nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione, devono citarsi altre due pronunce. La prima, Sez. 2, n. 09770/2016, Lombardo, Rv. 639892, ha precisato che, qualora l'amministrazione opposta sia rimasta contumace oppure si sia avvalsa, ai sensi dell'art. 23, comma 4, della l. n. 689 del 1981, della facoltà di farsi rappresentare da un proprio funzionario, il ricorso per cassazione, in deroga all'art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, deve essere proposto nei confronti della stessa Amministrazione e notificato presso la sua sede legale.; sotto altro profilo, invece, Sez. 2, n. 02961/2016, Picaroni, Rv. 638826, ha ribadito che, qualora sia stata proposta opposizione direttamente avverso il verbale di contestazione della violazione, la legittimazione passiva spetta all'amministrazione dalla quale dipendono gli agenti che hanno accertato la violazione, sicché ove il verbale sia stato elevato dalla Polizia municipale, legittimato a resistere all'opposizione è il Comune (e non, come nel caso di specie, il Consorzio di Polizia locale), traducendosi l'erronea identificazione, in assenza di intervento correttivo della cancelleria, non nell'inammissibilità del ricorso ma in vizio della sentenza, rilevabile per la prima volta in cassazione se la relativa questione non sia coperta da giudicato, perché non oggetto di espressa pronuncia a seguito di contestazione specifica.

Sez. 6-2, n. 16853/2016, Parziale, Rv. 640996, ha affermato la natura ordinatoria e non perentoria del termine di cui all'art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 150 del 2011, per il deposito della documentazione strettamente connessa all'atto impugnato. La norma citata, infatti, prevede testualmente che: «con il decreto di cui all'articolo 415, secondo comma, del codice di procedura civile il giudice ordina all'autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell'udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione. Il ricorso ed il decreto sono notificati, a cura della cancelleria, all'opponente ed ai soggetti di cui al comma 5» e, dunque, non prevede alcuna decadenza, a differenza di quanto stabilito dall'art. 416 c.p.c. che si applica, per il richiamo operato dal comma 1 del medesimo art. 7, per gli altri documenti depositati dall'Amministrazione.

Devono essere segnalate, infine, altre due sentenze più strettamente legate alla fase dell'esecuzione: da un lato, Sez. 6-3, n. 12351/2016, Barreca, Rv. 640285, che ha nuovamente precisato che la notificazione della cartella di pagamento emessa per la riscossione di sanzioni amministrative, ai sensi della l. n. 689 del 1981 (e successive modificazioni), è disciplinata dall'art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, anche dopo la modificazione apportata a quest'ultima norma con l'art. 12 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, sicché la notifica può essere eseguita direttamente da parte dell'esattore mediante raccomandata con avviso di ricevimento; dall'altro, Sez. 3, n. 12412/2016, Barreca, Rv. 640411, per cui, in materia di violazioni del codice della strada, l'opposizione, proposta dopo il 6 ottobre 2011 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011) e con cui si deduca l'illegittimità della cartella esattoriale per sanzione amministrativa, per omessa notifica del verbale di contestazione della violazione, è soggetta al termine di trenta giorni stabilito dall'art. 7, comma 3, del medesimo d.lgs., perché l'impugnazione della cartella, in caso di omessa contestazione della violazione, ha funzione recuperatoria, venendo restituita al ricorrente la medesima posizione giuridica che avrebbe avuto se il verbale gli fosse stato notificato, sicché, se non impugnato nel predetto termine perentorio di trenta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, l'accertamento contenuto nel verbale di contestazione della violazione, anche se non notificato, diviene definitivo.

6. Altre pronunce di interesse.

La rassegna in materia di giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione si chiude con un paragrafo dedicato alle pronunce che hanno riguardato singole sanzioni amministrative. Tale paragrafo rende evidente come la materia delle sanzioni amministrative sia estremamente complessa e di difficile elaborazione organica. Infatti la nostra legislazione è disseminata di norme amministrative sanzionatorie nei settori più disparati, dalla salute alla sanità, dall'edilizia e urbanistica alle norme antinfortunistiche, dal commercio all'agricoltura, ciò impedisce una qualunque elaborazione sistematica, e costringe ad un elencazione frammentaria delle singole sanzioni nei più disparati settori.

Come si è detto, i principi generali in materia sono fissati dalla l. n. 689 del 1981, n. 689, che ha progressivamente acquisito una funzione paradigmatica all'interno della disciplina del potere sanzionatorio dell'amministrazione, tuttavia, tali principi sono applicabili solo in via residuale, ovvero in quanto compatibili e salvo deroga. L'art. 12 della legge 689 del 1981, stabilisce che le disposizioni del primo Capo «si osservano, in quanto applicabili e salvo quanto non sia diversamente stabilito per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale».

L'interprete, dunque, è chiamato a individuare la disciplina applicabile sulla base dei suddetti criteri, stabilendo di volta in volta se la singola disciplina di settore sia o meno derogatoria della legge n. 689 del 1981.

Venendo alle singole violazioni, si può individuare un primo gruppo di pronunce che hanno riguardato la materia del commercio. In particolare, in materia di violazioni della normativa in materia di etichettatura dei prodotti alimentari. Sez. 2, n. 17028/2016, Scarpa, Rv. 640841, ha stabilito che la competenza ad irrogare le sanzioni amministrative previste dagli artt. 2 e 18 del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 spetta all'Ispettorato centrale repressione frodi e non alle ASL, in quanto la principale finalità delle norme in materia è garantire la corretta informazione del consumatore sul bene commercializzato. Ancora in materia di sicurezza ed etichettatura delle merci Sez. 6-2, n. 18171/2016, Falaschi, Rv. 641097, ha affermato che, il dettagliante che immette sul mercato prodotti privi delle informazioni prescritte è sanzionabile, alla stregua di un'interpretazione sistematica della relativa disciplina, per la violazione degli obblighi informativi di cui all'art. 6 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, senza che possa invocare la propria buona fede per aver acquistato i prodotti da rivenditori autorizzati o grossisti, trattandosi di errore di diritto non scusabile, stante la semplicità degli adempimenti richiesti, basati su una conoscenza minima e necessaria della legislazione nazionale ed europea, tanto più che il suo operato si colloca nella fase in cui è maggiore l'esigenza di tutelare la libera autodeterminazione del consumatore.

Sempre in materia di tutela del consumatore nella commercializzazione dei prodotti alimentari Sez. 2, n. 03670/2016, Scarpa, Rv. 639109, ha stabilito che per i controlli di conformità alle norme di commercializzazione relative ai prodotti ortofrutticoli freschi, l'art. 10, comma 3, del Reg. CE n. 1148 del 2001 (applicabile ratione temporis) non richiede l'indicazione dei dati che consentono la tracciabilità della merce anche sul documento di trasporto interno (cd. "bolla XAB") relativo al trasporto dal deposito ad una filiale della medesima azienda, giacché l'obbligatorietà della previsione di tali estremi sui documenti di accompagnamento concerne solo i livelli della filiera a monte della destinazione finale del prodotto presso le piattaforme della grande distribuzione e non anche, ove dette prescrizioni siano state rispettate, i transiti a valle, da queste ultime ai singoli punti vendita.

Un'altra interessante pronuncia ha riguardato le sanzioni amministrative in materia di riservatezza dei dati. Secondo Sez. 2, n. 15908/2016, Scarpa, Rv. 640576, infatti, la struttura pubblica o privata che effettui il trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute dei pazienti nella prestazione di servizi sanitari relativi a una banca dati in rete telematica deve darne notifica al Garante per la protezione dei dati personali, agli effetti dell'art. 37, comma 1, lett. b, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, obbligo che non sussiste quando il trattamento sia effettuato manualmente tramite archivi cartacei o nell'ambito di servizi di assistenza telefonica o, comunque, mediante banche dati non collegate a reti telematiche.

Sez. 6-2, n. 00101/2016, Correnti, Rv. 638020, conferma e stablizza il precedente orientamento secondo cui configurano le ipotesi del gioco d'azzardo e dell'alea, concretando il divieto di cui all'art. 110, comma 7-bis del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (T.U.L.P.S.), le macchine da gioco che consentano la selezione dell'opzione "poker room" e distribuiscano premi, ancorché sotto forma di punti spendibili on line, atteso che costituisce vincita in denaro anche quella che comporta un risparmio sull'acquisto di un prodotto, mentre il fine di lucro che caratterizza il gioco illecito non deve di necessità tradursi in una somma di denaro, essendo sufficiente che si tratti di un guadagno economicamente apprezzabile.

In materia di sanzioni a tutela del lavoro Sez. 5, n. 13744/2016, Iannello, Rv. 640544, ha ritenuto che in caso di impiego di lavoratori non regolarmente denunciati, la base di calcolo della sanzione prevista dall'art. 3, comma 3, del d.l. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. in legge 23 aprile 2002, n. 73 (nel testo vigente ratione temporis), debba essere costituita dal costo del lavoro quantificato in base ai vigenti contratti collettivi nazionali.

Infine, Sez. 2, n. 17855/2016, Orilia, Rv. 640891, ha chiarito che la competenza ad irrogare la sanzione per il trasporto non di linea nelle acque di navigazione interna della città di Venezia (nella specie, il Canale di Tessera) senza autorizzazione spetta, ai sensi dell'art. 1, della legge regionale Veneto, n. 10 del 1977, al Comune di Venezia, trattandosi di competenza amministrativa, delegata dalla Regione Veneto, attribuita ai sensi dell'art. 5, comma 5, della l.reg. Veneto, n. 63 del 1993, senza che rilevi la concorrenza potestà, sulla medesima area, del Magistrato delle Acque, afferente ad un diverso ambito (nella specie, alla disciplina della sicurezza della navigazione).

  • fallimento

CAPITOLO XLIII

LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI

(di Giuseppe Fichera )

Sommario

1 La dichiarazione di fallimento. - 2 L'impugnazione della sentenza di fallimento. - 3 I reclami endofallimentari e la competenza del tribunale. - 4 La formazione dello stato passivo e le opposizioni. - 4.1 L'accertamento della prededuzione. - 5 I riparti. - 6 L'esdebitazione. - 7 Il concordato preventivo: i presupposti. - 7.1 Il concordato "in bianco". - 7.2 La revoca dell'ammissione. - 7.3 L'omologa. - 7.4 I rapporti con il fallimento. - 7.5 L'annullamento e la risoluzione. - 8 Il sovraindebitamento.

1. La dichiarazione di fallimento.

Nel corso dell'anno 2016 molteplici e di sicuro interesse, sono state le decisioni della Suprema Corte che hanno riguardato i profili processuali delle procedure concorsuali.

Numerose decisioni si sono occupate dell'instaurazione del contraddittorio in sede prefallimentare, anche alla luce della novella dell'art. 15 l.fall., introdotta con l'art. 17 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, in tema di notifica a mezzo posta elettronica certificata (PEC).

Sez. 6-1, n. 13917/2016, Genovese, Rv. 640360, ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del novellato art. 15, comma 3, l.fall. nella parte in cui non prevede una nuova notifica dell'avviso di convocazione in caso di accertata aggressione ad opera di esterni all'account di posta elettronica del resistente: quest'ultimo, infatti, tenuto per legge a munirsi di un indirizzo PEC, ha il dovere di assicurarsi del corretto funzionamento della propria casella postale certificata e di utilizzare dispositivi di vigilanza e di controllo, dotati di misure anti intrusione, oltre che di controllare prudentemente la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come "posta indesiderata".

Sez. 6-1, n. 27054/2016, Genovese, Rv. 641908-02, ribadisce che ai fini del perfezionamento della notifica telematica del ricorso tramite PEC, occorre aver riguardo unicamente alla sequenza procedimentale stabilita dalla legge; e tale principio, non può soffrire deroga in ragione del fatto che l'amministratore unico (e pure unico socio della società) fosse, nel giorno in cui ha avuto luogo l'esecuzione della notificazione e per tutto il periodo successivo, fino alla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, in stato di detenzione cautelare, atteso che esigenze di compatibilità tra il diritto di difesa e gli obiettivi di speditezza e operatività, al quali deve essere improntato il procedimento concorsuale, giustificano che il tribunale resti esonerato dall'adempimento di ulteriori formalità, ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di irreperibilità dell'imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico.

Sez. 1, n. 17946/2016, Didone, Rv. 641370, precisa che in caso di società già cancellata dal registro delle imprese, il ricorso per la dichiarazione di fallimento può essere notificato all'indirizzo PEC della società cancellata in precedenza comunicato al registro delle imprese, ovvero, nel caso in cui non risulti possibile – per qualsiasi ragione – la notifica a mezzo PEC, direttamente presso la sua sede risultante dal registro delle imprese e, in caso di ulteriore esito negativo, mediante deposito presso la casa comunale del luogo in cui la medesima aveva sede.

Soggiunge Sez. 1, n. 17767/2016, Ferro, Rv. 641365, che anche nel regime anteriore alle modifiche apportate all'art. 15, comma 3, l.fall. dall'art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, l'avvocato del ricorrente può notificare il ricorso di fallimento, ai sensi dell'art. 3-bis della legge 21 gennaio 1994, n. 53, a mezzo di spedizione diretta all'indirizzo PEC della società debitrice, pur se cancellata dal registro delle imprese.

Di notevole interesse, poi, Sez. 1, n. 15035/2016, Nappi, Rv. 640803, che in tema di notifiche telematiche nei procedimenti civili, compresi quelli cd. prefallimentari, precisa come la ricevuta di avvenuta consegna (RdAC), rilasciata dal gestore di posta elettronica certificata del destinatario, costituisce documento idoneo a dimostrare, fino a prova contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario, senza tuttavia assurgere a quella "certezza pubblica" propria degli atti facenti fede fino a querela di falso.

E invero, da un lato, atti dotati di siffatta speciale efficacia, incidendo sulle libertà costituzionali e sull'autonomia privata, costituiscono un numero chiuso e non sono suscettibili di estensione analogica e, dall'altro, l'art. 16 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 , si esprime in termini di "opponibilità" ai terzi ovvero di semplice "prova" dell'avvenuta consegna del messaggio; e ciò tanto più che le attestazioni rilasciate dal gestore del servizio di posta elettronica certificata, a differenza di quelle apposte sull'avviso di ricevimento dall'agente postale nelle notifiche a mezzo posta, aventi fede privilegiata, non si fondano su un'attività allo stesso delegata dall'ufficiale giudiziario.

In via generale, poi, Sez. 1, n. 17050/2016, Di Virgilio, Rv. 640931, precisa che il ricorso per la dichiarazione di fallimento di una società già incorporata per fusione ed il relativo decreto di convocazione, vanno notificati all'ente incorporante, che, ai sensi dell'art. 2504bis c.c., assume i diritti e gli obblighi della prima e ne prosegue tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, pur conservando la suddetta società la propria identità per l'eventuale dichiarazione di fallimento.

Chiarisce Sez. 1, n. 17444/2016, Lamorgese, Rv. 640940, che la notificazione tramite polizia giudiziaria del ricorso di fallimento e del decreto di convocazione non è inesistente, bensì nulla, in quanto non totalmente incompatibile con le regole della procedura prefallimentare, sicché il vizio resta sanato ove la notifica sia giunta a buon fine per aver raggiunto lo scopo di portare l'atto a conoscenza del destinatario, nonché, a maggior ragione, quando il debitore, informato del deposito del ricorso e della fissazione dell'udienza, si sia costituito ovvero sia comparso senza nulla eccepire innanzi al tribunale chiamato a pronunciarsi sulla dichiarazione di fallimento.

Sul termine di quindici giorni che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto di convocazione del debitore e la data dell'udienza, Sez. 6-1, n. 14814/2016, Ragonesi, Rv. 640748, afferma che la sua mancata abbreviazione nelle forme rituali del decreto motivato sottoscritto dal presidente del tribunale, previste dall'art. 15, comma 5, l.fall., costituisce causa di nullità astrattamente integrante la violazione del diritto di difesa, ma non determina – ai sensi dell'art. 156 c.p.c., per il generale principio di raggiungimento dello scopo dell'atto – la nullità del decreto di convocazione se il debitore, pur eccependo la nullità della notifica, abbia attivamente partecipato all'udienza, rendendo dichiarazioni in merito alle istanze di fallimento, senza formulare, in tale sede, rilievi o riserve in ordine alla ristrettezza del termine concessogli, né fornendo specifiche indicazioni del pregiudizio eventualmente determinatosi, sul piano probatorio, in ragione del minor tempo disponibile.

Quanto alla dichiarazione di fallimento di società con soci illimitatamente responsabili, secondo Sez. 6-1, n. 01105/2016, Mercolino, Rv. 638423, l'obbligo di convocazione di questi ultimi, sancito dall'art. 147, comma 3, l.fall., nel testo successivo alle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, trova giustificazione non in un loro generico interesse riferito alla dichiarazione di fallimento della società, ma nel fatto che detta dichiarazione produce anche il loro fallimento; ne consegue che, siccome la sentenza che dichiara il fallimento della società e dei soci contiene una pluralità di dichiarazioni di fallimento, tra loro collegate da un rapporto di dipendenza unidirezionale, trovando la dichiarazione di fallimento del socio il suo presupposto nella dichiarazione di fallimento della società (la cui nullità travolge anche la prima, mentre non è vero il contrario), la mancata convocazione del socio determina unicamente la nullità del suo fallimento, ove specificamente impugnato, ma non si riflette sulla validità della pronuncia emessa nei confronti della società.

Di sicuro interesse anche Sez. 1, n. 03621/2016, Ferro, Rv. 638845, a tenore della quale i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti dell'imprenditore apparentemente individuale sono litisconsorti necessari nel procedimento di estensione previsto dagli artt. 15 e 147, comma 5, l.fall., compresa la fase dell'eventuale reclamo, avendo l'interesse, non delegabile al curatore, né ad altro legittimato che abbia assunto l'iniziativa, ad evitare che, sui beni del socio già dichiarato fallito, possano concorrere, ex art. 148 l.fall., i creditori della società occulta.

Pertanto, se il giudice di primo grado non ha disposto l'integrazione del contraddittorio e la corte d'appello non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell'art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l'intero procedimento e si impone, in sede di legittimità, l'annullamento, anche d'ufficio, delle pronunce emesse ed il rinvio della causa al giudice di prime cure ai sensi dell'art. 383, ultimo comma, c.p.c.

Con riferimento al fallimento della società a responsabilità limitata che sia socia di una società persone, anche di fatto, fallita, merita sicuro rilievo, trattandosi della prima decisione della S.C. sul tema, Sez. 1, n. 01095/2016, Nazzicone, Rv. 638275, secondo cui per la valida partecipazione alla società non è richiesto il rispetto dell'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per le società per azioni, costituendo un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale (fattispecie estranea al caso di specie) – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c.

Pertanto, accertata l'esistenza di una società di fatto insolvente, della quale uno o più soci illimitatamente responsabili siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege prevista dall'art. 147, comma 1, l.fall., senza necessità dell'accertamento della loro specifica insolvenza.

A sua volta, Sez. 1, n. 10507/2016, Cristiano, Rv. 639798, afferma che l'art. 147, comma 5, l.fall. trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l'impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto) – non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento – la cui sussistenza, però, postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev'essere conforme, e non contrario, all'interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, a favore dell'esistenza della holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'insolvenza a richiesta di un creditore.

Soggiunge Sez. 1, n. 03621/2016, Ferro, Rv. 638844, che ai sensi dell'art. 147 l.fall., qualora, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l'impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, la sentenza di estensione muta soltanto il titolo in virtù del quale l'altro socio è già stato dichiarato fallito, vale a dire non più quale imprenditore individuale ma come socio illimitatamente responsabile della società occulta. Il passaggio in giudicato della sentenza di revoca del fallimento individuale, pertanto, fa soltanto venir meno tale mutamento del titolo, ma non determina alcun effetto sulla sentenza di estensione, la quale, quindi, acquisisce carattere originario quanto a presupposti e procedimento, con la conseguente necessità, nell'eventuale giudizio impugnatorio, di un nuovo accertamento dei requisiti soggettivi ed oggettivi di fallibilità della società occulta e dei suoi soci illimitatamente responsabili.

Ancora, Sez. 1, n. 15346/2016, Terrusi, Rv. 640752, precisa che la società di fatto holding esiste come impresa commerciale per il solo fatto di essere stata costituita tra i soci per l'effettivo esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di altre società ed è, pertanto, autonomamente fallibile, a prescindere dalla sua esteriorizzazione mediante la spendita del nome, ove sia insolvente per i debiti assunti, ivi comprese le obbligazioni risarcitorie derivanti dall'abuso sanzionato dall'art. 2497 c.c., nonché al danno così arrecato all'integrità patrimoniale delle società eterodirette e, di riflesso, ai loro creditori.

Sulle tematiche concernenti la competenza per territorio sull'istanza di fallimento, va senz'altro segnalata Sez. 1, n. 16951/2016, Ferro, Rv. 640938, a tenore della quale la pluralità di procedimenti pendenti, avanti a tribunali diversi, per la dichiarazione di fallimento del medesimo debitore su istanza di legittimati non coincidenti determina un conflitto, reale o virtuale, la cui regolazione dovrà avvenire solo dopo la dichiarazione di fallimento, alla stregua dell'art. 9-ter l.fall., tenuto conto della prevenzione che permette, nel frattempo, di dichiarare il fallimento ove se ne accertino i presupposti, restando in ogni caso esclusa l'applicazione del criterio dirimente di cui all'art. 39, comma 1, c.p.c.

Afferma poi Sez. 1, n. 19343/2016, Mercolino, Rv. 641342, che il regolamento di competenza di ufficio è esperibile, in applicazione analogica dell'art. 45 c.p.c., in presenza di un conflitto di competenza sia reale positivo che meramente virtuale, attesa l'inderogabilità della previsione dell'art. 9 l.fall. e la conseguente rilevabilità di ufficio ed in ogni tempo della sua violazione, cui non osta l'eventuale avvenuta pronuncia, in uno dei due giudizi, della sentenza di fallimento, anche se divenuta cosa giudicata.

Né, in contrario, può invocarsi l'art. 9-ter l.fall., che, nell'enunciare il principio della prevenzione quale criterio per l'individuazione del giudice innanzi al quale deve proseguire la procedura ove il fallimento sia stato dichiarato da più tribunali, postula che questi ultimi siano tutti ugualmente competenti ex art. 9 l.fall., sicché è inutilizzabile se quello pronunciatosi per primo abbia affermato la propria competenza in relazione ad una sede dell'impresa non corrispondente a quella principale.

2. L'impugnazione della sentenza di fallimento.

In apertura va segnalata senz'altro Sez. 1, n. 02302/2016, Didone, Rv. 638407, a tenore della quale è inammissibile, oltre che per difetto di interesse anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione, il reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento proposto ai sensi dell'art. 18 l.fall. (nella formulazione derivante dalle modifiche apportate dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), laddove lo stesso sia fondato esclusivamente su vizi di rito (nella specie, l'inosservanza del termine dilatorio di comparizione di cui all'art. 15, comma 3, l.fall.), senza la contestuale e rituale deduzione delle eventuali questioni di merito, ed i vizi denunciati non rientrino tra quelli che comportino una rimessione al primo giudice, tassativamente indicati dagli artt. 353 e 354 c.p.c.

Sulla desistenza dell'unico creditore istante, Sez. 6-1, n. 08980/2016, Genovese, Rv. 639565, precisa che detta rinuncia, ove rilasciata in data successiva alla dichiarazione di fallimento, non è idonea a determinare l'accoglimento del reclamo e, conseguentemente, la revoca della sentenza di fallimento.

Sulla decorrenza dei termini per impugnare, Sez. 1, n. 10632/2016, Mercolino, Rv. 639799, chiarisce che sebbene l'art. 18, comma 4, l.fall. richiami espressamente il solo art. 327, comma 1, c.p.c., per ragioni riconnesse al rispetto del principio del contraddittorio, riferibile anche al procedimento prefallimentare, deve ritenersi applicabile anche il successivo comma 2 qualora l'impugnazione sia stata proposta da chi, come la società fallita, pur rivestendo ivi la qualità di parte, per esserne stata destinataria dell'atto introduttivo, sia rimasta sostanzialmente estranea ad esso, non avendone avuto conoscenza a causa di un vizio della notificazione, mentre tale disposizione non si applica se il reclamo sia proposto da chi, come il socio della società fallita, pur titolare di posizioni giuridiche che potrebbero essere pregiudicate dalla dichiarazione di fallimento, non sia, tuttavia, destinatario della relativa istanza, né del decreto di convocazione, dei quali, infatti, non è prevista la notificazione anche nei suoi confronti, sicché lo stesso, benché legittimato a proporre reclamo, non è dispensato dall'osservanza del termine di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., indipendentemente dalla partecipazione al procedimento di primo grado e dal fatto che la notifica del ricorso di fallimento alla società fallita sia inesistente o nulla.

Sempre sui termini per il reclamo, va segnalato il seguente contrasto tra le sezioni. Sez. 6-1, n. 05374/2016, Scaldaferri, Rv. 638900, afferma che la comunicazione del testo integrale del decreto reiettivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, effettuata (anteriormente all'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv., con modif., dalla l. 11 agosto 2014, n. 114) dalla cancelleria della corte d'appello mediante PEC, non è idonea a farne decorrere il termine breve per l'impugnazione in cassazione. Sez. 1, n. 10525/2016, di Virgilio, Rv. 639848, invece, assume che la notifica del testo integrale della sentenza reiettiva del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, effettuata ai sensi dell'art. 18, comma 13, l.fall., dal cancelliere mediante PEC, ex art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif, dalla l. n. 221 del 2012, è idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione in cassazione ex art. 18, comma 14, l.fall., non ostandovi il nuovo testo dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 114 del 2014, secondo il quale la comunicazione del testo integrale della sentenza da parte del cancelliere non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325 c.p.c.

Di sicura rilevanza sistematica appare Sez. 1, n. 12964/2016, Ferro, Rv. 640113, la quale afferma che nel caso in cui la sentenza dichiarativa di fallimento faccia seguito ad un provvedimento di inammissibilità della domanda di concordato preventivo, l'effetto devolutivo pieno che caratterizza il reclamo avverso la sentenza di fallimento riguarda anche la decisione sull'inammissibilità del concordato, perché parte inscindibile di un unico giudizio sulla regolazione concorsuale della stessa crisi, sicché, ove il debitore abbia impugnato la dichiarazione di fallimento, censurando innanzitutto la decisione del tribunale sulla sua mancata ammissione al concordato, il giudice del reclamo, adìto ai sensi degli artt. 18 e 162 l.fall., è tenuto a riesaminare, anche avvalendosi dei poteri officiosi previsti dall'art. 18, comma 10, l.fall., tutte le questioni concernenti detta ammissibilità, pur attinenti a fatti non allegati da alcuno nel corso del procedimento innanzi al giudice di primo grado, né da quest'ultimo rilevati d'ufficio, ed invece dedotti per la prima volta nel giudizio di reclamo ad opera del curatore del fallimento o delle altre parti ivi costituite.

Infine, sulle complesse questioni di diritto intertemporale, determinate dalle plurime novelle apportate alle legge fallimentare del '42, da segnalare Sez. 1, n. 05925/2016, Ferro, Rv. 639059, secondo la quale il ricorso per cassazione avverso la decisione della corte d'appello emessa in epoca successiva alla vigenza del d.lgs. n. 169 del 2007, ma resa in un giudizio di opposizione nei confronti di una sentenza dichiarativa di fallimento depositata in data antecedente all'entrata in vigore del menzionato decreto legislativo (oltre che del d.lgs. n. 5 del 2006), va dichiarato inammissibile laddove proposto oltre il termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza impugnata di cui al novellato art. 18, comma 14, l.fall.

Invero, l'art. 22 del d.lgs. n. 169 del 2007 dà piena attuazione al principio processuale del tempus regit actum, secondo il quale la normativa sopravvenuta trova applicazione anche ai processi in corso, a nulla rilevando che il fallimento sia stato pronunciato prima della riforma del 2006, né che la sentenza di appello sia stata emanata – ovvero trattata parzialmente nei giudizi impugnatori che l'hanno seguita o preceduta secondo il regime previsto dalla normativa antecedente alla riforma del 2006-2007.

3. I reclami endofallimentari e la competenza del tribunale.

Sez. 2, n. 12005/2016, Criscuolo, Rv. 640365, ricorda che il reclamo avverso i decreti del giudice delegato va proposto, ex art. 26 l.fall., come novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006 e successivamente modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007, innanzi al tribunale in composizione collegiale, sicché ove la corte d'appello, erroneamente investita, ometta di rilevarne l'inammissibilità, l'impugnazione, in sede di legittimità, va dichiarata inammissibile d'ufficio, con cassazione senza rinvio della sentenza erroneamente emessa, riguardando l'erronea individuazione del giudice legittimato a decidere non la competenza ma la valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame medesimo, senza che al gravame inammissibilmente spiegato (con relativo passaggio in giudicato della decisione di primo grado) possa riconoscersi efficacia conservativa del processo di impugnazione.

Di sicuro interesse in tema, Sez. 1, n. 08404/2016, Nappi, Rv. 639537, secondo cui nel caso in cui il tribunale sia chiamato alla determinazione del compenso complessivo spettante al curatore del fallimento ed al successivo riparto dello stesso tra i curatori che si sono succeduti nella funzione, l'unitarietà della situazione sostanziale impone la partecipazione al procedimento camerale di cui all'art. 39 l.fall. di tutti i soggetti che hanno rivestito tale qualità, al fine di individuare la frazione del compenso spettante a ciascuno, nel rispetto del principio del contraddittorio, la cui attuazione, peraltro, trattandosi di un procedimento non altrimenti disciplinato, è rimessa, in applicazione delle regole generali sui giudizi in camera di consiglio ex artt. 737 ss. c.p.c., alle forme più idonee individuate dal collegio.

Sez. 1, n. 19340/2016, Bisogni, Rv. 641306, ribadisce il costante orientamento della S.C., a tenore del quale l'azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, comma 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti, sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell'impresa al momento dell'apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l.fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, comma 2, del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse.

4. La formazione dello stato passivo e le opposizioni.

Numerose sono state, nell'anno in rassegna, anche le decisioni della S.C. concernenti la formazione dello stato passivo.

Di sicuro interesse Sez. 1, n. 09617/2016, Didone, Rv. 639616, la quale afferma che l'opposizione allo stato passivo del fallimento (come disciplinata a seguito del d.lgs. n. 169 del 2007), ancorché abbia natura impugnatoria, costituendo il rimedio avverso la decisione sommaria del giudice delegato, non è un giudizio di appello, per cui il relativo procedimento è integralmente disciplinato dalla legge fallimentare, la quale prevede che avverso il decreto di esecutività dello stato passivo possano essere proposte solo l'opposizione (da parte dei creditori o dei titolari di diritti su beni), l'impugnazione (da parte del curatore o di creditori avverso un credito ammesso) o la revocazione.

Ciascuno di tali rimedi, peraltro, può essere utilizzato dal soggetto legittimato, esclusivamente entro il termine di cui all'art. 99 l.fall., restando concettualmente inconfigurabile un'impugnazione incidentale, tardiva o tempestiva, atteso che, ove il termine sia ancora pendente, non può che essere proposta l'impugnazione a sé spettante, mentre, se sia ormai decorso, si è decaduti dalla possibilità di contestare autonomamente lo stato passivo.

Sez. 6-1, n. 01342/2016, Acierno, Rv. 638408, ribadisce che non essendo equiparabile all'appello, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, regolato dagli artt. 98 e 99 l.fall., non si applicano le norme dettate per il procedimento di gravame e la mancata comparizione della parte opponente, tempestivamente costituitasi, in un'udienza successiva alla prima, non può dar luogo a pronuncia di improcedibilità dell'opposizione.

Sez. 1, n. 12116/2016, De Chiara, Rv. 640037, poi, ricorda che, ai sensi dell'art. 99 l.fall. (nella formulazione derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. n. 169 del 2007), la trattazione dei procedimenti di impugnazione di cui all'art. 98, ivi compreso quello di opposizione allo stato passivo, può avvenire davanti al collegio o ad uno dei suoi componenti, delegato dal presidente ai sensi del comma 3, e, ove si sia optato per questa seconda modalità, l'investitura del collegio per la decisione non è disciplinata dalle norme del codice di procedura civile, che riguardano il rito ordinario e non sono applicabili, neppure per ragioni logico-sistematiche, allo speciale rito delle impugnazioni dello stato passivo fallimentare.

Occupandosi dei poteri istruttori ufficiosi del giudice, Sez. 1, n. 19596/2016, Bisogni, Rv. 641837-01, afferma che l'art. 421 c.p.c. è norma relativa al rito del lavoro e non trova applicazione nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ai sensi dell'art. 98 l.fall., che è retto dalle norme che regolano il giudizio ordinario, anche se si facciano valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l'impresa assoggettata alla procedura concorsuale.

Di rilievo appaiono anche le decisioni che si sono occupate dei soggetti che devono partecipare ai giudizi di opposizione allo stato passivo. Così Sez. 1, n. 02538/2016, Genovese, Rv. 638567, affrontando la disciplina transitoria di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 169 del 2007, precisa che la normativa sopravvenuta si applica ai procedimenti per la dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore (1° gennaio 2008) ed alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte dopo tale data, sicché, come il ricorso per opposizione allo stato passivo depositato dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, ma in data anteriore al 1° gennaio 2008, deve essere notificato anche al fallito, secondo la previsione della sola disciplina normativa del d.lgs. n. 5 cit., pure la corrispondente impugnazione, ai sensi dell'art. 99 l.fall. ratione temporis vigente, va notificata a tale soggetto, che, tuttavia, non è un litisconsorte necessario del curatore, poiché la sua presenza è finalizzata unicamente all'eventuale apporto volontario di elementi utili alla decisione.

Ne consegue che, avendo il predetto adempimento il valore di semplice denuntiatio litis, la sua omissione, in difetto di specifica diversa disposizione, non costituisce causa di inammissibilità dell'impugnazione, dovendo il tribunale disporre unicamente la rinnovazione dell'atto mancante.

Sez. 6-1, n. 00119/2016, Genovese, Rv. 638047, esclude la legittimazione attiva del fideiussore dell'imprenditore fallito alle impugnazioni allo stato passivo di cui all'art. 98 l.fall., atteso che, da un lato, la sua posizione è accessoria a quella del debitore principale, a sua volta privo di interesse a veder ridotta la consistenza del proprio passivo, essendo stata la relativa legittimazione attribuita, in sua vece, al curatore fallimentare, e, dall'altro, è estraneo alle ragioni sottostanti all'ammissione dei crediti e, quindi, alla stessa formazione dello stato passivo.

Sempre in ordine alle giuste parti nei giudizi di impugnazione, occorre segnalare un contrasto tra le sezioni. Sez. 1, n. 09016/2016, Mercolino, Rv. 639535, afferma, infatti, che in tema di riscossione dei contributi previdenziali mediante iscrizione a ruolo, deve escludersi la configurabilità di un litisconsorzio necessario tra l'ente creditore ed il concessionario del servizio di riscossione qualora il giudizio sia promosso da quest'ultimo o nei confronti dello stesso, non assumendo a tal fine alcun rilievo che la domanda abbia ad oggetto, non la regolarità o la ritualità degli atti esecutivi, ma l'esistenza stessa del credito, posto che l'eventuale difetto del potere di agire o di resistere in ordine a tale accertamento comporta l'insorgenza solo di una questione di legittimazione, la cui soluzione non impone la partecipazione al giudizio dell'ente creditore. La chiamata in causa di quest'ultimo, prevista dall'art. 39 del d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, dev'essere, pertanto, ricondotta all'art. 106 c.p.c. ed è, come tale, rimessa alla esclusiva valutazione discrezionale del giudice del merito, il cui esercizio non è censurabile né sindacabile in sede d'impugnazione. Di tenore esattamente opposto la successiva Sez. L, n. 12450/2016, Riverso, Rv. 640372, secondo cui nell'opposizione allo stato passivo fallimentare promossa dal concessionario dei servizi di riscossione di contributi previdenziali ex art. 24 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, qualora il debitore deduca fatti o circostanze che incidono sul merito della pretesa creditoria, o eccepisca in compensazione un proprio controcredito, sussiste il litisconsorzio necessario con l'ente impositore, unico reale legittimato a stare in giudizio, essendo quella del concessionario una legittimazione meramente processuale.

Sui rapporti tra rito ordinario e giudizio di accertamento dei crediti, va senz'altro segnalata Sez. 1, n. 03953/2016, Terrusi, Rv. 638866, a tenore della quale le domande principali (prodromiche) di simulazione e risoluzione contrattuale, trascritte anteriormente alla dichiarazione di fallimento della parte convenuta in giudizio, proseguono legittimamente con il rito ordinario, attesa l'opponibilità della relativa sentenza alla massa dei creditori in ragione dell'effetto prenotativo della trascrizione, mentre le pretese, accessorie, di restituzione e risarcimento del danno devono necessariamente procedere, previa separazione dalle prime, nelle forme degli art. 93 e ss. l.fall., in quanto assoggettate alla regola del concorso e non suscettibili di sopravvivere in sede ordinaria.

Di sicuro interesse anche Sez. 6-1, n. 00535/2016, Genovese, Rv. 638272, secondo cui in sede di accertamento del passivo, il curatore, in quanto parte pubblica (al pari del PM), ha il dovere di non nascondere gli elementi di cui sia entrato in possesso per ragioni dell'ufficio esercitato (che è pur sempre quello di assicurare ai creditori la loro par condicio, senza avvantaggiarne ma anche danneggiarne alcuni), specie quando questi siano il risultato del concreto atteggiarsi del principio di vicinanza della prova. Ne consegue che il suo parere favorevole all'ammissione di un credito allo stato passivo fallimentare non può essere disatteso dal giudice delegato in via astratta e generalizzata, in assenza di fatti che impongano di formulare eccezioni ufficiose agli elementi di prova che risultino già in possesso del curatore e senza che tali elementi siano specificamente verificati, eventualmente anche nel contraddittorio delle parti.

Affronta una questione nuova Sez. L, n. 14099/2016, Venuti, Rv. 640463, secondo la quale la formazione dello stato passivo, ed il relativo decreto di esecutività, presuppongono – come risulta dall'art. 96, comma 4, l.fall. – che sia completato l'esame di tutte le istanze, dovendosi escludere che, in relazione alle domande esaminate nella prima udienza, e nelle successive eventuali di rinvio, possano essere adottati altrettanti provvedimenti di esecutività, sicché il termine per l'eventuale opposizione di un creditore escluso (nella specie, per credito di lavoro), anche in relazione ad istanza di insinuazione tardiva, ai sensi dell'art. 101, comma 1, l.fall., decorre dalla data di deposito del decreto di esecutività emesso dopo l'esame di tutte le domande.

Sulle domande tardive occorre segnalare, anzitutto, Sez. 1, n. 14936/2016, Didone, Rv. 640742, secondo la quale il sistema della legge fallimentare – in ragione del principio generale che riconosce carattere giurisdizionale e decisorio al procedimento di verificazione del passivo – esclude la possibilità di una duplice insinuazione, ordinaria e tardiva, di uno stesso credito, sicché, dovendosi identificare il petitum della domanda di ammissione al passivo nel riconoscimento del diritto a partecipare al concorso per un credito individuato e con un certo rango, una volta collocato definitivamente al passivo in via chirografaria, è preclusa, la formulazione di una successiva domanda tardiva per il riconoscimento di un diritto di prelazione sul medesimo credito, fermo restando che l'onere di provare che la domanda di ammissione tardiva si riferisce ad un credito già insinuato incombe sul curatore, trattandosi di fatto impeditivo all'ammissione al concorso.

Per Sez. 1, n. 00814/2016, Di Virgilio, Rv. 638394, tuttavia, la rinuncia all'ammissione al passivo da parte del creditore ivi già ammesso, non incide sul diritto di credito azionato, sicché non preclude la possibilità di far valere nuovamente, mediante riproposizione dell'istanza di insinuazione in via tardiva, il diritto sostanziale già dedotto, anche da parte di chi, nelle more, se ne sia reso cessionario.

Sempre in tema di insinuazioni tardive, Sez. 6-1, n. 04408/2016, De Chiara, Rv. 639020, afferma che il termine perentorio per il deposito delle dette domande, previsto dall'art. 101, comma 1, l.fall., è soggetto alla sospensione feriale, sulla base delle indicazioni desumibili dagli artt. 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, e 36-bis l.fall., in quanto si tratta di termine processuale, entro il quale il giudizio deve necessariamente essere proposto, non essendo concessa altra forma di tutela del diritto.

Assai interessante in tema di accertamento dei crediti nell'ambito delle liquidazioni coatte amministrative, Sez. 1, n. 02917/2016, Didone, Rv. 638553, la quale afferma che nella detta procedura, avendo la prima fase natura amministrativa e non giurisdizionale, le operazioni di verifica dei crediti sono affidate al commissario liquidatore, organo estraneo alla giurisdizione, e prescindono dalla domanda di parte e dal suo contenuto, sicché deve ritenersi consentito al creditore, con l'opposizione allo stato passivo, di modificare o integrare l'istanza eventualmente presentata al commissario suddetto ai sensi dell'art. 208 l.fall.

4.1. L'accertamento della prededuzione.

Sui crediti prededucibili vantati nei confronti della massa si segnala Sez. 6-1, n. 02694/2016, Mercolino, Rv. 638526, a tenore della quale resta sempre necessario il ricorso alle sole forme di cui agli artt. 93 e seguenti l.fall., sicché anche il credito opposto in compensazione può essere riconosciuto esclusivamente in sede fallimentare, deponendo in tal senso l'art. 111-bis, comma 1, l.fall., introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, il quale assoggetta espressamente alle modalità previste per l'accertamento del passivo i crediti prededucibili, con esclusione soltanto di quelli non contestati, per collocazione e ammontare, nonché di quelli sorti a seguito di provvedimento di liquidazione dei compensi dei soggetti nominati ai sensi dell'art. 25 l.fall.

Soggiunge Sez. 1, n. 14536/2016, Ferro, Rv. 640490, che il compenso degli amministratori giudiziari officiati ex art. 15, comma 8, l.fall. è prededucibile nel conseguente fallimento, ed il relativo credito va insinuato al passivo attraverso le forme previste, per l'accertamento di quest'ultimo, dagli artt. 93 e ss. l.fall., non potendo essere adottata la procedura semplificata prevista per i crediti dei professionisti nominati ex art. 25 l.fall.

Di sicuro interesse, infine, Sez. 1, n. 03483/2016, Ferro, Rv. 638840: secondo la detta decisione il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento con cui il giudice delegato, a fronte della contestazione del curatore circa l'ammontare del credito vantato, abbia respinto la richiesta di pagamento in prededuzione ex art. 111-bis, comma 3, l.fall., non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, trattandosi di statuizione che, in quanto meramente ricognitiva del difetto dei presupposti per il pagamento invocato, non decide in via definitiva sul diritto del creditore.

5. I riparti.

Sul tema occorre citare Sez. 1, n. 00502/2016, Ferro, Rv. 638133, secondo la quale i creditori, nel regime anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006, possono proporre reclamo avverso il decreto che rende esecutivo il progetto di riparto anche quando non abbiano presentato le osservazioni di cui all'art. 110, comma 3, l.fall., configurandosi, di solito, quel decreto come l'unico provvedimento definitivo suscettibile di determinare preclusioni circa la collocazione dei crediti correnti.

Precisa poi Sez. 1, n. 17948/2016, Di Virgilio, Rv. 641352, che l'art. 110, comma 3, l.fall. novellato dalla riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, prevedendo che, nei confronti del progetto di riparto dell'attivo fallimentare, i creditori possono proporre reclamo al giudice delegato ai sensi dell'art. 36 l.fall., rinvia integralmente alla disciplina processuale ivi contenuta, compreso il termine di otto giorni per ricorrere al tribunale nei, confronti del decreto pronunciato dal giudice delegato.

6. L'esdebitazione.

Merita di essere segnalata in tema Sez. 1, n. 16620/2016, Di Virgilio, Rv. 641036, la quale afferma che, poiché il subingresso dei soci alla società estinta nella titolarità di un credito ammesso al passivo fallimentare, non li dispensa, se si tratta di procedura fallimentare anteriore alla riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, dall'onere di insinuarsi al passivo ai sensi dell'art. 101 l.fall., in mancanza di insinuazione, detti soci non sono litisconsorti necessari nel giudizio di esdebitazione.

7. Il concordato preventivo: i presupposti.

In tema anzitutto appare di rilievo sistematico Sez. 1, n. 12273/2016, Genovese, Rv. 640012, secondo la quale lo statuto legale dei liquidatori delle società di capitali non è identico a quello degli amministratori, atteso che i poteri di questi ultimi si presumono in base alla legge, mentre quelli dei secondi devono risultare dalla deliberazione dell'assemblea che li ha nominati. Ne consegue che il potere dei liquidatori di deliberare la proposta e le condizioni di un concordato preventivo ai sensi dell'art. 152, comma 2, lett. b), l.fall., non può ritenersi compreso nell'atto di nomina degli stessi, né può rientrare tra gli atti utili per la liquidazione della società di cui all'art. 2489, comma 1, c.c., ma deve essere loro specificamente attribuito dall'assemblea ex art. 2487, comma 1, lett. c), c.c.

7.1. Il concordato "in bianco".

Sul concordato preventivo cd. "in bianco", "prenotativo" o "con riserva", introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, diverse e assai significative le pronunce intervenute nell'annata.

Sez. 1, n. 06277/2016, Cristiano, Rv. 639217, afferma che il termine fissato dal giudice al debitore, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., per la presentazione della proposta, del piano e dei documenti, ha natura perentoria e disciplina mutuata dall'art. 153 c.p.c., cosicché non è prorogabile a richiesta della parte o d'ufficio se non in presenza di giustificati motivi, che devono essere allegati dal richiedente e verificati dal giudice, la cui decisione è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata. Pertanto, in ragione della natura decadenziale del menzionato termine, alla sua inosservanza consegue l'inammissibilità della domanda concordataria.

Sempre Sez. 1, n. 06277/2016, Cristiano, Rv. 639218, precisa che decorso il termine assegnato dal giudice per il deposito della proposta, del piano e dei documenti e respinta l'eventuale istanza di proroga, la domanda tardivamente integrata dal debitore deve essere dichiarata inammissibile ai sensi dell'art. 162, comma 2, l.fall.; peraltro, in pendenza dell'udienza fissata per la declaratoria di inammissibilità della domanda concordataria e l'eventuale dichiarazione di fallimento, il debitore può depositare un nuovo ricorso ex art. 161, comma 1, l.fall. (corredato, dunque, ab initio dalla proposta, dal piano e dai documenti), dal quale si desuma la rinuncia alla pregressa domanda "con riserva", e sempre che la nuova domanda non si traduca in un abuso dello strumento concordatario.

Sez. 1, n. 12957/2016, Di Virgilio, Rv. 640115, chiarisce che va sempre rispettato l'obbligo di audizione del debitore ex art. 162, comma 2, l.fall. per consentire allo stesso di svolgere le proprie difese prima della pronuncia di inammissibilità, salvo che, inserendosi la proposta nell'ambito della procedura prefallimentare, il debitore sia stato comunque sentito in relazione alla proposta ed abbia avuto modo di difendersi.

Sez. 6-1, n. 04176/2016, Scaldaferri, Rv. 638839, infine, assume come inammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto con il quale il tribunale, nell'assegnare il termine per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione, abbia altresì autorizzato, ai sensi dell'art. 169-bis l.fall., la sospensione di contratti (nella specie, bancari per anticipazione su effetti) in corso di esecuzione, trattandosi di provvedimento privo dei requisiti della decisorietà e della definitività.

7.2. La revoca dell'ammissione.

Sempre più numerose le decisioni pubblicate in tema di procedimento di revoca dell'ammissione al concordato.

Così Sez. 1, n. 18704/2016, Di Marzio, Rv. 641217-01, afferma che l'omesso deposito della somma di cui all'art. 163, comma 3, l.fall., come quantificata nel decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo, innesta, attraverso l'informativa che il commissario giudiziale deve al tribunale, il subprocedimento di revoca dell'ammissione a quella procedura, ex art. 173 l.fall., che si articola in due fasi: la prima, neces- saria ed officiosa, nel corso della quale il tribunale verifica la sussistenza dei requisiti per l'adozione del provvedimento; la seconda, eventuale e ad impulso di parte, che può condurre alla dichiarazione di fallimento ove ne ricorrano i presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l.fall.

Soggiunge Sez. 1, n. 03324/2016, Cristiano, Rv. 638667, che nel subprocedimento di revoca del concordato preventivo, i creditori concordatari non sono portatori di un interesse immediato e diretto che gli possa far assumere la qualifica di litisconsorti necessari, neppure nella fase che conduce all'eventuale dichiarazione di fallimento, non avendo essi un diritto al fallimento (o al mancato fallimento) del proprio debitore, sicché la comunicazione prevista, nei loro confronti, dall'art. 173, comma 1, l.fall. si atteggia a semplice litis denuntiatio, volta a consentirne la loro volontaria partecipazione all'udienza, la cui omissione comporta non già una nullità assoluta ed insanabile, ma solo una nullità relativa della prima fase del subprocedimento di revoca che, non ripercuotendosi sull'eventuale fase successiva, non è causa di nullità della sentenza dichiarativa di fallimento.

Per Sez. 1, n. 03324/2016, Cristiano, Rv. 638668, i pagamenti eseguiti dall'imprenditore ammesso al concordato preventivo in difetto di autorizzazione del giudice delegato, non comportano, ai sensi dell'art. 173, comma 3, l.fall., l'automatica revoca della suddetta ammissione, la quale consegue solo all'accertamento, da compiersi ad opera del giudice di merito, che tali pagamenti, non essendo ispirati al criterio della migliore soddisfazione dei creditori, siano diretti a frodare le ragioni di questi ultimi, così pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato.

E tale principio risulta ribadito da Sez. 1, n. 07066/2016, Cristiano, Rv. 639261, in caso di pagamento non autorizzato di un debito scaduto eseguito in data successiva al deposito della domanda di concordato con riserva, dovendosi sempre valutare se detto pagamento costituisca, o meno, atto di straordinaria amministrazione e, in ogni caso, se la violazione della regola della par condicio sia diretta a frodare le ragioni dei creditori, pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta negoziale formulata con la domanda di concordato.

Interessante anche Sez. 6-1, n. 11660/2016, Genovese, Rv. 640207, secondo la quale la norma di cui all'art. 168, comma 1, l.fall., che fa divieto ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore ‹‹dalla data della presentazione del ricorso per l'ammissione al concordato fino al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione››, non può ritenersi legittimamente applicabile anche al pagamento del terzo pignorato effettuato in adempimento dell'ordinanza di assegnazione del credito. E invero, il procedimento di concordato preventivo non prevede, di fatto, la possibilità di revocatorie o di azioni ai sensi dell'art. 44 l.fall., e nemmeno è fornito di un ufficio abilitato ad agire in tal senso, essendo applicabili, in virtù del richiamo di cui all'art. 169 l.fall., soltanto le disposizioni degli articoli da 55 a 63 della medesima legge, sicché il pagamento di un debito preconcordatario deve ritenersi in sé legittimo, in quanto atto di ordinaria amministrazione, purché non integri l'ipotesi di un atto ‹‹diretto a frodare le ragioni dei creditori››, e, quindi, sanzionabile con la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 173, comma 2, e revocabile in forza dell'art. 167, comma 2.

Sez. 1, n. 25165/2016, Genovese, Rv. 642160, ribadisce poi il sempre più consolidato orientamento della S.C., a tenore del quale l'accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell'attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti, dell'esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore, può determinare la revoca dell'ammissione al concordato, ex art. 173 l.fall., indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e, quindi, anche nell'ipotesi in cui questi ultimi siano stati resi edotti di quell'accertamento.

Soggiunge, infine, Sez. 1, n. 25164/2016, Di Marzio, Rv. 642139, che l'art. 173 l.fall., nel prevedere la revoca dell'ammissione al concordato nel corso della procedura, qualora il debitore abbia tra l'altro commesso atti di frode e mirando per tale via anche a paralizzare la portata decettiva del silenzio dell'istante, non attribuisce alcun rilievo ad eventuali ravvedimenti postumi manifestati dello stesso debitore, che ove valorizzati priverebbero di efficacia la medesima norma.

7.3. L'omologa.

Anche in relazione al subprocedimento di omologa del concordato preventivo, si registrano diverse decisioni massimate.

Anzitutto, sul voto dei creditori Sez. 1, n. 04977/2016, Di Palma, Rv. 638902, afferma che il principio del cd. silenzio-assenso previsto dall'art. 178, comma 4, l.fall., come modificato dall'art. 33, comma 1, del d.l. n. 83 del 2012 nel testo risultante dalla conversione nella l. n. 134 del 2012, si applica a tutti i procedimenti per concordato preventivo la cui domanda sia stata depositata a far data dal giorno 11 settembre 2012 (art. 33, comma 3, del menzionato decreto legge). Ne consegue che la disposizione così novellata non costituisce la regola di organizzazione delle adesioni alle proposte concordatarie presentate prima di tale data, anche se il nuovo regime era già vigente alla data di ammissione alla suddetta procedura concordataria.

Sez. 1, n. 03954/2016, Terrusi, Rv. 638805, chiarisce poi che la legittimazione ad impugnare il decreto del tribunale discende unicamente dall'avere assunto l'impugnante la qualità di parte in senso formale nel giudizio di cui all'art. 180 l.fall. ed essere ivi rimasto soccombente, così prescindendo dalla prova dell'effettiva esistenza del credito, che, potendo essere accertato incidenter tantum in sede concorsuale, non richiede il previo accertamento con efficacia di giudicato.

Sempre Sez. 1, n. 03954/2016, Terrusi, Rv. 638804, precisa poi che la detta impugnazione, quando il decreto di omologazione sia stato depositato dopo l'emanazione del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, ma anteriormente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007, va proposta con l'appello, nel termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento, non potendosi ritenere implicitamente abrogato l'originario art. 183 l.fall., limitatamente a tale mezzo di impugnazione, per incompatibilità con l'art. 180 l.fall., nella versione introdotta dal ridetto d.l. n. 35 del 2005. E tale interpretazione trova conferma nell'art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 169 del 2007, che ha limitato l'applicabilità della nuova disciplina, contenente anche la modifica del citato art. 183 e l'introduzione del reclamo in luogo dell'appello, alle procedure concorsuali aperte successivamente al 1° gennaio 2008.

Quanto al decreto emesso, ai sensi dell'art. 183, comma 1, l.fall., dalla corte d'appello, che decida sul reclamo avverso il decreto di omologazione, per Sez. 1, n. 12819/2016, Ferro, Rv. 640102, si applica il rito camerale di cui agli artt. 737 e segg. c.p.c., sicché è ricorribile per cassazione entro il termine ordinario di sessanta giorni, decorrenti dalla data di notificazione dello stesso, non potendo applicarsi per analogia la disciplina prevista per il concordato fallimentare dall'art. 131 l.fall. e riformata con il d.lgs. n. 169 del 2007, attesa la compiutezza della disciplina del concordato preventivo e la diversità dei presupposti oggettivi in cui interviene la rispettiva omologazione (impresa fallita da un lato e in bonis dall'altro).

Assai dibattuta, anche nel corso del 2016, la questione della ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. avverso i provvedimenti in materia di concordato preventivo.

Sez. 6-1, n. 00653/2016, Scaldaferri, Rv. 638279, afferma che il ricorso avverso il decreto di diniego dell'omologazione della proposta di concordato preventivo assunto in sede di reclamo ex art. 183 l.fall., nel caso in cui a tale provvedimento non abbia fatto seguito la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore (ancorché non contestuale) – dovendo in tal caso i vizi del decreto essere fatti valere unitamente all'impugnazione della sentenza di fallimento –, è ammissibile solo se il predetto decreto dipenda da ragioni che impediscono una consequenziale declaratoria di fallimento, quali, ad esempio, l'esclusione della qualità di imprenditore commerciale, l'assenza dello stato di insolvenza o il difetto di giurisdizione.

Ancora, Sez. 1, n. 12265/2016, Cristiano, Rv. 640038, afferma che una volta esauritasi, con la sentenza di omologazione, la procedura di concordato preventivo, tutte le questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli creditori o dal debitore e che attengono all'esecuzione del concordato, danno luogo a controversie che sono sottratte al potere decisionale del giudice delegato e costituiscono materia di un ordinario giudizio di cognizione, da promuoversi, da parte del creditore o di ogni altro interessato, dinanzi al giudice competente; ne deriva l'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il decreto con cui il tribunale, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del giudice delegato reiettivo della domanda di restituzione delle somme accantonate e destinate all'eventuale soddisfacimento dei crediti in contestazione, trattandosi di atto giudiziale esecutivo di funzioni di mera sorveglianza e controllo, privo dei connotati della decisorietà e della definitività.

Sez. 1, n. 17949/2016, Di Virgilio, Rv. 641353, discostandosi dall'orientamento espresso in precedenza dalla medesima sezione (Sez. 1, n. 15699/2011, Ragonesi, Rv. 618998), afferma che il decreto con il quale il tribunale, in sede di omologazione, provvede alla nomina del liquidatore giudiziale senza mutare i termini della proposta approvata, non lede il diritto del debitore a regolare la propria insolvenza secondo le clausole ivi inserite e non è, pertanto, in quanto privo di carattere decisorio, impugnabile in cassazione a norma dell'art. 111, comma 7, Cost.

Consapevole della problematicità del tema, con un trittico di ordinanze (Sez. 1, n. 03472/2016, Ragonesi; Sez. 1, n. 07958/2016, Didone; e Sez. 1, n. 18558/2016, Di Virgilio) la Prima Sezione Civile, nel corso del 2016, ha rimesso alle Sezioni Unite della S.C. il compito di stabilire se nelle diverse ipotesi di cui agli artt. 162, 173, 179, 180 l.fall., in assenza di dichiarazione di fallimento, i provvedimenti che dichiarano l'inammissibilità del concordato, ovvero dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell'art. 182-bis l. fall., siano ricorribili per cassazione ai sensi dell'art 111, comma 7, Cost.

La risposta delle Sezioni Unite non ha tardato:

- Sez. U, n. 27073/2016, De Chiara, Rv. 641811-01, ha stabilito che il decreto con cui il tribunale dichiara l'inammissibilità della proposta di concordato, ai sensi dell'art. 162, comma 2, l.fall. (anche eventualmente a seguito della mancata approvazione della proposta, ai sensi dell'art. 179, comma 1) ovvero revoca l'ammissione alla procedura di concordato, ai sensi dell'art. 173, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, non è soggetto a ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. non avendo carattere decisorio.

- Sez. U, n. 27073/2016, De Chiara, Rv. 641811-02 ha poi affermato che il decreto con cui il tribunale definisce (in senso positivo o negativo) il giudizio di omologazione del concordato preventivo, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, ha carattere decisorio, ma, essendo reclamabile ai sensi dell'art. 183, comma 1, l.fall., non è soggetto a ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., che resta proponibile soltanto avverso il provvedimento della corte d'appello conclusivo del giudizio sull'eventuale reclamo.

- Sez. U, n. 26989/2016, De Chiara, Rv. 641810-01, ha poi ritenuto che il decreto con cui la corte d'appello, decidendo sul reclamo ai sensi dell'art. 183, comma 1, richiamato dall'art. 182-bis, comma 5, l.fall., provvede in senso positivo o negativo in ordine all'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, ha carattere decisorio ed è pertanto soggetto, non essendo previsti altri mezzi d'impugnazione, a ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost.

- Sempre Sez. U, n. 26989/2016, De Chiara, Rv. 641810-02, ha infine chiarito che, in caso di ricorso per cassazione del debitore avverso il decreto con cui la corte di appello, provvedendo sul reclamo ex artt. 183, comma 1 e 182-bis, comma 5, l.fall., neghi l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, la legittimazione passiva non spetta al P.M., bensì ai creditori per titolo e causa anteriore alla data di pubblicazione dell'accordo nel registro delle imprese, cui si riferiscono gli effetti dell'accordo stesso, nonché agli altri interessati che abbiano proposto opposizione.

7.4. I rapporti con il fallimento.

Sui rapporti tra concordato preventivo e fallimento merita di essere segnalata anzitutto Sez. 6-1, n. 14518/2016, Cristiano, Rv. 640491, a tenore della quale la domanda di concordato preventivo proposta dal debitore quando sia già pendente, a suo carico, un procedimento prefallimentare innanzi ad un diverso ufficio giudiziario competente a deciderlo, spetta alla cognizione di quest'ultimo, atteso che tra la prima e l'istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili ma dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza per specularità, sicché trovano applicazione le disposizioni dettate dall'art. 39, comma 2, c.p.c., non stabilendo, peraltro, l'art. 161 l.fall. l'inderogabilità della competenza territoriale ivi prevista per la domanda suddetta.

Ancora, secondo Sez. 6-1, n. 17156/2016, Cristiano, Rv. 641030, la domanda di concordato preventivo proposta dopo la decisione sull'istanza di fallimento, ma prima della pubblicazione della relativa sentenza dichiarativa, è inammissibile, atteso che il momento della pronuncia di quest'ultima va identificato con quello della deliberazione della decisione, mentre la successiva stesura della motivazione, la sottoscrizione e la conseguente pubblicazione (da cui decorrono gli effetti della sentenza) non incidono sulla sua sostanza, né il fallendo può pretendere la revoca di una decisione già assunta e la retrocessione del processo alla fase istruttoria a seguito della tardiva presentazione di una domanda concordataria su cui il collegio non è più tenuto a statuire.

Sez. 6-1, n. 02695/2016, De Chiara, Rv. 638525, afferma che il principio di unicità delle procedure, per il quale, nel caso di contemporanea pendenza di due procedure concorsuali, anche di diversa natura, sorge l'interesse dei creditori alla loro concentrazione davanti allo stesso giudice, con eventuale insorgenza di un conflitto di competenza, non può trovare applicazione quando uno stesso imprenditore abbia presentato ricorso per la dichiarazione di fallimento in proprio presso un tribunale diverso rispetto a quello che ha omologato una sua pregressa domanda di concordato preventivo. Invero, una volta emesso il decreto di omologazione, non può più parlarsi di pendenza della procedura concordataria, a meno che uno dei creditori non presenti istanza di risoluzione ai sensi dell'art. 186 l.fall.

Per Sez. 1, n. 17764/2016, Ferro, Rv. 641355, la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, impedisce la dichiarazione di fallimento solo temporaneamente, sino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall., ma non determina l'improcedibilità del procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del P.M. Ne consegue che il decreto con cui il tribunale abbia ciononostante dichiarato improcedibile il ricorso di fallimento quale mera conseguenza dell'ammissione del debitore al concordato preventivo, non implica di per sé alcuna definizione negativa, nel merito, dell'istruttoria prefallimentare, limitandosi, piuttosto, ad attuare il necessario coordinamento organizzativo tra le procedure: sicché, una volta rimossa la condizione preclusiva alla pronuncia della sentenza di fallimento per effetto della revoca dell'ammissione ex art. 173 l.fall., gli autori della relativa iniziativa conservano la pienezza dei loro poteri di impulso per la prosecuzione del procedimento, senza che sia a tal fine necessario il rilascio di un ulteriore mandato difensivo.

7.5. L'annullamento e la risoluzione.

Quanto alle questioni in tema di annullamento e risoluzione del concordato, si segnala Sez. 1, n. 18090/2016, Di Virgilio, Rv. 641172, a tenore della quale l'annullamento del concordato preventivo omologato, ex art. 186 l.fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 169 del 2007, è un rimedio concesso ai creditori nei casi in cui la rappresentazione dell'effettiva situazione patrimoniale della società proponente, in base alla quale il concordato è stato approvato dai creditori ed omologato dal tribunale, sia risultata falsata per effetto della dolosa esagerazione del passivo, dell'omessa denuncia di uno o più crediti, ovvero della sottrazione o della dissimulazione di tale orientamento, o di altri atti di frode, idonei ad indurre in errore i creditori sulla fattibilità e sulla convenienza del concordato proposto, dovendosi, invero, ravvisare identità di ratio tra le fattispecie legittimanti la revoca dell'ammissione a tale procedura e quelle che determinano l'annullamento della sua omologazione.

Quando, poi, la corte d'appello, in sede di reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell'istanza del creditore di risoluzione del concordato preventivo, abbia confermato il predetto diniego, secondo Sez. 1, n. 02990/2016, Nappi, Rv. 638675, il relativo provvedimento non è impugnabile con ricorso ex art. 111 Cost., attesa la sua inidoneità a precludere una rinnovazione della richiesta da parte del medesimo reclamante o di altri creditori insoddisfatti, mancando i profili di definitività necessari per rendere ammissibile il ricorso straordinario.

Di sicuro interesse, infine, Sez. 1, n. 14788/2016, Ferro, Rv. 640754, chiamata a pronunciarsi sull'annullamento del concordato preventivo pronunciato dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007, che ha sostituito l'art. 186 l.fall.; in questo caso, ove sia altresì dichiarato il fallimento del debitore su istanza di un legittimato, l'impugnazione dell'annullamento confluisce nel reclamo previsto dall'art. 18 l.fall., che, presupponendo l'immediata esecutività di ciascuna delle statuizioni così rese dal tribunale, esclude che il fallimento possa essere dichiarato solo dopo che il decreto di annullamento sia diventato definitivo.

8. Il sovraindebitamento.

Nel corso dell'annata si sono registrate le prime decisioni della S.C. sulla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinata dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3, come modificata dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221.

Afferma in tema Sez. 1, n. 01869/2016, Ferro, Rv. 638758, che il decreto che respinge il reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell'ammissibilità del piano del consumatore di cui agli artt. 6, 7, comma 1-bis, ed 8 della l. n. 3 del 2012, non precludendo a quest'ultimo – benché nei limiti temporali previsti dall'art. 7, comma 2, lett. b), della medesima legge – di presentare un altro e diverso piano di ristrutturazione dei suoi debiti, è privo dei caratteri della decisorietà e definitività, sicché non è ricorribile per cassazione.

  • giurisdizione tributaria

CAPITOLO XLIV

IL PROCESSO TRIBUTARIO

(di Andrea Venegoni, Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 Premessa: le questioni rimesse alle Sezioni Unite. - 2 La giurisdizione tributaria. - 3 La competenza per territorio. - 4 La struttura del processo e le sue conseguenze. - 5 La disapplicazione di un regolamento o di un atto generale. - 6 La dichiarazione dell'inapplicabilità delle sanzioni nel caso di obiettiva incertezza della norma tributaria. - 7 Le parti. - 7.1 Capacità e legittimazione processuale. - 7.2 La rappresentanza in giudizio degli uffici delle Agenzie fiscali. - 7.3 Difetto di rappresentanza o di autorizzazione. - 7.4 Il litisconsorzio. - 7.5 Comunicazioni e notificazioni. - 8 Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale. - 8.1 Gli atti impugnabili. - 8.2 Il ricorso. - 8.2.a La procura alla lite. - 8.2.b La proposizione. - 8.2.c Il termine. - 8.3 La costituzione in giudizio del ricorrente. - 8.4 La costituzione in giudizio del resistente. - 8.5 L'avviso di trattazione della controversia. - 8.6 L'istruzione probatoria. - 8.6.a Il principio di non contestazione. - 8.6.b Le presunzioni. - 8.6.c Le dichiarazioni extraprocessuali del terzo. - 8.6.d Il valore probatorio delle autocertificazioni. - 8.6.e I poteri istruttori officiosi del giudice tributario. - 8.6.f Limitazioni probatorie. - 8.7 La decisione. - 9 Le impugnazioni. - 9.1 Il giudizio di appello. - 9.1.a Proposizione. - 9.1.b Notificazione. - 9.1.c Questioni in tema di impugnazione dell'Agenzia delle Entrate e di soggetti terzi. - 9.1.d Motivi e oggetto. - 9.1.e Integrazione del contraddittorio. - 9.1.f Appello incidentale. - 9.1.g Procedimento. - 9.2 Il giudizio di cassazione. - 9.3 La revocazione. - 10 La sospensione del processo. - 11 L'estinzione del processo. - 12 Il giudicato. - 13 Il giudizio di ottemperanza.

1. Premessa: le questioni rimesse alle Sezioni Unite.

Prima di analizzare gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in merito al processo tributario, va preliminarmente ricordato che nel 2016 sono state rimesse alle Sezioni Unite due questioni di massima importanza su tale argomento: la prima, sollecitata da Sez. T, n. 18000/2016, Sabato, e da Sez. T, n. 18001/2016, Virgilio, concernente, da un lato, l'individuazione del dies a quo del termine di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992 (spedizione o ricezione del ricorso) e, dall'altro, la possibilità di produrre, al momento della costituzione, in luogo della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso, la relativa ricevuta di ritorno; la seconda, sollecitata da Sez. T, n. 21808/2016, Bruschetta, relativa all'art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, e, in particolare, alla sussistenza, in capo alla parte totalmente vittoriosa nel merito, dell'onere di proporre appello incidentale o, al contrario, di limitarsi a riproporre la questione pregiudiziale che non risulti assorbita ma sia stata espressamente rigettata.

2. La giurisdizione tributaria.

La questione del riparto della giurisdizione tributaria si caratterizza, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione nel 2016, per il significativo numero di sentenze emesse dalle Sezioni Unite, a conferma della vivacità dell'argomento.

Sez. U, n. 01179/2016, Petitti, Rv. 639929, si è occupata della giurisdizione sull'opposizione avverso l'ordinanza ingiunzione emessa dall'Agenzia delle entrate a carico del privato che abbia conferito un incarico retribuito a un dipendente pubblico in violazione dell'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, affermando che la stessa appartiene al giudice ordinario, e non a quello tributario, poiché la sanzione, anche se irrogata da un ufficio finanziario, inerisce al rapporto di pubblico impiego e non a un rapporto tributario.

Anche la domanda risarcitoria proposta verso il concessionario per illecita iscrizione d'ipoteca esattoriale in fattispecie anteriore all'entrata in vigore dell'art. 35, comma 26-quinquies, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. 4 agosto 2006, n. 248, è stata ritenuta appartenere al giudice ordinario da Sez. U, n. 11379/2016, De Stefano, Rv. 639974, in cui si è precisato che il giudice ordinario non può declinare la propria giurisdizione in ragione della devoluzione al giudice tributario della pretesa a cautela della quale l'ipoteca è stata iscritta, poiché tale pretesa è solo il presupposto di legittimità della condotta del concessionario e riguarda una questione pregiudiziale conoscibile dal giudice ordinario, cui è devoluta la domanda principale risarcitoria.

Sez. U, n. 08770/2016, Greco, Rv. 639481, in materia di contributi spettanti ai consorzi di bonifica, dopo avere precisato che l'attribuzione alle commissioni tributarie della cognizione di tutte le controversie aventi a oggetto i tributi di ogni genere e specie, a norma dell'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come sostituito dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, include anche quelle relative ai suddetti contributi, ha poi chiarito che la giurisdizione tributaria si estende ad ogni questione relativa all'an o al quantum del tributo, arrestandosi unicamente di fronte agli atti dell'esecuzione tributaria, sicché vi ricade anche l'eccezione di prescrizione dedotta tramite l'impugnazione della cartella esattoriale, che è atto prodromico all'esecuzione.

Da una sezione diversa da quella tributaria è stato, poi, disegnato il riparto di giurisdizione ratione temporis in tema di contributi per il servizio di depurazione delle acque reflue, di cui agli artt. 16 e ss. della l. n. 319 del 1976, la Sez. 1, n. 07739/2016, Nazzicone, Rv. 639320, infatti, ha ravvisato la natura di prestazioni tributarie di tali contributi anche con riferimento al periodo successivo all'anno 1993, essendo stata tale natura ripristinata, con effetto retroattivo, dall'art. 2, comma 3-bis, del d.l. 17 marzo 1995, n. 79 , convertito, con modificazioni, in l. 17 maggio 1995, n. 172 e, quindi, dall'art. 3, comma 42, della l. 28 dicembre 1995, n. 549, dopo che la l. 5 gennaio 1994, n. 36, aveva inteso trasformare le prestazioni in questione in corrispettivi di diritto privato. Ne consegue che le controversie concernenti i predetti "canoni" appartengono alla competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie provinciali ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 546 del 1992 e, per le liti giudiziarie instaurate in epoca antecedente alla loro entrata in funzione (1° aprile 1996), sussiste una riserva di giurisdizione in favore del giudice ordinario ex art. 20, comma 6, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 638.

Sez. U, n. 07665/2016, Cirillo, Rv. 639286, si è, invece, occupata del riparto di giurisdizione tra giudice tributario e amministrativo in materia di classamento e attribuzione di rendite di immobili, affermando che la notifica al contribuente dell'avviso di accertamento per revisione degli stessi è impugnabile davanti alla commissione tributaria, quale operazione catastale individuale, ma non incide sulla giurisdizione amministrativa concernente gli atti amministrativi generali relativi alle "microzone" comunali, i quali possono essere autonomamente impugnati davanti al giudice amministrativo, anche da soggetti esponenziali di interessi diffusi. In argomento va ricordata anche Sez. U, n. 02950/2016, Virgilio, Rv. 638359, che ha ribadito appartenere al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie tra privati, o tra privati e P.A., aventi ad oggetto l'esistenza ed estensione del diritto di proprietà, in cui le risultanze catastali possono essere utilizzate a fini probatori, precisando, però, che qualora tali risultanze siano contestate per ottenerne la variazione, anche al fine di adeguarle all'esito di un'azione di rivendica o regolamento di confini, la giurisdizione spetta al giudice tributario, ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, in ragione della diretta incidenza degli atti catastali sulla determinazione dei tributi.

Anche Sez. U., n. 20901/2016 e n. 20902/2016, Di Iasi, Rv. in corso di massimazione, n. 25316/16, Chindemi, Rv. in corso di massimazione, hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie attinenti l'impugnazione di atti dell'amministrazione di suddivisione di particelle catastali, attribuzione di rendite, mutamento di intestazioni catastali, in quanto hanno ad oggetto l'attribuzione di un diritto soggettivo.

Altra questione affrontata riguarda la giurisdizione sulla controversia promossa dall'appaltatore nei confronti del committente per rivalsa dell'IVA sul corrispettivo di appalto. Secondo Sez. U, n. 06451/2016, Di Iasi, Rv. 639112, la stessa ha natura privatistica, senza alcun profilo o riflesso di spettanza del giudice tributario, ancorché sorga questione circa la corrispondenza tra le somme versate a titolo di imposta e quelle dovute in relazione alle aliquote in concreto applicabili, atteso che la statuizione al riguardo non investe il rapporto tra contribuente e Amministrazione finanziaria, ma si risolve in un accertamento incidentale nell'ambito del rapporto privatistico fra soggetto attivo e soggetto passivo della rivalsa, nel quale l'obbligazione ex lege del committente si aggiunge all'ammontare del corrispettivo, rimanendo soggetta al regime civilistico.

Sez. U, n. 01837/2016, Iacobellis, Rv. 638222, si è occupata dell'azione del consumatore verso il fornitore di gas metano per la ripetizione della quota di prezzo corrispondente all'imposta di consumo, affermando che, poiché soggetto passivo della suddetta imposta è il fornitore, che trasla l'onere all'utente in virtù di un fenomeno meramente economico, l'azione del consumatore per la ripetizione non è un'azione tributaria di rimborso, devoluta alla giurisdizione del giudice tributario, ma un'azione privatistica, rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario.

Sez. U, n. 21690/2016, Frasca, Rv. in corso di massimazione, ha ribadito che le controversie in tema di esecuzione forzata, anche se relative al pagamento di canoni le cui cause appartengono alla giurisdizione tributaria, rientrano, in realtà, nella giurisdizione ordinaria, atteso che l'art. 2, comma 1, d. lgs 546 del 1992 esclude espressamente dalla giurisdizione tributaria il contenzioso riguardante l'esecuzione forzata.

Ugualmente sono state ritenute rientrare nella competenza del giudice ordinario le cause di cognizione sugli importi iscritti a ruolo riportati in una cartella esattoriale concernente il recupero di spese di giustizia (Sez. U, n. 20427/2016, Chindemi, Rv. 641220).

La questione affrontata, invece, da Sez. U, n. 19678/2016, Spirito, Rv. 641092 ha comportato, tra l'altro, l'analisi della natura del contributo per le spese di funzionamento dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, finanziate dal mercato di competenza (ai sensi dell'art. 1, comma 65, della legge 23 dicembre 2005, n. 266), ai fini della indicazione della giurisdizione delle relative controversie. La Corte ha escluso la natura tributaria dello stesso e, di conseguenza, la giurisdizione tributaria sulle relative controversie, con affermazione della giurisdizione amministrativa.

Significativa appare, poi, Sez. U, n. 19069/2016, Iacobellis, Rv. in corso di massimazione, che, in una controversia in tema di recupero di somme indebitamente versate a titolo di iva, nella quale la Corte d'Appello aveva accolto la domanda ex art. 2041 c.c., riconoscendo la giurisdizione del giudice ordinario, ha affermato il principio per cui le controversie in materia di rimborso di tributi sono devolute allo stesso giudice cui è conferita giurisdizione sul rapporto tributario controverso. La deroga a tale giurisdizione sussiste soltanto nel caso in cui l'ente impositore abbia riconosciuto formalmente la non debenza del tributo versato e il diritto del contribuente al rimborso.

Sez. U, n. 25515/2016, Cirillo, Rv. in corso di massimazione, ha affrontato il problema del riparto di giurisdizione – tra giudice amministrativo e tributario – delle controversie in materia di tributo speciale per il deposito in discarica di rifiuti solidi, la c.d. "ecotassa" in favore delle Regioni, introdotta con la legge 28 dicembre 1995, n. 549, affermando la giurisdizione del secondo.

Sez. U, n. 25632/2016, Cirillo, Rv. in corso di massimazione, si è occupata della giurisdizione nelle controversie sulla c.d. transazione dei tributi già iscritti a ruolo, di cui al d.l. 8 luglio 2002, n. 138, successivamente abrogato, per la quale si era posto il dubbio della sussistenza della giurisdizione amministrativa, in virtù del potere discrezionale che la normativa conferiva all'Amministrazione per definire le controversie in base a tale istituto. Anche in tal caso, la Corte ha riconosciuto la giurisdizione tributaria.

In tema di fermo amministrativo, Sez. U, n. 26269/2016, Greco, Rv. in corso di massimazione, ha concluso che nelle controversie aventi per oggetto il provvedimento di fermo di beni mobili registrati, di cui all'art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1972, ai fini della giurisdizione rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo, con la conseguenza che la giurisdizione spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria o meno dei crediti, ovvero ad entrambi se il provvedimento di fermo si riferisce in parte a crediti tributari e in parte a crediti non tributari.

Sez. U, n. 26268/2016, Greco, Rv. in corso di massimazione, in tema di TIA, ha ritenuto che spettino alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto la debenza della tariffa di igiene ambientale disciplinata dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, la "prima TIA", in quanto, come evidenziato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238 del 2009 e con l'ordinanza n. 64 del 2010, tale tariffa non costituisce una entrata patrimoniale di diritto privato, ma una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. 15 novembre 1993, n. 507, di cui conserva la qualifica di tributo.

Sez. U, n. 26125/2016, e n. 25977/2016, Perrino, Rv. in corso di massimazione, si sono, invece, occupate della giurisdizione sulle controversie in materia di rimborso di tributi pagati in luogo di altri debitori. La Corte ha reiterato il principio secondo cui spettano al giudice tributario i procedimenti nei quali il diritto del contribuente sia contestato dall'erario, mentre sono devoluti al giudice ordinario soltanto quelli in cui non residuino questioni circa l'esistenza dell'obbligazione, il quantum della restituzione e le modalità della sua esecuzione, attesa la riserva alle commissioni tributarie, disposta dall'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, di tutte le cause di cognizione aventi ad oggetto tributi.

Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637939, in tema di imposta comunale sugli immobili (I.C.I.), ha affermato che, poiché la suddetta imposta è da qualificarsi come tributo e non come entrata patrimoniale pubblica extratributaria, l'opposizione proposta dal contribuente avverso l'ingiunzione fiscale, emessa dal comune in pendenza del giudizio tributario instaurato dal primo contro l'avviso di accertamento ai sensi dell'art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992 e, quindi, sostanzialmente equivalente all'iscrizione dell'imposta nel ruolo notificata al contribuente stesso, è assimilabile alla lite concernente l'impugnazione del ruolo, sicché la relativa controversia è attribuita alla giurisdizione del giudice tributario, giusta il combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo, e 19, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 546 del 1992, e 15 del d.lgs. n. 504 del 1992.

Infine, va segnalata la questione affrontata da Sez. U., n. 27074/2016, Perrino, Rv. in corso di massimazione che, in una controversia riguardante il pagamento, a carico delle società di gestione degli aeroporti, dei contributi destinati ad alimentare il fondo antincendi istituito dall'art. 1, comma 1328, della l. n. 296 del 2006, hanno rimesso alla Consulta, ritenendone la non manifesta infondatezza ai fini della individuazione del giudice munito di giurisdizione, la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 102, 111, e 117 Cost., in relazione all'art. 6 Cedu, afferente i limiti della portata retroattiva, dell'art. 1, comma 478, della l. n. 208 del 2015, nella parte in cui ha novellato l'art. 39-bis, comma 1, del d.l. n. 159 del 2007, conv., con modif., dalla l. n. 222 del 2007, atteso che la disposizione normativa escluderebbe, con effetto retroattivo, la giurisdizione tributaria per le controversie attinenti il pagamento del contributo sopra indicato che, invece, appare un vero e proprio tributo.

Anche la sezioni semplici hanno avuto occasione di pronunciarsi su situazioni in cui veniva in rilievo la questione del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e tributario. Così, Sez. 3, n. 08952/2016, Ambrosio, Rv. 639657, ha ritenuto che la controversia relativa alla opposizione avverso il fermo amministrativo del veicolo ed il relativo preavviso ex art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come interpretato dall'art. 35, comma 25-quinquies, del d.l. n. 223 del 2006, convertito in l. n. 248 del 2006, appartiene al giudice tributario, salvo che l'Amministrazione abbia riconosciuto formalmente l'inesistenza del credito ovvero il diritto allo sgravio delle somme pretese, dovendosi, in tali evenienze, riconoscere la giurisdizione del giudice ordinario, riguardando la controversia un mero indebito oggettivo di diritto comune.

Sempre la stessa sezione, poi, ha rilevato che, di regola, è dallo stesso atto in cui si manifesta la pretesa creditoria che emergono elementi per stabilire la natura del credito e, di conseguenza, la giurisdizione. In particolare, Sez. 3, n. 11794/2016, Rubino, Rv. 640105, a proposito dell'estratto di ruolo, ha concluso che, costituendo lo stesso la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alla o alle pretese creditorie azionate verso il debitore con la cartella esattoriale, deve contenere tutti gli elementi essenziali per identificare la persona del debitore, la causa e l'ammontare della pretesa creditoria, sicché esso costituisce prova idonea dell'entità e della natura del credito portato dalla cartella esattoriale anche ai fini della verifica della natura tributaria o meno del credito azionato e, quindi, della verifica della giurisdizione del giudice adito.

3. La competenza per territorio.

La Corte si è occupata della materia della competenza con riguardo all'impugnazione della cartella di pagamento, con cui il contribuente faccia valere, anche in via esclusiva, vizi del ruolo (del quale abbia avuto conoscenza soltanto tramite la cartella), affermando che, in tale caso, la competenza appartiene sempre alla commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l'agente del servizio di riscossione; ciò anche nell'ipotesi in cui l'ufficio tributario che ha formato il ruolo abbia sede in una circoscrizione diversa, atteso che il combinato disposto degli artt. 19, commi 1, lett. d), e 3, e 21, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, considerando il ruolo e la cartella di pagamento in modo unitario e congiuntamente impugnabili, esclude sia il frazionamento delle cause tra giudici diversi sia la rimessione al ricorrente della scelta del giudice territorialmente competente da adire (Sez. T, n. 15829/2016, Virgilio, Rv. 640647).

4. La struttura del processo e le sue conseguenze.

In ordine alla struttura del processo tributario e alle sue conseguenze, sono da segnalare due decisioni.

Sez. T, n. 07927/2016, Zoso, Rv. 639633, dopo avere ribadito la struttura impugnatoria del processo tributario, in quanto diretto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impositivo, ne ha tratto la conseguenza dell'impossibilità, per il giudice tributario, di estendere la propria indagine all'esame di circostanze nuove ed estranee rispetto a quelle originariamente invocate dall'ufficio nell'atto impugnato. In base a tale principio, la Corte ha affermato l'inammissibilità di un appello proposto dall'Agenzia delle entrate la quale, in tema di imposta di registro, solo con i motivi di appello aveva considerato, nel calcolo della superficie utile, oltre a quella dell'abitazione, anche quella di un altro locale (indicato erroneamente in catasto come cantina).

Con riferimento, invece, alla posizione del contribuente, Sez. T, n. 13126/2016, Botta, Rv. 640141, ha escluso la rilevabilità d'ufficio della nullità dell'avviso di accertamento, con la conseguenza che la relativa eccezione, se non formulata in primo grado, non può essere proposta nelle successive fasi del giudizio.

5. La disapplicazione di un regolamento o di un atto generale.

Sez. T, n. 12545/2016, Solaini, Rv. 640085, ha chiarito che, alla luce del disposto dell'art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992, il potere del giudice tributario di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi presupposti dall'atto impositivo impugnato non può prescindere completamente dai motivi d'impugnazione dedotti in relazione a quest'ultimo, ma deve essere esercitato con riferimento alla domanda del contribuente. Applicando tale principio, la Corte ha annullato la pronuncia del giudice di merito che aveva disapplicato il regolamento comunale in materia di TIA perché viziato da eccesso di potere, nonostante il contribuente non avesse compreso tra i motivi di impugnazione avverso l'atto impositivo l'illegittimità del detto regolamento.

6. La dichiarazione dell'inapplicabilità delle sanzioni nel caso di obiettiva incertezza della norma tributaria.

Sez. 6-T, n. 14402/2016, Iofrida, Rv. 640536, ha chiarito che il potere del giudice tributario di dichiarare, anche in sede di legittimità, l'inapplicabilità delle sanzioni non penali quando la violazione sia giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito applicativo della disposizione tributaria (art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992) sussiste soltanto in presenza di una domanda del contribuente, la quale deve essere formulata nei modi e nei termini processuali appropriati e non può, perciò, essere proposta per la prima volta nei giudizi di appello o di legittimità.

7. Le parti.

7.1. Capacità e legittimazione processuale.

In argomento va menzionata, anzitutto, Sez. T, n. 16959/2016, Cirillo, Rv. 640802, in tema di conseguenze della dichiarazione dello stato di dissesto di un ente territoriale, secondo cui tale dichiarazione non spoglia l'ente della sua capacità processuale, atteso che il divieto di iniziare o di proseguire le azioni esecutive per i debiti che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione attribuisce a quest'ultimo la legittimazione processuale passiva solo con riguardo alle azioni esecutive ma non con riguardo a quelle di cognizione. Ne consegue che l'erario può procedere ad accertamento fiscale nei confronti dell'ente territoriale di cui sia stato dichiarato il dissesto notificando l'atto impositivo all'organo istituzionale dello stesso, il quale è legittimato a proporre l'eventuale impugnazione.

Deve, inoltre, segnalarsi Sez. T, n. 05736/2016, Tricomi, Rv. 639134, secondo cui la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società ricorrente prima della notificazione dell'avviso di accertamento e dell'instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto di legittimazione ad agire della stessa e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell'ex liquidatore, con la conseguenza che, non sussistendo alcuna possibilità di prosecuzione dell'azione, deve essere annullata senza rinvio, ai sensi dell'art. 382 c.p.c., la sentenza impugnata con ricorso per cassazione, in presenza di un vizio originario insanabile del processo, che avrebbe dovuto da subito condurre a una pronuncia declinatoria nel merito. Va evidenziata la difformità di tale decisione rispetto alla precedente Sez. 6-T, n. 28187/2013, Bognanni, Rv. 629566, che aveva ritenuto l'ammissibilità del ricorso proposto dall'ex liquidatore avverso una cartella di pagamento emessa nei confronti di una società successivamente alla sua cancellazione dal registro delle imprese «esclusivamente ai fini della rilevabilità "ex officio" della nullità della cartella di pagamento in quanto emessa nei confronti di un soggetto ormai inesistente».

Occorre, poi, ricordare Sez. T, n. 05384/2016, Marulli, Rv. 639435, che ha escluso l'irritualità, nullità o inesistenza dell'atto impositivo non notificato al contribuente fallito in presenza di regolare notifica e conseguente impugnazione da parte della curatela, potendo essere esercitato il diritto di difesa del fallito, a cui la notifica è strumentale, solo in via condizionata, nell'inerzia degli organi della procedura fallimentare.

Va, infine, menzionata Sez. 6-T, n. 27277/2016, Conti, Rv. 642551, che ha chiarito che l'incapacità processuale del fallito contribuente durante la procedura fallimentare è "relativa" ed è rilevabile solo su eccezione del curatore fallimentare e non della controparte, né, tanto meno, può essere rilevata d'ufficio dal giudice.

7.2. La rappresentanza in giudizio degli uffici delle Agenzie fiscali.

La Corte si è occupata dell'argomento con riguardo alla rappresentanza degli uffici periferici dell'Agenzia delle entrate, chiarendo che tutti i detti uffici hanno la capacità di stare in giudizio, in via concorrente e alternativa al direttore, e si configurano quali suoi organi, che ne hanno la rappresentanza, sicché, in caso di evocazione e costituzione in giudizio di un ufficio territoriale diverso da quello che ha emesso l'atto impugnato, non è necessario disporre la rinnovazione della notifica, poiché tutto ciò che riguarda l'articolazione organizzativa interna dell'agenzia fiscale è processualmente irrilevante, dovendo l'attività difensiva essere riferita all'agenzia fiscale quale persona giuridica di diritto pubblico e non al singolo ufficio periferico (Sez. 6-T, n. 19828/2016, Vella, Rv. 641257).

7.3. Difetto di rappresentanza o di autorizzazione.

È opportuno sottolineare l'applicabilità nel processo tributario della sanatoria prevista dall'art. 182, comma 2, c.p.c.

Con riguardo alla diversa efficacia della disposizione, nella formulazione, rispettivamente, anteriore e successiva alla sua sostituzione a opera dell'art. 46, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69, Sez. T, n. 18062/2016, Iannello, Rv. 640960, ha ritenuto che, mentre nel testo anteriore la detta sanatoria aveva effetto ex nunc, con la conseguenza che, qualora fosse intervenuta oltre il termine di proposizione del ricorso, essa non impediva la definitività dell'atto impositivo, nel testo di nuova formulazione, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dal 4 luglio 2009, ha invece efficacia retroattiva anche sul piano sostanziale.

Sul tema era già intervenuta, nel corso dell'anno, Sez. 6-T, n. 03084, Caracciolo, Rv. 638909, la quale, affermata l'applicabilità al processo tributario del citato art. 182 c.p.c. in ragione del «principio di integrazione delle norme non incompatibili del codice di rito civile», ne ha tratto la conseguenza, basata sulla formulazione della disposizione successiva alla legge n. 69 del 2009, che il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisca in difetto di rappresentanza organica di un ente può essere sanato, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, in qualunque stato e grado del giudizio (e, quindi, anche in appello), per mezzo della costituzione in giudizio del soggetto dotato dell'effettiva rappresentanza, il quale manifesti, anche tacitamente, la volontà di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha riconosciuto efficacia sanante alla costituzione in appello del liquidatore nominato a seguito dello scioglimento della società rispetto al ricorso che era stato proposto in primo grado dal precedente legale rappresentante, ormai privo di poteri al momento della sottoscrizione dell'atto di impugnazione.

7.4. Il litisconsorzio.

Con riguardo al litisconsorzio necessario, le pronunce massimate hanno riguardato il rapporto tra i giudizi instaurati, rispettivamente, dalle società di persone e dai loro soci.

Sez. T, n. 15566/2016, Iannello, Rv. 640634, ha precisato che l'impugnazione dell'avviso di accertamento relativo all'IRPEF e all'IRAP, dovute dalla società di persone e dai suoi soci, riguarda inscindibilmente sia l'una che gli altri anche nel caso in cui sia proposta dal socio occulto di una società di persone per contestare tale posizione, atteso il principio di unitarietà, su cui si basa la rettifica delle dichiarazioni dei redditi della società di persone e dei suoi soci, con automatica imputazione dei redditi della prima a ciascuno dei soci, indipendentemente dalla percezione e in proporzione alla quota di partecipazione agli utili (art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), con la conseguenza che il giudizio è affetto da nullità assoluta, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, in caso di mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i soci, che sono litisconsorti necessari. Tuttavia, come precisato da Sez. 6-T, n. 12375/2016, Caracciolo, Rv. 640036, ove le pronunce riguardanti la società e i suoi soci siano state adottate dallo stesso collegio in identica composizione, nella medesima circostanza e nel contesto di una trattazione sostanzialmente unitaria, sussiste la presunzione che si sia realizzata una vicenda sostanzialmente esonerativa del litisconsorzio formale, per cui il ricorrente per cassazione che, con riferimento al giudizio di primo grado, lamenti la violazione del litisconsorzio necessario, ha l'onere, in conformità al principio di autosufficienza, di descrivere lo sviluppo delle procedure nel corso del detto grado.

Va, inoltre, sottolineato che è stato escluso il litisconsorzio necessario:

dei soci della società di persone nella controversia avente a oggetto la liquidazione, in base alla procedura di controllo automatico, dell'IVA e dell'IRAP dovute dalla società in base alla sua stessa dichiarazione, atteso che l'atto impugnato dalla società non comporta alcuna rettifica dei redditi della stessa e, di conseguenza, neanche di quelli dei soci, per cui si pone soltanto una questione di solidarietà passiva ai sensi dell'art. 2313 c.c. (Sez. T, n. 09527/2016, Luciotti, Rv. 639771);

della società di persone nel caso in cui alcuni soci della stessa impugnino distinti avvisi di accertamento, nascenti dalla medesima rettifica operata nei confronti della società, invocando gli effetti del condono da questa (e da un altro socio) posto in essere ai sensi dell'art. 39, comma 12, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella l. 15 luglio 2011, n. 111, in quanto la società non ha alcun interesse processualmente rilevante a partecipare al giudizio (Sez. T, n. 13746/2016, Iannello, Rv. 640537). Parimenti, nel caso in cui, a seguito della definizione agevolata di cui all'art. 9-bis del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, nella l. 28 maggio 1997, n. 140, sia divenuto incontestabile il reddito della società che, ai sensi del citato art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, costituisce titolo per l'accertamento nei confronti dei soci, nell'eventuale giudizio sull'impugnazione dell'avviso di rettifica del reddito di partecipazione promosso da questi ultimi non è configurabile un litisconsorzio necessario con la società e con gli atri soci, dato che si controverte esclusivamente degli effetti della definizione agevolata della società su ciascuno dei soci, sicché ciascuno di essi può opporre soltanto ragioni specifiche di carattere personale (Sez. T, n. 14490/2016, Iannello, Rv. 640545).

Va, infine, menzionata sull'argomento Sez. 6-T, n. 15748/2014, Conti, Rv. 640653, che, dopo avere affermato la legittimazione del socio accomandante, in quanto contribuente e, dunque, soggetto passivo del rapporto tributario, esposto alla definitività dell'atto impositivo, a impugnare l'avviso di accertamento inerente a crediti IVA e IRAP della società, i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento della stessa, ha aggiunto che, nel relativo giudizio, sussiste un litisconsorzio necessario con il curatore e con il socio accomandante, stante l'unitarietà del detto accertamento, che è alla base dell'imputazione dei redditi a ciascun socio.

Con riguardo al litisconsorzio facoltativo nel processo tributario e, in particolare, all'ammissibilità di un ricorso collettivo e cumulativo, Sez. T, n. 07940/2016, Zoso, Rv. 639441, ha affermato che, data l'assenza, nel d.lgs. n. 546 del 1992, di disposizioni sul cumulo dei ricorsi e il rinvio, operato dall'art. 1, comma 2, dello stesso decreto, alle norme del codice di procedura civile per quanto non disposto e nei limiti della compatibilità, deve ritenersi applicabile l'art. 103 c.p.c., in tema, appunto, di litisconsorzio facoltativo, con la conseguente ammissibilità della proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se riguardante distinte cartelle di pagamento, ove esso abbia a oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa. Applicando tale principio, la Corte ha ritenuto ammissibile un ricorso collettivo e cumulativo contenente un'identica contestazione avverso distinte cartelle di pagamento emesse nei confronti di diversi contribuenti per il pagamento del canone televisivo per l'anno 2005.

Si menziona, infine, sul tema anche Sez. 6-T, n. 07789/2016, Caracciolo, Rv. 639568, massimata come conforme a Sez. 6-T, n. 25300/2014, Conti, Rv. 633451.

Particolarmente utile al fine di ricostruire i rapporti nel giudizio tributario tra ente impositore e concessionario o agente della riscossione e l'assenza di un'ipotesi di litisconsorzio necessario tra gli stessi, risulta la recente Sez. T, n. 22729/2016, Sabato, Rv. 641884, secondo cui, qualora il contribuente impugni l'avviso di mora per la mancata notifica della cartella di pagamento, salva la previsione dell'art. 39 del d.lgs. n. 112 del 1999, la legittimazione passiva spetta all'ente impositore, su cui incombe l'onere probatorio, al cui adempimento è funzionale l'eventuale chiamata in causa, ex art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, del concessionario del servizio di riscossione perché provveda a produrre la documentazione in suo possesso, mentre l'impugnazione va proposta esclusivamente nei confronti di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, per gli errori a lui direttamente imputabili e, cioè, per i vizi propri della cartella o dell'avviso di mora.

7.5. Comunicazioni e notificazioni.

Con riguardo alle comunicazioni e alle notificazioni in genere, si devono segnalare due pronunce.

Sez. 6-T, n. 14679/2016, Napolitano, Rv. 640495, ha chiarito che l'art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui prevede che le notificazioni all'ente locale possono essere fatte anche mediante consegna dell'atto all'impiegato addetto, non si applica alle notifiche ai consorzi di bonifica, essendo questi degli enti pubblici economici, i quali non rientrano nella categoria degli enti locali disciplinati dal d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

Da menzionare, poi, in tema di notificazione telematica a mezzo di posta elettronica certificata (PEC) da parte del difensore del contribuente munito dell'autorizzazione del consiglio dell'ordine di appartenenza, Sez. 6-T, n. 17941/2016, Napolitano, Rv. 640801, la quale ha precisato che, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, che rinvia alle disposizioni del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163, le notificazioni degli atti del processo tributario tramite PEC sono previste in via sperimentale solo dal 1° dicembre 2015 ed esclusivamente dinnanzi alle commissioni tributarie della Toscana e dell'Umbria (come precisato dall'art. 16 del citato decreto). Da tale premessa si è tratta la conseguenza che la notificazione della sentenza all'Amministrazione finanziaria effettuata dal difensore autorizzato a mezzo della PEC in data 5 dicembre 2014 è inesistente e insuscettibile di sanatoria e, quindi, inidonea a fare decorrere il termine breve di impugnazione.

Diverse pronunce hanno invece specificamente riguardato il luogo delle notificazioni e delle comunicazioni.

Sez. T, n. 07938/2014, Scoditti, Rv. 639702, dopo avere rammentato che l'art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, prevede che le variazioni del domicilio eletto, della residenza o della sede sono efficaci nei confronti della segreteria della commissione e delle controparti costituite dal decimo giorno successivo a quello in cui è stata loro notificata la denuncia di variazione, ha affermato che, in difetto di tale notificazione, i successivi atti del processo continuano a essere validamente notificati nel luogo originariamente dichiarato, e ciò anche nel caso in cui il domiciliatario rifiuti di ricevere l'atto, allegando, ad esempio, la rinuncia all'incarico conferitogli dal notificatario o la revoca dello stesso.

Sez. 6-T, n. 13238/2016, Conti, Rv. 640135, ha peraltro precisato che il menzionato onere di notificazione delle variazioni del domicilio eletto, della residenza o della sede è previsto dal citato art. 17, comma 1, per il domicilio autonomamente eletto dalla parte, mentre l'elezione di domicilio presso lo studio del procuratore ha la mera funzione di indicare la sede dello studio di questi, con la conseguenza che il difensore domiciliatario non ha, a sua volta, l'onere di comunicare il mutamento d'indirizzo del proprio studio, ma compete, invece, al notificante effettuare apposite ricerche per individuare il nuovo luogo di notificazione, ove quello a sua conoscenza sia mutato, salva la legittimità, nel caso di esito negativo di tali ricerche, della notificazione dell'atto presso la segreteria della commissione tributaria, ai sensi del comma 3 del medesimo art. 17. Applicando tale principio, la Corte ha ritenuto valida la comunicazione dell'avviso di trattazione della causa presso la segreteria della commissione, avendo l'Amministrazione finanziaria effettuato le opportune ricerche e, in particolare, riscontrato che il domiciliatario non aveva comunicato variazioni all'ordine professionale di appartenenza. Tuttavia, pochi mesi prima, Sez. T, n. 05749/2016, Solaini, Rv. 639137, nell'affermare l'applicabilità della regola residuale dell'art. 17, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, che consente la notificazione e la comunicazione degli atti presso la segreteria della commissione, non solo nei casi, da essa espressamente menzionati, di originaria carenza o inidoneità delle indicazioni fornite dalla parte, ma anche nelle ipotesi in cui, non essendo stato adempiuto l'onere di comunicare le successive variazioni, la sopravvenuta inefficacia delle predette indicazioni renda in concreto impossibile procedere alla notificazione o alla comunicazione, ha ritenuto valida la comunicazione dell'avviso di trattazione della causa presso la segreteria della commissione, non avendo la parte dato notizia dell'avvenuto trasferimento dello studio del difensore, presso cui aveva eletto domicilio, contraddicendo la precedente Sez. 6-T, n. 13366/2013, Di Blasi, Rv. 626830.

Sez. T, n. 16189/2016, Ragonesi, Rv. 640765, ha asserito che, prima del decorso del termine dilatorio di efficacia delle variazioni del decimo giorno successivo a quello in cui è stata notificata la relativa denuncia, gli atti del processo restano validamente notificati nel luogo originariamente dichiarato, anche qualora la variazione sia di tipo endoprocessuale, sicché il giudice, constatata la mancata notifica dell'appello per trasferimento del destinatario, non può dichiarare inammissibile il gravame ma deve disporre il rinnovo della notificazione.

Due pronunce hanno infine affrontato la questione del luogo delle notificazioni con riguardo, in particolare, alla notificazione delle sentenze, ai fini del decorso del termine breve di impugnazione delle stesse previsto dall'art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992.

Quanto alla notificazione della sentenza di appello all'Agenzia delle entrate, Sez. T, n. 23985/2016, Virgilio, Rv. 641992, ha statuito che, mentre nel caso in cui la detta sentenza sia stata emessa in un giudizio al quale l'Agenzia delle entrate abbia partecipato senza il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, essa deve essere notificata, affinché decorra il termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione, presso la sede centrale dell'Agenzia o, alternativamente, presso la sede del suo ufficio periferico, qualora la stessa Agenzia si sia invece avvalsa nel giudizio del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, la notificazione della sentenza, ai fini del decorso del termine breve, va eseguita, secondo i principi generali, presso quest'ultima.

Sez. T, n. 24920/2016, Chindemi, Rv. 641736, dopo avere ribadito che, secondo quanto statuito da Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640602, l'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992, in assenza di ragioni normative che impongano di ritenere che esso si riferisca soltanto alle notificazioni endoprocessuali, si applica anche alla notificazione del ricorso in appello e, quale logica conseguenza, anche alla notificazione della sentenza di appello, ha affermato la nullità, e la conseguente inidoneità a fare decorrere il termine breve di impugnazione, della notificazione della sentenza di appello nel domicilio eletto dal notificatario (in una memoria di costituzione in appello) senza che il procuratore dello stesso avesse provveduto, a norma dell'art. 17, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, a notificare tale variazione del domicilio alla segreteria della commissione e alle parti costituite.

8. Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale.

8.1. Gli atti impugnabili.

Con riguardo all'individuazione degli atti impugnabili, vanno anzitutto menzionate due pronunce delle Sezioni Unite.

Sez. U, n. 08587/2016, Di Iasi, Rv. 639392, ha statuito che l'autorizzazione del procuratore della Repubblica necessaria, ai sensi dell'art. 52, comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per consentire l'esame di documenti relativamente ai quali è stato eccepito il segreto professionale, è impugnabile davanti al giudice tributario solo qualora sia stato impugnato l'atto conclusivo del procedimento di verifica fiscale, dato che detta autorizzazione è un atto infraprocedimentale, non impugnabile autonomamente. La Corte ha altresì puntualizzato che ciò non determina una vuoto di tutela giurisdizionale, atteso che, qualora il procedimento di verifica non si concluda con l'emanazione di un atto impositivo o tale atto non venga impugnato, l'autorizzazione illegittima resta impugnabile davanti al giudice ordinario, in quanto lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge.

Va, poi, ricordato che Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637939, già citata al paragrafo 2, in tema d'ICI, ha affermato la sostanziale equivalenza dell'opposizione proposta dal contribuente avverso l'ingiunzione fiscale emessa dal comune, ai sensi dell'art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992, in pendenza del giudizio tributario promosso dal primo contro l'avviso di accertamento, alla lite concernente l'impugnazione del ruolo.

Anche le sezioni semplici hanno reso nell'anno numerose pronunce in materia di atti impugnabili dinanzi al giudice tributario, a conferma dell'esistenza di una costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità al riguardo.

Sulla premessa che l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 ha natura tassativa ma, in considerazione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento dell'Amministrazione, ogni atto adottato dall'ente impositore che porti comunque a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con l'esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche della stessa, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, Sez. 6-T, n. 03315/2016, Conti, Rv. 638796, ha affermato l'immediata impugnabilità della comunicazione di irregolarità (cosiddetto avviso bonario) prevista dall'art. 36-bis, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Autonomamente impugnabile è stata ritenuta anche la comunicazione della sospensione di un rimborso dell'IVA in vista di una compensazione del relativo credito, con conseguente differimento in concreto dello stesso rimborso; ciò ai sensi o del combinato disposto degli artt. 19, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 546 del 1992, e 23 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, o, comunque, del medesimo art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, dato che la tassatività dell'elencazione in esso contenuta deve intendersi riferita non ai singoli provvedimenti nominativamente individuati ma alle categorie cui essi sono riconducibili nelle quali vanno, pertanto, compresi anche gli atti atipici o con un nomen iuris diverso da quelli indicati, sempreché, però, producano gli stessi effetti giuridici (Sez. T, n. 05723/2016, Luciotti, Rv. 639135).

La Corte ha infine riconosciuto l'autonoma impugnabilità anche del silenzio dell'Amministrazione finanziaria sull'istanza di riconoscimento di un'esenzione o di un'agevolazione, il quale deve essere qualificato come silenzio rifiuto, atteso che, ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, rientra tra gli atti suscettibili di autonoma impugnazione qualunque provvedimento idoneo a incidere sul rapporto tributario (Sez. T, n. 13394/2016, Meloni, Rv. 640147).

Sez. T, n. 07511/2016, Iannello, Rv. 639628, ha, invece, escluso che ricada nell'ambito previsionale dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 l'annullamento parziale in via di autotutela (o, comunque, il provvedimento di portata riduttiva) della pretesa contenuta in atti divenuti definitivi, non comportando tale provvedimento alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui noto e ormai consolidato, in ragione dell'omessa tempestiva impugnazione del precedente accertamento, a differenza dell'atto che abbia una portata ampliativa della pretesa originaria, di cui è riconosciuta l'autonoma impugnabilità.

Con riguardo alle conseguenze dell'omessa impugnazione di atti impositivi non espressamente indicati dall'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 (si trattava, nella specie, di fatture relative alla TIA), la Corte ha ribadito (Sez. 6-T, n. 14675/2016, Napolitano, Rv. 640514; in senso conforme, Sez. T, n. 02616/2015, Napolitano, Rv. 634214 e Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281) che l'iniziativa giudiziaria costituisce una facoltà e non un onere, il cui mancato esercizio non preclude la successiva possibilità d'impugnazione unitamente all'atto successivo (nella specie, la cartella di pagamento).

È, infine, interessante, il principio, affermato da Sez. 6-T, n. 19013/2016, Conti, Rv. 641108, secondo cui, nel caso di accertamento dei redditi di partecipazione, l'indipendenza dei procedimenti relativi alla società di capitali e al singolo socio comporta che quest'ultimo, ove abbia impugnato l'accertamento a lui notificato senza avere preso parte al giudizio promosso dalla società, conserva la facoltà di contestare non solo la presunzione di distribuzione di maggiori utili ma anche la validità dell'accertamento dei maggiori ricavi non contabilizzati operato a carico della società.

8.2. Il ricorso.

8.2.a. La procura alla lite.

Sez. T, n. 16758/2016, Marulli, Rv. 641066, in conformità con la sentenza n. 13208 del 2007 (Sez. T, n. 13208/2007, Scuffi, Rv. 599293), ha ribadito che nel processo tributario la procura alle liti deve essere apposta sull'originale del ricorso, mentre non è necessario che figuri anche sulla copia notificata alla controparte, dove è sufficiente che compaia un'annotazione che attesti la sua presenza sull'originale.

8.2.b. La proposizione.

Va segnalata una pronuncia concernente le modalità di presentazione del ricorso ai sensi della previgente disciplina del processo tributario dettata dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636. Sez. T, n. 10487/2016, Iannello, Rv. 639982, ha chiarito che, nel vigore dell'art. 17 di tale decreto, come sostituito dall'art. 8 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739, l'omissione della consegna o della spedizione di una copia del ricorso al competente ufficio finanziario, legittimato a contraddire, determinava l'inammissibilità del ricorso, dato che la formalità menzionata atteneva alla valida costituzione del rapporto processuale e, quindi, alla corretta instaurazione del contraddittorio, senza che potessero ammettersi equipollenti o sanatorie della stessa.

Sez. T, n. 19864/2016, Manzon, Rv. 641256, confermando Sez. T, n. 15309/2014, Greco, Rv. 631565, ha ribadito che la spedizione del ricorso (o dell'atto d'appello) a mezzo posta in busta chiusa e priva di qualsiasi indicazione relativa all'atto al suo interno, anziché in plico senza busta, come previsto dall'art. 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, costituisce una mera irregolarità se il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non siano contestati, essendo, altrimenti, onere del ricorrente (o dell'appellante) provare l'infondatezza della contestazione formulata.

8.2.c. Il termine.

Sez. T, n. 18002/2016, Vella, Rv. 641129, ha statuito che la notificazione dell'avviso di accertamento al contribuente in bonis non è idonea a fare decorrere il termine di impugnazione dell'atto anche nei confronti del curatore del fallimento che sia sopravvenuto in pendenza di detto termine, di tal ché l'intervenuta definitività dell'atto impositivo non è opponibile alla massa dei creditori. A tale fine, è necessario che lo stesso venga notificato anche al curatore, così da rendere manifesta l'intenzione dell'Amministrazione finanziaria di procedere all'insinuazione del credito vantato al passivo fallimentare, facendo conseguentemente sorgere un interesse concreto e attuale del curatore a contestare l'atto impositivo a tutela della massa dei creditori.

Sez. 6-T, n. 11269/2016, Cigna, Rv. 639913, ha, invece, chiarito che il termine per la proposizione del ricorso, essendo "a decorrenza successiva", va computato escludendo il giorno iniziale e conteggiando quello finale, atteso che si applica l'art. 155, comma 5, c.p.c., con la conseguenza che, qualora il dies ad quem scada nella giornata di sabato, esso è prorogato di diritto al primo giorno seguente non festivo, non rilevando l'apertura degli uffici postali o la disponibilità ad accettare gli atti in scadenza l'ultimo giorno.

Sempre in tema di computo del termine per l'impugnazione, con riguardo al dies a quo, Sez. 6-T, n. 02047/2016, Cosentino, Rv. 638907, ha precisato che, nel caso di notificazione dell'atto impositivo effettuata a mezzo della posta direttamente dall'ufficio finanziario, allo scopo di garantire il bilanciamento tra l'interesse del notificante e quello del notificato, deve applicarsi in via analogica la regola dell'art. 8, comma 4, della l. 20 novembre 1982, n. 890, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell'avviso di giacenza, ovvero dalla data di ritiro del piego, se anteriore, con la conseguenza che il termine per ricorrere avverso l'atto notificato decorre da tale momento.

Da segnalare, ancora, Sez. 6-T, n. 20612/2014, Crucitti, Rv. 641252, ad avviso della quale, nel caso di mancato deposito dell'atto impugnato, che determini incertezza in ordine alla tempestività del ricorso, il giudice deve concedere un termine al ricorrente perché vi provveda, atteso che l'art. 22, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992 – ai sensi del quale, ove sorgano contestazioni, il giudice tributario ordina l'esibizione degli originali degli atti e documenti di cui ai precedenti commi – consente di escludere la sanzione dell'inammissibilità, non espressamente comminata, se sia possibile accertare la sostanziale regolarità dell'atto e l'osservanza delle regole processuali fondamentali.

Va, infine, in questa sede menzionata Sez. T, n. 18027/2016, Marulli, Rv. 641132, secondo cui, poiché l'art. 68, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo anteriore alle modificazioni ad esso apportate dall'art. 9, comma 1, lett. ff), n. 2), del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, stabilendo il rimborso d'ufficio del tributo corrisposto dal contribuente in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale entro novanta giorni dalla notificazione della stessa, determina la nascita di un'obbligazione ex lege da indebito, non è soggetta ai termini di decadenza di cui all'art. 21, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 546 del 1992, l'istanza di rimborso necessaria per potere adire l'autorità giudiziaria in caso di inadempimento dell'Amministrazione.

8.3. La costituzione in giudizio del ricorrente.

Sul fondamento del principio di effettività della tutela giurisdizionale, il quale impone di interpretare in senso restrittivo le previsioni di inammissibilità, Sez. T, n. 16758/2016, Marulli, Rv. 641067, ha escluso che l'illeggibilità della sottoscrizione, da parte del ricorrente o del suo difensore, della copia del ricorso (consegnato o spedito a mezzo della posta) depositata presso la segreteria della commissione tributaria ne determini l'inammissibilità.

8.4. La costituzione in giudizio del resistente.

Con riguardo all'impugnazione del rigetto di un'istanza di rimborso, Sez. T, n. 17811/2016, Cirillo, Rv. 640970, ha affermato che l'Amministrazione finanziaria, formulando nel giudizio, nel quale il contribuente assume il ruolo di attore in senso sostanziale, le proprie controdeduzioni, ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, sempreché afferenti all'oggetto della controversia, può prospettare argomentazioni giuridiche ulteriori rispetto a quelle espresse in sede amministrativa nella motivazione del provvedimento negativo, di tal ché il giudice può rigettare la domanda di rimborso sulla base di un motivo esposto per la prima volta in sede processuale.

Può farsi menzione, in questa sede, anche di Sez. 6-T, n. 14615/2016, Caracciolo, Rv. 640557, che, sempre con riguardo ai ricorsi avverso il rifiuto della restituzione di tributi, ha affermato che l'Amministrazione finanziaria può eccepire in compensazione il proprio credito tributario nei confronti del fallito anche qualora non sia stato oggetto di ammissione al passivo (nella specie, per la tardività della domanda di insinuazione), al solo scopo di ottenere il rigetto della domanda di rimborso della curatela, atteso che la competenza fallimentare, ai sensi dell'art. 46 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sussiste solo nel caso in cui sia chiesta la condanna del fallimento al pagamento di un'eventuale differenza.

8.5. L'avviso di trattazione della controversia.

Secondo Sez. 6-T, n. 01786/2016, Conti, Rv. 638739, poiché la comunicazione della data dell'udienza, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 546 del 1992 – che, in virtù del richiamo operato dall'art. 61 dello stesso decreto, è applicabile anche ai giudizi d'appello – adempie a un'essenziale funzione di garanzia del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, l'omissione della detta comunicazione alle parti, almeno trenta giorni liberi prima dell'udienza, determina la nullità della decisione comunque pronunciata.

8.6. L'istruzione probatoria.

8.6.a. Il principio di non contestazione.

Degna di nota è Sez. 6-T, n. 09732, Iofrida, Rv. 639869, secondo cui il difetto di specifica contestazione dei conteggi funzionali alla quantificazione del credito, oggetto della pretesa dell'attore-contribuente, che abbia avanzato istanza di rimborso di un tributo, allorché l'ufficio finanziario convenuto ne abbia negato l'esistenza, può rilevare solo quando si riferisca a fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione dell'an debeatur, atteso che la non contestazione opera sul piano probatorio e non restringe il thema decidendum ai soli motivi contestati se sia stato chiesto il rigetto dell'intera domanda.

Sul tema va ricordata anche Sez. 6-T, n. 13483/2016, Federico, Rv. 640166, massimata solo come conforme a Sez. T, n. 13834/2014, Crucitti, Rv. 631297, che conferma la rilevanza della non contestazione solo sul piano probatorio e non anche su quello delle allegazioni nell'ambito del giudizio tributario, non potendo equivalere ad ammissione la mancata presa di posizione dell'ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente.

8.6.b. Le presunzioni.

Sez. T, n. 07509/2016, Solaini, Rv. 639693, ha ribadito che il ricorso alle presunzioni è ammissibile in materia di tributi sia dello Stato sia degli enti locali, atteso che l'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 esclude solo il giuramento e la prova testimoniale. La sentenza ha ulteriormente chiarito che il divieto di ammissione di quest'ultimo mezzo di prova non comporta l'inammissibilità della prova presuntiva ai sensi dell'art. 2729, comma 2, c.c., non essendo applicabile tale disposizione nel processo tributario, stante la natura della materia e dei mezzi d'indagine a disposizione degli uffici e dei giudici tributari.

Sez. 5, n. 15824/2016, Virgilio, Rv. 640622, ha confermato il principio per cui, in caso di società di capitali a ristretta base sociale, è ammissibile la presunzione di attribuzione ai soci di utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell'assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale.

8.6.c. Le dichiarazioni extraprocessuali del terzo.

In tema di elementi indiziari a carico del contribuente, raccolti nella fase di accertamento, di rilievo appare Sez. T, n. 16711/2016, Marulli, Rv. 640982, secondo cui le dichiarazioni rese dai terzi, per il loro contenuto intrinseco ovvero per l'attendibilità dei riscontri offerti, possono assumere valore di presunzione grave, precisa e concordante ex art. 2729 c.c. e, quindi, di prova presuntiva idonea a fondare e a motivare l'atto di accertamento. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha confermato l'avviso di accertamento fondato sulle dichiarazioni di più soggetti acquirenti di beni immobili che avevano affermato la percezione, da parte della società contribuente, di corrispettivi non fatturati e recuperati a tassazione dall'Amministrazione finanziaria.

8.6.d. Il valore probatorio delle autocertificazioni.

Sez. 6-T, n. 03244/2016, Iacobellis, Rv. 638912, dopo avere rilevato che l'art. 3, comma 3, della legge 28 dicembre 2000, n. 445, consente l'utilizzazione delle dichiarazioni sostitutive di cui ai successivi artt. 46 e 47 anche ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea, autorizzati a soggiornare nel territorio dello Stato, in funzione delle convenzioni internazionali fra l'Italia e il Paese di provenienza del dichiarante, ha affermato che, pertanto, le dette autocertificazioni, allegate a domande di rimborso in applicazione di convenzioni internazionali con il nostro Paese (nella specie, la convenzione tra l'Italia e il Giappone per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito, ratificata e resa esecutiva dalla legge 18 dicembre 1972, n. 855) hanno attitudine certificativa e probatoria.

8.6.e. I poteri istruttori officiosi del giudice tributario.

Chiarisce la portata dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice tributario dall'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, Sez. T, n. 00955/2016, Iannello, Rv. 638439, secondo cui i detti poteri sono previsti non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma solo in funzione integrativa degli elementi di giudizio, per cui il loro esercizio è consentito ove sussista una situazione di obiettiva incertezza e ove la parte non possa provvedere autonomamente, per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che il giudice tributario non potesse acquisire d'ufficio un processo verbale di constatazione richiamato nell'avviso di rettifica.

8.6.f. Limitazioni probatorie.

Da segnalare, nel contesto della pluriennale opera di chiarimento della portata delle disposizioni che prevedono limiti alla facoltà di prova in conseguenza del fatto che, nel corso dell'attività di accertamento, il contribuente ha rifiutato di esibire libri, registri, scritture e documenti, Sez. T, n. 16960/2016, Perrino, Rv. 640761. Con riguardo, in particolare, alla disposizione dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972 – secondo cui la dichiarazione resa dal contribuente nel corso di un accesso di non possedere i libri, registri, scritture e documenti richiestigli, ne preclude la valutazione in suo favore in sede amministrativa o contenziosa – la sentenza n. 16960 ha chiarito che essa è applicabile solo qualora la menzionata dichiarazione si traduca in un sostanziale rifiuto di esibizione da parte del contribuente, non, invece, qualora si fondi sull'effettiva indisponibilità della documentazione per colpa, caso fortuito o forza maggiore. La Corte ha altresì precisato che la prova dei presupposti di fatto per l'applicazione del citato art. 52, comma 5, incombe sull'Amministrazione finanziaria.

8.7. La decisione.

Investe la natura stessa del processo tributario il principio enunciato da Sez. T, n. 13294, Luciotti, Rv. 640171. È, infatti, sul presupposto della natura di "impugnazione-merito" di tale processo, in quanto diretto a una decisione sostitutiva sia della dichiarazione del contribuente che dell'accertamento dell'ufficio, che la Corte ha affermato che il giudice tributario, qualora ritenga invalido l'avviso di accertamento impugnato per motivi non formali ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullarlo ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e ricondurla alla misura corretta, nei limiti delle domande di parte, restando, peraltro, esclusa, dall'art. 35, comma 3, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, la possibilità della pronuncia di una sentenza parziale solo sull'an o di una condanna generica. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, affermato l'errore dell'ufficio per avere computato anche l'IVA tra i maggiori ricavi accertati, rimetteva ad esso il ricalcolo degli stessi, la conseguente rideterminazione delle imposte dovute e l'abbattimento dei maggiori costi presumibili, correlati ai maggiori ricavi presunti, nonché la riquantificazione delle sanzioni irrogate secondo il regime del cumulo giuridico, anche pluriennale.

La Corte (Sez. T, n. 07514/2016, Iannello, Rv. 639629), sulla premessa che l'art. 27 del d.lgs. n. 546 del 1992 – che attribuisce al presidente della sezione il potere di dichiarare con decreto, in sede di esame preliminare, l'inammissibilità del ricorso, se manifesta – è una norma di stretta interpretazione che risponde a esigenze di accelerazione e deflazione del contenzioso al fine di non investire il collegio di ricorsi manifestamente inammissibili, ha negato che si possa attribuire in via estensiva alla commissione tributaria provinciale un'omologa potestà di rilevare e dichiarare l'inammissibilità con sentenza inaudita altera parte, atteso che, in tale caso, verrebbero meno i vantaggi della deflazione del contenzioso ed elusi i meccanismi di salvaguardia del contraddittorio previsti dal legislatore, non potendosi ritenere equipollente al previsto reclamo al collegio avverso il decreto presidenziale la mera possibilità di impugnare in appello una sentenza così emessa.

9. Le impugnazioni.

9.1. Il giudizio di appello.

La giurisprudenza del 2016 della Corte ha investito numerosi aspetti del giudizio di appello: dalle questioni sulla proposizione alla legittimazione ad appellare, da quelle attinenti a ciò che è rilevabile di ufficio o solo su eccezione di parte ai poteri istruttori del giudice e al litisconsorzio.

In primo luogo, deve segnalarsi Sez. 6-T, n. 11087/2016, Conti, Rv. 639992, secondo cui, ai fini dell'operatività del termine semestrale di decadenza del gravame, di cui all'art. 327 c.p.c., nel testo novellato dalla l. n. 69 del 2009, ed applicabile ai soli giudizi pendenti dopo la sua entrata in vigore, la "pendenza del giudizio" va individuata con riferimento alla notifica del ricorso, che, ai sensi degli artt. 18 e 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, determina la litispendenza, e non alla costituzione del ricorrente, attinente a un adempimento ulteriore, che suppone una lite già pendente. Sempre con riferimento al termine d'impugnazione, Sez. T, n. 15181/2016, Bruschetta, Rv. 640643, si è occupata del caso, molto particolare ma non più così raro, della sospensione dei termini in un determinato territorio per eventi naturali. In particolare, si è posta la questione, ai fini dell'ammissibilità dell'appello, dell'applicabilità della sospensione dei termini d'impugnazione tra il 6 aprile ed il 31 luglio 2009, prevista dall'art. 5, comma 3, del d.l. n. 39 del 2009, convertito in l. n. 77 del 2009, per gli eventi sismici della città di L'Aquila e dell'Abruzzo anche agli avvocati che, pur senza essere residenti, abbiano gli studi legali in tali territori. La risposta è stata positiva in quanto il provvedimento è rivolto a consentire anche a chi operi professionalmente nelle aree colpite dal terremoto di superare le difficoltà derivanti dall'evento sismico.

9.1.a. Proposizione.

Prima di esaminare le pronunce sulle modalità di proposizione dell'appello, occorre ricordare Sez. T, n. 06334/2016, Iannello, Rv. 639630, la quale ha escluso che lo sgravio della cartella di pagamento disposto in virtù della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado favorevole al contribuente, anteriormente alla presentazione dell'appello, comporti acquiescenza alla sentenza e precluda la proposizione dell'impugnazione, atteso che tale condotta può essere giustificata da motivi diversi, che non esprimono necessariamente acquiescenza, quali la mera volontà di evitare le spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione.

Sez. T, n. 16758/2016, Marulli, Rv. 641068, a proposito delle modalità di proposizione dell'appello e, quindi, della sua eventuale inammissibilità, ha ritenuto che la costituzione in giudizio del ricorrente deve essere ancorata alla spedizione del ricorso, e non alla sua ricezione da parte del resistente, per cui il termine di trenta giorni per il deposito, nella cancelleria della commissione tributaria adita, dell'originale del ricorso notificato o di copia dello stesso, unitamente a copia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale, decorre da tale momento. In difetto, il ricorso è inammissibile e tale sanzione è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo, né è sanabile attraverso la costituzione del convenuto.

Sez. 6-T, n. 23589/2016, Iofrida, Rv. in corso di massimazione, ha, però, precisato che, in caso di notificazione dell'atto tramite ufficiale giudiziario, il termine per la costituzione del ricorrente decorre dalla ricezione del ricorso da parte del destinatario, giacché l'art. 22 del d.lgs. 546 del 1992 prevede il deposito dell'originale del ricorso notificato; inoltre, se il termine di trenta giorni scade di sabato, lo stesso è prorogato al lunedì successivo.

Sez. 6-T, n. 19138/2016, Vella, Rv. 641113, ha, poi, affermato che non costituisce motivo di inammissibilità dell'appello notificato a mezzo posta il fatto che, all'atto della costituzione, l'appellante depositi l'avviso di ricevimento del plico inoltrato per raccomandata in luogo del prescritto avviso di spedizione, atteso che anche l'avviso di ricevimento riporta la data della spedizione, sicché il relativo deposito è perfettamente idoneo ad assolvere la funzione probatoria connessa a tale adempimento.

Entrambe queste decisioni riguardano le questioni di massima importanza rimesse alle Sezioni Unite da Sez. T, n.18000, Sabato, e Sez. T, n. 18001/2016, Virgilio, concernenti, da un lato, l'individuazione del dies a quo del termine di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992 (spedizione o ricezione del ricorso) e, dall'altro, la possibilità di produrre, al momento della costituzione, in luogo della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso, la relativa ricevuta di ritorno.

Sez. T, n. 14273/2016, Luciotti, Rv. 640538, ha considerato, ai fini della regolare pro- posizione dell'appello, la notifica tramite il messo, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del d.lgs n. 546 del 1992, equivalente rispetto a quella effettuata a mezzo di ufficiale giudiziario, sicché, in caso di omesso deposito della copia dell'appello presso la segreteria della commissione tributaria provinciale, non opera la comminatoria di inammissibilità di cui all'art. 53, comma 2, del d. lgs. n. 546 del 1992, che si riferisce alle semplici raccomandate previste dall'art. 16, comma 3, del citato decreto, trovando applicazione la regola di cui all'art. 123, comma 1, disp. att. c.p.c., in virtù della quale l'ufficiale giudiziario, e quindi anche il messo notificatore, ha l'onere di dare immediato avviso scritto dell'avvenuta notificazione dell'appello al cancelliere del giudice che ha reso la sentenza impugnata.

9.1.b. Notificazione.

Quanto alle modalità di notifica, Sez. T, n. 16488/2016, Stalla, Rv. 640981, ha ritenuto che, ove la parte appellante decida di notificare l'atto di gravame avvalendosi non dell'ufficiale giudiziario, ma della spedizione diretta a mezzo di piego raccomandato (consentita dall'art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992), le indicazioni che debbono risultare dall'avviso di ricevimento ai fini della validità della notificazione quando l'atto sia consegnato a persona diversa dal destinatario, non sono quelle di cui all'art. 139 c.p.c., ma quelle prescritte dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria. Pertanto, non è stata ritenuta affetta da nullità la notifica in cui l'avviso di ricevimento, debitamente consegnato nel domicilio eletto, sia stato sottoscritto da persona ivi rinvenuta, in diretta relazione di parentela con il destinatario, salva la facoltà di dimostrare, con querela di falso, l'assoluta estraneità della persona che ha sottoscritto l'avviso alla propria sfera personale o familiare.

Sez. T, n. 25095/2016, Virgilio, Rv. in corso di massimazione, ha ribadito che, ove la parte appellante decida di notificare l'atto di gravame avvalendosi non già dell'ufficiale giudiziario, ma della spedizione diretta a mezzo piego raccomandato (consentita dall'art. 16, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), la disciplina applicabile è quella concernente il servizio postale ordinario che comporta, per le raccomandate che non abbiano potuto essere recapitate, un periodo di giacenza negli uffici di destinazione di trenta giorni, con obbligo di avviso della giacenza di oggetti raccomandati od assicurati, che non abbiano potuto essere distribuiti, ai destinatari ed ai mittenti, se identificabili. Pertanto, in caso di omesso invio della raccomandata informativa di cui all'art. 8 della legge n. 890 del 1982, anche nel caso in cui sia mancato l'invio al destinatario dell'avviso di giacenza della raccomandata ordinaria, si configura la nullità (e non l'inesistenza) della notifica dell'atto d'impugnazione, con conseguente obbligo del giudice, in assenza di sanatoria a seguito di costituzione dell'intimato, di ordinarne la rinnovazione.

Sez. T, n. 12785/2016, Genovese, Rv. 640140, si è, invece, occupata della situazione in cui, tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione dell'appello, interviene la dichiarazione di fallimento della parte. In tal caso, la notifica dell'appello presso il procuratore domiciliatario del fallito in bonis anziché nei confronti del curatore del fallimento non è stata ritenuta inesistente, ma nulla, e di conseguenza, in caso di omessa costituzione del fallimento, deve disporsene la rinnovazione.

9.1.c. Questioni in tema di impugnazione dell'Agenzia delle Entrate e di soggetti terzi.

Secondo Sez. 6-T, n. 15470/2016, Federico, Rv. 640640, la provenienza di un atto d'appello dall'ufficio periferico dell'Agenzia delle Entrate e la sua idoneità a rappresentarne la volontà si presumono anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all'ufficio appellante o, comunque, l'usurpazione del potere di impugnare la sentenza.

Sez. 6-T, n. 00022/2016, Conti, Rv. 638280, è ritornata sul problema, già affrontato in passato, del rapporto tra uffici periferici dell'Amministrazione finanziaria e le nuove Agenzie fiscali istituite nel 1999, affermando che la disposizione di cui all'art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui gli uffici periferici del dipartimento delle entrate del Ministero delle Finanze e gli uffici del territorio dovevano essere previamente autorizzati alla proposizione dell'appello dai rispettivi responsabili del servizio contenzioso, non è più applicabile una volta divenuta operativa la disciplina del 1999 e 2000 che ha istituito le Agenzie fiscali, attribuendo ad esse i poteri e le competenze dei precedenti uffici, spettando a ciascuna agenzia appellare le sentenze ad essa sfavorevoli delle commissioni tributarie provinciali.

Sez. T, n. 08332/2016, Cricenti, Rv. 639873, in relazione all'autorizzazione all'appello di cui all'art. 52 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella formulazione vigente ratione temporis, ha affermato che l'illeggibilità della firma di un atto non fa venire meno la presunzione della sua provenienza da parte del soggetto che ha il potere di impegnare l'Amministrazione finanziaria, salvo che non se ne dimostri la falsità o l'usurpazione.

Sulla stessa questione, la stessa Sez. T, n. 08332/2016, Cricenti, Rv. 639872, ha anche affermato che, se la suddetta autorizzazione è contenuta in un foglio unito all'atto d'impugnazione, la stessa assicura la conoscenza, da parte del funzionario competente, dell'intero contenuto dell'appello ed equivale, pertanto, alla sua sottoscrizione.

Sez. T, n. 16177/2016, Meloni, Rv. 640650, si è, invece, occupata della legittimazione ad impugnare da parte di soggetto terzo rimasto estraneo al primo giudizio, affermando che egli, anche se effettivo titolare del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, rimane terzo rispetto alla pronuncia, che è stata emessa inter alios, cosicché una sua eventuale impugnazione della sentenza deve essere dichiarata inammissibile.

9.1.d. Motivi e oggetto.

Risulta confermato l'indirizzo manifestato in decisioni anche degli anni precedenti secondo cui la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda in primo grado assolve l'onere di specificità dei motivi di impugnazione, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (così Sez. T, n. 16163/2016, La Torre, Rv. 640773; nello stesso senso anche la precedente Sez. 6-T, n. 01200/2016, Caracciolo, Rv. 638624, secondo cui, in virtù del riconosciuto carattere devolutivo pieno dell'appello tributario, non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito, la riproposizione, a supporto dell'appello del contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni del giudice di primo grado, assolve l'onere di impugnazione specifica di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992).

Partendo dal presupposto secondo cui il processo tributario è un giudizio di impugnazione del provvedimento impositivo e il suo ambito è circoscritto alla pretesa avanzata con l'atto impugnato, cosicché il giudice tributario non può estendere la propria indagine all'esame di circostanze nuove ed estranee a quelle originariamente invocate dall'ufficio, Sez. T, n. 07927/2016, Zoso, Rv. 639633, già citata al paragrafo 4, ha ritenuto inammissibile l'appello dell'Agenzia delle Entrate che, in materia di imposta di registro, aveva, soltanto con i motivi di appello, considerato nel calcolo della superficie utile, in aggiunta a quella dell'abitazione, anche quella di un locale erroneamente indicato in catasto come cantina.

La giurisprudenza si è poi occupata, inoltre, di definire i limiti alla proposizione di domande ed eccezioni e i poteri di rilevabilità di ufficio da parte del giudice.

Così, Sez. 6-T, n. 14402/2016, Iofrida, Rv. 640536, già ricordata al paragrafo 6, ha ritenuto che il potere del giudice tributario di dichiarare l'inapplicabilità delle sanzioni per errore sulla norma tributaria, in caso di obiettiva incertezza sulla portata e l'ambito applicativo della stessa, sussiste solo in presenza di una domanda del contribuente formulata nei modi e nei termini processuali appropriati, che non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello, e neppure in quello di legittimità.

Sez. 6-T, n. 14074/2016, Caracciolo, Rv. 640353, ha affermato che l'art. 19-bis del d.P.R. n. 636 del 1972, aggiunto dall'art. 11 del d.P.R. n. 739 del 1981, consente al contribuente di integrare soltanto nel giudizio di primo grado i motivi proposti con il ricorso a contestazione della pretesa tributaria, fino alla data di comunicazione del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, sicché è inammissibile la successiva deduzione, innanzi alla commissione tributaria di secondo grado, di motivi non proposti nel giudizio di primo grado, ed è ugualmente inammissibile la prospettazione di nuove ragioni che implichino la valutazione di fatti e situazioni in tale sede non dedotti.

Quanto alle eccezioni, Sez. 6-T, n. 11223/2016, Cigna, Rv. 639912, ha ritenuto che il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi di invalidità dell'atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili.

Il concetto è stato ripreso anche da Sez. T-6, n. 23587/2016, Iofrida, Rv. in corso di massimazione, che ha affermato che se il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, riguarda le eccezioni in senso tecnico - ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale - mentre non limita la possibilità dell'Amministrazione di difendersi dalle contestazioni già dedotte in giudizio, perché le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un'eccezione non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso tecnico. Sulla base di tale principio, nella fattispecie riguardante l'impugnazione di silenzio rifiuto su una domanda di rimborso, si è ritenuto che «quando il contribuente impugni il silenzio rifiuto formatosi su una istanza di rimborso, deve dimostrare che, in punto di fatto, non sussiste nessuna delle ipotesi che legittimano il rifiuto, e l'Amministrazione finanziaria può, dal canto suo, difendersi quindi "a tutto campo", non essendo vincolata ad una specifica motivazione di rigetto", con la conseguenza che "le eventuali "falle" del ricorso introduttivo possono essere eccepite in appello dall'Amministrazione a prescindere dalla preclusione posta dall'art. 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto, comunque, attengono all'originario "thema decidendum" (sussistenza o insussistenza dei presupposti che legittimano il rifiuto del rimborso), fatto salvo il limite del giudicato».

Sez. T, n. 24214/2016, Zoso, Rv. in corso di massimazione, ha ritenuto l'eccezione di interruzione della prescrizione rilevabile anche d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche per la prima volta in appello.

Così, Sez. U, n. 01518/2016, Cirillo, Rv. 638457, ha ritenuto che l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere a seguito di sanatoria fiscale, ai sensi dell'art. 15 della l. 27 dicembre 2002, n. 289, intervenuta nelle more del giudizio di primo grado, può essere fatta valere per la prima volta anche in appello, dovendosi ritenere che la stessa integri un'eccezione in senso improprio, non soggetta alle preclusioni di cui al suddetto art. 57, e rilevabile di ufficio dal giudice, atteso il rilievo pubblicistico che tale avvenimento comporta sull'originario rapporto con il Fisco.

In base all'art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente proposte in appello, si intendono rinunciate. Secondo Sez. 6-T, n. 10906/2016, Conti, Rv. 639983, la norma deve essere interpretata come riferita all'appellato e non all'appellante, sicché, tenuto conto del carattere impugnatorio del giudizio, della qualità di attore in senso sostanziale del Fisco e dell'indisponibilità della sua pretesa, alla quale non può rinunciare se non nei limiti di esercizio di autotutela, ove l'Amministrazione sia rimasta soccombente in primo grado per un profilo preliminare di legittimità formale dell'atto, dalla circostanza che l'appello proposto abbia per oggetto solo la suddetta statuizione non può desumersi la rinuncia a far valere la pretesa tributaria.

In senso analogo, Sez. T, n. 08332/2016, Cricenti, Rv. 639874, secondo cui l'Amministrazione soccombente che impugni la sentenza di primo grado sulla sola questione preliminare, e, in particolare, della tardività della notifica della cartella impugnata, non rinuncia a fare valere nel merito la pretesa tributaria, atteso che l'art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992 va riferito solo all'appellato e non anche all'appellante.

Sez. 6-T, n. 12937/2016, Cigna, Rv. 640074, ribadendo un orientamento precedente, ha affermato che la volontà dell'appellato di riproporre le questioni assorbite, pur non richiedendo alcuna impugnazione incidentale, deve però essere espressa, a pena di decadenza, nell'atto di controdeduzioni da depositare nel termine previsto per la costituzione in giudizio, e non può essere manifestata in atti successivi che esplicano funzione meramente illustrativa.

9.1.e. Integrazione del contraddittorio.

Si registra sul punto Sez. T, n. 14253/2016, Greco, Rv. 640560, secondo cui anche nel processo tributario, come nelle impugnazioni di quello civile, l'integrazione del contraddittorio è obbligatoria non solo in ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale (cd. cause inscindibili), ma altresì nell'ipotesi di cause che, pur scindibili, riguardano rapporti logicamente interdipendenti tra loro o dipendenti da un presupposto di fatto comune (cd. cause dipendenti), quando siano state decise nel precedente grado di giudizio in un unico processo, al fine di evitare che le successive vicende processuali conducano a pronunce definitive di contenuto diverso, sicché deve disporsi l'integrazione del contraddittorio in sede di impugnazione della sentenza avente a oggetto un accertamento in rettifica di dichiarazione congiunta, avverso cui i coniugi abbiano proposto insieme ricorso dinanzi al giudice tributario, essendo unico il titolo impositivo, fondato, in relazione ai diversi soggetti e ai distinti rapporti tributari, su presupposti almeno in parte comuni.

9.1.f. Appello incidentale.

Secondo Sez. T. n. 16477/2016, Zoso, Rv. 640775, la parte totalmente vittoriosa nel merito, rimasta soccombente su una determinata questione, onde evitare la formazione del giudicato interno deve necessariamente proporre impugnazione incidentale sul punto, non essendo sufficiente la mera riproposizione della questione in appello, ai sensi dell'art. 56 del d.lgs n. 546 del 1992, poiché la dizione «non accolte» ivi utilizzata riguarda le sole domande ed eccezioni su cui il giudice non si sia espressamente pronunciato. Successivamente, tuttavia, Sez. T, n. 21808/2016, Bruschetta, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima importanza relativa all'art. 56 del d. lgs. n. 546 del 1992, e, in particolare, alla sussistenza, in capo alla parte totalmente vittoriosa nel merito, dell'onere di proporre appello incidentale o, al contrario, di limitarsi a riproporre la questione pregiudiziale che non risulti assorbita ma sia stata espressamente rigettata.

Secondo Sez. 6-T, n. 17722/2016, Crucitti, Rv. 640962, e Sez. 6-T, n. 16909/2016, Crucitti, Rv. 640762, che si rifanno a un precedente del 2015, qualora l'appello principale sia inammissibile per mancato deposito dell'atto d'impugnazione nella segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, è inammissibile anche l'appello incidentale egualmente non depositato, atteso che tale obbligo di deposito deve ritenersi imposto anche all'appellante incidentale, pur se tempestivo, ai sensi dell'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, vigente ratione temporis, in quanto diretto ad evitare il rischio di un'erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza impugnata da parte della segreteria del giudice di primo grado.

9.1.g. Procedimento.

Sez. 6-T, n. 01786/2016, Conti, Rv. 638739, ha ritenuto che la comunicazione della data di udienza, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 546 del 1992, applicabile anche ai giudizi di appello in virtù del richiamo di cui all'art. 61 del medesimo decreto, adempie a un'essenziale funzione di garanzia del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, sicché l'omessa comunicazione alle parti, almeno trenta giorni prima, dell'avviso di fissazione dell'udienza di discussione, determina la nullità della decisione comunque pronunciata.

Quanto, poi, alla produzione dei documenti in appello, Sez. T, n. 24398/2016, De Masi, Rv. in corso di massimazione., ha confermato l'orientamento secondo cui il documento irritualmente prodotto in primo grado può essere nuovamente prodotto in secondo grado nel rispetto delle modalità di produzione di cui all'art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992 e in forma analoga nell'art. 87 disp. att. c.p.c. Tuttavia, ove il documento sia inserito nel fascicolo di parte di primo grado e questo sia depositato all'atto della costituzione unitamente al fascicolo di secondo grado, si deve ritenere raggiunta - ancorché le modalità della produzione non corrispondano a quelle previste dalla legge - la finalità di mettere il documento a disposizione della controparte, in modo da consentirle l'esercizio del diritto di difesa, onde l'inosservanza delle modalità di produzione documentale deve ritenersi sanata.

9.2. Il giudizio di cassazione.

Le Sezioni Unite sono intervenute sul problema della notificazione del ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali, stabilendo che, riguardo al luogo della notificazione, si applica la disciplina di cui all'art. 330 c.p.c.; tuttavia, in ragione del principio di ultrattività dell'indicazione della residenza o della sede e dell'elezione di domicilio effettuate in primo grado - principio sancito dall'art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 - è valida la notificazione eseguita presso uno di tali luoghi, ai sensi dell'art. 330, comma 1, seconda ipotesi, c.p.c., ove la parte non si sia costituita nel giudizio di appello, oppure, costituitasi, non abbia espresso al riguardo alcuna indicazione (Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640602).

In tema di notifica del ricorso, è interessante la situazione di cui si è occupata Sez. 6-T, n. 24867/2016, Manzon, Rv. in corso di massimazione, relativa ai riflessi sulle notifiche del "nuovo" periodo di sospensione feriale dei termini di cui al d.l. n. 132 del 2014, che ha abbreviato tale periodo di 15 giorni. In un caso in cui la sentenza di appello era stata depositata il 10 settembre 2014, e non era stata notificata, in una controversia iniziata anteriormente al luglio 2009, e per la quale, quindi, si applicava il termine lungo annuale (che andava a scadere oltre la prima sospensione feriale successiva alla novella, e determinava quindi l'applicazione di quest'ultima), la Corte ha ritenuto tardivo il ricorso notificato il 26 ottobre 2015, atteso che, con la nuova disciplina applicabile dal 1 gennaio 2015, il termine di sospensione feriale non era più di 46 giorni, ma di 30. Il ricorso doveva, pertanto, essere notificato entro un anno e 30 giorni, e quindi entro il 12 ottobre 2015.

A proposito del contenuto degli atti, Sez. T, n. 15177/2016, Criscuolo, Rv. 640969 ha stabilito che nel giudizio di legittimità è inammissibile il controricorso proposto da una società, originaria parte attrice, ormai cancellata dal registro delle imprese, atteso che, da un lato, l'estinzione intervenuta in corso di giudizio determina la perdita della capacità processuale e la successione dei soci e, dall'altro, la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, pur consentendo la notifica del ricorso alla controparte presso il difensore in appello della società estinta, non vale per la proposizione del ricorso in cassazione, che esige la procura speciale e deve, quindi, essere effettuata dai soci. Sez. T, n. 00574/2016, Iannello, Rv. 638333, si è occupata, invece, di una situazione particolare, relativa alla ammissibilità del ricorso incidentale, sia pure condizionato, con cui la parte vittoriosa in sede di merito riproponga questioni su cui i giudici di appello non si sono pronunciati, avendole ritenute assorbite dalla statuizione adottata. La decisione è stata nel senso della inammissibilità dello stesso poiché tali questioni, in caso di cassazione della sentenza, rimangono impregiudicate e possono essere ancora dedotte davanti al giudice del rinvio.

Sui limiti del sindacato della Corte di Cassazione nel giudizio, Sez. T, n. 18472/2016, Luciotti, Rv. 640973, ha ritenuto che, in un caso di impugnazione da parte del contribuente della cartella esattoriale per invalidità della notificazione dell'avviso di accertamento, la Corte non può procedere ad un esame diretto degli atti per verificare la sussistenza di tale invalidità, trattandosi di accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, e non di nullità del procedimento, in quanto la notificazione dell'avviso di accertamento non costituisce atto del processo tributario, ma riguarda solo un presupposto per l'impugnabilità, davanti al giudice tributario, della cartella esattoriale.

Quanto, poi, alla fase decisoria, secondo Sez. T, n. 17817/2016, Olivieri, Rv. 640652, la definizione della lite fiscale mediante presentazione da parte del contribuente dell'istanza di cui all'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modifiche, in l. n. 111 del 2011, comporta l'estinzione del giudizio ai sensi dell'art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 per sopravvenuta cessazione della materia del contendere sul rapporto tributario controverso, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata.

Alcune sentenze si sono occupate di questioni relative al giudizio di rinvio. Sez. T, n. 07222/2016, Federico, Rv. 639240, ha statuito che nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento a quo e non possono proporre la domanda restitutoria dell'ammontare dell'imposta che risulti versato in eccedenza all'esito della cassazione della sentenza, in quanto lo stesso, prima di essere chiesto al giudice tributario, deve essere sollecitato in sede amministrativa.

Se il giudizio di rinvio attiene a questioni meramente estimative, secondo Sez. 6-T, n. 11831/2016, Conti, Rv. 640019, lo stesso non richiede la riassunzione ad opera di alcuna delle parti, dovendo procedersi d'ufficio per effetto della trasmissione del fascicolo da una segreteria ad altra della commissione, che provvede alla fissazione dell'udienza secondo le scansioni temporali di cui agli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 636 del 1972.

Quanto, infine, ai rapporti tra giudizio di cassazione e revocazione, secondo Sez. T, n. 16435/2016, Luciotti, Rv. 640658, i ricorsi per cassazione contro la decisione di appello e contro quella che decide l'impugnazione per revocazione contro la prima vanno riuniti in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità, nonostante si tratti di due gravami distinti aventi a oggetto distinti provvedimenti, atteso che la connessione esistente tra le due pronunce giustifica l'applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione contro la sentenza di appello l'esito di quello riguardante la sentenza di revocazione, che deve, pertanto, essere esaminato con precedenza.

Il giudizio di legittimità in cui sia denunciato, quale vizio di motivazione, l'omesso esame del medesimo fatto azionato quale errore percettivo ai sensi dell'art. 395 c.p.c., va, invece, sospeso ex art. 295 c.p.c. all'esito della cassazione con rinvio della sentenza di appello di inammissibilità del ricorso per revocazione ordinaria, pur non ricorrendo una pregiudizialità in senso tecnico, ma solo logico. Infatti, in caso di prosecuzione, vi sarebbe il rischio di una possibile elisione dell'accertamento in fatto richiesto al giudice della revocazione in sede di rinvio, per cui si è adottata una soluzione interpretativa idonea ad evitare un vulnus all'effettività del diritto di difesa e a coniugare l'esigenza di un processo giusto con quella di un processo efficiente (così Sez. T, n. 05398/2016, Olivieri, Rv. 639037).

9.3. La revocazione.

Un tema spesso ricorrente a proposito della revocazione, è l'individuazione del tipo di errore che consente il ricorso a tale mezzo di impugnazione. Sez. T, n. 26278/2016, Virgilio, Rv. in corso di massimazione, ha ritenuto che l'omesso rilievo di un vizio concernente la ritualità della notificazione dell'atto di impugnazione, sotto il profilo del luogo in cui essa è stata eseguita, non configura un errore di fatto, cioè un errore di natura meramente percettiva, una svista materiale, da far valere con revocazione, bensì un errore di diritto, da far valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione. Una questione che si è posta con riferimento alla pendenza del termine per la revocazione è se la stessa permetta di considerare la lite come "pendente" ai fini del condono fiscale, atteso che l'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modifiche, in l. n.111 del 2011, consente la definizione delle «liti fiscali … pendenti alla data del 1 maggio 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio». Sez. T, n. 13306/2016, Zoso, Rv. 640146, ha ritenuto che tale disposizione non operi per le controversie già definite dalla Corte di Cassazione per le quali sia pendente solo il termine per eventuale revocazione. La norma, infatti, ha riguardo alle sole controversie definite da decisione ancora impugnabile con i mezzi ordinari, ma non anche a quelle definite dalla Corte di cassazione, atteso che la pendenza del termine per revocazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto.

10. La sospensione del processo.

Con riguardo alla sospensione in dipendenza del rapporto di pregiudizialità esistente tra processi tributari, va menzionata Sez. 6-T, n. 04485/2016, Caracciolo, Rv. 639128, la quale ha statuito che, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, l'accertamento degli utili extracontabili della società, anche se non definitivo, costituisce il presupposto dell'accertamento presuntivo nei riguardi del singolo socio, in ragione della sua quota di partecipazione agli utili, con la conseguenza che l'impugnazione dell'avviso di accertamento "pregiudicante" costituisce, sino al passaggio in giudicato della pronuncia sullo stesso, condizione sospensiva, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., della decisione della controversia sull'accertamento "pregiudicato" relativo al singolo socio. La Corte ha inoltre precisato che grava sul contribuente che invochi la sospensione l'onere di allegazione e prova dell'impugnazione del provvedimento "pregiudicante". Tale pronuncia conferma l'orientamento già emerso, difforme da quello secondo cui «quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell'art. 295 c.p.c., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c. (tra le altre, Sez. 6-L, n. 00798/2015, Mancini, Rv. 634272). Invero, come precisato da Sez. 6-T, n. 11441/2016, Iofrida, Rv. 640071, ai sensi dell'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella formulazione anteriore al d.lgs. n. 156 del 2015, applicabile ratione temporis, nel processo tributario non opera la sospensione ex art. 337 c.p.c., sicché il giudizio pregiudicato, in caso di decisione non ancora passata in giudicato della causa pregiudiziale, è suscettibile di sospensione ex art. 295 c.p.c., restando ammissibile, avverso la relativa ordinanza, regolamento di competenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 42 c.p.c. Va, altresì, ricordata, Sez. 6-T, n. 00999/2016, Cigna, Rv. 638486, che ha negato che il processo tributario possa essere sospeso in attesa della definizione di una questione sottoposta alla Corte di giustizia nell'ambito di una diversa controversia, in quanto tale sospensione non è possibile né ai sensi dell'art. 39 del d.lgs. n. 546 del 1992, che regola i rapporti tra il processo tributario e i processi non tributari (pregiudizialità cosiddetta esterna) e che prevede la sospensione solo quando sia stata presentata querela di falso o debba essere decisa una questione sullo stato o la capacità delle persone diversa dalla capacità di stare in giudizio, né ai sensi dell'art. 295 c.p.c., che regola esclusivamente i rapporti tra i processi tributari (pregiudizialità cosiddetta interna).

11. L'estinzione del processo.

Diverse le pronunce che si sono occupate di definire i casi, il procedimento e gli effetti dell'estinzione del processo.

Sez. T, n. 00556/2016, Cappabianca, Rv. 638661, ha chiarito che, nel giudizio tributario, l'omessa riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio determina l'estinzione del processo, ai sensi dell'art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, e la definitività dell'avviso di accertamento impugnato, sicché il termine di prescrizione della pretesa tributaria, necessariamente incorporata nell'atto impositivo, decorre dalla data di scadenza del termine utile per la non attuata riassunzione, momento dal quale l'Amministrazione finanziaria può attivare la procedura di riscossione. Il medesimo principio è stato ribadito e approfondito da Sez. T, n. 23502/2016, Stalla, Rv. 641872, che ha precisato non potersi applicare, in caso di estinzione del processo tributario conseguente a omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, la regola generale dettata dall'art. 2945, comma 3, c.c., decorrendo il termine di prescrizione della pretesa fiscale dalla data di scadenza del termine utile per la riassunzione, giacché solo da tale momento l'atto impositivo diviene definitivo mentre, ove venisse meno l'effetto sospensivo previsto dall'art. 2945, comma 2, c.c., la prescrizione maturerebbe anteriormente a tale definitività in favore dell'unica parte processuale (il contribuente) interessata alla riassunzione, proprio al fine di evitare che l'atto impugnato diventi definitivo. Sempre con riguardo all'omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, Sez. 6-T, n. 23922/2016, Iofrida, Rv. 641755, ha altresì chiarito che, poiché gli artt. 45 e 63 del d.lgs. n. 546 del 1992 devono essere letti in maniera «coordinata», anche per il giudizio di rinvio è possibile la declaratoria d'ufficio dell'estinzione, in base alla regola generale del comma 3 del detto art. 45; tuttavia, in virtù della disposizione speciale dell'art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, l'estinzione riguarderà non solo "quel grado di giudizio", ma l'intero processo, con l'effetto - già evidenziato anche dalle due pronunce da ultimo citate – del consolidamento dell'atto impositivo che ne rappresentava l'oggetto.

Sez. T, n. 16956/2016, Luciotti, Rv. 641070, ha precisato che l'atto impositivo, non essendo un atto processuale ma l'oggetto dell'impugnazione, non si sottrae, anche nel caso di estinzione del processo per omessa riassunzione del giudizio di rinvio, all'effetto del giudicato parziale formatosi tra le parti, al quale l'ufficio deve adeguare la propria posizione sostanziale, dato che l'Amministrazione non può porre in riscossione il tributo sulla base dell'atto impositivo "come se" questo non fosse stato ritenuto illegittimo, per alcuni aspetti, con sentenza passata in giudicato.

Sez. T, n. 00569/2016, Iofrida, Rv. 638627, ha osservato che, poiché l'iscrizione a ruolo dell'imposta presuppone la definitività dell'accertamento, essa deve essere preceduta dalla regolare comunicazione dell'ordinanza di estinzione al contribuente, per consentirgli l'eventuale proposizione del reclamo. La Corte ha quindi ritenuto illegittima l'iscrizione a ruolo dell'imposta per l'omessa comunicazione dell'ordinanza di estinzione del processo agli eredi del contribuente.

Alcune delle pronunce in materia hanno riguardato, in particolare, l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.

Comporta l'estinzione del giudizio per sopravvenuta cessazione della materia del contendere sul rapporto tributario controverso, ai sensi dell'art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, la definizione della lite fiscale a seguito della presentazione, da parte del contribuente, della domanda di cui al già citato all'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, convertito nella l. n. 111 del 2011, con la conseguenza della cassazione senza rinvio della sentenza impugnata (Sez. T, n. 17817/2016, Olivieri, Rv. 640652).

Sez. T, n. 14258/2016, Vella, Rv. 640540, ha statuito che l'estinzione del giudizio di legittimità per cessazione della materia del contendere ai sensi dell'art. 16, comma 8, della legge n. 289 del 2002, comporta conseguenze di ordine sostanziale sul contenuto delle domande proposte, determinando, in virtù della cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, la caducazione di tutte le pronunce emesse nei precedenti gradi di giudizio e non passate in giudicato, in quanto non più attuali in conseguenza del venir meno del contrasto tra le parti.

Ancora in tema di effetti della dichiarazione di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, in particolare, a seguito di annullamento in autotutela dell'impugnato atto di attribuzione del classamento catastale e della relativa rendita, Sez. T, n. 12570/2016, Bruschetta, Rv. 640160, ha affermato che detta dichiarazione determina l'illegittimità derivata degli avvisi di accertamento con i quali era stata liquidata l'imposta sul presupposto dell'annullato classamento.

Merita di essere menzionata anche Sez. 6-T, n. 03318, Conti, Rv. 639125 e Rv. 639126, secondo cui l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro che modifichi in aumento il precedente, manifestando una pretesa tributaria nuova rispetto a quella originaria, sostituisce l'avviso precedente, determinandone la caducazione d'ufficio, con la conseguenza della cessazione della materia del contendere nel giudizio avente a oggetto il relativo rapporto sostanziale, in quanto viene meno l'interesse a una decisione su di un atto, il primo avviso, sulla base del quale non possono più essere avanzate pretese tributarie, dovendosi, ormai, avere riguardo esclusivamente al nuovo avviso che lo ha sostituito. La Corte ha altresì precisato che, stante l'esistenza del nuovo avviso di liquidazione modificativo in aumento regolarmente comunicato al contribuente, dalla richiesta dell'Amministrazione finanziaria di cessazione della materia del contendere a seguito dell'annullamento in via di autotutela del primo atto impositivo non può desumersi il venire meno dell'interesse alla pretesa tributaria.

Va, infine, ricordata Sez. T, n. 11316/2016, Luciotti, Rv. 639980, che, nell'escludere che la transazione fiscale conclusa ai sensi dell'art. 182-ter, comma 6, del r.d. n. 267 del 1942, nell'ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, comporti espressamente la cessazione della materia del contendere relativamente ai giudizi in corso, atteso il mancato richiamo del comma 5 dello stesso articolo, ha tuttavia ritenuto che essa determini la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza dell'interesse delle parti a una pronuncia di merito sull'impugnazione.

12. Il giudicato.

Si è riproposta la questione degli accertamenti relativi a più annualità e degli effetti del giudicato, formatosi per una annualità, sulle altre. Sez. T, n. 14509/2016, Iannello, Rv. 640501, ha ritenuto, in una causa relativa ad accertamento sintetico in base alla spesa per incrementi patrimoniali, da presumere sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell'anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti, ai sensi dell'art. 38, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo, vigente ratione temporis, che il giudicato esterno formatosi sull'accertamento riguardante uno dei quattro anni preclude, nel giudizio relativo all'accertamento eseguito sulle medesime basi per altra annualità, la possibilità di disattendere il fondamento della presunzione, ma non anche di considerare dimostrato il superamento della presunzione di maggior reddito parcellizzato.

Quanto ai rapporti tra giudizio riguardante l'imposizione nei confronti di una società a ristretta base sociale e quello nei confronti dei singoli soci, Sez. 6-T, n. 11680/2016, Conti, Rv. 640014, ha affermato che la sentenza passata in giudicato di annullamento dell'atto impositivo nei confronti della prima, se fondata su motivi di rito, come l'estinzione della società, non fa stato nei confronti dei soci, mancando un accertamento inconfutabile sull'inesistenza dei ricavi non contabilizzati e della relativa pretesa fiscale.

Sez. 6-T, n. 14610/2016, Iofrida, Rv. 640510, in materia di esenzione da un tributo, ha affermato che la relativa domanda, ove ritualmente e tempestivamente avanzata, costituisce esercizio del diritto del contribuente al riconoscimento dell'inesistenza totale o parziale dell'obbligazione tributaria, fondato sulla norma d'esenzione, e implica la richiesta di restituzione, totale o parziale, di quanto cautelativamente versato, sicché vale come istanza di rimborso sia delle somme già versate, sia di quelle eventualmente versate dopo la sua proposizione, in corso di giudizio, anche a seguito di una sentenza favorevole, ma non ancora definitiva, non venendo meno l'esigenza cautelativa di non incorrere in sanzioni. Ne consegue che, qualora si formi il giudicato su entrambi i diritti, all'esenzione e al rimborso del tributo oggetto della relativa domanda, cautelativamente versato, il contribuente non è soggetto all'onere di formulare istanza nel termine dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, ma può far valere il giudicato nell'ordinario termine di prescrizione decennale.

Infine, Sez. 6-T, n. 03687/2016, Crucitti, Rv. 638797, sul tema della equiparazione tra giudicato e altre forme di definizione del procedimento, ha ritenuto che, in tema d'imposta di registro, ai fini del rimborso dell'importo pagato sugli atti che definiscono, anche parzialmente, il giudizio civile, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. n. 131 del 1986, non può essere equiparata alla sentenza di riforma passata in giudicato la transazione stragiudiziale di cui non sia parte l'Amministrazione dello Stato, essendo irrilevante che la stessa sia stata edotta della data dell'atto dinanzi al notaio e invitata a parteciparvi, attesa la necessità d'impedire indebite sottrazioni all'obbligazione tributaria.

13. Il giudizio di ottemperanza.

Sez. T, n. 15827/2016, La Torre, Rv. 640648, ha affermato che nel giudizio di ottemperanza dinnanzi alle commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 70 del d.lgs. n. 546 del 1992, il potere del giudice sul comando definitivo inevaso deve essere esercitato entro i confini invalicabili dell'oggetto della controversia definita con il giudicato, atteso che non possono essere attribuiti alle parti diritti nuovi e ulteriori rispetto a quelli riconosciuti con la sentenza da eseguire, ma solo enucleati e precisati gli obblighi scaturenti dalla sentenza da eseguire, chiarendone il reale significato.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XLV

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.a I comportamenti che, violando i doveri di diligenza e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti. - 2.1.b La consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. - 2.1.c La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. - 2.1.d Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. - 2.1.e Frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione. - 2.1.f La condotta disciplinare irrilevante. - 2.2 Il procedimento disciplinare. - 2.2.a Revisione della sentenza disciplinare irrevocabile di condanna. - 2.2.b Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il procedimento disciplinare. - 3.2.a Giudizio penale e disciplinare. - 3.2.b Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai. - 4.1 Gli illeciti disciplinari. - 4.2 Il procedimento disciplinare.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare dei magistrati, le pronunce delle Sezioni Unite hanno riguardato talune ipotesi di illecito e profili processuali, quali la revisione e i rapporti col giudizio penale.

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Sugli illeciti disciplinari, la Corte è intervenuta su diverse fattispecie che discendono dall'esercizio delle funzioni, con particolare riguardo alla violazione dei doveri di diligenza, all'omessa astensione, alla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, al reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni, nonché sull'ipotesi extrafunzionale della frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione.

2.1.a. I comportamenti che, violando i doveri di diligenza e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti.

Riguardo al ritardo nella scarcerazione – riconducibile, nella specie, all'art. 2, comma 1, lett. g, in combinato disposto con il medesimo art. 2, comma 1, lett. a, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 – Sez. U, n. 18397/2016, Ambrosio, Rv. 640930 ha precisato che sussiste in capo al rappresentante del P.M. in udienza, benché non titolare del relativo fascicolo, perché assegnato ad altro sostituto del medesimo ufficio, l'obbligo istituzionale di verificare la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto a indagine, al fine di formulare le consequenziali richieste. L'inosservanza di tale obbligo costituisce grave violazione di legge derivante da negligenza inescusabile, nonché violazione del dovere di diligenza nell'esercizio delle proprie funzioni.

La S.C. ha così confermato la pronuncia della sezione disciplinare del C.S.M. che aveva ritenuto sussistere la grave violazione di legge, produttiva di responsabilità disciplinare del giudice per le indagini preliminari e del pubblico ministero, in caso di scarcerazione di un indagato oltre i termini di durata della custodia cautelare, escludendo nella fattispecie l'operatività, quale causa esimente, delle difficoltà organizzative dell'ufficio, posto che solo circostanze esterne che impediscono in modo assoluto la scarcerazione possono giustificare la lesione del fondamentale diritto di libertà. Qualora la condotta del difensore abbia concorso a non allertare il P.M., essa potrà incidere unicamente sulla determinazione della sanzione nella misura minima di legge, nella specie della censura.

Con riferimento all'illecito riguardante la mancata dichiarazione tempestiva della perdita di efficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari di due imputati, Sez. U, n. 02724/2016, Napoletano, Rv. 638400 – a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006 (Corte cost., 16 luglio 2015, n. 170) – ha escluso l'applicabilità del trasferimento di sede quale sanzione automatica delle violazioni previste dall'art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 109 del 2006.

2.1.b. La consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.

Relativamente all'illecito disciplinare dell'omessa astensione (art. 2, comma 1, lett. c, del d.lgs. n. 109 del 2006), Sez. U, n. 10502/2016, Didone, Rv. 639678, avuto riguardo all'elemento psicologico, ha ritenuto che, ai fini della consumazione dell'illecito, non occorre che il magistrato avesse uno specifico intento trasgressivo, essendo sufficiente che egli conoscesse le circostanze di fatto che lo obbligavano ad astenersi.

Nella specie, applicando tale principio, la Corte ha cassato con rinvio l'assoluzione disciplinare del P.M., il quale aveva omesso di astenersi in procedimenti ove era difensore il titolare di una società che aveva stipulato una locazione con altra società partecipata dal magistrato in quota del 95 per cento.

2.1.c. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

In tema di violazione dei doveri di diligenza e correttezza, Sez. U, n. 10157/2016, Ragonesi, Rv. 639674 ha affermato la responsabilità disciplinare del giudice, in relazione all'illecito previsto dall'art. 2, comma 1, lett. g e n, del d.lgs. n. 109 del 2006, che non si è attenuto al criterio dell'equa distribuzione degli incarichi di consulenza tecnica, concentrandoli su un numero ristretto di professionisti, essendo a questo fine irrilevante la soglia del 10 per cento stabilita dall'art. 23 disp. att. c.p.c., la quale riguarda gli incarichi conferiti dall'intero ufficio e non dal singolo magistrato.

2.1.d. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni.

Consolidando gli orientamenti della S.C. in tema di ritardi superiori all'anno nel deposito dei provvedimenti giudiziari e della loro giustificabilità, Sez. U, n. 15813/2016, Amendola, Rv. 640697 ha ribadito che la durata ultrannuale dei ritardi non comporta una responsabilità oggettiva dell'incolpato, ovvero l'ingiustificabilità assoluta della sua condotta, ma incide sulla giustificazione richiestagli, che deve riguardare tutto l'arco temporale durante il quale l'inerzia si sia protratta. In questo modo, quanto più i ritardi sono gravi tanto più seria, specifica, rigorosa e pregnante deve esserne la giustificazione. A tal fine, è necessario fornire la prova che, nell'intervallo temporale suddetto, non sarebbero stati possibili diversi comportamenti di organizzazione e impostazione del lavoro idonei a scongiurarli o, comunque, a ridurne la patologica dilatazione, dovendo, altresì, tale prova essere valutata tenendo conto del numero, della durata media e della punta massima dei ritardi contestati.

Sul tema dell'incidenza delle scelte organizzative dell'ufficio sulla condotta del magistrato, Sez. U, n. 02948/2016, Di Iasi, Rv. 638358, ha accolto il ricorso dell'incolpato, annullando con rinvio la pronuncia della sezione disciplinare in ordine al vaglio in concreto della fondatezza e serietà della giustificazione addotta. Nella specie, l'incolpato aveva affermato di avere assunto in decisione un numero di processi superiore alle proprie capacità di smaltimento, giustificando i gravi e reiterati ritardi nel deposito di sentenze civili sulla base di una precisa scelta organizzativa, intesa al perseguimento di un ragionato abbattimento delle pendenze e di una minore durata dei processi, anche attraverso un maggior numero di definizioni con provvedimenti diversi dalla sentenza. Secondo la S.C., i ritardi, anche se ultrannuali, non possono essere imputati al magistrato a titolo di responsabilità oggettiva, fermo l'onere dell'interessato di fornire al giudice disciplinare tutti gli elementi per valutare la fondatezza e serietà della giustificazione addotta.

In relazione alle cause esimenti, nella medesima occasione Sez. U, n. 02948/2016, Di Iasi, Rv. 638357 ha confermato che lo svolgimento di un incarico straordinario non obbligatorio conferito dal C.S.M. non giustifica di per sé gravi e reiterati ritardi nel compimento degli atti relativi alle funzioni, potendo sempre il magistrato chiedere un esonero giudiziario adeguato all'incarico o, in ultima analisi, rinunciarvi (la fattispecie riguardava la partecipazione a un gruppo di studio sugli standard di rendimento).

2.1.e. Frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione.

Con riferimento agli illeciti disciplinari commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni, riguardo all'ipotesi della frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione, Sez. U, n. 14919/2016, Giusti, Rv. 640611 ha chiarito che per integrare l'illecito disciplinare previsto dall'art. 3, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 109 del 2006 è sufficiente che la conoscenza della particolare situazione in cui si trova la persona frequentata accompagni l'obiettività della condotta o anche di un suo segmento, ossia che al magistrato risulti quella condizione quando frequenta, o continua a frequentare, quella certa persona, non essendo necessario che la consapevolezza preceda la frequentazione.

2.1.f. La condotta disciplinare irrilevante.

Sull'esimente della scarsa rilevanza del fatto, Sez. U, n. 14800/2016, Giusti, Rv. 640442 ha ritenuto inapplicabile l'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 al P.M. che abbia richiesto il rinvio a giudizio dell'imputato per un reato già prescritto. In questo caso, l'esercizio dell'azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio, laddove il pubblico ministero avrebbe dovuto presentare al giudice la richiesta di archiviazione per essere il reato ipotizzato già estinto per intervenuta prescrizione, e il successivo svolgimento di un'udienza preliminare inutile e dispendiosa, sono espressione dell'inescusabile trasgressione di un inderogabile obbligo di legge, ma anche causa di un danno per le parti, costrette ad affrontare l'udienza preliminare e, al tempo stesso, fonte di compromissione dell'immagine del pubblico ministero in presenza dell'esaurimento della pretesa punitiva da parte dello Stato. Nel merito, inoltre, la Corte ha osservato che la valutazione sulla concreta offensività del comportamento spetta esclusivamente alla sezione disciplinare del C.S.M. e non è censurabile in sede di legittimità ove sufficientemente e logicamente motivata.

Sull'inoffensività della condotta, riguardo all'ipotesi della partecipazione in modo sistematico e continuativo tramite lezioni retribuite all'attività di una scuola privata per l'accesso alle professioni legali – comportamento che integra l'illecito disciplinare previsto dall'art. 3, comma 1, lett. d, del d.lgs. n. 109 del 2006 – Sez. U, n. 11372/2016, Amendola, Rv. 639928 ha ritenuto che non possa riconoscersi l'esimente di cui all'art. 3-bis per il disvalore insito nel fatto che tale partecipazione non è neppure autorizzabile dal C.S.M., in quanto specificamente vietata dalla normativa secondaria.

2.2. Il procedimento disciplinare.

Le pronunce sui profili processuali hanno interessato l'istituto della revisione, con riferimento alla sentenza disciplinare irrevocabile di condanna, e i rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio penale.

2.2.a. Revisione della sentenza disciplinare irrevocabile di condanna.

In tema di revisione della sentenza disciplinare, Sez. U, n. 16600/2016, Bielli, Rv. 640610 ha evidenziato che la previsione desumibile dall'art. 25, commi 1, lett. b, e 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, di carattere eccezionale e insuscettibile di applicazione analogica, riserva l'ammissibilità della proposizione di questo mezzo straordinario di impugnazione ai soli casi in cui i nuovi elementi di prova dimostrino o concorrano a dimostrare, nel merito, l'insussistenza dell'illecito. La Corte ha così ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale limitazione, con riferimento all'art. 24, comma 1, Cost., sul presupposto che essa non è palesemente irragionevole, in quanto può ritenersi meritevole di tutela esclusivamente quest'ipotesi rispetto a quella di prova sopravvenuta dei casi di estinzione del procedimento; per altro verso è stato escluso che si possa determinare una disparità di trattamento rispetto ai casi di revisione della sentenza penale di condanna, stante il diverso ambito settoriale del giudizio penale, ove la revisione è prevista anche in ipotesi di sopravvenienza di prove che conducono al proscioglimento per motivi non di merito. La pronuncia, infine, evidenzia che la disciplina prevista dal legislatore nel giudizio disciplinare non limita la difesa della parte, che può sempre far valere i suoi diritti fino alla formazione del giudicato.

In ordine alla possibilità di impugnare la sentenza favorevole di revisione, pronunciata su istanza del condannato, Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640692 ha riconosciuto la legittimazione e l'interesse sia del Ministro della Giustizia sia del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, essendo entrambi portatori dell'interesse a che non permanga a carico di un magistrato, o di un soggetto che tale funzione ha rivestito, una condanna disciplinare rivelatasi, in seguito a elementi sopravvenuti, "ingiusta", ovvero, a che la stessa non venga revocata in assenza dei presupposti di legge.

Sul piano processuale, sempre Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640693 ha avuto modo di affrontare ulteriori aspetti relativi al giudizio di revisione. È stato così chiarito che la cessazione dal servizio del magistrato già condannato in sede disciplinare con sentenza irrevocabile, che sia intervenuta anteriormente alla decisione sull'istanza di revisione, non determina l'estinzione del corrispondente giudizio, atteso che l'art. 25 del d.lgs. n. 109 del 2006 riconosce la rilevanza di un interesse, anche soltanto morale, alla presentazione di tale istanza e alla prosecuzione del relativo procedimento ai prossimi congiunti del magistrato condannato che sia deceduto o divenuto incapace, e quindi, a fortiori, al medesimo magistrato che sia vivente e capace, ancorché cessato dal servizio; quindi, venendo al merito del procedimento di revisione della sentenza disciplinare del C.S.M. per effetto dei nuovi elementi di prova descritti dall'art. 25, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640694, ha chiarito che tale giudizio postula che il giudice adito si confronti necessariamente con il contenuto della statuizione impugnata, per verificare se la sopravvenienza del fatto nuovo risulti rilevante alla stregua del quadro istruttorio e dell'impianto decisorio della stessa, giacché diversamentesi finirebbe per consentire a quel giudice di rinnovare completamente le valutazioni ivi espresse e di rimettere in discussione una decisione ormai irrevocabile ben oltre i limiti sanciti dalla norma.

Sempre Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640695, ha ritenuto, inoltre, ammissibile la richiesta di revisione in funzione dell'applicazione dell'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006 sulla condotta disciplinare irrilevante. Tale esimente, infatti, esclude la configurabilità di tutte le ipotesi di illecito disciplinare, comprese quelle per le quali la gravità del comportamento è elemento costitutivo del fatto tipico, a prescindere dalla sussistenza della sua materialità. Tuttavia, la pronuncia di accoglimento richiede che il giu- dice adito, nell'indicare la norma di legge violata e il bene giuridico da essa protetto, spieghi in quale modo e perché, in relazione all'elemento di prova nuovo, il comportamento contestato al magistrato non debba ritenersi effettivamente lesivo del bene giuridico protetto.

2.2.b. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale.

Sui rapporti tra il procedimento disciplinare e quello penale, è stato affermato che il giudizio disciplinare può proseguire nei confronti del magistrato incolpato di corruzione in atti giudiziari e condurre all'irrogazione della sanzione della rimozione anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria di estinzione del rapporto d'impiego (Sez. U, n. 04004/2016, Greco, Rv. 638596). Nella specie, la sezione disciplinare del C.S.M., preso atto del giudicato penale di condanna e affermata la responsabilità anche disciplinare del magistrato, aveva ritenuto che in base all'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, che espressamente prevede la sanzione della rimozione per gli stessi fatti che comportano l'estinzione del rapporto d'impiego a norma dell'art. 32-bis c.p., all'incolpato doveva essere necessariamente irrogata la sanzione della rimozione, potendo le due sanzioni risultare applicate congiuntamente, sul piano penale e disciplinare.

Nel confermare la pronuncia impugnata, la S.C. ha sottolineato la diversa natura della sanzione disciplinare rispetto alla pena accessoria, ricordando che quest'ultima, come la generalità delle sanzioni penali, nel corso del tempo può estinguersi, in forza di amnistia (art. 151, comma 1, c.p.) o per effetto della riabilitazione (art. 178 c.p.), laddove la permanenza degli effetti della sanzione disciplinare ne rivela la specifica afflittività, con particolare evidenza nell'ipotesi della rimozione, la più severa delle sanzioni. In questi casi non si può ravvisare una sopravvenuta carenza di interesse da parte dell'amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, pur avendo le Sezioni unite fatto riferimento a tale principio in altri casi di cessazione dal servizio, diversi dalla estinzione del rapporto di impiego ai sensi dell'art. 32-bis c.p.

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare dell'avvocato, vanno richiamate le pronunce delle Sezioni Unite su taluni illeciti, nonché sui profili procedurali, con particolare menzione delle questioni attinenti al termine di prescrizione dell'azione disciplinare, ai rapporti col giudizio penale e al principio del favor rei.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Sulle fattispecie di illecito disciplinare, Sez. U, n. 11370/2016, Mammone, Rv. 639927 è intervenuta in merito alle espressioni sconvenienti o offensive, vietate dall'art. 20 del codice deontologico forense nel testo applicabile ratione temporis. Tali espressioni, sul piano della responsabilità disciplinare dell'avvocato, rilevano di per sé, a prescindere dal contesto in cui sono usate e dalla veridicità dei fatti che ne sono oggetto.

In ordine all'omessa restituzione delle somme riscosse per conto del cliente, la S.C. ha ritenuto integrare la fattispecie di cui all'art. 44, ultimo comma, del codice deontologico forense, la condotta dell'avvocato che abbia promesso al proprio assistito la consegna delle somme riscosse per suo conto senza provvedervi immediatamente (Sez. U, n. 13379/2016, Iacobellis, Rv. 640324). Riguardo all'estinzione dell'azione disciplinare, la Corte ha osservato che, essendo la condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica e destinata a protrarsi fino alla restituzione, non decorre la prescrizione di cui all'art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, ove tale comportamento persista fino alla decisione del Consiglio dell'ordine.

3.2. Il procedimento disciplinare.

In ordine ai profili procedurali, è stata confermata la natura di mero atto amministrativo endoprocedimentale dell'apertura del procedimento disciplinare disposta dal Consiglio dell'ordine degli avvocati (Sez. U, n. 15199/2016, Petitti, Rv. 640606). Tale atto, infatti, non costituisce una "decisione" ai sensi dell'ordinamento professionale forense, non incidendo in maniera definitiva sul relativo status professionale, né decide questioni pregiudiziali a garanzia del corretto svolgimento della procedura. Ne consegue che, avendo il solo scopo di segnare l'avvio del procedimento con l'indicazione dei capi di incolpazione, l'atto di apertura del procedimento disciplinare non è autonomamente reclamabile davanti al Consiglio nazionale forense.

La S.C. ha altresì confermato che il mutamento della precedente interpretazione giurisprudenziale, che ha portato a negare l'autonoma impugnabilità davanti al Consiglio nazionale forense dell'atto di apertura del procedimento disciplinare disposto dal Consiglio dell'ordine territoriale a carico di un avvocato, non dà luogo a una fattispecie di c.d. overruling, non preesistendo un orientamento univoco, tale da fondare il legittimo affidamento dell'interessato sull'ammissibilità del rimedio impugnatorio. Osserva, infatti, Sez. U, n. 08589/2016, Di Iasi, Rv. 639390, che l'overruling consiste nel «mutamento di giurisprudenza nell'interpretazione di una norma o di un sistema di norme, idoneo a vanificare l'effettività del diritto di azione e di difesa, e dal carattere, se non proprio repentino, quanto meno inatteso, o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, quali possono essere quelli di un, sia pur larvato, dibattito dottrinale o di un qualche significativo intervento giurisprudenziale sul tema».

Sul diritto di difesa e sul rispetto del contraddittorio nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, Sez. U, n. 15042/2016, Petitti, Rv. 640614, ha ritenuto che il principio di cui all'art. 45 del r.d.l. n. 1578 del 1933, secondo cui il Consiglio dell'ordine territoriale non può infliggere alcuna pena disciplinare senza che l'incolpato sia stato citato a comparire davanti ad esso, ha valenza generale, perché volto a garantire il rispetto di diritti fondamentali e, pertanto, trova applicazione, in base al rinvio contenuto nell'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, anche per l'adozione del provvedimento di cancellazione dall'albo per sopravvenuto accertamento dell'originaria insussistenza del titolo esibito per l'iscrizione, con conseguente nullità di tale misura ove sia stata omessa la preventiva convocazione.

Riguardo alle comunicazioni e notificazioni al ricorrente in caso di trasferimento del domiciliatario, Sez. U, n. 24739/2016, Nappi, Rv. 641771-01, ha confermato che nel giudizio disciplinare a carico di avvocati, in analogia alla disciplina del giudizio in cassazione, il trasferimento del domiciliatario rende l'elezione di domicilio priva di effetti, a norma degli artt. 336, capoverso c.p.c. e 60, terzo comma, del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37, onde le comunicazioni, come le notificazioni, dovranno essere fatte nella segreteria del Consiglio nazionale forense.

In tema di iniziativa del Consiglio dell'ordine e del potere-dovere di promuovere d'ufficio l'azione disciplinare, allorquando venga a conoscenza di fatti lesivi dell'onore dei professionisti iscritti e del decoro della classe forense, Sez. U, n. 25633/2016, Cirillo, Rv. 641789-01 ha chiarito che l'esercizio di tale potere non è condizionato dalla tipologia della fonte della notizia dell'illecito. È stato pertanto ritenuto irrilevante il carattere apocrifo o meno dell'esposto da cui sono originati gli accertamenti ufficiosi che hanno dato luogo all'esercizio dell'azione disciplinare, ferma restando l'inidoneità della denuncia apocrifa a costituire fonte di prova.

In ordine ai profili di invalidità della pronuncia resa dal Consiglio dell'ordine, Sez. U, n. 22516/2016, Petitti, Rv. 641531 ha precisato che è nulla la decisione sottoscritta, in qualità di presidente e segretario del Consiglio dell'ordine, da persone diverse, benchè componenti del collegio, da quelle ricoprenti tali cariche alla data della sua deliberazione risultante dal corpo della stessa. L'art. 51 del r.d. n. 37 del 1934, infatti, non prescrive la sottoscrizione del relatore ma impone l'indicazione, in un unico contesto, della data della deliberazione e della sottoscrizione dei soggetti da ultimo indicati.

Sui vizi deducibili davanti alle Sezioni Unite, Sez. U, n. 24647/2016, De Stefano, Rv. 641769-01, nel confermare la giurisprudenza consolidata della S.C., ha ribadito che le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili, ai sensi dell'art. 56 del r.d.l. n. 1578 del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Ne consegue che l'accertamento del fatto, l'apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell'uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito. Alle Sezioni Unite è pertanto precluso sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi a esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale.

3.2.a. Giudizio penale e disciplinare.

Riguardo ai rapporti tra giudizio penale e disciplinare sui medesimi fatti e alla possibilità di pervenire alla sospensione del secondo ex art. 295 c.p.c. fino alla definizione del primo, Sez. U, n. 15206/2016, Petitti, Rv. 640612 ha chiarito che ai fini della valutazione della sussistenza di un rapporto di pregiudizialità assume carattere decisivo la circostanza che la contestazione dei fatti all'imputato sia avvenuta nel procedimento penale con l'esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale.

Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la misura degli arresti domiciliari comporta la necessità della sospensione del procedimento disciplinare. La sospensione, così disposta, si esaurisce con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale, senza che la ripresa di quello disciplinare innanzi al Consiglio dell'ordine degli avvocati sia soggetta a termine di decadenza.

Sul dies a quo del termine di prescrizione – qualora il procedimento disciplinare riguardi un fatto costituente reato per il quale sia stata esercitata l'azione penale – Sez. U, n. 11367/2016, De Chiara, Rv. 639926 ha chiarito che la prescrizione dell'azione disciplinare decorre soltanto dal passaggio in giudicato della sentenza penale, anche se il giudizio disciplinare non sia stato nel frattempo sospeso, ciò potendo incidere sulla validità dei suoi atti, ma non sul termine iniziale della prescrizione. Sul medesimo tema Sez. U, n. 22516/2016, Petitti, Rv. 641532 ha precisato che il principio secondo cui il termine prescrizionale dell'iniziativa disciplinare, previsto dall'art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, comincia a decorrere dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, è inoperante laddove quel termine sia invece già interamente maturato al momento dell'esercizio dell'azione penale o in quello, anteriore, della formulazione di un'imputazione per il medesimo fatto, dovendosi, in tali ipotesi, avere riguardo, per l'individuazione dell'inizio della sua decorrenza, alla data della commissione dell'illecito.

Sulla questione dell'estensione al giudizio disciplinare dell'indulto per illecito penale, Sez. U, n. 14039/2016, Frasca, Rv. 640222 ha evidenziato che l'art. 174, comma 1, c.p. esaurisce la disciplina degli effetti dell'indulto ove manchino, nella legge che lo dispone, previsioni di contenuto ampliativo. In assenza di una specifica norma, pertanto, la misura non è suscettibile di applicazione estensiva o analogica all'ordinamento disciplinare.

3.2.b. Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei.

Sulla successione delle norme nel tempo e sul principio del favor rei, in relazione al nuovo codice deontologico forense, va richiamata Sez. U, n. 18394/2016, Petitti, Rv. 640925 secondo cui la sanzione della cancellazione dall'albo non è più prevista dal nuovo testo, per cui, trattandosi di disciplina più favorevole per l'incolpato rispetto al regime previgente, la sanzione previgente è inapplicabile, ai sensi dell'art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, anche nei procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore.

Al principio del favor rei, desumibile dall'art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012, ha fatto ricorso anche Sez. U, n. 18395/2016, Petitti, Rv. 640927 nel caso della minaccia di azioni alla controparte, per cui il nuovo codice deontologico forense prevede la sanzione della censura, inferiore a quella della sospensione dall'esercizio della professione già prevista, per la medesima condotta, dal regime previgente. Trattandosi di disciplina più favorevole per l'incolpato, la nuova sanzione è applicabile anche nei procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore per fatti a essa anteriori.

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnalano alcuni interventi della S.C. relativi a talune fattispecie di illeciti e a questioni afferenti al processo disciplinare.

Sez. 2, n. 11507/2016, Scarpa, Rv. 640189 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 135 e 138 della legge notarile, nella parte in cui non prevedono l'operatività del regime del cumulo giuridico delle sanzioni disciplinari anche nelle ipotesi di plurime infrazioni della medesima disposizione compiute in atti diversi, pur se dello stesso tipo. Secondo l'apprezzamento compiuto dalla Corte, si tratta di una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore mentre è stata esclusa una disparità di trattamento rispetto ad altri settori dell'ordinamento in virtù delle specificità della professione notarile, degli interessi protetti e dei valori di riferimento.

Sul piano dei principi generali, inoltre, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639767 ha esclu so l'applicabilità delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, ai sensi dell'art. 8, comma 2, della l. n. 287 del 1990, ai Consigli notarili distrettuali che assumano l'iniziativa del procedimento disciplinare. La S.C. ha sottolineato che, limitatamente all'esercizio della vigilanza, essi non regolano i servizi offerti dai notai sul mercato, ma adempiono una funzione sociale fondata su un principio di solidarietà, affidatagli dalla legge, ed esercitano prerogative tipiche dei pubblici poteri.

4.1. Gli illeciti disciplinari.

Sul piano sostanziale, Sez. 2, n. 14765/2016, Giusti, Rv. 640592, ha ritenuto integrare un'ipotesi di violazione di norma imperativa, ai sensi del combinato disposto degli artt. 28, comma 1, n. 1, e 138-bis, comma 2, della l. notarile, la condotta del notaio che redige un atto di trasformazione societaria da cui risulti un capitale sociale superiore al patrimonio netto in assenza di una delibera di capitalizzazione.

Sempre nell'ambito del diritto societario, la Corte ha ritenuto responsabile ex artt. 28, comma 1, n. 1, e 138-bis, comma 1, della l. notarile il notaio che richieda l'iscrizione di una delibera societaria affetta da invalidità "manifesta", cioè inequivoca. Nella specie è stato ravvisato l'illecito anche ove si tratti di mera annullabilità e non di nullità, giacché il controllo notarile sulle delibere sociali è finalizzato ad assicurare la certezza dei traffici mediante una verifica di conformità al modello legale che prescinde dalla tradizionale distinzione dei vizi negoziali.

Riguardo alla possibilità per i notai di accedere a messaggi pubblicitari, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639769 ha chiarito che l'abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero professionali non preclude di sanzionare le modalità e i contenuti del messaggio pubblicitario non conforme a correttezza, secondo quanto stabilito dai codici deontologici. Ne consegue che è vietata al notaio la pubblicità funzionale al suo interesse promozionale ovvero all'accaparramento di clientela attraverso diffusione di notizie soggettive, oppure anche oggettive, ma non verificabili e, quindi, autoreferenziali, o comunque non confacenti alla sobrietà, al decoro e al prestigio della professione, secondo il comune sentire dell'etica professionale, mentre è consentita quella volta a informare il pubblico, facilitando una scelta consapevole del professionista da parte della clientela.

Sul divieto di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, Sez. 2, n. 01716/2016, Parziale, Rv. 638593 ha ritenuto che risponde dell'illecito disciplinare di cui all'art. 28, comma 1, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 il notaio che abbia ricevuto un atto di disposizione – nella specie, la costituzione di fondo patrimoniale – relativo a un immobile sottoposto a sequestro penale, trattandosi di attività negoziale compiuta in spregio alla norma penale e, dunque, espressamente proibita dalla legge. Si tratta, infatti, di una attività idonea di per sé a sottrarre il bene al vincolo o, comunque, a rendere più difficoltoso il conseguimento della finalità cui il vincolo è funzionale ex art. 334 c.p.

In ordine all'ambito applicativo del divieto di stipula di cui all'art. 8 del decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122, Sez. 2, n. 24535/2016, Scarpa, Rv. 642077-01 alla luce dell'epigrafe del decreto delegato, delle definizioni contenute nell'art. 1, della correlazione con l'art. 7, del chiaro riferimento all'immobile da costruire fatto nell'art. 3, punto n), della legge delega 3 agosto 2004, n. 210 – ha ritenuto che il divieto di stipula di cui all'art. 8 non può che ritenersi operante per gli atti di compravendita che vedano come «acquirente» o promissaria acquirente una persona fisica, come venditore o promittente alienante un «costruttore», ovvero un imprenditore o una cooperativa edilizia, e cha abbiano ad oggetto un «immobile da costruire», ovvero un immobile per il quale sia stato richiesto il permesso di costruire e che sia ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata, versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità. A tal fine è stato precisato che il divieto di stipula contenuto nell'art. 8 si inserisce tra le disposizioni volte alla tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, le quali presuppongono una condizione particolare di asimmetria giuridica o economica tra il venditore e l'acquirente e perciò giustificano la specialità del trattamento legislativo. Al di fuori dei requisiti oggettivi e soggettivi di operatività del d.lgs. n. 122 del 2005, pertanto, continua a operare il generale principio della libera circolazione dei beni immobili gravati da ipoteca o da pignoramento, pur permanendo i vincoli pregiudizievoli sul bene.

Sez. 2, n. 26369/2016, Orilia, Rv. 642165-01 ha confermato che costituisce illecito disciplinare di cui all'art. 147, lett. a, della legge notarile per violazione del divieto previsto dall'art. 28, n. 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, il comportamento del notaio consistente nella stipula di atti di compravendita, di mutuo e di apertura di credito in cui sia parte una società a favore della quale lo stesso notaio abbia prestato precedentemente fideiussione.

4.2. Il procedimento disciplinare.

Sui profili del rito, Sez. 2, n. 15073/2016, Giusti, Rv. 640595 ha evidenziato che l'omesso deposito del fascicolo di parte della fase amministrativa non è causa di improcedibilità del reclamo avverso il provvedimento sanzionatorio, poiché le cause dell'improcedibilità sono tassative e l'art. 26 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 non contempla tale ipotesi.

Sull'avvio del procedimento disciplinare a carico dei notai e l'obbligo di comunicazione ex art. 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241, Sez. 2, n. 24962/2016, Scarpa, Rv. 642152-02 ha ribadito l'orientamento consolidato della Corte secondo cui non è necessaria la comunicazione prescritta dall'art. 7 allorché il Presidente del Consiglio notarile investa quest'ultimo del promovimento della procedura. L'art. 7 della l. n. 241 del 1990, infatti, limita il proprio ambito di operatività, escludendo l'obbligo di comunicazione, quando esistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento; dette ragioni sono legislativamente presupposte dall'art. 153 della l. n. 89 del 1913, come sostituito dall'art. 39 del decreto legislativo 1 agosto 2006, n. 249, il quale dispone che «il procedimento è promosso senza indugio, se risultano sussistenti gli elementi costitutivi di un fatto disciplinarmente rilevante».

Riguardo alla natura dei termini della fase amministrativa del procedimento disciplinare dei notai, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639766 ne ha ribadito il carattere ordinatorio in mancanza di una espressa qualificazione di perentorietà: sicché, laddove l'art. 153, comma 2, della legge n. 89 del 1913 stabilisce che l'organo dotato d'iniziativa debba procedere senza indugio non può determinarsi la decadenza o l'estinzione dell'azione intempestiva.

In tema di poteri ispettivi e di vigilanza del Consiglio notarile distrettuale, Sez. 2, n. 24962/2016, Scarpa, Rv. 642152-01 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 93-bis della legge notarile, sollevata con riferimento agli artt. 3, 76 e 97 Cost. Le attività di indagine attribuite al Consiglio notarile da tale norma, secondo quanto apprezzato dalla Corte, sono strettamente funzionali all'eventuale esercizio del potere di instaurazione del procedimento disciplinare e non denotano lesione dei principi di imparzialità e di eguaglianza, giacché relegate nella fase amministrativa del procedimento disciplinare, in ordine al quale il Consiglio notarile può rivolgere la richiesta di apertura alla Commissione regionale di disciplina, chiamata a decidere, come organismo terzo e imparziale, sulla fondatezza dell'addebito.

In merito alla partecipazione alla delibera del Consiglio notarile, con cui sia stata avanzata una richiesta di procedimento disciplinare, di un notaio portatore di interessi professionali concorrenziali rispetto a quelli del notaio incolpato, Sez. 2, n. 24962/2016, Scarpa, Rv. 642152-03 ha escluso la sussistenza della violazione dell'art. 103 del regio decreto 10 settembre 1914, n. 1326 – in tema di incompatibilità dei componenti del Collegio o del Consiglio notarile – trattandosi di norma di natura eccezionale, suscettibile solo di stretta interpretazione.

Sull'impugnazione dei provvedimenti disciplinari e cautelari a carico dei notai, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa Rv. 639768, ha chiarito che il reclamo dinanzi alla Corte d'appello avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale è soggetto – ai sensi degli artt. 3 e 26 del d.lgs. n. 150 del 2011 – agli artt. 702-bis e 702-ter, commi 1, 4, 5, 6 e 7, c.p.c. Non disponendo nulla tali norme in merito alla pubblicità delle udienze, la S.C. ha ritenuto che opera il regime generale della pubblicità della sola udienza di discussione, compatibile con l'art. 6 CEDU, in virtù del quale non tutta l'attività processuale deve svolgersi pubblicamente, ma deve essere assicurato un momento di trattazione della causa in un'udienza pubblica.

  • giurisdizione arbitrale

CAPITOLO XLVI

L'ARBITRATO

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Convenzione d'arbitrato: operatività, interpretazione, distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale e clausola binaria. - 3 Clausola compromissoria, durata ed invalidità sopravvenuta. - 4 Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. - 5 Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro. - 6 Procedimento e principio del contraddittorio. - 7 Nomina giudiziale degli arbitri, termine per la decisione e sua prorogabilità. - 8 Il compenso degli arbitri. - 9 Nullità del lodo e sua impugnazione. - 10 Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di ritualità o irritualità dell'arbitrato e questioni di competenza e di giurisdizione. - 11 Esecutività del lodo e ricorso per cassazione.

1. Premessa.

Nel corso del 2016, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all'interpretazione del patto compromissorio, alla conseguente distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, alla validità della convenzione di arbitrato, all'applicabilità della clausola binaria ed all'invalidità sopravvenuta della convenzione d'arbitrato.

Sono stati altresì diversi i principi sanciti in merito ai rapporti con l'appalto di opere pubbliche, con il diritto del lavoro e con l'autorità giudiziaria, nonché in tema di procedimento arbitrale, di impugnazione del lodo per errori di diritto e di esecutività del lodo.

2. Convenzione d'arbitrato: operatività, interpretazione, distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale e clausola binaria.

La questione concernente la portata di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, rispetto ad un'altra, intercorrente tra le stesse parti, per arbitrato irrituale, non integra una questione di "competenza", bensì di merito, anche a seguito del revirement attuato da Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786 e 627787, circa la natura giurisdizionale e non negoziale dell'arbitrato rituale.

Così argomentando, Sez. 1, n. 04526/2016, Genovese, Rv. 638869, ha concluso nel senso della necessaria attività di interpretazione della clausola, alla stregua degli ordinari canoni ermeneutici per l'interpretazione dei contratti.

Natura irrituale è stata riconosciuta all'arbitrato di cui all'art. 12-bis dell'Accordo Nazionale Agenti, dell'1 agosto 1994, da Sez. L, n. 08182/2016, Spena, Rv. 639484, la quale ha precisato che la determinazione sino alla misura massima della somma aggiuntiva ivi prevista come spettante all'agente a seguito di recesso del preponente, al di fuori delle ipotesi di giusta causa, è rimessa all'intervento degli arbitri senza costituire accertamento di un diritto preesistente, in quanto tale, azionabile in via giudiziaria. In applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto che l'indennità di cui al citato art. 12-bis era determinabile, come richiesto, nella misura massima solo nel caso di ricorso al collegio arbitrale e non anche a seguito di azione giudiziaria esperita innanzi al giudice ordinario.

L'interpretazione della clausola compromissoria necessita, anche a prescindere dalla ri soluzione della questione inerente la ritualità dell'arbitrato, al fine di verificare, relazionando tra loro gli artt. 808-bis e 808-quater c.p.c., se la convenzione di arbitrato abbia ad oggetto anche materia non contrattuale.

La clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce, come difatti ha statuito Sez. 6-1, n. 20673/2016, De Chiara, Rv. 641867, va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi titolo nel contratto medesimo, con esclusione quindi delle controversie che in quel contratto hanno unicamente un presupposto storico, come nel caso di causa petendi avente titolo aquiliano ex art. 2598 c.c.

L'operatività della convenzione di arbitrato non può dipendere dalla decisione sul merito della controversia, pena l'illogicità dell'argomentazione.

Nei termini di cui innanzi si è espressa Sez. 6-1, n. 01119/2016, Mercolino, Rv. 638342, per la quale l'azione per l'accertamento della natura usuraria degli interessi dovuti in base ad un contratto di leasing, con la conseguente condanna della controparte alla restituzione di quanto indebitamente percepito a tale titolo, è suscettibile di deferimento alla decisone degli arbitri ai sensi dell'art. 806 c.p.c. Essa, difatti, ha ad oggetto un diritto disponibile, a nulla rilevando in senso contrario, rispetto alla competenza arbitrale, la dedotta nullità del contratto posto a base della domanda, che concerne, invece, il merito della pretesa.

La clausola compromissoria binaria, che devolva determinate controversie alla decisione di tre arbitri, due dei quali da nominare da ciascuna delle parti, è stata ritenuta da Sez. 1, n. 06924/2016, Nazzicone, Rv. 639271, applicabile, in lite con pluralità di parti, sempre che, in base ad una valutazione ex post del petitum e della causa petendi, emerga la sussistenza di due soli gruppi omogenei e contrapposti, raggruppanti i vari interessi in gioco compatibilmente con il tipo di pretesa fatta valere.

In tema di compromettibilità in arbitri, infine, la S.C. ha confermato il suo consolidato orientamento secondo cui l'azione di risarcimento dei danni erariali e la possibilità per le amministrazioni interessate di promuovere le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità restano, anche quando investano i medesimi fatti materiali, reciprocamente indipendenti, integrando le eventuali interferenze tra i giudizi una questione di proponibilità dell'azione di responsabilità innanzi al giudice contabile e non di giurisdizione.

Muovendo dal principio di cui innanzi, in particolare, Sez. U, n. 25040/2016, De Chiara, Rv. 641776, ha ritenuto compromettibile la controversia vertente su asserito inadempimento dell'affidatario IAP, per omessa riscossione dei canoni per il consumo di acqua potabile, sul rilievo della non esclusività della giurisdizione della Corte dei conti e della sua alternatività rispetto a quella ordinaria e, dunque, a quella arbitrale.

3. Clausola compromissoria, durata ed invalidità sopravvenuta.

In materia di contratto di investimento finanziario, avente natura di durata, l'art. 6 del d.lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, nel prevedere che la clausola compromissoria è vincolante per il solo intermediario che abbia predisposto unilateralmente il contratto, si applica anche ai rapporti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, integrando una causa di invalidità parziale sopravvenuta.

Sicché, come ha chiarito Sez. 6-3, n. 08900/2016, Rossetti, Rv. 640067, la valutazione di detta invalidità deve essere operata al momento del sorgere della questione di riparto di competenza tra l'arbitro ed il giudice ordinario, a nulla rilevando l'epoca di maturazione dell'inadempimento o degli altri fatti posti a fondamento della domanda giudiziaria.

4. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche.

Il capitolato generale per le opere pubbliche ha valore normativo e vincolante e si applica, quindi, in modo diretto, solo per gli appalti stipulati dallo Stato mentre per quelli stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di distinta personalità giuridica e di propria autonomia, le previsioni del capitolato costituiscono clausole negoziali, comprensive anche di quella compromissoria per la soluzione delle controversie con il ricorso all'arbitrato, che assumono efficacia obbligatoria solo se e nei limiti in cui siano richiamate dalle parti per regolare il singolo rapporto contrattuale.

Sez. 1, n. 00812/2016, Di Virgilio, Rv. 638482, dopo aver argomentato dall'assunto di cui innanzi, già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ha precisato che, affinché si produca l'efficacia obbligatoria della clausola compromissoria contenuta nel capitolato generale con riferimento ad enti pubblici diversi dallo Stato, la volontà di recepire il contenuto dell'intero capitolato e, dunque, anche della detta clausola, deve risultare espressa in maniera esplicita ed univoca.

La citata sentenza, ha affermato il principio innanzi enunciato con riferimento al capitolato generale per le opere pubbliche di cui al d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 (oggi abrogato) e, nella specie, ha ritenuto esente da critiche la sentenza impugnata che aveva considerato inidonea a radicare la competenza arbitrale una clausola recante solo un generico richiamo al detto capitolato, alle leggi ed ai regolamenti generali in vigore ed applicabili in materia.

Sempre in materia di arbitrato relativo ad appalto di opere pubbliche, qualora le parti nel regolare i mezzi per far valere i loro diritti abbiano fatto riferimento ad una norma legislativa (in particolare l'art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962 in tema di arbitrato) il contenuto della stessa viene recepito nella dichiarazione negoziale, integrandola, con la conseguenza che l'estensione ed i limiti del contratto vanno individuati esclusivamente con riferimento al contenuto della disposizione richiamata al momento della stipula e, quindi, la fonte della competenza arbitrale va individuata non nella legge bensì in una disposizione compromissoria.

Sez. 1, n. 25410/2016, Genovese, Rv. 642414, enunciato il principio di cui innanzi, ha chiarito che, formatasi la volontà contrattuale secondo la disciplina dettata dal capitolato generale vigente all'epoca della conclusione del contratto, nella specie il citato art. 47, l'intero rapporto è retto e deve svolgersi secondo quella disciplina. Sicché, le eventuali modificazioni sopravvenute di tale capitolato, al pari degli interventi incisivi della Consulta, non possono alterare il regime pattizio dei contratti in corso, con riferimento sia a disposizioni di carattere sostanziale che a disposizioni di carattere processuale, compresa quella concernente la competenza del collegio arbitrale.

In tema di divieto di arbitrato di cui all'art. 3, comma 2, del decreto legge 11 giugno 1998, n. 180 (conv. con modif., dalla legge 3 agosto 1998, n. 267), la S.C. ne ha individuata la ratio nella preclusione del ricorso ad arbitri per le controversie relative alle opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamità naturali, a ragione del rilevante interesse pubblico ed anche economico delle stesse.

Così argomentando, in particolare, Sez. 1, n. 14782/2016, Di Virgilio, Rv. 640673, ha statuito che il divieto in oggetto deve essere interpretato estensivamente ed in coerenza con la sua ratio, riguardando esso non solo le opere da ricostruire ovvero da realizzare in conseguenza di eventi sismici, ma tutte quelle comunque ricomprese nei programmi di ricostruzione dei territori colpiti da calamità naturali e, quindi, finanziate con fondi destinati alla calamità naturale, ancorché non oggetto di "ricostruzione" a causa di essa. Nella specie si trattava di opere di completamento della costruzione della nuova sede del Comune, de liberata in epoca antecedente al sisma, ma ricompresa nel programma di ricostruzione di quel territorio in quanto colpito da calamità naturale.

Sempre muovendo dalla predetta ratio, Sez. 6-1, n. 00789/2016, Genovese, Rv. 638121, ha precisato che il divieto in argomento si applica anche alle liti riguardanti le opere previste e finanziate nell'ambito di progetti triennali di sviluppo, regolati dal titolo V della legge 14 maggio 1991, n. 219, atteso che, alla stregua di quest'ultima, non vi è diversità di disciplina tra i procedimenti organici per la ricostruzione e quelli relativi allo sviluppo dei territori colpiti da calamità naturali.

5. Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro.

In materia di rapporti di lavoro, la S.C. è intervenuta in merito alla compromettibilità in arbitri delle controversie inerenti la distribuzione di azioni ai dipendenti mediante l'utilizzo delle "stock option", aventi la finalità di incentivare la produttività, con la possibilità di realizzazione di plusvalenze, costituendo una forma di retribuzione mediante partecipazione agli utili, ex art. 2099 c.c.

Sicché, come ha precisato Sez. L, n. 15217/2016, Manna, Rv. 640737, le relative controversie, normalmente, rientranti nella competenza del giudice ordinario, secondo il rito speciale del lavoro, sono compromettibili in arbitri ancorché nei limiti di cui all'art. 806 c.p.c., cioè sempre che ciò sia previsto dai contratti collettivi.

In ordine ai rapporti tra compromettibilità in arbitri, nella particolare forma del cd. "arbitrato societario", e previsioni dello statuto societario, Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638621, ha ritenuto compromettibili, sempre che tale possibilità sia prevista dallo statuto, le controversie tra amministratore e società, anche se specificamente attinenti al "profilo interno" dell'attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori, tra i quali anche quello al compenso.

Il rapporto che lega l'amministratore alla società, difatti, come ha precisato la sentenza in esame, è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, rientrando nell'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court, non operando così le limitazioni di cui all'art. 806 c.p.c.

Per converso non sono compromettibili in arbitri, ex artt. 34 e 35 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, le deliberazioni di approvazione del bilancio di società per violazione delle norme imperative dirette a garantirne la chiarezza e la precisione. Così si è espressa Sez. 6-1, n. 20674/2016, Mercolino, Rv. 641816, motivando in forza dell'indisponibilità dei diritti ai quali afferiscono le dette regole, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione. Esse, difatti, contengono principi dettati a tutela, oltre che dell'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente.

Sempre muovendo dalla natura di ordine pubblico dei principi tutelati da talune disposizioni in materia di arbitrato societario, Sez. 1, n. 21422/2016, Mercolino, Rv. 642061, ha escluso l'operatività del cd. "doppio binario". In particolare la citata ordinanza ha precisato che la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società, nella specie di persone, che preveda la nomina di un arbitro unico ad opera delle parti e, nel caso di disaccordo, ad opera del presidente del tribunale su ricorso della parte più diligente, è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, da nullità sopravvenuta, se non adeguata al dettato dell'art. 34, comma 2, del citato decreto entro i termini di cui agli artt. 223-bis e 223 duodecies c.p.c.

La detta clausola, ha precisato la S.C., non è altresì convertibile in clausola di arbitrato di diritto comune, trattandosi di nullità volta a garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità della decisione.

In materia di arbitrato societario, affrontando anche questioni di diritto intertemporale, Sez. U, n. 13722/2016, Didone, Rv. 640190, ha precisato che il termine di decadenza di trenta giorni per l'impugnazione della delibera di esclusione del socio di una società cooperativa, previsto dall'art. 2527, comma 3, c.c., nella sua formulazione antecedente alla modifica introdotta dall'art. 8 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, è applicabile anche nel caso in cui il relativo giudizio sia introdotto davanti agli arbitri, in forza di clausola compromissoria statutaria, così andando di contrario avviso rispetto ad un risalente orientamento consolidato, sia pure affermatosi in tema di società di persone.

La S.C. è infine intervenuta in merito alla compromettibilità delle liti tra società cooperativa, in particolare edilizia, e socio. Quest'ultimo, difatti, è titolare di due distinti, seppur collegati, rapporti, uno di carattere associativo, derivante dall'adesione al contratto sociale, l'altro originante dal contratto bilaterale di scambio, la cui causa è del tutto omogenea a quella della compravendita. Sicché, come ha chiarito Sez. 6-3, n. 12124/2016, Rubino, Rv. 640318, la clausola compromissoria contenuta nello statuto di tale tipo di società, avente per oggetto sociale la costruzione di alloggi da assegnare ai soci, si applica alle sole controversie endosocietarie e non si estende a quelle relative al trasferimento di proprietà, in assenza di espressa previsione statutaria ovvero di autonoma clausola nell'atto di prenotazione o di assegnazione ovvero in quello di trasferimento immobiliare.

6. Procedimento e principio del contraddittorio.

In tema di procedimento arbitrale e rispetto del principio del contraddittorio la S.C. ne ha chiarito il diverso atteggiarsi a seconda che trattasi di arbitrato rituale o irrituale.

Nel primo caso, gli arbitri violano il principio in esame, per mancata conoscenza dei punti di vista di tutte le parti del procedimento, con conseguente impugnabilità del lodo per nullità ex artt. 828 e 829 c.p.c., ove abbiano stabilito la natura perentoria dei termini da loro fissati alle parti per le allegazioni e le istanze istruttorie (alla stregua di quelli ex artt. 183 e 184 c.p.c.), sempre che, in forza di tale determinazione, abbiano dichiarato decaduta una parte per il tardivo esercizio delle facoltà di proporre quesiti ed istanze istruttorie. Muovendo dalle argomentazioni di cui innanzi, Sez. 1, n. 01099/2016, Nazzicone, Rv. 638613, ha chiarito che, anche nella descritta circostanza, il contraddittorio è violato solo ove la possibilità di declinare tale perentorietà non fosse prevista dalla convenzione di arbitrato ovvero da un atto scritto separato o dal predisposto regolamento processuale, sempre che ciò sia avvenuto in assenza di specifica avvertenza al riguardo al momento dell'assegnazione dei termini.

In materia di arbitrato irrituale, per converso, l'inosservanza del principio del contraddittorio rileva esclusivamente ai fini dell'impugnabilità del lodo ex art. 1429 c.c., cioè come errore che, muovendo dalla violazione dei limiti del mandato conferito agli arbitri, abbia inficiato la volontà contrattuale espressa dagli stessi. Quanto detto rileva, come ha statuito Sez. 1, n. 01097/2016, Genovese, Rv. 638505, in caso di deduzione della violazione del contraddittorio, in merito ai poteri di indagine da parte del giudice del merito, volti ad accertare l'effettivo contenuto del mandato conferito, il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato.

7. Nomina giudiziale degli arbitri, termine per la decisione e sua prorogabilità.

Sez. 1, n. 07956/2016, Campanile, Rv. 639608, interpretando l'art. 810, comma 2, c.p.c., ha chiarito che la nomina dell'arbitro in sede giudiziale deve essere effettuata, in assenza di ragioni impeditive, tenendo conto della volontà manifestata dalle parti nella clausola compromissoria in relazione alla designazione di soggetti dotati di particolari qualità o appartenenti a determinate categorie. Il previsto intervento del Presidente del tribunale, difatti, è di tipo integrativo-sostitutivo della volontà negoziale, ove questa non sia contra legem o non più concretamente attuabile.

Con particolare riferimento, invece, al termine per la decisione arbitrale, l'art. 820, comma 2, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alla riforma del 2006), secondo cui quando debbano essere assunti mezzi di prova o sia stato pronunciato un lodo non definitivo gli arbitri possono prorogare per una sola volta il termine, va interpretato nel senso che la locuzione «per una sola volta» va riferita a ciascuno dei due tipi di circostanze giustificative della proroga. Nei precisi termini di cui innanzi si è espressa Sez. 1, n. 12950/2016, De Chiara, Rv. 640101, argomentando dalla circostanza per la quale l'esigenza di disporre di un tempo più lungo per decidere è direttamente proporzionale alla complessità del procedimento, valutata in base agli indici, previsti dal legislatore, dell'assunzione dei mezzi di prova e della pronuncia di un lodo non definitivo.

La possibilità di proroga del termine riconosciuta agli arbitri dal citato art. 820, comma 2, c.p.c., per l'ipotesi di assunzione di mezzi di prova, è infine estensibile all'espletamento di consulenza tecnica, coma ha chiarito Sez. 1, n. 12956/2016, Di Virgilio, Rv. 640128.

Con riferimento al procedimento di cui al citato art. 814 c.p.c., invece, è stata rimessa alle S.U., in quanto ritenuta di massima di particolare importanza, la questione inerente la ricorribilità straordinaria per cassazione avverso l'ordinanza emessa dalla corte di appello in sede di reclamo contro l'ordinanza adottata dal presidente del tribunale, ritenendo oggi sussistenti forti ed apprezzabili ragioni giustificative per discostarsi del precedente orientamento delle S.U., anche in virtù dell'intervenuto revirement circa la natura dell'arbitrato rituale. Le intervenute Sez. U, n. 25045/2016, Ragonesi, Rv. 641779, hanno ammesso il ricorso straordinario avverso il provvedimento di cui innanzi, in materia di spese ed onorari degli arbitri, in ragione della natura giurisdizionale del relativo procedi-mento ed in virtù della decisorietà e definitività del provvedimento, in quanto incidente su situazioni di diritto soggettivo e non soggetto ad altri mezzi di impugnazione.

8. Il compenso degli arbitri.

In tema di arbitrato, qualora il lodo preveda che la quantificazione del compenso degli arbitri debba essere effettuata dal Consiglio dell'ordine degli avvocati, l'accettazione del lodo integra una convenzione tra le parti, riconducibile all'art. 1349 c.c., che determina l'inapplicabilità dell'art. 814 c.p.c. Nei termini di cui innanzi ha statuito Sez. 2, n. 16594/2016, Scarpa, Rv. 640994, in fattispecie anteriore al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

9. Nullità del lodo e sua impugnazione.

In tema di nullità del lodo per errori di diritto inerenti il merito della controversia e conseguente sua impugnabilità, le S.U. hanno risolto il contrasto interpretativo sorto in merito all'applicabilità dell'art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo riformulato dall'art 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente alla sua entrata in vigore, ma fondati su convenzioni arbitrali antecedenti a tale data. Il citato comma 3, laddove ammette l'impugnabilità del lodo per errores in iudicando se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella. Per stabilire se sia ammissibile l'impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l'art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia – va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato.

Argomentando nei termini di cui innanzi, Sez. U, n. 09284/2016, Nappi, Rv. 639686, hanno precisato che in caso di convenzione di arbitrato cd. di diritto comune, stipulata anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti, deve intendersi ammissibile l'impugnazione del lodo, così disponendo l'art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile e senza che a differenti conclusioni possa condurre il revirement giurisprudenziale sulla natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale (attuato dalle citate Sez. U, n. 24153/2013).

In caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella del 2006, è invece ammissibile l'impugnazione del lodo per errores in iudicando ove gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari, così espressamente disponendo la legge di rinvio, da identificarsi con l'art. 36 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 (in questi termini Sez. U, n. 09285/2016, Nappi, Rv. 639687).

Sempre in merito all'impugnazione per nullità, la previsione nel compromesso o nella clausola compromissoria della non impugnabilità del lodo, nei casi consentiti, rende inammissibile la sua impugnazione-. Tale inammissibilità, in quanto afferente i limiti all'impugnazione del lodo stabiliti dal codice di rito, va rilevata anche di ufficio (Sez. 1, n. 24550/2016, Di Virgilio, Rv. 641894).

Risolvendo un contrasto interpretativo, Sez. U, n. 23463/2016, Nappi, Rv. 641625, hanno chiarito che, in forza dell'art. 827, comma 3, c.p.c., è immediatamente impugnabile il lodo recante una condanna generica ex art. 278 c.p.c., in quanto parzialmente decisorio del merito della controversia, oltre che quello che decida una o alcune domande proposte senza definire l'intero giudizio, ma non il lodo che decida questioni preliminari o pregiudiziali. Le citate Sez. U, n. 23463/2016, Nappi, Rv. 641624, hanno anche precisato che la questione concernente l'esistenza o la validità della convenzione giustificativa della potestas iudicandi degli arbitri ha natura pregiudiziale di rito, perché funzionale all'accertamento di un error in procedendo che vizia il lodo quale decisione giurisdizionale).

È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 813-ter, comma 4, c.p.c., nella parte in cui, subordinando la proponibilità dell'azione di responsabilità degli arbitri al previo accoglimento dell'impugnazione del lodo con sentenza passata in giudicato, non include anche la responsabilità per errori di fatto o di diritto, trattandosi di vizi che non legittimano l'impugnazione del lodo. Nei termini di cui innanzi si è espressa Sez. 3, n. 12144/2016, Graziosi, Rv. 640284, in materia di rapporti tra responsabilità civile degli arbitri e nullità del lodo, escludendo una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista per la responsabilità civile dei magistrati oltre che violazione del diritto di agire in giudizio, attesa la non omogeneità delle discipline poste a raffronto. Chi opta per l'arbitrato, difatti, gode di un consistente plus rispetto a chi agisce davanti al giudice ordinario, con la conseguente ragionevolezza, in termini di bilanciamento, della non impugnabilità del lodo per determinati profili, ai quali si riconnette il limite della responsabilità degli arbitri.

10. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di ritualità o irritualità dell'arbitrato e questioni di competenza e di giurisdizione.

Integrando una questione di competenza, lo stabilire se una controversia spetti, o meno, alla cognizione degli arbitri, in forza dell'overruling giurisprudenziale attuato dalla citata Sez. U, n. 24153/2013, nell'ipotesi di declinatoria della competenza da parte del giudice statale trova applicazione anche l'art. 50 c.p.c. Nei suddetti termini ha statuito Sez. 6-1, n. 01101/2016, Genovese, Rv. 638557, attesa la necessità di conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda originariamente proposta davanti al giudice ordinario.

Sempre argomentando dalla riconosciuta natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale, Sez. 1, n. 01097/2016, Genovese, Rv. 638504, ha precisato che l'eccezione di ritualità o irritualità dello stesso non è rilevabile d'ufficio ma deve essere proposta dalla parte interessata, la quale ben può rinunciare ad avvalersene, anche tacitamente, ponendo in essere comportamenti incompatibili con la volontà di giovarsi del compromesso, trattandosi di diritti disponibili.

Con particolare riferimento ai rapporti tra giudice statale ed arbitri, sempre in termini di competenza, appartiene ai primi la controversia nella quale la parte convenuta in giudizio per l'esecuzione di un contratto comprensivo di clausola compromissoria contesti la conclusione del contratto o disconosca la firma apposta sullo stesso. La devoluzione del giudizio agli arbitri, difatti, come ha precisato Sez. 6-2, n. 13616/2016, Lombardo, Rv. 640248, postula che sia pacifica tra le parti la conclusione del contratto nonché l'esatta individuazione dei contraenti.

In tema di competenza, la S.C. ha dovuto poi risolvere questioni di diritto intertemporale, con particolare riferimento all'esperibilità del regolamento di competenza, in ordine a talune delle quali si registra un attuale contrasto.

Se il giudice di primo grado, valutata la clausola arbitrale, si sia pronunciato sulla sua competenza, ma nessun procedimento arbitrale sia stato iniziato, non trova applicazione l'art. 819-ter c.p.c. bensì il principio generale del tempus regit actum, per il quale l'impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali è soggetta alle forme processuali vigenti al momento in cui essa sia proposta. Ne consegue, per Sez. 1, n. 16058/2016, Nazzicone, Rv. 641315, che la sentenza va impugnata con l'appello o con il regolamento di competenza, a seconda che il giudizio sia stato proposto prima o dopo il 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del citato art. 819 ter.

Sez. 1, n. 21523/2016, Di Marzio, Rv. 642057, ha convenuto con la precedente pronuncia nel ritenere che se il giudice di primo grado si sia pronunciato solo sulla sua competenza, senza decidere il merito della causa, ma nessun procedimento arbitrale sia stato iniziato, non trova applicazione l'art. 819-ter c.p.c., ma il principio generale del tempus regit actum. Tuttavia, andando di contrario avviso rispetto alla citata Sez. 1, n. 16058/2016, ha precisato che, in applicazione del principio di cui innanzi, l'impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali è soggetta alle forme processuali vigenti al momento in cui essi sono pronunciati. Di conseguenza, la pronuncia, anche se, come nella specie, qualificata dal giudice come di inammissibilità della domanda e non di incompetenza, va impugnata con il regolamento necessario di competenza, se successiva al 2 marzo 2016, data di entrata in vigore della l. n. 40 del 2006 di riforma dell'arbitrato.

Il contrasto, dunque, non risiede nell'individuazione astratta del principio applicabile, pacificamente individuato nel tempus regit actum, bensì nella concreta applicazione di esso in caso di successione di leggi processuali inerenti l'impugnazione di provvedimenti aventi natura giurisdizionale.

Sempre in merito ai rapporti tra arbitrato e processo, ex art. 819-ter, comma 2, c.p.c., il giudice ordinario non può sospendere il processo ai sensi dell'art. 295 c.p.c. in ragione della pregiudizialità della causa pendente innanzi agli arbitri. Per converso, è questione di giurisdizione lo stabilire se la controversia appartenga al giudice ordinario o al giudice amministrativo, anche quando il problema del riparto sorga in funzione dell'accertamento della compromettibilità in arbitri e, quindi, della validità del compromesso o della clausola compromissoria.

Ne consegue che, come ha statuito Sez. U, n. 01514/2016, Greco, Rv. 638225, è ammissibile la questione di giurisdizione sollevata con ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla corte d'appello in sede di impugnazione per nullità del lodo, integrando essa "motivi attinenti alla giurisdizione" e, quindi, rientranti nell'ambito di competenza delle Sezioni Unite ex artt. 360, n. 1, e 374 c.p.c.

Sempre in merito al riparto di giurisdizione, le Sez. U, n. 07949/2016, Vivaldi, Rv. 639283, hanno precisato che l'azione di restituzione della somma pagata in esecuzione di un lodo arbitrale dichiarato nullo, con sentenza confermata in cassazione, per sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non rientra nella detta giurisdizione, potendo essere esercitata davanti al giudice ordinario in modo autonomo. La ratio risiede nel dover assicurare l'effettività della tutela del solvens, a prescindere dalla vicende dell'eventuale giudizio di rinvio.

11. Esecutività del lodo e ricorso per cassazione.

Sez. 1, n. 21739/2016, Mercolino, Rv. 642628, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione avverso il rigetto del reclamo nei confronti del decreto che abbia negato l'esecutorietà del lodo ex art. 825 c.p.c.

Pur incidendo, il provvedimento di rigetto, sul diritto della parte vittoriosa al conseguimento del titolo esecutivo non si realizza alcuna definitiva preclusione dell'esercizio della facoltà di procedere ad esecuzione forzata. La parte, difatti, come ha chiarito la sentenza in esame, ha facoltà di procedere in via esecutiva previo accertamento, in giudizio ordinario a cognizione piena, della sussistenza dei requisiti cui è subordinata l'efficacia esecutiva del lodo ovvero con suo nuovo deposito, corredato della documentazione della quale sia stata precedentemente rilevata la mancanza o l'irregolarità.